“QUANDO A STRASBURGO SI DISCUTE DI FINE VITA… CASI … · costituzionale spagnola del suo...

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- 1 - IL DIRITTO E LA FINE DELLA VITA Decisioni, principi, casi Incontro Internazionale di studio nell’ambito del Progetto Firb 2006 L’impatto delle innovazioni biotecnologiche sui diritti della persona. Uno studio interdisciplinare e comparato Napoli, 1921 maggio 2011 “QUANDO A STRASBURGO SI DISCUTE DI FINE VITA… CASI E DECISIONI DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO IN TEMA DI EUTANASIA E SUICIDIO ASSISTITO” - Ilaria Anna Colussi* - Sommario: Premessa: il ruolo del giudice nelle questioni di fine vita; 1. Il caso Sanles Sanles v. Spagna, 26 ottobre 2000; 1.1 Le richieste di Sanles Sanles; 1.2 Il decisum della Corte EDU; 2. Il caso Diane Pretty v. Regno Unito, 29 aprile 2002; 2.1 Le richieste di Diane Pretty; 2.2 Le repliche del governo britannico; 2.3 La ratio decidendi della Corte EDU; 2.4 Brevi riflessioni a margine della sentenza della Corte EDU sul caso Pretty; 3. Il caso Ada Rossi e altri v. Italia, 16 dicembre 2008; 4. Il caso Ernst Haas v. Svizzera, 20 gennaio 2011; 4.1 Le richieste di Ernst Haas; 4.2 Le eccezioni del governo svizzero; 4.3 La sentenza della corte EDU; 4.4 Il punto a cui è giunta la Corte EDU in tema di fine vita: un bilanciamento possibile?; 4.5 Note critiche alla sentenza Haas; 5. Il caso Ulrich Koch v. Germania, in decisione; 5.1. Le richieste di Ulrich Koch; 5.2 L’intervento di terzi; 5.3 Come deciderà la Corte EDU?; 6. Confronto critico e ragionato tra le sentenze della Corte di Strasburgo in tema di fine vita. PREMESSA: IL RUOLO DEL GIUDICE NELLE QUESTIONI DI FINE VITA Dal momento che le evoluzioni scientifico-tecnologiche hanno mutato le “tradizionali” condizioni di vita e di morte, rendendo sfuggente e non più pacifico e incontestabile il carattere dell’una e dell’altra, la necessità di rimodulare questi “classici” paradigmi e le conseguenze (anche giuridiche) legate ad essi si è fatta sentire a gran voce: infatti, “la vita e la morte irrompono nel diritto con pregnanza tale da mettere in discussione tutte le grandi costruzioni e le grandi certezze del diritto” 1 . Già da tempo quest’ultimo si è affacciato sulle questioni dell’eutanasia, del suicidio assistito, del fine vita in generale, cercando regole giuridiche adatte che dovrebbero perseguire un ponderato bilanciamento dei vari interessi, pubblici e privati, “in gioco”. Indubbiamente, la complessa tematica del fine vita, alle prese con il principio di autonomia e di autodeterminazione, con il diritto alla vita, alla salute, all’integrità fisica, con il concetto di dignità umana e di rispetto della vita privata, rappresenta uno degli ambiti più spinosi e controversi per il diritto. Giudici, giuristi, legislatori e altri operatori si trovano a “maneggiare” la materia, chi alla ricerca di norme generali, chi puntando all’elaborazione di principi deontologici, chi affrontando * Dottoranda in Studi Giuridici Comparati ed Europei, curriculum Scienze Pubblicistiche, Università degli Studi di Trento. 1 E. RESTA, Biodiritto (voce), in AA.VV., XXI Secolo, Norme e idee, Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 2009, p. 51.

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IL DIRITTO E LA FINE DELLA VITA Decisioni, principi, casi

Incontro Internazionale di studio nell’ambito del Progetto Firb 2006

L’impatto delle innovazioni biotecnologiche sui diritti della persona. Uno studio interdisciplinare e comparato

Napoli, 19‐21 maggio 2011

“QUANDO A STRASBURGO SI DISCUTE DI FINE VITA… CASI E DECISIONI DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI

DELL’UOMO IN TEMA DI EUTANASIA E SUICIDIO ASSISTITO”

- Ilaria Anna Colussi* -

Sommario: Premessa: il ruolo del giudice nelle questioni di fine vita; 1. Il caso Sanles Sanles v. Spagna, 26 ottobre 2000; 1.1 Le richieste di Sanles Sanles; 1.2 Il decisum della Corte EDU; 2. Il caso Diane Pretty v. Regno Unito, 29 aprile 2002; 2.1 Le richieste di Diane Pretty; 2.2 Le repliche del governo britannico; 2.3 La ratio decidendi della Corte EDU; 2.4 Brevi riflessioni a margine della sentenza della Corte EDU sul caso Pretty; 3. Il caso Ada Rossi e altri v. Italia, 16 dicembre 2008; 4. Il caso Ernst Haas v. Svizzera, 20 gennaio 2011; 4.1 Le richieste di Ernst Haas; 4.2 Le eccezioni del governo svizzero; 4.3 La sentenza della corte EDU; 4.4 Il punto a cui è giunta la Corte EDU in tema di fine vita: un bilanciamento possibile?; 4.5 Note critiche alla sentenza Haas; 5. Il caso Ulrich Koch v. Germania, in decisione; 5.1. Le richieste di Ulrich Koch; 5.2 L’intervento di terzi; 5.3 Come deciderà la Corte EDU?; 6. Confronto critico e ragionato tra le sentenze della Corte di Strasburgo in tema di fine vita.

PREMESSA: IL RUOLO DEL GIUDICE NELLE QUESTIONI DI FINE VITA

Dal momento che le evoluzioni scientifico-tecnologiche hanno mutato le “tradizionali”

condizioni di vita e di morte, rendendo sfuggente e non più pacifico e incontestabile il carattere dell’una e dell’altra, la necessità di rimodulare questi “classici” paradigmi e le conseguenze (anche giuridiche) legate ad essi si è fatta sentire a gran voce: infatti, “la vita e la morte irrompono nel diritto con pregnanza tale da mettere in discussione tutte le grandi costruzioni e le grandi certezze del diritto”1. Già da tempo quest’ultimo si è affacciato sulle questioni dell’eutanasia, del suicidio assistito, del fine vita in generale, cercando regole giuridiche adatte che dovrebbero perseguire un ponderato bilanciamento dei vari interessi, pubblici e privati, “in gioco”.

Indubbiamente, la complessa tematica del fine vita, alle prese con il principio di autonomia e di autodeterminazione, con il diritto alla vita, alla salute, all’integrità fisica, con il concetto di dignità umana e di rispetto della vita privata, rappresenta uno degli ambiti più spinosi e controversi per il diritto.

Giudici, giuristi, legislatori e altri operatori si trovano a “maneggiare” la materia, chi alla ricerca di norme generali, chi puntando all’elaborazione di principi deontologici, chi affrontando

* Dottoranda in Studi Giuridici Comparati ed Europei, curriculum Scienze Pubblicistiche, Università degli Studi di Trento. 1 E. RESTA, Biodiritto (voce), in AA.VV., XXI Secolo, Norme e idee, Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 2009, p. 51.

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singoli casi concreti nei quali tentare di dare applicazione alle regole astratte: emerge, dunque, un quadro assai variegato di fonti giuridiche.

Dinanzi ad un panorama così articolato, il presente contributo intende focalizzare l’attenzione sul ruolo del giudice in quest’ambito, tenendo ben presente la sua figura di soggetto catalizzatore dei problemi, delle esigenze, dei bisogni che emergono nella prassi sociale. Chiamato a dare attuazione alle regole nei casi sottoposti alla sua attenzione, il giudice si trova di fronte a vicende personali, anche dolorose e umanamente logoranti, e persegue il difficile fine di “ius dicere”, immerso in una società “che è per sua natura un’entità in continua evoluzione […] che si trasforma quotidianamente, a volte sensibilmente e a volte insensibilmente, dando luogo a ciò che viene definito come l’evoluzione perenne del costume”2.

Una delle Corti che più specificamente si è occupata di materie relative a fine vita è la Corte europea dei Diritti dell’Uomo che ha osservato le singole vicende nella prospettiva dei diritti umani.

Nel prosieguo saranno, pertanto, analizzate alcune significative decisioni della Corte, cercando di prescindere da ogni componente emotiva, da ogni preconcetto filosofico e/o religioso e operando un confronto critico tra esse dall’ottica squisitamente giuridica.

1. IL CASO SANLES SANLES v. SPAGNA, 26 ottobre 2000

Eccettuati due casi affrontati dalla Commissione per i diritti umani del Consiglio d’Europa, uno in materia di rifiuto di trattamenti medici3 e l’altro relativo ad un’ipotesi di omicidio colposo a carico dei medici, ove il ricorrente aveva contestato la mancanza in Svizzera di una norma che punisse l’eutanasia passiva che, a suo dire, sarebbe stata praticata ai danni del genitore4, la prima volta in cui la Corte europea dei Diritti dell’Uomo si trova ad affrontare un caso di fine vita riguarda la vicenda umana di Ramón Sampedro5, tetraplegico spagnolo, attivista per il diritto di accedere a forme legali di suicidio assistito, la cui vicenda è stata fatta universalmente conoscere attraverso il film di Alejandro Amenabar “Mare dentro” (2004).

Fin dal 1993 il sig. Sampedro aveva avanzato presso diversi tribunali spagnoli la richiesta che gli fosse riconosciuto il suo diritto a morire degnamente. Dopo il rigetto presso la Corte costituzionale spagnola del suo ricorso di amparo e la dichiarata inammissibilità del ricorso da parte della Commissione del Consiglio d’Europa, Sampedro nel 1995 aveva ripreso l’iter, chiedendo che fosse dichiarato non perseguibile per il reato di assistenza al suicidio il medico che gli avesse fornito i medicinali necessari a porre fine alla sua vita6.

