QUADRIMESTRALE DEI SENSI NELL'ARTE Anno XI … · Editalia e l'umanista del terzo millennio 16...

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QUADRIMESTRALE DEI SENSI NELL'ARTE Anno XI Numero 29/2017 NOVITÀ PALADINO MULTIPLI ISGRÒ ARTISSIMA BINI EVENTI I PRIMI SPLENDIDI SETTANT'ANNI DEL MITO FERRARI / INTERVISTE MAZZONE, DORFLES, GORI, BENETTON IN SERIE LE BANCONOTE CONIATE / GRANDI MOSTRE MARINO MARINI A PISTOIA / EDITORIA LA LIRA SIAMO NOI

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QUADRIMESTRALE DEI SENSI NELL'ARTE Anno XI Numero 29/2017

NOVITÀ PALADINO MULTIPLI ISGRÒ ARTISSIMA BINI EVENTI I PRIMI SPLENDIDI SETTANT'ANNI DEL MITO FERRARI / INTERVISTE MAZZONE, DORFLES, GORI, BENETTON

IN SERIE LE BANCONOTE CONIATE / GRANDI MOSTRE MARINO MARINI A PISTOIA / EDITORIA LA LIRA SIAMO NOI

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UN AUTUNNO RICCO DI EVENTIIn questo numero, ultimo del 2017, invitiamo i nostri lettori a tre appuntamenti che vedono Editalia in prima fila tra le realtà italiane che sostengono i mestieri dell’arte e l’arte contemporanea.

In ordine di tempo, si apre il 3 novembre a Torino Artissima, la più innovativa fiera d’arte italiana. Come di consueto, Editalia sarà presente con gli artisti affermati del nostro catalogo e con un nuovo progetto dedicato a un artista giovane e apprezzato: Paolo Bini presenta Hyperspace colours. Monocromi fluore-scenti che entrano in risonanza empatica con lo spazio che abitano saranno esposti allo stand Editalia e presentati al pubblico in una conversazione fra l’artista e il critico d'arte Flavio Arensi.

A questo appuntamento segue, il 18 novembre, la giornata dedicata dalla Triennale di Milano a Emilio Isgrò, artista siciliano, milanese di adozione, che con il suo linguaggio unico, la cancellatura, ha annotato a margine della storia italiana la sua visione più autentica. Fondamenta per un’arte civile è il significativo titolo della giornata che ci racconta delle fondamenta strutturali che Editalia ha contribuito a costruire per installare il Seme dell’Altissimo – opera che Isgrò ha realizzato per Expo 2015 – nei giardini della Triennale, e delle più simboliche fondamenta che l’arte contribuisce a gettare nella società per il conso-lidamento di uno sguardo fuori dal comune, di un approccio non convenzionale, di un suggerimento di visioni nuove. Isgrò è il maestro dell’approccio filosofico, dell’ironia pungente, della denuncia intelligen-te, dell’opera dai forti significati civili. Una giornata ricca di eventi: l’inaugurazione del monumento con le più alte cariche cittadine, la vernice della mostra I multipli secondo Isgrò nella sala Balena dove saranno esposti i multipli commissionati da Editalia – segno di un lungo sodalizio artistico-artigianale – e alcune opere inedite presentate in anteprima per l’occasione. Si conclude con la presentazione dell’autobiogra-fia edita da Sellerio. Una grande festa per gli ottant’anni del maestro.

Ultimo appuntamento dell’anno, a metà dicembre si aprirà al Museo Centrale del Risorgimento di Roma l’esposizione La Lira siamo noi. Duecento anni di storia italiana tra politica e vita quotidiana. La mostra segue la narrazione cronologica delle vicende storiche italiane, dalla discesa di Napoleone alla fine del secondo millennio, attraverso la moneta dell’Italia unita dal 1861 al 2002. Tra monete, banconote e cliché metallici si alternano spaccati storici e di costume. Molti gli enti prestatori, partner delle nostre iniziative editoriali, dal Museo della Zecca al Museo della Banca d’Italia, al Medagliere del Museo Nazio-nale Romano. Buona lettura.

L’Editore

QUADRIMESTRALE ANNO XI NUMERO 29

Autorizzazione del Tribunale ordinario di Roma n° 313 del 3.8.2006Sofà è una pubblicazione quadrimestrale di Editalia S.p.A.piazza dell’Enciclopedia Italiana 4, 00186 RomaNumero verde 800 014 858 - [email protected]

Direttore responsabile: Flavio Arensi Coordinamento redazione: Isabella Ruol Ruzzini Impaginazione: Cristina Silva

[email protected]

EditaliaResponsabile editoriale: Cecilia Sica Art direction: Daniela Tiburtini

Hanno collaborato: Arianna Beretta, Fabio Bozzato, Ginevra Bria, Paolo Capelletti, Daniele Capra, Guglielmo Castelli, Antonio Esposito, Renzo Giandelli, Clara Irenetti, Massimo Mattioli, Floriana Minà, Rossella Neri, Giacomo Nicolella Maschietti, Davide Pairone, Maria Pirulli, Laura Posadinu, Marco Settembre, Elena Vavaro, Alberto Zanchetta

Stampa: Varigrafica, Alto Lazio Srl, Nepi (VT)

Redazione Via La Marmora, 2 20831 Seregno telefax +39 0362 1793903 www.meetmuseum.com

Pubblicità e marketing: [email protected]

In copertina: Mimmo Paladino, Shield 3, 1999

Fotografie di: Ada Ardessi, Lorenzo Palmieri, Pasquale Palmieri, Pierantonio Tanzola

Numero chiuso in redazione il 9 ottobre 2017Sofà è visibile online sul sito www.editaliarte.it

Responsabile trattamento dati Flavio Arensi.L'Editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare, nonché per eventuali omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti. I materiali inviati non verranno restituiti. Tutti i diritti sono riservati.

SommarioPER SOFÀ FOTORACCONTOLorenzo Palmieri 8PEZZOUNICOGuglielmo Castelli 10

NOTIZIE MONDO DELL'ARTE 12

COPERTINAEDIZIONI SPECIALI Editalia e l'umanista del terzo millennio 16APPROFONDIMENTO Brescia, cornice ideale per Mimmo Paladino 20

PRIMO PIANOEVENTI La Rossa e Editalia continuano a correre insieme 24Il premio che aiuta i giovani artisti 28FIERE Artissima scopre gli Hyperspace colours 32GRANDI MOSTREMarino Marini il grande scultore etrusco 36

VISTI DA VICINO PROTAGONISTI CONTEMPORANEI L'Ateneo Libertario di Mazzone 40NUOVE GENERAZIONI De Prezzo, la muraglia di pittura 46CONVERSANDO SUL SOFÀ Gli incontri straordinari di Gillo Dorfles 50SPETTACOLO DELL'ARTEFranco Piavoli il soffio che dà vita, insieme 54

BEL PAESE LUOGHI DEL BELLOLa collezione che fa Pistoia capitale 58ECCELLENZA ITALIA Il grande teatro del sogno che incanta 62

FATTI AD ARTE TEMPO PRESENTECancellare per ritrovare il mondo 66OPERE DI PREGIOUna lira diversa quindi unica 70Storia e modernità delle banconote coniate 74

IN SERIE IL MOLTIPLICAUTORE Il corpo parlante del maestro Antony Gormley 78IL LIBRAIO D'ARTEL'arte diventa enciclopedica e per tutti 82MULTIPLI IN VETRINA Colophonarte, la carta che racconta l'uomo 84

ARTE IMPRESA IL MOTORE DELL'ARTE Luciano Benetton cataloga il bello del mondo 88COMUNICARE AD ARTEQuando l'arte si aggiunge alle stelle 92IL MERCATO DELL'ARTE Finalmente la ripresa 96

UNDER TRENTAALLA FINE CHI INIZIA Elena Vavaro 98

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FOTORACCONTOPERSOFÀ

LORENZO PALMIERI

La fotografia inquadra il parco Dora di Torino, una zona postindustriale della città di quasi 500 mila metri quadrati di superficie. La linea numero 3 del tram portava qui migliaia di lavoratori degli ex stabilimenti Fiat e Michelin.

Senza titolo (Torino), 2016stampa digitale Fine Art su carta Hahnemühle, 45x30 cm lorenzopalmieri.it

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PERSOFÀ

PEZZOUNICO

GUGLIELMO CASTELLI

Poetico, fiabesco, ironico. Guglielmo Ca-stelli gioca sulle atmosfere del tempo per una pittura che è delicata nei toni, ma co-struita su immagini salde. Dalla compo-nente fortemente esistenzialista, il suo lin-guaggio rileva l'animo delle persone, con il piacere di raccontare quello che sono, non quello che vorrebbero apparire.

Conviene sempre partire dall'ipotesi peggiore, 2017olio su tela, 40x30 cmguglielmocastelli.com

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MONDO DELL'ARTENOTIZIE

WERNER BISCHOF Venezia, Tre Oci fino al 25 febbraio 2018

HANS HARTUNGPerugia, Galleria Nazionale dell'Umbria fino al 7 gennaio 2018

La mostra esplora, in duecentocinquanta immagini, il percorso creativo del gran-de fotografo svizzero Werner Bischof per ripercorrere le storie e i viaggi di uno dei punti di riferimento dell'agen-zia Magnum, fondata nel 1947 da Henri Cartier-Bresson e Robert Capa e ancora oggi fra le più accreditate organizzazio-ni dedicate al fotogiornalismo. Bischof viaggiò negli angoli più remoti del mon-do, dall'India al Giappone, dalla Corea all'Indocina fino ad arrivare a Panama, in Cile e in Perù. Immaginata per celebrare i cento anni dalla nascita del fotografo, l'esposizione presenta anche stampe vintage, memorie, documenti, lettere e pubblicazioni per una visione globale del personaggio e del suo lavoro.

Quaranta lavori su carta e sedici dipinti di grandi dimensioni realizzati da Hans Hartung tra il 1961 e il 1988 dialogano con la collezione permanente della Gal-leria Nazionale dell'Umbria che li ospita, ricchissima di tavole che vanno dal XIII al XVI secolo di autori come Duccio, Gentile da Fabriano, Beato Angelico, Piero della Francesca, Perugino, molte delle quali composte in origine nella forma del polit-tico. La serie dei polittici di Hartung nasce quando l'artista decide di dipingere diret-tamente sulla tela senza prima concepire l'opera su carta. Sperimenta nuove tecni-che, dilata i formati e nell'ultimo periodo, costretto sulla sedia a rotelle, giunge a realizzare i propri dipinti con l'aerografo.

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FRANCO PAGETTIMilano, CMCfino al 21 dicembre 2017

TOULOUSE-LAUTRECMilano, Palazzo Realefino al 18 febbraio 2018

MILANO E LA MALAMilano, Palazzo Morando fino all'11 febbraio 2018

Per la prima volta arriva a Milano l'opera fotografica dell'autore varesino Franco Pagetti, spesso il primo a raggiungere i teatri di guerra del pianeta, dall'Afghanistan al Kosovo, da Timor Est al Kashmir, dalla Palestina alla Sierra Leone e al Sud Sudan oltre che, con temi diversi, altri paesi quali Cambogia, Laos, Vaticano, Arabia Saudita, Indonesia. In quaranta scatti Pagetti mostra la sua capacità di trovare l'uomo dentro le situazioni più difficili e di vivere il proprio ambiente attraversato da «confini» visibili e invisibili.

A Palazzo Reale la città di Milano celebra il genio di Henri de Toulouse-Lautrec. L'evoluzione stilistica dell'autore – di origine aristocratica pur frequentando i bassifondi e le case chiuse parigine – è rappresentata in tutte le sue fasi di ma-turazione, dalla pittura alla grafica, con particolare riguardo per la sua profonda conoscenza delle stampe giapponesi e per la passione verso la fotografia. In mostra sono esposte oltre duecento-cinquanta opere, con ben trentacinque dipinti, oltre a litografie, acqueforti e la serie completa di tutti i ventidue mani-festi realizzati dall'artista.

Centoquaranta immagini d'epoca, video, documenti, «strumenti del mestiere», re-perti, periodici e quotidiani documenta-no l'evoluzione della malavita in città, dai primi gruppi improvvisati dell'immediato dopoguerra all'affermazione delle più so-fisticate strategie malavitose, attraverso le imprese più clamorose e i profili dei perso-naggi più importanti, dai protagonisti della rapina di via Osoppo a Luciano Lutring, da Francis Turatello a Renato Vallanzasca. La storia di una città raccontata attraverso il suo lato più oscuro. Quarant'anni di vita che segnano il volto tragico di una metro-poli in rapida ascesa economica, in cui i fatti reali sembrano usciti dalla penna di un grande scrittore di gialli.

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La Pala di Castelfranco, capolavoro del Giorgione, offre il punto di partenza per una mostra che trova negli ambienti del Museo Casa Giorgione il suo fulcro, per espandersi poi in diversi siti cittadini, destinati ad accogliere l'attualità della grande tradizione di «tessoria» della Serenissima di cinque secoli fa. L'esposizione si muove sul doppio binario della storia dell'arte e della storia del tessuto, a comporre una originale storia del costume. Una delle chiavi di lettura è senza dubbio quella allegorica, visione che consente di illuminare diversamente l'opera e la figura del Giorgione proprio a partire dalla pala, opera di devozione certo, ma anche potente messaggio politico e allegorico.

RIVOLUZIONE GALILEO Padova, Palazzo del Monte di Pietàfino al 18 marzo 2018

Galileo Galilei è senza dubbio uno dei più importanti e interessanti uomini di cultu-ra della storia occidentale, non solo per-ché padre del metodo sperimentale delle scienze, ma anche per le sue doti intel-lettuali. Perciò Padova lo celebra con una mostra che definisce il Galileo virtu-oso musicista ed esecutore, mettendo-ne in risalto le doti d'artista, imprenditore – non solo il cannocchiale ma anche il microscopio o il compasso – fino a sve-larne i piccoli vizi e le debolezze, quali gli studi di viticoltura e la passione per il vino dei Colli Euganei o la produzione e la vendita di pillole medicinali.

LE TRAME DI GIORGIONE Castelfranco Veneto (TV), Museo Casa Giorgione e altre sedifino al 4 marzo 2018

SECESSIONERovigo, Palazzo Roverellafino al 21 gennaio 2018

Negli ultimi anni, in Italia, il tema della Secessione è stato indagato e presen-tato in rassegne prevalentemente dedi-cate ai singoli episodi viennese e roma-no. La mostra, invece, propone per la prima volta un panorama complessivo delle vicende storico artistiche dei quat-tro principali centri in cui si svilupparono le secessioni: Monaco, Vienna, Praga e Roma. Si evidenziano differenze, af-finità e tangenze dei diversi linguaggi espressivi nel primo vero scambio cul-turale europeo. Basti pensare a Gustav Klimt e a Egon Schiele che esposero alle mostre della Secessione romana o a Segantini che partecipò alle annuali mostre viennesi.

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WOLFGANG LAIBLugano (CH), MASI Lacfino al 7 gennaio 2018

RODIN AT THE METNew York, The Metropolitan Museum of Artfino al 15 gennaio 2018

La ricca collezione di opere del ma-estro francese custodita nel celebre museo americano è accompagnata da una precisa selezione dell'autore che rende l'evento uno dei principali mo-menti celebrativi nel centenario della morte. Rodin, autore che ha aperto la scultura alla modernità, si fa conoscere attraverso la sua produzione in marmo, bronzo e nei disegni che restano una delle sue più grandi passioni. Dopo la mostra di Parigi dedicata al confronto con l'arte contemporanea, questa ini-ziativa sottolinea l'importanza e la cen-tralità dell'opera dello scultore per la cultura europea del Novecento.

Il MASI ospita la monografica dedicata a Wolfgang Laib, l'artista tedesco che cerca un linguaggio di essenzialità, chiarezza e profondità di pensiero. La mostra si apre dando spazio a disegni e a fotografie e delineando immediatamente il singolare vocabolario artistico di Laib, capace di coniugare con armonia e semplicità una profonda conoscenza di culture e religioni orientali con una altrettanto intima riflessione sulle radici del patrimonio culturale occidentale. Le fotografie realizzate da Laib durante i suoi viaggi in Europa e in Asia compongono un repertorio di forme che prende nuova vita nei suoi essenziali disegni a pastello. A loro volta i motivi che popolano le opere su carta riecheggiano e si amplificano nelle sculture e nelle installazioni che completano il percorso espositivo.

DIVINA CREATURA Rancate (CH), Pinacoteca cantonale Giovanni Züstfino al 28 gennaio 2018

Sessanta sculture e dipinti oltre a una sequenza di ventagli d'autore hanno l'obiettivo di ricreare e di testimonia-re quello che è stato un vero e proprio cambio di paradigma nella storia del co-stume femminino in Europa. Nel 1858 – anno in cui a Parigi esplose l'haute cou-ture di Charles Frederick Worth, subito amplificata e diffusa dai primi «grands Magasins» che spopolarono nelle princi-pali metropoli europee – cominciano le offerte per il solo pubblico femminile e quello che sarà il moderno concetto di moda.

