Quando le parole non bastano ne L’ordine del discorso di M Foucault.

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Quando le parole non bastano

Nel suo libro “L‘ordine del discorso” Michel Foucault parla di diversi tipi di esclusione dal discorso, nominando, in particolare, tre categorie:• l’interdetto;

• il folle;

• il falso.

In particolare egli afferma:<< In una società come la nostra si conoscono naturalmente, le procedure d‘esclusione. La più evidente, ed anche la più familiare, è quella dell’interdetto. Si sa bene che non si ha il diritto a dir tutto, che non si può parlare di tutto in qualsiasi circostanza, che chiunque, insomma, non può parlare di qualunque cosa. […] Noterò solo che, ai nostri giorni, le regioni in cui il reticolo è più fitto, in cui si moltiplicano le caselle nere, sono le regioni della sessualità e della politica. […] il discorso, in apparenza, ha un bell’essere poca cosa, gli interdetti che lo colpiscono rivelano ben tosto, e assai rapidamente, il suo legame col desiderio e col potere. >>Alle categorie proposte da Foucault, però, si potrebbe aggiungerne una quarta, a mio parere, che prescinde da aspetti circostanziali o da specifici privilegi. Tale categoria si può configurare come quella contenente le persone che non parlano, non per scelta di tacere o per imposizione censoria, ma per ragioni puramente fisiche. Sto parlando dei muti, anzi più specificatamente dei sordomuti, in quanto è la sordità la prima causa di mutismo nel mondo. Che considerazione si ha avuto nei confronti di queste persone nel corso della storia e come vengono considerate oggi?Si potrebbe opporre, al mio oggetto di tesi, la seconda figura proposta da Foucault, e cioè, il folle. Il folle, infatti, parla a vanvera, senza dare senso alle sue parole, al contrario nei sordomuti la loro natura viene riconosciuta in quello che “non dicono”.La prima testimonianza di sordità da parte di uno studioso risale all’incirca al 355 a.C. ed è di Aristotele che nel libro “Historia Animalium” si pronuncia così:<< Il linguaggio è proprio dell’uomo. Ogni essere che ha un linguaggio possiede anche la voce, ma non tutti gli esseri che hanno una voce possiedono un linguaggio. É questo il caso dei nati sordi i quali sono sempre anche muti. Essi possono si ammettere qualche suono vocale, ma non hanno alcun linguaggio >>.Oltre a ciò, Aristotele sottolinea la propria linea di pensiero con il suo concetto di uomo come “animale linguistico”, escludendo perciò da tale gruppo i sordomuti, che a suo dire hanno solo la voce e non il linguaggio. Il linguaggio, secondo Aristotele, rende l’uomo un “animale sociale” capace di relazionarsi ai propri simili tramite esso.Dilagò, su questa scia di pensiero (forse travisando all’estremo gli scritti aristotelici), l’idea che i sordomuti non mostrino segni d’intelligenza, data l’assenza di linguaggio e per questo motivo essi dovessero essere estromessi dai programmi d’istruzione in quanto considerati ritardati.Quasi contemporaneamente (360 a.C.) Platone nel dialogo del Cratilo, attraverso la figura di Socrate, avanza l’idea che i sordi si esprimano attraverso una loro propria gestualità. Egli individua nel canale visivo - gestuale una delle possibilità attraverso cui può essere declinata la prassi linguistica. Tale gestualità, è importante quanto il linguaggio ed implica l’intelligenza di coloro che la usano. Inoltre, Platone, considera il linguaggio come arbitrario, in quanto esisterebbe un’altra realtà al di fuori del nome, rappresentata dalle cose a cui i nomi si riferiscono senza però alcun legame naturale con esse.Nel Medioevo i sordomuti vengono considerati al pari di altre figure ai margini della società (come i folli presi in considerazione da Foucault), tale situazione viene testimoniata dal “Corpus Iuris Civilis”, redatto dall’imperatore Giustiniano I°, che impedisce ai sordomuti di tenere il controllo di proprietà, scrivere testamenti validi e stipulare contratti. Tutto ciò viene anche confermato dagli scritti di Sant’Agostino nel suo “Contra Iulianum” afferma che:<< La sordità è un male perché può portare una mancanza di fede >>, anche se si contraddice nel libro “De Quantitate Animae” dove ammette di aver visto un << sordomuto in grado di esprimersi compiutamente attraverso la lingua dei segni >>.Già nel 500, però, si hanno le prime notizie che riguardano l’educazione dei sordi soprattutto con personaggi come Giordano Cardano e Pedro Ponce De Léon, che insegnava a parlare ai sordi prima con la scrittura e poi provocando movimenti della lingua. La svolta vera e propria si ha solo