2 R. LIVATINO, Il ruolo del giudice nella società che cambia, in I. ABATE (A CURA DI), Il piccolo giudice. Profilo di Rosario Livatino, Ila - Palma, Palermo, 1992, p. 22. 3 Caso Acmanne and Others v. Belgium, n. 10435/83, Commissione, Decisione del 10 dicembre 1984, Decisions and Reports 40, p. 251. 4 Caso Widmer v. Switzerland, n. 20527/92, Commissione, Decisione del 10 febbraio 1993, unreported. 5 Caso Sanles v. Spain, n. 48335/99, ECHR 2000-XI, [4 Sezione], Decisione del 26 ottobre 2000. 6 Cfr. Art. 143 del codice penale spagnolo (1995): “1. Chiunque istighi altra persona al suicidio sarà punito on pena detentiva da quattro a otto anni. 2. Sarà punito con la detenzione da 2 a cinque anni chiunque favorisca con atti necessari allo scopo il suicidio di una persona. 3. Sarà punito con detenzione da sei a dieci anni se il suoi aiuto si spinge fino al punto di cagionare la morte. 4. Chiunque cagiona la - o coopera attivamente con atti necessari e diretti alla - morte di altri, su richiesta esplicita, seria e non equivoca di quest’ultimo, nel caso in cui la vittima soffra di una infermità grave e tale da condurla inevitabilmente alla morte, o tale da procurarle sofferenze permanenti gravi e difficili da sopportare, è punito con una pena inferiore di uno o due gradi rispetto a quelle indicate nei commi 2 e 3 del presente articolo”.

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Essendo stata negata la sua richiesta a più livelli di giudizio, Sampedro si era presentato nuovamente alla Corte costituzionale con un ricorso individuale di amparo per lesione dei suoi diritti individuali, eccependo che la negazione delle sue pretese corrispondesse alla lesione della dignità umana, del libero sviluppo della personalità, del diritto alla vita, all’integrità fisica e del diritto al giusto processo, data la lungaggine delle procedure giudiziarie subìte.

Nelle more del giudizio instaurato presso il Tribunale costituzionale, Sampedro moriva (gennaio 1998), probabilmente grazie ad un suicidio assistito eseguito da soggetti rimasti anonimi. Mentre veniva instaurato un procedimento penale a carico di ignoti, la cognata di Sampedro, Manuela Sanles Sanles, manifestava la volontà di proseguire nel giudizio di amparo in qualità di erede. La Corte costituzionale, però, dichiarava l’estinzione del processo, essendo possibile la continuazione del medesimo solo per i casi in cui si discuta di diritti personali degli eredi relativi al loro stato civile o ala protezione dell’onore, della privacy, dell’immagine personale e familiare (ai sensi della Institutional Law spagnola n. 1/1982), ossia nei casi di diritti non esauritisi con la morte del soggetto e aventi effetti anche sulla famiglia, fatti valere solo da successori ope legis. Nel caso in esame, trattandosi di un personalissimo diritto ad accedere al suicidio assistito, non era possibile che un terzo proseguisse il procedimento.

1.1 Le richieste di Sanles Sanles Decisa a continuare la battaglia politico-giudiziaria del cognato, Manuela Sanles Sanles

proseguiva il ricorso avanti alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, lamentando la violazione degli artt. 2, 3, 5, 8, 9, 14 CEDU da parte delle autorità spagnole7.

Mancando in Spagna un legislazione che rendesse lecita l’eutanasia, esimendo dalla responsabilità penale il sanitario che somministrasse al proprio paziente sostanze idonee a ridurne la sofferenza e lo stress, fino ad aiutarlo a realizzare l’intento suicida, la ricorrente denunciava la lesione dell’art. 28, non essendo stato riconosciuto a Sampedro il diritto alla morte dignitosa, quale speculare al diritto alla vita; ex art. 39, sottolineava che le immani sofferenze del malato equivalessero a trattamento disumano e degradante, a fronte del quale lo Stato non aveva fatto nulla; ai sensi dell’art. 510 e dell’art. 911 si pretendevano lesi il diritto alla libertà e la libertà di pensiero e coscienza; fondandosi sull’art. 612 la ricorrente denunciava la violazione del diritto ad

7 Per un commento critico delle norme CEDU e della giurisprudenza della Corte cfr. S. BARTOLE, B. CONFORTI, G. RAIMONDI, Commentario alla CEDU, Cedam, Padova, 2001. 8 L’art. 2 CEDU, rubricato “Diritto alla vita”, recita: “1. Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il reato sia punito dalla legge con tale pena. 2. La morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario: a. per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale; b. per eseguire un arresto regolare o per impedire l’evasione di una persona regolarmente detenuta; c. per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un’insurrezione”. 9 L’art. 3, rubricato “Proibizione della tortura”, recita: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. 10 L’art. 5, rubricato “Diritto alla libertà e alla sicurezza”, recita: “1. Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge...”. 11 L’art. 9, rubricato “Libertà di pensiero, di coscienza e di religione”, recita: “1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. 2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o de lla morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui”. 12 L’art. 6, rubricato “Diritto a un equo processo”, recita: “1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per

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un “fair hearing” di Sampedro presso le Corti interne; richiamando l’art. 813, segnalava l’interferenza dello Stato nella vita privata del cittadino, vista l’impossibilità di dare corso alle sue volontà, e si definiva ingiustificato e comunque sproporzionato tale divieto; tramite l’art. 1414 si contestava la discriminazione tra l’ammissibilità del suicidio e il divieto di suicidio assistito.

1.2 Il decisum della Corte EDU Senza entrare nel merito delle eccezioni sollevate dalla ricorrente, la Corte affronta il nodo

problematico della legittimazione ad agire dell’erede per diritti personalissimi del defunto. Fondandosi sull’art. 34 CEDU15 che richiede uno status di “vittima” per poter presentare

ricorso a Strasburgo, a prescindere dalle definizioni nazionali del concetto e valutando se il ricorrente sia realmente e direttamente affetto dalle misure impugnate, non essendo ammesse actiones populares, la Corte afferma che, ammesso anche che la signora sia stata colpita particolarmente dalla dolorosa vicenda, essa non può rivestire il ruolo di vittima. Essendo gli artt. 2, 3, 5, 6, 8, 9, 14 CEDU qualificati come “non transferable rights”, il ricorso è dichiarato inammissibile ex art. 3516 per incompatibilità ratione personae.

Con riguardo all’art. 6, i giudici segnalano che, dovendo la durata di un processo essere stimata in relazione alla complessità del caso, alla condotta dei ricorrenti e delle autorità statali, non risulta esserci stata alcuna inattività né un tempo eccessivamente lungo di durata della vicenda presso le Corti interne. Pertanto, nella fattispecie non si riscontra violazione dell’art. 6 e si dichiara l’inammissibilità a procedere nel merito.

2. IL CASO DIANE PRETTY v. REGNO UNITO, 29 aprile 2002 La sentenza Pretty v. UK17 costituisce l’incipit del dibattito in tema di fine vita affrontato dalla

Corte di Strasburgo, in quanto nel caso di specie la Corte entra nel merito delle questioni di fine vita.

legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti…”. 13 L’art. 8, rubricato “Diritto al rispetto della vita privata e familiare”, recita: “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”. 14 L’art. 14, rubricato “Divieto di discriminazione”, recita: “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”. 15 L’art. 34, rubricato “Ricorsi individuali”, recita: “La Corte può essere investita di un ricorso da parte di una persona fisica, un’organizzazione non governativa o un gruppo di privati che sostenga d’essere vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti contraenti dei diritti riconosciuti nella Convenzione o nei suoi protocolli…”. 16 L’art. 35, rubricato “Condizioni di ricevibilità”, al paragrafo 2 recita: “La Corte dichiara irricevibile ogni ricorso individuale presentato ai sensi dell’articolo 34 se ritiene che: a, il ricorso è incompatibile con le disposizioni della Convenzione o dei suoi Protocolli, manifestamente infondato o abusivo; b. il ricorrente non ha subito alcun pregiudizio importante, salvo che il rispetto dei diritti dell’uomo garantiti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli esiga un esame del ricorso nel merito e a condizione di non rigettare per questo motivo alcun caso che non sia stato debitamente esaminato da un tribunale interno”. 17 Caso Pretty v. Regno Unito, n. 2346/02, ECHR 2002-III [4 Sezione], Decisione del 29 aprile 2002.

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Diane Pretty, una cittadina inglese affetta da Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), malattia degenerativa del sistema neuro-motorio, e paralizzata quasi totalmente ma lucidissima, chiedeva che venisse concessa l’impunità al marito che l’avesse aiutata a suicidarsi, non essendo ella in grado di farlo da sé. La donna rinveniva nel divieto del suicidio assistito imposto dalla legge inglese (sezione 2 del Suicide Act del 196118) una violazione dei principi contenuti nella CEDU.

I giudici inglesi, per tre volte (Director of Public Prosecution, Divisional Court, House of Lords) le negavano tale facoltà, definendo l’aiuto al suicidio come reato, ritenendo che l’autorizzazione alla non perseguibilità del marito da parte del Director of Public Prosecution rappresentasse un eccesso di potere per quest’ultimo e richiamando la sacralità della vita intoccabile sia da parte di terzi sia da parte del titolare stesso. Nei giudizi interni, poi, si sosteneva l’impossibilità di trasformare meri desideri di morire in pretese giuridiche e si precisava che non vi era stata alcuna discriminazione tra soggetti in grado di compiere da sé il suicidio (legittimati a compierlo) e soggetti che necessitavano dell’aiuto di un terzo (e sottoposti al divieto), dal momento che il suicidio non era da intendersi come diritto ma come reato, anche se non perseguibile per ragioni logiche.

2.1 Le richieste di Diane Pretty Giunta dinanzi alla Corte europea, esauriti i gradi di giudizio interni, Pretty presentava

ricorso, affermando di essere vittima di una violazione dei diritti stabiliti dagli artt. 2, 3, 8, 9 e 14 della Convenzione.