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COPERTINA EDIZIONI SPECIALI

DI CECILIA SICA

Le opere storiche del maestro in collaborazione con l’Archivio Paladino

EDITALIA E L’UMANISTA DEL TERZO MILLENNIO

La scrittura grafica di Paladino è un'espressione sempre riconoscibile pur essendo composta da elementi formali misteriosi che affondano le loro radici in una cultura fi-gurativa arcaica dalla quale trae archetipi simbolici ispirati alla terra, al mito, alla lettera-tura, alle sollecitazioni del mondo. Tuttavia, sfogliando la sua opera, e quella grafica in particolare, un simbolo ricorre più di altri, la testa, che moltiplica la sua presenza silente come un totem, un antenato mitico, lo spirito che sovrintende alle cose del mondo. Il fascino delle opere risiede proprio nella loro indecifrabilità e imperturbabilità.Nelle opere monumentali, come il ciclo Shield del 1999, l'uomo, al centro di una com-plessa architettura spaziale geometrica è circondato da un vocabolario di segni-sim-boli che danno solennità alla rappresentazione. Il nitore del segno e la disposizione delle campiture di colore giungono a una altissima qualità nell'utilizzo contemporaneo di calcografia e serigrafia su carta giapponese. Carta che Paladino ama scegliere e selezionare per le sue opere. In Concerto K432 del 2007, Paladino dimostra ancora una volta la capacità di dominare tutti i linguaggi della grafica utilizzando ventidue pas-saggi di colore con le tecniche dell'acquaforte e dell'acquatinta completate da collage.Paladino «è un vero incisore perché utilizza le tecniche incisorie come mezzi di prima importanza». Per Mimmo Paladino non c'è alcuna gerarchia tra scultura, pittura e gra-fica: ciascun linguaggio è utilizzato secondo la sua massima potenzialità espressiva. L'artista padroneggia l'incisione, che si tratti di bulino, calcografia, xilografia o linoleum, e partendo dal segno essenziale, attraverso l'utilizzo di tutto, tecniche, procedimen-

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a latoLa serie completa del ciclo Shield, 1999acquaforte, serigrafia e collage su carta giapponese, diametro 1220 mm; edizione composta da 20 esemplari in numeri arabi e 8 p.a.

in aperturaConcerto K432, 2007, particolareacquaforte e acquatinta in 22 colori con collage su carta Arches, foglio 1030x1310 mmedizione in 30 numeri arabi

ti e materiali sovrapposti, organizza gli elementi figurativi con l'espressività del visionario. Il suo segno aspro, deciso, profondo, trova nell'essenzialità del lin-guaggio incisorio la sua realizzazione.Da dieci anni Editalia lavora con il maestro campano e con lui ha inaugurato il ritor-no alle edizioni d'arte. Per avviare questo ambizioso progetto, Paladino ci è parso perfetto per la sua capacità di alimen-tare la storia trasformando i simboli del-la cultura figurativa del Mediterraneo in straordinari racconti figurati che negli anni si sono concretizzati nel libro d'artista Don Chisciotte, presentato nel 2005 alla grande mostra al Museo Capodimonte di Napoli, nel libro d'artista Ombre, leporello di ventiquattro metri realizzato a quattro mani con Ferdinando Scianna e in una vasta produzione di grafiche dalle grandi dimensioni e dal forte impatto visivo che hanno animato il nostro catalogo. Quella con il maestro è stata una collaborazione proficua che ha dato modo, a noi come editori e ai nostri collezionisti, di appro-fondire la figura di questo artista dalla poetica complessa. Un passo successivo è stato quello di indagare il recente pas-sato artistico di Paladino «riscoprendo» opere di grafica che sono in continuità con quelle odierne, e questo è stato pos-sibile grazie al neonato Archivio Paladino con cui Editalia ha avviato una collabora-zione privilegiata. Nato nel 2017 l'Archivio svolge un lavoro cruciale di catalogazio-ne scientifica, conservazione, promozio-ne e tutela delle opere del maestro della Transavanguardia, un work in progress che ci restituirà probabilmente un'imma-gine più completa e «sistematica» dell'ar-tista. L'Archivio mette oggi a disposizione di Editalia la raccolta di opere storiche che hanno segnato l'evoluzione del per-corso dell'artista negli ultimi decenni e che esprimono tanto la sintesi del segno di Paladino quanto la sua capacità di la-vorare con tutte le tecniche dell'incisione. Il ciclo Shield e Concerto K432, presentati in queste pagine, segnano l'inizio di que-sta ulteriore collaborazione.

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La figura di Mimmo Paladino è decisiva per comprendere la svolta che, alla fine degli anni settanta, mette in crisi il palcoscenico internazionale dove il concettuali-smo, la performance e l'arte povera dibattono il senso dell'avanguardia. All'interno di un più ampio proposito di rinascita, che individua nei giovani protagonisti italiani della Transavanguardia il cardine e nella parentesi di Aperto alla Biennale di Venezia del 1980 un momento di recupero della pittura, Paladino è l'autore che più di altri comprende il senso di una possibilità, ossia di rompere gli schemi entro cui si sono rinchiusi i sostenitori della tradizione – per paradosso – insieme ai loro rivali. Paladino, per converso, interrompe la striscia di azioni e reazioni con cui il sistema culturale dell'epoca si bilancia, non reagisce dunque a un contesto precedente (in particolar modo l'esperienza dell'arte povera), ma cerca un approdo dissimile che tenga conto di quanto avvenuto, pur sviluppando per strade alternative in una sorta di condotta antieroica riguardo a ciò che si era istituzionalizzato. Il valore primario della sua ricerca si autodefinisce in una tela del 1977, Silenzioso, mi ritiro a dipingere un quadro, che già dal titolo certifica la volontà di ristabilire un luogo di affermazione positiva del dipingere quale chance di pensiero. Esposto per la prima volta nella galleria Giorgio Persano a Torino, il quadro è inserito in un ampio tessuto di graffiti realizzati a matita e pastelli, per esprimere «la situazione della mia dimensione esistenziale in quel momento, di essere abbastanza distante dalle circostanze dell'ar-te […] le caratteristiche fisiche erano quelle di un vero dipinto a olio, la ripresa di uno

COPERTINA APPROFONDIMENTO

DI FLAVIO ARENSI FOTOGRAFIE DI PASQUALE PALMIERI

BRESCIA, CORNICE IDEALE PER MIMMO PALADINO

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strumento, che io prendevo per la prima volta. La ripresa di uno strumento, quindi del pennello, del colore a olio e della tela, di una piccola tela, formato 50x70 circa, verticale. C'era così un'immagine allusiva che non raccontava nulla. Raccontava un interno, vagamente matissiano, come soluzione cromatica, con un personag-gio trasparente, come un fantasma in bi-lico tra strani strumenti di misurazione o strani oggetti di arredo […] Era veramente l'idea di stare lì a dipingere per una setti-mana un dipinto senza pensare a un'idea espressiva dell'opera, ma pensando a una lenta stesura e a una lenta progetta-zione dell'architettura del quadro». Quello che Paladino contempla non è più, come in passato, la presa politica o utopica dello spazio fisico (a prescindere dalla sua tipologia), ma quella poetica, esercitandola attraverso l'esame delle piccole cose, dei piccoli frammenti lirici che assommati riportano a una relazione profonda e universale. È pur chiara la vo-lontà architettonica con cui l'arte sceglie di dialogare con l'ambiente circostante, senza porsi nessun ostacolo linguistico o di mezzo, assumendo, invece, con il suo carattere assoluto un nuovo registro dialettico: d'altronde non è il medium – né appunto lo spazio – a indicare i confini dell'opera che si apre e si modifica, qua-lora necessario, finanche nel significato originale. Ne danno ulteriore attestato le installazioni che, nei prototipi più celebri

come la Montagna di Sale a Napoli e a Milano (1995, 2011) o la visionaria piazza di Santa Croce a Firenze (2012), proprio sfruttando la transitorietà, restituiscono il significato profondo dello stupore din-nanzi a un'epifania effimera. A ciò, si ag-giunga l'abitudine di immettersi in conte-sti urbani e museali occupando gli «inter-valli» che si creano fra ciò che già esiste e l'occasione di quello che non c'è, ma potrebbe esserci: per esempio a Brescia Paladino instilla una serie di grandi e piccole apparizioni autoriali in vari scor-ci della città, da piazza Vittoria fino al Capitolium, al foro romano e al museo di Santa Giulia, componendo una variazio-ne alla melodia consolidata. Questo tipo di esposizione rileva l'autenticità di un linguaggio in grado di confrontarsi con ogni epoca e ogni situazione. Rispetto al tema della temporaneità, Paladino legge l'immagine con coscien-za cinematografica affinché il lavoro si mostri brevemente prima di affondare nel ricordo e in ciò guadagni nuovi si-gnificati, come del resto accade con il mito – non a caso altro ingrediente del-la sua produzione. Pur nella difficoltà di individuare una mitologia precisa, resta indubbia la scelta di sfruttare l'arche-tipo quale pretesto per oltrepassare la storia, benché vestito di un'iconografia mediterranea reperita non solo dentro gli stilemi che la classicità ha condotto nei secoli, ma anche tra le pagine della

letteratura e della musica, per tradurlo come fatto multilinguistico svincolato dai divieti estetici o culturali. Ne deriva che materiali e tecnica vengano subordinati, nella realizzazione dell'opera, anziché elementi distintivi, manifestando ciascu-no un «particolare segreto» da scoprire e penetrare, in quella sorta di gioco alche-mico che spesso l'autore rilancia nel la-voro, lasciando intendere vi sia qualcosa ben oltre l'esperienza. Questi segreti, questi «ingredienti alche-mici», possono sostanzialmente riferirsi a schemi figurali precisi o proporre sa-gome ripetute come sottotraccia coe-rente, senza tuttavia impedire all'artista di conseguire una pittura sempre nuova. La sua è una narrazione non strutturata in linea con il costrutto convenziona-le del secondo Novecento, poiché in-tende svincolarsi da certi obblighi del linguaggio prima ancora che del siste-ma dell'arte, preferendo sperimentare, trasformando la pittura piuttosto che le proprie icone. E trasformando la pittura – come la scultura – riesce a inserirsi dove difficilmente un'opera contemporanea potrebbe restare senza stridere. Così a Brescia non è Paladino che entra in città, ma l'intero contesto urbano che si fa cor-nice di Paladino.

in queste pagine e in aperturaAlcune immagini della mostra bresciana di Mimmo Paladino

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Per celebrare i suoi settant’anni, Ferrari ha organizzato due giorni di festa alla presen-za di migliaia di clienti e di sostenitori provenienti da tutto il mondo. L’evento, pensato come un grande spettacolo celebrativo della storia unica di un mito, si è svolto con la collaborazione di RM Sotheby’s che ha organizzato l’asta che ha battuto alcuni tra i mo-delli più rappresentativi della storia del Cavallino rampante. Centoventi capolavori, firmati dagli stabilimenti di Maranello dal 1947 a oggi, si sono sfidati in un prestigioso concorso d’eleganza, sfilando per le strade di Modena per poi fermarsi, a beneficio dei tanti am-miratori, davanti all’Accademia Militare della città. La manifestazione si è conclusa con uno spettacolo unico dove musica, colori e tradizione si sono alternati sul palco allestito per l’occasione.Anche Editalia ha voluto tributare un doveroso riconoscimento al partner di Maranello in virtù dell’importante traguardo. Passione per lo stile, design, eccellenza italiana nell’alto artigianato sono il comune terreno su cui si sono trovati Editalia e Ferrari sin da quando nel 2007 quest’ultima ha scelto Editalia come licenziatario ufficiale e mondiale del pro-prio marchio per la realizzazione di opere d’arte che esaltino quella visione di progresso nel segno della tradizione che contraddistingue la maison di Maranello. L’accordo di licensing in esclusiva mondiale con Ferrari continua nel 2017 e Editalia, per l’anniversario dei settant’anni di casa Ferrari, ha realizzato tre opere d’arte celebrative nelle quali creatività e innovazione si sposano con l’alto artigianato made in Italy.

PRIMOPIANO

EVENTI

DI FLORIANA MINÀ

LA ROSSA E EDITALIA CONTINUANO A CORRERE INSIEMEPer i 70 anni della Rossa, Editalia racconta lo stile italiano con un nuovo progetto che unisce arte e design

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Il progetto artistico legato all’evento 70° Anniversario Ferrari 1947-2017 è pensato per appassionati e collezionisti che voglio-no conservare le emozioni di anni magni-fici, piloti indimenticabili, macchine che superano i limiti: una storia unica in ope-re d’arte limited edition che racchiudono la passione e la cura per uno stile incon-fondibile. Editalia ha tradotto tutto questo grazie a selezionati maestri artigiani della tradizione italiana dei mestieri dell’arte.La coniazione celebrativa, realizzata e cer-tificata dalla Zecca dello Stato, è disegna-ta da Flavio Manzoni, direttore del Design Ferrari, e il Centro Stile Ferrari ha disegna-to appositamente il pistone che accoglie l’opera nel cofanetto.La scultura della «speedform» – la forma che rappresenta l’immagine essenziale della velocità della macchina in movimen-to – è fusa in vetro dai maestri vetrai di Mu-rano secondo l’antichissima tecnica della colatura a stampo. Infine, in stampa Fine Art, per la prima volta, tre bozzetti originali di Flavio Manzoni di LaFerrari in versione coupé e nella nuovissima versione Aperta, ultimo capolavoro del mito Ferrari.

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in questa paginaI tre bozzetti di Flavio Manzoni di LaFerrari nelle versioni coupé e Aperta, stampa Fine Art, tiratura 70 esemplari per ogni soggetto

a pagina precedente in senso orarioDritto e rovescio della medaglia celebrativa disegnata da Flavio Manzoni e coniata dalla Zecca dello Stato in oro 18 kt, diametro 30 mm, tiratura limitata a 99 esemplari;Il cofanetto contenente l'opera con il pistone disegnato dal Centro Stile Ferrari;Speedform Ferrari, fusione in vetro di Murano, edizione limitata a 499 esemplari in numeri arabi e 10 in numeri romani

in aperturaLo spettacolo di chiusura della manifestazione celebrativa

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PRIMO PIANO

EVENTI

DI ARIANNA BERETTA

IL PREMIO CHE AIUTA I GIOVANI ARTISTI

Nato nel 2006 a Treviso, dove è rimasto per un paio di edizioni prima di spostarsi a Mogliano Veneto e poi definitivamente a Venezia, il Premio Arte Laguna è ormai giunto alla sua undicesima edizione. Si tratta di un concorso internazionale aperto a molteplici discipline (arti visive, performance, multimediale, land art e grafica digitale) finalizzato alla valorizzazione dell'arte contemporanea e alla mappatura del suo stato attuale. Per questo motivo il premio non pone barriere di età o provenienza ai par-tecipanti, cercando di offrire l'occasione per farsi notare dalla giuria internazionale e dal pubblico degli addetti lavori, come dei semplici appassionati. Lo scopo persegui-to dagli organizzatori è di creare, anno dopo anno, un sistema autorevole e influen-te che possa muoversi all'interno del complesso mondo dell'arte contemporanea coinvolgendo sempre nuovi interlocutori, al fine di eleggere un circuito virtuoso che veda come interpreti tante diversificate realtà: fondazioni, musei, gallerie, residenze e spazi per l'arte, aziende del made in Italy e brand internazionali, con i quali si sono disegnati progetti speciali, trasformati poi in concrete opportunità di crescita per la carriera professionale dei partecipanti. A ciò si aggiunga l'altrettanto arduo intento di raggiungere un sempre più vasto pubblico cui presentare il lavoro di centinaia di autori spesso sconosciuti transitati in laguna in questo decennio e catapultati al cen-tro del palcoscenico dell'arte per qualche settimana. Igor Zanti, direttore dello IED, l'Istituto Europeo di Design di Venezia, e presidente del Premio, riassume in poche semplici parole lo spirito dell'iniziativa che segue fin dalla sua prima edizione: «Il

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Premio Arte Laguna è anche un medium che diffonde l'arte tra la gente, che mette in dialogo la creatività contemporanea del mondo delle arti con lo spettatore, al fine di suscitarne emo-zioni. A ogni edizione il desiderio è quello di consegnare agli occhi del pubblico qualcosa di bello da osservare, qualcosa di stimolante su cui riflettere, qualcosa di intimo che accenda una luce su cose che molto spesso solo l'animo di un artista è in grado di vedere».Il lungo percorso di selezione degli artisti, che inizia l'anno pre-cedente con la pubblicazione del bando, si svolge nei mesi invernali quando, alla giuria, è chiesto di fare un ampio lavoro di scelta: sono migliaia le opere presentate a ogni sezione e tutte devono essere valutate attraverso una scheda di voto. I punteggi finali determinano i semifinalisti, tra i quali sono poi decisi i partecipanti all'evento di fine marzo, allestito negli spa-zi dell'Arsenale di Venezia. Per il 2017 sono state 125 le opere provenienti da tutto il mondo, dipinti, fotografie, installazioni, video, lavori digitali, ambientali, performativi che hanno otte-nuto il nulla osta della giuria internazionale presieduta da Zanti e composta fra gli altri da Tamara Chalabi, Suad Garayeva,

Ilaria Gianni, Emanuele Montibeller, Salvador Nadales, Fatos Ustek, Alma Zevi, solo per citarne alcuni. «La quantità quasi esagerata di opere d'arte ricevuta – ha detto il giurato Paolo Colombo – ci ha sottoposti a un fuoco incrociato visivo come mai in vita nostra. À bout de souffle, al punto che appena si respirava, si riprendeva un rapporto bulimico con le immagini che ci sono state inviate. Ma è stato un piacere, perché abbia-mo visto le immagini che abitano gli occhi di una popolazione vasta e non localizzata. Gli stessi gatti, ritratti di papi, scorci veneziani che ci arrivavano dall'Italia, ci giungevano dall'Ucra-ina, dalla Cina, dall'Australia. Abbiamo incontrato quantità di pittori accademici, con diversi gradi di abilità e competenza. Espressioni di sensibilità pittorica e umana ci sono passate di fronte agli occhi per due settimane, con ore e ore trascorse a guardare opere e a leggere biografie».Il concorso assegna oltre trenta premi tra quelli in denaro, mo-stre in galleria, collaborazioni con le aziende, periodi di resi-denza artistica in Italia e all'estero, coinvolge partner interna-zionali e imprenditori. In particolare, per l'undicesima edizione, sono state coinvolte quattro aziende (Deglupta, Eurosystem,

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a latoInge van Heerde, Magic Tragic Wood, 2016;Monica Supé, Untitled 8, 2016;Silvana Maldonado, Foitzick, Humanoides 7, 2016

sottoMassimo Dalla Pola, Il sole dei morti, 2014

a pagina precedenteAnna Caruso, Avrei voluto più tempo, 2016

in aperturaTadao Cern, Balloons, 2016

Rima, Papillover) particolarmente impegnate nella ricerca di nuove forme creative. Ognuna di esse ha chiamato all'appel-lo artisti e designer per quattro progetti «product specific», a cui si aggiunge quello speciale creato in collaborazione con gli Archivi della Sostenibilità dell'Università Ca' Foscari di Vene-zia e Comieco (Consorzio Nazionale Recupero e Riciclo degli Imballaggi a base Cellulosica). Tutte le collaborazioni e i pro-getti premiati si sono realizzati nel corso dell'anno andando a comporre un ricco calendario di appuntamenti in Italia, ai quali si è poi aggiunto il lancio della dodicesima edizione del premio in settembre. Da qui si ricomincia.