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con l’avvento dell’Illuminismo in Francia e con l’idea rivoluzionaria dell’abate Charles Michel de l’Épée. Quest’ultimo s’imbatte in due gemelle sorde e osservandole capisce che le due bambine avevano sviluppato tra loro una complessa forma di comunicazione gestuale. L’abate pensò perciò che si poteva far sviluppare ai sordi una comunicazione per loro naturale: i segni, essi, però, per costituirsi come una lingua vera e propria dovevano essere correlati da una struttura grammaticale. Nacquero, così, le prime lingue segnate convenzionali del tutto autonome dal linguaggio naturale. L’Épée istituì, inoltre, la prima scuola pubblica per sordi a Parigi nel 1755. Alla sua morte il direttore scolastico divenne Roch-Ambroise Sicard, che tramutò la scuola dell’abate nell’Istituto Nazionale dei sordomuti.La lingua dei segni francese fu poi introdotta negli Stati Uniti da Thomas Gallaudet e si diffuse ampiamente anche lì. Sarà poi il figlio di quest’ultimo a fondare la prima università per sordi che utilizza i segni nell’attività didattica, la Gallaudet University.A questo periodo di particolare fervore culturale a favore dei sordo muti, segue un lasso temporale negativo determinato dalle teorie di Alexander Bell, il più accanito oralista dell’Ottocento. Egli, infatti, appoggiava la teoria oralista che propone per i sordi un approccio medico-riabilitativo, che affianca l’uso di protesi a una terapia logopedica, per far divenire quanto più possibile i sordi parlanti . Si pensava, infatti, che per un’integrazione del sordo nella società era indispensabile l’acquisizione della lingua verbale, considerata superiore sul piano cognitivo. L’apprendimento delle lingue segnate, invece, era considerato come un impedimento per lo sviluppo culturale dell’individuo. Per questo motivo fu vietato l’uso delle lingue segnate e il relativo insegnamento. Tutto ciò rappresentò un atto estremo di negazione dell’identità delle persone sorde.Solo dal 1960, con le teorie di William Stokoe, si assiste all’ennesima svolta nella storia dei sordi durante la quale si ha il definitivo riconoscimento scientifico delle lingue segnate.Alla fine degli anni 70, invece, in Italia, un gruppo di ricercatori, sotto la guida di Virginia Volterra, studia ed elabora il LIS, ossia la lingua italiana dei segni. Nel mondo abbiamo tante lingue dei segni ognuna indipendente dalle altre, in quanto non esiste una lingua segnata universale. Esse sono del tutto naturali, infatti, i bambini fin dalla nascita esposti tanto quanto ad una lingua vocale, la apprendono con la stessa rapidità seguendo gli stessi passi (commettendo perfino i medesimi errori). Un esempio eloquente della naturalezza che i sordi hanno nell’apprendere la lingua dei segni è rappresentato dalla nascita della lingua segnata nicaraguense (ISN). Fino al 1970 non c’erano centri di accoglienza per sordi in Nicaragua, ma con la formazione di uno dei primi centri che conteneva circa 50 bambini sordomuti, si avviò una rieducazione basata su la lettura labiale e l’insegnamento dello spagnolo, che però non ebbe molto successo. Quando la scuola si espanse fino ad arrivare ad un numero di 400 individui, si notò che i bambini nei momenti dedicati al gioco, nei corridoi e sugli scuolabus, riuscirono da soli a sviluppare una comunicazione che gli permettesse di entrare in relazione tra loro. Avevano dato vita ad una vera e propria lingua, con accordi per esempio tra verbo e soggetto e altre convenzioni grammaticali. Infatti, come il linguaggio vocale le lingue segnate sono sistemi semiotici aperti, e cioè, capaci di incorporare prestiti e neologismi, essendo anche soggette a cambiamenti di origine dialettale e varietà regionali. Godono dei principi di metalinguisticità , sistematicità, sinonimia, arbitrarietà (pur essendo più iconiche, perché gestuali, rispetto alle lingue naturali). Esse inoltre utilizzano l’area di Broca (area nell‘emisfero sinistro del cervello, che è coinvolta nell’elaborazione e nella comprensione del linguaggio) nello stesso modo in cui viene utilizzata dai parlanti.Prendendo atto della storia dei sordomuti ed osservando ciò che sono stati capaci di creare, è lecito domandare: come è possibile che per secoli a questi individui non fu riconosciuta la loro identità di persone sordomute con capacità intellettive uguali ai normodotati? Come mai essi hanno dovuto occupare per tutto questo tempo posti nella società rilegati a persone mentalmente ritardate? Forse tutto questo è dovuto al loro silenzio?Per spiegare meglio quello a cui la mia tesi vuole giungere riprendo un passo tratto dal saggio “Il problema del significato nei linguaggi primitivi” di Bronislaw Malinowski. Egli enuncia che:<< Per un uomo allo stato di natura il silenzio di un altro uomo non è fattore rassicurante ma, al contrario, qualche cosa di allarmante e pericoloso >>. Egli continua dicendo che: << la rottura del silenzio, la comunione delle parole è il primo atto per stabilire quei vincoli di amicizia che si consolidano durevolmente >>.Egli parla per questo di comunicazione fatica, cioè di << un tipo discorso in cui si crea un legame col puro scambio di parole >>, le parole, infatti di questo tipo di comunicazione << adempiono una