In primo luogo, ella fondava il suo desiderio di morire sul dettato della disposizione

convenzionale che riconosce il diritto alla vita. Considerato che l’art. 2 CEDU, al § 2 e in determinate circostanze, autorizza lo Stato a violare il diritto alla vita del singolo, la tesi sostenuta dalla ricorrente era che analoga facoltà fosse attribuita al titolare stesso del bene giuridico protetto, permettendo a ciascuno di disporre della propria esistenza fisica. A suo dire, la norma in questione non proteggerebbe la vita in sé, ma il diritto alla vita, inteso come protezione dalle intrusioni di terzi e come riconoscimento di un diritto all’autodeterminazione individuale. Il diritto alla morte, dunque, verrebbe a collocarsi, non già in antitesi al diritto alla vita, ma quale suo corollario, coesistendo nell’art. 2 sia il diritto alla vita sia il “diritto negativo” a non vivere, ossia a morire nei tempi e modi che ognuno scelga.

In secondo luogo, Diane Pretty contestava la violazione dell’art. 3 della Convenzione, ritenendo che la sopravvivenza forzata potesse essere considerata, a tutti gli effetti, alla stregua di un trattamento inumano e degradante vietato dalla norma in questione. Leggendo nell’art. 3 non solo un obbligo “negativo” per lo Stato di astenersi dal compiere atti che possano essere qualificati come degradanti, ma contemporaneamente un obbligo “positivo” di prendere tutte le misure per evitare la tortura nei riguardi delle persone sottoposte alla sua giurisdizione, Pretty imputava alle autorità britanniche la responsabilità delle sue sofferenze, nel momento in cui le impedivano di procedere al suicidio assistito.

Una ulteriore violazione degli obblighi convenzionali, da parte del governo britannico, era rinvenuto dalla ricorrente relativamente all’art. 8 CEDU. Dal momento che il diritto alla autodeterminazione (derivante proprio dall’art. 8) conteneva in se stesso il diritto di prendere decisioni riguardanti il proprio corpo, specialmente quelle inerenti al modo di affrontare i momenti finali della vita, il divieto di dar corso alla sua volontà determinava, a parere di Pretty, una arbitraria ingerenza della pubblica autorità nella sua vita privata. Quand’anche tale

interferenza dovesse essere considerata giustificabile ai sensi dell’art. 8 § 2 CEDU, ad ogni modo

18 Suicide Act, Sezione 2, §1: “La persona che aiuta, incoraggia, consiglia o provoca il suicidio di un'altra persona, ovvero un tentativo di suicidio da parte di un’altra persona, sarà passibile di reclusione non superiore a quattordici anni”.

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le condizioni per ammetterla (principio di legalità, di finalità, di necessità nella società democratica, inclusivo del criterio di proporzionalità tra mezzi e fine perseguito) non potevano dirsi rispettati: infatti, la sezione 2 § 1 della legge del 1961, al contrario, comporta un divieto generalizzato del suicidio assistito, che non tiene conto delle particolari circostanze che possono averlo determinato.

Con riferimento all’art. 9 CEDU, la ricorrente sosteneva che il diritto alla libertà di pensiero fosse stato leso, impedendole di attuare il suo proposito e, infine, richiamando l’art. 14, ella avanzava una pretesa discriminazione di trattamento tra coloro che potevano suicidarsi da sé (impuniti) e coloro che avessero richiesto assistenza (puniti penalmente).

2.2 Le repliche del Governo britannico Ritenendo enucleato dall’art. 2 CEDU il principio di santità della vita, il Governo britannico

faceva innanzitutto notare come nella disposizione non si facesse alcuna menzione della facoltà di porre fine alla propria esistenza e come il diritto a morire fosse l’antitesi del diritto alla vita. Inoltre, si precisava che la situazione di Pretty non era riconducibile ai casi eccezionali di ammessa

violazione del diritto alla vita ex art. 2, § 2 CEDU e che, anzi, ammettere l’assistenza al suicidio significava ammettere l’interferenza di un terzo sulla vita personale del singolo.

Circa il richiamo all’art. 3, il Regno Unito replicava che l’intervento positivo dello Stato fosse richiesto nei casi di protezione di soggetti privati di libertà e soggetti a torture scaturite o aggravate da un atto dello Stato o di una pubblica autorità. Nulla di ciò si presentava nel caso di Pretty, al contrario assistita da cure mediche statali.

Neppure la vita privata era, poi, stata lesa, considerato che l’art. 8 si riferisce solo al modo di condurre la vita, non al modi di staccarsi da essa. E, in ogni caso, se anche l’interferenza fosse stata riscontrabile, essa era del tutto giustificata e proporzionata.

Il Governo, infine, rigettava le ipotesi di violazione dell’art.9, non potendo farsi derivare da un pensiero una pretesa giuridica, e quelle circa l’art. 14 CEDU.

2.3 La ratio decidendi della Corte EDU Esaminando la questione, la Corte ritiene che non si possa, se non ricorrendo ad una grave

forzatura del linguaggio normativo19, dedurre dall’art. 2 CEDU l’ammissibilità di un diritto alla morte e della facoltà di autodeterminazione, intesa nel senso di concedere la capacità all’individuo di scegliere la morte piuttosto che la vita. Inoltre, a suo giudizio, la disposizione non solo vieta agli Stati di privare della vita un soggetto posto sotto la loro giurisdizione, ma fa sorgere in capo ad essi anche il dovere di adottare ogni atto o misura operativa preventiva, necessaria a salvaguardare l’incolumità del singolo consociato.

Anche il ragionamento di Pretty circa l’art. 3 viene respinto, non essendo accolta la costruzione del concetto di “trattamento” (esteso all’assistenza al suicidio, il cui degrado sarebbe rappresentato dal divieto di autorizzazione all’assistenza). Inoltre, le sofferenze derivanti da una malattia, per rientrare nell’ambito dell’art. 3, devono comunque provenire da un atto dello Stato o di una pubblica autorità e ciò non è ravvisabile nel caso di specie, essendo le condizioni della ricorrente determinate esclusivamente dalla patologia e non imputabili ad un comportamento (attivo o passivo che fosse) del Governo britannico.

Inoltre, pur essendo la Convenzione uno “strumento di diritto vivente” (living instrument)20 e pur essendo ammessa un’interpretazione innovativa dei suoi articoli, non è concepibile una lettura che consideri tra loro contraddittori due principi fondamentali, dovendo la Corte seguire la coerenza della Convenzione come sistema di protezione dei diritti fondamentali. Pertanto, avendo

19 § 59 della sentenza. 20 § 54 della sentenza.

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escluso che, ai sensi dell’art. 2, fosse configurabile il diritto alla morte quale riflesso del diritto alla vita, il combinato disposto degli artt. 2 e 3 porta a rifiutare l’interpretazione che l’obbligo positivo incluso nel divieto di trattamenti inumani o degradanti si estenda all’aiuto ai suicidio21.

Passando all’eccezione circa l’art. 8, i giudici premettono che la nozione di “vita privata” mal si presta ad una definizione esaustiva, potendo abbracciare diversi aspetti della sfera intima di un soggetto (dall’integrità fisica al modo di interagire con gli altri, passando per le abitudini sessuali). Nonostante la difficoltà di inquadrare il contenuto della norma, i giudici lapidariamente affermano che la nozione di “personal autonomy”22 è un principio importante nell’interpretazione delle garanzie contenute nell’art. 8 e che esso statuisce il diritto di gestire liberamente la propria vita, includendo anche la facoltà di compiere atti ritenuti fisicamente o moralmente dannosi, o di natura pericolosa per l’individuo interessato. Le imposizioni statali riferite alle condotte di vita sono, quindi, di per sé un’interferenza nella vita privata dei soggetti (ex art. 8 § 1). E se tra esse rientra pure l’imposizione di un trattamento medico senza consenso, di conseguenza il divieto del suicidio assistito rappresenta una potenziale ingerenza nella vita del singolo e nella sua integrità fisica, “engaging the rights under article 8 § 1”23. Senza negare la santità della vita, la Corte dà rilievo alla nozione di “qualità della vita”, inserita implicitamente nell’art. 8 CEDU, da leggersi nel contemperamento dei due assi portanti dell’intera Convenzione, vale a dire il rispetto della dignità umana e la libertà individuale.

Sebbene la Corte riconosca il rilievo della violazione del’art. 8 § 1, essa ammette tali

intrusioni nella privacy a norma del § 2 del medesimo articolo. Dovendo l’interferenza essere prevista per legge, avere una chiara finalità e mezzi

proporzionati, il Regno Unito nella sez. 2 del Suicide Act ha rispettato le condizioni richieste: la norma è chiara, precisa, accessibile, è statuita la sua finalità di rispetto della vita ed è data tutela ai più deboli e vulnerabili, soprattutto a coloro che non sono in grado di prendere decisioni pienamente consapevoli riguardo agli atti destinati a porre fine alla loro vita. La protezione accordata trova, perciò, il suo fondamento nella vulnerabilità della categoria dei malati terminali, per la quale il bisogno di tutela pesa maggiormente di quello di assicurare il principio della libera scelta.

Ne consegue che la natura generale del divieto del suicidio assistito non è sproporzionata, anche perché una certa elasticità è resa possibile in casi particolari: in primo luogo, le azioni penali non potrebbero essere intentate se non con l’accordo del Director of Public Prosecution; in secondo luogo, essendo prevista solo una pena massima, il giudice, tenuto conto delle peculiarità dei casi concreti, potrebbe infliggere pene meno severe laddove egli lo reputi appropriato.

I giudici di Strasburgo, quindi, ritengono che la legge britannica abbia compiuto un adeguato bilanciamento tra esigenze pubbliche e private e che, in ogni caso, il margine di apprezzamento statale venga in rilievo nella complessa materia.

Relativamente alla pretesa violazione dell’art. 9, la Corte di Strasburgo afferma che non tutte le manifestazioni di credo religioso sono tutelate dalla CEDU e che le pretese della signora Pretty non possono essere considerate tali, essendo piuttosto espressione del principio di libera scelta rientrante nella capacità di autodeterminazione, già valutata ai sensi dell’art. 8.