I VINCITORI

Sezione PITTURA: Elías Peña Salvador

Sezione ARTE FOTOGRAFICA: María Gabriela Chirinos

Sezione SCULTURA E INSTALLAZIONE: Elena Bertuzzi, Laure Chatrefou

Sezione LAND ART: Branko Stanojevi, Milena Strahinovi

Sezione VIDEO ARTE E PERFORMANCE: Eliza Soroga

Sezione ARTE VIRTUALE GRAFICA DIGITALE: Hill Kobayashi Kobe

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Paolo Bini si definisce un romantico. E romantico lo è davvero nel racconto del suo ultimo progetto realizzato per Editalia. Un lavoro assoluto e assolutamente astratto, dal quale tuttavia traspare con intensità la passione della nuova ricerca che affronta. Esplosioni monocromatiche tridimensionali dalla forma essenziale, ovali dallo spessore di dodici centimetri nei quali la stratificazione del colore, steso sulla base di polvere di ferro con pennellate sovrapposte cariche di for-za, sintetizza il tema centrale dell'indagine artistica della percezione del mondo, composta di luce, spazio e tempo.Nella sua opera Bini «filtra attraverso il suo vissuto emotivo la percezione del mon-do, la scompone, ricompone e trasforma nelle linee essenziali di struttura, colore e luce» i paesaggi del Mediterraneo, la Grecia, il Cilento, naturale riferimento affetti-vo. Nascono la serie Untitled e Paesaggi diaframmati con i nastri di carta dipinti in acrilico che ricompongono sulla tela in senso orizzontale o verticale l'elemento na-turalistico processato dalla mente e dal cuore. Un fotogramma isolato dal contesto che sintetizza in un gesto e in un colore il sentimento del paesaggio.La nuova ricerca, iniziata con le opere esposte alla mostra della Reggia di Caserta nel gennaio del 2017, approda oggi a un livello creativo originale: l'astrazione mo-dulare monocromatica, sintesi estrema del lavoro dell'artista sulla forma del pa-esaggio e sul tempo. La molteplicità delle forme del paesaggio già sperimentata

PRIMO PIANO

FIERE

DI CECILIA SICA

ARTISSIMA SCOPRE GLI HYPERSPACE COLOURSPresentati all’importante rassegna torinese i nuovi multipli di Paolo Bini realizzati in esclusiva per Editalia

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assume nel progetto Hyperspace colours la consistenza di una scultura da muro. Il motivo dominante è la righettatura orizzontale dello spessore che rievoca, nella forma, le struttu-re orizzontali delle opere precedenti concentrando la tensione sul sentimento puro del colore, della luce e della loro ombra colorata. Più vicina al monotipo che al multiplo, ogni opera è realizzata direttamente da Bini con un processo cromatico manuale molto elaborato. Le forme subiscono una prepara-zione a base di polvere di ferro che con successive stratifica-zioni indurisce l'EPS per sua natura fragile. Su questa base Bini stende i colori che ha identificato per rendere vivida la sua emozione. I tre colori scelti, giallo, blu e bianco, rappre-

sentano tre relazioni possibili con lo spazio e con il tempo. Il giallo e il blu sono realizzati con pigmenti puri che assorbono la luce, mentre il bianco la riflette. In Di giallo dipinto con om-bre sottili Bini ha cercato un giallo neon che avesse la forza di un corpo estraneo, un giallo generatore di luce che irradia sulla parete energia e gioia, mentre in Con il blu custodisco i miei sogni ha immaginato un oblò aperto sulla profondità dei pensieri, un'opera ipnotica che invita all'interiorità. Entrambi i colori sono un omaggio, una dichiarazione d'amore, al Cilento e alla Grecia, terre che hanno nutrito e continuano a nutrire la creatività di Paolo Bini. Il bianco Interstizio laterale, con un assetto cromatico variabile (bianco cangiante), dialoga con lo

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a sinistraIl trittico completo degli Hyperspace colours

in aperturaPaolo Bini davanti alla sua opera

HYPERSPACE COLOURS

Hyperspace colours si compone di 36 monotipi su EPS, sagomati mediante plotter, in 12 esem-plari per ciascun titolo. Ogni monotipo è dipinto a mano dall'artista. La tecnica pittorica messa a punto da Paolo Bini si basa sulla saturazione cromatica della superficie con pigmenti di colore puri passati in decine di strati fino a creare una superficie intensa e profonda. Di giallo dipinto con ombre sottili, Con il blu custodisco i miei so-gni, Interstizio laterale: sagome ovali, 98x78x12 cm. Tiratura: 12 esemplari ciascuno.

ARTISSIMA

L'edizione 2017 di Artissima, ambientata nei 20 mila metri quadrati dell'OVAL di Torino, è all'insegna delle novità, soprattutto sul fronte dei nuovi talenti. Per questa ragione Editalia ha deciso di presentare i lavori dell'artista campano, già vincitore del presti-gioso Premio Cairo 2016. La fiera ha coinvolto 206 gallerie da 31 paesi, più di 700 artisti presentati, oltre 2000 opere in mostra, 46 curatori e direttori di musei nelle giurie e nelle iniziative speciali, oltre 40 mila euro di premi per artisti e gallerie.

spettatore cambiando la percezione dello spazio nelle diverse ore del giorno e rispettando il silenzio di una relazione intro-spettiva. Tutte e tre le opere del progetto Hyperspace colours sono pensate per entrare in risonanza con lo spettatore, cam-biare con il trascorrere del tempo, imprimere di sé lo spazio.Per ciascun titolo Bini ha realizzato una serie di dodici mono-tipi, un numero importante che simboleggia il tempo nella sua durata breve (le ore del giorno) e nella sua durata lunga (i mesi dell'anno). La relazione fra le opere e il tempo, come scrive l'ar-tista, «non è casuale, riflette l'identità del lavoro stesso, dove i dipinti si mostrano fermi, statici e in attesa di poter prolungare la propria durata secondo la luce e lo spazio che abitano».

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La mostra Marino Marini. Passioni visive ha il grande proposito di inserire orga-nicamente uno degli scultori più importanti del secolo scorso nella storia della scultura. Obiettivo ambizioso e – dicono – inedito, anche se è difficile dimenticarsi quanti già hanno fatto questo tipo di proposta scientifica in anni passati, quando l'attenzione per il maestro era meno diffusa e sicuramente meno commerciale.L'esposizione, che si tiene a Palazzo Fabroni a Pistoia ed è a cura di Barbara Cinelli e Flavio Fergonzi, si presenta come uno dei momenti di punta delle cele-brazioni di Pistoia Capitale Italiana della Cultura 2017. È già prevista anche una seconda tappa alla Peggy Guggenheim Collection di Venezia dal 27 gennaio al 1° maggio 2018, appuntamento altrettanto importante visto l'attenzione con cui la collezionista americana si era dedicata all'opera dell'artista. La direttrice della Fondazione Marino Marini, Maria Teresa Tosi, ha più volte sottolineato come l'intento basilare sia quello di «ripercorrere tutte le fasi della creazione artistica del Maestro, dagli anni venti agli anni sessanta. Oggetto di indagine sarà soprattutto l'officina di invenzioni plastiche di Marino Marini che verranno poste in relazione diretta, immediatamente percepibile, con i grandi modelli della scultura del Novecento cui egli ebbe accesso; e, inoltre, con al-cuni scelti esempi di scultura dei secoli passati – dall'antichità egizia a quella greco-arcaica ed etrusca, dalla scultura medievale a quella del Rinascimento e dell'Ottocento – che furono consapevolmente recuperati da lui e dai maggiori

PRIMO PIANO

GRANDI MOSTRE

DI RENZO GIANDELLI

MARINO MARINI IL GRANDESCULTORE ETRUSCO

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sopraUn ritratto del 1967 di Marini nel suo atelier di Milano con la scultura Cavaliere del 1951

a destraArturo Martini, Tobiolo, 1933

a pagina seguenteMarino Marini, Cavallo e cavaliere, 1947;Giacomo Manzù, Ritratto di America Vitali, 1938-1939;Marino Marini, Nudo, 1947

in aperturaMarino Marini, Cavaliere, 1947

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scultori della sua generazione». Pensata in dieci sezioni per dare pieno conto della ricerca plastica dell'artista, la mostra propone un costante raffronto tra le opere del pistoiese e quelle di altri grandi del passato o di suoi contemporanei. Nella prima sezione i busti degli esordi sono affiancati a canopi etruschi e a busti rinascimentali, mentre il Popolo, la terracotta del 1929 che segnò la svolta arcaicistica di Marini, si misura con una testa greco-arcaica da Selinunte e con un coperchio figurato di una sepoltura etrusca. Anche la successiva ricerca di una diversa monumentalità, ben rappresentata dal capolavoro ligneo dell'Ersi-lia, è messa a confronto con sculture etrusche e italiche antiche. Verso la metà degli anni trenta Marini si concentra sul soggetto del nudo maschile e ne trae una serie di lavori destinati a lasciare un segno nella scultura europea, come evidenzia il raffronto con opere capitali del medesimo tema di Arturo Martini e di Giacomo Manzù.

Negli stessi anni, Marini reinventa il significato stesso del ritratto sculto-reo, attingendo ai modelli del passato, specialmente all'arte egizia,

da cui desume la lezione di una volumetria pura, intrinseca-mente monumentale. Momento centrale e di sicuro interesse

per gli appassionati, il focus sui primi grandi «cavalieri» dei secondi anni trenta che possono ritenersi un vero punto

di svolta della scultura del Novecento. A scorrere poi le «Pomona» e i nudi femminili, i «giocolieri», in quella

rielaborazione del classicismo post-rodiniano che ha davvero enunciato una nuova visione nella sta-

tuaria (non a caso alcuni raffronti sono fatti con il francese Aristide Maillol).

Verso il 1940, quando quasi tutti gli altri scul-tori italiani ed europei sembrano voler abban-donare la lezione di Rodin, Marino Marini la rivisita per dare inizio a una nuova stagione di ricerca che lo porterà nel dopoguerra a misurarsi con il contesto esistenzialista di una dei principali interpreti dell'epoca, Germaine Richier. Questa particolare de-clinazione della ricerca formale di Marini prende forma negli anni del conflitto, du-rante il suo esilio in Svizzera, quando lo scultore sembra guardare con partico-lare attenzione al drammatico realismo di Donatello: la presenza in mostra del busto di Niccolò da Uzzano del Mu-seo Nazionale del Bargello permette di comprendere a fondo le implicazioni di questa svolta.La ricerca postbellica riporta Marino Marini a indagare, in forme più astratte, il tema del cavallo e cavalie-re. Sono anche gli anni in cui il mae-stro inventa una nuova lingua per la resa espressiva del volto umano, di cui Milano (ora al Museo del Nove-cento, un tempo alla Galleria d'Arte Moderna) conserva una straordina-ria collezione.Chiudono la mostra pistoiese i pic-coli e grandi «guerrieri» e le «figure sdraiate» degli anni cinquanta e ses-santa messe in dialogo con Giovanni Pisano e, insieme, con le soluzioni più sperimentali di Pablo Picasso e di Henry Moore.

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«Ciascuno nel proprio tempo e nel proprio territorio, per vasto che sia, nel pro-prio ambito, gioca una partita, cercando di tenere fede alla propria interiorità». Si schermisce, Massimo Mazzone, quando – provocatoriamente, ma nemmeno trop-po – gli si domanda se nella sua sensibilità si senta più vicino a un Étienne-Louis Boullée o a uno Joseph Beuys. Insegna con convinzione Tecniche della Scultura a Brera: quando varca le porte dell'Accademia milanese, entra in un immaginario creativo che si è formato con la lezione del grande concettuale tedesco, ma giun-ge a una visionarietà che tradisce certe affinità con il pensiero del celebre autore francese del progetto per il cenotafio di Newton. In un momento storico in cui l'ar-tista sembra diventare mercante di se stesso, in cui comunicazione e PR paiono prevalere sull'ispirazione, scopriamo qualcuno che ancora segue le proprie idee... La tua arte è molto spesso legata al tuo personale impegno sociale. Da dove parte questa disposizione?Ho raccapriccio per le élite, gruppi autoproclamati o frutto di cooptazione di classe, i «figli di papà», hai presente? Oggi, quella che un tempo era la «lotta di classe» è guerra dei ricchi contro i poveri. Qualsiasi cosa guardiamo nel Moderno, lungi da essere produzione della «borghesia» – quella roba è finita da un secolo – tut-to quello che nasce, viene dal basso, il jazz, la moda, il design, la street art o il parkour, l'hip hop, il rock, il punk. Stili di vita, l'ecologia, l'ecologia sociale, la de-mocrazia diretta, l'amore libero, l'emancipazione dal patriarcato, il vegetarianismo,

VISTI DA VICINO

PROTAGONISTI CONTEMPORANEI

DI MASSIMO MATTIOLI

L’ATENEO LIBERTARIO DI MAZZONE

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il sindacalismo di base, il femminismo, la pianificazione fami-liare, la non violenza, l'antimilitarismo, il pacifismo, il federa-lismo, punti di vista sul mondo che ci riguardano tutti, nulla di questo viene dalle élite, tutto viene dalla strada. Io riven-dico questa appartenenza Lumpen. Malatesta diceva: «Se sparissero i calzolai, non si farebbero scarpe; se sparissero i muratori, non si potrebbe far case. Ma che danno si risen-tirebbe se sparissero i signori? Sarebbe come se sparis-sero le cavallette». È da questo che scaturisce l'impegno. In molti casi questo tuo impegno sfocia nell'attivismo. Come collochi la sfera creativa in questo?L'impegno è questione di sensibilità, io vivo in una casa po-polare occupata. Se sai cosa significhi stare senza un tetto, solidarizzi per sempre con chi occupa una casa vuota al di là di chi ne sia il «legittimo proprietario»; la casa è di chi la abita. E mi vergogno dell'Italia che ha prodotto l'articolo 5 del Piano casa, un'aberrazione della quale i nipoti ci chiederanno conto. L'articolo 5 recita: «Chiunque occupa abusivamente un immobile […] non può chiedere la residenza né l'allacciamento a pubblici servizi in relazione all'immobile medesimo e gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge». Si tratta di una specie di legge razziale, eredità della retorica Expo 2015. Oggi, come quando l'Italia promulgò altre leggi razziali, nessuno dice niente. Le conseguenze sono enor-mi. Ricordiamo che senza residenza non hai acqua, luce né gas, ma neanche medico di famiglia o tessera elettorale, non si iscrivono i figli a scuola e si diviene sub-cittadini. Quante persone italiane, europee ed extraeuropee, vuoi per condizioni economiche sfavorevoli, vuoi per malattie, licenziamenti, di-vorzi o per qualsiasi altro accidente della vita, si trovano oggi in questa situazione? In questo senso, quando con P.I.G.S.

abbiamo portato le produzioni degli abitanti di Metropoliz (oc-cupazione abitativa illegale in periferia est di Roma) nei musei, si è trattato di «scultura sociale».Ti trovi spesso a lavorare con interlocutori iberici o suda-mericani. Da dove nasce questo feeling?È in corso la «brasilianizzazione» dell'Europa, la «favelizzazio-ne», lo «stato d'emergenza» è crescente, la forbice sociale è divaricata e stiamo passando velocemente dal «welfare state» al «warfare state», basta osservare le condizioni di vita nei luo-ghi di lavoro. Le convergenze sono dettate dall'assetto globale che è neototalitario. Abbiamo da imparare dal cannibalismo e dal tropicalismo brasiliano, una fetta di Moderno troppo a lungo trascurata: basti pensare che artisti come Lygia Clark o Hélio Oiticica o Antonio Manuél sono pressoché sconosciuti in Italia. Allora sono gli artisti a supplire. Il mio testo Corpo, Scul-tura, Architettura del 1999 è il primo in italiano dove si parla di Lygia Clark. Alla Biennale di Architettura di Venezia del 2006 portammo al Padiglione del Venezuela una rassegna video con tre film di Antonio Manuél, il Padiglione del Brasile portò una pellicola del 1975 alla Biennale d'Arte, ma solo nel 2015, e di certo la colpa di questo ritardo non fu dell'ottimo curatore Luiz Camillo Osorio. Il collegamento con la Spagna ha poi altre ragioni: Italia e Spagna sono unite storicamente dalla ricerca dell'Ideale che comincia con Bakunin e Fanelli. Poi ho fatto il dottorato di ricerca a Granada: il gruppo Escuela Moderna/Ateneo Libertario è radicato in Spagna, ma il giuramento di Bolivar, eroe della liberazione del Sud America, è stato fatto a Roma il 15 agosto 1805. Le relazioni internazionali sono un fat-to storico. La Escuela Moderna di Ferrer i Guàrdia ha influen-zato la pedagogia nel mondo, Man Ray ha fatto la sua prima mostra al Ferrer Center di New York. A Marino (in provincia di

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in questa paginaScultura Costruita, 1992;Escuela Moderna/Ateneo Libertario(Occupy Rome), 2011-2012

a pagina precedenteSlancio, 2017scultura per l'Aeroporto Marco Polo di Venezia realizzata da Massimo Mazzone e Giacomo Tringali

in aperturaModello in ferro per Disubbidire-disertare, monumento al disertore, concorso internazionale per Trg Slavija Beograd, 2007 (Bluoo studio)

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Roma), il paese dove sono nato, sin dal 1909 c'è una targa dedicata a Ferrer, po-sta da anarchici e repubblicani in occa-sione della sua fucilazione a seguito dei fatti della Semana Trágica di Barcellona. La targa è sopravvissuta a monarchia, fascismo e Democrazia Cristiana. Anar-chia è per me internazionalismo.Recentemente sei stato tra gli anima-tori di P.I.G.S. e di Spazi d'eccezione, una rete di creativi e teorici attivisti di Portogallo, Italia, Grecia, Spagna. Ci racconti per sommi capi l'esperienza?P.I.G.S. e Spazi d'eccezione sono opera-zioni collegate alla crisi. P.I.G.S. raccon-ta la «crisi» dal punto di vista degli artisti e degli attivisti su scala mediterranea. A breve uscirà un testo in Braille e come audiolibro curato dall'Istituto dei Ciechi di Milano. Quello che P.I.G.S. dice su scala mediterranea, Spazi d'eccezione lo racconta su scala globale. Mostre, di-battiti, manifestazioni, performance che sono passate da luoghi istituzionali e da luoghi illegali. Le leggi razziali del 1939 erano tecnicamente «legali», ma crimi-nali. La Legalità è niente senza Giustizia. P.I.G.S. a Barcellona ha coinvolto l'Arts Santa Mònica e l'Àgora Juan Andrés Benítez, ma anche il Reial Cercle Arti-stic e l'Editorial Veusambveu, a Roma il MAAM Museo dell'Altro e dell'Altrove di Metropoliz e l'Auditorium Parco della Musica, a Lisbona la Biblioteca BOESG e ad Atene il Nosotros Social Centre e A.R.T.H.E.S.I.S., mentre la mostra Spa-zi d'eccezione, dopo le presentazioni in Biennale Sessions 2016, è stata al S.a.L.E. Docks a Venezia, poi a Palermo al Tmo-Teatro Mediterraneo Occupato e sarà di nuovo in Sicilia contro il G7, pas-sando da Roma all'Auditorium e da Mi-lano alla Triennale a maggio. L'acronimo P.I.G.S. indica Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, ma in inglese significa «maiali». Per noi P.I.G.S. ha significato innanzi-tutto prendere le distanze dalla retorica patriottarda che ha accompagnato Expo Milano 2015, è stato il rifiuto radicale della narrazione sui Grandi Eventi cui ab-biamo risposto andando via a fare altro. Frequentemente lavori sull'arte pub-blica, a cavallo fra scultura e architet-tura. Credi che sia questa la modalità espressiva più sincrona con l'oggi?Le cose non nascono dal nulla, esi-ste sempre un'origine, un percorso. Sono stato influenzato da molte cose nella vita e dai miei compagni anarchi-ci e amici di sempre. Il sodalizio con

Nicoletta Braga, poi anche con Lau-ra Cazzaniga, Elisa Franzoi, Antonella Conte, Sara González, Emiliano Colet-ta, Osvaldo Tiberti, Alain Urrutia, Marco Trulli, Paolo Martore, è un connubio esi-stenziale. Mi sono formato anche sulle letture geografiche, soprattutto Milton Santos, Franco Farinelli, Beppe De Mat-teis, ma anche John Holloway, poi cer-tamente Carrino, Lombardo, D'Avossa, con cui ho avuto la fortuna di studiare in Accademia, poi artisti che considero esemplari come Antonio Manuél, Mauro Folci, Luca Vitone, Juan Pablo Macìas e Santiago Sierra, e molti grandi uomi-ni che mi hanno permesso di esprime-re il mio amore per l'architettura come Fuksas, Lahuerta, Muratore (recente-mente scomparso ha lasciato un vuo-to incolmabile dentro me). Poi anche Torricelli, Barba, Pasquali, Cellini, solo per nominarne alcuni. E poi certamen-te Alberto Abruzzese, un intellettuale maestro di laicità, ed Emanuele Severi-

no che mi ha trasmesso una metodolo-gia lucida e visionaria insieme, perché ci ricorda, come Parmenide, che il tempo non esiste. Così la mia ricerca segue filoni distinti. Da un lato ci sono perso-ne che amano il mio lavoro nel solco della Scultura Costruita come metodo per fare una scultura che non sia mo-dellata o scolpita, che eviti materiali e forme della statuaria, il cui approdo na-turale sia l'architettura. Dall'altra c'è un segmento di ricerca condotto negli anni con gruppi di studio come com.plot S.Y.S.Tem o Escuela Moderna, dove le opere non sono in vendita, ma in dono. Mai mi sono posto il problema di essere sincrono con il tempo, cioè con quale orologio un artista debba «rimettere le lancette». Insegni Tecniche della Scultura all'Ac-cademia di Belle Arti di Brera. È più quel che ti regala il rapporto con gli studenti o quel che ti toglie la condi-zione della scuola oggi?

