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Indice

Introduzione ................................................................................. 8

1. La metodologia utilizzata ovvero “Le ricette di GELSO” .... 12

2. Il linguaggio ........................................................................... 17

3. Didattiche attive ..................................................................... 21

4. Alternanza tra momenti di gruppo e singoli/e ....................... 29

5. I colloqui individuali ............................................................. 31

6. La narrazione ......................................................................... 34

7. I gruppi in formazione ........................................................... 37

Conclusioni ................................................................................ 45

Riferimenti bibliografici ............................................................ 50

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Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinazione di esperienze, di informazioni, di letture, di immaginazione?

Ogni vita è una enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in

tutti i modelli possibili

Italo Calvino Lezioni Americane

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Introduzione

Questo quaderno descrive un’esperienza, realizzata all’interno del

progetto Equal-GELSO, volta a formare e sostenere attraverso un

percorso di formazione alternato a colloqui individuali, alcune figure

della Provincia Autonoma di Trento (funzionari e direttori) e alcuni

dipendenti della Federazione Trentina della Cooperazione che

svolgono ruoli importanti all’interno dei processi organizzativi e di

cambiamento.

Il percorso è stato progettato in parallelo ad una serie di altre

iniziative che hanno cercato di incidere sulle dinamiche organizzative

e strutturali delle organizzazioni coinvolte, in questo caso

focalizzando in particolare l’attenzione sulle destinatarie finali del

nostro progetto, vale a dire quelle donne che sono posizionate al di

sotto del cosiddetto “tetto di cristallo”.

Per affrontare il problema della segregazione verticale e sostenere le

donne nei percorsi di carriera è fondamentale impostare occasioni

formative personalizzate, espressamente progettate e dedicate, come

risposta ai bisogni di sviluppo sia delle donne che delle

organizzazioni.

Essere donna manager significa riconoscere ed interpretare le

dinamiche di sviluppo di carriera e di assunzione di responsabilità

direttive, cogliendo in esse l’importante ruolo giocato dalle differenze

di genere. Significa, cioè, diventare protagoniste del proprio processo

di costruzione di identità personale e professionale coniugata al

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femminile, reinterpretando i classici modelli definiti maschili di carriera

ed esercizio del potere.

All’interno della Pubblica Amministrazione si rileva uno scarso

riconoscimento e una scarsa valorizzazione delle competenze nelle

donne ed un sistema premiante basato sulla presenza piuttosto che sul

risultato. La combinazione di questi fattori può portare le donne ad

un’iniziale rassegnazione e, successivamente, a trasformare il loro

investimento sulla professionalità in un investimento basato sul

privilegio dell’essere dipendente di una Pubblica Amministrazione.

I percorsi individualizzati sostengono la persona nella riscoperta delle

proprie competenze “nascoste”, taciute, sminuite e rilevano il

desiderio di valorizzazione di sé all’interno di un sistema in cui

contano le solidarietà politiche, le amicizie, i favori da cui le donne

sono escluse o si auto-escludono.

Durante il percorso individualizzato, le persone hanno la possibilità di

analizzare le organizzazioni aziendali di appartenenza, di riflettere

sulle proprie caratteristiche personali e sulle potenzialità professionali,

di progettare ed avviare, coerentemente con la realtà aziendale di

provenienza, un percorso di sviluppo delle proprie competenze

manageriali e decisionali integrato con il proprio progetto personale.

Risulta importante, quindi, il sostegno dell’organizzazione, la

conoscenza dei piani di sviluppo aziendale, per favorire un percorso

di sviluppo coerente con quello dell’amministrazione (FORMEZ

2003).

E’ importante analizzare il patrimonio di competenze personali

acquisite nei contesti informali in cui molte donne si sperimentano

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ogni giorno (gestione della casa, della famiglia, lavoro di cura…), che

non sempre vengono loro riconosciute all’interno di tante attività

lavorative.

Tale bagaglio di competenze fa riferimento ad un saper essere orientato

all’ascolto, ai rapporti di reciprocità, alla cooperazione, al senso di

responsabilità, di disponibilità e di sacrificio; ad un saper fare con

capacità di organizzazione e gestione delle risorse umane e ad una

consolidata attitudine alla multiprofessionalità.

Il percorso si dipana allora attraverso colloqui individualizzati, basati

sull’intreccio tra autovalutazione e eterovalutazione, tenendo conto

dello sguardo dell’altro e del contesto esterno dell’individuo. In modo

particolare il “Bilancio di Competenze”, strutturato e adeguato alla

situazione, può diventare uno strumento importante di analisi in cui la

persona è la protagonista attiva del proprio sviluppo.

Potrebbe essere significativo aprire tale modello di lavoro, basato

sull’auto-valutazione delle proprie competenze e sul confronto con

l’organizzazione amministrativa, ai ruoli direttivi al fine di consentire

un reale ed effettivo riconoscimento delle competenze e delle

professionalità.

L’intervento consulenziale (di Bilancio di Competenze o sviluppo di

carriera) contribuisce a mettere in sintonia la persona con la propria

organizzazione che sta cambiando. Tale attività permette ai suoi

beneficiari di ricostruire ed analizzare le proprie competenze,

conoscenze, abilità e motivazioni al fine di capitalizzarle e trasferirle

in un progetto di sviluppo professionale e/o formativo. Non si tratta

di valutare, stimare o giudicare, ma di supportare le persone

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nell’acquisizione di un metodo di autovalutazione in un’ottica di

lifelong learning, finalizzato alla crescita professionale individuale e a

stabilire un favorevole clima verso la fase di cambiamento (Sartori,

2002).

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1. La metodologia utilizzata ovvero “Le ricette di GELSO”

Perché ricette?

Perché parliamo di attività di donne e di uomini. Perché, nonostante

la cucina sia stata per antonomasia il luogo delle donne e il cuocere

una loro attività atavica, i più grandi cuochi (chef) del mondo sono

uomini.

Perché le ricette parlano di mescolanze, di impasti, di saper dosare

senza far prevalere, di saper scegliere e di sapere cambiare: scegliere e

cambiare gli ingredienti per migliorare costantemente il risultato

finale.

Ogni ricetta è, per le donne che cucinano, un’esperienza nuova, reale,

una nuova pratica da sperimentare e condividere, da tramandare,

duplicare e trasferire.

Perché allora non parlare di ricette da sperimentare per dare un volto

nuovo alla formazione e al lavoro?

Mainstreaming, empowerment, azioni positive: ecco gli ingredienti per una

nuova migliore società che offra agli uomini e alle donne le stesse

opportunità, una società che riesca a leggere la realtà con gli occhi

delle donne e quelli degli uomini e riuscire così a progettarne lo

sviluppo. (A. Pesce, 1999)

La differenza di genere non è una delle molteplici variabili distintive

che intervengono nei processi di orientamento, ma è alla base di

molte altre diversità.

L’approccio di genere applicato all’orientamento, alla formazione, al

lavoro rimarca la volontà di mettere al centro del processo la persona

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con le sue specificità. L’attenzione alla differenza di genere può

aiutare a declinare in modo nuovo i valori consolidati, senza negare o

rinunciare all’uguaglianza, ma reinterpretandola come valore che

contiene al proprio interno le differenze significative (ISFOL, 1998).

L’attenzione alle differenze di genere assume notevole importanza

negli interventi rivolti alle persone in formazione, come aiuto nel

superare scelte di percorso stereotipate e sostenere una progettualità,

che aiuti le donne a darsi obiettivi personali e professionali

diversificati, ma mai penalizzanti.