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funzione sociale >>.Malinowski continua dicendo che: << la situazione consiste proprio in questa atmosfera di socievolezza, in questa comunione personale, raggiunta in pratica attraverso il discorso; la situazione nei casi che andiamo esaminando è creata dallo scambio di parole, dai sentimenti specifici alla base del cameratismo conviviale, dal dare e avere delle espressioni adatte alle chiacchierate >>.Nell’accezione malinowskiana, il linguaggio agisce, quindi assume la funzione di azione e crea uno spazio sociale. É proprio questo che rende il nostro linguaggio unico, che ci distingue dagli altri animali. Ciò però non toglie il fatto che, anche se le parole non vengono pronunciate, ci sia un linguaggio simile al nostro, con simili caratteristiche che permette, nonostante il silenzio, una funzione sociale. Quest’ultima non viene adempiuta completamente a causa della scarsa conoscenza delle lingue segnate (a causa anche alle sciocche imposizioni poste dalla teoria oralista fino al 1960). Con una conoscenza più ampia di tale lingua, si attribuirebbe senza dubbio una funzione sociale e quindi fatica anche ad essa.I sostenitori delle lingue segnate come il professore Tommaso Russo Cadorna e Virginia Volterra, hanno da sempre reso nota la loro più grande utopia, e cioè: << una città progettata per “tutti coloro che utilizzano la lingua dei segni”, nella fattispecie la Lingua Americana dei Segni (ASL). Non è una città per sordi; è una città di segnanti, una città in cui “i sordi convivranno con gli udenti, agevolati da un ambiente concepito apposta per loro” >>. (dal Bollettino Filosofico XXIV 2008).Questo è il loro grande sogno, finora rimasto incompiuto.

Le procedure che controllano il discorso.

Ad occuparsi delle procedure del discorso è stato Paul Michel Foucault nel testo L’ordine del discorso.Michel Foucault nasce nel 1926 a Poitiers e morì a Parigi nel 1984. I suoi primi interessi si concentrano sulla follia, sulla malattia e come queste si sono costituite come oggetto di scienza (psicopatologia, medicina clinica), analizza i luoghi di internamento in cui si istaura il rapporto tra medico e paziente. Egli segue il percorso che la medicina ha conseguito nel processo di conoscenza del corpo umano, della malattia, della salute e della morte.Tra le sue opere più famose vi è Storia della follia nell'età classica (1961) e Nascita della clinica (1963).Foucault ha influenze culturali dalla fenomenologia soprattutto da quella di Merleau-Ponty, dalla psicologia e dalla psicoanalisi sviluppata tra gli altri da Binswanger e l’epistemologia di Canguilmem.Foucault fu influenzato in seguito dallo strutturalismo senza mai aderirvi totalmente.Egli inoltre affronta il concetto di episteme delle varie epoche storiche. Per l’autore le varie epoche sono caratterizzate da varie episteme (scienza) in cui operano i saperi e regole inconsce.Il passaggio da un episteme all’altro non è dettato dal progresso, ma avviene per salti e quindi non risulta spiegabile. Nell'opera Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze umane (1966) l’autore ritiene che il filosofo Kant sia colui che ha realizzato la definitiva chiusura dall’episteme classica e l’emergere di quelle nuove empiricità quali la vita, il lavoro e il linguaggio. Kant compie all’interno della filosofia la cosiddetta rivoluzione copernicana passando da una ragione esterna al soggetto (cosmica per Platone) ad una ragione soggettiva, egli sostituisce quindi all’idea classica già enunciata una dipendenza dell’oggetto al soggetto. La critica kantiana permette di interrogarci sui limiti e il fondamento della rappresentazione, si pone con tale filosofo la questione dei rapporti tra ambito dell’empiricità e il fondamento trascendentale della conoscenza, al quale centro si pone sempre il soggetto che riflette imponendo loro i contenuti e l’esperienza. Come si nota proprio con Kant il soggetto uomo è collocato a fondamento di tutte le positività, diventando partendo proprio dalla sua finitudine, la condizione di possibilità della conoscenza. Kant inaugura la “soglia della modernità” come sostiene Foucault, destinata a restare ancorata all’essere umano, in cui il trascendentale e l’empirico si richiamano e s’invertono.Foucault sostiene che è possibile pensare “solamente entro il vuoto dell'uomo scomparso” con

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spazio non intende solo un’unità che va riempita, ma uno spazio nuovo entro cui pensare. Nietzsche è colui che ha annunciato la morte dell’uomo dal momento che Dio e l’uomo si appartengono a vicenda, definendo cosi un punto nuovo di partenza per la filosofia contemporanea.Il testo L’ordine del discorso già precedentemente citato, rappresenta la lezione inaugurale pronunciata il 2 dicembre del 1970 al Collège de France. Proprio in questo stesso anno Foucault ricevette la nomina di professore di storia dei sistemi di pensiero, la più prestigiosa istituzione culturale francese, diventando cosi un filosofo di capitale importanza nel panorama internazionale.

