Quaderno CEI n. 14/05 - simaversodove.org · Ore 21.15 Proiezione Documentario sulla vita di don...

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1 INDICE Indice Notiziario - Ufficio Nazionale per i Problemi Sociali e il Lavoro n. 2 - Luglio 2005 - Anno IX Quaderno n. 3 per Studenti di teologia Presentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 3 Corso per Studenti di teologia Per conoscere Don Sturzo e Don Puglisi “Il paese non crescerà se non insieme” Convento S. Giovanni Battista - Baida (Palermo) 6-9 settembre 2004 Programma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 7 “Don Luigi Sturzo - Movimento Cattolico, Politica” Prof. Francesco Malgeri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 10 “Don Luigi Sturzo, Sacerdote: Testimone della Carità pastorale nella società” S. E. Mons. Michele Pennisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 31 “Chiesa italiana e Mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà” Prof. Antonio La Spina. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 54 “Don Puglisi: la vocazione del prete e il territorio” S. E. Mons. Salvatore Di Cristina . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 78 Il prete oggi alla luce della Gaudium et Spes Prof. Giuseppe Savagnone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 89

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1 INDICE

IndiceNotiziario - Ufficio Nazionale per i Problemi Sociali e il Lavoron. 2 - Luglio 2005 - Anno IX

Quaderno n. 3 per Studenti di teologia

Presentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 3

Corso per Studenti di teologia

Per conoscere Don Sturzo e Don Puglisi“Il paese non crescerà se non insieme”

Convento S. Giovanni Battista - Baida (Palermo)6-9 settembre 2004

Programma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 7

“Don Luigi Sturzo - Movimento Cattolico, Politica”Prof. Francesco Malgeri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 10

“Don Luigi Sturzo, Sacerdote: Testimone della Carità pastorale nella società”S. E. Mons. Michele Pennisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 31

“Chiesa italiana e Mezzogiorno:sviluppo nella solidarietà”Prof. Antonio La Spina. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 54

“Don Puglisi: la vocazione del prete e il territorio”S. E. Mons. Salvatore Di Cristina . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 78

Il prete oggi alla luce della Gaudium et SpesProf. Giuseppe Savagnone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 89

2 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

3 PRESENTAZIONE

P resentazioneIn questo testo sono raccolte le relazioni tenute nel

Corso per Studenti di Teologia svoltosi dal 6 al 9 settembre2004 presso il convento S. Giovanni Battista, a Baida diPalermo, dal titolo PER CONOSCERE DON STURZO E DON

PUGLISI. IL PAESE NON CRESCERÀ SE NON INSIEME.L’esigenza del Corso per Studenti di Teologia, divenuto

ormai un tradizionale appuntamento annuale, è quella di offri-re una riflessione sul cristianesimo vissuto, attraverso le testi-monianze di figure sacerdotali che secondo i doni della propriavocazione si sono adoperati per l’evangelizzazione e l’umaniz-zazione delle realtà temporali.

L’enorme profusione di sforzi, impegni ed energie spesinella pastorale in campo sociale, indicano come la Chiesa,che vive ed opera nella storia, continua la sua missione dievangelizzazione nella società e nella cultura del propriotempo.

Ciò che ne risulta è una maggiore attenzione alla forma-zione cristiana della vita personale, culturale, sociale, econo-mica e politica:

“La catechesi sociale mira alla formazione di uomini che, ri-spettosi dell’ordine morale, siano amanti della genuina libertà, uo-mini che «con criterio personale giudichino le cose alla luce dellaverità, svolgano le proprie attività con senso di responsabilità e sisforzino di perseguire tutto ciò che è vero e giusto, collaborando vo-lentieri con gli altri». Acquista uno straordinario valore formativo latestimonianza offerta dal cristianesimo vissuto: «è la vita di santità,che risplende in tanti membri del popolo di Dio, umili e spesso na-scosti agli occhi degli uomini, a costituire la via più semplice e affa-scinante sulla quale è dato di percepire immediatamente la bellezzadella verità, la forza liberante dell’amore di Dio, il valore della fe-deltà incondizionata a tutte le esigenze della legge del Signore,anche nelle circostanze più difficili»”.1

Le pagine che seguono ci rivelano la vita di santità cherisplende nell’operato di don Sturzo e don Puglisi, a testimo-nianza di come i due sacerdoti abbiano saputo interpretare il

1 COMPENDIO DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA, n. 530.

messaggio evangelico incarnandolo nella storia, intrisa dicontraddizioni e di istanze colte e vissute alla luce della fede,nella tensione verso il fine ultimo: l’edificazione del Regno diDio.

Le relazioni del prof. Malgeri e di S. E. Mons. Penninievidenziano i tratti essenziali dell’attività pastorale di donLuigi Sturzo che vive il suo ministero sacerdotale e il suo im-pegno socio-politico a favore di una giustizia sociale, nellaconsapevolezza che è nella storia che la fede evangelica pren-de il volto della carità, regina di tutte le virtù, atto d’amoreverso il prossimo per la realizzazione del bene comune nellospirito di servizio e di dialogo con tutti gli uomini.

Segue l’intervento sociologico del prof. La Spina, chemette a fuoco, a partire da una analisi storica, problematicheproprie del Mezzogiorno legate alla religiosità popolare inrapporto con lo sviluppo, indicando alcune priorità di cui laChiesa è chiamata a farsi carico.

... “Come ogni altro prete Don Pino Puglisi sapeva chela sua vocazione era mettersi a servizio della salvezza degliuomini”...

Acquistano un significato importante per capire l’operadi don Puglisi le parole che S. E. Mons. Di Cristina ci ha ri-volto proprio nel salone della Chiesa parrocchiale di S.Gaetano al Brancaccio, lo stesso luogo dove don Pino “vissemomenti normali, diciamo feriali, del suo ministero di parro-co di borgata” in un dialogo appassionato con il territorio,luogo della concretezza e della missione.

In conclusione, la relazione del prof. Savagnone ci offrealcune considerazioni su problematiche legate al mondo d’og-gi, con l’intento di rispondere in termini pratici a quale debbaessere lo stile di sacerdozio, capace di vivere il carattere av-venturoso, rischioso e affascinante della missione.

Don Pasquale Spinoso Mons. Paolo Tarchi

4 PRESENTAZAIONE

5 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

CORSO PER STUDENTI D I TEOLOGIA

PER CONOSCERE DON STURZOE DON PUGLISI

“IL PAESE NON CRESCERÀSE NON INSIEME”

Convento S. Giovanni BattistaBaida - Palermo

6-9 settembre 2004

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P rogramma

Lunedì 6 settembreArrivo, accoglienza e sistemazione Ore 13.00 PranzoOre 15.00 Ora MediaOre 15.30 Don Luigi Sturzo, Movimento Cattolico, Politica

Prof. Francesco Malgeri, Docente di ScienzePolitiche, Università La Sapienza - Roma

Ore 18.30 VespriOre 19.00 Celebrazione Eucaristica presieduta da S. E.

Card. Salvatore De Giorgi, Arcivescovo diPalermo

Ore 20.00 Cena

Martedì 7 settembreOre 7.30 Ufficio delle letture e LodiOre 9.00 Don Luigi Sturzo, sacerdote

S. E. Mons. Michele Pennisi, Vescovo di PiazzaArmerina

Ore 12.30 Ora MediaOre 13.00 PranzoOre 15.00 Chiesa italiana e Mezzogiorno:

sviluppo nella solidarietàProf. Antonio La Spina, Ordinario di SociologiaUniversità di Palermo

Ore 18.30 VespriOre 19.00 Celebrazione Eucaristica presieduta da S. E.

Card. Salvatore Pappalardo, Arcivescovo Emeritodi Palermo

Ore 20.00 CenaOre 21.15 Proiezione Documentario sulla vita di don Pino

Puglisi

Mercoledì 8 settembreOre 7.30 Ufficio delle letture e LodiOre 9.00 Partenza per la Parrocchia San Gaetano

(quartiere Brancaccio) PalermoDon Puglisi: la vocazione del prete e il territorioS. E. Mons. Salvatore Di Cristina, VescovoAusiliare di Palermo

Ore 12.00 Ora Media e Celebrazione EucaristicaOre 13.30 Pranzo a PalermoOre 15.00 Visita guidata alla cittàOre 19.30 Cena a MonrealeOre 21.00 Visita guidata al Duomo di Monreale

con Mons. Crispino Valenziano, Ordinario diLiturgia Pontificio Ateneo S. Anselmo - Roma

Giovedì 9 settembreOre 7.30 Ufficio delle letture e LodiOre 9.00 Il prete oggi alla luce della Gaudium et Spes

Prof. Giuseppe Savagnone, Docente Storia eFilosofia - Palermo

Ore 12.00 Ora Media Celebrazione Eucaristica presieduta da S. E.Mons. Cataldo Naro, Arcivescovo di Monreale

Ore 13.00 Pranzo, saluti e partenze

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• BARBISAN Paolo• BASSO Diego• BEGHINI don Renzo• BELVITO Mimmo• CAMPO Ivan• CUCINOTTA Francesco• DA COSTA Wenderson Luiz• D’ANNA Alfredo• DE FELICE Donato• DE GIORGI S. E. Card. Salvatore• DE LUCA Lino• DELLA VENTURA Michele• DI CRISTINA

S. E. Mons. Salvatore• DIBELLO Luca• ELICE Roberto• FALCONE Gianmarco• FORMOLA Arturo• FRINCHI Adriano• FUMAGALLI Giuseppe• GALLUCCI don Pasquale• GIRARDI Andrea• GOLESANO don Mario• GRANATO Giovanni• GRASSINI Enrico• LA SPINA prof. Antonio• LANFRANCHI Simone• LAVORE Nunzio• MAGGIO Filippo• MAGRO Giacinto• MALGERI prof. Francesco• MILIA Luca• MONGE Matteo

• NARO S. E. Mons. Cataldo• NESCHISI Daniele• NUGNES Armando• PACE Michele• PAGLIARIN Silvano• PAPPALARDO

S. E. Card. Salvatore• PAPPALARDO Gaetano• PENNISI

S. E. Mons. Michele• PETRUZZI Michele• PINI Matteo• PIVATO Giancarlo• PURCARO Salvatore• RAMARO Cristian• RANDELLO Fabio• ROSSI Filippo• SANTORO Francesco• SARTORE Silvio• SAVAGNONE

Prof. Giuseppe• SCALZO Pietro• SIANI Orazio• SPAVIERO Paolo• SPINOSO don Pasquale• TARCHI Mons. Paolo• TEZZA Cristiano• TRIZZINO Davide• VALENZIANO

Mons. Crispino• VITALI Marco• ZANELLO Andrea

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D on Luigi SturzoMovimento cattolico, politicaProf. FRANCESCO MALGERIDocente di Scienze Politiche, Università La Sapienza - Roma

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Luigi Sturzo nacque il 26novembre 1871 a Caltagirone,da una famiglia di piccolaaristocrazia di campagna.Una famiglia nella qualeemerge in particolare la fi-gura della madre, donna ec-cezionale, autodidatta con unaprofonda carica religiosa cheaveva trasmesso anche ai figli; oltre a Mario,futuro Vescovo di Piazza Armerina, e a Luigi, che abbraccia-rono il sacerdozio, una sorella, Remigia, sarà suora. Comples-sivamente erano sei i fratelli Sturzo, Luigi era nato assieme aduna sorella gemella Emanuela, Nelina, come veniva chiamatain famiglia.

La vocazione religiosa di Luigi Sturzo, matura in questoambiente familiare e lo porta dapprima nel Seminario di Aci-reale poi nel Seminario di Noto e dal 1888 nel Seminario diCaltagirone. Nella prima fase della sua esperienza di studiosembra prevalere in lui unapassione soprattutto di caratte-re umanistico, cioè un’attenzio-ne agli studi filosofici, alla poe-sia, alla musica e lui stesso inalcune note autobiografiche ebbe ad affermare “il mondoesterno mi era indifferente ed ignoto”. I suoi orientamenti po-litici, nella prima fase della sua vita e dei suoi studi sono an-cora orientati su posizioni tipiche dell’intransigentismo catto-lico post-unitario. Sturzo era nato l’anno successivo alla con-quista di Roma da parte dello Stato Sabaudo.

Sono note le conseguenze di questo evento nei rapportitra lo Stato e la Chiesa, e nel ruolo dei cattolici nel nuovoStato nazionale. Si tratta di una frattura che durerà a lungo,anche se col passare degli anni via via si stempera, pur re-stando un nodo cruciale e un elemento negativo nella costru-zione del nuovo Stato nazionale italiano. Sturzo nella primafase si muove, quindi, sull’onda di quel cattolicesimo che ma-nifestava una piena fedeltà al Pontefice ed altrettanta diffi-denza nei confronti dello Stato liberale, a causa della sua le-gislazione laicista, e di atteggiamenti che ferivano notevol-mente la Chiesa e il mondo cattolico.

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Vocazione religiosaStudi

Orientamenti politicie sociali

Il mutamento degli orientamenti sociali e politici diSturzo in questi anni, si accompagna ad alcune novità che ca-ratterizzano alla fine dell’Ottocento anche il mondo cattolico.In particolare l’emergere delle nuove generazioni di cattolici,che vivono la loro presenza nel nuovo stato liberale anchecon l’attenzione a quelli che erano i problemi urgenti che an-davano affrontati e risolti. Uno dei problemi riguardava laquestione sociale, che cominciava ad essere una questione di-battuta all’interno del mondo cattolico, grazie anche all’Enci-

clica di Leone XIII la RerumNovarum del 1891. Sturzo defi-nisce questo documento di

Leone XIII, come la sua “prima finestra sul mondo”.L’enciclica affrontava i problemi che stavano emergendo a se-guito del processo di industrializzazione capitalistica che in-vestì non solo l’Italia, ma tutto il mondo, e di riflesso il pro-blema della condizione operaia che appariva molto dura, pe-sante e umiliante.

Questa enciclica apriva alle nuove generazioni di catto-lici, in Italia e nel mondo, nuovi campi di azione e sull’ondadi questa enciclica comincia a prendere corpo un movimentoche si sviluppa un po’ in tutte le regioni italiane e che hacome maggiore punto di riferimento nella sua fase iniziale unsacerdote marchigiano Don Romolo Murri. Mi riferisco al mo-vimento della prima Democrazia Cristiana. Sturzo assorbì

questi fermenti e queste istanzeche emergono in seno al cattoli-cesimo italiano frequentando, apartire dal 1894, dopo essere

stato ordinato sacerdote, l’Università Gregoriana a Roma eentrando in contatto con la vivace realtà della Roma di queglianni. Una realtà che gli apre nuovi orizzonti; una realtà in cuisi muovono anche personaggi di grande rilievo nella vita dellaChiesa. In quegli anni a Roma, all’interno di questi fermenti,troviamo personaggi come Angelo Giuseppe Roncalli, il futu-ro Giovanni XXIII, allora segretario del Vescovo di BergamoMons. Radini Tedeschi, o come Giuseppe Toniolo, il teoricodel pensiero democratico cristiano, o come Romolo Murri chene era il maggiore organizzatore.

Sturzo venne a contato con questi uomini e venne a con-tatto anche con una realtà di miseria e di sottosviluppo che sisvelò a lui nella Pasqua del 1895, quando andò a benedire le

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La questione sociale

L’interesse verso leproblematiche sociali

case di un quartiere popolare romano rimanendone profonda-mente colpito. Lui stesso racconta questo episodio in alcunesue pagine autobiografiche. Cominciò ad interessarsi dei pro-blemi sociali, seguì le conferenze di Toniolo, si informò suiproblemi esistenti e sui modi per affrontarli e risolverli.Quando tornò in Sicilia si posein prima linea nell’organizzazio-ne del Movimento Cattolico sici-liano, fondando anche un gior-nale “La croce di Costantino” che pubblicò a Caltagirone e chefu espressione del Movimento Democratico Cristiano siciliano.Entrò in contatto anche con altri ambienti cattolici, sia italianiche siciliani. La sua adesione al Movimento DemocraticoCristiano va letta come una risposta all’esigenza di uno stru-mento di azione pratica a favore delle popolazioni siciliane,soprattutto i contadini e gli artigiani, e anche come strumentodi formazione di una coscienza sociale e civile dei Cattolici,che a suo avviso ancora mancava. Comincia quindi questa suaazione tendente ad organizzare i contadini, a fronteggiare losfruttamento dei gabellotti, a ricercare i mezzi, attraverso coo-perative, casse rurali, società di mutuo soccorso, per sostene-re l’attività sia del mondo contadino che dell’artigianato.

Assieme ad altri Cattolici siciliani, quali Vincenzo Man-gano, Ignazio Torregrossa, Giuseppe Lo Cascio ed altri, svol-ge un opera di organizzazione, che potremmo dire opera di re-sistenza, dando vita ad un movimento che aveva come ob-biettivo anche la crescita civile, economica e politica delMezzogiorno, un Mezzogiorno che a suo avviso era condizio-nato da un centralismo, da parte dello Stato, che mortificavala vita economica e amministrativa locale. Sono questi glianni in cui, attraverso i Prefetti e attraverso uno stretto con-trollo della vita politica e amministrativa, lo Stato controllavae condizionava la vita meridionale. Nasce anche dall’analisidi questa realtà e di questi problemi la battaglia di Sturzo afavore della libertà delle autonomie locali, dal Comune allaRegione.

Per la prima volta nellastoria del pensiero politico ita-liano, soprattutto all’interno delcattolicesimo politico, questaidea delle Regioni come enteautonomo che aveva la funzione di autogoverno e di autono-

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Adesione al MovimentoDemocratico cristiano

Decentramentoamministrativo

e federalizzazionedelle Regioni

mia dal peso e dai condizionamenti del centralismo delloStato, trova in Sturzo un punto fermo di grande significato. Inun suo articolo del 1901 ebbe a scrivere che il rimedio anda-va ricercato in “un sobrio decentramento regionale ammini-strativo e una federalizzazione delle varie Regioni, che lasciintatto il regime. Non voglio essere frainteso – aggiungeva –perché la poca saldezza di fede nei principi liberali, sui qualisi è voluta poggiare l’unità della Patria, è la causa di un timorpanico e geloso che invade i nostri uomini quando si parla didecentramento e di federalizzazione regionale e che li ha co-stretti a sancire quell’uniformità, che dovea servire a toglierele cuciture (è la parola del Crispi) delle varie Regioni d’Italia,e dovea dare la spinta a quell’accentramento di Stato, che èla rovina delle Nazioni moderne”.

In quegli anni Sturzo vive anche la crisi del movimentodella prima Democrazia Cristiana: una crisi che è legata permolti aspetti al mutamento del pontificato, con la morte di LeoneXIII nel 1903 e l’avvento di Pio X. La crisi produce uno sban-damento. Uomini come Romolo Murri, che rivendicava l’auto-nomia del Movimento Cattolico, ruppero con la Chiesa e venne-ro anche colpiti da sanzioni disciplinari da parte della gerarchiaecclesiastica. Sturzo vive questo dramma intuendo però l’esi-genza di evitare le fratture e gli scontri, per preparare una nuovafase in grado di portare i Cattolici ad una scelta politica autono-ma, con un proprio programma e un proprio orientamento.

Questa nuova prospettiva,Sturzo, la espone in un discorsotenuto a Caltagirone il 24 dicem-bre del 1905. In esso emerge l’i-

dea di inserire i Cattolici nel terreno comune della vita nazio-nale alla pari degli altri partiti. Gabriele De Rosa ha definitoquesto discorso la “Magna Carta” del futuro Partito Popolare.In questo discorso sono già indicati i caratteri che dovevano ca-ratterizzare la nuova forza politica dei Cattolici. In primo luogol’idea di un partito che non doveva essere depositario della re-ligione ma espressione di un pensiero proprio, che attingeva aivalori del cristianesimo e si muoveva sul terreno della laicità.

La distinzione tra fede e politica è certamente per queitempi un fatto nuovo e originale che Sturzo individua con gran-de attenzione. Nello stesso discorso c’è la rivendicazione di unaadesione piena e indiscutibile alla democrazia. C’è poi l’ade-sione all’unità nazionale: Sturzo non dimentica i limiti e i costi

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Magna Carta del futuroPartito Popolare

che l’unificazione nazionale aveva comportato per la Chiesa eper i Cattolici. Tuttavia riteneva che bisognava lasciare allespalle le antiche recriminazioni e aderire all’idea dello Statonazionale unitario. L’obbiettivo era di preparare il partito e for-mare una coscienza politica nazionale dei Cattolici.

Ma non tutti i Cattolici, in quegli anni, aderivano alleidee di Sturzo. Pesavano molto gli atteggiamenti e gli orienta-menti dei cosiddetti clerico-moderati, orientati a sostenere laclasse dirigente liberal-moderata, soprattutto nel timore diun’avanzata del socialismo. Questa linea per Sturzo era ri-schiosa, perché faceva perdere ai Cattolici proprio la loro au-tonomia e la loro funzione in seno alla vita politica nazionale.

L’obbiettivo del partito sulla base del progetto di Sturzomatura, com’è noto, all’indomani della prima guerra mondia-le. Una guerra che aveva avutopesanti conseguenze in Italia enel mondo. Basti pensare cheantiche dinastie come quelladegli Hoenzollern in Germania, degli Asburgo in Austria, deiRomanoff in Russia vennero travolte, spazzate via. Si delineauna realtà certamente diversa da quella dell’800. Comincia larealtà che vede l’ingresso delle masse nella vita politica deiPaesi europei. In questo nuovo quadro l’Italia vive le difficoltàdi un dopo guerra carico di asprezze e carico di tensioni, oltreche di problemi economici. In questo clima Sturzo, assieme aimaggiori esponenti del movimento politico, amministrativo esociale del cattolicesimo italiano, dà vita, il 18 gennaio 1919,al Partito Popolare Italiano. Il partito nasce con un appello edun programma che evidenziavano soprattutto l’immagine diun partito democratico e riformista, nel quale si coglie un ri-chiamo anche alla tradizione della prima DemocraziaCristiana. Si tratta di un partito che guarda alla realtà di unPaese che è uscito dalla guerra e che ha bisogno di riformenelle sue strutture istituzionali e amministrative. Da qui laproposta del decentramento regionale, di una riforma ammini-strativa e di una riforma agraria che eliminasse il latifondo,soprattutto nel Mezzogiorno, favorendo lo sviluppo della pic-cola proprietà contadina.

In politica estera troviamol’adesione al pacifismo di Bene-detto XV, il Papa che durante laprima guerra mondiale aveva

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Nascita del Partitopopolare italiano

Popolarismo: formazionee inculturazione

di un pensiero politico

più volte invocato la pace e aveva, nel 1917, definito la guer-ra una “inutile strage”. Questa linea si ispira anche alla ricer-ca di strumenti che a livello internazionale potessero favorireuna pacificazione nella comunità internazionale. Il PartitoPopolare è uno dei partiti che guarda con attenzione allaSocietà delle Nazioni, a questa organizzazione internaziona-le che aveva il compito di risolvere le controversie non attra-verso i conflitti militari ma attraverso mediazioni e attraversol’incontro fra i popoli anziché le guerre. Tutto questo com-plesso di istanze, valori e programmi Sturzo lo volle definirecon il termine “popolarismo”, individuando in questo termineuna cultura, un pensiero politico, che doveva penetrare al-l’interno della società italiana.

Sturzo affermava che “una corrente politica non siimpone solo con le opere [...] ma con la formazione di unpensiero che diviene convinzione, che genera la discussio-ne, che occupa il campo della cultura, che supera le barrie-re dell’Università e che crea una propria letteratura.Nè questa è una concezione borghese o intellettuale dellapolitica, è realismo della vita che si attua sempre su piùlarga scala, quanto più vasti sono i fenomeni di rivolgi-mento politico e quanto più vasta è la massa operantemossa da un’idea”.

L’idea del partito a-con-fessionale è l’altro elementoche caratterizza il Partito Popo-lare; Sturzo lo aveva già indica-

to nel ricordato discorso di Caltagirone del 1905. In questasua indicazione, Sturzo, si scontra con gruppi e personalitàdel mondo Cattolico che non condividevano questo orienta-mento, questa distinzione tra l’impegno politico e l’impegnoreligioso. Uno dei contrasti maggiori lo ebbe con padreGemelli, il fondatore dell’Università Cattolica di Milano, chesosteneva l’esigenza di non distinguere anzi di tenere unitoil mondo cattolico in una prospettiva che potremmo definirepolitico religiosa, dando al partito una sua fisionomia orien-tata soprattutto nella difesa, facendone soprattutto una sortadi strumento della Chiesa all’interno della vita politica na-zionale. Lo scontro tra Sturzo e Gemelli al congresso diBologna del Partito Popolare Italiano, nel giugno 1919, fumolto duro e pesante tanto che Sturzo minacciò ad un certopunto di abbandonare l’impresa se non si voleva riconoscere

16 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Distinzionetra impegno politico e impegno religioso

al partito la prospettiva a-confessionale che lui proponeva.Una prospettiva che Sturzo ha più volte cercato di spiegarenel senso che a suo avviso un partito doveva essere espres-sione di un pensiero, di un programma, di proposte che di persé erano legate appunto ad una visione laica, tecnica della po-litica. Non si poteva imporre ad un Cattolico – diceva Sturzo– di essere a favore del libero mercato se invece era favorevo-le ad una politica protezionistica, non si può imporre ad unCattolico di essere monarchico, se invece preferiva laRepubblica, perché si trattava di indicazioni e soluzioni cheandavano aldilà della fede. Altrimenti si rischiava di coinvol-gere la fede su aspetti opinabili, provocando fratture in senoalla comunità ecclesiale. Per questo motivo non volle neancheche il titolo del partito contenesse gli aggettivi “cattolico” o“cristiano”.

Emerge, quindi, l’idea dipartito che doveva dare una co-scienza democratica ad unamassa di cittadini che in qual-che modo era stata esclusa dalla vita politica, a cominciare daquel mondo di piccoli artigiani, piccoli coltivatori, contadiniche la politica protezionistica e industrialistica dei governi li-berali e dei governi giolittiani, in particolare, aveva emargi-nato nel contesto del processo di sviluppo economico. Altroaspetto caratterizzante del Partito Popolare fu la sua organiz-zazione, molto moderna, basata su quadri periferici e su uncentro direttivo che in qualche modo evidenzia la fisionomiadi un partito moderno, non più un partito secondo la fisiono-mia della tradizione liberale basato sulla figura dei notabilipolitici, attorno a cui si raccoglievano gli elettori, senza avereuna presenza capillare all’interno della società. Il PartitoPopolare Italiano fu invece un moderno partito di massa.

Nel 1919 il Partito Popolare Italiano si presentò per laprima volta al giudizio degli elettori, conseguendo 100 seggi edivenendo il secondo partito alla Camera dei Deputati, dopoil Partito Socialista. Queste elezioni evidenziano anche il crol-lo delle vecchie forze liberali. Il Partito Popolare Italiano è,tuttavia, anche un partito d’ordine, nel senso che è un partitodisposto a collaborare al governo del Paese, anche in relazio-ne alla sua forza numerica. Partecipa, infatti, ai governi che sisusseguono nel secondo dopo guerra, dapprima con Nitti, poiGiolitti, Bonomi e con Facta, fino al crollo dello Stato libera-

17 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Organizzazionedel Partito Popolare

le. In questi anni emerge il contrasto tra Sturzo e Giolitti, ilquale, intendeva governare secondo la vecchia prassi, la vec-chia tradizione dell’uomo politico liberale, che vedeva con fa-stidio questo prete, segretario politico di un partito, che im-poneva lui come fare i governi o come o quali dovevano esse-re i punti del programma da inserire. Giolitti definì Sturzo“piccolo prete intrigante”.

Sono questi anche gli anni in cui emerge il fenomeno delFascismo, soprattutto a partire dal 1921, emerge la violenza fa-

scista e l’incapacità dello Statonel fronteggiarla. Il Fascismo e ilPopolarismo si trovano impe-

gnati sui due fronti contrapposti avendo una particolare atten-zione per le stesse classi sociali. Il mondo della piccola e mediaborghesia, il mondo delle professioni, il mondo contadino sonooggetto di una attenzione reciproca ma con diversi obiettivi. IlPartito Popolare voleva essere uno strumento di educazionealla democrazia, alla partecipazione all’impegno civile, mentreil Fascismo si rivolgeva alle stesse classi sociali cercando di sti-molarle attorno al problema dell’ordine e della lotta contro ilSocialismo. Il Fascismo cerca anche il sostegno della Chiesa.Mussolini in questa circostanza dimentica tutto il suo passatoanticlericale e si muove nei confronti della Chiesa mostrandorispetto e mostrandosi disponibile a tutelarne gli interessi acondizione che venisse limitato il ruolo dei Cattolici nella vitapolitica. Attorno a questi problemi si consuma un po’ la crisidel Partito Popolare che partecipa da prima al primo governoMussolini nel 1922, ma dopo il congresso di Torino dell’apriledel 1923, in cui Sturzo rivendica il ruolo politico del suo parti-to e la distinzione nella concezione dello Stato tra Popolarismoe Fascismo, i popolari vengono estromessi dal governo.