Le donne richiedono interventi di formazione e sviluppo che tengano

conto della loro identità, delle loro competenze e dei loro bisogni,

nonché di una metodologia che superi punti di vista e modi di operare

falsamente neutri.

L’identificazione di un progetto professionale e personale è

inesorabilmente legata alla dimensione di genere: la scelta lavorativa e

prima quella scolastico/formativa è frutto della riflessione che

ognuno di noi ha svolto (più o meno inconsapevolmente) rispetto alla

propria identità di genere, così come delle proiezioni che gli altri

hanno fatto su di noi, sempre tenendo conto di tale dimensione.

Se mainstreaming, sviluppo, azioni positive sono gli ingredienti,

l’impasto è la volontà di cambiare, la promozione dell’integrazione

della dimensione delle uguali opportunità per le donne e per gli

uomini in tutte le politiche e attività.

Il lievito sono le buone pratiche, gli esempi, le azioni positive che

colmano il divario tra gli uomini e le donne, azioni che rendono la

società più a misura di persone e accogliente.

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La “ciliegina sulla torta” è l’empowerment (il potenziamento), che va ben

oltre l’idea di potere come è concepito ora, per puntare alla nascita di

una società dove ognuno, uomini e donne, parteciperanno senza

distinzione di sesso, ma con un’attenzione sempre maggiore alle

differenze di genere.

Un importante ingrediente da prendere in considerazione è dunque

quello delle metodologie formative di genere (Progetto HYNNOVA,

1999).

Le metodologie formative di genere sono quelle pratiche che si sono

rivelate efficaci nella individuazione, nella valorizzazione e nello

sviluppo delle attitudini, delle competenze e delle capacità delle

persone in formazione, e nel nostro caso delle donne, tra cui:

• l’utilizzo di strumenti narrativi per ricordare esperienze

concretamente vissute dalle donne;

• la valorizzazione dei curricula nascosti;

• la rilevanza dell’aspetto relazionale tra i partecipanti alla

formazione: formatori/trici, gruppo, singole donne;

• l’attenzione alle risorse individuali di ogni donna;

• la valorizzazione dell’affettività femminile come competenza

che potrebbe migliorare la vita lavorativa di tutti/e;

• l’utilizzo del lavoro di gruppo con una attenzione alle relazioni

interne;

• l’utilizzo di approcci esperienziali;

• l’utilizzo di approcci operativi per lo sviluppo dell’assertività;

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• la predisposizione di strumenti formativi che privilegino il

fare, attraverso stage, simulazioni, racconti, testimonianze;

• il favorire situazioni nuove, al fine di rafforzare l’autostima;

• l’adozione di linguaggi che facciano emergere la soggettività

femminile.

L’assunzione di un’attenzione alla differenza di genere nella

formazione richiede che la stessa soggettività delle operatrici/ori entri

in gioco, perché è soltanto a partire da sé, dalle proprie esperienze che

si possono operare trasferimenti consapevoli sui gruppi in

formazione. Le metodologie da utilizzare si caratterizzano perché:

• ricorrono all’esperienza personale/professionale dei/lle

partecipanti;

• sollecitano lo sviluppo di consapevolezza sul proprio agire

formativo;

• offrono strumenti per rafforzare la capacità di situarsi

consapevolmente all’interno del proprio contesto

professionale;

• favoriscono la capacità di auto-valutazione;

• favoriscono la capacità di dare significato all’esperienza, di

comunicazione, di riflessione comune;

• danno rilevanza agli aspetti relazionali;

• utilizzano approcci operativi/esperienziali (ricerca,

apprendimento in situazione);

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• fanno ricorso a strumenti della formazione narrativa e

autobiografica, della metodologia della lingua sessuata e delle

metodologie attive (brainstorming, lavoro di gruppo, attivazione

delle risorse immaginative e della creatività).

Una dimensione fondamentale di questo percorso è la centralità del

soggetto, che significa che ciò di cui si tratta non è solo la formazione

al lavoro, ma la costruzione di un progetto di vita che apre sul piano

professionale.

È necessario coinvolgere attivamente le persone, richiedere la

formazione del consenso. Ciò induce a proporre modificazioni nel

tempo, nello spazio e nelle procedure.

NEL TEMPO: ci vuole più tempo per aprirsi alle storie di vita, per

leggere e rileggere i bisogni formativi, per esercitare un ascolto attento

e attivo. Si modificano gli orari di lavoro e della formazione. È

necessario tempo per dare la possibilità di rivedere i propri

atteggiamenti e comportamenti, il tempo del cambiamento è un

tempo lungo.

NELLO SPAZIO: dare spazio alla parola/ai desideri/alle storie di

vita. Prestare attenzione al setting, passando da uno rigido ad uno

flessibile, variato.

NELLE PROCEDURE E STRUMENTAZIONI: contribuire a

formare un sistema di competenze, utilizzando colloqui, giochi di

ruolo, modalità coinvolgenti.

Occorre assumere un’ottica di flessibilità, anche per quanto riguarda

la disponibilità degli operatori/trici, dello staff, dei verificatori, a

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sottoporsi a formazione continua, con l’obiettivo di stimolare la

riflessione su di sé e sulla propria propensione al cambiamento, essere

disponibili a modificare in itinere il progetto formativo, procedere

verso una cultura dell’accordo.

Qualsiasi rigidità dei percorsi formativi si oppone alla centralità del

soggetto, quindi è necessario progettare in maniera flessibile.

2. Il linguaggio

Qual’è il ruolo della differenza di genere nel linguaggio all’interno dei

percorsi di formazione e di consulenza individuale?

Spesso le donne e gli uomini, pur utilizzando lo stesso codice

espressivo, la stessa lingua, attribuiscono alle espressioni comunicative

verbali, non verbali e del corpo significati diversi; fanno quindi uso di

diversi stili linguistici o forme espressive all’interno dello stesso codice

linguistico e all’interno dello stesso contesto.

Vi sono così incomprensioni e fraintendimenti dovuti alla diversità di

genere, perché non è possibile non prendersi cura o ignorare i legami

che esistono tra lingua e pensiero, tra la parola e l’immagine (la nostra

visione della realtà).

Dice Luce Irigaray: “Parlare non è mai neutro”.

Porre attenzione alla differenza di genere nel linguaggio non significa

intensificare le differenziazioni, ma semplicemente non utilizzare un

linguaggio androcentrico e, soprattutto nei confronti delle professioni,

non utilizzare unicamente il maschile, ma fare riferimento alla persona

e quindi evitare di utilizzare la lingua in modo rigidamente sessista.

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Una buona pratica in questo senso è quella di evitare l’utilizzo del

maschile nei nomi dei mestieri, professioni e cariche nel caso in cui ci

si riferisca alle donne.

La lingua è un elemento di per sé duttile che segue il mutare della

società. Non è positivo creare situazioni ambigue, che non lasciano

spazio ad immaginare una professione come adatta alle donne

(uomini), ma di sola pertinenza maschile (femminile).

L’obiettivo che ci si deve porre nell’uso sessuato della lingua è quello

di dare visibilità linguistica alle donne e pari opportunità nell’ideazione

di un progetto professionale utilizzando termini linguistici riferiti

anche al genere femminile.

Non si può far finta di non sapere che l’uso di un termine piuttosto di

un altro ha implicazioni cognitive, modifica il senso della frase di chi

parla e quindi di chi ascolta. Non si può trascurare il rapporto che

esiste tra parola, valori e costruzione della realtà.

Spesso nella formazione non viene preso in considerazione l’utilizzo

di un linguaggio rispettoso dell’identità di genere, perché non se ne

capisce l’utilità. Occorre, invece, sviluppare nelle persone la

consapevolezza dei significati che la differenza di genere comporta e

della forza che il linguaggio ha nei confronti della costruzione della

realtà.