“Signor amministratore, miei cari colleghi, sono trascorsi quasi due anni da quando Jean Hyppolite aveva reso partecipi molti di noi, per altro pubblicamente, di un progetto rispetto al quale gli avevo dato il mio pieno consenso. Il destino ha voluto che oggi fossi solo, e proprio nell’occasione della sua morte, a riprenderlo, proponendovi di creare una cattedra di Storia dei sistemi di pensiero.” (pag. 51)

Il nucleo originario del collegè nel quale Foucault insegna risale al 1530, ad istituirlo Francesco I su progetto di Guillaume Budè. La nuova istituzione incontrerà l’opposizione della Sorbonne, visto che il collegè avrà l’esplicita funzione di incunearsi nel sistema delle facoltà delle Università di Parigi, rompendo il monopolio della lingua e di una corporazione. L’istituzione del Collegium è dotata poco più di una cinquantina di cattedre, nel momento in cui una cattedra si rende vacante è l’Assemblea dei professori a decidere i candidati tra i quali il ministero dovrà scegliere per mezzo del decreto presidenziale.Il collegè come sostenuto da P. Valery ad un ufficiale tedesco è il luogo “in cui la parola è libera” e “coraggio e verità” proferita davanti al potere, questo segnerà un avventura straordinaria per Foucault. Egli si è mostrato modesto nel definire il suo lavoro come una serie “di piste di ricerca, di idee, di schemi, di linee generali” messi a disposizione a chi volesse applicarli o metterli alla prova in altre ricerche.All’ordine del discorso sono stati dedicati dagli esordi a circa tredici anni di ricerca e lavoro che mostrano strumenti e materiali che proiettano in una nuova dimensione della ricerca.Tra i temi dell’opera vi è quello della volontà di verità, restituire al discorso il carattere d’evento e infine toglier via la sovranità del significante. Nel testo l’autore pone una complessa riflessione sul potere, sulla costituzione del soggetto moderno e della corporeità. Viene ripreso ancora una volta Canguilhem nel dualismo tra normale e a-normale che regola i sistemi di pensiero della società occidentale. Foucault fa riferimento a Nietzeche definito “filosofo del potere”, egli ha il merito di aver mostrato che ogni discorso insita in sé la volontà di potenza. Ed è Nietzsche ad aver indicato nella genealogia il metodo che permette di individuare i modi in cui i discorsi si generano e scompaiono. Foucault sostiene “ogni società ha il suo proprio ordine della verità, la sua politica generale della verità: essa accetta cioè determinati discorsi, che fa funzionare come veri”. Egli mette in evidenza come sapere e potere siano inseparabili: l’esercizio del potere genera nuove forme di sapere e quest’ultimo al contrario porta effetti sul potere. Per potere Foucault non intende quello che emana un sovrano che genera leggi positive, ma un potere che opera tramite meccanismi anonimi in ogni anfratto della società. Il potere come viene presentato dall’autore è un insieme di rapporti di forza, diffusi localmente. Il potere attua selezioni e interdizioni, impedendo cosi il libero proliferare dei discorsi e originando una società disciplinare che trova espressione in istituzioni come il carcere, l’ospedale, l’esercito, la scuola, dove vengono applicate strategie di controllo del corpo, sanzioni ed esami. Il potere ha il compito positivo di produrre nuovi ambiti di sapere e verità.Tra le procedure in questione la più evidente è l’interdetto. Sappiamo bene di non avere il diritto di dir tutto, che dobbiamo tener conto delle circostanze. Gli interdetti che colpiscono il discorso rivelano il suo legame con il desiderio e con il potere.La seconda procedura d’esclusione è la follia. L’autore ha analizzato le forme di credulità che circondano i folli fin dai tempi più remoti, il modo in cui vengono rappresentati nel teatro e nelle opere letterarie. Foucault ha cercato di capire nei suoi studi in che modo i folli fossero riconosciuti, esclusi e internati (in base a quali criteri). Egli ha definito entro quale reticolo istituzionale e di pratiche il folle si trovasse imprigionato. La follia rappresenta una separazione tra gli individui, questa esclusione possiede i suoi criteri, i riti e le sue sanzioni. In seguito interviene la medicina