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a latoSlancio, 2017scultura per l'Aeroporto Marco Polo di Venezia

sottoPiazza Project Eindhoven - Omaggio a Walter Benjamin, 2003architetto Massimiliano Fuksas

L'Accademia resta ancora – non senza sforzi – uno spazio di libertà. L'idea scel-lerata di «scuola-azienda» si sta facen-do strada adulterando il contesto. Poi ci metti le cosiddette riforme, la messa a «ruolo ad esaurimento» dei docenti che impedisce il fisiologico ricambio gene-razionale, poi, ovvio, vi sono Seconda Fascia senza progressione di carriera e precari da decenni sfruttati da contratti assurdi (meno di 3000 euro lordi all'an-no). Aggiungi stipendi simbolici, passio-ne per la governance, trasferimenti con abbandono di sedi storiche, un'idea bu-limica di crescita che guarda ai numeri, alla quantità e non alla qualità. Le criti-cità non mancano, ma il rapporto con gli studenti resta entusiasmante.Dacci la tua lettura delle dinamiche contemporanee in Italia oggi...Mi interessano i residui dell'Ottocento colonialista, i musei, le grandi rassegne internazionali, le grandi esposizioni uni-versali con i padiglioni nazionali [ride]. Accompagnate da «narrative scalari ur-bane». «Narrative», perché nella Contro-riforma Postmoderna, il «racconto» ha

sostituito l'«oggetto» come l'«opinione» ha sostituito «la nozione di verità». «Sca-lari», perché tali racconti «zoommano» dal piano interplanetario al minimo det-taglio mantenendo rapporti di scala. «Urbane», perché il potere di attrazione che la città esercita sulle masse asservi-te al capitalismo, oggi, è tale che oltre la metà della popolazione mondiale vive in agglomerati urbanizzati, spesso barac-copoli. In questo panorama il museo è ancora il luogo delle Muse? Qui intendia-mo il museo nel significato di dispositivo culturale per la raccolta, la conservazio-ne e l'esposizione dei prodotti artistici socialmente rilevanti di un aggregato vivo, cioè una rete nella quale convergo-no, raccordandosi, collezionismo, mer-cato, rassegne internazionali e politiche culturali, la critica, la storiografia dell'arte e la costruzione dell'immaginario. Anco-ra oggi, istituzionalmente, spetta al mu-seo fornire il paradigma delle nozioni di «arte», «artista» e «opera». Allora io ti chiedo: all'interno di musei e di rassegne internazionali, trovi ricerca, arte o propa-ganda al neoliberismo?

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Rainer Maria Rilke ci ricorda che Paul Cézanne si alzò nel bel mezzo di un pranzo «quando questi raccontò di Frenhofer – il pittore che Balzac, con un'incredibile previsione degli sviluppi futuri, ha inventato nel suo racconto Le chef-d'œuvre in-connu […] – e, senza voce per l'eccitazione, punta il dito, ripetutamente, con chia-rezza su se stesso e mostra sé, sé, sé, per quanto di doloroso poteva esserci in questo» (Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto, Milano, BUR, 2007, p. 50). Lo stesso episodio sarà ripreso da Émile Bernard, il quale descrisse Cézanne inten-to a percuotersi il petto con l'indice, affermando di essere lui il protagonista del romanzo, e nel fare ciò gli occhi gli si erano arrossati a tal punto che sembravano dover scrosciare in un fiume di lacrime. Non a torto, Cézanne aveva finito per im-medesimarsi in Frenhofer, convinzione suffragata dalla presenza di Poussin che, in veste di deuteragonista del racconto, finisce per paragonare l'œuvre inconnu a una muraille de peinture (il Maestro dell'Annunciazione di Aix era solito affermare di voler rifare «Poussin sulla natura», intendendo dire che si auspicava di rendere l'impressionismo solido e durevole come la pittura degli antichi maestri).Cézanne è stato spesso definito un architetto in virtù di quella sua irriducibile vo-lizione a costruire l'immagine; con pochi tocchi di colore riusciva infatti a ottenere la solidità plastica tanto agognata. Nonostante le sue pennellate fossero gravide di struttura e di significato, c'è chi lo aveva ingiustamente declassato a mediocre mu-ratore. Salvador Dalí, ad esempio, lo scherniva definendolo un «muratore neoplato-

VISTI DA VICINO

NUOVE GENERAZIONI

DI ALBERTO ZANCHETTA

DE PREZZO, LA MURAGLIA DI PITTURA

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nico» (Salvador Dalí, I cornuti della vec-chia arte moderna, Milano, Abscondita, 2008, p. 81). Non meno clemente era stato il giudizio di Manet che indicava l'amico alla stregua di un muratore che dipingeva con la cazzuola, invettiva poi ripresa sulle pagine di L'Intransigeant, dove Henri Rochefort irrideva a una testa cézanniana che pareva avesse le guance «martellate con la cazzuola».Malgrado l'opinione dei suoi detrattori, la cazzuola-pennello di Cézanne pote-va ottenere quella sublime «muraglia di pittura» che noi, oggi, ammiriamo e invidiamo. La vessazione dell'immagi-ne – questo occultamento che ha in sé il presagio di un affossamento icono-

grafico – nasconde in realtà una smania di perfezionamento, sempre disatteso, sempre inappagabile. Accumulati in-cessantemente, gli strati di pittura de-scritti da Balzac finiscono per vanifica-re/sacrificare il lavoro pregresso. È ciò che accade nelle opere di Francesco De Prezzo, l'ultimo di una serie di no-velli Frenhofer che nei decenni prece-denti si erano districati tra l'Erased de Kooning di Robert Rauschenberg e la Übermalung di Arnulf Rainer. A inficia-re l'immagine preesistente ci avevano pensato anche gli overpainted paintings di Joan Miró, Enrico Baj, Asger Jorn e Peter Schuyff. I loro «quadri sovradipin-ti» non sono altro che tele acquistate

nei mercatini dell'usato, su cui gli artisti hanno deciso di intervenire con inten-ti ironici. Filtrando l'arte del passato e del presente, la sovrapittura è un tipico esempio del dibattito avanguardista pri-ma e postmodernista dopo. Diverso è però il caso di De Prezzo: l'artista non ricorre ai tableaux trouvés, ma dipinge egli stesso l'immagine che andrà a va-nificare con larghe campiture di colore bianco. Giocando sull'ambiguità lessi-cale del termine «pittore» (che identi-fica sia l'artista che l'imbianchino), De Prezzo dipinge i suoi soggetti in punta di pennello, lo fa con una deferenza al vero tipica dell'iperrealismo. Una cap-ziosità tecnica che alla resa dei conti

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sopraThere was here first, 2016installazione alla Fondazione Musildi Brescia

in aperturaIn confidence, 2016

viene negata, diciamo pure «intona-cata». Più che deturpata, l'immagine è [tra]sfigurata dallo scorrere dei rulli usati dagli imbianchini. L'eloquenza della pennellata iniziale, quel modus pingendi che distingue un pittore da un altro, viene offuscata da stesure impersonali, inespressive e inemotive. De Prezzo rimbianca la tela così come si farebbe con la parete di una stanza. Ancora una volta ci troviamo di fronte a una muraille de peinture che intende annichilire l'immagine, restituendo alla tela il suo colore intonso, quel bianco di fondo violato dal gesto pittorico. In Le chef-d'œuvre di Frenhofer soprav-viveva ancora un brandello anatomico,

unico indizio della sua maniacale opera di rifinitura. Allo stesso modo, siamo co-stretti ad appellarci ai pochi particolari rimasti indenni dallo scorrere impietoso, ancor più che furioso, del rullo per riu-scire a [ri]conoscere gli oggetti dipinti da De Prezzo. In ultima analisi, non pos-siamo che convenire sul fatto che il suo discorso metapittorico abbracci la filo-sofia nietzschiana, dimostrandoci come la tensione creativa sia riconducibile a un recondito desiderio di distruzione. I dipinti-ridipinti possiedono una carica di ambiguità/ambivalenza che ci invita a guardare allo «sterminio delle immagini» come a una forma di rigenerazione mate-riale e concettuale.

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Pareti interamente ricoperte da libri, mobili fin de siècle lucidissimi, pile di riviste sul pavimento, dipinti di Fontana appena visibili, carteggi sulla scrivania e, persino, un maneki neko dorato (letteralmente «gatto che chiama»), uno di quei gatti portafortu-na in ceramica, con una zampa alzata. In un appartamento tanto luminoso quanto carico di oggetti attraversati dalla vastità del tempo, Gillo Dorfles, nato a Trieste nel 1910, concede un'intervista, una lezione in soggettiva sulla storia dell'arte degli ultimi novant'anni.Nella sua vita, in gioventù, in quale momento si è accorto di possedere un tra-sporto, un destino nell'arte?Fin da quando ero bambino mi divertivo a fare i miei cosiddetti scarabocchi, erano già forme di invenzione artistica, di valore minimo forse. Questo, comunque, rappre-senta ancora oggi, per me, un segnale: già all'età di sette oppure otto anni possedevo un'idea formata di quel che una creazione artistica avrebbe comportato. In termini di composizione e di invenzione.È possibile ravvisare un maestro, nella sua vita?Ho avuto come maestro me stesso, non ho mai dipeso esteticamente da nessuno. Naturalmente ho conosciuto grandi maestri come Ludwig Mies van der Rohe, ma non posso dire di considerarli miei maestri. Basta prendere ad esempio uno fra gli artisti più giovani di me, Lucio Fontana, con il quale ero amico molto intimo: ecco, lui sicuramente avrebbe potuto influenzarmi, data la sintonia che esisteva tra noi. Tra i

GLI INCONTRI STRAORDINARI DI GILLO DORFLES

VISTI DA VICINO

CONVERSANDO SUL SOFÀ

DI GINEVRA BRIA

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miei quadri e i suoi, però, non sussiste la minima analogia. Per quanto riguarda Rudolf Steiner, era il fondatore e direttore dell'antroposofia, cioè di quella forma di teosofia che cercava di scoprire i miste-ri dell'inconscio e dello spirito umano. E siccome nella mia famiglia c'era mia ma-dre che era membro della Società Antro-

posofica, ho cominciato a sentir parlare delle teorie relative fin da quando ho ini-ziato a prenderne coscienza, verso i dieci anni di età.L'antroposofia affida alla teoria dei colori un ruolo psichico, quasi quanto Goethe, autore che lei poi ha lunga-mente approfondito.

L'antroposofia ha sempre curato molto la definizione di colore spontaneo, quello che Goethe definisce come aus der Far-be heraus («emanante direttamente dal colore»), uno spirito che viene diretta-mente dal colore. Per cui, già da ragazzi-no, i miei tentativi si muovevano, magari anche non consapevolmente, in questo

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sopraUn ritratto inedito del 2017 di Lorenzo Palmieriin esclusiva per Sofà

a sinistraAntonio Esposito, Gillo, 2017

in aperturaAlcuni scatti storici di Ada Ardessi che ritraggono Gillo Dorfles

senso. La scrittura per l'arte, ovviamen-te, è venuta dopo il mio slancio verso la pittura, perché presupponeva gli studi al ginnasio, al liceo e avere una lezione più o meno letteraria, mentre lo scaraboc-chio spontaneo lo può fare, nella pratica, anche un selvaggio.Si ricorda del primo artista che è en-trato nella sua vita? Chi le ha fatto realmente comprendere cosa sia l'arte totale? Balla, ad esempio?Non saprei, sono parecchi. Anche da ragazzino, quando vivevo a Trieste, fre-quentavo molti artisti locali. Come per esempio Gino Parin che era un ritratti-sta, Arturo Nathan che era un metafisico vicino alle tematiche di de Chirico. Non appena potevo sono stato vicino alle loro vite, alle loro visioni e sono stato influen-zato dai loro lavori, negli studi che apriva-no anche a me.Dunque all'inizio la pittura si spostava lungo il piano figurativo, come piano di riferimento. Ma potrebbe parlarci del-la prima esperienza del MAC, da dove nasce la spinta per la sua ricerca ver-so una nuova visualità?A un certo punto, quando ero ormai maturo, maggiorenne, mi accorsi che eravamo entrati in un periodo in cui esi-steva un'arte non figurativa. Il Movimento d'Arte Concreta è stato fondato assie-me, tra gli altri, a Veronesi e a Soldati, per sottolineare l'importanza di questa ricerca. Munari era per me un collega e amico, all'interno del MAC, con un lato giocoso e d'inventiva tutto particolare. Naturalmente anche Max Bill, che noi co-noscevamo perché veniva spesso dalla Svizzera a Milano, talvolta per esporre le sue opere, ha sempre avuto una grande influenza sul gruppo. Noi avevamo rap-porti diretti con Basilea e con Zurigo.Quanto vi influenzò Ernst Gombrich?Lui è stato uno degli storici dell'arte più d'avanguardia. E non appena abbiamo scoperto che esistevano le sue opere e che erano disponibili, lui ha rappresen-tato una delle basi del nostro pensie-ro teorico. Gombrich era una persona squisita, molto simpatica, quando sono andato a Londra per la prima volta ha vo-luto immediatamente conoscermi e poi è venuto lui a trovarmi in campagna, in Toscana, con Ben Nicholson, un pittore che faceva parte del gruppo d'avanguar-dia londinese. Ricordo che dipinse alcuni paesaggi, inusuale come soggetto per lui, ma per me fu un onore avere un arti-sta importante come ospite.

Parliamo dei suoi rapporti con gli ar-tisti. Quali incontri, in qualità di cri-tico, le ha dato l'opportunità di pro-muovere la Roma di Plinio de Martiis, della Galleria della Tartaruga, rispet-to a Milano o a Venezia?Plinio è stato uno dei galleristi più aper-ti, più intelligenti dell'epoca. Quando mi sono stabilito a Roma per finire l'Universi-tà, lo incontravo costantemente assieme a un gruppo di artisti che gravitava tra via Sistina e piazza del Popolo. Ci vedeva-mo tutti i giorni, ci si trovava dopo le cin-que del pomeriggio, tra via Rosati e via Trastevere. Roma, rispetto a Milano era meno evoluta, ma in compenso ospitava molti artisti americani e si veniva subito in contatto con le tendenze d'avanguar-dia. Ricordo Twombly, Marca-Relli, erano molto giovani, allora, ma c'era Margherita Sarfatti che illuminava l'ambiente cultura-le e che ci faceva crescere. Poi, c'erano anche le gallerie in via Sistina. Quando a Milano dominava ancora l'ondata futuri-sta e il MAC aveva appena cominciato a crescere, a Roma le cattedre artistiche, come quella di Argan per esempio, era-no molto arretrate. C'era uno scollamen-to molto forte. Sono stati anni di lotta, in parte anche appoggiati da Sarfatti, per far accettare le correnti contemporanee che cominciavano a filtrare dalla Svizze-ra. Noi stampavamo anche una rivista, il Bollettino del Salto, che seguiva il nostro percorso. Potrebbe parlarci del suo rapporto con Soldati? E con Veronesi?Ero molto amico di Soldati, che predilige-va le forme astratte, non figurative. Erano

i due capiscuola del MAC, ognuno di noi lavorava separatamente e poi ci si incon-trava molto spesso a parlare, a discutere.E il Bauhaus?Per noi rappresentava la sintesi tra ar-chitettura, pittura e tutte le diverse arti. Il Bauhaus ha influenzato l'arte europea di quel periodo.Potrebbe, infine, annunciare i suoi programmi futuri?Il 13 febbraio inauguro una mostra nel-la sala del Grechetto della Biblioteca Sormani dal titolo Gillo Dorfles. Citazio-ni oscure. Disegni. Presento una serie realizzata nel 2007 intitolata Kein Tag ohne Linie, in omaggio a Paul Klee. Filo conduttore dei disegni esposti sono frasi letterarie tratte da Ulisse di James Joyce, dalla poesia The Tyger di William Blake, da un haiku del poeta giapponese del periodo Edo, Matsuo Basho, dalla poe-sia The Pelican Chorus di Edward Lear (il padre dei famosi limerick inglesi), dalla poesia Es winkt zu Fühlung fast aus allen Dingen di Rainer Maria Rilke, da Amleto di William Shakespeare e da Inni sacri di Alessandro Manzoni. E per il momento direi che ho fatto abbastanza.