Dedicare tempo alla riflessione sull’identità di genere può significare

riflettere sugli stereotipi svalutativi riferiti alla donna nel ricoprire

determinate cariche o ruoli professionali e sulla differenza di genere

nella lingua italiana.

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Forse, considerare l’uso del linguaggio come una “metodologia” può

apparire una forzatura e forse lo è, ma una lingua italiana non sessista,

ovvero una lingua italiana asessuata, non c’è.

“Il linguaggio, in quanto sistema che riflette la realtà sociale, ma al

tempo stesso la crea e la produce, diviene il luogo in cui la soggettività

si costituisce e prende forma, dal momento che la persona si può

esprimere solo entro il linguaggio e il linguaggio non può costituirsi

senza un soggetto che lo fa esistere” (Patrizia Violi in Progetto

HYNNOVA, 1999).

Parlare al femminile in un contesto in cui le corsiste sono tutte donne

può sembrare una ridondanza, una raccomandazione ovvia. Ma, se

assumere come punto di riferimento sintattico il plurale femminile è

faticoso all’interno di una comunità femminile, che ha bisogno di cura

e di abitudine per diventare modalità linguistica corrente, compiere lo

stesso atto linguistico in presenza di uomini risulta assai più

complesso: l’abito linguistico finisce per prevalere sulla possibilità

descrittiva che pure la lingua ci offre.

L’attenzione ai soggetti si pone, sempre, come problema centrale.

In un certo senso, con la necessità di partire da sé, rileggendo i

percorsi di vita dei corsisti e delle corsiste, si pone l’accento

sull’identità sessuata ritrovabile nella ricostruzione dei discorsi d’aula e

si evidenzia l’opportunità di rimarcare la differenza di genere.

La differenza non deve essere occultata, ma riconosciuta come luogo

particolare che implica per gli uomini e per le donne modalità diverse

di esperienza, percorsi non simmetrici e non riducibili. Ciò significa

ripartire dall’esistenza reale delle donne e in primo luogo da ciò che

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significa per loro essere donne, da come si ricostruisce, nei discorsi e

nella coscienza, un’identità sessuata.

Nel parlare di madre lingua è opportuno segnalare un’attenzione

metodologica nell’uso della scrittura.

Il ricorso alla scrittura serve per indicare una possibilità di scambio

non momentaneo delle proprie riflessioni, per vedere le proprie

considerazioni come qualcosa di essenziale, di valore, da conservare

anche in caso di cambiamento, di radicale trasformazione. Inoltre, il

confronto con la propria scrittura costringe la persona ad un

confronto con sé stessa.

C’è la necessità di ripartire dall’esistenza reale delle donne e degli

uomini, di partire da sé, di mettere in campo oltre che soggettività

professionali anche soggettività femminili, disposte a giocare il

proprio ruolo di “magistrae” a raccogliere con autorevolezza la

funzione materna che viene agita in un processo di

apprendimento/cambiamento.

La lingua materna è la lingua che parliamo, la prima che abbiamo

imparato.

Per restituire almeno un po’ di visibilità linguistica alle donne è

opportuno adottare le raccomandazioni della Commissione Nazionale

per la realizzazione della parità tra uomo e donna sul sessismo nella

lingua italiana, che hanno lo scopo di evidenziare le forme sessiste

nella lingua italiana, di suggerire alcune alternative praticabili,

soprattutto per quanto riguarda il mondo del lavoro.

Parlare non è mai neutro e ci serve come strumento metodologico per

sottolineare le soggettività in campo, per favorire le relazioni con e tra

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le corsiste, per facilitare il percorso del farsi parola delle esperienze

delle singole.

Partire da sé stesse diviene così l’unica strada possibile, fertile e

creativa perché deve inventare nuove forme di espressione. Il fatto di

poter produrre discorsi e parole che tengano conto delle soggettività,

di non dover sparire nell’universale astratto, dà visibilità e valore

all’appartenenza di genere.

Nelle situazioni di gruppo la parola è lo strumento e il linguaggio è

tessuto di parole su cui si sviluppa il lavoro formativo.

3. Didattiche attive

L’utilizzo di metodologie didattiche attive è ormai pratica comune,

collaudata e riconosciuta nei contesti orientativi e formativi come

potente strumento per l’apprendimento di contenuti e l’attivazione di

comportamenti.

Il presupposto dei metodi attivi è che l’apprendimento effettivo sia

soprattutto apprendimento dall’esperienza: comprensione,

elaborazione e metabolizzazione dell’esperienza vissuta (Demetrio,

2003).

Le metodologie didattiche attive favoriscono la messa in campo di

azioni formative “artificiali” non nel senso di artificiose, ma nel senso

di azioni “fatte ad arte” ed allenano le persone all’uscita nel mondo

del lavoro, a partire da sé.

Esse permettono infatti di affrontare ed apprendere contenuti, di

attivare ed analizzare atteggiamenti e comportamenti in un ottica di

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lettura sistemica dei piccoli e grandi eventi di vita e di lavoro, di far

emergere, elaborare, valorizzare ed attivare le competenze

professionali.

Le metodologie didattiche attive prevedono il lavoro di gruppo che

favorisce il riconoscimento, lo sviluppo, il rafforzamento e la

valorizzazione delle capacità relazionali e comunicative e della

capacità più preziosa e difficile, la capacità di ascolto.

Inoltre richiedono e favoriscono lo sviluppo della competenza di

autoanalisi. Aiutano le azioni di riconoscimento, rispecchiamento,

narrazione, composizione della vita, emersione, esplorazione,

contestualizzazione, rielaborazione e perfezionamento che

accompagnano e caratterizzano il processo di valorizzazione.

FAR USCIRE LA VOCE

È fondamentale imparare a far uscire la propria voce intesa come

desiderio, fedeltà a sé stesse e capacità di trasformarla in parola.

Molte donne hanno la necessità di re-imparare ciò che erano

bravissime a fare da bambine: l’abilità verbale.

Con la presa di parola da parte delle donne come fedeltà a sé stesse, si

attenuano anche i rischi di svalorizzazione che spesso vengono

sottolineati dai dirigenti aziendali nelle competenze trasversali e

specialistiche.

Le competenze trasversali rischiano di essere svalutate perché per le

donne sono considerate innate o comunque si pensa che possano

essere apprese velocemente.

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“Quando le donne entrano nel mondo del lavoro tradiscono il loro

genere, perché il desiderio di affiliazione al maschile è troppo forte,

dovrebbero essere invece fedeli al proprio genere, acquisendo una

maggiore consapevolezza di sé” (M. Piazza, 1997).

ANALISI DEI CASI

Il metodo consiste nel presentare la descrizione di una situazione

problematica relativa a fatti accaduti in ambiente reale.

Favorisce la capacità di analizzare un’azione complessa, di prendere

decisioni in tempi reali, di partecipare attivamente ad una discussione

di gruppo, sapendo esporre con chiarezza e immediatezza proposte,

giudizi e confrontare diversi punti di vista e alternative di soluzione.

Sono capacità che riportano alla vita quotidiana delle donne, nella loro

opera di tenere insieme i pezzi del puzzle della loro esistenza. Il loro

riconoscimento, la trasferibilità nei contesti di lavoro sono

fondamentali nelle azioni di valorizzazione.