Comincia una fase moltodifficile per il Partito Popolaree per lo stesso Sturzo che è co-stretto dapprima a dimettersi

da segretario del partito e poi a rifugiarsi in esilio. Siamo difronte ad una situazione molto complessa e difficile anchenei rapporti tra Sturzo e la Santa Sede. Non mancano gli in-viti da parte delle gerarchie ecclesiastiche e dei vertici dellaSanta Sede per spingere Sturzo ad abbandonare la politicae trasferirsi all’estero. La lettera che Sturzo scrive a Pio XI,il 7 luglio del 1923, è significativa: una lunga lettera in cui

18 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Fascismo e Popolarismo

I difficili rapporti con la Santa Sede

Sturzo cerca di sottolineare gli effetti negativi di una suaeventuale e precipitosa ritirata, senza la possibilità di unachiara e onesta giustificazione. Secondo Sturzo non solo gliavversari politici ma anche chi era amico del PartitoPopolare avrebbe attribuito il suo ritiro, proprio alla vigiliadi importanti decisioni parlamentari (era in discussione lariforma elettorale nota come “legge Acerbo” promossa daMussolini), ad un intervento della Santa Sede, provocandotre dannose conseguenze: la prima che verrebbe accredita-ta l’opinione che la Santa Sede interviene negli affari poli-tici italiani, sia pure con un atto di disciplina ecclesiastica,ma in circostanza, “prettamente politica e parlamentare everso chi per venticinque anni ha fatto quasi esclusivamen-te azione politica e sociale e per quasi cinque anni ha di-retto un partito politico”; la seconda che verrebbe minoratala libertà politica dei cattolici a formare un partito politicoautonomo in confronto ad altri cittadini che militano inaltri partiti. Come terzo punto Sturzo affermava che ilPartito Popolare Italiano, aspramente combattuto e prova-to in tutti i sensi verrebbe ad essere scompaginato e ridot-to ad un puro organismo elettorale alla mercè di qualsiasigoverno. Nella stessa lettera Sturzo sottolineava che in quelmomento politico era necessario che egli restasse alla guidadel suo partito: “non posso né debbo attribuire alla mia per-sona il merito di tenere stretta la compagine popolare inmomenti difficili; però non posso dissimulare che in un pe-riodo nel quale ogni ausilio umano ed aiuto economicosono mancati, quando sono state sciolte centinaia e centi-naia di amministrazioni pubbliche popolari, quando leleghe sindacali sono state sciolte o rese impotenti o co-strette a passare al fascismo; e circoli e cooperative deva-state, e persone innumerevoli o messe al bando o bastona-te e martoriate, e persino uccise; la possibilità di una dife-sa politica della libertà e delle leggi umane e civili ha tenu-to i nostri uomini e il nostro organismo ancora in piedi, e ilmio povero nome è servito a creare fiducia e forza al parti-to, anche presso popolazioni che vivono nel regime del ter-rore. Ecco perché io credo che il mio repentino ritiro oggipuò danneggiare quel partito che si ispira veramente aiprincipi cristiani nel vivere civile e che nella mancanza diqualsiasi carattere e virilità oggi serve a limitare, nella co-scienza pubblica, l’arbitrio della dittatura”.

19 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Si tratta di una letteramolto forte che tuttavia nonebbe un esito positivo. Sturzofu costretto a dimettersi da se-

gretario del Partito Popolare e dopo qualche mese partì perun lungo esilio, mentre il suo partito viveva quell’agonia chevissero tutti gli altri partiti non fascisti nella nuova realtà chestava emergendo. Comincia una fase nuova nella vita diSturzo, una fase che evidenza un personaggio che si pone alcentro della cultura democratica europea nella seconda metàdegli anni venti e negli anni trenta.

Come sappiamo sono glianni in cui emergono i totalitari-smi in vari paesi europei e sono

gli anni che preparano poi la tragedia della seconda guerramondiale. Il nome di Sturzo è presente sui giornali di mezzaEuropa. Le sue battaglie sono dirette proprio contro l’emerge-re di questi totalitarismi in Europa, in difesa dei valori demo-cratici denunciando anche le collusioni che il mondo cattolicoaveva con alcuni regimi totalitari in Italia, in Germania, inSpagna. Attiva collaborazione ebbe anche con le altre compo-nenti del Movimento antifascista in esilio, in genere espres-sioni di pensiero politico-laico con il quale Sturzo deve inqualche modo confrontarsi ed anche polemizzare.

Visse in Inghilterra, a Londra, dal 1924 al 1940, trasfe-rendosi poi negli Stati Uniti.

Riprese i rapporti con l’Italia a partire dal 1943, cercan-do di dare dei consigli e offrire indicazioni anche nella costru-zione del nuovo Partito dei Cattolici Italiani. Ma il suo ruolo,soprattutto negli ultimi anni della guerra, è legato al tentativoanche di evitare all’Italia pesanti condizioni di pace. I suoi rap-porti con il Dipartimento di Stato negli Stati Uniti, i suoi rap-porti con ambienti politici americani sono indirizzati soprattut-to alla difesa degli interessi italiani; difesa molto difficile perchéagli occhi degli Stati Uniti, e ancor più agli occhi di Paesi comela Gran Bretagna, l’Italia era un Paese sconfitto che doveva su-bire le conseguenze di questa sconfitta; era un Paese in qual-che modo giudicato anche responsabile della guerra, per l’al-leanza tra Mussolini e Hitler e da qui una battaglia molto in-tensa, vivace e molto sofferta da parte di Sturzo. Di fronte allanuova realtà politica italiana e alla Democrazia Cristiana di DeGasperi, Sturzo assume soprattutto il ruolo di consigliere, il

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Gli anni dell’esilio

Dimissioni da segretariodel Partito

ruolo di colui che poteva dare indicazioni ai suoi vecchi amiciin merito alle scelte da fare. Questo ruolo nuovo e diverso saràil ruolo che Sturzo assunse anche dopo il ritorno in Patria nelsettembre del 1946.

Dal 1946 al 1959, annodella sua morte, Sturzo nonmancò di denunciare, con forza,quegli aspetti della vita politicaitaliana che erano, a suo avviso, negativi e che bisognava cor-reggere. In particolare prese posizione contro l’eccessiva in-gerenza dello Stato nella vita economica del paese, contro l’e-mergere di un mal costume e di una scarsa attenzione mora-le della gestione della vita pubblica. Di fronte alla nascita digrandi enti pubblici che operano nella vita economica nazio-nale ribadisce la sua visione del ruolo dello Stato che, secon-do il suo pensiero, aveva essenzialmente il compito di ordinee di difesa; lo Stato doveva tutelare e coordinare l’esigenzadei vari organismi sociali senza divenirne parte attiva. Si èparlato di uno Sturzo liberista; certamente Sturzo ha un’at-tenzione al ruolo del mercato e al ruolo della libera economiaanche se non va confuso con l’adesione ad un liberismo indi-vidualista. Ci sono alcune precisazioni da parte di Sturzodove questa distinzione è abbastanza chiara. Le sue battaglieper la moralizzazione della vita pubblica, andandole a rileg-gere oggi, possono apparire quasi profetiche, perché sembra-no già delineare i rischi a cui il Paese andava incontro.

In questi anni furono pochia cogliere questa sua ansia, que-sta sua preoccupazione sui malidella vita pubblica italiana e lepolemiche nei suoi confronti vennero da vari settori: vennerodall’interno della stessa Democrazia Cristiana che non gradivaquesti giudizi, e vennero anche dalle forze della sinistra, difronte alle quali Sturzo non mancava di denunciare i pericoli diun processo che avrebbe potuto portare ad una soluzione ditipo socialista. Questa sua azione in difesa di un corretto me-todo di vita democratica, i suoi richiami – che spesso risultanomolto chiari ed evidenti rispetto a violazioni di una correttaprassi istituzionale anche nei confronti del ruolo del Presidentedella Repubblica – sono vissuti dalla classe politica italiana confastidio. Non è gradito questo predicatore solitario, questasorta di predicatore di sventura. Sturzo, in questi ultimi anni,

21 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Difesadi un corretto metodo

di vita democratica

Visionedel ruolo dello Stato

fece forse fatica a cogliere tutti i risvolti di un processo chestava modificando radicalmente la realtà sociale ed economi-ca del nostro Paese e certamente la sua polemica non tenevaconto anche di alcuni successi che la stessa linea di interven-to dello Stato aveva conseguito, favorendo uno sviluppo eco-nomico del Paese mai prima conosciuto. Ma certamente,anche se si possono cogliere questi limiti, è indubbio che egliintuì lucidamente i rischi connessi al diffondersi di comporta-menti non corretti, di comportamenti viziati da forme di mal-costume e di corruzione.

In questa mia conversazio-ne non ho affrontato un aspettofondamentale della personalitàdi Sturzo, vale a dire la sua figu-

ra di prete con una fede profondissima, sulla quale interverràS. E. Mons. Pennisi. Da parte mia voglio solo accennare unaspetto della figura sacerdotale di Sturzo, e cioè l’obbedienza.Abbiamo accennato alla sua lettera al Papa del 1923, nellaquale sottolinea le sue ragioni, senza tentennamenti anzi conforza. Tuttavia, di fronte agli inviti che provengono dalle gerar-chie ecclesiastiche ubbidisce. Ubbidirà anche in altre occasio-ni, anche in occasione del ritorno in patria dall’esilio america-no. Nell’ottobre del 1945 Sturzo aveva già pronto i bagagli edil biglietto del piroscafo ma venne un invito da Mons. Cicogna-ni, Nunzio Apostolico a Washington, perché restasse ancoranegli Stati Uniti, temendo che il suo ritorno potesse turbare lavita politica e l’orientamento dei Cattolici italiani. Sturzo appa-re ubbidiente anche della cosiddetta “Operazione Sturzo” inoccasione delle elezioni amministrative romane del 1952,quando verrà invitato a dar vita ad una lista civica che dovevaraccogliere varie componenti politiche, compresa la destra, su-scitando in De Gasperi molte preoccupazioni.

Siamo, insomma, di fronte ad un personaggio di rilievo,un personaggio che ha lasciato un segno profondo nella sto-ria, nella cultura, nella politica italiana, europea ed interna-zionale del Novecento.

Dibatt i toDomanda:

Quali sono gli elementi più significativi della conce-zione a-confensionale del partito da parte di Sturzo? Qualepotrebbe essere oggi il suo giudizio di fronte alla nostra at-

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Don Sturzouomo obbediente

tuale realtà politica? Quale la differenza tra Partito Popo-lare di Sturzo e la Democrazia Cristiana rispetto alla vi-sione a-confessionale del partito?

Prof. Francesco MalgeriNel suo discorso al congresso di Bologna nel 1919,

Sturzo disse: “È superfluo dire perché non ci siamo chiamatipartito cattolico: i due termini sono antitetici: cattolicesimo èreligione, è universalità; il partito è politica è divisione. Findall’inizio abbiamo escluso che la nostra insegna politicafosse la religione ed abbiamo voluto chiaramente metterci sulterreno specifico di un partito che ha per oggetto diretto lavita pubblica della Nazione. Non possiamo trasformarci dapartito politico in ordinamento di Chiesa, né possiamo essereemanazione e dipendenza di or-ganismi ecclesiastici, né possia-mo avvalorare della forza dellaChiesa la nostra azione politica,sia in Parlamento che fuori del Parlamento, nelle organizza-zioni e nella tattica del partito, nelle diverse attività e nelleforti battaglie, che solo in nome nostro possiamo e dobbiamocombattere, sul medesimo terreno degli altri partiti con noi incontrasto. Oggi era maturo un atto, che, senza costituire unaribellione forse invece l’affermazione, nel campo politico dellaconquista della propria personalità, e potesse chiamare a rac-colta quanti, senza nulla attenuare delle proprie convinzionireligiose da un lato, e senza menomazioni esterne nell’eserci-zio della vita civile e politica dell’altro, potessero convenire inun programma e in un pensiero politico non di semplice dife-sa ma di costruzione, non solo negativo ma positivo, non re-ligioso ma sociale”.

Questa linea, come ho ricordato, incontrò la resistenza diPadre Gemelli il quale sosteneva invece l’idea di una “rivolu-zione pacifica di Cristo”, sostenendo che l’Italia ha una solavia di salvezza: Il “ritorno a Cristo trasformatore vero della no-stra vita nazionale”. “Che importa – disse padre Gemelli –delle forme politiche di governo? La politica non può esseresenza morale, e questa importa istaurare nel popolo”.

Replicò Sturzo: “Non ab-biamo presa come insegna lareligione perché noi crediamoche della religione tutti gli isti-

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Distinzionetra partito e cattolicesimo

Distinzionetra vita religiosa

e impegno politico

tuti pubblici siano pervasi, come crediamo che tutta la vitapassata sia imbevuta dal suo spirito e dalla sua forza evange-lica, dopo che il mondo da pagano si è trasformato in cristia-no. Ma non è il caso di creare un equivoco politico al paese edare l’impressione che si voglia ripetere qui non una organiz-zazione perfettamente politica ma una seconda faccia dell’a-zione cattolica”. Questi sono i punti fermi di Sturzo.

Cosa direbbe oggi? Si tratta di una curiosità che può es-sere condivisa; è una curiosità che può essere certamente con-divisa ma risulta anche molto difficile rispondere a questo in-terrogativo. Certamente non era nella prospettiva e nella vi-sione di Sturzo una visione di carattere fondamentalista. Anziproprio le parole che abbiamo ascoltato escludono qualsiasiipotesi di utilizzare la fede sul piano politico. Cosa direbbe difronte al Partito Popolare Europeo? Anche qui possiamo rifar-ci a quanto diceva nei confronti dei partiti cristiani che neglianni ’30 guardavano con una certa attenzione al Fascismo ita-liano, al Nazismo di Hitler o all’Action française in Francia. Lesue denuncie rispetto a questi cattolici che erano deboli nelleloro posizioni politiche e democratiche e si orientavano so-prattutto spinti dal timore dell’affermazione di altre forze poli-tiche ostili alla Chiesa, si piegavano al compromesso con mo-vimenti di tipo conservatore o autoritario Furono molto nette,lucide e intransigenti. Anche, in occasione della guerra civilespagnola quando ad essere colpiti erano i sacerdoti le suore ela Chiesa spagnola nel suo insieme, Sturzo cercò di mettere inguarda i Cattolici dall’adesione al franchismo, che aveva sca-tenato la guerra civile per abbattere uno Stato, la Repubblicaspagnola, che era stata eletta liberamente dai cittadini. Tuttoquesto può farci intuire cosa Sturzo potrebbe dire oggi, ma ècomunque arbitrario mettergli in bocca affermazioni sullarealtà contemporanea, in quanto i tempi sono diversi e moltolontani dai problemi che lui ha affrontato.

La continuità della Demo-crazia Cristiana rispetto al parti-to popolare è un problema diparticolare interesse e rilievo.

Sturzo dall’esilio americano scriveva ai democratici cristianiche stavano fondando il partito rivendicando l’idea della laicitàe della a-confessionalità. Ma è diverso il quadro politico e ilcontesto in cui nacquero i due partiti. Era lontana da Sturzo l’i-dea del partito unico dei cattolici. Il Partito Popolare non nasce

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Partito Popolaree Democrazia Cristiana

come partito unico dei Cattolici, nasce come un partito che, purispirandosi ai valori cristiani, aveva un suo programma, unasua fisionomia ed era aperto all’adesione dei cattolici e dei noncattolici che si riconoscessero su quella linea politica. DeGasperi si trova in una situazione diversa rispetto a Sturzo. DeGasperi deve fronteggiare una realtà politica e un quadro poli-tico che, in quel momento, impone al mondo cattolico l’esigen-za di contrapporsi a quelle forze politiche, in particolare la si-nistra social-comunista, che mettevano a rischio la realizzazio-ne di un modello di stato democratico parlamentare. L’idea delpartito unico dei cattolici è il risultato di quella esigenza peravere in mano un partito in grado di proporsi come forza di go-verno e di gestire la nascita della Repubblica e l’avvio della vitademocratica del paese. Questo non significa che De Gasperinon condividesse l’idea sturziana della laicità del partito. Anzi,in De Gasperi questa idea era presente fin dai tempi in cui nelTrentino era stato deputato del Parlamento di Vienna, era statoesponente del Partito Popolare trentino durante il periodo incui il Trentino era soggetto all’Austria. In De Gasperi è benchiara la distinzione tra vita religiosa e impegno politico. Nona caso conobbe anche momenti difficili nei suoi rapporti con lagerarchia ecclesiastica, che intendeva far pesare e condiziona-re le scelte politiche della Democrazia Cristiana, incontrando inDe Gasperi fermezza e decisione nel rivendicare la sua auto-nomia di statista e uomo politico.

Domanda:Quale influenza ha avuto nel pensiero di Sturzo la

permanenza dal 1924 al 1946 in Inghilterra e negli StatiUniti?

Prof. Francesco MalgeriCertamente la presenza di Sturzo in queste diverse realtà

che sono l’Inghilterra negli anni ’30 e poi gli Stati Uniti all’i-nizio degli anni ’40 e quindi i rapporti avuti con diversi am-bienti politici e culturali influiscono sulla sua personalità, an-che se non incidono in maniera tale, a mio avviso, da modifi-carne l’impostazione originaria.Sturzo resta sempre un sacerdo-te formatosi nel clima dell’età diLeone XIII, nel clima dell’impe-

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Competenza legislativae amministrativa

gno sociale, del primo impegno politico amministrativo deicattolici nella vita pubblica e rimane legato a questi valori,anche se certamente la conoscenza di altri ambienti, l’aver fre-quentato e l’aver avuto rapporti con settori anche del mondolaico e delle istituzioni sia inglesi che americane ha arricchitola sua personalità e la sua competenza sul piano legislativo eamministrativo. Va tenuto presente che Sturzo aveva comun-que alle spalle una straordinaria competenza sul piano legi-slativo e amministrativo. Mi ricordava giustamente Mons.Pennisi che nella mia conversazione non ho accennato al fattoche Sturzo è stato per quindici anni anche Sindaco diCaltagirone, essendo stato eletto nel 1905 e rimasto in caricasino al 1920. La vita amministrativa di Caltagirone sotto lagestione di Don Sturzo subì notevoli cambiamenti. Vennerocolpiti molti interessi e molte speculazioni che si muovevanoall’interno del Comune. Sturzo si fece anche molti nemici, macondusse la sua battaglia con una forte intransigenza morale.Sturzo è stato anche uno dei grandi esponenti della culturameridionalista. Appartiene cioè a quell’area di cultura politi-

ca che vede nomi come Nitti,Salvemini, Zanotti Bianco, Dor-so, e molti altri che hanno se-gnato profondamente il dibatti-

to politico, sociale, economico, amministrativo del nostroPaese negli anni tra la fine dell’800 fino all’avvento del Fa-scismo. Una cultura che negli ultimi anni, purtroppo,si è for-temente affievolita e non riesce più ad esprimere un progettoe a suscitare un dibattito attorno ai temi della questionemeridionale.

Domanda:Quale è stato il ruolo di Sturzo in occasione del-

l’“operazione Sturzo” nelle elezioni romane del 1952?

Prof. Francesco MalgeriL’idea di una lista civica, in occasione delle elezioni am-

ministrative romane del 1952, nasce a seguito della formazio-ne di una lista di sinistra, capeggiata da Francesco SaverioNitti, che raccoglieva socialisti, comunisti e altri piccoli gruppidella sinistra, con l’obiettivo di conquistare il Campidoglio. Il ti-more che il Comune di Roma venisse conquistato dai comuni-

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Sturzo e la culturameridionalista

sti e che, come si diceva allora, i cosacchi potessero abbevera-re i loro cavalli nelle fontane di piazza San Pietro, investe al-cuni ambienti vaticani. Le ultime ricerche delineano ormai inmaniera chiara i contorni di questa vicenda. Gedda, presiden-te dell’Azione Cattolica, l’uomo che aveva fondato i comitati ci-vici nel 1948, assieme ad altri esponenti che ruotavano attornoa quello che era definito il partito romano, una sorta di lobbyclerico-moderata che sopportava a fatica anche la gestione po-litica della Democrazia Cristiana, miravano ad un’alleanza trala Dc e quelle che erano definite “le forze sane della Nazione”,vale a dire con i partiti della destra monarchica ma anche conun’attenzione allo stesso movimento sociale. Pio XII venneconsigliato a sostenere l’idea di realizzare una lista civica chedoveva andare dai partiti del centro democratico alla destra,cercando di togliere a questa lista un carattere partitico e chia-ramente politico. Viene individuato Sturzo come l’uomo cheavrebbe potuto svolgere un ruolo di mediazione. Sturzo noncorreva il rischio di essere accusato di filo-fascismo, essendostato un antifascista che aveva pagato di persona le sue posi-zioni politiche. Era l’uomo che poteva garantire la democrati-cità dell’operazione. Sturzo ancora una volta obbedì, ma nonmancarono difficoltà sul suo cammino. L’operazione preoccu-pava soprattutto De Gasperi, che sapeva bene che i tre partitidi centro con cui lui era al governo e cioè il Partito Liberale, ilPartito Repubblicano, il Partito Socialdemocratico non avreb-bero aderito a quella ipotesi, non sarebbero entrati nella lista.Anzi, c’era il rischio di provoca-re una loro reazione e di metterein crisi il governo del Paese. Lalinea tradizionale di De Gasperiera come è noto il “centrismo” e cioè l’esigenza di raccogliereforze democratiche di centro per cercare di evitare sia uno slit-tamento a destra, sia di uno slittamento a sinistra del quadropolitico nazionale. La stessa unità della Democrazia Cristiana,a quel punto, era a rischio. Sturzo, dopo aver ascoltato tutti co-loro che avrebbero dovuto in qualche modo far parte di questacoalizione, si rese conto delle difficoltà e delle conseguenze po-litiche dell’operazione. Approfittando del fatto che stavano sca-dendo i termini della presentazione delle liste, fece una dichia-razione pubblica in cui affermava che il suo tentativo nonaveva avuto un buon esito. La posizione di Sturzo fu estrema-mente delicata e difficile, con conseguenze negative per la Dc e

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De Gasperie il Centrismo

per la vita politica nazionale. Chiudendo la questione riuscì aduscirne senza esserne compromesso.

Domanda:Quali furono i primi passi di Sturzo sul piano del-

l’impegno politico e sociale?

Prof. Francesco MalgeriLa prima fase dell’attività sociale e politica di Sturzo è le-

gata al passaggio che avviene all’interno del MovimentoCattolico con l’emergere soprattutto di quelle nuove generazio-ni di cattolici che non hanno vissuto in prima persona il trau-ma di Porta Pia. Si tratta di giovani che sono formati nel qua-dro politico e culturale del nuovo Stato nazionale e liberale,che hanno vissuto certamente l’eco dei sentimenti e delle rea-zioni del mondo cattolico rispetto alla questione romana, mache ritengono quell’atteggiamento improduttivo e che invecegiudicano opportuno muoversi all’interno della società, con

proprie proposte, con proprieiniziative. Del resto la RerumNovarum e l’invito di Leone XIIIai giovani cattolici di “uscire

fuori dalla sacrestia” favorisce questa nuova linea, di cui ancheSturzo fu protagonista di primo piano. Certamente c’era anco-ra il non expedit, ma questo divieto a partecipare alle elezionipolitiche non era visto come un elemento negativo, ma dovevaessere l’occasione per una maturazione, per una formazione diquesti cattolici sul piano politico. Si parlava di preparazionenell’astensione, non si cercava di forzare la mano alla Chiesaperché abolisse il non expedit e aprisse ai Cattolici la stradadella vita politica nazionale, ma si riteneva potesse essere,tutto sommato, una fase di riflessione anche quella in cui an-cora i Cattolici non entravano direttamente nelle battaglie po-litiche della Nazione. Certamente queste iniziative provocaro-no anche reazioni da parte dell’episcopato. Sturzo sotto questoaspetto fu abbastanza fortunato perché ebbe l’appoggio di al-cuni Vescovi come Mons. Gerbino o come mons. Blandini chenon mancarono di sostenere i giovani Democratici Cristiani si-ciliani. Certamente a Palermo le cose erano diverse e i giovani

Democratici Cristiani conobberoanche molte resistenze e molti“bastoni fra le ruote”. Come simuove Sturzo? Sturzo non vede

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Uscire fuoridalla sacrestia

La Formazione comestrumento d’impegnopolitico e sociale

nella Democrazia Cristiana, in quel momento, soltanto unostrumento di carattere politico per rompere l’assenza dei catto-lici nella vita politica nazionale. Egli la utilizza anche comestrumento di formazione, come strumento di impegno sociale edi difesa delle autonomie locali. Sturzo lavora sul concreto, la-vora su quelli che sono i problemi che si presentano quotidia-namente nella società e che andavano affrontati e risolti. Nonc’è in Sturzo la prospettiva ideologica, ma c’è l’idea della poli-tica come elemento necessario per la soluzione dei problemidella gente, dei problemi del Paese.

Domanda:Quali sono i primi interessi di Sturzo e come si indi-

rizza verso l’impegno politico? Quale fu la sua posizione ri-spetto ai vari sistemi elettorali?

Prof. Francesco MalgeriPer quanto riguarda la prima domanda, ho già ricorda-

to come la sua fase giovanile non evidenzi, in un primo mo-mento, una sensibilità sociale o politica. La sua attenzione fuattratta dalla filosofia, dalla musica e dalla cultura umanisti-ca che, comunque, rimase sempre al centro dei suoi interessi.Del resto è noto che lui scrisse anche un’opera musicale, chenon ebbe certamente grandi successi, ma che rappresenta unacuriosità ed un aspetto della sua multiforme personalità. Suc-cessivamente, di fronte alla Rerum novarum e al movimentodei Fasci siciliani, a seguito dei suoi studi e dei contatti con ilmovimento della prima Democrazia Cristiana, subentrò unvivo interesse per i problemi sociali e politici ed un impegnoche favorì anche un disegno politico destinato ad incidereprofondamente sulla storia del cattolicesimo democratico ita-liano. Un disegno politico che ebbe la sua più significativaespressione nel discorso di Caltagirone del 1905.

Quali sono le prospettive di Sturzo rispetto ai sistemipolitici e ai sistemi elettorali? Va tenuto presente che Sturzofu sin dall’inizio, ma soprattutto tra il 1918 e il 1919, uno deimaggiori fautori dell’introduzione del sistema proporzionalein Italia. Il sistema proporzionale verrà approvato dal Parla-mento italiano prima delle elezioni del 1919, sulla spinta so-prattutto delle emergenti grandi formazioni politiche di mas-sa, come il Partito Popolare, che avevano bisogno del sistemaproporzionale per affermarsi a livello elettorale. Il sistema

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proporzionale è il sistema che certamente favorisce maggior-mente i partiti organizzati, i partiti che hanno un loro centrodi coordinamento ma anche una base a livello nazionale,mentre il sistema uninominale è legato principalmente alleforze politiche locali, alle personalità che ottenevano il votodai propri elettori.

C’è un momento però nella vita di Sturzo in cui questasua fedeltà al sistema proporzionale comincia ad attenuarsi,soprattutto in occasione del tentativo di De Gasperi di modi-ficare la legge elettorale, introducendo il premio di maggio-ranza, in occasione delle elezioni del 1953. Si tratta della co-siddetta “legge truffa”, la quale prevedeva che l’insieme diliste unite che avesse ottenuto almeno il 50,01% dei votiavrebbe avuto un premio di maggioranza pari al 65% deiseggi della Camera dei deputati. Questa proposta non piacquea Sturzo, tanto si sviluppò anche una vivace polemica traSturzo e De Gasperi.

Sturzo giudicava inopportuna questa legge elettorale,perché riteneva che con quel sistema sarebbero stati eletti deideputati che in realtà non avevano ottenuto il consenso deglielettori. Meglio allora, diceva Sturzo, applicare un sistema ditipo uninominale, tornando al vecchio sistema che lui stessoaveva in passato combattuto, ma che in quel momento rite-neva possibile ripristinare. Pertanto la posizione di Sturzo ri-spetto ai sistemi elettorali non esprime tanto ad una idea de-finitiva e assoluta, ma si misura, di volta in volta con le esi-genze che il momento poteva consigliare, ammonendo tutta-via sulla opportunità di evitare un troppo sbrigativo aggiusta-mento o cambiamento dei sistemi elettorali, da lui ritenutimateria molto delicata.

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D

31 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

on Luigi Sturzo sacerdote:testimone della carità pastoralenella societàS. E. Mons. MICHELE PENNISIVescovo di Piazza Armerina, Presidente della Commissione storicaper la causa di canonizzazione di don Luigi Sturzo

Qualcuno forse si chiederàa che cosa possa servire oggirievocare il pensiero e l’azio-ne di don Luigi Sturzo, co-nosciuto dai libri di storiacome fondatore del PartitoPopolare Italiano e che harappresentato un punto di rife-rimento per tutti i cristiani impe-gnati in politica e il cui nome, a ragione oa torto, ogni tanto è citato dai politici di vari schieramenti chese ne contendono l’eredità1.

Don Luigi Sturzo, nato l’indomani del Vaticano I emorto prima che fosse annunciato il Vaticano II, è un perso-naggio scomodo. In occasione dell’inizio del processo di bea-tificazione qualcuno si è chiesto come si poteva ardire di pro-porre per gli onori degli altari un prete che si è occupato di po-litica, ritenuta se non proprio una cosa sporca certamente am-bigua ed ingombrante.

Il paradosso di don LuigiSturzo è proprio quello di esse-re un sacerdote testimone dellacarità pastorale nella politica.

La poliedricità della sua personalità e le varie e trava-gliate esperienze della sua lunga vita rendono arduo e com-plesso definirlo e inquadrarlo.

Per i conservatori cattolici dell’inizio del secolo scorsoera considerato un progressista, per i seguaci più accesi diRomolo Murri un temporeggiatore, per i cattolici liberali unintransigente, per i socialisti massimalisti era definito con di-sprezzo “un riformista” mentre per un liberale rivoluzionariocome Gobetti il “messia del riformismo”, per la propagandafascista un “prete intrigante”, per il progressismo cattolicodegli anni cinquanta un “retrivo”, per i neo liberisti un “pro-feta del libero mercato”, per gli affaristi della politica un “po-vero illuso”.

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1 Sulla figura di don Luigi Sturzo Cfr. F MALGERI, Luigi Sturzo, Edizioni SanPaolo, Cinisello Balsamo (MI) 1993; M. PENNISI, Fede ed impegno politicoin Luigi Sturzo, Città Nuova, Roma 1982; L. GIULIANI, Don Luigi Sturzo,San Paolo, Cinisello Balsamo (MI); S. MILLESOLI, Don Sturzo: la carità po-litica, EP, Milano 2002.

1.Attualità

del messaggio di don Luigi

Sturzo

Carità pastoralenella politica

Purtroppo anche in vastisettori del mondo cattolico c’èstato quasi un’ostracismo neiconfronti di Sturzo verso il quale è perdurato quello che èstato definito un “esilio culturale”. Molti cattolici degli annicinquanta e sessanta hanno preferito studiare il pensiero difilosofi d’oltralpe piuttosto che quello sturziano, che inveceriscuoteva interesse all’estero spesso da parte di quegli stessiautori che si prendevano a modello.