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Quella di coniugare delicatezza e passione, tocco di sfioro e presa carnale, è que-stione con la quale ogni spinta creativa si trova a misurarsi, presto o tardi. La po-etica di Franco Piavoli riesce nel compito arduo di ricollocare l'uomo nella propria animalità senza costringerne la spiritualità, anzi, trovando la strada per esaltarla proprio in virtù di questo processo.Il celebre regista, originario di Pozzolengo, nel bresciano, è giunto a scegliere il cinema come mezzo principe della propria espressione dietro la spinta dell'amico e sodale Silvano Agosti e ha fatto fin da subito della macchina da presa un occhio investigativo, esploratore dei dettagli, dedito a indugi che allo sguardo sarebbero altrimenti proibiti. Tracciare il profilo sospeso tra stupore estatico e piacere estetico e affondare gli occhi nei segreti della natura devono essere sembrate due opera-zioni tutt'altro che distanti a un artista che ha esordito nei lungometraggi con un film come Il pianeta azzurro (1982). Inquadrature in campo lungo e strettissimi primi piani allargano e restringono ritmicamente il nostro punto di vista, prendendoci per mano e assimilandoci a un altro ritmo, quello delle stagioni, come se si trattasse di coordinare il respiro con quello delle immagini.«Respiro» è un concetto chiave della produzione piavoliana che funzionerà anche e soprattutto se lo espandiamo oltre i confini del cinema. L'«ànemos» greco è il soffio, il respiro vitale, ma anche il vento. Con questa particolare lente focale l'ar-tista guarda il cosmo e lo vede, lo percepisce insufflato da una sola anima, da un

VISTI DA VICINO

SPETTACOLO DELL'ARTE

DI PAOLO CAPELLETTI FOTOGRAFIE DI PIERANTONIO TANZOLA

FRANCO PIAVOLIIL SOFFIO CHE DÀ VITA, INSIEME

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respiro collettivo, da un ritmo che acco-muna, che fa comunità. E per questo, forse, da quando imbracciò per la prima volta la macchina fotografica negli anni cinquanta (notevoli i suoi ritratti, tra gli altri, dell'amico Ugo Mulas) fino a oggi, il suo soggetto prediletto è stato la real-tà a lui vicina, il suo spazio originario, la sua località.Ànemos è uno spirito che pervade le cose, il generatore di un senso che non è religioso se non nell'accezione etimo-logica di «res-ligare» (tenere insieme le cose) né ecclesiastico se non, di nuovo, laddove l'«ecclesia» è l'assemblea, la

congrega, la comunità. Tutte le cose si tengono, si respirano e si danno respiro, e l'opera di Franco Piavoli riflette questa convinzione in tutte le direzioni in cui si spinge, che si tratti delle fotografie gio-vanili, degli acquerelli e dei pastelli o, na-turalmente, delle immagini in movimento.A condurre il respiro, allinearne il batti-to, dettarne l'apprendimento, è spesso il silenzio. Se l'anima è intimamente corre-lata con la voce, qui ci viene intimato di usarla con parsimonia, per non spezzare il tempo, per farne un nucleo il più possi-bile privo di soluzioni di continuità. I per-sonaggi piavoliani non sono muti, si badi,

essi possiedono il fiato necessario a far-ne suono. Quel suono, tuttavia, è rispar-miato, speso solo se necessario, e anche quando ci arriva lo percepiamo per lo più come disarticolato, non formulato, già ricongiunto con il vento prima di trovare il modo di farsi «logos». Per questo sia-mo portati ad affermare che, nonostante l'intera opera di Piavoli sia permeata e sostenuta dalla poderosa orchestra della natura, in essa regna il silenzio. Si trat-ta del silenzio del tutto, del silenzio della voce assoluta, raccontato magistral-mente dall'Infinito leopardiano, poesia da cui Piavoli racconta di lasciarsi volentieri

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in queste pagine e in aperturaFranco Piavoli ritratto da Pierantonio Tanzola

ta di metafora per opposizione: non è nell'ascolto solitario dell'oltremondano o nell'ambizione individuale che si cela il segreto del vento.La voce più preziosa è quella del mon-do, dunque, e non stupisce più che i protagonisti di Al primo soffio di vento (2002) formulino frasi di senso compiu-to, recitino brani letterari e che la loro dialettica sia perfettamente intendibile alle orecchie dello spettatore, in rottura con il resto della produzione piavolia-na e con quanto siamo andati dicendo: le loro sono vicende di isolamento, di una solitudine metafisica che impedi-sce loro di stare insieme, di godersi a vicenda, e allora sentiamo la loro lin-gua, come un lamento eremitico, una preghiera, forse.Infine, quando torna il tempo della Festa (2016), dimentichiamo le parole e torniamo ad ascoltare Ànemos, a con-vivere, per lasciarci sfiorare e per toc-carci tremanti.

condizionare fin dagli esordi. «E come il vento / Odo stormir tra queste piante, io quello / Infinito silenzio a questa voce / vo comparando: e mi sovvien l'eterno».Il sovrumano silenzio del cosmo attra-versato dal respiro del vento e, al loro cospetto, l'uomo. È la condizione uma-na di sublime attrazione-repulsione per l'assoluto, per l'oltre-umano, per la co-noscenza divina.Un dominio nel quale spingersi equivale alla catastrofe, al perdersi, e lo sa bene Ulisse, protagonista del mito rivisitato in Nostos – il ritorno, secondo film di Piavoli (1989). Ulisse non sa resistere

alla tentazione di sentire il canto delle sirene, di accedere alla promessa di sa-pere tutto su tutto ciò che c'è. Sa anche che l'uomo che si affaccia su quell'abis-so ne viene travolto, ma «il naufragar m'è dolce in questo mare» e Ulisse è di-venuto piuttosto esperto in materia.L'opera di Piavoli sembra accettare di allontanarsi dalla sua terra, dal luogo del suo «ànemos», solo a patto di rac-contare il desiderio ardente di tornarvi e l'episodio che si costruisce intorno alla voce – alla voce più incantevole e magnetica che esista – diventa, nei confronti della sua creatività, una sor-

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Giuliano Gori colleziona opere d'arte dagli anni cinquanta, e dal 1982 la sua è una collezione aperta al pubblico. Come ha cominciato a collezionare e come è giunto all'idea di trasformare la villa e il parco della sua famiglia in un museo a cielo aperto di arte ambientale?Per comprendere la nascita e la crescita evolutiva della collezione occorre scindere il percorso in due periodi ben distinti, il primo nato e sviluppatosi a Prato nel ventennio 1950-1970, il secondo iniziato a Santomato di Pistoia alla Fattoria Celle e tuttora attivo.Oggi la collezione conta più di settanta installazioni realizzate da artisti di fama internazionale. Come avviene la selezione di un artista e quali sono le regole della sua committenza?Se intendiamo riferirsi al periodo di Celle, cioè a quello in cui la collezione si è trasfor-mata in produttrice d'arte senza profitto, le opere d'arte ambientale finora realizzate ammontano a circa ottanta. Gli artisti, scelti esclusivamente da noi, sono invitati a presentare un progetto nel rispetto di alcune regole: l'obbligo di far partecipare lo spazio da essi stessi prescelto come parte integrante e inscindibile dell'opera; l'ob-bligo dell'assoluto rispetto della natura che tra l'altro prevede il veto di modifiche sia dell'impianto vegetale sia di quello delle pendenze delle superfici.Quali sono le ultime opere inaugurate?Il 15 ottobre 2016 sono state inaugurate le ultime tre opere, due all'aperto e una nell'aia antistante la Cascina Terrarossa, sempre all'aperto.

BEL PAESE

LUOGHI DEL BELLO

DI LAURA POSADINU

LA COLLEZIONE CHE FA PISTOIA CAPITALE

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Dai suoi incontri con gli artisti sono nate queste installa-zioni: immagino ciascuna porti con sé una esperienza di-stintiva che ha arrricchito il suo portato umano.Ogni opera ha una sua storia particolare, con aneddoti, situa-zioni, impegni che ne arricchiscono il ricordo personale, anche in virtù del lungo tempo di realizzazione speso con l'artista: di norma si tratta di un minimo di tre mesi fino anche ai due anni.Quali sono i ricordi più belli riguardo agli artisti che hanno lasciato la loro impronta sul paesaggio di Villa Celle?La famiglia Gori si è trasferita a Celle nella primavera del 1970 con il proposito di realizzarvi un progetto di collezionismo in-novativo; gli edifici storici esistenti e soprattutto la qualità delle aree vegetali presenti ne giustificavano l'appropriato uso cui sarebbero state dedicate. Dopo lunghi lavori di sistemazione del parco e una volta realizzati i restauri degli edifici, a partire dalla fine degli anni settanta, abbiamo potuto dare inizio al pro-getto. Quel periodo è ricordato come «la grande avventura» e comprende i ricordi più belli. Decine di artisti, alcuni accompa-gnati dai propri assistenti, squadre di artigiani chiamate a col-laborare alle realizzazioni, e spesso anche giornalisti, italiani e stranieri, formavano delle grandi tavolate, in un clima creativo e in una babilonia dove ognuno dava il meglio di sé, come del resto è ancora oggi ben testimoniato.Oggi sempre più collezionisti aprono le porte al pubblico e offrono prospettive diverse rispetto ai luoghi istituzionali

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sopraDaniel Buren, La cabane éclatée aux 4 salles, 2005

a lato La stanza dedicata a Gilberto Zorio;Beverly Pepper, Omaggio a Pietro Porcinai, 1992

in aperturaDaniele Lombardi, Cappella Villa di Celle, Porta Sonora, 2016

di diffusione della cultura. Come è evoluto per lei il ruolo sociale del collezionista dagli anni cinquanta a oggi?Le collezioni private solitamente si distinguono da quelle pub-bliche sia per l'indirizzo concettuale delle scelte, sia per le fi-nalità imposte dalla nascita. A Celle la decisione di aprire la collezione al pubblico è stata presa all'inizio del 1982, dopo avere ben riflettuto su alcune grandi opere già installate, da noi ritenute non del tutto idonee a una collezione privata. Il ra-gionamento ci imponeva una scelta tra il cessare di crearne di altre o il condividerle con una platea più vasta. Dopo numero-si ripensamenti, ristretti all'ambito familiare, il 12 giugno 1982 abbiamo aperto pubblicamente la collezione, con la premessa che tutto sarebbe stato offerto gratuitamente, dagli ingressi ai parcheggi, alle guide specializzate ecc. Da quel momento la collezione, nel periodo che va da primave-ra ad autunno, ha ricevuto, e tuttora riceve, una moltitudine di visitatori, molti dei quali organizzati da musei, università, istitu-zioni pubbliche e private, provenienti anche dall'estero.Villa Celle è un museo in continua evoluzione e ciò presup-pone una gestione del progetto dinamica e aperta alla pro-gettualità artistica. Da chi è composto il suo staff e quali realtà locali collaborano al suo progetto?La collezione deve essere considerata come un grande labo-ratorio interdisciplinare dell'arte in continua evoluzione, dove

si alternano i vari protagonisti delle varie discipline culturali. In questo mezzo secolo di attività non soltanto non abbiamo mai ricevuto una lira e neppure un euro di contributi, ma in più ci sono state imposte macroscopiche tasse sia sugli edifici aperti gratuitamente al pubblico, sia sulle superfici scoperte.Il 2017 è l'anno di Pistoia Capitale Italiana della Cultura. In che modo Fattoria Celle si è inserita nel ricco programma culturale dell'evento?Siamo impegnati ufficialmente nel progetto di Pistoia Capitale Italiana della Cultura con molte iniziative, alcune in corso, altre ancora in via di realizzazione.

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Arrivo in via Neera 24 a Milano per incontrare Eugenio Monti Colla, direttore del-la compagnia marionettistica Carlo Colla & Figli. I marionettisti stanno montando il palco per lo spettacolo La bella addormentata nel bosco che andrà in scena fino al 31 marzo. Si respira l'incanto della magia. Entriamo subito nella dimensione del sogno, quando Eugenio mi racconta della sua avventura cominciata a 24 anni che, come nel sogno di Fitzcarraldo, recupera duecento anni di materiale marionettistico accatastato nelle depositerie comunali dopo la chiusura del Teatro Gerolamo e inizia il viaggio... «Chi sogna può muovere le montagne».Come nasce il suo amore per le marionette?A due anni. Cresciuto sul palchetto del proscenio del Teatro Gerolamo di Milano, dove, dopo alterne e rocambolesche vicende, ha lavorato la mia famiglia dal 1906, guardavo quello che per me era il sogno. Non un'illusione, il sogno. C'era, e c'è, nelle marionette un forte realismo, anche quando erano immobili, e mi colpiva tantissimo.Come è stata la sua infanzia?Mi ricordo che all'età di cinque anni passavo interi pomeriggi accoccolato in una poltrona che c'era in laboratorio, al buio, con la luce che filtrava soltanto dalle fine-stre, per vedere questi personaggi nudi e immobili che sgranavano gli occhi di vetro a guardare un infinito che io non avrei mai potuto vedere.Mi racconta del suo teatro, il Gerolamo, a quei tempi?Quando ero bambino, Carlo II Colla, discendente della famiglia e dunque della nostra

BEL PAESE

ECCELLENZA ITALIA

DI MARIA PIRULLI

IL GRANDE TEATRO DEL SOGNO CHE INCANTA

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tradizione plurisecolare, seppure molto anziano, continuava a essere l'anima del teatro, con messe in scena strepitose. Cominciavo comunque ad avvertire, non che fossero superate, ma che mancasse l'intelligenza di capire a quale stadio fos-se arrivato il pubblico. Vedevo già che qualcosa scricchiolava e, infatti, ci co-municarono che l'intero stabile sarebbe stato abbattuto nel 1957. E poi?Avevo 17 anni quando hanno chiuso il Gerolamo. Ho studiato, mi sono lau-reato in Storia del teatro e l'ho anche insegnata… Ma sentivo il dovere di dare di più al teatro delle marionette. Ho radunato alcuni dei miei studenti, quelli che dimostravano più passione e talento. Prendevano il titolo di studio e intanto venivano in laboratorio il sabato e la domenica a imparare, a cominciare a salire sul ponte, tanto è vero che sono stati, e sono ancora adesso, collabora-tori eccezionali…E oggi?Potrei dire di essere soddisfatto, ma in realtà non lo sono, perché non ho voglia

di fermarmi, non ho voglia di dire: «Ecco sono arrivato!».La settimana scorsa siamo stati chiamati a inaugurare il nuovo Teatro Gerolamo. C'è un futuro di grande prestigio. Ho visto in una settimana tutto quello che avrei voluto vedere nel 1957: il teatro esaurito, applausi a non finire. Però non si respirava neanche l'eco di quello che ricordavo. Posso raccontarti dei Capo-danno in cui, dopo la recita del pomerig-gio, finito tutto, alle 18.15 si sgomberava la platea per festeggiare l'ultimo giorno dell'anno tutti assieme... Il Gerolamo è un pezzo della cultura, della storia e dell'arte di Milano.Come si è tramandata la vostra storia?Abbiamo la fortuna di libri mastri, ma-nifesti, locandine che ricostruiscono davvero la storia della compagnia dalla A alla Z. Quando ho cominciato c'erano circa 610 marionette, oggi ce ne sono più di tremila.Che cosa prova il marionettista sul ponte, mentre muove i fili? Ho una duplice funzione: devo pensare che dall'altra parte c'è qualcuno che si

aspetta qualcosa dalla marionetta, fosse anche uno sberleffo, e l'altra cosa è che non devo più esistere, devo annullarmi e riuscire a scendere lungo i fili per arrivare a quel pezzo di legno che si anima.La differenza del lavoro di un mario-nettista rispetto a quello di un attore?Hai il senso dell'onnipotenza perché puoi diventare un giovane, un bambino, una donna vecchia, un anziano, un brutto, un bello. Hai la possibilità di interpretare un numero infinito di personaggi, cosa che il teatro di prosa non ti può assolutamen-te permettere. State lavorando a una Gazza ladra per il Teatro alla Scala…Sì, per la regia di Salvatores. Il nu-mero delle marionette sarà il doppio dei cantanti. Ci saranno marionette in costume, alcune a fili lunghi altre a fili corti, che agiranno sulla scena inter-vallandosi alle comparse e ai coristi. Sul palco ci saranno quindi marionette, marionettisti e cantanti. Suppongo che Salvatores abbia scelto le marionette con la stessa funzione mediatica della gazza. La gazza è un personaggio che

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in questa pagina e in aperturaLe celebri marionette dei Colla e un ritratto di Eugenio Monti Colla di Corrado Bonora

a pagina precedenteUna scena dello spettacolo Aladino

non dovrebbe comparire, ma Salvatores lo fa comparire e sarà interpretato da un mimo del Cirque du Soleil. È la quarta volta che la Scala ci chiama.I vostri rapporti con il cinema?C'è la pellicola I quattro moschettie-ri girata con le marionette dei Colla nel 1936 e recentemente restaurata. Poi abbiamo fatto Le avventure di Pinocchio di Comencini, Facciamo Paradiso di Monicelli e un film nel 1916, che si inti-tolava Il sogno folle, che era una meta-fora dell'ascesa al potere in Germania di Hitler che non era ancora a capo del par-tito nazionalsocialista e molti altri film.Gli attori di teatro si sono interessati alla compagnia? Ho visto due anni fa Franca Valeri che mi ha detto ancora: «Restituite il Gerolamo!». Nei suoi libri è sempre citata la sua emo-zione nel vedere le marionette nel nostro teatro. Paolo Poli è venuto a tenere una lezione alla nostra scuola dicendo: «Fida-tevi del tornar bambini, non pensate che sia una sciocchezza». Luchino Visconti mandava i suoi assistenti, diceva: «Anda-te dai Colla a imparare come si fa il tea-tro». Stravinsky descrive uno spettacolo che è ancora in repertorio.Quali sono i vostri prossimi progetti?La nostra fortuna è che devo anche

scegliere tra le commissioni che ci pro-pongono. Di andare in Germania nel te-atro costruito da Goethe per un'opera di Händel con le marionette della Carlo Colla & Figli non lo avrei mai pensato. È chiaro che non possiamo portare in giro marionette del Settecento e dell'Ottocen-to. Porteremo in scena, a Pistoia, anche un'opera del 1656 che storicamente è la prima opera per marionette e cantanti che sia mai stata scritta. Poi Verdi, perché è una tradizione ottocentesca dei Colla…Quale pensa sia il futuro del teatro delle marionette?Quella dei Colla è un'isola felice. Ma vedo un futuro. Non so come, ma certa-mente ci sono potenziali eredi di questa tradizione. E la cocciutaggine con cui pensano che il pubblico debba essere educato è la forza più grande.Cosa può insegnarci, oggi, il teatro delle marionette?Una volta un bambino è salito sul pal-co, un marionettista ha cominciato a muovere la marionetta e il bambino per dieci minuti non ha mai alzato lo sguar-do in alto: questo deve continuare a essere lo spettacolo delle marionette. Non bisogna dare regole, ma formule per lo spirito. Il teatro è un rito, valido in ogni tempo.