Altro metodo è quello della costruzione di un caso partendo da

esperienze vissute: proporre una rilettura strutturata e guidata della

propria concreta esperienza, favorendo una presa di coscienza delle

modalità esplicite e implicite di organizzazione e di funzionamento

dell’ambiente di lavoro e dei differenti modi in cui ciascuno vive e si

rappresenta la realtà, attivando la formazione di nuovi modelli di

intervento.

Quale occasione migliore per le persone di formarsi a partire da sé,

dalla propria esperienza, dai propri desideri: rinarrare e rileggere la

storia di brevi eventi con gli occhi, le parole e lo sguardo di altre/i.

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ROLE-PLAY

Il metodo, sviluppato originariamente dallo psicologo sociale Jacob

Moreno, consiste in una breve rappresentazione scenica che prende

l’avvio da un problema o da una situazione da esaminare, riferita

all’ambiente di lavoro o altri ambiti di vita. In questo modo, la

situazione viene vissuta e non solo analizzata e rappresenta un

momento di coinvolgimento emotivo delle partecipanti.

Gli obiettivi della metodologia riguardano principalmente l’area degli

atteggiamenti. Si favoriscono, infatti, la capacità di osservare i

comportamenti e i sentimenti altrui, una maggiore consapevolezza dei

propri atteggiamenti, una maggiore comprensione delle caratteristiche

delle interazioni sociali, l’espressione tramite forme di comunicazione

non solo verbali, l’assimilazione e comprensione ad un livello più

profondo della problematica esaminata.

GIOCHI DI SIMULAZIONE

“Simulare significa in definitiva suggerire sentimenti di realtà e di

veridicità nella situazione programmata e costruita artificialmente”

(Spaltro, 1993).

La complessità dei ruoli organizzativi richiede: maggior capacità di

coinvolgimento, ampliamento della conoscenza dell’ambiente esterno,

maggiore capacità di analisi e dominio della propria area soggettiva e

personale. Vengono richieste competenze di autonomia e coerenza

decisionale, orientamento mirato agli obiettivi, efficacia, centralità di

governo nei processi e integrazione delle funzioni, in un contesto di

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autonomia, creatività, polivalenza, duttilità e interfunzionalità e

confronto continuo con i segni e le dinamiche del cambiamento.

La simulazione si può definire come una serie di rappresentazioni

dinamiche che usano elementi formali, sostitutivi della realtà,

modellizzando la stessa mediante un processo di astrazione.

L’obiettivo principale è la costruzione di un sistema opportunamente

adatto per facilitare lo studio, la comprensione e la gestione della

realtà.

Aiuta nella comprensione delle situazioni più complesse ed è uno

strumento adatto ad introdurre le persone alle attività connesse con la

gestione del proprio ruolo organizzativo. Si riducono le complessità

della situazione permettendo di comprendere e maneggiare più

facilmente meccanismi altrimenti complicati.

Valorizza l’impegno attivo della persona nel processo di

apprendimento, la ricerca personale guidata, le occasioni di dare e

ricevere, l’esperienza di presa di decisioni rapide.

PROBLEM SOLVING

È il processo di soluzione di problemi in situazioni collettive.

Nell’utilizzo di questa metodologia, è rilevante l’uso del tempo e

l’attenzione al processo: diventa importante la necessità di non

arrivare immediatamente alla proposta di soluzione, ma prevedere

un’ampia fase di studio e centratura sul problema.

All’interno delle organizzazioni è sempre più frequente il ricorso a

gruppi di lavoro impiegati per la risoluzione dei problemi, la

pianificazione produttiva e organizzativa.

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La risoluzione di un problema in un gruppo passa attraverso le fasi di

percezione, definizione, analisi del problema, produzioni di soluzioni

alternative, valutazione e decisione.

VISUALIZZAZIONE

Vedere è un processo mentale, perché vedere è:

- Selezionare

- Riconoscere

- Categorizzare

- Significare

- Interpretare

Perché noi vediamo con la mente e non con gli occhi e vedere è il

primo atto di conoscenza del mondo.

Funzione delle immagini:

- Sostitutiva: surrogato della realtà, reazione emotiva (come se..);

- Documentaria: scopo conoscitivo, al servizio della realtà;

- Estetica: arte.

La forza delle immagini risiede nella debolezza del suo codice: la sua

polisemia fa sì che ciascuno possa leggerla a partire dai propri vissuti,

che possa interpretarla e darle i significati che ha già nella mente.

L’utilizzo delle immagini nell’orientamento e nella formazione non è

una pratica nuova, si pensi all’ampio uso dei film per l’insegnamento

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delle lingue, la sensibilizzazione su temi specifici e il sostegno alla

riflessione in profondità circa questioni di interesse sociale e storico.

L’utilizzo delle immagini (film) sollecita un’elevata attivazione della

persona, sul fronte del pensiero, così come su quello delle emozioni

ed è proprio questo duplice ordine di stimolazioni a creare le

condizioni per l’avvio di un significativo processo di apprendimento.

È dunque un’esperienza che consente di vivere in modo mediato

l’esperienza rappresentata: la riflessione su questo doppio esperire si

connota come la conditio sine qua non per innescare il processo di

apprendimento.

La visione di immagini è capace di stimolare il pensiero, sia in modo

generale che specifico. Aiuta nell’apprendimento di flessibilità

concettuali e abilità di cambiare prospettiva, nella messa a fuoco dei

processi di costruzione della realtà e di attribuzione di significati: può

rendere più consapevoli circa le modalità con cui si interpretano gli

eventi e si costruiscono teorie individuali.

Inoltre, è necessario sottolineare la capacità delle immagini di

suscitare emozioni, al forza emotiva delle immagini.

La visione di immagini soddisfa anche il bisogno di narrazione

espresso dalle persone, attraverso un coinvolgimento affettivo

profondo, perché le immagini rappresentano storie che per loro

natura, pur non essendo auto-casi, sono di tutti.

È così possibile sollecitare un’immaginazione personale che consente

di richiamare i frammenti della propria esistenza, di portare tutto a sé

stessi/e nella situazione di apprendimento: anche quegli aspetti

(desideri, vissuti, passioni, timori, ecc.) che senza adeguati oggetti di

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identificazione rimarrebbero inevitabilmente sullo sfondo e dunque

non potrebbero essere osservati.

La riflessione è la diretta conseguenza. Qualunque sia le reazione

suscitata dalle immagini, ha rilevanza soggettiva, in un continuum tra

vicinanza (in termini di somiglianza) e distanza (in termini di

differenziazione). La riflessione che ne può seguire (dove dimensione

cognitiva ed emotiva si intrecciano profondamente) è sia relativa

all’esperienza del vedere la scena, sia relativa all’esperienza di vivere la

scena ed entrambe le componenti della riflessione possono essere utili

oggetti di attenzione all’interno di un contesto orientativo e

formativo.

Le metodologie didattiche appena esposte, vengono accolte con

molto piacere ed interesse dalle persone in formazione. C’è un grande

bisogno ed anche una notevole capacità nelle persone (e in modo

particolare nelle donne) a mettersi in gioco, a riflettere seriamente, ma

con levità, ad accogliere con curiosità proposte di lavoro in aula che

mettono in campo il corpo, la mente, la parola.

In effetti, sono metodologie che possono essere utilizzate per i

contenuti più disparati, ma sempre con un’attenzione alla differenza

di genere.

Alcuni contenuti più intriganti, più interessanti che potrebbero essere

esplorati con attenzione sono: il rapporto delle donne con il denaro,

con il potere e l’esercizio del potere, del valore del lavoro, della ricerca

di senso del lavoro e della possibilità di libertà femminile che le

trasformazioni in atto nel mondo del lavoro portano con sé.