È il caso di Jacques Maritain che dà sul sacerdote sicilia-no il seguente giudizio lusinghiero: “Per i suoi scritti di cosìvasta proporzione come per la sua attività pratica Sturzo è statola grande figura storica della Democrazia Cristiana. Egli avevacompreso che la Democrazia Cristiana non può adempiere ilsuo compito senza solide basi dottrinali. Da ciò la sua lungameditazione che, nutrita da una ricca e profonda cultura illu-minata dalla fede, stella rectrix, ha prodotto frutti così abbon-danti nel campo della filosofia politica e sociale, e stabilito, allaluce della sapienza cristiana, i princìpi che giustificano l’idealedi giustizia e di fraternità proprio della democrazia [...] DonSturzo ha reso testimonianzaalla Democrazia Cristiana conl’azione e la sofferenza. Se egliha superato tanti pericoli, è perché nella sua totale fedeltà allaChiesa, non è mai caduto in alcun errore teologico; ed ancheperché ha saputo esercitare ad un livello non comune la forzadi soffrire e di sopportare [...] Ciò che è al di sopra di tutto col-piva in lui era la pace dell’anima, la fiducia soprannaturale euna straordinaria serenità la cui sorgente era nascosta in Dio.Si percepiva che egli riceveva la forza della sua missione sacer-dotale dall’offerta nella quale donava se stesso offrendo GesùCristo. Sacerdote innanzitutto, egli non aveva difficoltà a man-tenere intatti, in mezzo alle agitazioni politiche il suo ministerosacerdotale e la sua vita interiore. In lui l’attività temporale e lavita spirituale erano tanto più perfettamente distinte perché in-timamente unite, nell’amore e nel servizio di Cristo”2.

L’esperienza di fede di don Luigi Sturzo, vissuta neldesiderio di fedeltà a Cristo nella Chiesa del suo tempo, fu coniugata con un’attività sociale, politica e culturale tesa a

33 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Il pensiero di Sturzo

Sacerdote innanzitutto

2 J. MARITAIN, Hommage à Don Sturzo in F. DELLA ROCCA, Itinerari sturziani,Edizioni di Politica popolare, Napoli 1959, 9.

mostrare “apologeticamente” come il cristianesimo potessesvolgere un ruolo positivo nel dare risposta ai problemi tem-porali, senza ridursi ad una “religione politica, chiusa alla di-mensione divinizzante della grazia e a quella escatologica delRegno di Dio.

A Caltagirone nella tomba di marmo bianco dove riposa-no i resti mortali di don Luigi Sturzo, oltre la data della nascitae della morte, è riportata significativamente quella della sua or-dinazione sacerdotale avvenuta il 19 maggio 1894 nella Chiesadel SS. Salvatore, all’interno del cui complesso monumentale èsituato il mausoleo dove nel 1962 fu traslata la sua salma.

È impossibile in realtà ca-pire profondamente don Sturzose si prescinde dalla visione teo-logica basata sul realismo del

soprannaturale che ha permeato non solo la sua vita interioredi “prete piissimo” come lo definì Arturo Carlo Jemolo3, maanche tutta la sua vastissima opera in campo culturale, socia-le e politico. Tra i suoi scritti, pubblicati durante l’esilio, pri-meggia l’opera “La Vera Vita: sociologia del soprannaturale”,in cui Sturzo, partendo da un’analisi della società, vista nellasua concretezza storica, afferma che uno studio globale di essanon può trascurare l’inserimento della realtà nell’ordine so-prannaturale che partendo dal primato della grazia tuttaviasalvaguarda l’autonomia delle realtà terrene4. Si tratta diun’impostazione a detta del teologo Severino Dianich: “digrande profondità teologica”5 che anticipa quanto poi sostenu-to da teologi famosi come Karl Rahner e Henry De Lubac sulrealismo del soprannaturale.

Alla base della concezioneteologica di Sturzo una conce-zione del mistero di Cristo vero

Dio e vero uomo ortodossa che, sulla scia della definizionedel Concilio di Calcedonia, porta ad escludere sia una sorta di“neomonofismo” integrista che confonde fede e politica, siauna specie di “neonestorianesimo secolarista” che conduce

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Opera in campo culturalesociale e politico

Concezione teologica

3 A.C. JEMOLO, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Einaudi, Torino1963, p. 419.4 Cfr. L. STURZO, La vera vita – Sociologia del soprannaturale (1943), Zani-chelli, Bologna 1960.5 S. DIANICH, Chiesa in missione. Per una ecclesiologia dinamica, EP, Torino1985, p. 54.

ad una schizofrenica separazione dualistica fra vita cristianaaninata dalla carità e impegno politico.

Don Luigi Sturzo cercò di realizzare una ortoprassi cri-stiana della politica, basata su un corretto rapporto tra ordi-ne naturale e ordine soprannaturale, che escludesse sia un as-sorbimento del naturale nel soprannaturale, sia una giustap-posizione fra i due ordini.

Quest’impostazione del rapporto fra grazia e natura si ri-troverà sia nell’elaborazione del progetto di un partito laico diispirazione cristiana6, sia nella sua sociologia storicista che èstata definita “cristiana nella radice anche se laica nelle foglie”7.

Don Luigi certamente nel giorno della sua ordinazionenon poteva pensare dove e come l’avrebbe condotto la Prov-videnza nel corso del suo ministero sacerdotale: organizzato-re dell’azione cattolica che allora si chiamava “Opera deiCongressi”, pubblicista che dirigeva un battagliero giornaleintitolato “La Croce di Costantino”, promotore di cooperativedi contadini e di sindacati dioperai, pro-sindaco della suacittà natale per quindici anni,vicepresidente dell’Associazione Nazionale dei ComuniItaliani, segretario generale della giunta dell’Azione CattolicaItaliana durante il pontificato di Benedetto XV, fondatore delPartito Popolare Italiano definito dallo storico FedrericoChabod il più importante evento politico nella storia italianadel XX secolo, esule per oltre un ventennio durante il fasci-smo, autore di parecchie opere di sociologia, storia, morale,teologia, diritto, senatore a vita e battagliero polemista negliultimi anni della sua vita.

L’impegno pastorale di Sturzo era supportato dalla suaformazione teologica di stampo neotomista assorbita allaGregoriana e che egli cercò di approfondire e sviluppare conaltre letture nel corso della sua vita. La Chiesa che risalta neiprimi scritti di Sturzo è una Chiesa libera dalle compromis-sioni terrene, più povera, più legata al popolo, impegnata apermeare dello Spirito dell’amore cristiano le strutture dellasocietà.

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L’impegno pastorale

6 Cfr. M. PENNISI, Fede, impegno politico e partito di ispirazione cristiana inLuigi Sturzo, in AA.VV., Fede e politica oggi, Ed. Massimo Milano 1983, pp.97-119.7 F. BARBANO, Storicità e sociologia della libertà, in AA.VV. Luigi Sturzo nellastoria d’Italia, Ed. Storia e letteratura, Roma 1973, vol. I, p. 307.

Nella sua travagliata esperienza non venne mai meno allacoerenza con la sua vocazione sacerdotale. Quando decise difondare il Partito Popolare Italiano si recò con i suoi amici nellaChiesa dei SS. Apostoli per una ora di preghiera. Ricordandoquesto episodio scrisse: “Durante quest’ora di adorazione rie-vocai tutta la tragedia della mia vita. Non avevo mai chiestonulla, non cercavo nulla, ero rimasto semplice prete: per consa-crarmi all’azione cattolica sociale e municipale avevo rinuncia-to alla cattedra di filosofia; dopo venticinque anni ecco che ab-bandonavo anche l’Azione Cattolica, per dedicarmi esclusiva-mente alla politica. Ne vidi i pericoli e piansi. Accettavo lanuova carica di capo del Partito Popolare con l’amarezza nelcuore, ma come un’apostolato, come un sacrificio”8.

Nel suo testamento spirituale il sacerdote calatino scris-se: “A coloro che mi hanno criticato per la mia attività politica,per il mio amore alla libertà, il mio attaccamento alla democra-zia, debbo aggiungere, che a questa vita di battaglie e di tribo-lazioni non venni di mia volontà, né per desiderio di scopi ter-reni nè di soddisfazioni umane: vi sono arrivato portato daglieventi”; e aggiungeva: “riconosco le difficoltà di mantenere in-tatta da passioni umane la vita sacerdotale e Dio sa quanto misono state amare le esperienze pratiche di 60 anni di tale vita;ma tutto ho offerto a Dio e tutto indirizzato alla sua gloria e intutto ho cercato di adempiere al servizio della verità”9.

È impossibile capire pro-fondamente Sturzo se si pre-scinde dalla visione teologica

sottesa a tutta la sua opera e dal suo impegno pastorale diprete. “Nella mia vita – scrisse – ho chiesto incessantementeal Signore di essere sempre e soltanto, ovunque sacerdote,alter Christus”10.

Ad un suo compagno scriveva nel 1895 da Roma doveera andato a completare gli studi: “Sono qui per studiare teo-logia e sociologia: quella per elevarmi a Dio e alle cose divi-ne, questa per prepararmi a svolgere una proficua missione aprò del popolo”11.

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8 L. STURZO, Politica e morale (1938), Coscienza e politica (1953), EdizioniZanichelli, Bologna 1972, pp. 106s.9 Testamento del sen. prof. don Luigi Sturzo, in Sociologia, luglio-settembre1959, p. 303.10 Cit. in P. STELLA, Luigi Sturzo Sacerdote, p. 45.11 CALATINUS, Luigi Sturzo, Caltagirone 1959, p. 18.

La vocazione politica

2.Coerenza con la

sua vocazionesacerdotale

Risulta da queste poche righe, che già indicano tutto unprogramma di vita, da una parte la sua fedeltà assoluta allasua vocazione sacerdotale, dall’altra parte la modernità del-l’uomo di azione che ha capito che ormai la sua attività sa-cerdotale deve svolgersi fra il popolo.

La “conversione” di Sturzo all’azione sociale e la sua“vocazione politica” come egli la chiama fu provocata più chedalla lettura dei documenti del magistero ecclesiastico, dal-l’incontro con vari esponenti del movimento cattolico-socialequali il cardinale Rampolla del Tindaro, Giuseppe Toniolo,Romolo Murri, Filippo Meda e soprattutto dalla constatazio-ne della miseria sia nei quartieri popolari romani, dove fumandato a benedire le case, sia nella sua Caltagirone dove ungruppo di operai si rivolse a lui per avere consiglio ed aiuto.

Don Sturzo si convince ben presto che la vita spiritualedi un sacerdote non si esaurisce di un ministero cultuale o de-vozionale, ma nell’andare incontro come Cristo verso lagente, realizzando nell’esperienza secolare le istanze evange-liche. Egli concepisce la spiritualità come qualcosa che tendead abbracciare tutta l’esistenza.

“La pietà – scrive agli inizi del secolo- non consiste nelpassare tutte le ore a recitar preghiere, ma principalmentenell’abito virtuoso dell’umiltà, nell’esercizio della presenza diDio, nel desiderio di patir per Gesù Cristo e per Lui mortifi-care se stesso, nell’ordinare tutto a Dio come a fine ultimo[...] Non bisogna crear colli torti, né ipocriti tristi, ma sacer-doti il cui ministero importa attività pel popolo in tutte le ore,in tutti i momenti, nei quali siamo costretti, come dicevaS. Francesco di Sales, a lasciare Dio per Dio”12.

La sua prima attività pastorale è ispirata ad un intransi-gentismo “papalino” a sfondo confessionale, ma non legitti-mista né rassegnato, che si salderà ben presto con un intran-sigentismo politico che gli farà prendere le distanze dal cleri-co-moderatismo.

Di fronte al liberalismo risorgimentale italiano che ten-deva a concepire la fede cristiana come un affare privato e alaicizzare la vita pubblica, il richiamarsi allo scandalo dellaCroce di Cristo e alla funzione civile esercitata dalla cristia-nità nel corso della storia, costitutiva, per il giovane Sturzo,

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3.L’attività

pastoraleper la formazione

del Clero

CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

12 L. STURZO, Scritti inediti, vol. I, Ed. Cinque Lune, Roma 1974, p. 231.

un invito per i cattolici ad uscire dalle sagrestie, a superare icomplessi d’inferiorità, a rifiutare la riduzione della religione afreno delle masse, a strumento di dominio delle classi domi-nanti, a fattore di conservazione sociale. Questo lo portava aprendere le distanze dai “cattolici transigenti”, i quali, nono-stante l’indubbia apertura culturale e una certa ricerca di unariforma religiosa della Chiesa, si accontentavano della tiepidatolleranza offerta loro dalla società liberale ed erano inclini al-l’individualismo religioso e al conservatorismo sociale.

Per Sturzo il messaggiocristiano comporta la salvezzanon solo di tutti gli uomini, neiquali egli vedrà operante l’azio-

ne invisibile della grazia, ma anche di tutto l’uomo: anima ecorpo. Il cristianesimo non può ridursi ad una vaga elevazio-ne alle cose dello spirito che serva a dare afflato mistico allavita morale dell’individuo, né all’incerta scommessa su unavita ultraterrena che lasci immutata la vita temporale; ma èun messaggio di salvezza che influisce nella vita morale siapubblica che privata e che riguarda l’uomo sia nella sua vitapresente che in quella futura.

È interessante a questo proposito citare quanto Sturzoscrive all’amico Giuseppe Stragliati, che attraversava unaprofonda crisi spirituale: “Perché io mi occupo di politica?Perché trovo che a mezzo di essa potrò fare del bene agli altrie realizzare, per quanto è possibile, un benessere terreno, chedeve servire a meglio attuare il benessere spirituale delleanime. Gesù si occupava forse del benessere terreno quandosanava gli infermi e resuscitava i morti o sfamava le turbe neldeserto? Ma bada, ogni benessere terreno passa: la salute o laricchezza, l’ordine familiare o sociale, tutto cambia, si muove sitrasforma, passa; ogni giorno il suo male, ogni epoca le suecrisi. Ieri si credeva nel liberalismo come la salvezza dell’uma-nità, ci fu l’epoca del socialismo come la speranza degli operai,oggi si parla del comunismo come il futuro paradiso sociale, matutto passa e noi con loro. Senza una concezione religiosa del-l’aldilà, un Dio creatore e giudice (quale la fede ce lo insegna)noi saremmo i più infelici fra gli esseri e i più indegni di vivere(anche se il comunismo si sarà realizzato per noi)”13.

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Il messaggio cristiano e l’uomo

13 Lettera di Sturzo a Stragliati, in L. STURZO, Scritti inediti, vol. II, Ed. Cin-que Lune, Roma 1975, p. 486.

Sturzo esigeva per il clero una cultura solidamente fon-data sui princìpi cristiani, ma anche aperta ai problemi e alleesigenze della società moderna.

In un articolo del 1898 dal titolo La Cultura sociale scri-ve: “Così, mentre il giovane clero esce per lo più dai Seminaricon le sole cognizioni di filosofia e teologia e di una certa cul-tura letteraria [...] non può, slanciato nell’azione, portarviquelle cognizioni di scienze positive, di sociologia, economiapolitica, filosofia della storia, critica letteraria moderna, lequali, benché in parte estranee al ministero sacerdotale, purene compiono la cultura; e lumeggiate dalle conoscenze teolo-giche, possono influire molto nelle menti dei laici, per lo piùeducati in mezzo ad errori, e possono dare un forte impulsoallo sviluppo scientifico e alla pratica azione dei cattolici, emettere un forte riparo alle teorie socialistiche che si fannostrada specialmente fra la gioventù”14.

In uno scritto del 1901egli, a proposito della formazio-ne seminaristica, affronta il pro-blema della missione del pretenella società moderna ed enumera le conseguenze nefaste chepotrebbe produrre l’impedire ai futuri sacerdoti il contatto colmondo contemporaneo: “Si metta – scrive – il chierico in unasegregazione completa, totale della vita, si faccia sì che nonconosca nulla di civiltà, di progresso di scienze, di nuovi libri,di politica, di agitazione di partiti, di relazione economiche,di aspirazioni popolari, di liberalismo o di socialismo, diDemocrazia Cristiana, di Opera dei Congressi, di lotte ammi-nistrative e di documenti pontifici (elementi giornalistici dellagiornata) e si avrà o il prete che pensa alla benedizione, almessale, al breviario e al predicozzo ai pochi fedeli riuniti inChiesa; o per una reazione violenta, il prete che senza criterisia sbalzato nel vortice della vita moderna col pericolo di per-dersi; in ogni caso sarà chi entrando nella vita attiva senzatradizioni vive, né adeguata educazione, senza palpiti, senzaidee (che si maturano negli anni giovanili) si troverà diso-rientato, impacciato, inadatto; scriverà il giornale come lapredica, crederà il Comitato (d’azione cattolica) un Semina-rio, la sezione giovani una camerata d’alunni, e finirà per por-tare nell’ambiente delle associazioni cattoliche un piccolo

39 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

La missione del prete nella società moderna

14 IL CROCIATO, La cultura sociale in La Croce di Costantino, 6 febbraio 1898,p. 3.

mondo antico, che si potrebbe chiamare l’anticamera delSeminario, della sagrestia e della curia”15.

Per don Luigi, se solo al-cuni preti debbono dedicarsi al-l’impegno sociale, tutti i sacer-doti devono orientarsi verso l’a-

zione popolare cristiana in quanto come pastori, devono oc-cuparsi delle sorti sia materiali che spirituali dei loro fedeli.

Se il prete non si impegna in quella che oggi chiame-remmo la “pastorale sociale” rischia di perdere il suo tempoin vuote attività clericali, che atrofizzano il suo ministero sa-cerdotale. “È necessario – scrive Sturzo – che il giovane chie-rico viva (nei debiti modi e nelle giuste misure) nella vita quo-tidiana di idee teoriche e pratiche della quale vive la società,che il chierico di questa vita, elevata a missione sacerdotalerigeneratrice, se ne formi un ideale; che questo ideale perva-da tutte le sue fibre morali, ascetiche, intellettuali, sportive,affinché nelle conversazioni invece di parlare di preminenze ,diritti di mozzetta o di mitra, di precedenza nelle processionio nel suono delle campane [...] invece che pensare alle caccee alle campagne, invece di sospirare il momento del sacerdo-zio per avere un posto in curia o una pieve o un beneficio, oper sottrarsi al giogo della vita comune [...] sospiri ad impie-gare le sue forze nel campo dell’azione cattolica, che ha biso-gno di giovani istruiti, volenterosi, entusiasti, atletici”16.

Una preoccupazione co-stante di Luigi Sturzo, nella suaprima attività pastorale, fuquella di preparare dei sacerdo-

ti impegnati a stare in mezzo al popolo per esercitare la loromissione di pastori per il bene spirituale dei fedeli, che si rea-lizza non soltanto orientando le persone alla vita ultraterrena,ma informando tutta la vita terrena dei princìpi cristiani.

Per Sturzo un autentico rinnovamento politico presup-pone un rinnovamento morale che a sua volta implica una vi-sione religiosa della vita. Questa convinzione lo spinse ad im-pegnarsi per far recuperare una nuova pastoralità al clero me-ridionale e far rinascere nel popolo una fede convinta, da cuiderivassero coerenti atteggiamenti morali.

Don Luigi Sturzo, inserendosi nel dibattito sulla forma-zione del clero innescato dall’enciclica di Leone XIII Fin da

40 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Il prete e la pastorale sociale

Rinnovamento politicoe sociale

15 L. STURZO, Scritti inediti, vol. I, cit., pp. 224-225.16 Ivi, p. 226.

principio dell’otto dicembre 1902, riafferma la necessità del-l’apostolato sociale del prete, concepito non come una laiciz-zazione del suo ministero religioso ma come una conseguen-za della sua missione pastorale17.

Egli non solo teorizzò una nuova formazione del clero,ma si impegnò a realizzarla con l’appoggio del fratello maggio-re, Mario, nel Seminario di Caltagirone dove introdusse gli in-segnamenti di sociologia, di economia e di psicologia. Il fratel-lo Mario, divenuto nel 1903 vescovo di Piazza Armerina,mandò via dal Seminario tutti iseminaristi che pretendevano diessere ordinati senza studi seri enel 1904 pubblicò una lettera pastorale dal titolo Il Seminarionella quale propone una nuova Ratio Studiorum18.

Sturzo era convinto che per operare una profonda rifor-ma di costume e di mentalità fra le popolazioni diseredate eavvilite del Meridione bisognava iniziare dal prete, definitoda Gabriele De Rosa, come “il primo emarginato della storiadella Sicilia nell’età contemporanea”19.

Egli sogna un prete culturalmente preparato, spiritual-mente formato al sacrificio e ad andare contro corrente, pa-storalmente attivo, difensore dei diritti degli umili contro i po-tenti, pronto ad interessarsi – sull’esempio di Cristo – dellasalvezza integrale dell’uomo.

Questo ideale di sacerdote cozzava con la situazionereale del clero meridionale, che il regalismo borbonico avevareso servile verso il potere del re che rivendicava di essere Le-gato del Papa e che la politica ecclesiastica liberale aveva spin-to ad una lotta per la sopravvivenza fatta di mille espedienti.

La maggior parte del cleromeridionale, proveniente da fa-miglie di bassa condizione, eralegato ai circoli borghesi, alle fa-miglie ricche della città, ai municipi spesso in mano ai liberalio massoni, dai quali sperava l’appoggio per ottenere un benefi-cio ecclesiastico, contraccambiato con l’appoggio elettorale.

41 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Un ideale di sacerdote

Formazione del cleroed istruzione religiosa

del popolo

17 IL CROCIATO, Leone XIII e l’educazione e cultura del Clero in La croce diCostantino 21 dicembre 1902, p. 1.18 Cfr. M. STURZO, Il Seminario. Lettera Pastorale, Roma 1905; cfr. MarioSturzo, a cura di C. NARO, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma,1994; M. ALEO, Mario Sturzo filosofo, Salvatore Sciascia Editore, Caltanis-setta- Roma, 2003.19 G. DE ROSA, Introduzione a L. STURZO, La battaglia meridionalista, LaterzaBari 1979, VIII.

Sturzo ritiene che il compito più importante della Chiesaè di insistere sulla formazione (spirituale, culturale, pastora-le) del clero e sull’educazione religiosa e civile del popolo.

Egli pur apprezzando il sentimento religioso del popolomeridionale, ne conosce anche i limiti: il sentimento, senzauna adeguata istruzione e una coerente vita morale, degene-ra facilmente nell’estetismo esteriore, nel culturalismo rumo-roso, nel fanatismo arrabbiato, nel dualismo tra fede (spessounita alla superstizione) e condotta di vita spesso immorale.

Don Sturzo, pur guardando alla religiosità popolare noncon la sufficienza dell’intellettuale, ma con la simpatia del pa-store, che vive a contatto con il popolo, non manca di notar-ne le ambiguità e i lati negativi, con lo scopo di purificarla edi orientarla verso una fede convinta e una pratica sacramen-tale autentica, una vita morale coerente coi princìpi evangeli-ci e gli insegnamenti del Magistero.

Don Luigi Sturzo non siaccontentò del ruolo sociale as-segnato al prete da una societàlaicista che, concependo la fede

come affare privato che interessa unicamente la vita ultraterre-na, lo relega a fare il “ministro del culto” e di un culto staccatodalla vita.

Egli si rese conto che si richiedeva un prete nuovo, fierodella sua dignità davanti ai potenti e difensore dei diritti degliumili, impegnato ad annunciare un Vangelo libero dalla cate-ne dorate dei patronati laicali e dei concordati e a purificareda residui magici e da tradizioni paganeggianti la religiositàdelle popolazioni meridionali, orientandola verso una fedeconvinta, una pratica sacramentale autentica ed una vita ani-mata dalla carità.

Sturzo continua in un modo nuovo la tradizione dellaspiritualità apostolica e dell’azione caritativa dei “santi socia-li” vissuti in Sicilia nell’Ottocento e nei primi del Novecentocome il beato Giacomo Cusmano (1834-1888), prete diocesa-no di Palermo, fondatore delle due Congregazioni dei Servi edelle Serve dei Poveri; il beato Annibale Maria Di Francia(1851-1927) di Messina, che fondò due Congregazioni dediteal servizio dei poveri, i Rogazionisti del Cuore di Gesù e leFiglie del Divino Zelo, Antonino Celona (1873-1952), il paler-mitano Nunzio Russo attivissimo protagonista del MovimentoCattolico siciliano, Vincenzo Morinello (1870-1939) fondato-re delle Suore dei Poveri di S. Vincenzo de’Paoli, il benedetti-

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Il prete.che ruolo sociale?

no card. Giuseppe Benedetto Dusmet (1818-1894) arcivesco-vo di Catania, che seppe alimentare una testimonianza disantità che si impose all’attenzione dei contemporanei per isuoi riflessi nell’azione pastorale soprattutto in campo carita-tivo-assistenziale.

Una preoccupazione co-stante di Luigi Sturzo, nella suaprima attività pastorale di preteleoniano, fu quella di prepararedei sacerdoti impegnati a stare in mezzo al popolo animati daun’ardente carità pastorale e da uno spirito missionario, prontiad interessarsi di tutto l’uomo nella sua vita presente e in quel-la futura.

Sturzo sogna dei preti umanamente maturi, culturalmen-te preparati, spiritualmente orientati ad una santità da ricer-carsi nell’esercizio del loro ministero, pastoralmente attivi,pronti ad interessarsi, sull’esempio di Cristo, della salvezza in-tegrale dell’uomo. Ed anche in Sicilia furono molti i cosiddetti“preti sociali” di stampo leoniano, che occuparono anche cari-che pubbliche e si tennero in stretto contatto con Sturzo20.

Questo sogno del prete calatino non ha perduto ancoraoggi la sua attualità in un periodo nel quale assistiamo al dif-fondersi, tra i candidati al sacerdozio, di forme di intimismoe di estetismo di stampo clericale, di superficialità culturalenel comprendere la complessità della nostra società, di pocasensibilità per la pastorale sociale e di un impegno più diret-to per i cosiddetti ultimi.

A scanso di equivoci dobbiamo precisare che don LuigiSturzo, rilevando la necessità che il prete prendesse sul seriole indicazioni del Magistero della Chiesa in campo sociale,non concluse, per questo, sull’opportunità generalizzata che ilclero s’impegnasse direttamente nell’attività politica e sociale,anche se non escluse che, in determinate circostanze eccezio-nali, il sacerdote che ne avesse le attitudini e che sentisse que-sta vocazione, potesse e dovesse impegnarsi in quel campo.

Niente di più lontano dalla concezione che Sturzo hadell’impegno politico e sociale di quella di un prete politican-te intrigante e maneggione. La novità portata da Sturzo nella

43 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Carità pastoralee spirito missionario

20 Cfr. AA.VV., Preti sociali e pastori d’anime, a cura di C. NARO, SalvatoreSciascia Editore, Caltanissetta-Roma. 1994; U. CHIARAMONTE, Luigi Sturzoe il governo locale, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2001; L. STURZO,Carteggi siciliani del primo Novecento, a cura di V. DE MARCO, SalvatoreSciascia Editore, Caltanissetta-Roma, 2002.

Sicilia del suo tempo non fu tanto quella di far impegnare ilprete in politica o nelle lotte amministrative, cosa abbastanzacomune ai suoi tempi; ma quella di liberare il clero dal servi-lismo nei confronti dei partiti clientelari retti da notabili loca-li e di evitare che i cattolici facessero una “politica da eunu-chi” e (Sturzo usa questa espressione cosi poco consuetanella prosa di un sacerdote) al servizio di personaggi e di par-titi che nulla avevano da spartire con il messaggio cristiano.

Don Luigi Sturzo si convince dalla sua esperienza che lavita spirituale di un sacerdote non si esaurisce nell’eserciziodel ministero, inteso solo dal punto di vista cultuale o devo-zionale ma deve avere come base la carità pastorale. Nono-stante il suo grande impegno a livello sociale e politico egliriuscì sempre a condurre una vita sacerdotale esemplare, ca-rica di un certo ascetismo e tendente alla santità. La sua fuuna spiritualità cristocentrica ed eucaristica.

La celebrazione quotidiana della Messa costituiva il ful-cro della sua giornata. La sua Messa chiamata da molti suoiamici “la Messa di S. Alfonso dei Liguori” per la devozione eper la commozione con cui la celebrava è rimasta impressa inmolti che l’hanno conosciuto21.

La sua profonda spiritua-lità cristocentrica e la sua ansiadi santità emergono nel volumi-noso carteggio che don Luigi,

durante il lungo periodo del suo esilio, ebbe con suo fratelloMario, vescovo di Piazza Armerina. Gli autori citati più spes-so sono S. Agostino, S. Tommaso, S. Giovanni della Croce, S.Teresa d’Avila, S. Alfonso Maria de’ Liguori, S. Francesco diSales, e tra i moderni, i filosofi francesi H. Bergson e M.Blondel, lo storico della spiritualità H. Bremond, il teologo do-menicano R. Garrigou Lagrange. Attraverso queste lettere in-time si svela uno Sturzo inedito per il grande pubblico, che sioccupa di delicati problemi filosofici e teologici, d’ascetica edi mistica e desideroso di approfondire il vissuto religioso neisuoi risvolti sociali.

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4.La Vita Spirituale

CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Il desiderio di approfondire il vissutoreligioso nei risvolti sociali

21 Cfr. S. ALÌ, La testimonianza di un confratello calatino, in Studi Cattolici n.132 (1972), p. 105; G.B. MIGLIORI, La Messa di don Luigi Sturzo, in Studicattolici, cit., p. 109.

Spesso i due fratelli ricordano la loro ordinazione sacer-dotale e scrivono a lungo di ascetica e mistica.

Scrive don Luigi da Londra il 19 aprile 1933: “vorrei es-sere santo, ma la via è lunga e io vedo che non progredisco echissà che non vado indietro. Tu preghi per me, e te sono gra-to assai; nella comunione delle preghiere vi è un conforto re-ciproco per una più intensa vita spirituale”22.