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FATTI AD ARTE

TEMPO PRESENTE

DI CECILIA SICA FOTOGRAFIE DI LORENZO PALMIERI

Emilio Isgrò è al lavoro nello studio abitazione milanese tra cancellature, formiche e carte geografiche artefatte per creare due opere multiple che parlano al mondo, del mondo. Emilio, quando hai inventato il gesto della cancellatura che oggi definisce il tuo linguaggio?Le mie prime cancellature risalgono al 1964 quando avevo poco più di vent'anni e mi resi conto che la parola umana rischiava di essere sommersa dalla comunica-zione mediatica a quel tempo prevalentemente televisiva e fondata sull'immagine. Questo comportava dei rischi per la comunicazione tra gli uomini, perché l'imma-gine comunica, ma non ha la flessibilità della parola o del pensiero umano che attraverso la parola si estrinseca meglio che attraverso le immagini.Cancellare è un gesto distruttivo o liberatorio?Quando mi posi questo problema cominciai a cancellare e il gesto apparve imme-diatamente ad alcuni come un gesto nichilista e distruttivo, in effetti nel momento in cui cancellavo le parole segnalavo il bisogno di un ritorno alla parola e alla sua integrità. La cancellatura era fatta per proteggere le parole e non per distruggerle. Per farle rivivere – era questo il mio scopo – per far rivivere la comunicazione tra gli uomini nel modo più schietto possibile. Era anche una valvola di sicurezza, perché cancellare significa anche sospendere quella comunicazione un po' verbale, un po' visiva, o tutte e due le cose insieme, che spesso ci sommerge e non ci lascia riflettere. Oggi l'umanità ha bisogno di riflettere, perché la mancanza di riflessione

CANCELLARE PER RITROVARE IL MONDO Mondoquadro e Mondo di vetrosono le due nuove opere di Emilio Isgrò realizzate in esclusiva per Editalia

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in questa paginaMondo di vetro e Mondoquadro

a pagina seguenteAlcuni momenti della lavorazione dei nuovi multipli di Emilio Isgrò in esclusiva per Editalia

in aperturaUn ritratto inedito di Isgrò realizzato da Lorenzo Palmieri

porta a danni seri per il mondo europeo e l'Occidente in genere. Bisogna torna-re a riflettere, a pensare e a studiare; la parola è lo strumento che ci consente di studiare meglio, questo senza sotto-valutare una civiltà visiva che un po' ci pressa da tutte le parti.Cancellare il mondo fa parte di una se-rie di opere «geografiche», è un rifiuto critico o un nuovo punto di partenza?Non ho cancellato solo libri e giornali, in un periodo della mia vita ho cancellato anche molte carte geografiche. Sono opere che io chiamo «cartografia» che risalgono alla fine degli anni sessanta, dove i nomi del-le città, dei mari e delle catene montuo-se erano completamente sommerse dal nero. Il mio intento era di far scomparire i nomi della civiltà umana, con l'auspicio di riportare il mondo a uno stato di natura dove prima ancora della cultura prevales-se l'affettività umana e la volontà di dare un nome nuovo alle cose. Oggi è sempre più necessario, perché ci stiamo abituan-do, senza battere ciglio, a un mondo fatto di guerre, di conflitti e di squilibri sociali. Per rifiutare un mondo così non bisogna essere dei sovversivi, basta essere degli onesti conservatori intelligenti.La tua opera ha un forte impatto etico e civile, che cosa vuoi dirci in Mondoquadro e Mondo di vetro?Le opere realizzate per Editalia rappre-sentano una cesura nella mia ricerca, perché quando rappresento il mondo «quadro», rappresento un mondo che ha perduto la sua rotondità e quindi si è fatto più aspro, pieno di punte e di dif-ficoltà di approccio. È il nostro mondo attuale, dove il nostro vicino può essere il nostro principale nemico e non il nostro fratello. Preferisco un mondo fondato sull'accoglienza e sull'inclusione, sce-vro da razzismi e da inutili guerre ai più poveri. D'altra parte un mondo «di vetro» è quello in cui esattamente viviamo, un mondo attraversato da formiche e qua e là cancellato dalle stesse formiche che si mischiano alle cancellature. Le formiche in questo caso diventano quelle creatu-re fragili che possono essere calpesta-te anche solo da una scarpa da tennis. Cosa vuole dire? Che un eccesso di finta benevolenza, a volte, nasconde gli artigli. La nostra non è una società be-nevola, è una società crudele e cattiva. Ed è bene che un artista lo segnali, è questa la funzione dell'arte: rappresenta-re il mondo così come è, non abbellirlo. Certamente quando creo le mie opere

QUANDO IL MONDO È UN CUBO

Un mondo cubico fatto di spigoli per trasmettere la sensazione di un mondo aspro, composto da in-numerevoli fragilità. Alcune formiche salgono sulla base e sulla teca per vincere la spigolosità e rifon-dare lo stato naturale.

Mondoquadro, 2017Cubo in legno, serigrafia originale a quattro colori, contenuto in un cubo in plexiglass serigrafato a un colore; al posto dell'oceano Pacifico com-pare la scritta «Pacem in terris»; doppia base girevole con serigrafia a un colore. Formato: 29x29x33 cm. Tiratura 80 esemplari.

Mondo di vetro, 2017Cubo in legno con angoli smussati a incavo, seri-grafia originale a quattro colori, globo in vetro sof-fiato di Murano serigrafato a un colore; sulla fascia equatoriale in ferro è incisa la prima frase dell'en-ciclica «Pacem in terris»; formica in microfusione a cera persa in bronzo laminata in palladio; asse in acciaio inclinato di 23,7 gradi, altezza 35 cm. Tira-tura 80 esemplari.

cerco di costruirle in modo tale che lo spettatore entri in contatto con l'artista e ne condivida il modo di sentire. Che ruolo hanno le formiche?Le formiche si arrampicano sulla sfera di vetro, che in questo caso contiene un nucleo cubico che rappresenta un mon-do pieno di spigoli. La sfera di vetro sulla quale tentano di salire le formiche potrà forse salvarci, perché ci restituisce quelle rotondità del mondo che oggi non ci sono più. La rotondità del mondo significa un approccio fiducioso verso la vita ed è questo che dobbiamo avere. Il rispetto degli altri e di se stessi va ogni giorno co-struito e salvaguardato, non è una conqui-sta che vale per sempre. E la democrazia diventa uno strumento che non può es-sere inquinato da facili scorciatoie di tipo demagogico. La società delle formiche è una società essenzialmente democratica. Che cosa rappresenta l'arte moltipli-cata per Isgrò?Il multiplo per Isgrò è una possibilità creativa che nella sua univocità e unicità è in grado di attrarre un pubblico più ampio di collezionisti che altrimenti non avreb-bero modo di avvicinarsi all'arte. Non è un pezzo unico replicato in più esemplari, è un pezzo ideato con tecniche speciali e quindi è unico nella sua diversità. Nascosto tra i flutti delle cancella-ture emerge un messaggio Pacem in terris…È chiaro a questo punto che i due multipli pensati per Editalia non possano che evo-care almeno l'enciclica di quel magnifico pontefice che fu Giovanni XXIII e al quale tanto assomiglia l'attuale papa Francesco nelle aspettative di tutti. La Pacem in terris evocata al posto dell'oceano Pacifico. Pa-cem in terris che cosa vuol dire? Mentre sembra che alcuni paesi facciano di tutto per costruire la guerra, noi europei, e noi artisti europei in particolare, dobbiamo sforzarci e combattere per costruire un mondo, non dico di pace assoluta, ma al-meno più armonioso.

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Il nuovo volume di pregio della collana La Lira siamo Noi di Editalia è un libro calei-doscopico che compone un volto della Lira meno conosciuto, meno raccontato. È un libro che svela retroscena e storie parallele, parlandoci del processo produttivo delle monete, degli scarti di zecca, di progetti e di errori, di cosa sia successo ad al-cune monete a un certo punto della loro vita. Fanno da guida, per una lettura avvin-cente, immagini inedite e coinvolgenti: un «paradiso» per il collezionista più curioso.Anche questo volume di collana è curato da Silvana Balbi de Caro, il cui approccio storico scientifico costruisce un percorso tra stanze che contengono mondi diversi, legati dall'unicità del materiale presentato: monete che escono dalla serialità per diventare pezzi unici.Di assoluta originalità è il contributo di Gabriella Angeli Bufalini, direttrice del Medagliere del Museo Nazionale Romano, che per la prima volta racconta degli «scarti di zecca», monete deturpate dalle presse per varie tipologie di errore. Quelle presentate sono monstrum, monete brutte e non conformi, che testimonia-no un nascosto interesse da collezionista di Vittorio Emanuele III che amava rac-cogliere anche quelle monete nelle quali il suo ritratto fosse deforme, spezzato, abraso o irriconoscibile. Un piccolo nucleo della sua collezione che raccoglie solo unicum, per la prima volta interpretati in questo volume attraverso la fotografia che li legge come opere d'arte in metallo.

FATTIAD ARTE

OPERE DI PREGIO

DI FLORIANA MINÀ

UNA LIRA DIVERSA QUINDI UNICA Tra errori, varianti e curiosità alla scoperta del mondo sconosciuto delle prove, delle provocazioni, delle monete «sbagliate»

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LA LIRA SVELATA NEL NUOVO VOLUME DI PREGIO DELLA COLLANA LA LIRA SIAMO NOI

Il volume della collana è a cura di Silvana Balbi de Caro, è di grande formato (29x39 cm circa) e si compone di 280 pagine stampate su carta pregiata, arricchite da numerose fotografie. Adorna la coper-tina, su pelle serigrafata, un bassorilievo coniato su lastra d'argento laminata in oro, patinata a mano, che raffigura un particolare delle 500 lire Caravelle del 1957 con le bandiere controvento. La tiratura è limitata a 2999 esemplari per la versione oro e a 4999 esemplari per quella argento. Il libro è custodito in un cofanetto espositore in plexiglass trasparente. Possibilità di personalizzare l'opera mediante una targa con dedica.

in aperturaRegno d'Italia, Vittorio Emanuele III (1900-1946), Lire 2 del 1941, particolare del dritto con «battitura doppia» parzialmente fuori virola, Roma, Museo Nazionale Romano, Medagliere

Nello stesso Medagliere sono conser-vate alcune monete della collezione del Museo Centrale del Risorgimento di Roma, il cui vicedirettore Marco Piz-zo ci accompagna in una passeggia-ta tra monete che trascendono la loro essenziale funzione di valore di scam-bio, escono quindi dalla circolazione, per trasformarsi in documento storico, quasi etnografico, quando vengono tra-sformate per esempio in amuleti, porta-fortuna per varie occasioni. O quando, divise a metà, diventano il segno di ri-conoscimento dei bambini lasciati sulla ruota degli esposti. Oppure modificate ad arte nella loro iconografia diventano manifesti contro il potere, traccia di una incisiva passione politica.La stessa passione che anima il colle-zionista e storico Luca Einaudi quando racconta del collezionismo numisma-tico o quando, con rigore scientifico trasposto in godibili pagine, narra la nascita della Lira, sorella di quel «fran-co germinale» di napoleonica ascen-denza da cui desume simboli e motti o ancora quando racconta l'iconografia dell'Italia declinata su varie monete come donna accogliente in lunghe ve-sti che anela all'unità degli stati tanto

quanto a quella della monetazione.Alla curatrice Balbi de Caro è affidato il lungo racconto che nella terza e nella quarta parte ci accompagna nel movi-mentato cammino della Lira verso la Re-pubblica attraverso due guerre mondiali seguendo l'andamento delle sorti eco-nomiche di un'Italia in continuo cambia-mento. Fondamentale in questo studio è stata la collaborazione con il Museo della Zecca di Roma che ha consentito di illustrare le sezioni.La gestazione di ogni singola moneta è un processo assai complesso – tec-nicamente descritto nel volume – che mette insieme volontà politiche e abili-tà artistiche; queste ultime si esprimo-no attraverso concorsi, progetti e pro-ve di monete coniate molte delle quali rimaste non emesse, alcune finora mai pubblicate, anch'esse pezzi unici di una storia qui finalmente svelata. Gli artisti hanno tentato negli anni il rinnovamen-to delle immagini sui tondelli, suppor-tati in questo, ancora una volta, da una visione moderna di Vittorio Emanuele III. Rompere con la tradizione, come vediamo, non è stato semplice, ma molti capolavori coniati con la scritta «PROVA» sono comunque entrati nella

collezione del Museo: tondelli di diversi metalli su cui si è espressa la creatività di Leonardo Bistolfi, di Pietro Canoni-ca e di Giuseppe Romagnoli, tradotta dall'abilità incisoria di Luigi Giorgi e di Attilio Motti. La lunga e inedita teoria di progetti mai nati fa sfilare una Ita-lia come figura di donna che cerca la modernità delle forme influenzate dallo stile Liberty, ma anche grappoli d'uva e spighe di grano, aquile e teste d'Italia, opere di Filippo Speranza e di Luigi Giorgi. Una grande tradizione artisti-ca e iconografica che sopravvive nelle emissioni della Repubblica quando si sperimentano nuove fogge per le te-stine dell'Italia sulle monete di taglio minore che passano dai metalli nobili a quelli più vili.I contributi si chiudono su due ecla-tanti «varianti di conio»: quella delle 500 lire coniata nel 1957 con le ca-ravelle di Cristoforo Colombo con le bandiere controvento che l'autore Gui-do Veroi, subentrato all'affermato Pie-tro Giampaoli, dovette modificare per l'emissione ufficiale, e quella delle 1000 lire del 1997 per cui Laura Cretara rea-lizzò una cartina dell'Europa con i confi-ni della Germania errati.

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a sinistra e sopra

Una fotografia storica del reparto fonderia della Zecca;Moneta del Regno delle Due Sicilie del 1834 con il ritratto di Ferdinando II di Borbone, modificata con l'epiteto Bomba, riferito al re, impresso nel metallo, Roma, Museo Centrale del Risorgimento

sottoEgidio Boninsegna, l'Italia con fasci di spighe, particolare del rovescio della prova per il pezzo da 50 lire in oro, Roma, Museo Nazionale Romano, Medagliere

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FATTIAD ARTE

OPERE DI PREGIO

DI CLARA IRENETTI

STORIA E MODERNITÀ DELLE BANCONOTE CONIATE

La collezione delle banconote coniate di Editalia si completa con i tre ultimi tagli. La serie Storia e Modernità 1966-1994 fissa nel metallo il valore storico e simbolico del biglietto di Stato da 500 lire, delle cinquantamila lire del 1984 e delle centomila lire del 1994. Ancora una volta il Museo della Banconota della Banca d’Italia ha aperto le sue porte a Editalia per selezionare di ogni pezzo il «numero zero», la matrice il cui numero di serie è composto di soli zeri, il modello madre su cui per approvazione sono state poste autografe le firme del Cassiere e del Governatore.Il processo tecnologico inventato dal maestro incisore Mario Rinaldi esclusivamen-te per Editalia, messo a punto in anni di tenaci esperimenti per ottenere manufat-ti che fossero l’esatta trasposizione metallica dell’idea della banconota cartacea, è stato messo a dura prova soprattutto dal pezzo da centomila lire, sottoposto all’inizio degli anni novanta a un intervento di restyling che ha reso ancor più com-plesso il disegno della filigrana e delle «guilloche», per aumentarne il sistema di sicurezza. La complessità della relativa incisione sul conio è apprezzabile solo con la lente d’ingrandimento che evidenzia la struttura intricata del disegno decorativo inciso. Questa banconota, entrata in circolazione nel dicembre del 1994, accom-pagnò gli italiani fino all’avvento dell’euro. Il volto di Caravaggio è ispirato al ritrat-to eseguito da Ottavio Leoni, contenuto in un taccuino conservato alla Biblioteca Marucelliana di Firenze. Le opere più celebri dell’artista, La buona ventura (oggi al

Caravaggio, Bernini, la ninfa Aretusa, icone dell’arte italiana nelle lire di cartamoneta

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Louvre) e, sul verso, la Canestra di frutta dell’Ambrosiana, insieme a inserti de-corativi tratti dal Riposo durante la fuga in Egitto della Galleria Doria Pamphilj di Roma, completano l’opera. Lo sguardo acuto e mobile di Gian Lorenzo Bernini cattura l’attenzione sul recto della banconota da 50.000 lire entrata in circolazione nel dicembre del 1984. L’incisore della banconota s’ispi-rò al celebre Autoritratto dell’artista, oggi alla Galleria Borghese di Roma. A

sinistra del contrassegno di Stato con il Leone di San Marco, il tritone che suo-na la buccina è quello della fontana del Tritone di piazza Barberini a Roma. Al verso campeggia la statua equestre di Costantino posta ai piedi della Scala Regia, in Vaticano. Tra i più indimenticati esempi di carta-moneta in lire, vi sono senza dubbio le 500 lire Aretusa. Non erano propria-mente banconote, perché non emesse dalla Banca d’Italia, ma biglietti di Stato

UN ELEGANTE ESPOSITORE PER LA COLLEZIONE COMPLETA

Con l'ultima serie di banconote coniate è stato ideato un espositore in plexiglass per esporre la collezione completa. Le ultime tre bancono-te sono realizzate nella dimensione della car-tamoneta originaria: 100.000 lire tipo 1994, 156x70 mm; 500 lire tipo 1966, 110x55 mm; 50.000 lire tipo 1984, 149x70 mm. La colle-zione è disponibile in argento 999‰ e in oro 18 kt. Tiratura limitata e certificata.

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sottoDritto delle banconote coniate:50.000 lire Bernini del 1984 e100.000 lire Caravaggio del 1994

a pagina precedenteIl dritto del biglietto di Stato da 500 lire Aretusa e il rovescio della corrispondente banconota coniata in oro

in aperturaL'espositore in plexiglass per la collezione completa

emessi direttamente dallo Stato Italiano e stampati nell’Officina Carte Valori del Poligrafico con funzione sostitutiva del-la moneta metallica. Uscirono nel 1966 per sopperire alla carenza di monete dello stesso valore nominale in argento che gli italiani, più che spendere, tesau-rizzavano. E proprio come una moneta, il biglietto di Stato da 500 lire s’ispirava, nell’iconografia, alle monete dell’antichi-tà classica: la ninfa Aretusa, infatti, attor-niata da delfini che danzano sulle onde del mare, venerata nell’isola di Ortigia (primo insediamento di Siracusa), è ri-presa da un celeberrimo decadrammo della città siciliana, forse la più bella mo-neta della Magna Grecia. Questo bigliet-to, molto amato da chi era bambino negli

anni Sessanta, ha circolato nelle tasche degli Italiani quasi quindici anni.Dal punto di vista tecnico, gli elemen-ti in rilievo di queste banconote sono stati eseguiti con tecnica tradizionale che prevede il modello in bassorilievo su gesso, necessario per la realizzazio-ne del punzone da cui si ricava il conio. La trama geometrica di sottofondo e la vignetta invece sono state incise diret-tamente sul conio, realizzato su acciaio speciale, con frese costruite manual-mente. Per le banconote coniate la collaborazione tra tecnica, tecnologia, manualità e inventiva – peculiarità di tutte le opere di Editalia – è stata più che mai imprescindibile e ha dato risul-tati di potente originalità.

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IN SERIE

IL MOLTIPLICAUTORE

DI DAVIDE PAIRONE

IL CORPO PARLANTE DEL MAESTRO ANTONY GORMLEY

Nel frammentato e controverso panorama dell'arte contemporanea, nell'oceano in tempesta fatto di polemiche, scandali, furberie e strategie di visibilità, l'opera dello scultore britannico Antony Gormley rappresenta un approdo sicuro. La sua è una prospettiva di ricerca, decennale, solida e coerente, in cui trova rifugio e conforto lo spettatore che non ama le astrusità di vecchie e nuove avanguardie e che, al contrario, si lascia sedurre dal secolare enigma della figurazione umana declinato in infinite varianti e modulazioni. Allo stesso tempo, Gormley affascina anche quel pubblico che esige, attraverso e oltre l'opera, indagini e speculazioni immateriali in un filone che recupera le istanze dell'arte performativa, concettuale e minimal tipi-che del modernismo. Le opere di Gormley agiscono su più livelli: da quello più esteriore e immediato dei materiali e della presenza fisica di potenti totem ancestrali-avveniristici fino alle più sottili domande metafisiche e metalinguistiche sulle quali invita a soffermarsi: qual è il rapporto tra corpo, spazio e coscienza? Quale sottile filo si intreccia fra autore, opera e spettatore? Cosa significa pensare e realizzare un'opera come «mo-numento»? Le molteplici risposte offerte da Gormley, sotto forma di gigantesche o minuscole figure umane, gli sono valse negli anni riconoscimenti ai più alti livelli: dal Turner Prize del 1994 alle Fellowship presso istituzioni come la Royal Academy of Arts, fino alle esposizioni nei principali musei internazionali e agli interventi sui landscape di mezzo mondo.