Infine, con riguardo all’art. 14, il Tribunale europeo dichiara che inserire nella normativa in questione una eccezione che garantisca la possibilità di suicidarsi alle persone inabili farebbe aumentare notevolmente il rischio di abusi e che, comunque, nello specifico, non vi sia alcuna

21 § 55 della sentenza. 22 § 74 della sentenza. 23 § 63 della sentenza.

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discriminazione, poiché la condizione del malato abile e quella del disabile non sono tra loro assimilabili.

Alla luce di tutte queste considerazioni, dunque, la Corte rigetta il ricorso di Pretty, non sussistendo alcuna violazione della CEDU.

2.4 Brevi riflessioni a margine della sentenza della Corte EDU sul caso Pretty Nell’affrontare la intricata questione sottoposta al suo giudizio, la Corte di Strasburgo non si

esime dal manifestare il suo imbarazzo24 e dal rendere noto come sia la prima volta che simili situazioni si pongono alla sua attenzione. Nonostante ciò, la Corte affronta sistematicamente le eccezioni avanzate dalla ricorrente e, lungo tutta la lettura della sentenza, emerge il tentativo dei giudici di soppesare gli interessi “in campo” e di evitare estremistiche prese di posizione a favore dell’uno o dell’altro schieramento, cercando un contemperamento tra essi. Tale impostazione metodologica, seppur comprensibile, considerata l’esigenza della Corte di porsi come organo di tutela dei diritti fondamentali dinanzi a una pluralità di legislazioni (47 sono gli Stati membri del Consiglio d’Europa), rischia, però, di far apparire la Corte a tratti contraddittoria.

Se in merito all’art. 2 essa manifesta il rifiuto di intendere il diritto alla vita come inclusivo del diritto a morire e all’autodeterminazione del soggetto circa la propria morte, dichiarando di attenersi ad una interpretazione rigidamente letterale e di non ammettere distorsioni di linguaggio, successivamente in riferimento all’art. 3 rivela il suo approccio necessariamente flessibile e dinamico nell’interpretare la Convenzione quale “living instrument” e riguardo all’art. 8 enuncia a chiare lettere come la scelta di condurre la vita secondo le proprie scelte includa anche la possibilità di compiere attività percepite come dannose a livello fisico. Fondando il diritto di autodeterminazione e di consenso alle cure (incluso il diritto al rifiuto di esse) sull’art. 8, fondato sui fondamentali principi di dignità umana e di libertà individuale, la Corte sottolinea l’importanza del concetto di “qualità della vita”. Tuttavia, essa afferma contemporaneamente di non voler affatto negare la “sacralità della vita” e, nel far ciò, cerca di “assemblare” e “fondere” le diverse prospettive delle due principali correnti bioetiche in tema di fine vita (bioetica cattolica e laica).

Queste affermazioni, a una prima analisi, potrebbero sembrare in contraddizione e palesare una volontà della Corte di non schierarsi né per l’una né per l’altra corrente; d’altro lato, esse potrebbero, invece, costituire il tentativo di abbandonare ogni ragionamento in chiave puramente dicotomica, ricercando una complementarietà tra le due posizioni e affrontando il caso non in senso aut/aut, ma in senso et/et.

La difficoltà di perseguire tale obiettivo rimane comunque forte, come dimostra il fatto che la Corte alla fine si rimette al margine di apprezzamento statale, deliberando che la questione sia un affare interno dello Stato membro coinvolto. Non si può, ad ogni modo, dimenticare che la CEDU per sua natura intende offrire standard minimi di tutela, lasciando ai singoli Stati il compito di disciplinarne la protezione, come suggerito da Pierre-Henry Teitgen, uno dei padri fondatori

24 Tale disagio è accentuato dalla scarsità della giurisprudenza relativa a casi simili a quello trattato. Non a caso, la Corte prende quale punto di riferimento un caso dibattuto davanti alla Corte Suprema del Canada (Rodriguez v. Colombia britannica – Procuratore generale - [1993] 3 R.C.S.), nel quale la ricorrente, Sue Rodriguez, affetta anch’essa da SLA, chiedeva che il suo medico fosse autorizzato a costruire un macchinario mediante il quale essa avrebbe potuto darsi la morte nel momento in cui avrebbe voluto. Essa, pertanto, domandava alla Corte Suprema un’ordinanza che dichiarasse la disapplicazione dell’articolo 241 b) del codice penale canadese che ha una formulazione simile a quella dell’art. 2 § 1 del Suicide Act, in quanto contrario agli artt. 7 (diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza), 12 (diritto alla protezione contro i trattamenti crudeli) e 15 (diritto all’uguaglianza e alla non discriminazione) della Carta Canadese dei diritti e delle libertà. La Corte suprema ha rigettato la domanda, ritenendo che la previsione del c.p. rappresentasse un “limite ragionevole” che si giustificava nell’ambito di una “società democratica”.

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della CEDU25. E, quanto più le materie si fanno complesse e non c’è un chiaro consenso in Europa (come nelle questioni di fine vita), tanto più il margine di apprezzamento si allarga e trova spazio, in ottemperanza a quanto affermato dalla Corte stessa nel caso Rasmussen, ove si precisa che il margine di apprezzamento varia in relazione “alle circostante del caso di specie; alla materia, ossia la natura del diritto leso; al contesto, inteso come contesto sociale e culturale…; alla sussistenza di un comune denominatore tra le legislazioni degli Stati membri come fattore potenzialmente rilevante, anche se meramente eventuale”26.

Nel richiamare il margine di apprezzamento, che implica il riconoscimento in capo agli Stati contraenti di uno spazio di autodeterminazione discrezionale, nel quale gli stessi sono liberi di scegliere le modalità e i mezzi con cui dare attuazione nel proprio ordinamento alle obbligazioni che sorgono dall’adesione alla Convenzione27, la Corte rende così possibile per gli Stati scegliere se promuovere o meno legislazioni in tema di suicidio assistito (ammettendone il divieto purché rispettoso delle condizioni previste dalla CEDU) e di eutanasia passiva (dal momento che la Corte enuclea il principio del consenso al trattamento sanitario e anche il diritto al rifiuto dei trattamenti, sembra lecita una legislazione che ammetta la morte per mancata attivazione o interruzione di ogni intervento medico terapeutico28). In poche parole, la Corte ammette contemporaneamente sia che il suicidio assistito sia vietato sia che l’eutanasia passiva fondata sul principio del consenso e dell’autodeterminazione sia riconosciuta negli Stati del Consiglio d’Europa.

Aspetti di criticità permangono circa l’art. 14 CEDU, in riferimento al quale la Corte ritiene che la condizione dei malati terminali sia di per sé vulnerabile: dal momento che Pretty era completamente lucida di mente, anche se in condizione di prostrazione fisica, forse il concetto di “vulnerabilità” richiederebbe maggiore approfondimento, in quanto la Corte non sembra distinguere all’interno della categoria dei malati terminali tra coloro che sono capaci di intendere e volere e coloro che non lo sono, definendoli tout court vulnerabili.

3. IL CASO ADA ROSSI E ALTRI v. ITALIA, 16 dicembre 2008 Surrettiziamente ricondotto al tema dell’eutanasia è anche il ricorso presentato da otto

soggetti (individui e associazioni non lucrative di utilità sociale) contro l’Italia in relazione alla decisione della Corte d’Appello di Milano (25 giugno 2008)29 e della Cassazione (11 novembre 2008)30 sul caso di Eluana Englaro31.

25 Afferma Pierre-Henry Teitgen: “una Convenzione internazionale stabilirà la lista delle libertà garantite e la loro definizione generale. Ogni paese, mediante la sua legislazione, fisserà delle condizioni secondo le quali queste libertà garantite saranno esercitate sul suo territorio e, nel fissare le condizioni pratiche di funzionamento delle libertà garantite, ogni paese disporrà di un’ampia libertà di apprezzamento” (intervento tenuto durante dell’Assemblea Consultiva del Comitato dei Ministri, nel corso dei lavori preparatori alla stesura della Convenzione, 1949. Cfr. AA.VV., Aux sources de la Cour et de la Convention européenne des droits de l’homme, Editions confluences, 2000, p. 23). 26 § 40 della sentenza nel caso Rasmussen v. Danimarca, n. 8777/79, ECHR 1984, [Court, Chamber], Decisione del 28 novembre 1984. 27 Per la dottrina del margine di apprezzamento statale e le sue variabili, cfr. R. SAPIENZA, Sul margine d’apprezzamento statale nel sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. internaz., 1991, fasc. 3, 574; F. DONATI, P. MILAZZO, La dottrina del margine di apprezzamento nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in P. FALZEA, A. SPADARO, L. VENTURA (A CURA DI), La Corte costituzionale e le Corti d’Europa, Atti del seminario svoltosi a Capannello (CZ) il 31 maggio-1 giugno 2002, Torino, 2003, 66. 28 Cfr. L. SALVATO, Norme interne e norme CEDU: poteri e compiti del giudice comune, Relazione all’incontro di studi su “Il sistema integrato delle fonti e la giurisprudenza delle Corte europea dei diritti dell’uomo”, 2009, in Cosmag, 19, nota 57. 29 Corte d’Appello di Milano, I sezione civile, 25 giugno 2008, R.G. n. 88/2008. 30 Sentenza Cassazione SS. UU. Civili, n. 27145/2008.

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Ritenendo di essere titolari di diritti e portatori di interessi collettivi riferiti alle persone in stato vegetativo permanente, i ricorrenti (soggetti in stato vegetativo paragonabile a quello in cui si trovava Eluana, rappresentati dai loro tutori legali; rappresentanti di associazioni di aiuto a pazienti in condizioni analoghe e una Organizzazione non governativa) lamentavano il fatto che l’esito del caso Englaro – con l’autorizzazione a sospendere l’alimentazione della donna in stato vegetativo come richiesto dal padre, suo tutore legale, in attuazione di una volontà conforme della figlia riconosciuta valida ed espressa dalla donna quando era in possesso delle proprie facoltà – li danneggiasse direttamente (così come altri individui in condizione analoghe), in quanto li esponeva al rischio che misure analoghe fossero adottate nei loro confronti. Invocando gli artt. 2 e 3 CEDU, i ricorrenti ritenevano che tali prescrizioni fossero contrarie al loro diritto alla vita (sia pure in condizioni gravemente limitate) e a non subire trattamenti inumani. Inoltre, lamentavano una violazione dell’art. 6, affermando che le decisioni della Corte d’Appello e della Cassazione fossero contrarie all’equità e illegittime, non avendo effettuato una nuova verifica della volontà di Eluana. Denunciavano, infine, la lesione degli artt. 5, 6, 7 della Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo nella biomedicina32, nonché l’art. 25 della Convenzione ONU sui diritti delle persone disabili33.