Dall’abbazia benedettina St. Mary’s di Buckfast doveera andato per un ritiro spirituale invitava il fratello vescovoa pregare per lui e aggiungeva in una lettera del 30 agosto1933: “Come è soave il Signore. E come è misericordia”23. Il20 maggio 1934, avendo lettosull’Osservatore Romano la no-tizia di una conferenza diMons. Mario su “L’Eucaristianella vita sociale” in occasione di un Congresso Eucaristico,Luigi gli scrive il 20 maggio 1934: “Come è consolante questorisveglio eucaristico”24. A proposito dell’Eucaristia nella vitasacerdotale in una lettera da Parigi del 3 agosto 1937 donLuigi scrive: “sono associato alla Lega Eucaristica fra sacer-doti, con l’obbligo di fare un’ora di adorazione avanti ilSantissimo tutte le settimane (e una messa annuale). Nellastessa lettera e in una successiva del 28 agosto parla della suaadesione all’Unione apostolica del clero che conobbe duran-te il periodo del suo esilio.

Il 3 agosto 1937 da Parigi scriveva al fratello Mario ve-scovo di Piazza Armerina: “Conosci tu l’Unio apostolica sa-cerdotum saecularium sub auspiciis SS. Cordis Iesu? Credo chesia di recente fondazione (ai tempi di Pio X). Io mi ci sono as-sociato nel marzo scorso. Non vi sono veri obblighi. Tuttoquello che il sacerdote deve fare nella giornata, è indicato e sene nota l’osservanza sera per sera con dappiù l’orazione spe-ciale per la Unione, la Messa annuale etc. Ma credo che giovamolto a tenere costante la regolarità giornaliera e lo spirito diunione fra i sacerdoti”25.

Don Luigi Sturzo in una altra lettera sempre inviata daParigi del 28 agosto dello stesso anno descriveva gli scopidell’Unione e i doveri degli unionisti: “Io ignoro i precedenti

45 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Il prete:uomo Eucaristico

22 Lettera di Luigi a Mario in L. STURZO-M. STURZO, Carteggio, vol. III, Ed.Storia e letteratura, Roma 1985, p. 202.23 Lettera di Luigi a Mario, ivi, p. 246.24 Lettera di Luigi a Mario, ivi, p. 323.25 Lettera di Luigi a Mario, ivi, vol. IV, p.215.

dell’Unione Apostolica. Quella alla quale io sono iscritto ha loscopo di dare al prete una formazione e una pratica spiritua-le costante. Onde si deve notare ogni giorno, sopra un modu-lo, se si è anticipato il Mattutino, se fatta la meditazione, sedata una parte del giorno allo studio e così via: la lezione spi-rituale, la visita al Santissimo, il Rosario, la nota delle entra-te e delle spese, l’esame di coscienza, il ritiro mensile, l’oradell’alzata, preparazione e ringraziamento per la S. Messaetc. Ogni mese l’obbligo d’inviare queste note al Direttoredell’Unione, di tanto in tanto riunioni, ore di adorazione ec-cetera. L’obbligo assunto non importa vincolo, la cui omissio-ne sia una colpa; ma importa veridicità e chiarezza di rapporticon il centro direttivo”.

In altre lettere parla degli Angeli custodi, della devozio-ne al Sacro Cuore, della pratica della via Crucis, della Madon-na. Durante una malattia scrive da Londra il 28 gennaio1937: “L’unica consolazione è che posso andare a dire laMessa e arrivo a dire il breviario e le preghiere. Tutto il restomi stanca”. Nella stessa lettera informa il fratello di stare leg-gendo l’opera di p. Silvio M. Giraud: Sacerdote ed Ostia26.

Attraverso queste lettere intime si svela uno Sturzo ine-dito per il grande pubblico, desideroso di essere innanzituttoun buon prete.

Non meraviglia dunque che egli abbia potuto descriverea Ernesto Calligari nell’aprile del 1926 la sua attività socialecome “esplicazione di apostolato religioso e morale”. “Nonavessi avuto questa convinzione e questa finalità, – scrivenella stessa lettera – non avrei potuto conciliare le mie attivitàcol mio carattere sacerdotale e con la mia unica aspirazionedi servire Dio”27.

Il card. Wright, che conobbe don Luigi durante l’esilioamericano, lo definì nel 1971, commemorando il centenariodella sua nascita, “filosofo, profeta sociale, patriota, cittadinodel mondo, pellegrino in cammino verso l’eternità, ma soprat-tutto e sempre prete cattolico, apostolico, romano, sacerdotecosciente, responsabile, fedele”28.

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26 Lettera di Luigi a Mario, ivi, vol. IV, p. 23.27 Lettera del 10 aprile 1926 a Mikros (pseudonimo di Calligari) in Scrittiinediti, cit., vol. II, pp. 137-138.28 Card. J. WRIGHT, Prefazione a P. STELLA, Luigi Sturzo Sacerdote, Ed. di po-litica popolare, Napoli 1996, p.11.

Egli scelse il sacerdozio rinunciando ad una elevata po-sizione sociale, alla agiatezze di una ricca famiglia e visse nel-l’autentico spirito di povertà. Distribuì il suo notevole patri-monio in opere caritative e sociali e visse giorno per giornodel suo lavoro, della sua attività di studioso e di scrittore.Stando alla descrizione dei luoghi dove ha abitato durante lasua lunga vita sia in Italia che all’estero, ci rendiamo contoche il suo tenore di vita era molto modesto, fino all’ultimo pe-riodo vissuto in un istituto di suore tra cappella, studio e ca-mera da letto. Nel suo testa-mento ha potuto scrivere: “Di-chiaro di non possedere nulla dibeni avendo rinunciato all’usu-frutto lasciatomi dai miei congiunti, ai diritti sui miei scritti ead ogni altro cespite che a titolo gratuito ho ceduto all’IstitutoLuigi Sturzo di Roma”29.

Santi Savarino in occasione della sua morte scrisse:“Esemplare sacerdote di Cristo viveva come un povero, per li-bera scelta e senza ombra di ostentazione”30.

Carlo Bellò ha scritto: “Durante il suo esilio distribuì aifuorusciti, anche non cattolici, senza una parola di commen-to, i suoi guadagni di scrittore. Non ci fu attorno a lui suonodi denaro”31.

Di questa sua profonda spiritualità rimanevano colpitiquelli che lo accostavano; significativa è la testimonianza diun anticlericale come Gaetano Salvemini: “Don Sturzo credenell’esistenza di Dio: un Dio – badiamo bene – che non soloesiste chi sa mai dove, ma è sempre presente a quel che donSturzo fa, e don Sturzo gliene deve rendere conto strettissimo,immediatamente, e non nell’ora della morte... Con quell’uomobuono (naturalmente era anche intelligente) non si scherzava.[...] Discuteva e lasciava discutere di tutto, con una libertà dispirito, che raramente avevo trovato nei cosiddetti liberi pen-satori; ma quando si arrivava alla zona riservata, cadeva lacortina di ferro, don Sturzo non discuteva più”32.

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Non ci fu attorno a luisuono di denaro

29 Testamento del sen. prof. don Luigi Sturzo, in Sociologia, luglio-settembre1959, p. 304.30 S. SAVARINO, Un grande italiano, in Il Giornale d’Italia 10-11 agosto 1959.31 C. BELLÒ, Disinteresse e povertà, in Studi Cattolici, cit. p. 102.32 G. SALVEMINI, Memorie di un fuoruscito, Feltrinelli, Milano 1964, pp. 51-52.

Il riferimento costante alla Croce di Cristo e alla dimen-sione escatologica del cristianesimo, servì a liberare Sturzodalla volontà di affermazione e di successo ad ogni costo e im-pedì che la sua “utopia politica” (nel senso di progetto politi-co originale e critico nei confronti dei sistemi sociali e politicivigenti) venisse presentata come la “panacea” di tutti i mali.

Da questa concezione egli derivò lo spirito di sacrificionella lotta per la giustizia, l’attesa paziente anche se non pas-siva dell’avvenire, il puntare su tempi lunghi, la capacità diaccettare gli insuccessi e le sconfitte politiche senza perdersid’animo, l’ubbidienza attiva, talvolta sofferta e mai servile.

Quando fu costretto a dimettersi dalle cariche del parti-to che aveva fondato e a partire per l’esilio, scrisse nel lugliodel 1923 una lettera a Pio XI, in cui si nota la fierezza e la no-biltà del suo animo di prete ubbidiente ma che sa esprimere

le sue ragioni: “Purtroppo il mioritiro – scrive fra l’altro – saràfatto passare come un’implicitasconfessione del Partito Popo-

lare Italiano; quei pochi sacerdoti che vi lavorano in provin-cia, e che sono i mirabili difensori di tanta parte del popolooppresso, saranno costretti a ritirarsi; ai deputati impegnati inuna battaglia politica così grave (la legge elettorale Acerbo!ndr.), si rimprovererà di non comprendere il monito delVaticano. E poiché tutti i Popolari sono Cattolici (e veri Cat-tolici) l’offensiva che sarà fatta sotto il pretesto della SantaSede turberà molte coscienze e tenterà di far credere che laChiesa appoggi il governo fascista e il Fascismo; i cui metodi,non solo nel campo politico ma in quello etico, sono per tanteragioni a rimproverarsi”. E concludeva: “Non so se VostraBeatitudine onorerà di un suo sguardo questo mio foglio. L’hoscritto credendo di compiere il mio dovere, perché la mia co-scienza altrimenti, non sarebbe stata tranquilla”33.

L’impegno socio-politico di Sturzo, sempre concepito dalui come un’esplicazione particolare della sua vocazione sacer-dotale, è collegato alla solidarietà con gli esclusi dell’Italia del-l’arretratezza tagliati fuori dal processo di unificazione nazio-nale, al tentativo di dare la responsabilità civile alle popolazio-ni meridionali, sacrificate in nome di una retorica patriottardaagli interessi della borghesia industriale del Nord e dei latifon-

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5.La Carità politica

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Riferimentoalla Croce di Cristo;Ubbidienza alla Chiesa

33 Cit. in G. CARONIA, Con Sturzo e con De Gasperi, Cinque Lune, Roma1979, p. 320.

disti del Sud, asservite alle manovre clientelari e trasformisti-che dei governi appoggiate dalle cricche di ascari numerosi frai politicanti meridionali, impantanati nella melma della mafia edella camorra, piaghe cancrenose da cui si poteva liberare nonsolo con provvedimenti economici, ma con una profonda rifor-ma di carattere culturale e morale della società meridionale34.

Don Luigi Sturzo fu unmeridionalista militante. Unodegli interventi che ebbe riso-nanza nazionale avvenne in occasione dell’ultima assisedell’Opera dei Congressi che si tenne a Bologna nel 1903. Difronte alla persistenza di stereotipi che impediscono una cor-retta conoscenza della realtà meridionale e che “concorrono adeterminare un urto degli animi più disastroso che l’urto degliinteressi”, egli si propone di offrire una analisi “accurata, co-scienziosa, sobria” della questione meridionale come un vita-lissimo problema di vita nazionale” alla cui soluzione anche icattolici dell’alta e media Italia devono partecipare “consenno, solidarietà ed amore fraterno”35.

Sturzo si impegnò per la rivendicazione e la promozio-ne dei diritti dei contadini e degli operai attraverso struttureassociative adeguate, per la difesa della libertà e dell’autono-mia degli enti intermedi, contro il centralismo burocratico,contro l’incarnazione dello Stato totalitario nella dittatura fa-scista, contro lo statalismo del secondo dopoguerra, espres-sioni tutte, anche se con diverse gradazioni, di quello che eglidefinì il “panteismo di stato”.

L’impegno cristiano dilotta per la difesa dei giusti di-ritti degli “umiliati e offesi” dalmodo di produzione capitalisti-co si differenzia, nella concezione sturziana, dal classismo, distampo marxista, la cui lotta di classe nella misura in cui do-vesse prevalere la sua ideologia materialistica e antireligiosa,si tradurrebbe di fatto in “odio di classe”, che non ristabili-rebbe una vera giustizia sociale.

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Meridionalista militante

Impegno cristianoe giustizia sociale

34 Cfr. L. STURZO, La mafia (1900). Dramma in cinque atti, a cura di G. FA-

NELLO MARCUCCI, Istituto Luigi Sturzo, Roma 1985.35 Sull’impegno meridionalista di Sturzo cfr. L. STURZO, Mezzogiorno e clas-se dirigente: scritti sulla questione meridionale dalle prime battaglie politichesiciliane al ritorno dall’esilio, a cura di G. DE ROSA, Ed. Storia e letteratura,Roma 1986; M. PENNISI, Don Luigi Sturzo e il problema Nord-Sud in LaChiesa nel tempo 3 (1987) pp. 103-118.

Il cristianesimo, secondo il prete calatino, senza rinun-ziare ad esprimere un severo giudizio sulla realtà del mondocapitalista e a schierarsi con i più deboli, deve mirare a libe-rare dall’idolo dell’egoismo e dal mito della violenza sia glioppressi come gli oppressori per ristabilire una giustizia so-ciale che trovi nella solidarietà e nell’amore cristiano non soloil suo compimento e la sua pienezza, ma anche il suo fonda-mento e la sua fonte.

La carità, intesa comevirtù teologale per la qualeamiamo Dio sopra ogni cosa e ilnostro prossimo come noi stessi

per amore di Dio, costituisce il principio unificante dell’atti-vità pastorale in campo sociale di don Sturzo, che risente del-l’influsso del magistero di Leone XIII36. La Rerum Novarum siconclude con un solenne richiamo alla carità “signora e regi-na di tutte le virtù”. Il Papa parla della “carità cristiana checompendia in sé tutto il Vangelo” come del “più sicuro anti-todo contro l’orgoglio e l’egoismo”.

Luigi Sturzo sentì come una sua missione quella di in-trodurre la carità nella vita pubblica nella convinzione che lacarità cristiana non può ridursi solo alla beneficenza o all’as-sistenza ma deve essere l’anima della riforma della modernasocietà democratica nelle quale le persone sono chiamate apartecipare responsabilmente alla vita sociale per realizzare il

bene comune. La carità cristia-na, per Sturzo, non può esseredissociata dalla ricerca dellagiustizia la quale è determinata

dall’amore verso prossimo, che a sua volta è generato dall’a-more verso Dio. Da queste premesse Sturzo concepirà la po-litica come dovere morale e atto d’amore. L’amore, considera-to come il cemento che dà coesione e armonia alla vita socia-le, non sopprime per Sturzo la dialettica politica, ma la cor-regge, la eleva e la perfeziona.

Sturzo man mano che si addentrava nella complessarealtà della politica quotidiana incominciava a rendersi contodelle ambiguità latenti in un certo cattolicesimo politico e so-ciale: si rischiava di confondere l’organismo della società colCorpo mistico; di sacralizzare la dialettica fra i partiti e leforze sociali; di passare con eccessiva disinvoltura dall’unità

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La carità: signora e reginadi tutte le virtù

La politica: dovere moralee atto d’amore

36 Cfr. M. PENNISI, Amore e giustizia nell’impegno socio-politico di Luigi Stur-zo, in AA.VV., Sermo Sapientiae; Acireale 1990, pp. 223-240.

religiosa a quella politica; di asservire il messaggio universa-le del cristianesimo ad una politica di parte. Egli, superatol’intransigentismo iniziale, escluderà l’identificazione fra lamissione pastorale della Chiesa e i compiti culturali e politicidel Movimento Democratico Cristiano, eviterà di prendere leencicliche dei Papi come manifesti programmatici di movi-menti particolari all’interno del mondo cattolico, rivendicheràper i cristiani una legittima pluralità di posizioni nelle sceltesociali e politiche, senza imposizioni forzate, falsi unanimi-smi, scomuniche inopportune.

La fede cristiana fu sem-pre il principio animatore del-l’impegno politico di Sturzo,che ebbe sempre presente comefinalità ultima il motto paolino, rilanciato da Pio X, di instau-rare omnia in Christo.

Sturzo basandosi sulla singolare convergenza fra il cri-stianesimo e ciò che è autenticamente umano, invitava tuttii cristiani alla lotta contro tutte le forme di totalitarismo cheandasse oltre una pura difesa degli interessi religiosi:“L’errore moderno – scrisse – è consistito nel separare e con-trapporre umanesimo e cristianesimo: dell’umanesimo si èfatto un’entità divina; della religione cristiana un affare pri-vato, un affare di coscienza o anche una setta, una chiesuo-la di cui si occupano solo i preti e i bigotti. Bisogna ristabili-re l’unione e la sintesi dell’umano e del cristiano; il cristianoè nel mondo secondo i valori religiosi; l’umano deve esserepenetrato di cristianesimo. Ecco perché è un errore combat-tere il nazismo soltanto in nome della religione cristiana.Bisogna contemporaneamente combatterlo in nome dei valo-ri umani contenuti nella libertà integrale e in nome della re-ligione cristiana che regola questi valori e li santifica per deifini più alti”37.

Nel 1947 così si esprimeva in un articolo: “il finalismounico e inderogabile per tutti è il regno di Dio e la sua giu-stizia, che si ricapitola in Cristo Uomo-Dio. La realtà veranon è la natura ma il binomio: natura-soprannatura, delquale l’unione ipostatica in Cristo è il sublime ed infinitoprototipo.

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Umanesimoe cristianesimo

37 L. STURZO, Hitler-Mussolini novelle divinità, in L. STURZO, Miscellanea Lon-dinese, vol. III, Zanichelli, Bologna 1970, p. 209.

Ogni separazione in Cristo dell’uomo da Dio, come ogniseparazione nell’uomo della natura dalla soprannatura, ci facadere nell’irreale; perché non esiste un Cristo solo uomo,come non esiste l’uomo solo natura. L’umanità di Cristo è as-sunta dalla divinità, la natura dell’uomo è elevata dalla gra-zia. [...] L’umanità fin dal primo inizio dell’elevazione allagrazia con Adamo, vive nell’atmosfera del soprannaturale”38.Nello stesso articolo Sturzo rileva la riduzione del cristiane-simo a naturalismo e “l’affannarsi di apologeti maldestri e dicristianelli annacquati a dimostrare che, nel campo naturale,

individuale e sociale, il benes-sere viene con Cristo e perCristo, mentre egli non promisetale benessere né come finalità

della fede, né come concomitanza dell’agire cristiano; anzichiamò beati i poveri in spirito, coloro che piangono, coloroche soffrono persecuzioni per la giustizia; comandò di pren-dere la croce a segnale; disse che mandava i suoi come agnel-li in mezzo ai lupi; affermò che sarebbero stati odiati comeodiato era stato lui stesso. E nel campo delle previsioni poli-tico-sociali, previde guerre, rivolte, disastri e la lotta finaledell’anticristo”39.

La concezione sturziana, che fa consistere il nucleo cen-trale dell’impegno socio-politico nell’amore solidale stretta-mente collegato con la sete per giustizia e con la difesa dellalibertà ha anticipato in questo campo le conclusioni del ma-gistero ecclesiastico più recente.

Si può allora comprendere come il card. Camillo Ruini,in occasione dell’apertura del processo di beatificazione il 3maggio 2002 abbia affermato che don Luigi Sturzo “ha consi-derato suo dovere esercitare il ministero sacerdotale in uncampo diverso da quelli intesi comunemente, ma non menoimportante, ossia nel campo della politica per ricondurla allasua finalità naturale di carità, di servizio, onde, piuttosto glicompete il titolo di apostolo della politica, intesa appuntocome carità ed azione apostolica”40.

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38 ID. Cristo Re e l’apostasia dal Cristo, in Problemi spirituali del nostro tem-po, Zanichelli, Bologna 1961, p. 163.39 Ivi, pp.162-163.40 Card. C. RUINI, Sempre obbediente alla Chiesa e al servizio del bene comu-ne, in Rinascimento popolare 7 (2002) n. 3 maggio-giugno, p. 5.

Impegno socio-politico:amore solidale, giustizia, libertà

Il Santo Padre GiovanniPaolo II nel suo discorsoall’Università di Palermo du-rante la sua prima visita inSicilia aveva definito don Luigi Sturzo “infaticabile promoto-re del messaggio sociale cristiano ed appassionato difensoredelle libertà civili”41 e lo aveva indicato, in un discorso ai ve-scovi siciliani del 1981, come modello ai sacerdoti nel “loroapostolato di evangelizzazione e di promozione umana”42.

La “carità politica”, che don Luigi Sturzo non solo hateorizzato ma ha praticato in tutta la sua esistenza sacerdota-le, si rivela di grande attualità, in un momento in cui assi-stiamo ad un disamore nei confronti della partecipazione po-litica da parte soprattutto delle giovani generazioni e ad unacrisi dello spirito di solidarietà fra individui, classi e nazioni.Il prendere sul serio il nucleo fondamentale del pensiero didon Luigi Sturzo come di altri esponenti del cattolicesimo so-ciale avrebbe forse evitato rigurgiti integralistici, illusoriefughe secolariste, ubriacature politiche, spiritualismi non sisa fino a che punto ingenui nel demonizzare la politica. L’im-portanza del contributo di Sturzo al problema del rapporto fracarità cristiana ed impegno politico non sta tanto nel fatto cheegli abbia trovato delle formule magiche adatte ad ogni situa-zione e ad ogni ambiente e capaci di dipanare come d’incan-to tutta una serie di questioni complesse, ma nell’aver indica-to con la sua vita e con i suoi scritti una serie di orientamen-ti, che rimandano ad un impegno creativo e responsabile perrealizzare una prassi politica animata dalla fede, vissuta c-ome esigenza intrinseca dell’amore cristiano, in spirito di ser-vizio e di dialogo con gli uomini del nostro tempo.

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Sturzo:modello di apostolato

41 L’Osservatore Romano, 22-23 novembre 1982, p. 3.42 L’Osservatore Romano, 12 dicembre 1981, p. 1.

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C hiesa italiana e Mezzogiorno:sviluppo nella solidarietàProf. ANTONIO LA SPINAOrdinario di Sociologia Università di Palermo

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Il motivo per cui sono statochiamato – e ringrazio gli orga-nizzatori dell’invito, per melusinghiero – è, immagino,connesso al fatto che le po-litiche per il Mezzogiornosono uno dei miei interessi diricerca. D’altro canto, questotema per me – che vivo in una re-gione del Sud – non ha rilievo soltantocome oggetto di studio, ma anche come esperienza di vita vis-suta, alla quale guardo, tanto come cittadino quanto come per-sona. Le cose che dirò vanno riconnesse sia a tale esperienzadi vita che alle ricerche svolte nella veste di scienziato sociale.

Per altro verso, sono molto meno esperto di tematichepastorali, e ciò non perché su questo argomento la sociologianon abbia nulla da dire, quanto piuttosto perché non si trat-ta di un campo della mia disciplina che io possa affermare dipadroneggiare bene. Esiste in effetti una branca della sociolo-gia, denominata sociologia delle religione, che ha dedicato unnumero non enorme ma nondimeno significativo di contribu-ti al modo in cui la religione è vissuta nel Mezzogiorno, pro-dotti da alcuni autori che citerò, via, via nell’esposizione. Inparticolare l’opera più significativa è un libro uscito nel 1998,che si intitola appunto La religiosità nel Mezzogiorno (Pizzutiet al., 1998). Vi sono poi diverse altre pubblicazioni che con-tengono i risultati di indagini sulla religiosità, ma quasi tutteriguardano una dimensione nazionale.

Intenderei organizzare la mia esposizione su tre filoni.In primo luogo vorrei accennare ai risultati di tali studi – so-prattutto quelli recenti – dedicati alle forme di religiosità ri-scontrabili all’interno del Mezzogiorno. In effetti, la domandapiù rilevante da porre è se la religiosità nel Mezzogiorno si di-stingua rispetto al medesimo fenomeno nel resto d’Italia e –nel caso in cui la risposta sia affermativa – così come è statanei primi studi, quale sia la sua specificità.

L’altro nucleo di considerazioni che vorrei esporre, ri-guarda invece il Mezzogiorno in sé e per sé, considerato comearea in ritardo di sviluppo. Sintetizzerò alcune scuole di pen-siero, almeno un paio, circa la situazione attuale del Mezzo-giorno e le possibili linee d’intervento. In effetti ci sono duegrandi orientamenti che dicono pressappoco l’uno il contrario

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1.Premessa

dell’altro, ed entrambi trovano un riconoscimento, nel sensoche autori, esponenti dell’uno o dell’altro orientamento pub-blicano libri presso case editrici nazionali esponendo i propripunti di vista, e vengono consultati e ascoltati, più o meno,sul “che fare” rispetto al Mezzogiorno.

In realtà alle spalle di questo dissenso così radicale nonc’è soltanto una mera descrizione della situazione attuale, maci sono anche delle teorie, delle spiegazioni, delle risposte adomande del genere: perché il Mezzogiorno è nella condizio-ne in cui è? Perché il Mezzogiorno non si sviluppa? Ovvero,perché alcune parti di esso si sviluppano e altre no? Anchequesto è un tema gigantesco, che non possiamo affrontare og-gi nella sua complessità. Tuttavia, qualche spunto su di essopossiamo fornirlo, anche perché si tratta di aspetti che ven-gono puntualmente richiamati nei documenti ufficiali dellaCEI “Chiesa italiana e Mezzogiorno: sviluppo nella solida-rietà” (1989) ed “Educare alla legalità” (1991). In effetti, daquando quei documenti furono divulgati ad oggi si è avuta,nel 1992, l’abolizione dell’intervento straordinario nelMezzogiorno. Entrambi i documenti sono di poco precedentia tale abolizione, e si collocano nella fase in cui si discutevaancora di cosa fare di questo intervento straordinario, se mo-dificarlo ancora, come già era avvenuto, o abolirlo, come poiavvenne. Nel 1986 esso era già stato in realtà modificatoprofondamente, con l’adozione della disastrosa “legge 64”.Era stato così, ad esempio, cambiato il nome alla Cassa per ilMezzogiorno, trasformandola in Agensud (una cosa molto ita-liana). Incombeva un referendum abrogativo, promosso da ungruppo di referendari il cui leader era Massimo Saverio Gian-nini, un esponente della cultura riformista, insigne studiosodi diritto amministrativo. Per evitare tale referendum, in tuttafretta, con un decreto-legge poi convertito nella “legge 488”del 1992, l’intervento straordinario veniva abolito, per esseresostituito con strumenti “ordinari” (vale a dire in linea teori-ca non differenziati a seconda delle aree del paese, ma in ef-fetti caratterizzati da intensità di aiuto e concentrazioni piùelevate con riguardo alle regioni meridionali). Si tratta quindidi un periodo molto interessante. Dei due documenti soprat-tutto quello sull’educazione alla legalità risponde anche adaltri tipi di eventi e sollecitazioni, connessi all’escalation del-l’attacco allo Stato condotto sempre in quegli anni dalla cri-minalità organizzata di stampo mafioso. Anche per questa ra-

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gione, non è casuale che quei documenti siano stati esitatiproprio in quel momento.

Nella terza sezione offrirò alcune riflessioni su quelloche potrebbe essere una strategia d’azione per il Mezzogiornodal punto di vista della Chiesa Cattolica italiana. Questo è ov-viamente, tra tutti e tre, l’argomento su cui sono meno ferra-to: mi sento infatti di parlarne più come un semplice cristianoche come un esperto.

Certamente ne sapete molto di più voi di me, sicché lotratto sia perché è quello che centra di più il tema assegnato-mi, sia per suscitare un confronto dal quale io possa appren-dere.

Uno dei primi elementi che la sociologia delle religioniha sottolineato sulla religiosità meridionale è stato, sicura-mente, che tale religiosità era di tipo popolare. Ciò nel dupli-ce senso di fortemente radicata negli strati meno abbienti delpopolo, e caratterizzata, in generale, anche nella pratica deiceti più elevati, da un approccio popolaresco. Tale caratteriz-zazione popolare costituirebbe pertanto il “basso continuo”(ground bass) della religiosità del Mezzogiorno.

L’idea del basso continuo (Bellah, 1974; D’Agostino, 1984,1988), che è presente nel sottofondo di una composizione mu-sicale anche nei momenti in cui non lo sentiamo, serve a sotto-lineare appunto che la componente popolare si riscontrerebbenon soltanto tra le persone meno istruite e più anziane, maanche presso strati ben più vasti della popolazione.

Ne segue che ciò che con-traddistingue il rapporto con lareligione è minore, secondo taliprime descrizioni, con la Chiesacome istituzione, mentre è maggiore con alcuni consuetudinie alcuni punti di riferimento: il culto dei Santi; i voti per im-petrare l’ottenimento di una grazia; i pellegrinaggi; la parteci-pazione a certi riti o processioni collettivi (tra cui battesimi,prime comunioni, cresime, matrimoni, funerali, festività nata-lizie e pasquali). Molti di questi elementi hanno peraltro ache fare con una prospettiva comunitaria, cioè con l’orienta-mento a vivere la religione attraverso le ricorrenze, le congre-ghe, le norme sociali, le feste e i festini (come quello di Santa

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2.La religiosità nel

Mezzogiorno

CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Religiosità popolaree rapporto con la Chiesa

Rosalia a Palermo, in cui tutt’oggi i palermitani si ammassa-no a decine di migliaia lungo tutto il percorso del carro re-cante la Santa).

Secondo questa concezione della religiosità meridionale,quindi, sia le classi popolari sia quelle più altolocate la vi-vrebbero soprattutto nelle dimensioni della comunità e dell’a-desione affettiva, relegando in secondo piano il rapporto conla Chiesa. Ma a queste dimensioni si assocerebbero anche al-cuni aspetti di carattere genuinamente materialistico. Adesempio: perché si dovrebbe essere devoti in modo speciale adun dato Santo? Per potersi rivolgere a lui, se mai dovesse es-servene la necessità, affinché egli interceda per l’ottenimentodi una grazia. Perché si dovrebbe andare in pellegrinaggio?Per “ricambiare” una grazia ricevuta o per rafforzare la richie-sta di una nuova grazia. Perché, in generale, instaurare o man-tenere un certo rapporto con certe figure religiose? Per ragionidi tipo particolaristico o, addirittura, materialistico.

Questo tipo di religiosità si accoppia poi alla superstizio-ne, cioè a una serie di credenze e condotte che, pur non essen-do perfettamente in linea con la dottrina ufficiale della Chiesa,nelle percezioni e nella mentalità del “popolo” che coltiva ilsentimento religioso, sono vissute come appartenenti, o quan-

to meno contigue, alla sferastrettamente religiosa. Per unverso, quindi, il rapporto con lareligione è talora caratterizzato

da una razionalità utilitaristica, materialistica (il che a primavista appare un controsenso) e per altro verso la dimensioneesperienziale del sacro, del trascendente, del soprannaturaleviene vissuta in modo anche intenso, ma attraverso pratiche efrequentazioni non approvate dalla Chiesa, come ad esempio leritualità della superstizione o al limite la magia.