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4. Alternanza tra momenti di gruppo e singoli/e

La scelta di utilizzare questa metodologia di lavoro nasce dalla

convinzione che, nell’alternanza fra momenti individuali e momenti di

gruppo, si possono originare occasioni virtuose e creative.

Si pensa che nell’oscillazione fra una situazione individuale, deputata

alla ricostruzione delle storie professionali e alla costruzione di spazi

di riflessione e momenti corali, in cui si attivano dinamiche di

rispecchiamento e di identificazione reciproca, possa giocarsi la sfida

del cambiamento e della trasformazione progettuale (Alberici, 2000).

La possibilità di osservare le persone in contesti altri rispetto al

colloquio permette di rilevare atteggiamenti e caratteristiche

difficilmente rilevabili in situazioni individuali.

Il contesto di gruppo permette la costruzione di uno spazio di

confronto in cui ognuno può rivedere alcune delle proprie

caratteristiche nell’esperienza portata, individuando strumenti e

risorse a cui non aveva avuto accesso precedentemente. Il gruppo può

configurarsi come un contesto in cui una condizione emotiva ottimale

può trovare il suo ambito di costruzione e di sviluppo.

Spesso la persona nel gruppo può percepire un elevato livello di

competenza interpersonale, poiché la propria azione può incidere

nella vita di un’altra persona; percepisce un equilibrio soddisfacente

fra il dare e l’avere, nelle relazioni con gli altri; apprende strategie di

cambiamento, osservando le proprie problematiche sotto

un’angolatura diversa e con una certa distanza; riceve spesso

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approvazione e riconoscimento per il ruolo che svolge e ciò

incrementa l’immagine positiva della propria identità.

È attraverso la messa in comune delle difficoltà e delle storie di vita

che si attiva la percezione di non essere soli con la propria esperienza,

ma di poterla invece condividere con chi può realmente capirla e

accoglierla perché è portatore, a sua volta, di un vissuto analogo

(Castelli, Ancona 1998).

Inoltre lo scambio di idee e risorse permette di ampliare la gamma di

possibilità individuate nell’ambiente e aiuta la definizione degli

obiettivi di sviluppo.

Il gruppo può farsi spazio all’interno del quale portare i propri vissuti

emotivi e trovare un valido contenimento, in un continuo scambio

con il momento individuale.

Inoltre, può diventare il luogo di messa in comune di ciò che viene

elaborato in ambito individuale e spazio creativo in cui ricercare

modalità alternative di pensiero e modi nuovi di guardare il proprio

percorso di sviluppo professionale attraverso il confronto con gli/le

altri/e.

Il gruppo può essere utile a favorire dinamiche di apprendimento

riflessivo, dialettico e strumentale, per consentire occasioni di

riflessione, fornire strumenti utili di interpretazione della realtà, per

trasferire nuove modalità per fronteggiare la realtà. Inoltre, può

facilitare il processo di riconoscimento di competenze tramite

un’attribuzione di valore dall’esterno e può sviluppare un aumento

dell’autostima personale.

31

Diventa importante, quindi, costituire gruppi che possano facilitare e

fare da cassa di risonanza all’esplorazione complessiva della persona e

che possano costituire una valida rete di supporto alle persone.

5. I colloqui individuali

Il Bilancio di Competenze nasce come metodo mirato a produrre

cambiamento personale e professionale e per sua stessa natura

attribuisce massima centralità alla persona, che diviene al tempo

stesso oggetto e soggetto del percorso (Selvatici, D’Angelo 1999,

Ruffini, Sarchielli 2001).

L’attività consulenziale che si è intrapresa in questi percorsi formativi

si avvicina al Bilancio di Competenze e vi fa riferimento rispetto alle

finalità generali.

È un metodo di analisi e descrizione delle competenze personali e

professionali, delle attitudini e motivazioni in vista di una definizione

o ridefinizione di un progetto di sviluppo professionale. È un metodo

centrato sulla persona, fondato sulla responsabilizzazione e sulla

consapevolezza delle proprie competenze personali e professionali; vi

si aderisce spontaneamente, in maniera volontaria.

Durante il percorso individualizzato il/la consulente promuove,

facilita e sostiene un autonomo processo di riflessione, di auto-

valutazione, di progettazione e di scelta da parte della persona. La

creazione di un rapporto a due caratterizzato da trasparenza e fiducia,

nonché l’impegno alla riservatezza dei dati sono elementi che

favoriscono e facilitano il processo di analisi e ricostruzione della

32

storia individuale in cui passato, presente e futuro si integrano in

funzione della costruzione di un progetto di sviluppo professionale.

Questo privilegiato rapporto a due è personalizzato ed

individualizzato e, pur all’interno di una struttura definita, assume

caratteristiche (sequenze, attività, durata, strumenti) che variano da

persona a persona (Lemoine, 2002).

La finalità non è stata soltanto quella di fare il punto sulle

competenze, ma di permettere alle persone di ricostruire, identificare

e analizzare competenze, conoscenze, abilità, risorse motivazioni al

fine di capitalizzarle, mobilitarle in vista di un progetto di sviluppo.

Per questo motivo il percorso consulenziale è un percorso di

cambiamento che incide sul sistema di rappresentazioni della persona,

sulla sua definizione della realtà e degli obiettivi che si prefigura.

Poiché la persona non sempre riconosce autonomamente e

completamente le proprie risorse e abilità, il ricorso a consulenti e a

tecniche appropriate può facilitare questo riconoscimento: aumenta la

capacità di padroneggiare le variabili in gioco nella propria esperienza

lavorativa e sostiene nell’utilizzare al meglio il proprio repertorio di

abilità per gestire il proprio ruolo professionale.

La concezione di competenza a cui si è fatto riferimento durante i

colloqui individuali è caratterizzata da una serie di elementi:

• comprende caratteristiche individuali e psicosociali e

professionali operative;

• è dinamica, modificabile, implementabile, trasferibile;

• è la competenza auto-percepita dalla persona, quindi è auto-

costruita e costruita nella relazione consulenziale;

33

• esiste nella misura in cui il soggetto ne diviene consapevole e

nella misura in cui diviene capace di verbalizzare conoscenze,

capacità, abilità e caratteristiche personali anche implicite

(Menghnagi, 1992).

Il percorso individuale ha previsto alcuni obiettivi, pur nella

personalizzazione degli interventi:

• riflettere sulla propria vita professionale, sulle scelte e le

strategie utilizzate in ambito lavorativo;

• ricostruire, analizzare, valorizzare, mobilitare le competenze

messe in campo nell’attività lavorativa;

• ipotizzare un possibile progetto di sviluppo personale e

professionale, partendo dall’analisi delle proprie esigenze e

competenze;

• ipotizzare un piano d’azione che tenga conto del contesto;

• migliorare la capacità di autoanalisi delle proprie competenze.

A conclusione dei colloqui individuali, la consulente ha redatto il

“documento di sintesi” che è stato consegnato e discusso con i/le

diretti/e interessati/e in un ulteriore colloquio. Tale documento è

strettamente personale e riservato ed è solo la persona stessa che può

decidere se trasmetterlo o meno a soggetti terzi.

I colloqui realizzati, in alcuni casi, hanno portato ad un’elaborazione

di un possibile progetto di sviluppo professionale, ma soprattutto

sono stati una riappropriazione delle proprie esperienze passate e

delle acquisizioni che ne sono scaturite, in termini di risorse e

competenze maturate.

34

6. La narrazione

I contenuti delle storie dipendono dalle voci di chi li racconta e

l’esperienza che viene raccontata in prima persona esprime la

soggettività del narratore o della narratrice. La voce proviene dal

corpo, da una soggettività che è anche materialità. Andare per il

mondo con un corpo di donna o un corpo di uomo comporta

esperire diversamente la realtà e quindi produrre diversi resoconti di

essa.