Il ricorso è stato considerato irricevibile dalla Corte per mancanza in capo ai ricorrenti della qualità di vittime, richiesta dall’art. 34 CEDU. I giudici di Strasburgo ribadiscono, analogamente al caso Sanles Sanles, che avanti alla Corte non sono ammesse actiones populares, è richiesta una violazione diretta dei diritti e non azioni preventive di possibili lesioni, in quanto solo in casi eccezionali il rischio di una violazione futura può comunque conferire ad un candidato la qualifica di vittima di una violazione della CEDU. Dal momento che i ricorrenti (persone fisiche) non hanno alcun rapporto diretto o legame familiare con Englaro e considerato che le menzionate sentenze dei tribunali italiani riguardano solo le parti in causa, la qualità di “vittima” non è riscontrabile nei riguardi delle persone fisiche ricorrenti. La Corte precisa, poi, che la sentenza della Corte d’Appello di Milano non ha ordinato l’interruzione dell’alimentazione e idratazione artificiali, ma ha solo dichiarato legittima l’autorizzazione concessa al padre della ragazza. Anche il carattere di vittima potenziale è assente, mancando la prova ragionevole e convincente di essere stati lesi dallo Stato italiano ed essendoci, invece, solamente congetture e sospetti vaghi.

Con riguardo ai ricorrenti persone giuridiche, la Corte specifica che può essere considerata quale “vittima” una associazione che sia diretta destinataria del provvedimento impugnato o

31 Caso Ada Rossi and Others (Vi.Ve Onlus, Federazione Nazionale Associazioni Trauma Cranico, Arco 92, Gli amici di Luca et Genesis, Associazione Rinascita Vita Onlus, Associazione ACMID-Donna Onlus, Lucia Zoppis, Juan Francisco Hernandez Silveira, Gautam Marcello Pigozzi, Patrick Muzzurru, Gianluca Cioffarelli) v. Italy, n. 55185/08, 55483/08, 55516/08, 55519/08, 56010/08, 56278/08, 58420/08 e 58424/08, ECHR [Sezione 10], Decisione del 16 dicembre 2008. 32 Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina (Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina), Oviedo, 1997. L’art 5 contempla la regola generale del consenso libero e informato al trattamento sanitario; l’art. 6 sulla protezione delle persone che non hanno la capacità di dare consenso esclude che un intervento possa essere compiuto su una persona che non ha capacità di dare consenso, se non per un diretto beneficio della stessa o tramite autorizzazione del suo rappresentante, di un’autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge; l’art. 7 menziona la tutela delle persone che soffrono di un disturbo mentale. 33 La Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, adottata il 13 dicembre 2006 durante la Sessantunesima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione A/RES/61/106, all’art. 25, rubricato “Salute”, recita: “Gli Stati Parti riconoscono che le persone con disabilità hanno il diritto di godere del più alto standard conseguibile di salute, senza discriminazioni sulla base della disabilità. Gli Stati Parti devono prendere tutte le misure appropriate per assicurare alle persone con disabilità l’accesso ai servizi sanitari che tengano conto delle specifiche differenze di genere, inclusi i servizi di riabilitazione collegati alla sanità…”.

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comunque investita di lesioni ai diritti propri o dei soci. Essendo assenti questi requisiti, anche in riferimento alle ONLUS i giudici dichiarano l’irricevibilità del ricorso.

Pertanto, ai sensi dell’art. 35, il ricorso è irricevibile ratione personae. Infine, le eccezioni in merito all’art. 6 sono inconsistenti e manifestamente infondate, non

potendo i ricorrenti contestare un procedimento che non li riguarda.

4. IL CASO ERNST HAAS v. SVIZZERA, 20 gennaio 2011 La Corte europea dei diritti dell’uomo torna ad occuparsi delle questioni del fine vita in una

recente sentenza relativa al caso Haas34, sentenza nella quale entra nel merito come già aveva fatto nel caso Pretty.

Quasi dieci anni sono passati dalla prima sentenza in cui la Corte aveva manifestato tutte la sua difficoltà a prendere posizione sulla materia. Anche in questa occasione, essa riprende gli argomenti già adottati, ma l’evoluzione dei costumi e il contesto normativo del tutto diverso (in tal caso la Corte ha dinanzi a sé la legislazione svizzera) producono i loro effetti, tanto che il Tribunale europeo appare più solido nella motivazione e i toni adottati sono meno sfumati di quanto accaduto in precedenza.

Il caso concerne un cittadino svizzero, Ernst Haas, affetto da oltre vent’anni da una sindrome affettiva bipolare, il quale aveva tentato più volte di suicidarsi ed aveva trascorso vari periodi di soggiorno presso cliniche psichiatriche. Determinato a portare a termine il proposito di porre fine alla propria vita, si era rivolto a numerosi psichiatri per ottenere la prescrizione di pentobarbitale sodico, una sostanza che, in una determinato dosaggio, gli avrebbe consentito di morire in modo sicuro e indolore.

A fronte del diniego, proponeva numerosi ricorsi in sede amministrativa, dapprima all’Ufficio federale di Giustizia (definitosi incompetente), poi all’Ufficio federale di Sanità pubblica, quindi alla Direzione sanitaria del Cantone di Zurigo, nonché al Dipartimento federale degli Interni. Tutti rigettavano la sua domanda di ottenere dalle autorità sanitarie la sostanza in questione anche in mancanza di una prescrizione medica, non versando il ricorrente in condizioni di urgenza.

Haas allora si rivolgeva all’autorità giurisdizionale, lamentando la lesione della libertà individuale sancita dall’art. 10 della Costituzione svizzera35 e del diritto al rispetto della vita privata garantito dall’art. 8 CEDU.

Nel novembre 2006 il Tribunale federale rigettava il ricorso, operando una distinzione tra il diritto all’autodeterminazione, che ai sensi dell’art. 8 CEDU include il diritto dell’individuo a

decidere quando e in che modo porre fine alla propria vita (salva l’interferenza statale ex § 2), e un – inesistente – diritto a ottenere l’assistenza al suicidio da parte dello Stato o di terzi. Il Tribunale specificava che sullo Stato gravava l’obbligo fondamentale di proteggere la vita (ai sensi dell’art. 2 CEDU), ragion per cui, se anche doveva radicalmente escludersi che tale obbligo potesse essere fatto valere contro la volontà espressa di una persona capace di autodeterminarsi, ciò non portava a negare che lo Stato medesimo dovesse adottare procedure idonee a verificare che la scelta di suicidarsi fosse libera ed esprimesse realmente la volontà dell’interessato. Non veniva, quindi, negata la libertà di suicidarsi, ma si sottolineava l’importanza di ancorare tale scelta a precise

34 Caso Haas v. Svizzera, n. 31322/07, ECHR 2011 [Sezione 1], Decisione del 20 gennaio 2011. 35 L’art. 10 della Cost. svizzera, rubricato “Diritto alla vita e alla libertà personale”, recita: “1. Ognuno ha diritto alla vita. La pena di morte è vietata. 2. Ognuno ha diritto alla libertà personale, in particolare all’integrità fisica e psichica e alla libertà di movimento. 3. La tortura nonché ogni altro genere di trattamento o punizione crudele, inumano o degradante sono vietati”.

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condizioni. Mentre il caso deciso dalla Corte EDU con la sentenza Pretty riguardava la garanzia dell’impunità per chi avesse prestato al ricorrente assistenza al suicidio, la vicenda sottoposta da Haas all’attenzione del Tribunale concerneva la sussistenza in capo agli Stati firmatari dell’obbligo positivo, derivante dall’art. 8 CEDU, di fare in modo che il ricorrente potesse porre fine alla propria vita in modo sicuro e indolore ottenendo a tal scopo, in deroga alla legge, una sostanza che poteva essere somministrata solo su prescrizione medica. E un simile obbligo positivo non poteva essere desunto dall’art. 8 CEDU; inoltre, la necessità della prescrizione medica

rappresentava un’interferenza giustificabile ex art. 8 § 2 CEDU, essendoci una base legale chiara e accessibile, il fine espresso della protezione della sanità pubblica, la proporzionalità derivante dal fatto che la misura era stata scelta in adesione alle regole di deontologia medica e sulla base di un esame medico condotto sul paziente per verificare la sua capacità di discernimento e la sua libera volontà di morire assumendo la sostanza.

In seguito alla pronuncia del Tribunale federale, il ricorrente inviava a 170 psichiatri della zona in cui risiedeva una lettera nella quale esponeva il proprio fermo proposito di suicidarsi e chiedeva che gli fosse effettuata una perizia psichiatrica per poter così ottenere la somministrazione della sostanza.

Non avendo ricevuto alcuna risposta positiva (alcuni psichiatri interpellati avevano opposto un rifiuto per mancanza di tempo e/o delle competenze necessarie, altri per ragioni etiche, altri ancora perché convinti che la malattia da cui egli era affetto potesse essere trattata), il sig. Haas di rivolgeva alla Corte europea di Strasburgo.