Tutto ciò è stato sottolineato prima da antropologi ed et-nografi, e più di recente, in uno studio che a suo tempo sol-levò un certo scalpore, dal sociologo statunitense RobertBellah, il quale vedeva come caratteristica centrale di unacerta forma di religiosità appunto il particolarismo.

Questa analisi molto influenzata da un’altra ancor piùnota teoria, dovuta ad un altro studioso nordamericano,Edward C. Banfield, nella sua opera Le basi morali di una so-cietà arretrata (1958), secondo cui il Mezzogiorno sarebbestato caratterizzato da un atteggiamento ben radicato nellacultura dei suoi abitanti, da lui etichettato come “familismo

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Sentimento religiosoe particolarismo

amorale”. Nei primi anni ’50, in effetti, Banfield visse per dueanni in una cittadina della Basilicata, da lui denominata conil nome di fantasia di Montegrano, in cui riscontrò un diffusoatteggiamento in base al quale l’interesse fondamentale edesclusivo che il montegranese tipico perseguiva era il propriointeresse individuale e quello della sua ristretta cerchia fami-liare, aspettandosi che anche tutti gli altri agissero nello stes-so modo. Se i fini ultimi dell’azione sono ripiegati sul singoloe sulla sua famiglia, vi sarà assai poca attenzione per l’impe-gno civico, per la tutela dei beni collettivi, per un funziona-mento imparziale dell’amministrazione pubblica, e anche perla partecipazione ad attività associative e alla vita della co-munità religiosa. Gli interessicollettivi, siano essi il bene del-la Patria, o più riduttivamente ilbeneficio comune derivante dalfar funzionare un acquedotto, o il servizio dei trasporti di unpiccolo centro, vengono sistematicamente trascurati.

E in effetti ciò è proprio quanto riscontrava Banfield(circa mezzo secolo fa) nella sua ricerca basata sull’osserva-zione partecipante. C’era, secondo lui, una chiara e saldaconnessione tra il “familismo amorale”, e il fatto che le per-sone al Sud erano di norma dei familisti, e il mancato svilup-po del Mezzogiorno.

È stato obiettato a Banfield che il meridionale non èsempre e soltanto un familista. Vi sono casi in cui il gruppo diriferimento non coincide con la famiglia, ma piuttosto con ilclan (non necessariamente mafioso), la cerchia di amici, ilgruppo di colleghi, i compaesani, o si riferisce a rapporti ditipo localistico, o di tipo patrono/cliente. In questi casi nonabbiamo in senso stretto un familismo, ma ciò non muta dimolto i termini della questione: i risultati che si punta ad ot-tenere, i benefici che si vogliono conseguire saranno comun-que riferiti a gruppi molto ristretti. Di conseguenza, nel per-seguire esclusivamente il proprio tornaconto, o comunque in-teressi molto circoscritti e specifici, è possibile (e anzi moltospesso è quello che avviene) che s’impedisca il raggiungimen-to, e prima ancora la percezione, di un interesse collettivo.

Più che di familismo,quindi, è opportuno parlare diparticolarismo. In un contestodel genere le regole universalivalgono per i nemici e gli sprovveduti, ma in genere non si ap-

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Familismo e interessecollettivo

Regole universalie relazioni particolariste

plicano, o comunque possono essere distorte se vi è un sog-getto sufficientemente influente che lo richiede. Ciò che contae che impera sono allora relazioni appunto di tipo particola-ristico. In specie, le risorse per la sussistenza o anche per l’a-scesa sociale verrebbero ottenute sulla base di rapporti dilealtà personale diretti con i decisori politici, o con mediatoriin grado di intervenire su di essi. Si parla infatti di un rap-porto tra “patroni” e “clienti”, in modo anche terminologica-mente affine a quello usato per designare le richieste rivolteal Santo patrono da alcuni suoi non disinteressati devoti.

Immersa in un contesto premoderno e particolaristico,quale appariva tempo addietro il Sud d’Italia a questi osserva-tori statunitensi (che peraltro menzionavano espressamentequale termine di paragone e modello alternativo la religiositàprotestante diffusa nel New England – Banfield – o una certaidea di “religione civile” anch’essa di marca anglosassone –

Bellah), anche la religiosità nelMezzogiorno poteva e dovevadunque essere a propria voltaparticolaristica. La concezione

della quotidianità, pur intrisa di riferimenti religiosi, ha una ac-centuazione materialistica. Inoltre, il cristiano meridionaletende a nutrire nei confronti del prossimo un rapporto di diffi-denza, il che è un tratto tipico del contesto, ed è anche un pro-blema che una religiosità particolaristica e materialista nonsolo non affronta, ma addirittura contribuisce ad aggravare.Quando si dice che in generale manca la fiducia reciproca, nonci si riferisce alla fiducia personalizzata (ad esempio: mi fido dimia madre, o mi fido della persona che ho conosciuto fin daquando ero bambino, o mi fido del mio compagno di clan),bensì alla fiducia impersonale, tra estranei, che è la chiave delfunzionamento di una società moderna. Ci si fida l’uno dell’al-tro non perché si è ingenui, faciloni o idealisti, bensì quando cisi sente tutti vincolati ad obbedire a regole universalistiche chetutelano beni collettivi (come ad esempio l’imparzialità e l’effi-cienza dell’amministrazione o della giustizia, la concorrenzia-lità di un mercato o l’affidabilità delle contrattazioni, beni pub-blici come un’infrastruttura, l’ambiente, il paesaggio, e cosìvia). Una religiosità particolaristica valorizza appartenenze elealtà a loro volta particolaristiche, come quelle verso la fami-glia o le cerchie ristrette di cui si è detto, e indebolisce, per con-verso, l’identificazione e l’impegno verso l’etica pubblica e i va-lori della “liberaldemocrazia”.

60 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Identificazione e impegnoverso l’etica pubblica

Ho notato che in una certatradizione sociologica è presenteuna radice protestante, che puòanche risolversi nell’adesione a veri e propri pregiudizi quandosi tratta di analizzare il caso italiano. In effetti, gli autori chehanno sottolineato il rapporto tra un certo tipo di religione e lamodernità, a prescindere dalla situazione italiana, molto spes-so erano essi stessi di ascendenza protestante. Ricordo per tuttiil famosissimo saggio di Max Weber, L’etica protestante e lo spi-rito del capitalismo (1904), ove si afferma che esiste non sol-tanto un rapporto tra riforma protestante e modernità, tema diper sé degno di approfondimento, ma addirittura una connes-sione tra protestantesimo (nella versione calvinista) e accumu-lazione capitalistica, attraverso una ascesi intramondana chespinge l’imprenditore a rinunciare al consumo opulento e allavita comoda e ad assumersi il rischio d’impresa.

Sempre Max Weber (1906), oltre a studiare il ruolo delcalvinismo nella creazione del capitalismo in Europa, dedicòuno scritto alle sette protestanti negli Stati Uniti, che erano dipiccole dimensioni e molto disperse sul territorio. Nel FarWest, in particolare, ma non soltanto lì, era pressoché assen-te una autorità pubblica che mantenesse l’ordine e garantisseil rispetto degli accordi e la tutela del diritto di proprietà. Diconseguenza mancava appunto la fiducia. Allora, l’ammissio-ne (sulla base di un reclutamento selettivo, esigente e rigoro-so) ad una setta protestante, ad esempio quella dei battisti odei metodisti, serviva anche a garantire l’affidabilità, ponia-mo, di un commerciante: se quella persona avesse violato unpatto, se non avesse mantenutoun accordo, non soltanto avreb-be fatto una brutta figura con lasua controparte, ma sarebbe di-ventato un reietto anche dal punto di vista della comunità re-ligiosa cui apparteneva. A differenza di una Chiesa (definitada Weber come “è un istituto per dispensare grazia”, che però“non dà alcuna indicazione delle qualità etiche dei membri”),una setta “è una congregazione volontaria di individui, quali-ficati esclusivamente (in teoria) per le proprie idee etico-reli-giose. L’adesione è volontaria, condizionata unicamente dallaconferma delle qualità religiose” (ivi, pp. 64-5). “Per essereaccettato nella cerchia della comunità, il membro di una setta[...] doveva possedere delle qualità determinate, la cui pre-senza [...] era di notevole importanza per l’evoluzione del mo-

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Pregiudizi nell’analisi

Distinzionetra Chiesa e setta

derno capitalismo razionale. Il membro, per affermarsi in talecerchia, doveva documentare costantemente questi suoi re-quisiti, che venivano così coltivati in lui, in modo permanen-te e continuo” (ivi, p. 95).

Un significativo filone del pensiero sociologico ha quin-di sottolineato i rapporti fra certe configurazioni della religio-sità e delle comunità religiose, da un lato, e dall’altro, lo svi-luppo socio-economico e la modernizzazione in genere. La fi-ducia, in particolare, è necessaria per rendere possibili i rap-porti di scambio, le attività produttive remunerative per con-sentire lo sviluppo, e ciò può essere favorito o viceversa osta-colato da certe forme di religiosità.

Due osservazioni. La prima, già sollevata, è che può es-servi, nelle analisi di certi studiosi provenienti da aree anglo-sassoni o dall’Europa settentrionale, un preconcetto sfavorevo-le al cattolicesimo, che li indurrà ad accentuare pregiudizial-mente gli effetti negativi che questo potrebbe avere su altresfere della vita sociale, come quella civile ed economica. D’altrocanto, però, restando all’Italia, casi come quelli della Lom-bardia, e poi del Veneto o delle Marche (ove ha prevalso tral’altro la piccola e media impresa a base familiare) e, uscendodall’Italia, casi come l’Irlanda, la Spagna o il Portogallo stannoa dimostrare che a certe condizioni possa esservi una repenti-na modernizzazione e un impetuoso sviluppo senza che siad’ostacolo una forte presenza cattolica. Di conseguenza, se sivogliono analizzare seriamente i casi di sviluppo bloccato, cuiappartiene il Mezzogiorno, la religione non è che uno dei tas-selli di cui dare conto. Nondimeno, è un tassello importante.

La seconda osservazione èche il quadro fin qui abbozzatosembra ormai datato. Caratteriz-zare oggi la religiosità dei meri-

dionali soltanto in termini di religione popolare ci fornisceun’immagine fedele della realtà? Cipriani (1988) ha sostenutoche nel Mezzogiorno si riscontra una religiosità diffusa, cioè unatteggiamento, quantitativamente prevalente, per cui da un latoci si dichiara genericamente credenti e cattolici, mentre dall’al-tro lato sono relativamente deboli il sentimento di appartenen-za alla Chiesa, e soprattutto la concreta osservanza dei suoidettami, delle prescrizioni specifiche della morale cristiana, chespesso non si traducono in comportamenti conseguenti. Quindinella vita quotidiana, nel lavoro, nei rapporti con la dimensio-ne pubblica e politica, avremo condotte non coerenti con l’ade-sione espressa alla Chiesa cattolica. Ci si sente religiosi, anzi

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Mezzogiornoe religiosità diffusa

aderenti ad una particolare religione, e lo si dichiara, ma poi sivive la propria quotidianità in modo disperso e incoerente. Nonc’è una corrispondenza tra l’adesione al messaggio cattolico e ilcomportamento concreto. Ciò si traduce anche in una praticareligiosa relativamente debole eintermittente, in alcune incertez-ze nelle credenze e nella cono-scenza delle regole, in una mora-le quotidiana permissiva, in un ossequio ai valori religiosi chepuò ridursi alla dimensione esteriore, talvolta anche nella me-scolanza con altre forme di religiosità. Permarrebbe, secondoCipriani, anche un certo attaccamento a vissuti e tradizioni ti-pici della religiosità popolare. Tramite il concetto di religiositàdiffusa, pertanto, trova in qualche modo conferma la proble-maticità del rapporto tra il vissuto religioso e i valori civili.

Dopo una vasta ricerca sulla religiosità in Italia (Cesareoet al., 1995), realizzata dall’Università Cattolica con il patroci-nio della Cei, un gruppo di studiosi facenti capo Università ecentri di ricerca campani, nonché alla Pontificia FacoltàTeologica dell’Italia Meridionale, ha svolto, su un campione di1500 intervistati, la ricerca empirica cui si è già accennatoprima (Pizzuti et al., 1998). Pizzuti, in particolare (ivi, p. 22),nel presentare la ricerca esordisce osservando che “assumere ladistinzione tra religione e fede come una dicotomia netta, asse-gnando alla seconda un carattere nettamente positivo e conno-tando la seconda come sinonimo di costruzione sociale eculturale, frutto dell’orgoglio umano e della sete di potere e dicontrollo sociale, ovvero misto di magia e paganesimo, appareun’operazione intellettualmentefuorviante e pericolosa, non solodal punto di vista della teologia,ma anche per la stessa teoria so-ciologica”. La tesi di fondo di questo importante volume è che,lungi dall’essere immobile, fissato allo stereotipo della religio-sità popolaresca e materialista (ammettendo per il momentoche quello fosse, in passato, un modo non fuorviante di descri-vere la realtà in oggetto), il Mezzogiorno presenta, nella sferadei fenomeni religiosi, un notevole dinamismo. Tra l’altro, lostereotipo della religiosità popolare, ricorrente nella letteraturaantropologica ed etnografica, non era stato in passato sottopo-sto ad un controllo con riguardo alla dimensione quantitativadella sua presenza concreta. Una religiosità colorita e pittore-sca è certo più visibile e resta più impressa nella memoria, manon è detto che fosse quella effettivamente prevalente.

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Rapporto tra religiosità e valori civili

Dinamismodei fenomeni religiosi

Secondo Martelli, “l’ipote-si generale è che si vada atte-nuando la specificità religiosadi questa grande area territoria-

le” (ivi, p. 98). Inoltre, quella che abbiamo definito, conCipriani, religiosità diffusa in realtà sarebbe meno presente diquanto ci si potrebbe attendere. La nuova ricerca afferma (pp.385 ss.) che nel 33,3% si riscontra una “religiosità integratanella religione-di-chiesa”, cioè una consapevole adesione aiprincipali precetti della Chiesa cattolica. Nel 15,7% si riscon-tra invece una “religiosità riflessiva”, che si distacca più o me-no sensibilmente dall’insegnamento ecclesiale. Un pò più del40% dei casi rientrano nella religiosità diffusa. In definitiva,nel Mezzogiorno, rispetto non solo all’Italia ma anche a tuttoil resto d’Europa, secondo questa ricerca si avrebbe la più altaincidenza di religiosità di Chiesa. Ad uno sguardo d’insieme,si ha la massima adesione alla religione cattolica (addiritturail 91,7%, cioè oltre 8 punti percentuali in più rispetto al datonazionale) e massimo consenso verso la Chiesa cattolica (ivi,pp. 198 ss., 287 ss.). Meno frequente che nel resto d’Italia,però, è la partecipazione a gruppi e associazioni volontarie.

Venendo al supposto radicamento della religiosità po-polare, si riscontrano dati che segnano alcune differenze dalresto d’Italia, che peraltro non sembrano decisive (ivi, p. 193,238 ss.). Ad esempio, il 54% (+11,7 rispetto al dato naziona-le) ha partecipato una volta o più a processioni; il 21% a pel-legrinaggi (+6,2). Il 22,2% ha fatto un voto (+ 4,4). Soltantol’11% ha affermato di pregare per chiedere una grazia (+1,3,cioè una differenza minima, rispetto al dato nazionale; ivi, p.244). Sembrerebbe quindi che la religiosità materialistica,ammesso che sia stata veramente molto diffusa in passato,adesso sia stata lasciata alle spalle.

Il capitolo sulle trasformazioni etiche e gli orientamentimorali, scritto da Giacomo Di Gennaro, evidenzia peraltrocome le violazioni di norme morali percepite come più gravisiano ancora (e ciò in misura differente rispetto al dato na-zionale, fermo restando che anche nel resto d’Italia l’eticapubblica non è tra le prime preoccupazioni) quelle che hannoeffetti sulla dimensione privata. «Nei meridionali [...] la vi-sione del danno che si arreca “agli altri” si attenua [...] ri-spetto agli italiani: essi disapprovano l’inquinamento am-bientale, l’evasione fiscale, l’uso furbesco dei mezzi di tra-sporto pubblico [...] ma non ne condividono la gravità» (ivi,

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Religione di ChiesaReligiosità riflessivaReligiosità diffusa

p. 271 ss.). L’idea di una persistente diffusione di orientamen-to familistico e particolaristico (probabilmente associato allareligione diffusa, ma non necessariamente disgiunto dallealtre forme di religiosità), quindi, sembra trovare conferma.

Il documento del 1989 Chiesa italiana e Mezzogiornoesordisce dichiarando l’intenzione di “riflettere, alla luce del-l’insegnamento del Vangelo e con spirito costruttivo di spe-ranza, sulla questione meridionale come problema di tutto ilPaese, che impegna l’intera Chiesa italiana nell’ambito dellasua missione”.

Un’affermazione del genere, apparentemente del tuttocondivisibile, con il passare degli anni è diventata controver-tibile. Il Mezzogiorno, dicono oggi svariati autori, non è piùun’area unitaria. Ad esempio, l’Abruzzo e il Molise, ai finidelle politiche di coesione comunitarie destinate alle aree inritardo di sviluppo, non rientrano più nel cosiddetto Obiettivo1 (cioè tra le aree caratterizzate dal ritardo più serio, così co-me tradizionalmente era il Mezzogiorno). Anche la Basilicatae la Sardegna si accingono ad uscire dall’Obiettivo 1. Certa-mente sono un pò indietro rispetto alla media comunitaria,ma non più a sufficienza da es-sere ritenute aree arretrate me-ritevoli di intervento. Non c’èpiù, dunque, almeno sotto questo profilo, uno solo Mezzo-giorno. Ce ne sono diversi.

Nel documento del 1989, in effetti, si riconosce che “ap-pare più appropriato parlare di Mezzogiorni, ossia di aree dif-ferenziate – talvolta all’interno delle stesse regioni – di svilup-po come di emarginazione”. In quell’epoca era ancora in attol’intervento straordinario, e si parlava assai poco, nel nostropaese, di politiche comunitarie, ivi compreso l’Obiettivo 1 (perquanto risalga proprio al 1989 l’avvio del primo Quadro co-munitario di sostegno). Il Mezzogiorno, si diceva già in queglianni, è come una pelle di leopardo, in cui ci sono le macchie,che corrispondevano ad alcune aree più circoscritte, dinami-che e sviluppate, e il resto, che restava meno sviluppato.

Oggi a maggior ragione si deve parlare di svariati Mez-zogiorni: quello dei distretti industriali, che si riscontrano inPuglia, in Campania, in Basilicata, ma poco o nulla in Siciliao in Calabria; un Mezzogiorno delle aree metropolitane; e an-cora un Mezzogiorno che resta arretrato.

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3.La situazione

attualedel Mezzogiorno

CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Quanti mezzogiorni?

Detto questo, qual è la so-luzione? Un’alternativa radicaleè quella tra intervento e asten-sione dall’intervento. Se ci si

astiene dall’intervento, allora bisogna coerentemente richiede-re sia l’abolizione degli interventi da parte dello Stato e dellevarie regioni meridionali, sia l’uscita immediata dall’Obiettivo1 delle quattro regioni che ancora vi restano (Sicilia, Calabria,Campania, Puglia). In un suo recente pamphlet, l’economistapugliese Viesti (2003) ha sostenuto che bisogna “abolire ilMezzogiorno”, non nel senso di distruggerlo fisicamente, mapiuttosto nel senso di superarlo come categoria concettuale, ri-nunciando a politiche che si rivolgano ad esso trattandolocome un oggetto di cura in qualche modo specifica. In questomodo, sarà possibile lasciarsi alle spalle un atavico complessodi inferiorità, e finalmente cominciare a creare uno sviluppocapace di sostenersi da solo. Coerentemente, la conclusioneche si dovrebbe trarre da una tesi del genere è che occorre ap-punto astenersi da tutti gli interventi, ivi compresi quelli co-munitari. Ma non è questa la posizione di Viesti e di altri au-tori ai quali egli può essere accostato.

Tutt’ora in Italia la gran parte di coloro che si occupanodell’argomento aderiscono, con sfumature variegate, all’ideache lo sviluppo debba essere locale ed endogeno, cioè uno svi-luppo che faccia perno soprattutto sulle forze già presenti suun determinato territorio. All’interno dei sistemi locali ci sa-

ranno imprenditori, partner (sin-dacati, camere di commercio,associazionismo religioso enon), esponenti della politica e

delle amministrazioni, tutto su scala locale. Promuovendo(attraverso interventi pubblici cui non si intende affatto ri-nunciare) la cooperazione tra tali attori locali, si dovrebberompere la trappola del sottosviluppo. Qual è la traduzionepiù naturale di questo tipo di approccio? I patti territoriali, ein genere la programmazione negoziata: appunto uno stru-mento tramite il quale si mettono insieme certi soggetti; sog-getti che dovrebbero ideare certi progetti; progetti che, assem-blati in modo coerente, ottengono il finanziamento dal centro;si attivano rapporti di collaborazione; la popolazione comin-cia a sperimentare i vantaggi della fiducia; tutto va meglio e ilsottosviluppo viene gradualmente abbandonato. Se tutto ciòfunzionasse saremmo in un mondo molto bello. Ma purtroppo

66 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Abolizionedel Mezzogiorno

Come rompere la trappoladel sottosviluppo?

raramente funziona. Del resto, se veramente i sistemi localifossero in grado di camminare con le proprie gambe, perchénon dovrebbero esserci già riusciti, anche senza bisogno deipatti territoriali? Dovremmo in effetti trovare già lì, sul posto,delle forze che si sono attivate per creare nuove iniziative ediffondere lo sviluppo, così che vi sia soltanto bisogno di unincentivo estremamente ridotto, una piccola sollecitazione.

Ma nella maggior parte deicasi le cose non stanno affattocosì: o le forze imprenditorialilocali sane e innovative non cisono, oppure, quando ci sono, l’incentivazione prende altre vie.In genere, interventi siffatti vengono gestiti soprattutto dai sin-daci, e con logiche di creazione del consenso e distribuzioneparticolaristica delle risorse, riconfermando, in effetti, la tradi-zione di politiche di intervento rivelatesi da tempo fallimentari.

Al riguardo riscontro una quasi totale sintonia con quan-to si legge nel documento Cei del 1989, al punto 12: “L’esserestato il Mezzogiorno più oggetto che soggetto del proprio svi-luppo, e il peso assunto dai rapporti di potere politico, hannofavorito l’instaurarsi di rapporti di dipendenza verticale versole istituzioni, con una crisi di sviluppo della società civile edelle autonomie locali [...] La funzione della mediazione poli-tica, a livello locale e nazionale, ha finito per assumere un’in-cidenza sociale di straordinario rilievo, generando una rete dipiccolo e grande clientelismo, che misconosce i diritti sociali eumilia i più deboli. L’ostacoloforse principale alla crescita au-topropulsiva del Mezzogiornoviene quindi proprio dal suo in-terno e risiede nel peso eccessivo dei rapporti di potere politi-co, lungo una linea, che nel Meridione può dirsi di continuitàstorica. I gruppi di potere locali si presentano verso il centrocome garanti del consenso, e verso la base come imprescindi-bili trasmettitori di risorse, più o meno clientelari, più o menosoggette all’arbitrio, all’illegalità, al controllo violento”.

Una prospettiva – differente da quella dello sviluppo en-dogeno – nella quale personalmente mi riconosco (La Spina,2003), parte dall’assunto secondo cui se il Mezzogiorno nondecolla, ovvero – guardando non all’intero Mezzogiorno,bensì ai singoli sistemi locali – se l’area del palermitano, delnisseno, del reggino o della Locride non si sviluppano, ciò si-gnifica che è presente in loco un qualche impedimento allo

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Politiche d’interventofallimentari

Ostacolo alla crescitaautopropulsiva

sviluppo, che va individuato e rimosso. Il blocco dello svilup-po può dipendere dall’assenza di certe risorse locali (di voltain volta i capitali, i macchinari, le professionalità, l’organiz-zazione, la reputazione, e così via), che allora dovranno esse-re immesse ab externo, ovvero dal fatto che le attività produt-tive dipendono in vari modi dal sistema politico-amministra-tivo, che ha tutto l’interesse a mantenere tale situazione aproprio vantaggio. Una ricetta di intervento che esalti il ruolodel ceto politico-amministrativo locale, pertanto, da questopunto di vista sarà viziata in radice. Sarà viceversa necessa-rio azionare delle leve di cambiamento esogene per rompere latrappola del sottosviluppo.

Ricapitolando, l’idea secondo cui esistono tanti Mezzo-giorni secondo me non può essere confutata. Ma perché esi-stono tanti Mezzogiorni? In effetti è normale che sia così inun’area tanto vasta. Alcuni settori produttivi in certi momen-ti tirano un po’ più di altri; alcune imprese hanno più di altriuna leadership dinamica; alcuni territori presentano dei van-

taggi competitivi specifici; ecosì via. Da ciò tuttavia non de-riva necessariamente l’indica-zione secondo cui l’azione vada

pressoché esclusivamente modellata sulle specificità locali.La triste conseguenza di una filosofia del genere potrà essereche queste specificità locali (in tutti i sensi del concetto)avranno la meglio, e lo sviluppo non ci sarà.

Questa giornata della vostra iniziativa è dedicata alla fi-gura di Don Luigi Sturzo, che tra le altre cose è stato anche unsociologo e un grande meridionalista, e non si è mai posto ilproblema dello sviluppo endogeno, perché considerava ilMezzogiorno un problema nazionale. L’unificazione economi-ca del paese, pertanto, secondo lui non poteva essere affron-tata a livello soltanto o prevalentemente locale. In effetti, l’in-tervento straordinario nato nel 1950 si ispirava a questa im-postazione, e ha ottenuto alcuni importanti risultati, oggi spes-so misconosciuti o dimenticati, fino ai primi anni ’70 delloscorso secolo. Così come vi si ispira anche il più volte citatodocumento Chiesa italiana e Mezzogiorno, che al punto 7 pro-segue: “I termini della questione meridionale, d’altra parte,sono sempre più termini nazionali, e una questione nazionalenon può essere ridotta ad un fatto regionale. Per la sua solu-zione sono necessari pertanto l’apporto e lo sforzo solidale ditutte le componenti della società italiana”.

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Sviluppoe specificità locali

Campania, Calabria, Sicilia, Puglia. Sono queste le re-gioni meridionali (tra le più vaste e popolose) che resteranno,per il momento, nell’Obiettivo 1.Come è evidente, sono anche lequattro regioni italiane dove èradicata la malavita organizzatadi stampo mafioso. Tale presenza è certamente un freno allosviluppo. Il sistema locale da solo è in grado di liberarsi dallamalavita organizzata? Sotto certi profili il sistema locale puòfare molto. Ad esempio, può stimolare certe reazioni tra gliimprenditori, i commercianti, le forze della società civile, l’o-pinione pubblica. Può controllare più attentamente gli appal-ti. Può evitare infiltrazioni al proprio interno. D’altro canto,tutti sappiamo che questo tipo di organizzazioni hanno unacapacità intimidatoria, una vastità di interessi, una ramifica-zione, un peso economico, una forza d’urto tali da rendere in-dispensabile l’azione di contrasto da parte dello Stato.

La mafia è forte, ma forse oggi lo è un pò meno rispettoad una decina di anni fà, quando sfidava direttamente loStato con le stragi e gli omicidi eccellenti. Molte riforme sonostate adottate e attuate, molti boss oggi stanno in galera, sot-toposti al regime di massima sicurezza, moltissimi beni deri-vanti da attività criminali sono stati sequestrati o confiscati, ecosì via. La malavita organizzata teme sempre di più l’azionedello Stato, ed è stata indebolita. Nondimeno, in una cittàcome Palermo l’80% dei commercianti continua a pagare ilpizzo. Il che significa che la strada da fare non è stata ancoraterminata, e al contempo che la mafia rimane un ostacolo allosviluppo del Mezzogiorno.

C’è un bel libro del sociologo Gambetta (1992) in cui, neldar conto dell’origine e dell’affermazione della mafia nell’otto-cento, egli fa riferimento ad una presenza particolarmente de-bole dello Stato, il che faceva sorgere l’esigenza di un soggettoche potesse tutelare gli equilibri cui era interessata la nobiltà,ed in generale agire quale garante degli accordi. SecondoGambetta, quindi, la mafia nasce e ha successo perché mancala fiducia, non c’è un insieme di istituzioni pubbliche che ga-rantisca i rapporti, i contratti e i diritti di proprietà. È un sog-getto privato che offre, in modo coercitivo, protezione di cui lagente ha anche bisogno.

Questo ragionamento, cheho schematizzato in modo assairozzo, da un lato tenta di farcicapire l’origine della mafia e

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Malavita organizzata:un freno allo sviluppo

Debolezzadelle Istituzioni

nel Mezzogiorno

l’importanza che la mafia ha in una certa società in quanto ga-rante della protezione. Dall’altro lato mette immediatamente inevidenza che una protezione del genere, anziché porre le pre-messe della libertà d’impresa, dell’innovazione e della concor-renza, grazie alle quali si può creare uno sviluppo sostenuto,impone all’imprenditore tutta una serie di vincoli e di presta-zioni (di cui il pizzo è soltanto un esempio). Nel complesso,quindi, essa si risolve in un freno, in un onere, in un inquina-mento degli appalti, ma più in generale dell’amministrazione edella vita pubblica. Il fatto stesso che le varie mafie si siano af-fermate dimostra peraltro che le istituzioni pubbliche nelMezzogiorno sono deboli. Questo è veramente il problema cru-ciale. In effetti, anche lì dove la mafia non c’era, mi riferiscoalla Basilicata o anche alla Sicilia orientale degli anni ’50, ciònon significò senz’altro una modernizzazione e uno sviluppoeconomico immediati. Anche in assenza della mafia le diversearee del Mezzogiorno hanno comunque presentato dei seri pro-blemi di sviluppo. D’altro canto, è evidente che non averla, oeliminarla, facilita di molto le cose.

Alcune teorizzazioni della questione meridionale hannodipinto un Sud che non cresceva perché sfruttato dal Nord.