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per spiegare e giustificare questa separazione. Nel medioevo il folle era colui che non era come gli altri, la sua parola veniva considerata come nulla e senza effetto, a volte ai folli attribuivano poteri particolari, quello di dire una verità nascosta, di predire il futuro. Il discorso del folle era come una sorta di rumore non avendo un nesso con la ragione, la parola gli veniva concessa solo simbolicamente. Oggi questa partizione agisce secondo linee diverse, attraverso nuove istituzioni e con effetti che non sono affatto gli stessi. Proprio sotto questa luce Foucault inizia a profilarsi un nuovo oggetto di sapere investito all’interno di sistemi complesso di istituzione.Terza procedura è quella del vero contro falso alla quale l’autore si dedica maggiormente. Questa procedura può anche non essere considerata tale perché a differenza delle altre la costrizione della verità non è né arbitraria, né modificabile, né violenta. Ma se spostiamo su la questione di sapere quale è stata, la volontà di verità che ha attraversato la nostra storia, questa partizione regge la nostra volontà di sapere, da questo punto di vista può essere inserita nel sistema d’esclusione. E’ una partizione quindi legata alla storia. Già nei poeti del VI secolo bisognava sottomettersi al discorso vero pronunciato da chi di diritto. Un secolo più tardi la verità si sposta su quello che il discorso diceva. Si deve al periodo tra Esiodo e Platone la spartizione tra vero e falso. E’ come se a partire da questa spartizione la volontà di sapere avesse la propria storia. Come gli altri sistemi d’esclusione anche questo poggia su supporto istituzionale, questo esercita sugli altri discorsi una sorta di pressione e quasi un potere di costrizione.Foucalt distingue un gruppo di procedure interne ai discorsi stessi che vogliono padroneggiare la dimensione dell’evento.Primo tra tutti il commento. Nella nostra società esistono discorsi che “si dicono” che passano con l’atto stesso di pronunciarli e discorsi che “sono detti” e che sono all’origine di atti nuovi (testi religiosi, giuridici). Il testo primario consente di costruire discorsi nuovi, il commento ha come ruolo di dire per la prima volta quello che era gia stato detto e ripetere ciò che non è stato detto. Esso consente di dire qualcosa di diverso dal testo stesso, ma deve pur sempre partire da un testo.L’autore è un altro tra i principi di rarefazione che è complementare al primo. L’autore è considerato come raggruppamento dei discorsi, come fulcro di coerenza. Questo principio non viene adoperato in tutti i campi (ad esempio nelle ricette) ma di regola nella scienza, nella filosofia, nella letteratura. Nel medioevo l’autore era indispensabile in quanto costituiva fonte di verità: “Ma lei sta parlando dell’autore, come la critica lo reinventa a cose fatte, quanto la morte è venuta e non rimane che una massa ingarbugliata di scartafacci; bisogna pur, allora, rimettere un po’ di ordine in tutto questo; immaginare un progetto, una coerenza, una tematica che si chiedono alla coscienza o alla vita di un autore, effettivamente forse un po’ fittizio. Ma questo non impedisce che vi sia ben esistito, quest’autore reale, quest’uomo che ha fatto irruzione tra tutte le parole usate, portando in esse il suo genio o il suo disordine”. (pg 14- 15)Altro principio di limitazione è la disciplina. Questa si oppone al principio del commento e dell’autore. Si differenzia dall’autore perché la disciplina è un sistema di tecniche e metodi che costituisce una sorte di sistema anonimo, senza che il senso o la validità sia stata legata al possibile inventore. Si differenzia dal commento perché ogni disciplina deve creare nuovi enunciati.Foucault descrive un terzo gruppo di procedure che consentono di controllare i discorsi e di determinarne le condizioni della nostra messa in opera. Rarefazione che riguarda i soggetti che devono essere qualificati per poter entrare nell’ordine del discorso. Vi sono discorsi che sono aperti e accessibili a tutti e altre regioni che non sono egualmente penetrabili. L’autore riporta un aneddoto quello dello shogun (nel XVII) che avevo sentito dire che la superiorità europea risiedesse nella matematica. Cosi apprese questo sapere grazie ad un marinaio inglese Will Adams che aveva appreso la geometria da autodidatta. Solo nel XIV secolo vi furono matematici giapponesi. Lo scambio e la comunicazione sono figure positive che operano in un sistema complesso, la forma più visibile di restrizione si può raggruppare sotto il nome di rituale, questo definisce il comportamento, i gesti, le circostanze e i segni che devono accompagnare un discorso (es. quelli religiosi, giudiziari e terapeutici non possono essere dissociati a questa utilizzazione di rituale).Di funzionamento in parte diverso ci sono le “società di discorso” che proteggono i discorsi e li fanno circolare in uno spazio chiuso.Le dottrine sembrerebbero l’opposto delle “società di discorso”. La dottrina tende a diffondersi e unicamente mettendo in comune un solo insieme di discorsi, lega gli individui tra di loro e

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differenziarli per questo da tutti gli altri.Si parla infine di appropriazione sociale dei discorsi. L’educazione è lo strumento con il quale l’individuo in una società può accedere a qualsiasi discorso, ma tenendo presente ciò ch’essa permette e ciò che vieta.Foucault rintraccia alcune esigenze di metodo. Queste quattro devono servire da principio regolativi alla analisi: quella dell’evento, quella di serie, quella di regolarità, quella di condizioni di possibilità.Il primo principio è quello di rovesciamento: quelle figure che secondo la tradizione sembrano svolgere un ruolo positivo (autore, disciplina, volontà di verità) bisogna riconoscerne anche il ruolo negativo.Altro principio è quello di discontinuità: il fatto che ci siano sistemi di rarefazione non vuol dire che sotto di essi possa regnare un discorso illimitato. I discorsi devono essere trattati come pratiche discontinue, si possono incrociare, affiancare e talvolta anche ignorare e escludere.Il principio di specificità: il mondo non è complice della nostra conoscenza, ma dobbiamo concepire il discorso come una violenza che facciamo alle cose e proprio in questa pratica trovano la propria regolarità.Quarto principio è l’esteriorità: si deve partire dal discorso stesso per arrivare alle sue condizioni esterne di possibilità.

La volontà di verità come sistema storico e modificabile trattato ne “L’ordine del discorso” di M. Foucault.“L’ordine del discorso” è il testo della lezione inaugurale che Foucault pronunciò al Collège de France il 2 dicembre 1970. In questa sua prima lezione egli presenta i temi principali e i metodi della sua ricerca.