4.1 Le richieste di Ernst Haas Presso la Corte EDU, il ricorrente incentrava il ricorso unicamente sulla violazione dell’art. 8

CEDU, lamentando la violazione del suo diritto al rispetto della vita privata nella misura in cui l’impossibilità di trovare uno specialista disposto a effettuare la perizia psichiatrica aveva reso tale diritto del tutto illusorio. Ritenendo che l’assunzione di pentobarbitale sodico fosse l’unica modalità per un suicidio degno, sicuro, rapido e indolore, Haas rigettava ogni nuova terapia e si riteneva legittimato a farlo in virtù del principio di autodeterminazione, fondato proprio sull’art. 8. Inoltre, egli denunciava che l’avvio nel corso degli anni di diverse indagini penali nei confronti di molti medici che avevano prestato assistenza al suicidio ai malati aveva condizionato la scelta dei terapeuti e frenato anche quelli che altrimenti avrebbero dato una risposta positiva alla sua istanza.

Contestava, poi, la mancanza di giustificazioni di sanità pubblica nella norma che richiedeva la prescrizione medica per il rilascio della sostanza e affermava che la sua volontà di suicidarsi fosse ben chiara alla luce dei tentativi di suicidio già commessi.

4.2 Le eccezioni del Governo svizzero Il Governo replicava osservando innanzitutto che la malattia del ricorrente non gli impediva

di agire manu propria e che esistevano altri modi per porre fine alla propria vita, non trovandosi Haas in condizioni di prossimità alla morte.

In secondo luogo, si rammentava che la legislazione svizzera in tema di aiuto al suicidio fosse assai più permissiva di quella della gran parte degli Stati del Consiglio d’Europa e che la restrizione all’accesso alla sostanza di cui il ricorrente avrebbe voluto servirsi si fondava su una adeguata base legale, perseguiva il fine legittimo di protezione della salute e della sicurezza pubblica unitamente a quello della prevenzione dei reati e non valicava i limiti della necessità e della proporzione.

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Posto che la legislazione svizzera non vieta l’aiuto al suicidio (se non per fini egoisti, ex art. 115 codice penale)36, l’esecuzione di esso in riferimento ai malati psichici è pure ammessa, purché ancorata al corretto espletamento di alcune verifiche, quali una perizia psichiatrica completa e approfondita, dal momento che, per la psichiatria, gli istinti suicidi sono il sintomo di una malattia psichica, e dunque è indispensabile distinguere tra la volontà di porre fine alla propria vita come espressione di un disturbo patologico e la volontà di suicidarsi come scelta libera, autonoma e duratura.

In riferimento all’accesso effettivo a tale perizia, il Governo rilevava come, da un lato, non si sapesse in base a quali criteri il ricorrente avesse individuato i 170 medici destinatari della lettera e, dall’altro, come il suo rifiuto preventivo di qualsiasi terapia avesse certamente avuto un peso determinante nella risposta negativa data da questi ultimi.

Circa la critica che i procedimenti penali aperti nei confronti dei medici avessero condizionato la risposta degli psichiatri interpellati, il Governo replicava che si era trattato di casi in cui l’operato del medico era affetto da errori manifesti o si caratterizzava per una assoluta superficialità.

In conclusione, non poteva affermarsi che il diritto del ricorrente a morire in modo dignitoso fosse “teorico o illusorio”, come questi sosteneva.

4.3 La sentenza della Corte EDU La Corte riprende l’orientamento già espresso nel caso Pretty per affermare che “il diritto di un

individuo di decidere quando e in che modo porre fine la propria vita, a condizione che egli sia in condizione di orientare liberamente la propria volontà a tal fine e di agire di conseguenza, è uno degli aspetti del diritto al rispetto della vita privata ai sensi dell’art. 8 della Convenzione”37.

Dopo aver ribadito che la nozione di privacy è molto ampia e non esaustiva e che, non di meno, le questioni del fine vita poggiano sulla menzionata disposizione CEDU, la Corte opera una distinzione tra il caso Haas e il caso Pretty. Mentre nella precedente vicenda l’oggetto della decisione riguardava il diritto a porre fine alla propria vita e all’eventuale possibilità di sottrarre all’area del penalmente rilevante la condotta di chi avesse prestato aiuto all’aspirante suicida, nella fattispecie in esame la richiesta centrale concerne l’istanza che lo Stato adotti tutte le misure necessarie ad assicurare che un soggetto, in deroga alla legislazione, possa ottenere sostanza di pentobarbitale senza prescrizione medica; inoltre, il ricorrente non solo sostiene che la propria vita sia difficile e dolorosa, ma anche che non possa affrontare un suicidio dignitoso senza la sostanza per cui l’ordinamento svizzero richiede la prescrizione medica; infine, contrariamente a Pretty, il ricorrente non è affetto da una malattia degenerativa incurabile che gli impedisca di porre materialmente fine alla propria vita da sé.

L’interrogativo centrale, come sottolineato dal Tribunale federale svizzero, è, dunque, formulato nei seguenti termini: esiste l’obbligo positivo per lo Stato, derivante dall’art. 8, di assumere le misure necessarie a permettere un suicidio dignitoso?

La Corte di Strasburgo premette che la Convenzione va letta “comme un tout”38: ciò significa che l’art. 8 va bilanciato e letto congiuntamente all’art. 2 CEDU, dal quale si fa discendere l’obbligo in capo a ciascuno Stato membro di impedire che una persona sottoposta alla sua giurisdizione ponga fine alla propria vita se la sua decisione non è libera e consapevole.

36 L’art. 115 del codice penale svizzero subordina la rilevanza penale dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio alla circostanza che l’autore del reato sia stato mosso da un motivo egoistico, ricollegandovi in tal caso una pena pecuniaria o una pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni. 37 § 51 della sentenza. 38 § 54 della sentenza.

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Pertanto, da un lato l’art. 8 riconosce il diritto all’autodeterminazione, dall’altro l’art. 2 impone che tale scelta sia sorretta da una volontà libera e consapevole.

La Corte, poi, richiama il margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati membri, il quale gioca un ruolo fondamentale nell’individuare il punto di equilibrio fra i due interessi in conflitto (vita privata/autodeterminazione e tutela della vita), soprattutto nei casi, come quello presente, in cui sussistono enormi difformità di normative tra gli Stati del Consiglio d’Europa. Rilevando, infatti, tramite un’analisi comparatistica che le soluzioni adottate dagli Stati in materia di fine vita sono assai diverse, i giudici di Strasburgo si appellano al margine di apprezzamento statale, considerandolo molto ampio in questa materia.

Nel fare applicazione dei suddetti principi al caso di specie, il collegio giudicante valuta la liberale legislazione svizzera, per concludere che il regime di autorizzazione medica previsto per la

concessione della sostanza in questione risponde alle condizioni richieste dall’art. 8 § 2 CEDU. Le prescrizioni, infatti, rappresentano una base legale certa, perseguono il fine legittimo di evitare decisioni precipitose e di prevenire gli abusi e la clandestinità (in particolare, di impedire che un individuo incapace di intendere e volere ottenga una dose mortale della stessa).

Inoltre, in merito alla questione dell’accesso effettivo a una perizia psichiatrica, la Corte non esclude che gli psichiatri si siano mostrati reticenti di fronte alla richiesta di prescrizione di una sostanza mortale e che la minaccia di sottoposizione a sanzioni penali abbia potuto esercitare sugli stessi l’effetto di scoraggiarli di collaborare ai propositi suicidi del ricorrente. Tuttavia, i giudici ritengono che le obiezioni del Governo – secondo cui le modalità di redazione della lettera erano tali da scoraggiare l’intervento degli psichiatri – siano condivisibili. Eppure, avendo riconosciuto il diritto di Haas a morire degnamente, la Corte deduce che tale diritto non è illusorio e teorico, ma certo, sebbene non sia stato rinvenuto alcuno psichiatra disponibile a compiere la perizia.

In conclusione, anche a voler supporre che gli Stati abbiano un obbligo positivo di adottare le misure idonee a facilitare un suicidio dignitoso, le autorità svizzere non hanno violato tale obbligo nel caso di specie, ottemperando correttamente nel margine di apprezzamento loro concesso.

4.4 Il punto a cui è giunta la Corte EDU in tema di fine vita: un bilanciamento

possibile? Il ragionamento svolto dalla Corte nel caso Haas risulta indubbiamente più maturo rispetto

alle “timide” affermazioni del caso Pretty. Innanzitutto, il discorso del Tribunale di Strasburgo si incentra sull’art. 8 CEDU e il fatto che

il diritto all’autodeterminazione (comprensivo del diritto individuale a scegliere come forgiare liberamente la propria volontà, anche in riferimento al fine vita) sia fondato su tale norma risulta un dato ormai pacifico e indiscutibile.

L’aspetto più innovativo è senza dubbio offerto dal bilanciamento che la Corte opera e indica come possibile via per affrontare in termini equilibrati e ponderati la materia: i giudici, infatti, adottando una interpretazione sistematica della Convenzione (vista “come un tutt’uno”), sottolineano l’importanza di tenere in debita considerazione non solo l’art. 8, ma anche l’art. 2. Se, dunque, nel caso Pretty la Corte aveva già manifestato la volontà di cercare un bilanciamento, evitando le “scivolature” in senso dicotomico a favore dell’una o dell’altra “corrente” bioetica e biogiuridica, nella vicenda Haas essa sembra approdare a una più chiara comprensione dei termini della questione e offrire altresì una possibile strada operativa.

A differenza della sentenza sul caso Pretty, in cui i giudici di Strasburgo si erano dichiarati impossibilitati a riconoscere un diritto di morire come postulato del diritto alla vita e discendente da esso, nel caso Haas essi riconoscono senza timore che l’autodeterminazione include anche il

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diritto a scegliere come concludere la propria vita e trovano fondamento per tale pretesa non solo nell’art. 8, ma anche nell’art. 2 CEDU. È questa una novità nel dettato sovranazionale giurisprudenziale. E vi è di più. La Corte non si limita ad affermare tale diritto, bensì cerca al contempo di conferirgli idonee garanzie e di soppesare gli interessi in gioco. Di qui un “no” secco all’autodeterminazione scevra da ogni limite, così come un “no” alla negazione del diritto di scelta sulla morte. Distanziandosi dall’uno e dall’altro modello, la Corte offre una “terza via”, che parta dal principio di autodeterminazione e di dignità, e tenga conto anche della necessità di tutelare la vita. E il “grimaldello” che può permettere il bilanciamento delle due esigenze è rappresentato dall’indicazione dei requisiti che la volontà deve possedere per essere ammessa la decisione di scegliere la morte piuttosto che la vita: deve trattarsi di una volontà chiara, consapevole, libera e cosciente.