Non c’era una vera strategia diunificazione da parte dell’elitepolitica e anche economica ita-liana. L’unificazione politica ha

portato dei danni nell’immediato per il Mezzogiorno e la que-stione meridionale è emersa proprio per questa ragione. Si èavuto un atteggiamento predatorio da parte dei piemontesi.Pertanto, nel momento in cui si ricostruisce il Paese e si dàvita alla Repubblica all’indomani della seconda guerra mon-diale, nasce l’obbligo di risarcire il Mezzogiorno. E in effettisia l’intervento straordinario, sia altre forme di aiuti, vennerodisposti anche in base a idee del genere.

Ma la concezione secondo cui il Sud era stato danneggia-to, sicché bisognava riparare, è stata anche un formidabile alibiper creare un’economia dipendente, una società dipendente,dei progetti di vita individuali dipendenti, un mondo in cui ciòche si fa o si vuole fare dipende da un’unica certezza: che oc-correrà rivolgersi al ceto politico amministrativo per l’otteni-mento delle risorse o dei nulla osta. Si è così prodotta una trap-pola della dipendenza. Una trappola in cui proprio quelle poli-tiche che dovevano servire a sbloccare l’arretratezza sono di-ventate, paradossalmente, il principale fattore di sottosviluppo.

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Questione meridionalee trappoladella dipendenza

Pur essendo innegabileche l’unificazione politica abbiaprodotto alcuni costi significati-vi per i meridionali, l’approccio“riparazionista” può tra l’altro essere più o meno consapevol-mente usato per occultare il cuore del problema. L’aspettofondamentale che va enfatizzato è che nel Mezzogiorno, già altempo dei Borboni, e poi anche dopo l’unità d’Italia, e ancheadesso, le istituzioni pubbliche sono istituzioni deboli, cioèsono istituzioni che non hanno in concreto la capacità di ga-rantire i rapporti economici. Quindi un imprenditore, un ope-ratore economico, nel calcolo delle sue strategie di medio-lungo periodo, non può stabilire ciò che è conveniente per lui,perché non ha davanti a sé interlocutori credibili.

Le istituzioni pubbliche al Sud (così come avviene anchein tanti altri paesi sottosviluppati in Africa, in Sud America, inAsia) nel loro complesso si caratterizzano come realtà deboli,nel senso suddetto (La Spina, in stampa). Esistono le leggi, machi deve far eseguire le norme non è capace di farlo, o non in-tende farlo, o non è messo nella condizione di farlo. Inoltre, l’a-spettativa generale è che le cose non possano che andare così.Eccoci di nuovo alla mancanza di fiducia, di affidamento tra gliattori sociali ed economici. Se non si capisce la crucialità diquesto aspetto non si intende neanche il fallimento di ben 42anni d’intervento straordinario nel Mezzogiorno, anni nei qualivi fu tra l’altro un costante incremento delle risorse finanziariepubbliche. Ma nonostante ciò il divario tra il Centro-Nord e ilSud è aumentato comunque, dopo i primi venti anni di risulta-ti positivi. Non è, allora, soltanto un problema di danaro, quan-to piuttosto, ancora una volta, un problema di rapporti internial sistema di potere del Mezzogiorno, che vanno modificati.

Il Mezzogiorno (non tutto, certo, ma alcune tra le sueparti più salienti) si trova ancor oggi in una condizione di ri-tardo rispetto all’Italia e all’Europa. D’altro canto, il Mezzo-giorno contemporaneo non è certo quello degli anni ’50. Il li-vello d’istruzione medio o il livello di accesso ai servizi socio-sanitari del Mezzogiorno di oggi è assai superiore a quello di50 anni fa. Quindi non si può dire che il Mezzogiorno non siaandato avanti. Il Mezzogiorno è indietro rispetto al restod’Italia, ma è molto più avanti rispetto a quello che era, sic-ché non si pongono più con la medesima drammaticità pro-

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4.I cristiani

e il Mezzogiorno

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Mancanza di fiduciatra gli attori sociali

ed economici

blemi come l’indigenza, l’analfabetismo, la carenza assolutadei servizi pubblici, la costrizione ad emigrare.

Persiste, invece, una con-cezione distorta dell’impresa edell’economia. Il sommerso, ap-prezzato da alcuni, in realtà di-

storce la concorrenza, consente rapporti di sfruttamento, con-ferma la tendenza all’illegalità diffusa. Le risorse pubbliche de-stinate agli aiuti, che continuano finora ad essere significativegrazie ai fondi comunitari, restano un appiglio fondamentaleper un’imprenditoria dipendente, spesso poco responsabile eincapace di rischiare. Risiede soprattutto in ciò il problemadell’arretratezza del Mezzogiorno, che a sua volta si riallacciaagli interessi e alle inefficienze del ceto politico e delle ammi-nistrazioni locali. A questi si aggiunga la presenza e la perva-sività della criminalità organizzata di stampo mafioso, checondiziona e distorce l’economia, la politica, le professioni,l’amministrazione, la società civile. Generalmente parlando,una smodata ricerca del profitto (specie se questo si basa suspeculazioni finanziarie e non corrisponde ad attività produt-tive sostanziali) qual è quella che ha caratterizzato alcuneesperienze del capitalismo contemporaneo è da condannare etenere sotto controllo, come evidenziato anche nel documentoEtica e finanza dell’ufficio nazionale della CEI per i problemisociali e il lavoro. D’altro canto, nel Mezzogiorno siamo spes-so in una situazione precedente al consolidamento di una ca-pitalismo moderno e di un’economia concorrenziale di merca-to. Oltre a condannare gli eccessi del capitalismo, oltre a vigi-lare sui difetti e sui fallimenti di un mercato sregolato, quindi,sarebbe necessario impegnarsi per istituzionalizzare sia un ca-pitalismo dal volto umano, sia il mercato concorrenziale, e perfar loro raggiungere una piena maturità lì dove ciò ancora nonsi è verificato, cioè appunto nel Sud d’Italia.

Come ho cercato di mostrare nei punti precedenti, unaprecondizione dello sviluppo economico è la creazione di rap-porti di cooperazione e di fiducia, ispirati a regole che tuteli-no il bene comune e superino quel particolarismo che appareancor oggi assai diffuso. Guardando all’economia, che non èsoltanto ricerca del lucro, si rivela qui la necessità del contri-buto della legalità e della morale, in mancanza del quale laprima è condannata a restare asfittica.

L’avvertimento di tali problematiche è compiutamenteespresso nei due documenti della CEI già citati. I cristiani, sia

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Imprenditoria dipendentee incapacità di rischiare

quando si trovano ad occupare posizioni di responsabilità siacome esponenti dell’opinione pubblica e come cittadini, do-vrebbero quindi impegnarsi al massimo per contrastare “l’eclis-si della legalità”, dando personalmente l’esempio, imparando aconferire priorità al senso civico (Putnam, 1993), e al contem-po pretendendo il rispetto di rigorosi standard di etica pubblicada parte di “colletti bianchi” operanti nella politica, nell’ammi-nistrazione, nell’economia, nelle professioni, nelle varie forma-zioni sociali. Tutti questi punti si ritrovano affermati con ener-gia e nitidezza nei citati documenti, sicché non vi è molto da ag-giungere da parte mia sul piano delle dichiarazioni d’intenti.

Mi limito, invece, per con-cludere, a due considerazioni diordine fattuale. Il più volte cita-to volume del 1998 di Pizzuti ealtri, ha evidenziato, per un verso, che la specificità della re-ligiosità meridionale, se deve essere intesa come un folklori-stico “cattolicesimo popolare”, non sembra così spiccata. Perconverso, se di specificità deve parlarsi, questa sta piuttostonel fatto che, a quanto sembra, nel Mezzogiorno, rispettoall’Italia e all’Europa, vi è al massimo grado un vasto uditoriodi fedeli attento a recepire gli insegnamenti della Chiesa. Unapastorale rivolta quotidianamente e persuasivamente – inconcreta applicazione dei documenti ufficiali – ad un uditoriodel genere, quindi, dovrebbe in linea teorica risultare più ef-ficace che nel resto d’Italia e d’Europa.

In secondo luogo, dal momento che continuano a non es-sere marginali i casi di esponenti del mondo dei colletti bianchiche, per citare proprio le parole di Educare alla legalità, volgo-no a “illecito profitto la funzione di autorità” di cui sono inve-stiti, impongono “tangenti a chi chiede anche ciò che gli è do-vuto”, realizzano “collusioni con gruppi di potere occulto”,primi tra i quali gli esponenti della criminalità mafiosa, e asser-viscono “l’amministrazione a interessi di parte”, e dal momen-to che svariati di essi si fanno addirittura un vanto della loroispirazione cattolica, ecco che si presentano importanti occa-sioni concrete affinché con l’autorevolezza e la forza del magi-stero spirituale possano essere recisamente e pubblicamentecondannate, coerentemente con quanto annunciato nei predet-ti documenti, quelle persone e quelle pratiche che mortificanola legalità e, al di là dei profili giuridici e criminali, continuanoa impedire che nel Mezzogiorno si creino le condizioni per con-solidare e far crescere tanto l’economia quanto la società civile.

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Mezzogiornoe insegnamenti

della Chiesa

BANFIELD, E. C.1958 The Moral Basis of a Backward Society, Glencoe, The Free

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po, Liguori, Napoli.1988 Il significato del “basso continuo” nella cultura meridionale ita-

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Bibliografia

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Breve biograf ia d i Padre P ino Publ is i

Don Giuseppe Puglisi nasce nella borgata palermitanadi Brancaccio il 15 settembre 1937, figlio di un calzolaio e diuna sarta, e viene ucciso dalla mafia nella stessa borgata il 15settembre 1993, giorno del suo 56° compleanno.

Entra nel Seminario diocesano di Palermo nel 1953 eviene ordinato sacerdote dal cardinale Ernesto Ruffini il 2 lu-glio 1960. Nel 1961 viene nominato vicario cooperatore pres-so la Parrocchia del SS.mo Salvatore nella borgata diSettecannoli, limitrofa a Brancaccio, e Rettore della Chiesa diSan Giovanni dei Lebbrosi.

Nel 1963 è nominato cappellano presso l’istituto per or-fani “Roosevelt” e vicario presso la Parrocchia Maria SS. maAssunta a Valdesi. Sin da questi primi anni segue in partico-lare modo i giovani e si interessa delle problematiche socialidei quartieri più emarginati della città.

Segue con attenzione i lavori del Concilio Vaticano II ene diffonde subito i documenti tra i fedeli con speciale ri-guardo al rinnovamento della liturgia, al ruolo dei laici, ai va-lori dell’ecumenismo e delle Chiese locali.

Il suo desiderio fu sempre quello di incarnare l’annun-zio di Gesù Cristo nel territorio, assumendone quindi tutti iproblemi per farli propri della comunità cristiana.

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Il primo ottobre 1970 vienenominato Parroco di Godrano,un piccolo paese in provin-cia di Palermo – segnato dauna sanguinosa faida –dove rimane fino al 31 lu-glio 1978, riuscendo a ricon-ciliare le famiglie con la forzadel perdono. In questi anni segueanche le battaglie sociali di un’altra zona della periferia orien-tale della città, lo “Scaricatore”.

Il 9 agosto 1978 è nominato pro-Rettore del Seminariominore di Palermo e il 24 novembre dell’anno seguente diret-tore del Centro diocesano vocazioni.

Nel 1983 diventa responsabile del Centro regionaleVocazioni e membro del Consiglio nazionale. Agli studenti eai giovani del Centro diocesano vocazioni ha dedicato conpassione lunghi anni realizzando, attraverso una serie di“campi scuola”, un percorso formativo esemplare dal punto divista pedagogico e cristiano.

Don Giuseppe Puglisi è stato docente di matematica epoi di religione presso varie scuole. Ha insegnato al liceo clas-sico Vittorio Emanuele II a Palermo dal ’78 al ’93.

A Palermo e in Sicilia è stato tra gli animatori di nume-rosi movimenti tra cui: Presenza del Vangelo, Azione cattoli-ca, Fuci, Equipes Notre Dame. Dal marzo del 1990 svolge ilsuo ministero sacerdotale anche presso la “Casa Madonnadell’Accoglienza” dell’Opera pia Cardinale Ruffini in favore digiovani donne e ragazze-madri in difficoltà.

Il 29 settembre 1990 viene nominato parroco a SanGaetano, a Brancaccio, e nel 1992 assume anche l’incarico didirettore spirituale presso il seminario arcivescovile diPalermo. Il 29 gennaio 1993 inaugura a Brancaccio il centro“Padre Nostro”, che diventa il punto di riferimento per i gio-vani e le famiglie del quartiere. La sua attenzione si rivolse alrecupero degli adolescenti già reclutati dalla criminalità ma-fiosa, riaffermando nel quartiere una cultura della legalità il-luminata dalla fede.

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A partire dal 1994 il 15 settembre, anniversario dellasua morte, segna l’apertura dell’anno pastorale della diocesidi Palermo.

Il 15 settembre 1999 il Cardinale Salvatore De Giorgi hainsediato il Tribunale ecclesiastico diocesano per il riconosci-mento del martirio, che ha iniziato ad ascoltare i testimoni.Un archivio di scritti editi ed inediti, registrazioni, testimo-nianze e articoli si è costituito presso il “Centro ascolto gio-vani don Giuseppe Puglisi”.

La sua vita e la sua morte sono state testimonianze dellasua fedeltà all’unico Signore e hanno disvelato la malvagità el’assoluta incompatibilità della mafia con il messaggio evan-gelico.

“Il credente che abbia preso in seria considerazione lapropria vocazione cristiana, per la quale il martirio è una pos-sibilità annunciata già nella rivelazione non può escludere que-sta prospettiva dal proprio orizzonte di vita. I 2000 anni dallanascita di Cristo sono segnati dalla persistente testimonianzadei martiri”

(Giovanni Paolo II, Incarnationis Misterium, n.10)

Tratto dal sito padrepinopuglisi.net

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D on Puglisi:La vocazione del pretee il territorioS. E. Mons. SALVATORE DI CRISTINAVescovo Ausiliare di Palermo

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Mi è stato chiesto di parlare,a proposito del Servo di DioDon Giuseppe Puglisi, della“vocazione del prete nel suorapporto con il territorio”. Iltema è tra quelli a cui unente come l’Ufficio NazionaleCEI per i Problemi Sociali e ilLavoro, che lo ha scelto, non puònon sentirsi direttamente interessato; esso comunque coglie,per un verso, un dato particolarmente emergente nella vicendapersonale di Don Puglisi e, per altro verso, tocca un aspetto in-dubbiamente importante per il servizio pastorale del prete, taleda interessare, secondo quanto avrò modo di dimostrare, addi-rittura la sua autentica vocazione cristiana. Il rapporto con ilterritorio, vissuto e interpretato da Don Pino Puglisi come ilsuo modo normale di essere prete, poteva comportare, e di fattocomportò, nelle condizioni ambientali nelle quali gli capitò diviverlo, l’eroismo del martirio.

A proposito delle “condizioni ambientali” appena ac-cennate, penso che non sfugga a nessuno di noi la specialesuggestione che deriva, alla nostra conversazione di stasera,dal fatto che essa si svolga proprio qui, in questa Chiesa par-rocchiale di Brancaccio.

In questo stesso salone nel quale ora ci troviamo, undi-ci mesi prima di essere ammazzato, Don Pino aveva volutoche si tenesse un “primo – rimasto unico – convegno di studi”dal titolo Parrocchia, pastorale della carità e territorio. In que-sto posto dunque, normale come tanti altri, anche abbastan-za anonimo, don Pino visse momenti “normali”, diciamo fe-riali, del suo ministero di parroco di borgata. Semmai appareeccezionale il fatto che, in un luogo come questo, la “sua” at-tenzione al territorio abbia potuto costargli la vita, mentre l’e-roismo di questo costo altissimo apparirebbe dal fatto cheegli, pur crescendo nella consapevolezza dell’eventualità diun tale esito della sua attenzione pastorale a “questo” territo-rio, abbia voluto mantenersi fedele a quella che consideravauna precisa consegna d’amore.

Ulteriormente significativo mi sembra poi il fatto – e de-sidero sottolinearlo – che questo tema io lo tratti con un grup-po di seminaristi, con persone cioè che si preparano al mini-stero sacerdotale.

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Svolgo dunque la mia semplice relazione in due punti,la cui formulazione rischia di apparire una specie di gioco diparole: “Il territorio nel ministero pastorale del prete” (primopunto), “La vocazione del prete e il rapporto con il territorio”(secondo punto).

Un capoverso dell’introduzione alla vita di Don PinoPuglisi di Francesco Deliziosi comincia con queste parole: “Lavita di padre Puglisi è anche un pezzo della vita di Palermo”.L’osservazione potrebbe sembrare esagerata, oppure sempli-cemente riferita al fatto che l’assassinio di Padre Puglisi, contutto quello che ha prodotto in fatto di riflessione, emozione,si iscrive ormai definitivamente nella storia di Palermo. Ma èchiaro che non è questo il senso inteso dall’autore. Il concet-to è emblematico del modo di essere e di fare il prete da partedi Don Pino Puglisi, un modo che ha fatto sì che la sua vitasi sia trovata profondamente inserita nella vita di Palermofino a rimanerne condizionata, dal suo bene e dal suo male,da protagonista comunque, come può trovarsi inserito chiabbia deciso di non rifugiarsi nel suo privato, e dunque comeun prete che non ha mai il diritto di rifugiarsi nel privato, per-ché non ha mai il diritto di considerarsi un uomo privato.

Ma che cosa intendiamoper territorio? Ritengo che nonabbiate bisogno che io ve ne for-nisca una definizione. Mi sem-

bra indispensabile però che ne condividiamo in questo mo-mento qualche idea, per essere sicuri di comprenderci. In pri-missima battuta penso che possiamo trovarci d’accordo sull’i-dea che il territorio è il luogo nel quale, come nel caso nostro,un prete svolge di fatto il suo ministero, quale che esso sia inconcreto. Naturalmente qualche prete, come me ad esempio,può avere svolto il suo ministero, anche per molti anni, in Se-minario come educatore, o a scuola come docente. Dov’è il ter-ritorio in questo caso? Mi sembrerebbe più proprio in questocaso parlare di ambiente, anche se un territorio di riferimentorimane sempre, ad esempio quello delle persone vive e con-crete a cui il tuo ministero di educatore si indirizza o quello nelquale queste persone vive e concrete saranno chiamate a pro-durre il frutto della tua seminagione e coltivazione. Come èpossibile infatti che anche l’educatore, specialmente se prete,

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Il territorionel ministero

pastoraledel prete

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Il territorio:luogo della concretezza e della missione

non si consideri compagno di viaggio dei suoi discepoli, e dun-que coinvolto dentro precisi, ben conosciuti territori?

Il territorio dunque, più o meno ampio che sia, è per ilpastore luogo per eccellenza della concretezza: è infatti illuogo del contesto e dell’indispensabile contestualizzazionedell’azione pastorale. È sul territorio che le domande assu-mono concretezza e le risposte imparano a farsi concrete. Edè la conoscenza del territorio ad aiutare la comprensione delledomande e a suggerirne di volta in volta il grado di urgenza ela tempestività delle risposte.

Non è difficile a questo punto concludere che il territorio,in quanto luogo ineludibile della missione del pastore, è ele-mento integrante della sua vocazione. Lo stesso Gesù, al mo-mento di inviare in missione i suoi discepoli dice loro: «Andatein tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc16,15). Notevole l’ordine dei pensieri: in prima istanza la pro-spettiva del viaggio – un cammino per il mondo – naturalmentenon con l’attitudine del viaggiatore, ma con l’attitudine di coluiche cerca con forte intenzione. La predicazione – che è colloca-ta in seconda istanza, sebbene sia la motivazione e lo scopo delviaggio – dovrà raggiungere tutte le creature del mondo, là doveesse si trovano, nella singolarità delle loro comunità (le “nazio-ni” del parallelo di Mt 28,19) e di ogni persona.

Naturalmente, la concretezza del “contesto” non è datadal territorio considerato nella sua materialità; indispensabi-le è la sua dimensione temporale, o storica, che ne costituisce,per così dire l’anima; e si sa quanto questa dimensione stori-ca sia terribilmente mutevole: certamente assai più dell’a-spetto fisico e demografico del territorio.

Orbene, allorché Gesù in-viava gli apostoli in missionenel mondo, si era in un tempoin cui gli uomini avvertivano, inmisura assolutamente generalizzata, un bisogno acuto di sal-vezza, e noi sappiamo che la predicazione voluta da Gesù, de-stinata a “fare discepoli di Cristo tutte le nazioni” (ivi), altronon era che un annunzio di salvezza. “Imparare Cristo”, se-condo la bella espressione paolina, era il modo cristiano dientrare nella salvezza a cui tutti anelavano, compresi coloroche la cercavano nei culti misterici. Per questo – ci fanno sa-pere gli storici della teologia – durante tutto il corso dell’epo-ca patristica la “cristologia” non fa che descrivere e approfon-dire teologicamente l’annunzio soteriologico cristiano.

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Contesto culturalee bisogno di salvezza

Oggi, lo sappiamo, lo scenario è profondamente mutato.La gente, gli uomini del nostro tempo, questo bisogno di sal-vezza ritengono di non averlo; in ogni caso non lo avvertonopiù. Alla luce della fede noi continuiamo a dire che tutti gliuomini sono chiamati alla salvezza e che la storia non ha ces-sato di essere storia di salvezza. Ma la gente (quella in gene-rale che si professa non credente o vive nell’indifferenza reli-giosa), questa necessità della salvezza, non l’avverte. Ce l’ha,senza dubbio, questa necessità; ma si dice paga di aspirare auna sua salvezza laica, immanente ed empirica, consistentein individualistiche e perfino anche comunitarie autorealizza-zioni, nelle quali possono avere più o meno abbondante spa-zio anche le emozioni.

La nostra missione pasto-rale esige che prendiamo co-scienza di questo contesto cul-turale, che è anche il nostro, e

lo illuminiamo con la luce della nostra fede. Soprattutto esigeche in questo stesso contesto sappiamo cogliere gli uomini,nostri compagni di cammino, e impariamo a comunicare adessi la parola di salvezza secondo le modalità espressive diquesto contesto, rinunciando all’esoterismo delle “nostre” pa-role, che rischiano di apparire risposte prefabbricate.

Come ogni altro prete Don Pino Puglisi sapeva che la suavocazione era mettersi al servizio della salvezza degli uomini,e non mi risulta – per la lunga consuetudine che per grazia diDio ho avuto con questo servo di Dio – che egli abbia consi-derato solo astrattamente questa sua vocazione. Mi permette-rete di ricordare il tempo del nostro Seminario. Allora erava-mo, tutti e due, educatori assistenti – “prefetti di camerata”, sichiamavano – con gruppi di venti o poco più seminaristi piùgiovani affidati alle nostre cure. Ci scambiavamo spesso im-pressioni; ci confidavamo difficoltà e problemi. Puglisi nonebbe mai a inserire nelle conversazioni le sue difficoltà perso-nali, quali il rimpianto di non trovarci con i nostri compagni oil tanto tempo da impiegare nell’assistenza ai seminaristi e ilpoco disponibile per il nostro studio. Erano argomenti piutto-sto frequenti in bocca agli altri “prefetti”, ma non ricordo maidi averglieli inteso esprimere. La cosa mi colpiva e ha conti-nuato a fare parte del mio bagaglio spirituale. I nostri proble-mi avevano a che fare sempre con i “nostri” ragazzi, sul comeaiutarli. Per quanto giovane anche lui, dava a vedere il “mae-stro” che era in lui: lui che aveva fatto il magistrale.

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Esoterismo delle parole;risposte prefabbricate

Il territorio nella vocazione del prete non può esserepensato in astratto, come argomento su cui limitarsi a riflet-tere, un pò come stiamo facendo noi in questo momento, concuriosità da sociologi. L’attenzione ad esso fa parte – dovreb-be ormai essere chiaro – della vocazione del prete.

Il tema comunque, anche sul piano teorico, appartennealla riflessione di Don Pino Puglisi. Se ne occupò da direttoredel Centro Diocesano Vocazioni a proposito di pastorale vo-cazionale. Fu anche direttore del Centro Regionale Vocazionie consigliere presso l’omologo Centro Nazionale. Ciò avveni-va durante tutti gli anni ’80, e questo è anche il periodo piùdocumentato di tutto il suo ministero sacerdotale. Sono rima-sti i testi dei suoi interventi e delle sue lezioni ai campi-scuo-la vocazionali, addirittura nellediverse successive edizioni ma-noscritte: tre campi-scuola ognianno per i diversi livelli di par-tecipanti. Ora disponiamo anche di un’edizione curata da unsacerdote che lo ha tanto amato, Mons. Francesco Pizzo, suopredecessore nella direzione del Centro Vocazionale.

Interessante il metodo pedagogico usato, che sotto uncerto aspetto possiamo definire induttivo. Cominciava infattidalla presa di consapevolezza di sé, del proprio ambiente fa-miliare, scolastico, amicale... Il tutto molto alla buona, anzi-tutto perché egli stesso si proponeva molto alla buona. Poi in-vitava a riflettere sulla vita e sul senso della propria esisten-za: «A che cosa paragoneremo la nostra vita? Suggeritemiun’immagine». Spuntava sempre e abbastanza presto l’imma-gine del “cammino”. «Sì, ma verso dove?» Era la sua risposta,seguita da un’ulteriore incalzante domanda. Di questo “Sì,ma verso dove?” si è fatto uno slogan col quale si è voluto sin-tetizzare la sua pedagogia vocazionale. Era il suo primo sti-molante approccio alla riflessione sul senso della vita.

Il suo discorrere sul senso della vita avveniva in modomolto personale, con il tono pa-cato e la lentezza dell’esposizio-ne che gli erano tipici. Soprat-tutto con l’inconfondibile bono-mia, autoironia e attitudine al rispetto per chi lo ascoltava chegli conquistava i cuori. Un rispetto il suo non di maniera eneppure semplicemente imposto dall’abitudine alla benevo-lenza, ma che nasceva dal clima di effettiva cordiale cono-scenza dell’altro che egli cercava subito di instaurare e che si

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La vocazionedel prete

e il rapportocon il territorio

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Riflessionesul senso della vita

L’eschatone la concretezza

della storia

sviluppava a mano a mano che la conoscenza si approfondi-va fino a diventare confidenza e amicizia.

Ben presto il cammino cominciava a prendere significatoe direzione nell’incontro con un uomo, concreto e vivente,Gesù Cristo. Egli lo presentava da innamorato ai suoi ragazzi,come l’uomo dalla libertà sconfinata, dalla carità sconvolgen-te e coinvolgente: l’uomo con cui è sempre e a tutti possibilediventare amici. La sua pedagogia vocazionale proseguiva peri successivi due terzi del “programma” concentrato sulla per-sona di Cristo, sulla sua umanità con le sue caratteristiche diuniversalità e perenne contemporaneità, ma analizzata conamore delicato in tutti i suoi tratti storici. Alla fine la rispostaalla domanda “verso dove?” non poteva che passare perCristo, la sua persona concreta divenuta nota, amabile e defi-nitivamente amata «Sì, ma verso dove?». Identificheresti im-mediatamente questo “dove” con la vita eterna? Ma per DonPuglisi il cammino di ciascuno verso “l’eschaton” non può nonpassare per la concretezza della storia, la quale ha dalla con-cretezza della chiamata di Cristo il suo orientamento, nella suaparola la chiave ermeneutica e nella sua vita il paradigma.

La vocazione! Non abbia-mo il diritto di averne un’ideasoggettivistica, quasi questa pa-rola stesse a definire l’inclina-

zione o le inclinazioni della nostra persona. La vocazione haDio come soggetto: Dio creatore, radicalmente. Il “dove”, ladirezione della mia vita è data dalla chiamata – discreta e ri-spettosa – ma divina. Ha i caratteri della onnipotenza di Dio,la garanzia della sua benevolenza nei nostri confronti. È l’u-nica che possa corrispondere perfettamente alla misura delnostro cuore. Ma è orientata al bisogno dell’altro, ti allena ascoprire nel volto dell’altro il volto di Cristo. Questo troviamonella parola di Dio e queste erano le cose che insegnava DonPuglisi, testimoniandole con la sua vita di “chiamato”. Se nonl’avessero ucciso, oggi non staremmo qui a parlare di lui; ma

egli avrebbe continuato a inse-gnare queste cose, forse ancoraqui dove ora ci troviamo. Ilmartirio però non ha messo laparola fine alla sua vita. Gli ha

invece permesso di mettere la firma al tessuto della sua vitacon il suo stesso sangue. Noi oggi sappiamo “verso dove” Diovoleva che andasse la sua vita. Lui, l’ha capito un po’ prima

84 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

La vocazione:Dio ne è il soggetto

Un cuore capace d’accogliere la misura d’amore

di noi. Come? Imparando a leggere il bisogno del fratello allaluce della parola di Dio. Quando? Quando si rese conto chela misura del suo cuore, ben nota a Dio, era stata fatta capa-ce di accogliere la misura d’amore pienamente proporzionataalla sua vocazione di pastore a Brancaccio in quel primo scor-cio degli anni ’90.

Nel dinamismo vocazionale tocca alla parola di Dio av-viare il dialogo d’amore che fa di un povero uomo un pastoredel gregge di Cristo. Questo stesso dialogo d’amore avvolge inunico abbraccio Cristo e il fratello al cui servizio sei manda-to. Il territorio, con tutto ciò che questa parola è capace di an-nettersi, illuminato anch’esso dalla parola di Dio – e dunquemesso al riparo dall’ideologia e dalle sue proiezioni pseudo-sociali –, fornisce concretezza spazio-temporale alla vocazio-ne di ogni prete, fino a lasciarne intravedere, nella singolaritàdi ogni storia umana, l’irripetibile “verso dove”. Raggiungerequesto “dove” dipende naturalmente anche, misteriosamente,dal sì di ciascuno.

Don Pino Puglisi fu aiuta-to nel dire il suo sì anche dallasua scelta di povertà. Era france-scanamente povero, lui che sivestiva dall’armadio dei poveri; disadorno perfino nel parlare,e tuttavia penetrante e convincente per la vita. Era povero eumanamente disarmato; eppure la sua casa era addirittura in-gombra di libri, molti da regalare, certamente; ma moltissimianche letti: libri di esegesi biblica – i più numerosi –, ma anchedi sociologia, psicologia e pedagogia.