In queste pagine tratterò il tema della volontà di verità introdotto da Foucault sottolineando il suo carattere storico, relativo e modificabile attraverso i secoli.

Innanzitutto vediamo in quale ambito di analisi l’autore analizza il concetto di volontà di verità. L’autore nota come in ogni società la produzione del discorso sia controllata, organizzata e selezionata tramite delle procedure che ne limitano i poteri e i pericoli. Infatti egli avverte l’inquietudine generale nei confronti della parola scritta o parlata, l’importanza attribuita alla possibilità di padroneggiare gli eventi discorsivi in una società. Il discorso non è solamente strumento di lotta (politica, sociale ecc.), ma è anche e soprattutto ciò per cui si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi.

Per questo , in ogni società, troviamo differenti sistemi di delimitazione e controllo dei discorsi.

Un primo gruppo di tali sistemi comprende le cosiddette procedure di esclusione. Esse si esercitano dall’esterno dei testi stessi e riguardano la parte del discorso che mette in gioco il potere e il desiderio. Tra queste troviamo il meccanismo dell’interdetto, la partizione tra ragione e follia e l’opposizione tra il vero e il falso.

Esiste un altro gruppo di procedure di controllo e delimitazione del discorso. Si tratta di procedure interne; sono i discorsi stessi che esercitano il loro proprio controllo. Tali procedure fungono dunque da principi di classificazione, ordinamento, distribuzione. Si tratta di padroneggiare quella dimensione del discorso che riguarda l’evento e il caso. Le procedure che operano in questo ambito sono il commento, la funzione dell’autore e l’organizzazione delle discipline.

L’autore individua un terzo gruppo di procedure che consentono il controllo dei discorsi. Esse non tentano di padroneggiare i poteri dei discorsi, ma di determinare le condizioni della loro messa in opera, di imporre agli individui che li tengono delle regole e di non permettere così a tutti di accedervi. In questo gruppo rientrano il rituale, le società di discorso e la dottrina.

Dopo questa breve classificazione delle procedure di controllo dei discorsi, voglio qui analizzare

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più da vicino le procedure di esclusione, tra le quali rientra la sopra citata volontà di verità.

Iniziamo dunque con l’interdetto. Esso è un procedura di esclusione perché fa riferimento al fatto che non si ha il diritto di dire tutto in qualsiasi circostanza. Si hanno tre tipi di interdetto: tabù dell’oggetto, rituale della circostanza, diritto privilegiato o esclusivo di chi parla; essi formano un reticolo complesso. Nella nostra società, tale reticolo diviene ancora più fitto nelle regioni della politica e della sessualità; infatti è proprio nel discorso che questi ambiti della vita umana possono esercitare i loro maggiori poteri.

Esiste poi, nella nostra società, un altro principio d’esclusione. Esso non funziona più come un interdetto ma come una partizione o un rigetto. Si tratta dell’opposizione tra ragione e follia. Il folle è colui il cui discorso non può circolare come quello degli altri. Dal Medioevo la sua parola è considerata come nulla, non potendo autenticare un contratto, non avendo verità e importanza, non potendo far fede in giustizia. Al contrario, poteva accadere che venisse attribuita alla sua parola la facoltà di pronunciare verità nascoste, o il potere di annunciare l’avvenire, di vedere ciò che la saggezza degli altri non può scorgere. In ogni caso, però, sia che fosse esclusa dalla società o segretamente investita dalla ragione, la parola del folle semplicemente non esisteva, non aveva effetto. La follia del folle si riconosceva proprio dalle sue parole. Oggi , si potrebbe pensare, la parola del folle non è più nulla, anzi vi si ricerca una senso. Si pensi alla psicanalisi, alla grande attenzione di medici del nostro tempo rivolta all’ascolto della parola del folle, alla volontà di decifrarla. Tuttavia, tanta attenzione non cancella l’antica partizione tra ragione e follia, anzi , tale opposizione continua a essere un sistema di esclusione che agisce in nuove forme, attraverso nuove istituzioni.

Passiamo ora all’analisi del terzo tipo di procedura d’esclusione, ovvero l’opposizione del vero e del falso. Sembrerebbe fuori luogo considerare tale opposizione come un ulteriore sistema d’esclusione, accanto a dei sistemi di controllo arbitrari e contingenti come l’interdetto e la partizione tra ragione e follia. In effetti, se ci si pone a livello di una proposizione o di un discorso in generale, la partizione tra vero e falso non sembra arbitraria, né modificabile o istituzionale. Ma in realtà, ponendosi ad un livello differente, analizzando, su larga scala, come sia stata considerata nel corso dei secoli tale opposizione, allora ci si ritrova di fronte ad un altro sistema di esclusione, anch’esso storico, modificabile e istituzionalmente costrittivo. Si tratta dunque di una volontà di verità che, attraverso i nostri discorsi e in diversi tempi e diverse circostanze , è mutata; tuttavia essa ha continuato a esercitare una costrizione e una delimitazione dei discorsi.