Le femministe storiche ci hanno comunicato come la Storia fosse stata

scritta dagli uomini e che quindi raccontasse solo alcune delle

esperienze vissute, mentre altre esperienze rimanevano escluse o

marginalizzate …quelle delle donne.

La differenza primaria tra donne e uomini risiede nell’avere corpi che

ci mettono in contatto con esperienze diverse dello stesso mondo o

meglio che mediano diversamente il modo in cui socialmente

costruiamo il nostro rapporto col mondo.

Nel raccontare la nostra esperienza del mondo noi la rendiamo

intelligibile tanto a noi stessi quanto agli altri e quindi possiamo dire

che il linguaggio costituisce una forma di mediazione tra noi, la nostra

esperienza del mondo e gli altri nel mondo (Gherardi e Poggio 2003).

Il raccontare è quindi una pratica sociale, è una pratica discorsiva che

costruisce le relazioni sociali e il mondo così come noi lo conosciamo,

cioè dotato di senso e di significato.

È nel raccontare che i segni, le tracce del vissuto si compongono e

acquisiscono un senso compiuto. La narrazione è un dono, è, come

35

nel racconto di Karen Blixen (1937), il disegno consegnato alla

bambina quando il racconto della cicogna è terminato, e il disegno

materializza la volatilità delle parole (cit. in Cavarero, 1997).

Disegno e storia sono in questo caso inscindibili, così come le

pratiche discorsive che costruiscono il genere sono inscindibili dalle

pratiche materiali che sedimentano il significato del genere negli

artefatti, nella tecnologia, nell’ambiente fisico delle organizzazioni, nel

sistema delle retribuzioni, degli incentivi, della presenza e assenza.

Con l’espressione “il lavoro della memoria” si fa riferimento al ricamo

che crea legami tra il sé storico culturale e le relazioni pratico sociali.

Si tratta dunque di una metodologia che situa il sé presente dentro

l’organizzazione relazionale del processo di socializzazione al lavoro e

che consiste nel ricordare il proprio corpo come situato, storico e

nell’individuare le esperienze come ricordi che si infiltrano nel

presente. Essa si basa sul presupposto che per diventare capaci di

produrre un qualche cambiamento nel presente, occorre aver

sottoposto il passato ad un’analisi spassionata.

La narrazione è un canale privilegiato attraverso cui gli individui

comprendono il mondo. Attraverso il racconto vengono operate

connessioni, costruiti schemi di interpretazione, prodotti ordinamenti

e classificazioni. Quando narrano, gli individui stabiliscono

connessioni coerenti tra discorsi diversi e assegnano una forma

organizzata agli eventi della vita sulla base di un ordine temporale e di

uno schema interpretativo che prevede l’intenzionalità dei personaggi

(Demetrio, 1996).

36

Inoltre la narrazione rappresenta anche un processo creativo, in

quanto implica la capacità intellettuale di immaginare alternative, non

essendoci mai una sola storia per raccontare una situazione.

Nel raccontare, non solo le azioni sociali trovano un posto ed un

significato in virtù dell’essere collocate in una narrazione che le

contestualizza, ma anche il narratore o la narratrice posiziona la

propria identità all’interno di una storia.

Il significato del racconto sta, infatti, proprio in questo semplice

risultare che non consegue ad alcun progetto e nell’unità figurale del

disegno. Detto altrimenti, il disegno (non dei tratti confusi, ma l’unità

di una figura) non è ciò che guida fin dall’inizio il percorso di una vita,

bensì ciò che tale vita si lascia dietro, senza poterlo mai prevedere e

neanche immaginare. Il disegno si vede solo alla fine, quando chi l’ha

tracciato con la sua vita o altri spettatori, guardando dall’alto, vede le

orme lasciate sul terreno.

Il disegno è appunto la storia e, più che accompagnarla e illustrarla, vi

coincide perfettamente: nel senso che il disegno che ogni essere

umano si lascia dietro, altro non è che la storia della sua vita. Karen

Blixen aggiunge che “Tutti i dolori sono sopportabili se li si inserisce

in una storia o si racconta una storia su di essi”.

Hannah Arendt ha scritto che “La storia rivela il significato di ciò che

altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi” (Arendt,

1973, trad. it. 169). La narrazione come metodo di costruzione e

ricostruzione della propria storia personale e professionale affonda le

proprie basi sul fatto che la parola rappresenta il ponte che collega la

realtà alla mente e che media l’attribuzione di significati dati

37

all’esperienza. La descrizione del proprio spazio di vita, personale e

professionale, esprime il vissuto soggettivo che ciascun individuo

sperimenta e che viene ricostruito attraverso il rapporto

interpersonale fondato sulla parola.

Il metodo narrativo, lavorando sulla storia personale da un lato e sulla

dimensione dell’incontro e dello scambio relazionale dall’altro,

garantisce il raggiungimento di molti obiettivi. La narrazione di sé

diventa così contemporaneamente oggetto di analisi di sé e strumento

che rende possibile tale analisi.

L’utilizzo dell’approccio narrativo diventa un momento di formazione

riflessiva che considera come centrale la possibilità di apprendere

dall’esperienza: quella passata rievocata dalla memoria, al pari di quella

del qui e ora e di quella riprogettata per il domani. L’apprendimento

diventa così auto-apprendimento, frutto di un processo di

consapevolezza di sé e di educazione autoriflessiva.

In un processo ideale di lavoro la raccolta delle storie forma un

materiale originale, un prezioso punto di partenza che inizia da ciò

che esiste, cioè partire dal passato per leggere e interpretare il

presente, e costruire il futuro partendo dal presente.

7. I gruppi in formazione

L’intervento ha avuto come finalità quella di favorire l’acquisizione di

competenze, capacità e strumenti utili allo sviluppo delle potenzialità

individuali in un’ottica di genere.

Gli obiettivi sono stati:

38

• offrire strumenti conoscitivi ed interpretativi per la lettura,

l’analisi e la gestione delle dinamiche di genere all’interno delle

organizzazioni lavorative;

• supportare l’evoluzione delle persone, in una prospettiva di

empowerment individuale, che tenga conto del miglioramento

dell’organizzazione aziendale e della partecipazione attiva alla

vita organizzativa;

• sviluppare nuova progettualità nei percorsi di carriera;

• implementare competenze manageriali e di gestione delle

risorse umane.

Il percorso formativo è stato diviso in 3 fasi: il contesto formativo, i

laboratori di sviluppo manageriale e gli approfondimenti individuali.

Fase 1: il contesto formativo (12 ore)

Questa fase di carattere propedeutico ha previsto 3 moduli:

• Socializzazione e patto formativo: è l’apertura dell’attività formativa e

prevede la conoscenza dei/lle partecipanti tra loro, l’esplicitazione

delle aspettative, la definizione collettiva del patto formativo fra i

diversi attori coinvolti.

• Percorsi professionale e di carriera: attraverso la condivisione e il

confronto, si è cercato di offrire l’opportunità di fare il punto

sulle proprie esperienze professionali, ricostruendo, analizzando e

valorizzando le competenze maturate attraverso le esperienze

personali e professionali; sviluppare la propria pensabilità di

costruire un progetto professionale futuro.