Gli chiesi una sera: «Pino, come fai a trovare il tempoper leggere?». «Lo trovo, lo trovo» mi rispose. Quella seraaveva da assistere il papà molto malato...

Non vi so dire molto della sua preghiera intima. Ed èovvio che sia così. Qui davvero sono i frutti a parlare: la se-renità del suo tratto; la fermezza nei confronti dei prepotenti,che però non rinunciò mai a credere nella possibilità del dia-logo, fondato sulla potenza della parola di Dio e capacità diogni uomo ad accogliere la redenzione, la sua disponibilità atutto campo.

Questo supporto spiritua-le, l’apertura alla parola di Dioe la preghiera autentica, puòspiegare il fatto, altrimenti in-spiegabile, di un don Puglisi appassionatamente aperto aldialogo con il territorio delle tre parrocchie nelle quali prestò

85 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

La povertà:penetrante e convincente

per la vita

La preghiera e il dialogo appassionato

con il territorio

servizio, sebbene non si possa dire che avesse particolare in-clinazione per i problemi sociologici e apparisse del tuttoprivo di specifiche motivazioni ideologiche. Nel rapporto conil suo Signore e Maestro egli aveva imparato ad essere total-mente, semplicemente e umilmente un prete, un pastore.

I giornali che all’indomani della sua uccisione avevanointitolato con l’etichetta del “prete antimafia” ebbero assai pre-sto a ricredersi: Don Puglisi non aveva nessuna delle caratteri-stiche proprie di quel cliché giornalistico. Francesco Deliziosi, ilsuo primo biografo, ha proposto un elenco di alcuni dei suoimeriti pastorali: non rientrano nel cliché. Vi si parla di una si-gnora della sua parrocchia a Godrano che riuscì a perdonare lamadre dell’assassino di suo figlio; di un altro giovane, sempredi Brancaccio, che contro le leggi dell’omertà decise di deporredavanti ai giudici, essendo stato testimone oculare di un omi-cidio; di un giovane che ne condivise la scelta e oggi vive nelNord Italia con una nuova identità; di una ragazza madre, re-cuperata alla vita insieme con i suoi bambini; una prostitutastrappata alla strada; e poi di tossicodipendenti, pregiudicati,detenuti con i quali “Tre P” (come benevolmente veniva chia-mato Padre Pino Puglisi) riaprì un dialogo, facendoli sentirenuovamente figli di Dio. Si conserva la lettera che il “prete an-

timafia” scrisse da questa par-rocchia, in un giorno di Natale,coinvolgendo nell’operazionetutta la parrocchia: una lettera

commovente inviata ai suoi parrocchiani detenuti. Si potrebbecontinuare. Anch’io ho due esperienze personali: due giovanidonne presentatesi a pochi giorni dalla sua morte con il mede-simo messaggio: «Mi manda padre Puglisi, perché mi aiuti a di-scernere la mia vocazione alla vita consacrata». Padre Puglisi,il parroco con l’istinto dell’educatore, era tutto questo e Dio saquant’altro ancora. Non lo interessarono i proclami, sebbenenon si sia mai voluto sottrarre, quando opportuno e civica-mente necessario, al dovere di manifestare in favore dei dirittidei più deboli. Non cercò né accettò mai l’esposizione a inter-viste o talk show. Non fu un organizzatore, e forse non ne avevaneppure la stoffa, ma lavorò sempre senza risparmiare energiee pesi, nella povertà dei suoi mezzi e con la forza coinvolgentedel suo esempio di uomo mite e generoso. Il Centro “PadreNostro” è frutto del suo pensiero e del suo cuore: è in qualchemodo il monumento – più significativo sul piano della fede, cheumanamente efficiente – della sua attenzione pastorale al terri-torio della sua Brancaccio.

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L’attenzione pastoraleal territorio

Dopo quantodetto fin qui sulla“connaturalità” del-l’attenzione al terri-torio con la vocazio-ne presbiterale, ladomanda con cuipenso di concluderenon potrà che appa-rire provocatoria. Iola faccio però ugual-mente, ed è questa: il modello di prete rappresentato da DonPuglisi costituisce una eccezione rispetto allo statuto pastoraledel prete ovvero non è altro che la regola, anche se non semprerispettata da tutti i preti?

Ovviamente, per rispondere serenamente sarà bene pre-scindere (ma solo per ragioni statistiche!) dalla parte che nel“modello Puglisi” ha avuto il martirio, esso sì eccezionale(sempre sul piano statistico).

Ebbene c’è chi, come un mio amico prete, valoroso sto-rico della Chiesa, si dice convinto dell’eccezionalità del mo-dello Puglisi, nel senso che l’attuale corrente interpretazionedel ministero sacerdotale, legata a una visione prevalente-mente sacramentalistica della pastorale, impedirebbe chequel modello possa essere indicato come rappresentativo difatto dello statuto vocazionale del prete come tale.

La mia risposta tuttavia – come la forma data al quesitolasciava intravedere – vorrebbe essere più articolata.

A mio modo di vedere,quanto abbiamo detto fin quicirca l’idea della connaturalitàdella cura pastorale con l’attenzione al territorio, in quantocontesto culturale concreto nel quale la prima è chiamata asvolgersi, implica necessariamente l’accoglienza di un’altraidea: quella che vede quale destinatario della cura pastoralel’uomo nella sua integrità, e non soltanto la sua “anima”.Stando così le cose, il modello presbiterale di Don Puglisi, inquanto è espressivo di una pastorale che coglie il suo desti-natario nella concretezza storico-culturale del proprio territo-rio, non può non rappresentare a suo modo la regola dellamissione pastorale di ogni presbitero. Ciò comporta necessa-riamente che questo stesso modello, ovviamente prescinden-

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Per concludere

CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Quale modello di prete?

do dagli aspetti dipendenti dalla specificità del particolare ter-ritorio nel quale è stato vissuto e dal quale è stato caratteriz-zato (fino al martirio!), venga rivendicato e riproposto comemodello veramente adeguato. Ciò, naturalmente, a differenzadi altri modelli, la cui inadeguatezza potrebbe addiritturacomportare un addebito di negligenza più o meno colpevole inchi dovesse attardarsi ad interpretarli.

Comunque stiano le cose, io però non ritengo che lui,Don Pino Puglisi, si sia mai considerato, come prete, un’ec-cezione. C’è da pensare che, avendo ben altro a cui badare,non abbia avuto tempo di fermarsi a pensare al nostro quesi-to e che proprio non gli sia mai passato per la testa di poterrappresentare un modello eccezionale.

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I

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l prete oggialla luce della Gaudium et SpesProf. GIUSEPPE SAVAGNONEDocente Storia e Filosofia - Palermo

Ritornare ad un grandetesto conciliare come laGaudium et Spes non signifi-ca certamente riprendernel’ampia analisi del mondoqual’era negli anni sessantadel secolo scorso – l’epoca incui il documento ha visto laluce – che, almeno per alcuni versi,non corrisponderebbe più alla realtà. In questi quarant’annila società è profondamente cambiata, con una rapidità e unaradicalità che ogni giorno ci sorprendono e che impongononuove letture sociologiche e culturali.

Ma questo non significa che la “Costituzione pastoralesulla Chiesa nel mondo contemporaneo” abbia perso la suapiù profonda attualità. Al contrario, mai come oggi, all’iniziodel terzo millennio, in un momento di vorticosa trasformazio-ne, appare urgente un recupero, da parte nostra, del suo me-todo e dei suoi princìpi ispiratori. Ciò che rende importante laGaudium et spes, al di là dei suoi contenuti particolari, è lascelta, da parte della Chiesa, di mettersi in ascolto di ciò cheDio aveva da dirle non solo nelle Sacre Scritture, non solo per

bocca dei suoi Santi e del suoMagistero, ma attraverso queglisviluppi della storia umana chetradizionalmente venivano con-

siderati profani, dunque esterni al tempio, e che invece ilConcilio ha voluto far entrare a pieno titolo nell’ambito delSacro e ha considerato luogo anch’essi della manifestazionedel disegno divino.

Un metodo che, a sua volta, suppone l’assunzione, agrande principio ispiratore, di quello che effettivamente sta alcuore del messaggio cristiano, che è il mistero dell’incarna-zione. Un principio troppo spesso sottovalutato, se non addi-rittura misconosciuto, dagli stessi cristiani, col rischio di co-struire per sé un mondo parallelo e autoreferenziale, invece dicollaborare a salvare quello per cui Dio ha dato il suo FiglioUnigenito. L’incarnazione implica che i discepoli di Gesù fac-ciano proprio lo stile del loro Maestro, che è stato quello dellatotale condivisione e della solidarietà. In questo senso il testoconciliare dice della Chiesa che essa cammina insieme conl’umanità tutta e sperimenta insieme al mondo la medesima

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Premessa

CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

La storia e il Misterodell’Incarnazione

sorte terrena ed è come il fermento e quasi l’anima della societàumana (GS 40). Reciprocamente, le gioie, le speranze, le tri-stezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto edi tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie, le speranze, le tri-stezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genui-namente umano che non trovi eco nel loro cuore (GS 1).

Voglio fare una seconda premessa, che in qualche modoscaturisce dalla precedente. Quanto dirò è rivolto a un udito-rio formato da persone che sono avviate al sacerdozio mini-steriale, dunque da credenti. Ma i problemi che solleverò, leproposte che emergeranno, non sono interni alla Chiesa.Riguardano ogni uomo, ogni donna in quanto tali, coinvolgo-no l’intera società. Perciò, questo discorso si propone di nonessere confessionale, ma di interpellare anche il non creden-te che è dentro ciascuno di noi e i cui dubbi spesso siamo por-tati a ricacciare ed esorcizzare.

Ma andiamo più specifi-camente al nostro tema. Neltesto della Gaudium et Spes, deipresbiteri in quanto tali si parlaassai poco. Al n. 43 però vi è un passo in cui, riferendosi ai“vescovi con i loro preti”, si addita loro come compito prima-rio nei confronti delle società umane quanto è detto nel terzocapitolo della Lumen Gentium al n. 28.

Soprattutto però abbiano in mente le parole di questoConcilio: «Siccome oggi l’umanità va sempre più organizzan-dosi in unità civile, economica e sociale, è tanto più necessarioche i sacerdoti, unendo sforzi e mezzi sotto la guida dei vescovie del sommo Pontefice, eliminino ogni motivo di dispersione, af-finché tutto il genere umano sia ricondotto all’unità della fami-glia di Dio» (GS 43).

Si tratta dunque di individuare quali siano i nuovi fat-tori di “dispersione”, dunque di divisione e di frammentazio-ne, nel mondo d’oggi, per poi leggere, secondo questa pro-spettiva e in questo contesto, la figura e il compito del prete.

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Quali i fattori di dispersione, divisione

e frammentazione

Pr ima parte

L ’ a s c o l t oNell’intento di riprodurre lo stile di ascolto della

Costituzione conciliare, cerchiamo di mettere a fuoco alcunidei grandi scenari del nostro tempo, senza alcuna pretesa,evidentemente, di essere esaurienti.

Ci limiteremo qui a tre grandi fenomeni, la cui impor-tanza sembra indiscutibile.

La divaricazione tra dimensione mondiale e dimensioneparticolare

Fino a quarant’anni fa, i protagonisti della storia mon-diale erano ancora gli Stati. Nati all’inizio dell’età moderna,essi avevano finito per rappresentare, sia al loro interno chenei loro rapporti reciproci, il soggetto politico per eccellenza.L’emergere del concetto di sovranità aveva assicurato loro unaesclusiva giurisdizione rispetto a ogni altro possibile concor-rente, mettendoli al di sopra di tutto e di tutti (sovrano vuoldire appunto “che sta sopra”). Non v’era fenomeno sociale,economico, culturale, che non passasse attraverso il loro con-

trollo, a volte tirannico – comenelle monarchie assolute o, piùtardi, nei totalitarismi – a voltediscreto – come nei regimi libe-

rali e liberal-democratici. Le realtà locali erano organicamenteincorporate in questa struttura tendenzialmente monolitica,anche quando, a causa di sostanziali differenziazioni etniche,linguistiche, religiose, esercitavano una forte spinta centrifuga,che restava perciò comunque imbrigliata da mille vincoli legi-slativi e burocratici. Quanto a tutto ciò che stava fuori dei con-fini, per lo Stato era irrilevante – almeno sul piano del diritto– anche se di fatto esso doveva fare i conti con altri Stati, te-nendoli a bada con la sua diplomazia e, in caso estremo, af-frontandoli in guerra.

Questo quadro oggi è completamente cambiato. Il vec-chio Stato sovrano si trova ormai sempre più indebolito, alpunto che molti ne prevedono la fine inevitabile. A causarequesto declino sono stati da un lato la globalizzazione, che hadeterminato la nascita di una nuova comunità mondiale (acui va aggiunta, in qualche caso, come in quello dell’UnioneEuropea, la creazione di un nuovo organismo sovranaziona-

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Lo Stato:il quadro odierno

le), dall’altro il carattere sempre più marcato e aggressivodelle autonomie locali.

La globalizzazione è originariamente un fenomeno eco-nomico. Ma la sua portata è stata tale da coinvolgere anche lasfera politica, sociale, culturale, mettendo in crisi gli equilibritradizionali. Qualche esempio,per illustrare quanto detto. L’etàmoderna aveva visto una strettasimbiosi fra le grandi impreseeconomiche e i rispettivi Stati, fra la Krupp e il Reich tedesco,fra la Ford e gli Stati Uniti d’America, eccetera. L’economiaera soggetta alle leggi dello spazio e dell’appartenenza territo-riale. Oggi non è più così. Una grande multinazionale può be-nissimo avere la direzione a Ginevra, gli uffici di rappresen-tanza a Roma, le catene di montaggio in Malesia, e così via.Nessuno dei rispettivi Stati ha alcun reale potere su di essa.Al contrario, sono le scelte di questa multinazionale ad avereun’influenza sulla situazione interna degli Stati: il trasferi-mento di una grossa fabbrica da una regione all’altra delmondo può portare disoccupazione e crisi economica in unpaese e prosperità in un altro.

Analogamente, un tempo gli Stati erano responsabilidella sicurezza dei propri cittadini e avevano gli strumenti perfar fronte a questo compito. Oggi non è più così. I grandi pro-blemi dell’effetto serra, del buco nell’ozono, eccetera, non pos-sono essere affrontati adeguatamente da un solo Paese.L’interdipendenza a livello mondiale tra gli Stati è ancora piùevidente se si pensa ad alcune cause di insicurezza come il ri-schio di incidenti a centrali nucleari. In Italia esse sono stateconsiderate troppo pericolose e si è ripiegato su altre fonti dienergia. Ma, come ha dimostrato il caso di Chernobyl, un in-cidente che si verificasse in una centrale in una qualunquezona d’Europa avrebbe sul nostro Paese effetti altrettanto de-vastanti che se esso si fosse verificato sul suo territorio. GliStati non sono più in grado di controllare le situazioni e de-vono cercare nella creazione di accordi internazionali, a cuipoi devono restare soggetti, la soluzione ai problemi cheprima risolvevano con scelte autonome.

Dicevamo dell’Europa. In questo caso, oltre che alle ra-gioni generali sopra dette, il declino dello Stato è determina-to dalla nascita dell’Unione Europea che ne limita in modosempre più evidente la sovranità. Già da tempo vediamo i go-verni dei singoli Stati costretti a rispettare parametri econo-

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L’interdipendenzatra gli Stati e accordi

internazionali

mici che condizionano le loro scelte politiche interne e “bac-chettati” dalle autorità comunitarie quando non li rispettano.Con la nascita della nuova Costituzione europea gli spazid’autonomia dei singoli Paesi sono destinati ad attenuarsi an-cora, progressivamente. Certo, si potrà dire che in questo casoè stata comunque la scelta dei rispettivi governi a vincolarequesti Paesi. Ma, a ben vedere, la scelta era obbligata e l’al-ternativa alla soggezione era l’emarginazione.

L’altra spinta, opposta e simmetrica, che tende a divora-re le entità politiche statali, è la localizzazione. Mentre da unlato vengono risucchiati in assetti ed equilibri più grandi di

loro, gli Stati devono fare i contisempre più spesso con processidi disgregazione interna, che in-deboliscono il potere centrale e,

in qualche caso, determinano un vero e proprio sfaldamentodell’unità politica. È stato il caso dell’ex Unione Sovietica,della ex Jugoslavia e della ex Cecoslovacchia. Ma problemi divaria gravità travagliano anche la Spagna, con il moto separa-tista dei paesi baschi, il Belgio, con la tensione fra regioni val-loni e fiamminghe, l’Inghilterra, con la crescente insofferenzadella Scozia nei confronti del controllo inglese, l’Italia, con lespinte separatiste della “Padania”. Ogni gruppo, ogni campa-nile, vuole riconosciuta la propria identità e la propria auto-nomia, sottraendosi a regole comuni che sente soffocanti.

È chiaro che in entrambi questi movimenti – quello ver-so una universalità planetaria e quello verso una gestione po-litica più attenta alle concrete condizioni di una regione – visono non soltanto delle motivazioni, ma anche dei valori po-sitivi. Il vecchio Stato sovrano ha costituito uno strumento diordine e di equilibrio, ma anche di oppressione e di aggressi-vità. Un respiro più ampio da una parte, una maggiore con-cretezza dall’altro, costituiscono prospettive nuove, di cuitener conto con interesse e senza preclusioni a priori.

È anche vero, però, che entrambe queste tendenze, privedi un controllo che ne controbilanci la spinta, rischiano di de-generare. La mondializzazione che consegue alla globalizzazio-ne può facilmente trasformarsi in una nuova e più insidiosaforma di imperialismo, determinata, più che dagli interessi diun singolo Stato, come in passato, da quelli dei grandi centri dipotere economico e finanziario, e sottomettere le reali esigenzedelle popolazioni, soprattutto delle più povere, alle regole spie-tate e anonime del mercato. Reciprocamente, la localizzazione

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Localizzazionee globalizzazione

può manifestarsi, come già è stato, in nazionalismo e in scon-tro etnico, evidenziando il volto demoniaco di una diversità chesi chiude in se stessa e degenera in contrapposizione.

Qualcosa del genere si verifica, oltre che al livello eco-nomico e politico, anche a quello culturale. Un tempo le di-verse tradizioni spirituali, linguistiche, religiose, coesisteva-no, spesso senza mai entrare in reciproco contatto. Quandociò accadeva, nascevano seri problemi, di cui è testimonian-za la storia del colonialismo europeo negli altri continenti.Intere civiltà, anche abbastanza evolute, sono state cancella-te – per esempio quelle precolombiane in America -, in segui-to a questi incontri-scontri. Ma, nella maggior parte dei casi,gli esiti erano meno drammatici, anche per la grande capacitàdi autoconservazione che le identità culturali locali avevanoanche dopo l’occupazione straniera.

Oggi, con la diffusione deimezzi di comunicazione, con larelativizzazione del fattore spa-zio, con la capacità di penetra-zione che, al seguito dell’economia, hanno anche le visionidel mondo e della vita connesse alla logica del mercato, èforte il rischio che un’anonima globalizzazione culturale fa-gociti tutto e tutti all’interno di un unico orizzonte, travolgen-do le differenze. Anche in questo caso, ad essere più diretta-mente minacciate sono le culture dei paesi più deboli econo-micamente e politicamente. Ma alla fine tutti – ricchi e pove-ri, cristiani e seguaci di altre religioni – corrono il pericolo divedere svanire in pochi anni il loro retroterra culturale e diperdere le proprie radici e la propria identità.

Il fondamentalismo è una risposta sbagliata a questo pro-blema fin troppo reale. Esso è il disperato tentativo di difende-re i caratteri originari della propria tradizione culturale, irrigi-dendone l’opposizione nei confronti di tutte le innovazioni pro-venienti dall’esterno. Ci si attacca alla lettera delle proprie fontireligiose, alle forme passate deipropri costumi e delle proprieusanze, come il naufrago si at-tacca alla zattera per resisterealla tempesta. Ciò avviene in tanti casi quante sono le cultureche oggi si sentono minacciate: esiste un fondamentalismo isla-mico, di cui molto si è parlato in questi ultimi anni; ma ne esi-ste uno cristiano, vivo soprattutto negli Stati Uniti, e non sololà; esistono un fondamentalismo indù e uno ebraico.

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Globalizzazione:universalismo livellatore

Fondamentalismo:particolarismo chiuso

e conflittuale

Che questo a volte si coniughi con comportamenti este-riormente violenti è accidentale. Quel che è certo è che nelfondamentalismo stesso, in quanto tale, si annida il seme diuna violenza culturale, perché esso nasce dal conflitto nonmediato tra il proprio mondo particolare e quello esterno.

Gli esperti additano un modello, la glocalizzazione, ingrado di mediare, a tutti i livelli, fra le due tendenze che quiabbiamo cercato di illustrare – quella a un universalismo li-vellatore e quella a un particolarismo chiuso e conflittuale –incarnando la prospettiva planetaria proveniente dalla globa-lizzazione nella realtà concreta di una località e di una cultu-ra particolari, sfuggendo così al duplice rischio sopra indica-to. Ma è un modello che stenta a farsi strada e che ha bisognodi forze concrete che ne favoriscano l’attuazione.

La frammentazione sociale e antropologicaUn secondo fenomeno di divisione e “dispersione”, per

usare le parole del Concilio, che sta interessando in particolareil mondo occidentale, ma che – in forza della globalizzazione dicui si è appena parlato – fa sentire sempre di più il suo influs-so anche su altre culture, è il passaggio da una società tenden-zialmente monolitica a una complessa e frammentaria, in cuinon conta più tanto il tutto, quanto gli individui e i gruppi chelo costituiscono. Questo vale sia per le comunità più piccole,come la famiglia, sia per quelle più grandi, come i partiti, i sin-dacati, la stessa Chiesa, sia per la società nel suo insieme. Adognuno di questi livelli si registra una profonda trasformazione,che da un lato valorizza il singolo – o anche aggregazioni rela-tivamente ristrette di singoli, accomunati da una stessa identitàprofessionale o culturale – dall’altro porta allo smembramentodelle comunità e alla crisi delle appartenenze.

Non è lontano il tempo incui la famiglia, la parrocchia ol’Azione Cattolica, il partito, pla-smavano la personalità dei loro

membri, che se ne sentivano in ogni momento e in ogni situa-zione rappresentanti. Ciò dava luogo anche a forme di dipen-denza e di fanatismo, e probabilmente non è da rimpiangereche sia venuto meno. Oggi le persone non accettano più diavere una fisionomia fissata una volta per tutte. Le divise ven-gono rifiutate. Gli individui sono molto più liberi di ridefinirsiincessantemente, alla luce delle mutevoli esperienze che vanno

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Risvolti di una societàcomplessa e frammentaria

facendo ogni giorno. Se frequentano un ambiente religioso opolitico, non se ne sentono però vincolati in modo rigoroso e siritengono in diritto di abbandonarlo in ogni momento se essonon corrisponde più alle loro esigenze. Se si uniscono tra diloro, lo fanno in nome non di un legame precostituito – come ilsangue, la famiglia, la fede – ma sotto la spinta di interessi con-creti che possono cambiare in ogni momento.

È vero anche, però, che questa logica si ispira a quellamoderna del mercato, caratterizzata appunto dalla possibilitàsempre aperta di “uscita” dal rapporto, rispetto a quella ar-caica del dono, che invece implicava un vincolo reciproco difedeltà (i doni non si possono revocare). Si capisce così il pas-saggio dalla cultura della famiglia, che poneva al centro la re-sponsabilità verso il coniuge e i figli, a quella della coppia,fondata su un consenso da rin-novare ogni giorno e che vienemeno ove anche uno solo deidue non si “senta” più di conti-nuare. Si capisce la trasformazione della politica, che invecedi servire al bene comune (o, nei casi peggiori, al potenzia-mento dello Stato) è diventata l’arte di mediare tra interessiindividuali o di gruppo strutturalmente diversi e contrapposti,nell’intento di mantenere il consenso. Si capisce, insomma, laderiva di individualismo e corporativismo di cui siamo tuttiprotagonisti, oltre che spettatori, e che ha reso sempre piùconflittuale il mondo occidentale contemporaneo.

È appena il caso di sottolineare che alla maggiore indi-pendenza dei singoli corrisponde anche una maggiore solitu-dine. Il culto della privacy implica che alti steccati venganoinnalzati – e non solo metaforicamente – intorno alle abita-zioni e alle vite, separandole le une dalle altre. La diffidenzaverso l’altro in quanto tale aumenta. Per altro verso, in unacultura in cui nessuno risponde più a nessuno, si diventa au-tonomi, ma non si è più necessari. E può accadere che il corpodi una persona venga ritrovato dopo tre mesi, senza che al-cuno si fosse preoccupato nel frattempo della sua sparizione.

Questa frantumazione deltessuto sociale favorisce quelladelle personalità. In un mondosempre più complesso, dove leopportunità, i messaggi, gli stimoli si moltiplicano a dismisura,anche il soggetto diventa meno capace di avere una identitàunivoca e si affida al gioco indefinito delle esperienze, che lo

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Individualismoe corporativismo

Frantumazionedel tessuto sociale e della personalità

coinvolgono e lo determinano. “Vedo me stesso – scrive C. Lévi-Strauss – come il luogo in cui qualcosa accade, ma non v’è nes-sun io né alcun me. Ognuno di noi è una specie di crocicchioove le cose accadono. Il crocicchio è assolutamente passivo:qualcosa vi accade. Altre cose, egualmente importanti, accado-no altrove. Non c’è scelta: è una questione di puro caso”43.

Impossibile, in questa logica, avere un’unità, un centrointeriore. Anche l’uomo e la donna contemporanei, di frontealla domanda: “Chi sei, qual è il tuo nome?”, risponderebbe-ro, come l’indemoniato del Vangelo: “Mi chiamo Legione, per-ché siamo in molti” (Mc 5, 9).

Da qui, certamente, una maggiore ricchezza ed elastici-tà. Le personalità di un tempo erano monolitiche, “tutte d’unpezzo”. Don Camillo e Peppone sono l’emblema di un mondoin cui ognuno sapeva perfettamente chi era, in che cosa cre-deva, cosa voleva. Ma il prezzo di questa unità interiore erauna rigidezza che rendeva incapaci di concepire prospettivediverse dalla propria.

Oggi questa rigidezza èsvanita, col guadagno di unagrande ricchezza e disponibi-lità, ma al prezzo di una labilità

e di una contraddittorietà che rendono difficile ogni scelta du-ratura, ogni legame stabile, ogni impegno definitivo. Da qui lacrisi delle vocazioni. Non solo di quella religiosa o sacerdota-le, ma anche di quelle matrimoniali. L’io si è trasformato inuna società per azioni dove, volta per volta, hanno la mag-gioranza azionisti diversi. E a decidere sono di fatto le situa-zioni casuali che coinvolgono l’individuo e gli conferiscono ilvolto del momento.

Anche la libertà – apparentemente dilatata da questi va-stissimi scenari – finisce per essere vanificata. Poter fare trop-pe cose, ha come paradossale effetto quello di paralizzare e direndere impossibile una scelta. Davanti a quaranta canali te-levisivi si è molto meno in grado di individuare qualcosa cheveramente interessi e si rischia di passare il tempo a vagarecon lo zapping dall’uno all’altro, senza vedere nulla.

Si ripropone, in tutta la sua sconcertante attualità, la vi-cenda del Dott. Jekyll e di Mister Hyde narrata da Stevenson.Una fame di esperienze che porta a esplorare zone sempre

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Rigidezza, labilitàe contraddittorietà

43 C. LÉVI-STRAUSS, Mito e significato, ed. it. a cura di C. Segre, Il Saggiatore,Milano 1980, pp. 16-17.

nuove, e talora anche più oscure, della propria personalità, ri-schia alla fine di lasciare il soggetto disintegrato – in certi casiin forma addirittura patologica – nelle diverse identità a cuinon ha saputo rinunziare.

È possibile ritrovare unfine condiviso che restituiscaalla politica il suo significatooriginario di orientamento dellacomunità verso il bene comune? È possibile ricostituire, più amonte, il tessuto di una società che, con la sua parcellizza-zione, ben lungi dal potere costituire un’alternativa allo Stato– come vorrebbero alcuni – alimenta spesso la perversionedella politica? È possibile recuperare il senso unitario dellecomunità particolari, prima fra tutte la famiglia, sfuggendoalla deriva centrifuga che le ha reso delle nebulose senza piùuna vera coesione interna? È possibile trovare, a livello an-tropologico, il modo di recuperare l’unità dell’io, sottraendoloalla sua tendenziale schizofrenia? Sono alcuni degli interro-gativi a cui oggi siamo chiamati a dare una risposta, ma percui non è affatto sicuro che ve ne sia una affermativa.

La difficoltà sta nel fatto che non si tratta di tornare alpassato. Società e personalità monolitiche erano forse ade-guate ad un altro contesto storico, ma non sono riproponibilinel nostro. Non solo per una oggettiva impossibilità, maanche perché noi stessi, per quanto critici del presente, nonvorremmo mai rinunciare a quanto di positivo è stato conqui-stato. Quella della libertà dei singoli è un’esigenza reale, e ilfatto che a volte costituisca una minaccia per la dimensionecomunitaria non significa che vada annullata. Si tratta di tro-vare il modo di far comunicare queste due istanze, entrambeirrinunciabili, mediando tra di esse in modo da armonizzarle,non di scegliere tra di esse; si tratta di ritrovare l’unità senzasacrificare le differenze.

La fine della comunità dei valoriIl terzo fenomeno di “dispersione” che vogliamo breve-

mente analizzare è la crisi della comunità etica, che aveva so-stanzialmente tenuto fino agli anni sessanta. Fino a quelladata si può dire che, per quanto profonde fossero le fratturedeterminate nel tessuto sociale dalle ideologie, sussisteva co-munque un terreno comune che un osservatore attento avreb-be potuto facilmente cogliere dietro lo scontro. Don Camillo ePeppone condividevano alcuni valori che alla fine, al di là

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Interrogativia cui dare risposte

della loro reciproca contrappo-sizione, giustificavano una sotti-le complicità, spinta talora, fino

all’esplicita cooperazione. Entrambi credevano, per esempio,che ci fosse una verità, anche se, ovviamente, ognuno dei dueriteneva fosse la sua. Entrambi ritenevano di lottare per la giu-stizia, e anche questo, in fondo li rendeva cittadini dello stes-so universo mentale. Esistevano, insomma, dei punti di riferi-mento a cui entrambi potevano appellarsi per rivendicare lavalidità delle proprie tesi e dei propri comportamenti.