L’opposizione tra vero e falso è dunque una partizione storicamente costituita, poiché il criterio di scelta della verità dei discorsi è cambiato nel corso della storia. All’epoca della sofistica e dei suoi inizi con Socrate, il discorso efficace, rituale, carico di poteri e pericoli si è allineato sulla partizione tra discorso vero e discorso falso. Il concetto stesso di verità è mutato nel corso della storia. I sofisti del V secolo a.C. introdussero il relativismo conoscitivo, mettendo in crisi il rapporto tra linguaggio, verità e realtà. Anticamente si credeva che su ogni argomento esistesse un unico punto di vista vero ed un unico discorso capace di esprimerlo. I sofisti invece ruppero questo rapporto univoco tra linguaggio e realtà sostenendo che ogni situazione può essere analizzata da un’ottica diversa e dare quindi origine ad un discorso differente. Da questo punto di vista ogni verità è relativa e il discorso vero ed efficace non è più solo quello le cui parole coincidono con La Realtà e La Verità. Così l’efficacia e il potere del discorso non derivano più dal suo rapporto univoco con il referente. La retorica come arte del ben parlare divenne l’arte della suggestione e della persuasione, dunque sede del potere e dell’efficacia dei discorsi. Per i poeti e i filosofi greci del VI secolo, il discorso vero era il discorso pronunciato da chi di diritto, secondo il rituale richiesto; era il discorso che diceva la giustizia; era il discorso a cui bisognava sottomettersi. Ma il concetto di verità continuò a cambiare. La verità non si trovò più in quel che il discorso era o in quel che faceva, bensì in quel che diceva: la verità si è spostata dall’atto ritualizzato, efficace e giusto, d’enunciazione, verso l’enunciato stesso: verso il suo senso, la sua forma, il suo oggetto, il rapporto con la sua referenza. Aristotele (384-322 a.C.) si oppose al relativismo dei sofisti esprimendo l’impossibilità logica di affermare e negare nello stesso tempo uno stesso predicato intorno a uno stesso oggetto. Il principio di non contraddizione divenne criterio di riconoscimento di

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un discorso vero. Inoltre Aristotele ritrovò un legame tra pensiero, discorso e realtà (essere), dicendo che la verità è nel pensiero o nel discorso, non nell’essere o nella cosa; ma, allo stesso tempo, la misura della verità è l’essere o la cosa, non il pensiero o il discorso. Il criterio di verità dei filosofi stoici (IV°secolo a.C), rimise ancora in primo piano il legame tra il discorso vero e il rapporto con il suo referente. Infatti essi distinguevano la concludenza (formale) di un ragionamento dalla sua verità materiale. Infatti, mentre la concludenza presuppone soltanto un rapporto schematicamente corretto fra le premesse e la conclusione, la verità comporta anche una precisa corrispondenza a determinate situazioni di fatto.

Dunque nel corso dei secoli e attraverso i discorsi e i sistemi di pensiero la linea di confine tra vero e falso si è spostata. Da un lato si è considerato il discorso vero come quello che ha corrispondenza nella realtà; da un altro lato, il discorso vero è stato il discorso efficace, coerente, che segue alcune regole in determinate situazioni. Anche qui si hanno criteri interni ed esterni ai discorsi per giudicare la loro verità o falsità. Una posizione del tutto diversa presero i filosofi scettici del III° secolo a.C.. La volontà di verità in questo ambito di ricerca filosofica mutò rispetto ai sistemi di pensiero precedenti, impegnati nella ricerca del vero. Nell’ambito della filosofia scettica non esisteva un criterio di determinazione del discorso vero e di ciò che è verità, in quanto si pensava che l’uomo non potesse accedere alla verità delle cose.

Facendo un passo avanti nella storia vediamo che la partizione tra vero e falso come sistema di esclusione prese nuove forme. I concetti e i pensieri del passato e della filosofia greca hanno certo dato la forma generale alla nostra volontà di sapere. Ma essa non ha per questo cessato di spostarsi: le grandi mutazione scientifiche possono essere viste come conseguenze di una scoperta, ma possono anche venire lette come nuove forme della volontà di verità. Ovviamente il concetto di volontà di verità del XIX secolo non coincide con la volontà di sapere di un’altra epoca o di un’altra cultura. La volontà di sapere si distingue in tempi diversi per le forme messe in gioco, i differenti campi di oggetti a cui si rivolge, per le tecniche che utilizza e così via.