39

• Genere e organizzazione: si è cercato di introdurre i/le partecipanti

alla lettura delle organizzazioni proponendo la lente dell’ottica di

genere come pratica di costruzione sociale; attraverso i vissuti e i

racconti dei/lle partecipanti, si è cercato di mettere in luce le

dimensioni della cultura di genere all’interno delle organizzazioni

di riferimento, focalizzando l’attenzione sui valori, i pregiudizi, gli

stereotipi esistenti e sui processi e le procedure organizzative.

Fase 2: i laboratori di sviluppo manageriale (30 ore)

Questa fase, cuore dell’intervento d’aula, è stata dedicata allo sviluppo

di conoscenze, abilità e comportamenti che contraddistinguono i ruoli

di responsabilità in termini trasversali secondo un’ottica di genere.

L’approccio è stato quello del laboratorio formativo, accompagnato

da contributi teorici, a partire dai vissuti personali e professionali

dei/lle partecipanti.

• Lavoro di gruppo e gestione dei conflitti: è stato analizzato il concetto di

gruppo, in particolare di gruppo di lavoro, al fine di aiutare a

leggere le dinamiche in atto nei gruppi di lavoro, di gestire la

comunicazione in modo funzionale al raggiungimento degli

obiettivi del gruppo, di monitorare il clima presente nel proprio

gruppo di lavoro. Si è cercato di favorire l’auto-diagnosi e la

riflessione rispetto ai ruoli e alle modalità di partecipazione e

gestione dei gruppi di lavoro. Si è affrontato il tema del conflitto e

sono stati proposti momenti di riflessione mirati a far acquisire

consapevolezza sulla individuale gestione ed efficace risoluzione

dei conflitti.

40

• Leadership e gestione dei collaboratori: è stata presa in considerazione la

dimensione della leadership ed i diversi modelli teorici, cercando

di riflettere in modo particolare sull’esercizio di una leadership di

genere. È stata stimolata un’autoanalisi sul modo di esercitarla

dei/lle partecipanti e sugli strumenti messi in atto per la

valorizzazione dei collaboratori e la gestione delle risorse umane.

• Problem solving e creatività: è stato analizzato il processo di analisi e

risoluzione dei problemi, presentando tecniche che si basano

sull’approccio creativo. Tali tecniche sono state analizzate e

sperimentate in aula, supportate da strumenti applicativi e

riferimenti concettuali utili per una sperimentazione in ambito

lavorativo delle tecniche apprese.

Fase 3: approfondimenti individuali (4 ore)

Tale fase ha costituito un momento di approfondimento individuale

dei contenuti formativi: la finalità è stata quella di integrare alcune

dimensioni di contenuto funzionali ai progetti di crescita

professionale nelle organizzazioni di riferimento. Nei colloqui

individuali è stata effettuata la ricostruzione del proprio percorso

professionale, utilizzando strumenti autobiografici che svolgono una

funzione di empowerment, di rafforzamento e di motivazione della

persona. L’utilizzo del percorso autobiografico aiuta la persona a

prendere consapevolezza di sé, dei propri punti di forza e lo supporta

nell’elaborazione di un proprio progetto professionale, attribuendo

senso alle proprie azioni. Sono stati utilizzati anche strumenti di auto-

valutazione al fine di suscitare un lavoro di auto riflessione personale,

41

ripreso successivamente nel momento di colloquio con la consulente

che, proponendo rappresentazioni o caratterizzazioni diverse,

promuove lo sviluppo delle capacità di analisi della persona e l’aiuta a

chiarire meglio tale oggetto di analisi (Di Fabio, 2002).

I percorsi formativi sono stati rivolti in particolare a tre gruppi, due

provenienti dalla Provincia Autonoma di Trento (PAT) e uno dalla

Federazione Trentina della Cooperazione (FTC).

Il gruppo della FTC era composto da 14 persone: 1 uomo e 13

donne, di queste 5 non sono dipendenti della FTC, ma socie di

cooperative aderenti. Le persone dipendenti FTC non occupano

posizioni dirigenziali, ma potrebbero tutte avere uno sviluppo di

carriera all’interno del proprio ufficio. Tuttavia questo finora non è

avvenuto, anche perché, come emerso dal percorso di ricerca, in

questa organizzazione è difficile per le dipendenti donne riuscire a

raggiungere livelli elevati di coordinamento e di dirigenza. Anche se le

donne rappresentano il 43% dei dipendenti, nessuna ricopre, infatti, il

ruolo di dirigente e, tra i quadri direttivi, le donne sono ancora in

netta minoranza (9 vs. 48).

Dai percorsi individualizzati esce l’idea che le dinamiche dei percorsi

di carriera si basano sulla relazione tra tempo e qualità della

prestazione, piuttosto che sull’analisi delle competenze necessarie.

Spesso le donne, che hanno competenze e qualificazioni, si sentono

bloccate dalle responsabilità familiari. L’azienda, da un lato concede il

part-time, ma dall’altro lo considera come un blocco per una possibile

carriera delle donne. E comunque, sembra essere il fatto stesso di

42

essere donna a pregiudicare il percorso di carriera, al di là del part-

time o dell’avere figli, perché il clima organizzativo risulta denso di

pregiudizi di genere. Questo aspetto è più volte ritornato nei colloqui,

anche in quelle persone che hanno optato per il tempo pieno o per

l’unico uomo che ha operato una diversa scelta aziendale.

Un altro fattore importante è quello della valorizzazione o poca

valutazione delle proprie competenze, che le donne fanno molta

fatica a riconoscersi. In molti colloqui si è lavorato, infatti, sul

concetto di autostima per supportare le persone a richiedere

miglioramenti professionali.

Il gruppo PAT1 era composto da 14 persone: 3 uomini e 11 donne; 4

direttori di ufficio (di cui 3 donne e 1 uomo) e 11 funzionari.

È stato, forse, il gruppo più dinamico e partecipativo: gli uomini

presenti hanno fatto la differenza, mettendosi più volte in discussione

e portando una diversa visione delle cose.

Il gruppo PAT2 era composto da 12 persone: 2 uomini e 10 donne; 2

direttori di ufficio (di cui 1 uomo e 1 donna) e 10 funzionari.

Dai colloqui individualizzati emerge un duplice modo di vedere la

propria carriera all’interno dell’organizzazione: da un lato la

tranquillità di essere dipendente di un ente pubblico che mette in atto

buone misure di conciliazione, dall’altro la difficoltà di accedere a

percorsi di carriera strutturati per concorsi e il non vedere

riconosciute dai propri superiori le proprie competenze.

Nei colloqui si è cercato di analizzare l’ambiente organizzativo

individuale supportando le persone nella ricerca di modalità lavorative

43

adeguate rispetto ai problemi evidenziati. Si è anche cercato di

valorizzare le competenze di ognuno, il manifestarsi dei punti di forza

al fine di migliorare l’autostima individuale e ridare motivazione al

lavoro.

Per tutti/e i/le partecipanti al percorso, i valori importanti per poter

attribuire significato al proprio lavoro risultano concentrarsi intorno

alla soddisfazione di bisogni fondamentali come quello di fare

qualcosa di nuovo e creativo, di crescere, di potere affermare se stessi

e le proprie competenze all’interno del proprio ambiente lavorativo.

Si evidenzia l’esigenza di trovare equilibrio tra il bisogno di

indipendenza, di autonomia e di condivisione; emerge l’importanza e

la centralità delle relazioni interpersonali, la necessità di lavorare in un

ambiente in cui la comunicazione è aperta, la possibilità di confronto

e di apprendimento continuo, il riconoscimento delle competenze e

della professionalità costituiscono valori che rendono il lavoro non

solo uno spazio di crescita professionale, ma anche personale.