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Il recente ciclo di opere multiple presentato alla mostra Cast (2016) presso la Alan Cristea Gallery di Londra comprende due distinte, ma correlate, serie di lavori: Woodblocks e Body Prints proseguono un discorso iniziato nei primi anni ottan-ta, nel quale Gormley usa il suo stesso corpo come matrice per i calchi delle sculture. Le successive fasi del processo di realizzazione sembrano talvolta basarsi su misteriosi algoritmi che moltiplicano e frammentano gli elementi del corpo, modu-lando forme nello spazio occupato dalla materia come nella tradizione che dagli studi sull'Uomo vitruviano arriva al cubista Nudo che scende le scale e oltre. Come testimoniano proprio questi recenti Body Prints, l'interesse di Gormley va tuttavia oltre lo studio e l'interpretazione del movimento corporeo nel-lo spazio; la traccia di un corpo è, infatti, anche traccia della coscienza che quel corpo abita. Sappiamo, grazie agli sviluppi delle neuroscienze, che ogni attività del e sul corpo corrispon-de alla creazione di nuove connessioni sinaptiche, a scariche elettriche che modificano forma e contenuto del pensiero. Ogni impressione sensoriale, ogni spostamento nello spazio, qual-siasi contatto tra corpo e mondo ha quindi un doppio volto: esteriore e interiore. I Body Prints, rendendo evidente la traccia che gesti e posture possono imprimere nella realtà esteriore,

trasformano questo processo in arte, in ciò che per antono-masia lascia tracce nella dimensione interiore della coscienza. Così in Breathe, ad esempio: il «respiro», il «soffio vitale» che come un fantasma resta sul confine tra visibile e invisibile, è tanto frutto del processo meccanico di impressione, quanto metafora spirituale che evoca la Sacra Sindone conservata a Torino, il Cristo del Mantegna o i bozzetti di crocefissioni dise-gnati da Michelangelo nelle ultime fasi della sua carriera e am-mirati da Gormley. Titoli laconici come Feel o See, con il loro riferimento alle dimensioni più eteree dell'esperienza umana, sembrano poi concepiti proprio per stimolare nello spettatore associazioni libere e creative, nel punto di incontro fra poe-sia, scienza, storia e immagine. Pur trattandosi di multipli, in queste opere la «mano» dell'artista non potrebbe essere più concreta, parte essenziale del processo realizzativo: nudo e cosparso di olio e gel petrolato, Gormley ha moltiplicato la sua immagine su grandi fogli di carta distesi sul pavimento, così che l'opera risulti come un'onda increspata dal lancio di un sasso in uno stagno, un accrescimento esponenziale del cor-po oltre i suoi confini e la sua durata temporale.La serie dei Woodblocks si basa sugli stessi principi di espan-sione, disseminazione e proliferazione del corpo umano e del-

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in questa paginaOpen, 2016

a pagina precedenteBreathe, 2016;Show, 2016;See, 2016

in aperturaInhabit, 2015-2016Tutte le immagini sono per gentile concessione di Alan Cristea, Londra

la coscienza a esso indissolubilmente correlata, ponendosi come eco e con-trappunto dei Body Prints. La genesi di queste xilografie riprende il complesso scultoreo presentato a Berna nel 2014 e intitolato Expansion field, del qua-le riprende la modularità rigidamente geometrica con cui il corpo di Gormley, scannerizzato e digitalizzato, occupa lo spazio espandendo se stesso nelle tre dimensioni dello spazio. L'idea di fon-do realizzata in queste serie di opere riguarda la possibilità di «interpretare l'anatomia nel linguaggio dell'architet-tura»: attraverso sovraincisioni ripetute i Woodblocks creano un fitto reticolo che allo stesso tempo annulla e moltiplica il corpo umano. Del resto per Gormley i materiali utilizzati (il carbone con cui è realizzato l'inchiostro, l'olio, il corpo stesso, i valori matematici secondo cui i corpi si muovono e si espandono) val-

gono come «indici», come «casi partico-lari» in relazione alle leggi universali che governano la materia. In questo senso il «campo espanso» (Expansion field) e i Woodblocks trascendono l'idea di par-tenza, lo sviluppo nello spazio architet-tonico inteso come «secondo corpo», e assumono un respiro infinitamente più ampio e ambizioso. Opere che diventa-no meditazioni sull'universo e sulle sue regole, proiezioni sul corpo umano di quell'espansione perpetua dell'intero co-smo espressa dalla costante di Hubble.Le recenti scoperte scientifiche sul-le onde gravitazionali e sul loro ruolo nella struttura profonda dell'universo attraverso lo spazio-tempo, sulla loro emanazione a partire da un punto sin-golare nell'istante del Big Bang e sul loro viaggio fino agli estremi confini di tutto ciò che è misurabile: di simili sugge-stioni si nutre e a esse si ispira l'arte di

Antony Gormley, proiettando sulla scala dell'umano i grandi dilemmi sulla natura dell'infinito. Al centro, altrettanto inesau-ribile, resta la domanda sul ruolo di ciò che è prima di tutto limite e finitezza: esattamente l'uomo.

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IN SERIE

IL LIBRAIO D'ARTE

DI MARCO SETTEMBRE

L’ARTE DIVENTA ENCICLOPEDICA E PER TUTTI

Una nuova grande enciclopedia dell'arte che parli con la contemporaneità deve gioco forza interrogarsi in modo da intercettare i cambiamenti non solo nell'am-bito della cultura, ma anche nel modo stesso in cui essa si rapporta con la socie-tà. A tal proposito Massimo Bray, ex ministro dei beni e delle attività culturali e direttore generale dell'Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, rileva che «tra i nuovi linguaggi che possano sostenere una riflessione sul valore delle nuove identità culturali, sulle tante pluralità che attraversano la nostra società, dunque, un tema di straordinaria attualità per l'Italia come per tutto il mondo, c'è certa-mente l'arte contemporanea».Da qui comincia il lungo cammino che porterà alla realizzazione della nuova En-ciclopedia dell'Arte Contemporanea Treccani, affidata alla curatela del critico e giornalista Vincenzo Trione, docente di Arte e media allo IULM di Milano. Immagi-nata in quattro volumi di circa 850 pagine l'uno, con ben quattromila lemmi, avrà una copertura narrativa dal 1900 al 2019, data prevista per la sua pubblicazione. Il presupposto da cui il curatore è partito è piuttosto chiaro: «Gli scenari dell'arte del presente spesso ci appaiono come territori frastagliati e disomogenei, che non possono essere pronunciati nelle loro metamorfosi. Arcipelaghi nei quali non è possibile cogliere stili prevalenti e caratterizzanti. Varie e difformi modalità espressive si trovano a convivere. Diversamente da quel che era avvenuto nel

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sopraMassimo Bray, direttore generale dell’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani;Il critico Vincenzo Trione

a latoL'ingresso del palazzo romano che ospitagli uffici dell'Istituto Treccani

Novecento, non ci sono più movimenti unitari, ma prevalen-temente singole personalità. È stato esaltato il valore crea-tivo dell'io. Le tendenze sono entrate in crisi, per dissolversi in una dispersione infinita». Tale confusione, che talvolta di-sorienta, si percepisce spesso attraversando le sale dei più importanti luoghi espositivi internazionali, dove il visitatore è chiamato a confrontarsi con l'illeggibilità delle immagini e l'oscurità dei linguaggi sfruttati dagli artisti. All'interno di quello che Trione chiama «suk delle forme» individua una via di uscita: muovendo, infatti, da una ricognizione di tipo fenomenologico dell'arte del nostro tempo, l'Enciclopedia vuole disegnare una costellazione complessa. L'intento è quello di documentare, nella prospettiva più ampia e inclu-siva possibile, le diverse componenti che entrano nel siste-ma dell'arte. Nel Novecento e nella nostra epoca – più che nei secoli precedenti – l'opera d'arte e l'artista sono posti al centro di una rete di figure, di risorse e di vincoli, che for-mano l'ambiente in cui prende vita la produzione artistica. E in molti casi, la produzione artistica si dà come attività eminentemente collettiva: una catena di cooperazione di cui

il creatore è un anello importante (ma non unico). L'Enciclo-pedia, perciò, si propone di catalogare non solo gli artisti, ma anche gli storici dell'arte, i critici e i curator, i galleristi, i mercanti e i dealer. Accanto alle persone fisiche (disposte nell'ordine oggettivo dell'alfabeto) vi sono poi voci di ca-rattere tematico dedicate ai luoghi in cui si forma e si pro-muove l'arte, al contesto geopolitico (alle capitali dell'arte, antiche e nuove), ma anche ai movimenti, alle tecniche, ad alcune tematiche di confine, ad alcune categorie critiche ri-correnti. Infine, mirando a coniugare il dato informativo (il più completo e aggiornato possibile) con un puntuale in-quadramento storico critico che consenta al lettore di orien-tarsi e di collocare un determinato nome o un determinato fenomeno all'interno di una vasta rete di relazioni e di rap-porti, l'Enciclopedia non vuole limitare l'analisi alle esperien-ze maggiormente consolidate e conosciute. Documenta gli scenari occidentali e vuole allargare lo sguardo anche all'ar-te prodotta in aree geografiche «diverse» (non occidentali), di straordinario interesse linguistico, culturale, sociologico e antropologico.

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IN SERIE

MULTIPLI IN VETRINA

DI DANIELE CAPRA

Un universo di carta, parole e immagini. Colophonarte è uno dei più prestigiosi editori di libri d'artista del nostro continente, la cui attività ha coinvolto personalità come Paladino, Castellani, Bonalumi, Pomodoro, Baj, Dorazio, Fontana, Kounellis, Griffa, Morellet, e intellettuali come Schwarz, Luzi, Abbado, Eco, Merini, Sanguineti, Boulez. Ne abbiamo parlato nella sede a Belluno con il fondatore Egidio Fiorin che ci racconta una storia ormai trentennale di amore e infinite attenzioni per la pagina...Fare l'editore è un lavoro complesso che richiede di unire più professionalità, mondi differenti come quello dell'arte e della scrittura, ma anche un pubblico di amanti dell'arte lettori eterogenei. Come è cominciata quest'avventura?Prima di rispondere devo fare una premessa: sono un ex sessantottino e come tale volevo cambiare il mondo, crearne uno di nuovo in cui vi fosse equità e tutti fossero più liberi. Quando non potei che constatare il fallimento di quell'esperienza, mi fu chiaro come dovessi agire sul mondo della cultura, per cercare di fornire alle per-sone degli strumenti interpretativi della realtà. In particolare il multiplo mi sembrava uno strumento democratico che rientrasse nelle disponibilità economiche di tutti e consentisse a chiunque il contatto con l'arte a un costo ragionevole. Con alcuni soci intrapresi quindi l'avventura della grafica e successivamente proseguii da solo. Ai tempi producevo una cartella con una poesia e coinvolsi artisti come Walter Valentini, Luigi Spacal, Riccardo Licata, Giuseppe Zigaina. Ebbi l'occasione successivamen-

COLOPHONARTE,LA CARTA CHE RACCONTA L’UOMO

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te di scoprire, grazie a un amico, il libro d'artista. Ne fui fulminato.Amore a prima vista.Un amore ricambiato, direi. Agli inizi non riuscivo a produrre più di un volu-me all'anno, ma fui molto fortunato e due dei primi tre libri furono esposti al MoMA. Il primo con opere di Licata e te-sti di Apollinaire e poi quello di Bonalumi con quattro liriche di Petrarca. Dovetti andare di persona a New York per ren-dermi conto che non stavo sognando.E poi?Poi mi capitò di incontrare Roberto Sanesi, storico dell'arte, poeta, nonché raffinatissimo traduttore dall'inglese, il quale mi espose un'analisi lucidissi-ma sul mio conto. Mi disse che in Italia mancava un editore di libri d'artista e che io avevo le caratteristiche necessa-rie per esserlo.Trent'anni dopo potremmo dire che non si era sbagliato.Non spetta a me dirlo. Ma quell'incon-tro fu fondamentale per la mia vita pro-fessionale, come penso che gli oltre cento lavori realizzati da Colophonarte testimonino. Tanto più perché ho sem-pre scelto gli autori e gli artisti che mi piacciono, sfruttando al meglio anche occasioni impreviste, come ad esempio è capitato con il volume realizzato per

gli ottantacinque anni di Pierre Boulez nel 2010. Nato da un'idea del critico mu-sicale Duilio Courir, ha avuto esito po-sitivo nonostante le iniziali reticenze di Boulez: il compositore stesso si decise, infatti, solo dopo essersi casualmente imbattuto al Musée d'Orsay nel libro da me realizzato per Claudio Abbado.Lei ha quindi abbandonato la grafica?Sì, certo. Anche se è molto redditizia, mi piace fare altro. E poi non ne avrei nem-meno il tempo. Impaginare un libro ri-chiede una grande attenzione, un grande sforzo e anche il coraggio di fare e rifare il lavoro finché tutto risulti posizionato cor-rettamente. In un romanzo la lettura fila, scorre, ha solamente necessità di non essere ostacolata. La poesia, invece, ha bisogno di spazi, vuoti, pieni e respiri che sono estranei ad altre tipologie testuali. Ho avuto la fortuna di avere un maestro come Alessandro Zanella che mi ha tra-smesso questa sensibilità. E, più in ge-nerale, ho avuto la fortuna di incontrare, nel mio percorso, tanti artigiani che mi hanno dato un contributo inatteso: un artigiano di Amalfi mi produce la carta, i caratteri al piombo sono composti a Milano e la stampa avviene alla Tipoteca Italiana di Cornuda con l'impiego di mac-chine antiche. E poi ci sono il rilegatore e gli artigiani che realizzano i contenitori in

legno e metallo. Ogni elemento è fatto a mano, non per snobismo, ma per cura. E tutto deve essere ben bilanciato, come una partitura di Mahler.Non a caso avete dedicato svariate pubblicazioni alla musica.La prima è stata un omaggio a Petrassi, per il quale abbiamo avuto contributi di Muti, Gavazzeni, e opere di Dorazio. Con lui, ad esempio, mi sono confrontato ri-petutamente perché avevamo sensibilità e idee differenti. E siamo andati avanti a discutere fino a quando ritmo, dinamicità e sintonia tra i vari elementi non hanno corrisposto e soddisfatto entrambi.C'è una modalità ricorrente con cui nascono i libri?Quasi tutti i miei libri nascono quando sono solo in autostrada! La cosa è biz-zarra, ma mi ricordo perfino il tratto in cui mi è venuta l'idea. Avvolti nell'abi-tacolo, l'autostrada è quasi un non luo-go, uno spazio metafisico. Ad esempio ricordo perfettamente che l'idea del li-bro con testi sacri di differenti religioni e opere di Mimmo Paladino, mi è sorta tra Roma e Latina, in un posto in cui c'era, e c'è probabilmente ancora, una casa in-compiuta. Erano gli anni della guerra in Jugoslavia, e la vista di quella costruzio-ne da cui spuntavano tondini di ferro mi ricordava i frangenti drammatici di quel-

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sotto Orestiade di Grazia Varisco;La guerra del Peloponneso di Davide Benati

a pagina precedenteOdissea di Claude Viallat

in aperturaAlcune delle pubblicazioni che hanno coinvolto Giorgio Griffa, Giuseppe Maraniello e François Morellet

lo che accadeva nei Balcani, appena al di là della sponda del mare. Ugualmente il libro su Luzi mi è venuto in mente nei pressi di Mogliano Veneto e a Treviso il primo volume dedicato a Luigi Nono.Le pubblicazioni di Colophonarte se-guono la logica delle collane?Si cerca di sviluppare ogni libro come un progetto a parte: esistono delle ricorren-ze, ma meglio non rimanerne prigionieri. Sono dieci, ad esempio, le pubblicazioni in Poiein, e poi c'è una collana cui ten-go molto, dedicata al monologo, con immagini di artisti come Viallat, Griffa, Castellani, associati a monologhi che sono nella storia della letteratura, tratti da opere di Omero, Brecht, Shakespeare.Guardando alla sua attività cosa pensa?Ho seguito le cose che mi piacevano. Non avevo la pretesa di diventare un grande editore: semplicemente è stato un passo dietro all'altro che ho fatto in modo naturale stando attento a che i miei libri mi corrispondessero. Quando nel 2008 sono stato invitato dalla Biblio-teca Nazionale Centrale di Firenze a ce-lebrare i vent'anni di attività, solo dopo essere entrato nella sala e aver visto i miei libri attorno a me mi sono reso con-to della strada percorsa.

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Imago Mundi è il colossale progetto di cartografia visuale messo in piega da Luciano Benetton e arrivato ormai a contare 20 mila opere da 130 paesi di ogni continente. Cos'è Imago Mundi? «Una sorta di catalogazione, la più ampia possibile, di tutte le culture contemporanee», la definisce lui. Funziona così: viene individuato un curatore e lo si incarica di selezionare un numero di artisti, famosi e sconosciuti, rappresentativi di quel paese. Ognuno di loro riceve una piccola tela bianca, 10x12 cm: la dimensione è l'unica condizione posta. E ognu-no la rimanda, dipinta o manipolata, al quartier generale di Villorba. Per ogni collezio-ne, un catalogo e una mostra: le opere partono chiuse nella loro struttura espositiva mobile disegnata da Tobia Scarpa.È così che prende forma, tassello per tassello, questa sorta di archeologia del pre-sente. Lo stesso Luciano Benetton dice di ispirarsi «a quello che fece Carlo Linneo attorno al 1730 in ambito scientifico: mi piace poter fare una catalogazione dell'arte attuale». Simile persino l'approccio, con quell'operazione certosina di archiviare e mettere in mostra, per «genere prossimo e differenza specifica» come voleva il gran-de botanico riprendendo le lezioni aristoteliche. «Nel mio caso parlerei di uno sforzo antropologico – dice Benetton – Paesi e culture si raccontano dando vita a una map-patura mondiale che sarà a disposizione delle future generazioni».Imago Mundi non è costruita solo paese per paese, ma anche per affinità regionali o

LUCIANO BENETTON CATALOGA IL BELLO DEL MONDO

ARTE IMPRESA

IL MOTORE DELL'ARTE

DI FABIO BOZZATO

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culturali. Fino al progetto appena avviato di raccogliere 29 collezioni dai 56 diver-si gruppi etnici in Cina: verrà esposto in occasione del settantesimo anniversario della Repubblica Popolare, che si cele-brerà nel 2019. Un primo dubbio: come evitare le trap-pole della bulimia di immagini che vivia-mo? «La dimensione del progetto è tale che credo riuscirà a crearsi uno spazio di buona visibilità – continua l'impren-ditore-collezionista – Da qualche mese ci hanno invitato a essere presenti sulla piattaforma Google Art e poi c'è la nostra pagina web, i cataloghi, le mostre». Insomma, una serie di strumenti che moltiplicano la visibilità.Lo stile è quello di Benetton da sempre. Quello dello slogan ormai famoso da oltre tre decenni di «United Colors». L'idea di questa mappa vitale combina l'unicità dei pezzi e la serialità di base. E questa cos'è

stata se non la stessa regola aurea del marchio Benetton? Non è su questo che si è costruito il successo commerciale?Certo, Imago Mundi è un progetto perso-nale del patron trevigiano che da cinque anni ha lasciato ogni incarico nel grup-po. Se gli si chiede in che modo la sua esperienza d'impresa abbia influenzato il concept del progetto, lui scuote la testa quasi divertito: «L'atmosfera è comple-tamente diversa, qui ho a che fare con curatori d'arte e con artisti. Diciamo che il viaggio, nel senso più ampio del ter-mine, è il comune denominatore della mia precedente vita da imprenditore e di questa bellissima avventura». E aggiunge: «Viaggiando cresce la voglia di comprendere, far conoscere e dar valore a realtà vicine e lontane da noi. Culture che ho avuto modo di conoscere attraverso il mio lavoro e culture che ho potuto avvicinare durante il giro del

mondo in barca a cui mi sono dedicato per qualche anno».Il fatto è che la dimensione culturale è da sempre strettamente legata all'esperien-za della sua impresa. E che l'approdo sia Imago Mundi non sorprende da queste parti. Per capirlo bisogna entrare a Fabri-ca, a Villorba: dal 1994 l'antica villa, re-staurata e ampliata da Tadao Ando (con uno sviluppo sottoterra e una magnifica biblioteca a forma di chiocciola) è la te-sta creativa del gruppo. Qui non solo si è consumato il sodalizio, fino al 2000, con Oliviero Toscani e il modo con cui sono stati rovesciati i canoni delle immagini nel marketing. Qui è nata Colors (ora in fase di rivisitazione totale), la rivista che ha an-ticipato la dimensione global delle ultime generazioni. E qui lavorano una quaran-tina di under 26 da tutto il mondo, grazie a una residenza che Benetton offre per sviluppare nel giro di un anno propri pro-