Mentre nel caso Pretty la Corte si era trovata dinanzi ad una legislazione “sbilanciata” a favore della vita e aveva dovuto elaborare il principio di autodeterminazione fondato sull’art. 8, nel caso Haas essa ha a che fare con una normativa che tende a favorire simile principio e pertanto la Corte sente il bisogno di rammentare il valore dell’art. 2 e della tutela della vita che, accordata al principio di autodeterminazione, conferisce al medesimo il “valore aggiunto” della volontà libera e cosciente.

Così facendo, i giudici rivedono la loro precedente giurisprudenza, interpretando la CEDU e i Protocolli addizionali – come si precisa al § 55 della sentenza Haas - “alla luce delle condizioni del giorno d’oggi”, con ciò manifestando una chiara adesione per un’interpretazione evolutiva della Convenzione che, se nel caso Pretty era affermata sommessamente (nel riferimento al “living instrument”) e si raccomandava soprattutto di evitare ogni distorsione di linguaggio (preferendo, quindi, una interpretazione strettamente letterale della Carta), nel caso Haas appare palesemente preferita.

4.5 Note critiche alla sentenza Haas Il rilievo della sentenza Haas nell’individuazione del bilanciamento tra autodeterminazione e diritto alla vita è senza dubbio fondamentale, così come l’attenzione per l’interpretazione evolutiva della Convenzione e il tentativo di dare una “linea comune” di armonizzazione alle diverse legislazioni europee in materia. Tuttavia, alcune criticità si osservano nella parte in cui la Corte dal semplice fatto di aver formulato il diritto a scegliere modi e tempi della morte deduce che tale diritto sia anche effettivo, concreto e non illusorio, come se l’affermazione astratta e l’applicazione pratica di un diritto coincidessero. Inoltre, la sentenza non risponde alla domanda se sussista un’obbligazione positiva dello Stato a permettere il suicidio dignitoso. La Corte, forse spaventata dalla sua stessa domanda, si limita a ritenere legittima la legislazione svizzera e ad affermare rapidamente che, anche se essa rappresentasse un’interferenza nella vita privata, essa sarebbe giustificabile e proporzionata, senza entrare troppo nello specifico, ma preferendo segnalare che una legislazione che si ponga all’avanguardia in una data materia (come nel caso della Svizzera) è chiamata a perseguire un adeguato bilanciamento degli interessi, in linea con quanto già affermato nel caso S. and Marper a proposito del ruolo di pioniere della Gran Bretagna nella istituzione di una banca nazionale forense del DNA, ruolo a fronte del quale è richiesta una particolare assunzione di responsabilità nella ricerca di equilibrio39. Alla possibilità di un’obbligazione positiva in tal senso vi è solo un cenno veloce nella parte finale (“anche a voler supporre che gli Stati abbiano un obbligo positivo di adottare le

39 Caso S. and Marper, n. 30562/04 e 30566/04, ECHR [Grand Chamber], Decisione del 4 dicembre 2008.

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misure idonee a facilitare un suicidio dignitoso”40), ma la Corte sembra voler appunto procrastinare la trattazione della materia, pur delineando in tal modo le future tappe del dibattito sul punto41.

5. IL CASO ULRICH KOCH v. GERMANIA, in decisione In tema di eutanasia e suicidio assistito un ulteriore caso è attualmente all’attenzione della

Corte europea dei Diritti dell’Uomo (Quinta Sezione). Si tratta di una vicenda su cui la Corte ha iniziato a confrontarsi il 23 novembre 2010.

Il caso riguarda la richiesta avanzata da un cittadino tedesco, marito di B.K., contro il rifiuto opposto dalle autorità tedesche di concedere a sua moglie l’autorizzazione ad acquisire una dose letale di sostanza tale da permetterle di commettere il suicidio.

La donna, che soffriva di quadriplegia sensoriale e motoria totale e si trovava in stato di paralisi pressoché totale a seguito di un incidente, era sottoposta a meccanismi di ventilazione artificiale e assistenza continua. Avendo manifestato la volontà di porre fine alla propria vita, nel 2004 ella si rivolgeva al Federal Institute for Drugs and Medical Services e chiedeva che le venisse concesso l’acquisto di 15 grammi di pentobarbitale sodico per morire degnamente a domicilio. Sulla base della sezione 5 (1) (6) del German Narcotics Act, che prevede l’autorizzazione al rilascio delle sostanze solo per scopi di supporto vitale e non per il fine di morte, il Federal Institute rigettava la sua domanda; successivamente, ribadiva la sua pronuncia, eccependo che l’art. 2, 2 della Costituzione tedesca42 formula un obbligo “comprensivo” dello Stato nella protezione della vita, includendo il rigetto all’autorizzazione richiesta e precisando che l’art. 8 CEDU non doveva essere interpretato nel senso di imporre agli Stati il dovere di facilitare l’accesso al suicidio assistito.

Ad ogni modo , nel 2005 B.K. commetteva il suicidio presso la clinica svizzera “Dignitas” e il marito intraprendeva una battaglia giudiziaria perché fosse riconosciuta l’illegittimità della decisione del Federal Institute e per veder affermato il dovere delle autorità tedesche di concedere l’autorizzazione alla sostanza.

La Corte amministrativa di Colonia dichiarava inammissibile l’azione, non essendo Koch il titolare dei diritti che pretendeva violati, né essendo stata lesa l’immagine di B.K. agli occhi della posterità né sussistendo alcuna lesione del diritto alla protezione del matrimonio e della famiglia (ex art. 6 della Costituzione tedesca43) o di quello al rispetto della vita privata (art. 8 CEDU).

Il Tribunale d’Appello del Nord Reno-Westfalia rigettava nuovamente la domanda di Koch, confermando di essere dinanzi ad un diritto personalissimo e che il diritto al matrimonio non implicasse la pretesa di vedere morire un coniuge.

40 § 61 della sentenza. 41 Per un commento della sentenza cfr. <http://combatsdroitshomme.blog.lemonde.fr/2011/01/21/le-suicide-assiste-un-droit-cour-edh-1e-sect-20-janvier-2011-haas-c-suisse/> e <http://strasbourgobservers.com/2011/01/27/ haas-v-switzerland-and-assisted-suicide/> (ultimo accesso: 10 maggio 2011). 42 L’art. 2, 2 della Costituzione tedesca recita: “Ognuno ha diritto alla vita e all'incolumità fisica. La libertà della persona è inviolabile. Questi diritti possono essere limitati soltanto in base ad una legge”. 43 L’art. 6 della Costituzione tedesca, rubricato “Matrimonio e famiglia”, recita: “1. II matrimonio e la famiglia godono della particolare protezione dell'ordinamento statale. 2. La cura e l'educazione dei figli sono un diritto naturale dei genitori ed un precipuo dovere che loro incombe. La comunità statale sorveglia la loro attività. 3. Contro il volere degli aventi il diritto dell'educazione i figli possono essere separati dalla famiglia solo in base ad una legge, nel caso che gli aventi il diritto dell'educazione vengano meno al loro dovere o nel caso che, per altri motivi, i figli corrano il rischio di venir trascurati. 4. Ogni madre ha diritto alla protezione e all'assistenza della comunità. 5. II legislatore assicura ai figli naturali le stesse condizioni di sviluppo, fisico e morale, nonché la stessa posizione sociale, sancita per i figli legittimi”.

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Giunto dinanzi alla Corte costituzionale federale, Koch ancora una volta si vedeva rigettato il ricorso, non potendo far valere diritti non trasferibili riconosciuti in capo al defunto né potendo basarsi su un diritto postumo della moglie alla dignità umana, dal momento che l’intervento da parte del successore è ammissibile nei soli casi di violazione del generale diritto al rispetto del defunto, per lesioni del valore sociale, morale, personale da questi acquisito durante il corso della vita (contro casi di diffamazione e oltraggio), nel caso di pretese pecuniarie o di riconoscimento di interessi propri del successore medesimo.

5.1 Le richieste di Ulrich Koch La pretesa di Koch si fonda essenzialmente sull’art. 8 CEDU. Egli eccepisce che il rifiuto di

autorizzare l’acquisto della sostanza alla moglie da parte delle autorità tedesche abbia violato il diritto alla morte dignitosa e alla vita privata e familiare della donna, costretta a recarsi in Svizzera per dare corso alle sue volontà.

Inoltre, egli sostiene che l’art. 13 CEDU44 sia stato leso nella misura in cui le Corti tedesche non hanno assicurato il suo diritto ad un rimedio effettivo, negandogli la possibilità di veder affrontato nel merito il rifiuto del Federal Institute.

5.2 L’intervento di terzi The Alliance Defense Fund in nome e per conto della Aktion Lebensrecht für Alle e.V.

(AlFA), una associazione a difesa della sacralità della vita, presenta le proprie osservazioni nel caso di specie (25 ottobre 201045), eccependo, in via pregiudiziale, che il sig. Koch non possieda la qualifica di “vittima” richiesta per poter allegare innanzi alla Corte una violazione dei diritti umani (art. 34 CEDU), ragion per cui la sua carenza di legittimazione ad agire deve comportare una inammissibilità della domanda ex art. 35 CEDU. Nel citare l’art. 34 l’Associazione si riporta alla sentenza sul caso Sanles Sanles, dove la compartecipazione emotiva non era stata ritenuta sufficiente a conferire status di vittima alla ricorrente. Inoltre, il carattere di non trasferibilità dei diritti enucleati negli artt. 8 e 13 CEDU rende impossibile l’azione, a meno che la violazione dei diritti abbia impedito alla vittima di far valere le proprie pretese o quando la conseguenze negative di una violazione colpiscano direttamente l’erede. Nel caso in esame, se anche il rifiuto opposto ad un cittadino da parte delle autorità pubbliche del suo Stato di appartenenza di procedere al suicidio assistito rappresentasse una violazione dei diritti, il fatto che questi poi abbia ottenuto il suicidio in uno Stato in cui esso non è illegale fa sì che alla fine le sue pretese siano state riconosciute e soddisfatte.