Un ulteriore bisogno, spesso dichiarato apertamente, è stato quello di

valutazione del proprio lavoro, delle proprie competenze, non come

giudizio formalizzato fine a se stesso, ma come spazio per la verifica

di se stessi, per la valorizzazione delle diversità, per stimolare la

comunicazione, in un’ottica di confronto non valutativo, ma di

sostegno. Valutazione, quindi, come strumento di attribuzione di

significato per una strategia di gestione tesa a privilegiare lo sviluppo

delle persone e le loro motivazioni.

Si sono raggiunti, anche, importanti obiettivi in termini di

consapevolezza delle proprie competenze, delle proprie esigenze di

44

crescita professionale e di sviluppo di capacità progettuali. In

particolare si è lavorato su: acquisizione di maggiore consapevolezza

dei propri punti di forza e di debolezza; individuazione di modalità

per rafforzare i punti forti e ridurre i punti deboli; identificazione delle

proprie priorità di vita in relazione al proprio sviluppo professionale;

acquisizione di capacità di risoluzione di problemi organizzativi e di

pianificazione e implementazione di percorsi di crescita professionale.

45

Conclusioni

L’intervento ha avuto nel suo complesso un impatto positivo sulle

persone che vi hanno aderito: si è trattato di un’esperienza importante

per quanto riguarda le motivazioni al lavoro e la capacità di orientarsi

nel proprio sviluppo professionale. Per la maggior parte si è trattato

della possibilità di una messa in trasparenza delle proprie conoscenze,

competenze e capacità. È stato particolarmente apprezzato l’aiuto

verso una presa di coscienza dei propri punti di forza da un lato, ma

anche una rielaborazione dei propri punti di debolezza, che ha

portato a concretizzare possibili modalità di azione per affrontarli.

Sono emersi, inoltre, alcuni elementi che sottolineano il rapporto fra

le persone che hanno aderito al progetto, la loro organizzazione e i

processi di cambiamento che stanno vivendo:

• esigenza di maggior chiarezza rispetto ai processi di cambiamento

e sviluppo organizzativo e al proprio ruolo e contributo rispetto a

tale cambiamento;

• aspettative rivolte alla predisposizione di azioni e strumenti di

supporto ai cambiamenti, volte a sostenere il riposizionamento

dei/lle singoli/e;

• richieste di strumenti di orientamento e apprendimento

individuale e organizzativo che il cambiamento sollecita;

• aspettative nei confronti di una coerente e graduale introduzione

di nuove regole gestionali;

• rappresentazioni del ruolo del dirigente, differenziando la

dimensione tecnica e quella manageriale;

46

• rappresentazioni dei processi di sviluppo e cambiamento

organizzativo con richiesta di un maggior coinvolgimento e

riconoscimento dei direttori e dei funzionari;

• motivazione allo sviluppo lavorativo e alla progettualità, con

coinvolgimento nei processi professionali;

• individuazione di elementi di criticità legati all’interazione con le

forze politiche.

Affinché l’esperienza di GELSO non vada dimenticata, ma diventi

una possibile buona prassi all’interno delle organizzazioni pubbliche e

private, si ritiene utile provare ad avviare alcune riflessioni su alcuni

punti:

• Bisogni della committenza. È sicuramente importante

contestualizzare l’intervento a partire in primo luogo

dall’organizzazione presso la quale viene realizzato, chiarendo

bene ed esplicitando a tutti/e gli/le interessati/e gli obiettivi che

si intendono perseguire con tali azioni. Un intervento come

quello concluso (formazione di competenze manageriali e bilancio

di competenze) mette in moto nella persona un processo che

conduce al cambiamento. Dalla parte dell’organizzazione, quindi,

ci deve essere interesse a promuovere tale cambiamento e di

accogliere, successivamente, i processi di innovazione in atto. La

dirigenza dovrà, allora, fare propri gli elementi innovativi, essere il

motore del cambiamento ed essere capace di promuovere tale

cambiamento nei propri collaboratori. Sarà quindi necessario

chiarire quali comportamenti organizzativi l’organizzazione è

interessata a promuovere, valorizzare o cambiare.

47

• Durata del percorso. Sembra che 4 incontri individuali siano un

numero favorevole al lavoro che si è voluto portare avanti; è

inoltre utile un ulteriore momento individuale per la consegna del

documento di sintesi. È necessario utilizzare strumenti “snelli”

che consentano una immediata messa a fuoco degli elementi e dei

passaggi da analizzare. La modalità narrativa sembra essere

adeguata per raggiungere obiettivi di analisi e presa di

consapevolezza delle proprie competenze. Il percorso individuale

deve essere necessariamente funzionale agli obiettivi di tipo

professionale su cui è stata posta l’attenzione ad inizio percorso.

• Sono stati molto significativi tra i momenti di formazione d’aula,

le sessioni di gruppo, perché hanno indotto riflessioni sulle

competenze trasversali, hanno agito sulle modalità relazionali,

dinamiche e flessibili ed hanno supportato le persone ad elaborare

in gruppo efficaci strategie per affrontare le criticità dell’ambiente

lavorativo.

• La mappa delle competenze. Potrebbe essere opportuno ed

interessante effettuare una rilevazione, analisi e descrizione delle

competenze condivisa dall’organizzazione, al fine di giungere ad

un matching fra le competenze richieste dalla stessa, quelle

realmente presenti, quelle da formare/aggiornare, quelle da

implementare ex novo.

• L’analisi continua dei bisogni formativi. È necessario individuare e

rispondere alle esigenze formative emergenti in chi ha portato a

termine il percorso. Per questo la formazione permanente deve

essere considerata un diritto/dovere di tutti e va assicurata

48

gestendo al meglio le risorse disponibili. È necessario, quindi,

prevedere percorsi formativi adeguati a rispondere alle esigenze

dell’organizzazione e alle richieste espresse dai/lle lavoratori/trici,

in una prospettiva longitudinale.

• L’individuazione del target giusto ed interessato. Il “Bilancio di

Competenze” è una metodologia che richiede tempo ed impegno

personali, oltre ad un notevole costo economico, è quindi

opportuno pensare ad un intervento mirato a specifiche fette di

personale, con posizioni particolare e con desiderio di

cambiamento.

In La mia Africa (1937) Karen Blixen narra che, quando era bambina,

le raccontavano una favoletta tracciando nel contempo un disegno

che si compiva poco per volta sotto i suoi occhi, man mano che si

snodava la storia. Una notte un uomo (diceva la storia) fu svegliato da

un rumore tremendo. Uscì e andò a vedere cosa fosse successo, ma

siccome era buio, gliene capitarono di tutti i colori. Cadde in uno

stagno, inciampò, sbagliò strada, cadde per tre volte in un fosso,

tornò indietro. Alla fine, seguendo tutti i suoi passi, la penna sul foglio

lasciava il disegno di una cicogna. Ed era una cicogna che, il mattino

dopo, l’uomo scorgeva affacciandosi alla finestra.

Così è il destino delle persone: un andirivieni faticoso ed insensato,

fino a quando, alla fine, rivelerà l’immagine globale, l’immagine

coerente di tutto ciò che è stato.

49

Concludo con questa storia di Karen Blixen, perché mi dà l’immagine

di ciò che viene fatto durante il bilancio di competenze e/o la

formazione con le persone, donne e uomini: contemplare il disegno

nascosto nei tappeti delle vite personali. Vale sempre la pena di (come

scrive lei) “cadere in tutti quei fossi e di girare come una pazza

intorno allo stagno” perché alla fine si vede la sagoma netta della

cicogna. “Il destino di un altro serve sempre a spiegare qualcosa”, un

po’ ci illumina, un po’ ci mette in guardia su noi stesse.

50

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