Nel corso del XVI secolo d.C. apparve una volontà di verità che per certi versi anticipò le forme che essa prende nella nostra epoca. Infatti nacque e prese forma una nuova scienza dello sguardo, dell’osservazione, dell’accertamento; si diffuse una sorta di filosofia naturale radicata su nuove strutture politiche e tecniche. Si trattava di una volontà di sapere che designava i piani d’oggetti possibili, catalogabili, misurabili, che imponeva al soggetto conoscente una determinata posizione, un certo sguardo e una funzione. Tutto questo pose le basi per un nuovo modo di fare scienza, che determinava a quale livello tecnico sarebbero dovute arrivare specifiche conoscenze per essere considerate verificabili e utili. Facendo riferimento alla rivoluzione scientifica a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento che vide come protagonisti scienziati quali Galileo Galilei e Copernico, vediamo nascere una nuova concezione di ciò che può essere considerato un discorso vero e di ciò che invece non è verificabile. Con l’introduzione di nuove tecniche e nuovi metodi scientifici, la verità della scienza non era più la verità che si basava sull’autorevole parola e sugli scritti di antichi maestri (Aristotele, Tolomeo). In questo periodo storico si è creata una nuova partizione tra vero e falso. La garanzia della veridicità di un discorso scientifico non derivava più dall’autorevolezza di chi lo pronunciava; il discorso vero ed efficace non era più solo quello pronunciato da chi di diritto e sancito dal senso comune. La volontà di verità prese nuove forme. Il discorso vero divenne quello basato sull’osservazione, verificato attraverso strumenti tecnici ed esperimenti; tornava dunque in primo piano, ancora una volta, il legame del discorso con la sua referenza. Inoltre Galileo sottolineò la possibilità per l’uomo di conquistare progressivamente la conoscenza della verità attraverso un ragionamento discorsivo. Egli rimise in campo la corrispondenza tra pensiero ed essere, la conformità tra ciò che la scienza sostiene e il mondo qual è veramente. Attraverso questi concetti, si è formata una volontà di verità basata su una concezione realistica della conoscenza.

Sulla base dei nuovi concetti di scienza e verità si fece strada, nel XIX secolo, un’ideologia positivista nella quale ritroviamo l’opposizione tra vero e falso in nuove forme. Infatti, con l’avvento della società industriale e la nascita della scienza moderna, troviamo ancora quella volontà di verità come sistema di esclusione istituzionalmente costrittivo. L’ideologia positivista

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(appoggiandosi anche sulla filosofia Kantiana che vedeva nel mondo fenomenico l’unica realtà accessibile alla conoscenza umana) riconosceva la verità solo in ciò che si fondava sul metodo sperimentale della scienza moderna. La verità non risiedeva in un concetto astratto di conoscenza (veniva rifiutata la filosofia metafisica), ma sui fatti, sulla conoscenza sensibile. L’osservazione divenne criterio di verifica di un discorso e di ogni conoscenza. Non veniva dunque negata alla mente umana la possibilità di accedere alla verità, ma la stessa verità risultava limitata alle cose sensibili. Dunque il criterio di verità divenne l’esperienza. La partizione tra vero e falso continuava a cambiare.

Foucault sottolinea dunque il carattere storico e modificabile della volontà di verità: “E’ come se la volontà di sapere avesse la sua propria storia, che non è quella delle verità costrittive, ma è storia dei piani d’oggetti da conoscere, storia delle funzioni e posizioni del soggetto conoscente, storia degli investimenti materiali, tecnici,strumentali della conoscenza”. Nel corso dei secoli cambia il criterio di verità, cambiano gli oggetti della conoscenza, cambiano le funzioni dei soggetti conoscenti. Tutto questo costituisce un sistema di limitazione del discorso che continua, in nuove forme, ad agire nella nostra società.

La volontà di verità poggia su un supporto istituzionale. Essa si fonda su pratiche istituzionalmente riconosciute come la pedagogia,che comprende i sistemi di insegnamento e i modi di fruizione della conoscenza. La volontà di verità è inoltre confermata dal sistema dei libri, dall’editoria, dalle biblioteche; essa è rinforzata da un insieme di sistemi che rendono socialmente costrittiva la partizione tra vero e falso. In particolar modo, la volontà di verità si ritrova nel modo in cui il sapere è messo in opera in una società, nel modo in cui è distribuito e valorizzato. In questo modo la volontà di verità esercita su tutti gli altri discorsi una pressione e una sorta di costrizione. In ogni ambito della conoscenza e in ogni epoca,i discorsi che vengono pronunciati o scritti devono far riferimento alla partizione tra vero e falso, al concetto di verità all’interno della società. Ad esempio la letteratura occidentale ha dovuto per secoli cercare sostegno sul naturale, ha dovuto far riferimento al verosimile, trovare conferma sulla scienza; in generale ha dovuto fondarsi sul discorso vero. Allo stesso modo molte altre pratiche e scienze hanno dovuto trovare legittimazione e giustificazione sul discorso della verità. Il sistema penale ha cercato di fondarsi dapprima su una teoria del diritto e, a partire dal XIX secolo, su un sapere psicologico, medico, psichiatrico. Ogni discorso dunque, per essere confermato e riconosciuto, deve fondarsi sul concetto di verità. In questo, la partizione tra vero e falso gioca un ruolo importante di delimitazione dei discorsi. Infatti, anche altri sistemi di esclusione sopra citati, come l’interdetto e la partizione tra ragione e follia, fanno riferimento all’opposizione tra vero e falso. In conclusione, ogni discorso è attraversato da una volontà di verità che muta nei secoli e nelle società, una volontà di verità che esercita un potere nei discorsi e che costituisce un sistema storico e modificabile. “ Il discorso vero non può riconoscere la volontà di verità che lo attraversa; e la volontà di verità, quella che si è imposta a noi da moltissimo tempo, è siffatta che la verità che essa vuole non può non mascherarla” (M.Foucault).