Nel merito, l’Associazione richiama l’art. 2 CEDU, affermando che il diritto alla vita è fonte di tutti gli altri diritti e la sua formulazione rende incompatibili l’ammissibilità del diritto al suicidio assistito. Esso, poi, comporta un’obbligazione positiva dello Stato nel tutelarlo, essendo esso da intendersi non solo come una pretesa soggettiva, m anche come un bene oggettivo e inviolabile. Il desiderio di morire, che alla luce di alcuni studi inglesi sarebbe associato alla depressione46, non è in connessione con il diritto alla “personal autonomy” (autodeterminazione), ma legato all’obbligo

44 L’art. 13, rubricato “Diritto ad un ricorso effettivo”, recita: “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”. 45 Cfr. <http://www.codex-online.com/codex/contents.nsf/vWebAccessDocuments/813213FF8136DA84C22577 E600312E98/$file/Chamber+Hearing+Koch+v+Germany+23.11.10.pdf> (ultimo accesso: 10 maggio 2011). 46 Royal College of Psychiatrists, Statement on Physician-Assisted Suicide, 24 aprile 2006, in <http://www.repsych.ac.uk/pressparliament/collegeresponses/physicianassistedsuicide.aspx> (ultimo accesso: 10 maggio 2011).

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dello Stato di tutelare la vita, dal momento che solo in pochi casi un soggetto potrebbe esserne privato. La dignità umana richiede che la vita sia rispettata dal suo inizio alla sua morte naturale.

Il soggetto intervenuto denuncia pure il fallimento del modello olandese che, nell’ammettere l’eutanasia e il suicidio assistito, ha dato vita ad un fenomeno dilagante e poco trasparente che ha visto i più vulnerabili esposti alla morte anche non voluta (“slippery slope”).

Richiamando l’art. 8, si sottolinea come esso, sebbene includa il diritto all’autodeterminazione, non determini, però, un’obbligazione positiva per lo Stato a legiferare e legittimare il suicidio assistito. Tenendo presente che la libertà di scelta non è mai assoluta, che la dignità umana non è compatibile con il suicidio assistito (dal momento che esso si fonda sulla premessa che sia indegno vivere), una normativa come quella tedesca, analogamente al Suicide Act del Regno Unito, vietando il suicidio assistito non è sproporzionata rispetto al diritto alla privacy, ha una sua base legale, è chiara, precisa, ha uno scopo legittimo e non è discriminatoria di alcuno. Il suicidio assistito, inoltre, non è necessario in una società democratica che si fonda sul pluralismo, la “broadmindedness” e la tolleranza, mancando la “pressing social need”, ragioni rilevati e sufficienti, la concretezza del bisogno. I limiti alla privacy sono ammissibili per far prevalere il diritto alla vita, non il suo opposto.

In merito all’art. 13, si sostiene che il diritto al rimedio effettivo no sia da intendersi in senso assoluto come diritto ad appellarsi ai tribunali fino al punto di ottenere un risultato positivo. In Germania, i diversi gradi di giudizio e i rimedi offerti al ricorrente per far valere le proprie pretese sono molteplici né vi è stata inerzia da parte delle autorità nazionali nel rispondere ai quesiti posti da Koch.

5.3 Come deciderà la Corte EDU?

Alla luce della precedente giurisprudenza della Corte di Strasburgo e delle osservazioni fin qui delineate, è possibile tentare di ipotizzare quale sarà il dictum dei giudici in merito al caso Koch.

Il tribunale dovrà confrontarsi con il problema della legittimazione ad agire del ricorrente, con la presunta violazione dell’art. 8 CEDU e con quella dell’art. 13. Va detto che, in riferimento ai fatti di causa, la vicenda umana presenta aspetti di analogia con ciascuno dei casi summenzionati:

- come nel caso Sanles Sanles a ricorrere non è il soggetto titolare dei diritti che si presumono lesi, ma un suo successore;

- come nel caso Pretty, la signora B.K. era pienamente capace di intendere e volere nella fase in cui ha manifestato la sua intenzione di assumere la sostanza ed era in una condizione di grave disabilità fisica (paralisi), per cui da sé non riusciva a compiere il suicidio;

- come nel caso Haas, la signora chiedeva l’autorizzazione al rilascio del pentobarbitale sodico per commettere il suicidio.

Circa l’aspetto pregiudiziale della legittimazione ad agire è probabile che la Corte si esprimerà analogamente al caso Sanles Sanles e concordemente ai gradi di giudizi interni delle Corti tedesche, ritenendo che lo status di “vittima” non sia riconoscibile in Koch e che la sua domanda sia allora inammissibile. Se così fosse, la Corte non procederebbe oltre nell’esame del caso; ma se, invece, dovesse valutare l’ammissibilità della domanda, entrerebbe nel merito e sarebbe interessante notare quale posizione assuma la Corte, considerato il rilievo assegnato all’autodeterminazione nel caso Haas rispetto al caso Pretty e tenuto conto del fatto che B.K., analogamente a Pretty, non avrebbe potuto commettere da sé il suicidio, come, invece, poteva fare Haas.

Premesso che la Corte probabilmente ribadirebbe che il diritto a morire degnamente scaturisce dall’art. 8 e che il divieto di procedere al suicidio assistito rappresenta un’interferenza alla vita privata, resta da chiedersi se i giudici di Strasburgo potrebbero ancora definire la

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legislazione tedesca come proporzionata ai sensi dell’art. 8 § 2 (come nel caso del Suicide Act britannico) o se, leggendo congiuntamente l’art. 8 con l’art. 2 (come elaborato dalla sentenza Haas), dopo aver dato rilievo alla volontà espressa, libera e consapevole di B.K., potrebbero “osare” spingersi fino al punto da enucleare l’esistenza di un’obbligazione positiva in capo agli Stati di disciplinare le procedure per accedere al suicidio assistito, o se, al contrario, continuerebbero a lasciare spazio al “margine di apprezzamento statale” in materia.

In merito alla presunta lesione dell’art. 13, con tutta probabilità la Corte indicherà come soddisfatto il diritto ad un ricorso, ritenendo che, alla luce del caso di specie, il sistema giuridico tedesco abbia permesso al ricorrente di accedere a diversi gradi di giudizio e di presentare le proprie istanze presso più soggetti. La Corte forse marcherà la distinzione tra un diritto al ricorso e il diritto all’esito positivo del medesimo, pretese che non vanno confuse e sovrapposte.

6. CONFRONTO CRITICO E RAGIONATO TRA LE SENTENZE DELLA

CORTE EDU IN TEMA DI FINE VITA Come si ricava dalla riflessione analitica delle diverse sentenze fino a questo momento pronunciate dalla Corte EDU in tema di fine vita, la questione è stata oggetto di una certa evoluzione giurisprudenziale.

Dalle prime enunciazioni del principio di autodeterminazione nel caso Pretty, i giudici di Strasburgo ora sembrano enunciare senza alcun riserbo l’esistenza di tale principio. È rilevante sottolineare come l’art. 8 CEDU sia sempre stato al centro della discussione: di primo acchito esso è apparso quasi distinto (e pressoché a rischio di contraddizione) rispetto all’art. 2, come se autonomia personale e diritto alla vita non fossero compatibili tra loro, ma ad uno studio più approfondito risulta sancita la complementarietà tra le due norme. La Corte sovranazionale, cioè, è approdata ad un approccio olistico e omnicomprensivo della Convenzione, secondo un’interpretazione sistematica ed evolutiva che pare lasciare spazio ad ulteriori “aggiornamenti” della questione, man mano che la scienza e la percezione sociale raggiungeranno nuove risultanze sul punto. Ha, inoltre, dimostrato di non voler preferire una posizione bioetica o l’altra e di evitare ragionamenti dicotomici o secondo la regola aristotelica del “terzo escluso”, cercando, invece, di approdare a soluzioni il più possibile condivise e bilanciate, pur lasciando comunque ampio spazio al margine di apprezzamento statale.

Ad ogni modo, il tentativo è significativo, specialmente tenuto conto del ruolo che la Corte EDU riveste nell’armonizzazione tra le inevitabili differenze culturali degli ordinamenti giuridici degli Stati membri del Consiglio d’Europa, essendo la più idonea a favorire la nascita di una comune posizione europea su un tema assai delicato.

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- LIVATINO, Il ruolo del giudice nella società che cambia, in I. ABATE (A CURA DI), Il piccolo giudice. Profilo di Rosario Livatino, Ila - Palma, Palermo, 1992, p. 22.

- RESTA, Biodiritto (voce), in AA.VV., XXI Secolo, Norme e idee, Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 2009, p. 51;

- Royal College of Psychiatrists, Statement on Physician-Assisted Suicide, 24 aprile 2006, in <http://www.repsych.ac.uk/pressparliament/collegeresponses/physicianassistedsuicide.aspx>;

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- SAPIENZA, Sul margine d’apprezzamento statale nel sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. internaz., 1991, fasc. 3, 574.

SITOGRAFIA (ultimo accesso: 10 maggio 2011):

<http://combatsdroitshomme.blog.lemonde.fr/2011/01/21/le-suicide-assiste-un-droit-cour-edh-1e-sect-20-janvier-2011-haas-c-suisse/> <http://strasbourgobservers.com/2011/01/27/haas-v-switzerland-and-assisted-suicide/> <http://www.codex-online.com/codex/contents.nsf/vWebAccessDocuments/813213FF8136 DA84C22577E600312E98/$file/Chamber+Hearing+Koch+v+Germany+23.11.10.pdf> <http://www.echr.coe.int/ECHR/EN/hudoc> <http://www.echr.coe.int/NR/rdonlyres/0D3304D1-F396-414A-A6C1-97B316F9753A/0/ITA_CONV.pdf> <http://www.repsych.ac.uk/pressparliament/collegeresponses/physicianassistedsuicide.aspx>