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in questa pagina in senso orarioMimmo Paladino, Harmonia, 2014;Milovan Kadovi, Stoik, 2015;Marko Batista, Silence Please, 2016

a pagina precedente in senso orarioKhader Fawzy Nastas, It Is Coming... Unless, 2015;Elçin Ekinci, Representation of Breasts – As If, 2015;Helidon Xhixha, Untitled, 2015;Pascal Lièvre, Made in France Ingres, 2016

in apertura Aïcha Filali, Who Has Seen Aïcha at the Art Souk?, 2014

getti e lavorare in campagne per brand e istituzioni. In oltre vent'anni sono passati oltre ottocento giovani creativi. E non a caso qui c'è anche il cuore organizzativo di Imago Mundi.Benetton da sempre si mostra come un organismo che funziona per travaso di materiale creativo. Fabrica è il centro ricerche su innovazione visiva, arte e comunicazione. La Fondazione (che ha sede in centro a Treviso) da molti anni si occupa invece di paesaggio e di tutte le interazioni, le implicazioni, le assonanze e le possibilità che il paesaggio produ-ce. «Avere sensibilità per l'arte e per la ricerca creativa è un valore aggiunto di vitale importanza che fa la differenza», ci dice Luciano Benetton che ricorda la presenza sempre molto assidua degli artisti. Forse mai arrivata al punto di farli interagire con il sistema produttivo o or-ganizzativo, ma diventata quasi un mar-

chio di fabbrica, «prevalentemente nella comunicazione», sottolinea l'imprendi-tore. Lui li definisce, con il suo ricono-sciuto understatement, «risultati molto importanti». Il che non dà l'idea di quello che ha realmente significato per il brand Benetton la comunicazione (e le pratiche radicali di comunicazione) che ha pesato sul piatto del successo quasi più degli stessi oggetti prodotti e venduti.Nonostante la retorica che circonda que-sto mondo, è difficile trovare nella sto-ria dell'imprenditoria italiana esperien-ze porose ai linguaggi dell'arte, capaci di temerli, di ascoltarli e di usarli a loro volta. Inevitabile il riferimento ad Adria-no Olivetti, forse quello che più ha osato esporsi agli sguardi degli artisti. Luciano Benetton annuisce: «Olivetti è stato un grande anticipatore da tanti punti di vi-sta; ha dato impulso ai designer, ai so-ciologi, agli architetti, sperimentando un

linguaggio nuovo anche nel rapporto con i collaboratori. Personalmente lo consi-dero umanamente e professionalmente un vincente. La sua esperienza è tuttora uno stimolo a guardare avanti».

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«Non cucino, io faccio opere d'arte». È l'affermazione di Gualtiero Marchesi nella penultima puntata della nuova serie televisiva Piatti e cocktail d'arte prodotta da Sky Arte in suo onore. Che l'alta cucina sia legata all'arte contemporanea è un concetto di cui Marchesi è stato tra i primi teorizzatori. Nella Milano degli anni settanta e ottanta l'arte conta: dalle recite di Carmelo Bene alla Merda d'artista di Piero Manzoni. Con il suo pensare un po' furbo e un po' genia-le anche il maestro Marchesi si getta nella mischia facendo dei suoi piatti la riprodu-zione commestibile delle opere che vedeva al museo e nelle gallerie della città. L'uo-vo al Burri: verdure lesse, uovo in camicia e una coltre di nero di seppia riproducono uno dei celebri quadri neri del maestro di Città di Castello, dimostrando che anche la materia messa in un piatto può trasmettere un'emozione artistica.L'iniziativa di Marchesi è sicuramente il termine post quem, almeno in Italia, ab-biamo cominciato a pretendere dall'alta cucina qualcosa che vada oltre la sublime perfezione dell'artigianato, abbiamo cominciato a pretendere un concetto e un'emo-zione. Tutto sommato da qui alla sala del primo ristorante del mondo, l'Osteria Francescana di Massimo Bottura, in cui le opere d'arte sono anche appese ai muri oltre che scodellate nel piatto, il passo è breve.Da alcuni anni a questa parte si è percorsa un'ulteriore lunghezza verso il ricono-scimento effettivo della gastronomia come ottava arte: gli chef vengono chiamati a

QUANDO L’ARTE SI AGGIUNGE ALLE STELLE

ARTE IMPRESA

COMUNICARE AD ARTE

DI ROSSELLA NERI

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a lato in senso orario Enrico Bartolini e uno scorcio del suo ristorante al Mudec di Milano;Antonello Colonna;La gigantografia di Davide LaChapelle per il ristorante L'Imbuto di Lucca;Cristiano Tomei

in aperturaLa bistecca gourmet dello chef Tomei

dirigere le cucine dei ristoranti all'interno dei musei d'arte contemporanea e il sug-gello che questi ristoranti siano degni di una deviazione è, come sempre, la stel-la Michelin. Nel mondo, due esempi ne sono il ristorante di chef Abram Bissell all'interno del MoMa di New York, dal si-gnificativo nome di The Modern, fondato nel 2005 e subito insignito di due stelle, e il Nerua di Bilbao, concepito e arredato da Frank Gehry come il resto del museo, proprietà della Fondazione Guggenheim con in cucina chef Josean Alija, allievo del celeberrimo Ferran Adrià e assegna-tario di una stella.Anche l'Italia, che è con evidenza un'esponente eccellente dell'enogastro-nomia mondiale, ha da dire la sua. Le iniziative di connubio tra stella Michelin e arte contemporanea cominciano a essere un buon numero: si contano il Combal.Zero di Davide Scabin al Ca-stello di Rivoli, Museo d'Arte Contem-poranea, L'Open Colonna di Antonello Colonna a Palazzo delle Esposizioni a Roma, il bistrot di Enrico Bartolini al Mudec, Museo delle Culture di Milano e L'imbuto di Cristiano Tomei al Lu.C.C.A., Lucca Center of Contemporary Art.Eppure lavorare all'interno di un museo ha, a volte, messo un freno alla collabo-razione tra arti, invece che favorirla: la competizione, che normalmente lo chef spartisce solo con i suoi diretti colleghi, sale un gradino più in alto e si fa anche con gli artisti, i curatori, i direttori; mol-ti, troppi ego da mettere insieme. Non è facile creare un'osmosi tra le arti, così è facile intuire che lo chef che lavora den-tro un museo considererà la sua cucina indipendente e la sua stessa persona un valore aggiunto per la struttura esposi-tiva. D'altro canto è probabile che dagli artisti propriamente detti la cucina sia considerata un'ancella da sfoggiare du-rante le vernici. Tra coloro che si occupano di cucina una frase risulta particolarmente noiosa perché logorata dall'uso: «cucina tradi-zionale rivisitata in chiave creativa». Ep-pure, se dovessi indicare una tendenza maggioritaria è proprio questa la frase che userei. A volte può essere letta nel suo significato primario, e un poco su-perficiale: lo chef Enrico Bartolini il cui ristorante due stelle Michelin si trova al Mudec, definisce la sua arte culinaria «Contemporary Classic, i valori del pas-sato e del presente si fondono per dare vita a nuovi sapori originali e equilibra-

ti» e trova in questo «un'affinità elettiva» con l'attività del Museo delle Culture.A Roma, invece, chef Antonello Colonna, classe 1956, approfondisce il significato di quella frase dandogli quasi un valore di mimesi generativa: «Definisco le mie ricette il test del rimpianto: una mia ri-cetta non deve far rimpiangere all'ospite un piatto che lui conosce già. Debbo far in modo che dimentichi le polpette del-la nonna o il pollo con i peperoni e che sia rapito dalla scoperta della mia ricet-ta, dalla mia interpretazione. Perché io non reinterpreto. Io interpreto. Perché io non rivisito. Io visito». Altrimenti detto: il carattere fa la differenza. Colonna è da sempre stato anche un imprenditore, sin da quando ha rilevato il ristorante di fa-miglia assegnandogli, senza la minima esitazione, il suo nome e cognome. Oggi gestisce, oltre a quel ristorante premiato con la stella, anche due bistrot, un re-sort a Labico, il paese nella campagna laziale di cui è originario, e non si nega programmi e apparizioni televisive. D'in-dole marchesiana, preferisce il fatto «a regola d'arte» piuttosto che creare piatti sorprendenti; ma l'esperienza, unita a un enorme rispetto per la sala, gli permet-tono di indugiare su un menu a base di cacio e pepe e arrosti di vitella senza ri-nunciare al blasone. Nemesi di chef Colonna è Davide Scabin, il nordico e irriverente capo del-la cucina di Combal.Zero, dieci anni in meno e una stella Michelin all'interno del Castello di Rivoli, Museo d'Arte Contem-poranea. Scabin ha sempre preso con una certa serietà la sua collocazione ar-tistica, proponendo piatti di invenzione e meraviglia, come il cyber egg per cui è famoso: una bolla di pellicola di plastica che contiene caviale, scalogno, tuorlo d'uovo crudo, pepe e vodka, da bucare e suggere in una volta sola. La cucina di Scabin non si accontenta del «a regola d'arte», nei suoi piatti c'è sempre una componente ludica che, se la si volesse giudicare con asprezza, la si potrebbe definire da saltimbanco. Eppure il dialo-go che in questo modo i suoi piatti crea-no con chi li mangia è irreperibile altrove. Lo chef si arrovella da anni nella ricerca di ricette che hanno come scopo quello di tagliare fuori la mente dalla percezio-ne del gusto e lasciare alle papille tutto il compito dell'elaborazione. Per questo i suoi piatti hanno nomi inintelligibili: non vuole lasciare al cervello la possibilità di preparare i sensi. Arrivando fino in fondo

in questa ricerca, il nuovo menu degu-stazione 2017, come un percorso espo-sitivo, si concentra esclusivamente sulle percezioni sensoriali: prima i piatti più consistenti e poi quelli più eterei in modo che si «possa tenere accesa maggior-mente la curiosità mentale e la capacità fisiologica dei succhi gastrici di seguirci in questa esperienza gastronomica».Senza dubbio però lo chef che in Italia ha, al momento, più a che fare con l'ar-te contemporanea è Cristiano Tomei, perito navale, chef autodidatta e stella Michelin dal 2014. Il suo ristorante, L'im-buto, si trova all'interno del Lucca Center of Contemporary Art; gli ospiti mangiano nell'androne e in varie salette del mu-seo circondati dalle opere in mostra. Finalmente, e senza nessun patema, lo chef gioca con l'arte. Come quando, ri-guardo al raviolo ripieno di olio d'oliva, il suo piatto più famoso, si afferma: «E la libidine, quando ti esplode in bocca il raviolo e senti il gusto dolce e intenso dell'olio, è davvero alta, saresti tentato di definire il piatto un'opera d'arte» (Rocco Moliterni, Tomei, il piacere di mangiare con le mani, in La Stampa, 9 aprile 2015, n.d.r). O come quando l'altro suo piatto feticcio, il manzo gourmet (una tartare di fiorentina cruda servita con grasso caldo su corteccia di pino tiepida), è stato de-finito un «trompe-l'oeil». L'effetto trom-pe-l'oeil sarebbe dato dal desiderio, che si prova degustando il piatto, di mordere anche la corteccia.Il divertimento, cifra innata all'arte, è ri-prodotto da questo chef nella maniera più irriverente possibile, e probabilmen-te la sua formazione eterodossa ne è la causa, e la garanzia. La sua cucina meno concettuale e meno ludica di quella di Scabin non necessita di spiegazione, né di alcun particolare impegno da parte dei commensali. I piatti sono minimalisti, ep-pure, in questo atteggiamento del tutto privo di timori reverenziali si è realizzata l'unica vera esperienza italiana contem-poranea di osmosi tra le arti.

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La compravendita di opere d'arte – per gli addetti ai lavori più genericamente «mercato dell'arte» – sta vivendo una nuova primavera dopo un paio di anni di arresto. Lo confer-ma il report appena pubblicato da Artprice (società leader mondiale delle banche dati sulle quotazioni e sugli indici dell'arte). L'analisi si basa sul confronto di tutte le vendite di opere d'arte all'asta ripetibili di anno in anno (sono escluse quelle straordinarie). Purtroppo le sole vendite all'incanto non ci permettono di avere scienza in materia (il mercato contempla, infatti, anche le vendite in galleria e alle fiere, o quelle tra privati), ma sono il barometro più attendibile della situazione attuale. In evidenza una crescita generale del +5,3% per un valore complessivo delle transazioni in asta in tutto il mon-do di 6,9 miliardi di dollari.Cominciando allora dall'arte antica, quella degli «Old Masters», è possibile identificare un trend moderatamente positivo per il primo semestre dell'anno. Ricordando sempre che gli Old Masters rappresentano poco più del 10% del mercato complessivo. Mo-derno e contemporaneo, secondo una ricerca del gruppo Arts Economics, costitui-scono il restante 75%. Nel mondo dell'antico non sono presenti molti «brand-artists», come accade nel contemporaneo, ma quando questi vengono presentati al mercato, i risultati sono sempre importanti. Il monumentale olio di Francesco Guardi, il Ponte di Rialto con il Palazzo dei Camerlenghi, ha sfiorato il record d'asta con una battuta a più di 26 milioni di sterline (quasi 34 milioni di dollari) durante la Evening Sale di Old Masters del 6 luglio scorso da Christie's a Londra. La grande tela di 122x200 centi-

ARTE IMPRESA

IL MERCATO DELL'ARTE

DI GIACOMO NICOLELLA MASCHIETTI

FINALMENTE LA RIPRESA

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a latoConstantin Brancusi, La muse endormie;Jean Michel Basquiat, Untitled;Le due vedute di Francesco Guardi, Ponte di Rialto con il Palazzo dei Camerlenghi e Venezia, veduta del Ponte di Rialto verso Nord, dalle Fondamenta del Carbon

metri era presentata con stima a richiesta, ma si aggirava sui 25 milioni di sterline. Dipinta a metà del 1760, è stata venduta da Christie's (privatamente) nel 1891 per 3850 sterline insieme al suo pendant alla famiglia Guinness. Le due vedute sono rimaste insieme in questa collezione fino al 2011, quando furono sepa-rate dalla vendita di Venezia, veduta del Ponte di Rialto verso Nord, dalle Fondamenta del Carbon da Sotheby's per 26,7 mi-lioni di sterline (attuale record d'asta).Oltre alle aste di Christie's e Sotheby's a Londra le occasioni per i collezionisti interessati a queste opere non mancano: il BRAFA di Bruxelles a gennaio, il TEFAF di Maastricht a marzo oppure la Biennale di Parigi e di Firenze a Palazzo Corsini a settembre. Per quanto riguarda arredi e oggetti da collezione, porcellane e maioliche, statue e sculture, anche in questo caso è la qualità che paga. Facendo un salto di alcune centinaia di anni si arriva agli «Im-pressionist & Modern», i maestri dell'Ottocento e del primo No-vecento, notoriamente amati e apprezzati da un largo collezio-nismo che spazia dall'America all'estremo Oriente. I risultati del semestre lasciano pochi dubbi, acquistare arte impressionista è come incassare un assegno circolare. L'opera più apprezzata dal mercato primaverile è stata certamente la meravigliosa La muse endormie di Constantin Brancusi, una testa in bronzo pa-tinato con foglia d'oro, del 1913, passata di mano da Christie's a New York per ben 57,4 milioni di dollari.Il Contemporaneo rappresenta infine la piazza più importante in termini di fatturato. La più apprezzata, la più pagata, la più speculata. Il 19 maggio 2017 è stato registrato il più grande record della stagione: da Sotheby's New York un collezionista ha speso ben 110,5 milioni di dollari per Untitled, un olio di Jean Michel Basquiat del 1982. Il dipinto, raffigurante un gran-de teschio, è stato acquistato dall'uomo che per sua ammis-sione ama Basquiat più di ogni altra cosa al mondo, Yusaku Maezawa, uno dei cinquanta imprenditori più ricchi del Giap-pone, fondatore dei centri commerciali ZOZOTOWN. Basquiat è entrato così a far parte di quella brevissima lista di artisti che hanno superato i 100 milioni di dollari insieme a Modigliani, Picasso, Giacometti e Bacon.Investire in arte oggi è redditizio, più sicuro degli asset tradi-zionali e sostanzialmente indipendente dai fattori di instabilità correnti nell'economia finanziaria. Si possono individuare com-parti più certi e altri più speculati, ma cambiando l'ordine degli addendi il risultato non cambia. Se ci concentriamo sulla fascia alta del mercato, che si parli di fiere, aste o vendite private, i va-lori (e non i prezzi) sono in crescita. Più in basso, invece, occorre tenere gli occhi ben aperti, e informarsi.

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ALLA FINE CHI INIZIA

DI ARIANNA BERETTA

UNDERTRENTA

ELENA VAVARO

Elena Vavaro (Castelvetrano, 1988) è un'artista che concentra la sua ricerca intorno al tema dell'«uomo». Osservazione, compartecipazione, indagine psicologica e sympatheia – nell'originaria accezione greca che intende una forte partecipazione allo stato emotivo e personale degli altri – sono i tratti distintivi che caratterizzano i suoi lavori. I suoi uomini e le sue donne guardano direttamente lo spettatore creando una sorta di dialogo muto: sono sguardi che interrogano e che suscitano domande universali. Elemento caratterizzante è il legame con la natura che va a innestarsi nei corpi ritratti con dolcezza, quasi un proseguimento delle carni: fiori e foglie diventano parte integrante di un'umanità che guarda – come una moderna icona – chi si ferma davanti a loro.Da un punto di vista tecnico Vavaro utilizza la pittura ad acquerello che permette velature e nuove cromie e che ben si sposa con la delicatezza dei volti e degli elementi floreali dei suoi lavori. Oggi Elena Vavaro collabora stabilmente con lo Studio d'arte Cannaviello di Milano.

Human Plant 6, 2016acquerello su carta, 66x103 cm