Quello che oggi colpisce quanti hanno avuto modo divivere quella stagione è il fatto che non vi sono più parametricomuni in base a cui valutare le teorie e le pratiche sia pro-prie che altrui. In passato la normalità in senso sociologicoveicolava una sostanziale convergenza su quella in senso mo-rale. Oggi, dissoltasi la prima, sembra impossibile o addirit-tura arrogante cercare di stabilire la seconda.

Tanto più che il modo stesso di intendere la trasgressivitàè cambiato radicalmente. Fino a pochi decenni fa, i concetti di“peccato” e di “colpa” avevano un preciso significato, offrendoampio spunto al perbenismo borghese per bollare qualunquecomportamento non si conformasse alle norme stabilite. Eranoforme di “trasgressione”, che condannavano chi se ne rendevaresponsabile a restare ai margini della società.

Oggi essere trasgressivi èconsiderato un modo di manife-stare la propria personalità e igenitori e gli educatori guarda-

no con preoccupazione il ragazzo troppo rispettoso delle re-gole. Il peccato è diventato un reperto archeologico e la colpaviene ormai quasi esclusivamente nominata a proposito di undisturbo psicologico, il senso di colpa, che richiede l’interven-to non del confessore, ma dello psicologo.

A questo punto è diventato arduo convergere su un oriz-zonte di valori condivisi. Non ce n’è più nessuno che non tro-vi una decisa e argomentata contestazione da parte di gruppie movimenti. Da qui enormi problemi a mantenere in piedi ilconcetto di educazione pubblica, un concetto che richiede-rebbe, oltre alla trasmissione di competenze e abilità, anchel’offerta di alcuni valori degni, indiscutibilmente, di passareda una generazione all’altra. In mancanza di ciò, la nostrascuola si è ridotta a fornire ai giovani una gamma di strumentisempre più varia e sofisticata, dai corsi di restauro a quelli di

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Valori condivisi:una convergenza ardua

Crisi della comunità etica

scherma o di scacchi, abdicando al più difficile compito di ad-ditare fini.

Anche in famiglia, il gapgenerazionale non si manifestapiù clamorosamente, come allafine degli anni sessanta, comerottura, con liti, urla, fughe da casa, ma nella forma di unaspecie di incommensurabilità tra la prospettiva etica dei padrie delle madri e quella dei figli. A meno che – e ciò va diven-tando sempre più frequente – anche i primi non siano ormaiappiattiti sulla cultura della tolleranza senza limiti nei con-fronti di qualsiasi idea o comportamento.

È questa tolleranza che, in definitiva, ha sostituito la co-munità dei valori. Certo, si potrebbe osservare che è essa stes-sa un valore, ma tale da escludere che ce ne possano esserealtri. Per tolleranza, infatti, non si intende, come forse era al-l’origine di questo concetto, il rispetto per le persone che non lapensano come noi, ma la convinzione che ognuno abbia la suaverità e che perciò, in definitiva, non ce ne sia nessuna chepossa imporsi come universale per tutti. Da qui l’impossibilitàdi una critica che non appaia subito intolleranza e dogmatismo.Da qui, ancora, la rinunzia a di-scutere delle concezioni di fon-do, anzi, in molti casi, ad averneuna (almeno consapevole). Latolleranza di fatto si identifica con l’in-differenza, nel senso let-terale di caduta delle differenze: tutto si equivale. In effetti legrandi battaglie morali che ancora si combattono hanno comeobiettivo proprio quello di equiparare ciò che un tempo si con-siderava diverso: esseri umani e animali, famiglie di diritto e fa-miglie di fatto, omosessualità ed eterosessualità.

Da un lato vi è in tutto ciò il superamento di schemi edualismi che si traducevano in precise discriminazioni giuri-diche e sociali; dall’altro, dovrebbe inquietare il fatto che que-sto sforzo di proteggere e legittimare le diversità finisca pertradursi, paradossalmente, nel suo contrario, vale a dire inun’omologazione che cancella ogni differenza morale tra lescelte, livellandole in un’anonima equivalenza.

La crisi della comunità etica è resa più evidente dall’e-volversi della nostra società nella direzione del multicultura-lismo. Via via che nelle nostre strade, nelle scuole, nelle case,si fanno più frequenti gli episodi di coabitazione fra persone

101 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Tolleranza:rispetto di un pensiero

o livellamento della verità

Caduta delle differenze:tutto si equivale

di culture diverse, diventa più difficile trovare stili di vita cherispecchino le esigenze e le aspettative di tutti. Il problemadelle culture – e delle religioni che ad esse sono spesso in-scindibilmente connesse – è che esse, a differenza delle posi-zioni politiche o degli interessi economici, non sono suscetti-bili di negoziazioni e di compromessi. Non ci sono vie dimezzo quando si tratta di tradizioni secolari o di fedi: l’alter-nativa è tra una fedeltà che rischia di accendere conflittualitàe il rinnegamento che cancella l’identità.

A queste difficoltà si reagi-sce, spesso, cercando di depo-tenziare i fattori caratterizzantila nostra civiltà – il caso della

polemica sul crocifisso nelle scuole è emblematico – ripiegan-do su un anonimato che appare più rispettoso di questa va-rietà. Ma anche qui riaffiora lo stesso paradosso che si se-gnalava prima: il rispetto delle differenze, portato all’estremolimite, si traduce nella rinunzia ad esse. Che poi è rinunziaalle identità – prima fra tutte la propria – o almeno alla lororilevanza pubblica. Le tradizioni diventano un affare privato,da far valere in una ristretta cerchia domestica. Come il fumo,anche le idee ormai sono vietate nei luoghi pubblici.

Un tentativo dell’Occidente di mantenere un’identitàculturale è costituito dall’appello ai diritti umani. Si ritiene didover far spazio a tutte le possibili idee e pratiche, purchénon violino questi diritti. In quest’ottica sono stati affrontatiproblemi come l’infibulazione delle donne, vietata non permotivi culturali o religiosi, bensì, appunto, perché lesivi del-l’integrità del corpo femminile. Ma anche questo approccionon è al riparo da contestazioni, perché gli stessi diritti umanisono spesso considerati un prodotto della nostra civiltà, piùche un obiettivo terreno di incontro tra essa e le altre. Ancorauna volta, la rivendicazione del rispetto delle diversità porte-rebbe all’annullamento di ogni unità e all’incommensurabilitàdelle stesse differenze.

102 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Comunità dei valorie multiculturalismo

Seconda parte

Per una comunicazione tra le d ifferenzeA tutti e tre i livelli sopra esplorati c’è un problema di

comunicazione. Non solo, evidentemente, come scambio dimessaggi, ma nel senso in cui Tommaso diceva, seguendoAristotele, che communicatio facit domum et civitatem; la co-municazione costituisce la famiglia e la comunità politica: bi-sogna che vi sia un rapporto non puramente estrinseco, digiustapposizione o, peggio, di contrapposizione, perché nascal’unità. È proprio questo che manca, oggi.

Può stupire che nel tempo della comunicazione dimassa si verifichi una tale disgregazione. Ma, a questo pro-posito, notava acutamente Lucien Sfez: “Non si parla mai tan-to di comunicazione come in una società che non sà più co-municare con se stessa, la cui coesione è contestata, i cui va-lori si sfaldano, che dei simboli troppo usati non riescono piùa unificare [...] Non si parlava di comunicazione nell’Atenedemocratica, perché la comunicazione era alla base stessadella società. Era il legame che gli uomini avevano conqui-stato strappandolo al caos, che dava senso al sistema in tuttele sue facce: politica, morale, economica, estetica, relazione alcosmo [...] La comunicazione non era un problema neppureper la Città cristiana, e per le stesse ragioni [...] Noi oggi ab-biamo perduto la traccia di quei princìpi primi che assicura-vano la coesione d’insieme [...] Dio, la storia – questo dio lai-cizzato –, le antiche teologie fondatrici delle grandi figure sim-boliche, quali l’Uguaglianza, la Nazione, la Libertà, sonoscomparse come mezzi di unificazione. Ora, queste figure per-mettevano di vederci più chiaro, di situarsi nel mondo, diagire consapevolmente. È nel vuoto lasciato dal loro fallimen-to, che nasce la comunicazione, come un’impresa disperata diricollegare analisi specialistiche, ambienti chiusi all’estremo.Come una nuova teologia, quella dei tempi moderni fruiscedella confusione dei valori e delle frammentazioni impostedalla tecnologia”44.

In altri termini, la comunicazione nasce come tentativodisperato di ritrovare qualcosa che realmente accomuni. È

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44 L. SFEZ, La communication, Presses Universitaires de France, Paris 1991,(tr. nostra), pp. 4-5.

l’assenza di questo “qualcosa” (o “qualcuno”?) a rendere im-possibile il recupero dell’unità tra i diversi, via via che la lorodiversità si evidenzia. Perché ci sia vera comunicazione tra diessi, è indispensabile che vi sia un terreno comune, un lega-me significativo, un Terzo che li colleghi.

La morte del PadreIn realtà, la storia dell’età moderna è segnata dalla pro-

gressiva perdita di coscienza di questa necessaria condizionedella comunicazione. Emblematico il tentativo dell’Illumini-smo di ripensare il concetto cristiano di fraternità, secolariz-zandolo e abolendo la figura del Padre, sostituita con quella,ben più neutra e lontana, di un Architetto primordiale.

Il risultato è stato deva-stante. La fraternità è rimasta,ma nella forma conflittuale chegià costituiva un “luogo” classi-

co della tradizione religiosa e della mitologia – Caino e Abele,Giacobbe ed Esaù, Atreo e Tieste, Eteocle e Polinice, Romoloe Remo – e che esprime il lato oscuro del rapporto fraterno.Come ha scritto, a questo proposito, René Girare: “i figli del-l’orda primitiva, ormai privi del padre, sono tutti fratelli ne-mici; si somigliano talmente da non avere più la benché mi-nima identità; è impossibile distinguerli gli uni dagli altri; or-mai sono soltanto una folla di persone che portano tutte lostesso nome e vestite allo stesso modo”45.

Oggi la fraternità sembra presentarsi in due possibiliversioni, entrambe perverse: quella di un vacuo universali-smo, che implica in realtà lo svuotamento delle identità dicultura, di religione, di età, di genere; oppure quella di un af-fratellamento di tipo etnico-religioso, a carattere fortementefondamentalista, il cui cemento ultimo è costituito dalla chiu-sura e dalla conflittualità nei confronti degli altri gruppi.

Nell’eliminazione del Padre, in effetti, era già adombra-to quell’evento culturale decisivo che Nietzsche ha chiamato“la morte di Dio”, e che si traduce nella negazione dell’ideastessa di un mondo e di una verità comuni. Proprio in quan-to la figura paterna rappresenta, come ricorda Freud, il “prin-cipio di realtà”, essa costituiva un punto di riferimento ingrado di creare un vero legame tra i fratelli senza annullare le

104 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

La morte di Dio:negazionedi una verità comune

45 R. GIRARD, La violenza e il sacro, tr. it. O. Fatica e E. Czerkl, Adelphi,Milano 1992, p. 279.

loro diverse identità. Hannah Arendt, ha scritto che “vivereinsieme nel mondo significa essenzialmente che esiste unmondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come untavolo è posto tra quelli che vi siedono intorno; il mondo,come ogni in-fra , mette in relazione e separa gli uomini nellostesso tempo. La sfera pubblica, in quanto mondo comune, ciriunisce insieme e tuttavia ci impedisce, per così dire, di ca-derci addosso a vicenda. Ciò che rende la società di massacosì difficile da sopportare non è, o almeno non è principal-mente, il numero delle persone che la compongono, ma il fattoche il mondo che sta tra loro ha perduto il suo potere di riu-nirle insieme, di metterle in relazione e di separarle”46.

Senza Padre, i fratelli si assomigliano troppo e si com-battono; senza realtà, gli esseri umani non hanno nessunmondo comune che li unisca e li distingua nello stesso tempo.È il destino della società di massa, in cui “gli uomini sono di-venuti totalmente privati, cioèsono stati privati della facoltà divedere e udire gli altri, dell’es-sere visti e dell’essere uditi daloro. Sono tutti imprigionati nella soggettività della loro sin-golare esperienza, che non cessa di essere singolare anche sela stessa esperienza viene moltiplicata innumerevoli volte”47.

Da qui anche il fenomeno dilagante della violenza.Secondo Girard, essa nasce non dalla presenza di un oggettoreale, conteso tra più individui, ma dal fatto che una cosa insé insignificante diventa desiderabile solo perché altri la vo-gliono: “Il soggetto desidera l’oggetto perché lo desidera il riva-le stesso [...] Il rivale è il modello del soggetto [...] sul pianoessenziale del desiderio [...] Il desiderio è essenzialmente mi-metico”48. Conosciamo bene questi meccanismi: è la logicadelle mode, della ricerca disperata di status symbol, della garasfrenata per il successo. I fratelli, privi ormai di ogni punto diriferimento che non sia il cattivo gioco di specchi per cui cia-scuno vuole imitare l’altro, si ritrovano faccia a faccia in unmeccanismo mimetico che fa sì che ognuno agogni di esserel’altro, senza che nessuno riesca ad essere se stesso.

105 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Una soggettivitàche imprigiona

46 H. ARENDT, Vita activa. La condizione umana, intr. A. Dal Lago, tr. it. S.Finzi, Bompiani, Milano 1989, p. 39. 47 Ivi, p. 43. 48 R. GIRARD, op. cit., pp. 204-205.

I riflessi di tutto ciò sullapolitica sono inevitabili quantodevastanti. La deriva delle de-

mocrazie verso un totalitarismo mascherato, in cui l’opinionepubblica è controllata da meccanismi occulti di potere, è un ri-schio reale. In una pagina profetica, Alexis de Tocqueville scri-veva nel 1840: “Immaginiamo sotto quali nuovi aspetti il di-spotismo potrebbe prodursi nel mondo: vedo una folla innu-merevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotaresu se stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui sa-ziano il loro animo. Ciascuno di questi uomini vive per contosuo ed è come estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gliamici costituiscono per lui tutta la razza umana; quanto al restodei concittadini, egli vive al loro fianco ma non li vede; li toccama non li sente; non esiste che in se stesso e per se stesso, e sepossiede ancora una famiglia, si può dire per lo meno che nonha più Patria. Al di sopra di costoro si erge un potere immensoe tutelare, che si incarica da solo di assicurare loro il godimen-to dei beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, minuzioso,sistematico, previdente e mite [...] Lavora volentieri alla loro fe-licità, ma vuole esserne l’unico agente e il solo arbitro; provve-de alla loro sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, faci-lita i loro piaceri [...]; perché non dovrebbe levare loro total-mente il fastidio di pensare e la fatica di vivere?”49.

Ma lo stesso si può direper la sfera culturale e sociale:private di un terreno comune sucui incontrarsi per dialogare, le

diverse culture e le stesse vite individuali delle persone diven-tano atomi di una massa caotica e informe. Le differenze, nel-l’esasperarsi, finiscono anche col suicidarsi, perché dove vienemeno ogni unità e tutto si disgrega, non ci sono più neppuredelle identità che possano differenziarsi tra di loro e tutto an-nega in una specie di “brodo primordiale” in cui tutti sono solie al tempo stesso omologati. Massificazione e solitudine nonsono, come spesso si crede, contrapposte, ma costituiscono lefacce di una stessa medaglia. Il loro comune denominatore èl’assenza di un Terzo – la realtà, la verità, il bene – che acco-muni e consenta, al tempo stesso la differenziazione tra i di-versi e la loro distinzione.

106 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Totalitarismo mascherato

Brodo primordiale:solitudine e omologazione

49 A. DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, in Scritti politici, a c. di N.Matteucci, vol. II, UTET, Torino 1981, p. 812.

Fare il corpo di Cristo nell’orizzonte della TrinitàIl problema più urgente, oggi, è dunque ritrovare questo

Terzo che, a tutti e tre i livelli sopra indicati, consenta ai diver-si di comunicare senza confondersi o annullarsi. Ma in chemodo il sacerdote potrebbe con-tribuire alla soluzione di questoproblema, restando nell’ambitodel suo ministero e delle suecompetenze? Ritorna alla mente l’invito della Gaudium et Spes,citato all’inizio di questa riflessione, che attribuisce al presbite-ro il compito di fare unità. Ma in che senso? In che modo?

Fra le funzioni proprie del sacerdozio ministeriale, che lodistinguono nettamente – per essenza e non per grado – daquello dei fedeli laici, un posto particolare spetta alla celebra-zione del Mistero Eucaristico. Dice a questo proposito la LumenGentium, dopo aver elencato varie funzioni dei presbiteri: Masoprattutto esercitano il loro sacro ministero nel culto eucaristicoo sinassi. Poco dopo si aggiunge che essi raccolgono la famigliadi Dio, quale insieme di fratelli animati da un solo spirito (LG28). Potremmo dire, sintetizzando, che per il Concilio VaticanoII, come del resto in tutta la tradizione della Chiesa, compitodel sacerdote, in inscindibile unione al suo vescovo, è innanzitutto di fare il corpo di Cristo, sia consacrando il pane e il vinosull’altare, sia radunando e presiedendo l’assemblea dei fedeli.

Non a caso, per rappresen-tare quest’ultima, l’immagine delcorpo è ampiamente valorizzatadalla stessa Lumen Gentium, dove,riprendendo la prima lettera di Paolo ai Corinzi (cfr. 12, 12-13.27), si ricorda che come tutte le membra del corpo umano, anchese numerose, formano un solo corpo, così i fedeli in Cristo (LG 7).

L’importanza di questa simbologia per il nostro tema èevidente: come in quello umano, anche nel corpo mistico diCristo vige una diversità di membri e offici. Al tempo stesso,però, uno è lo Spirito che, unificando Egli stesso il corpo con lasua virtù e con l’interna connessione dei membri, produce e sti-mola la carità tra i fedeli (LG 7). Siamo davanti, insomma, aduna figura che coniuga inscindibilmente l’unità e la diversità.Un corpo non è una somma disarticolata di membra fra lorogiustapposte o addirittura contrapposte. Ma non è neppureuna massa amorfa, oppure un unico gigantesco naso, o brac-cio, perché neppure questo sarebbe un organismo. Così l’im-magine del corpo, applicata alla Chiesa, valorizza la comuni-

107 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Il compito del presbitero:fare unità

Una comunicazione in forza della diversità

cazione tra i diversi non malgrado la loro diversità, ma preci-samente in forza di essa.

Tutto ciò non vale soltanto per i battezzati. È la stessaLumen Gentium ad affermare solennemente che la Chiesa è inCristo come un sacramento [...] dell’unità di tutto il genereumano e che il suo interno dinamismo, ben lungi dall’esserecentripeto ed autoreferenziale, la porta a far sì che tutti gli uo-mini, oggi più strettamente congiunti da vari vincoli sociali,tecnici e culturali, possano anche conseguire la piena unità inCristo (LG 1).

Fare il corpo di Cristo, peril sacerdote, significa dunqueinnanzi tutto operare affinchéla comunità cristiana che gli è

affidata trovi l’armoniosa unità dei diversi che è propria di uncorpo ben sviluppato; ma significa anche tendere incessante-mente a che questa comunicazione delle differenze “traboc-chi”, per così dire, sul territorio circostante e si irradi progres-sivamente verso sponde sempre più lontane. E se è vero che iconfini dell’azione missionaria sono quelli stessi della terra, èchiaro che questo sforzo unificante non può arrestarsi troppopresto, ma deve abbracciare i grandi fenomeni planetari, oanche semplicemente europei, a cui facevamo riferimento nel-la prima parte. Il sacerdote deve essere, proprio in forza delsuo ufficio, un instancabile operatore della riconciliazione tradimensione universale e identità locali, tra le molteplici formedi diversità che caratterizzano la società complessa, tra lemolteplici esperienze che minacciano l’identità delle persone,tra i divergenti valori che si fanno strada e si fronteggianonella nostra società.

È appena il caso di dire che questa ampia prospettivanon deve far perdere di vista la peculiarità della figura del pre-sbitero, che non va mai confuso con un semplice operatoreculturale, sociale o politico. Egli può fare il corpo di Cristo nelsenso della comunità solo perché fa il corpo di Cristo nel sensodel sacrificio. Anche se il suo ministero coinvolge la sfera deivalori terreni, esso trova la propria motivazione, il proprio im-pulso, la propria sorgente nascosta, nella dimensione trascen-dente del Mistero Eucaristico. La comunione umana ha il suofondamento in quella con Dio: Nella frazione del pane eucari-stico partecipando noi realmente del Corpo del Signore, siamoelevati alla comunione con Lui e tra di noi (LG 7).

108 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Fare il corpo di Cristo:armoniosa unità dei diversi

Anche nella conduzione della sua comunità, il sacerdo-te non è un manager che, esclusivamente in base a compe-tenze psicologiche o a capacità organizzative, gestisce il grup-po in modo da massimizzarne la coesione e il rendimento, malo strumento di un amore che a sua volta egli ha ricevuto eche le capacità e le competenze umane possono veicolare,non sostituire. Perciò il presbi-tero resterà sempre innanzituttol’uomo che sull’altare compie ilmiracolo dell’incontro fra ilcielo e la terra, il miracolo dell’assunzione delle fatiche e dellesofferenze umane nella vita di Cristo, affinché Egli le possaportare, a sua volta, al Padre.

Ma, se il prete può fare questo, è perché a monte, attra-verso di lui opera la potenza del Dio, che dona il suo Figlionello Spirito. Solo nella Trinità trova il suo fondamento l’unitàdell’assemblea eucaristica, che ne è l’icona. Nella Trinità tro-va la sua spiegazione ultima il mistero dell’unità e della di-versità tra i membri del corpo di Cristo. È Dio il Terzo in cuila comunicazione tra le diverse realtà umane può realizzarsi,trovando un terreno di convergenza. Proprio nel sacrificio eu-caristico il sacerdote rende presente, nella sua espressionepiù alta, questo Terzo, di cui i diversi, con le loro variegateesperienze personali, hanno bisogno per incontrarsi. Ma esso,identificandosi con la Santissima Trinità presente in modoeminente nella passione, morte e resurrezione di Cristo, è nonsoltanto il garante, ma anche il modello della comunicazione,essendo nel suo mistero più profondo comunione di trePersone in eterno dialogo tra di loro.

Oltre la frammentazioneQui può trovare le sue radici ultime la prospettiva di

una comunione nella diversità, al di là sia del dualismo e del-la frammentazione, sia della fusione omologante. E qui si hala risposta alla domanda che ci eravamo posti, e cioè come siapossibile superare le divaricazioni e le dispersioni che carat-terizzano la nostra società.

Per quanto riguarda quella tra universale e particolare,nella prospettiva del Terzo che è il Dio trinitario e sul model-lo analogico del corpo di Cristo l’unità politica può essere ri-considerata come frutto della dialettica tra solidarietà e sussi-diarietà in vista del bene comune. Il declino dello Stato sovra-

109 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Presbitero:strumento di quell’amore

che ha ricevuto

no, dicevamo prima, non è necessariamente da rimpiangere.Esso, storicamente, si è posto spesso come un sostituto di ciòche doveva garantire, vale a dire, appunto, del bene comunedella società umana, operando non al servizio di questo bene,ma in funzione delle propria autoconservazione e potenza.

Ora che si indebolisce il protagonismo straripante delloStato, si può far luce, finalmente, sulla varietà delle identità edelle funzioni particolari della società civile, senza per questo

tradire la solidarietà che uniscei cittadini. A differenza del pri-mato dello Stato, a cui finoraeravamo abituati, quello del

bene comune si presta a restituire alle singole comunità in-termedie e particolari il loro dinamismo proprio, valorizzan-dolo nella sua peculiarità locale, ma consente anche di rac-cordarle tra loro in rapporto ad un orizzonte più universale,che non si conclude necessariamente all’interno di una singo-la realtà nazionale, ma può estendersi a livello planetario.Sarebbe così possibile una comunità tra popoli che – pur al difuori di una logica statale (uno Stato mondiale sarebbe inevi-tabilmente totalitario) – convergano su stili e obiettivi comu-ni, al di là dell’omologazione e della conflittualità. È il mo-dello del corpo e della Trinità, assunto come ispiratore di unanuova politica.

Nella stessa logica è pensabile una comunicazione tra leculture che consenta di ricondurre la varietà delle tradizioni inesse presenti a un orizzonte trans-culturale di verità e di bene,entro cui le diverse identità possano, pur restando se stesse,dialogare, al di là del relativismo e del fondamentalismo.

In continuità con questa prospettiva può essere lettoanche il compito che ci attende, se vogliamo cercare di sana-

re la frantumazione individuali-stica all’interno della nostra so-cietà. Si tratta, anche qui, di va-lorizzare le differenze, le scelte

e le esperienze individuali, creando però occasioni e spazi diincontro e confronto fra di esse, affinché, senza nostalgia perle grandi strutture monolitiche del passato, si ricostituiscanoforme comunitarie più flessibili ma non meno capaci di unirele persone e di aiutarle a ritrovare una unità interiore. Anchequesto impegno, però, esige il riferimento a un Terzo, che nonsi identifichi con nessuno dei singoli protagonisti della vitasociale e che sia, perciò, in grado di accomunarli. E qui ritor-

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Obiettivi comuni al di là dell’omologazione

Recuperodi un comune patrimoniodi verità e valori

na l’esigenza del Padre, e di un Padre capace di fare unitànella diversità, come avviene nel Mistero Eucaristico sul fon-damento del modello trinitario. Tradotto in termini umana-mente apprezzabili anche da chi non è credente, questa esi-genza implica il recupero di un comune patrimonio di veritàe di valori in cui gli individui e i gruppi particolari possano dinuovo riannodare dei legami non meramente utilitaristici e, altempo stesso, per quanto concerne i primi, riscoprire il fon-damento unificante della propria personalità.

Infine, anche per quanto riguarda il terzo livello, quellodei valori, bisogna andare al di là della secolarizzazione sel-vaggia che, appiattendo l’esperienza umana sul piano mera-mente fattuale, non consente più di ritrovare punti d’incontro edi convergenza. Anche qui sitratta di ritrovare nel mondoumano la traccia di qualcosa chesupera l’arbitrario soggettivi-smo. Non importa quale nome gli si dia. Esso costituirebbe co-munque, che lo si sappia o no, un riflesso più o meno lumino-so del Dio che è, nella tradizione cristiana, la sorgente di ogniverità e di ogni bene e che, donandosi in Gesù, ha fondato l’u-nità non solo dei credenti, ma di tutto il “genere umano”.

Alla luce di quanto detto si può comprendere meglioanche quello che hanno fatto presbiteri come don Sturzo e donPuglisi. Per quanto rilevante sia stato il loro ruolo, rispettiva-mente sul piano politico e su quello sociale e culturale, sareb-be un grave errore di prospettiva credere che essi lo abbianosvolto in alternativa al loro ministero sacerdotale, oppure, alcontrario, in aggiunta ad esso, come una semplice appendice.In entrambe le ipotesi, infatti, si perderebbe di vista la sola cor-retta chiave di lettura del loro impegno terreno, che non è quel-la esclusivamente politica per Don Sturzo o quella sociologica,sociale, umanitaria per Don Puglisi, ma va cercata proprio nelloro essere presbiteri. Quello che essi hanno realizzato, a livel-lo temporale, non ha mai cessato di avere un senso sacerdota-le, perché non era nient’altro che il prolungamento e la tradu-zione analogica, sul piano della vita politica e sociale, di quel-la mediazione che essi facevano ogni giorno sull’altare, tra Dioe gli uomini, e perciò anche tra i membri della società umana.

La formazione del sacerdote, oggi Se il compito del presbitero oggi assume queste vastis-

sime dimensioni, è chiaro che non si può pensare di conti-

111 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Superamentodel soggettivismo

arbitrario

nuare a formare i sacerdoti senza quasi tenerne conto, comeinvece spesso si continua a fare.

Certo, alla base di tutto vi sono delle esigenze che sonodi ogni tempo. Si tratta, in primo luogo, di educare delle per-sonalità ad essere fino in fondo di Dio e fino in fondo degli uo-mini. Il grande rischio del presbitero, oggi come ieri, è di re-stare a mezz’aria tra queste due dimensioni, senza realmenteappartenere totalmente a nessuna delle due. Un uomo “troppoumano” – nel senso che Nietzsche dava a questa espressionenella sua polemica col cristianesimo – per poter testimoniaredavvero la presenza di Dio, e troppo separato dagli altri perpoter condividere davvero la loro vicenda. L’esatto contrario,insomma, di ciò che era Cristo, al tempo stesso vero Dio e verouomo. E in Cristo si manifesta tutta la falsità dell’alternativatra le due appartenenze: i Santi hanno saputo donarsi piena-mente agli uomini proprio perché si sono donati pienamente aDio, e non malgrado ciò. Un presbitero disumano non lo è per-ché troppo vicino al Signore, ma perché non ha ancora trova-to la strada del Suo cuore e la ricchezza della Sua pace.

Fermo restando questo orizzonte di fondo, il progettoeducativo dei futuri presbiteri dovrebbe puntare su alcunepriorità che sono specifiche dell’oggi. Una, alla luce di quan-to detto, è di renderli aperti ad una prospettiva planetaria e al

tempo stesso di educarli all’at-tenzione alle situazioni del luo-go e del momento in cui si tro-veranno a svolgere la loro mis-

sione pastorale. Anche qui il pericolo, soprattutto per chisvolge la funzione di parroco, è di restare fuori dall’una e dal-l’altra sfera, isolato all’interno di una micro-comunità preco-stituita, ostaggio di un gruppo di “pie donne” che fanno da fil-tro nei confronti degli altri fedeli, talmente assorbito dai pro-blemi della gestione della pastorale ordinaria e dalla cura diquella parte del gregge rimasta nel recinto del tempio, da fini-re per trascurare sia i grandi problemi del mondo, come sefossero estranei alla più genuina missione del sacerdote, siaquelli del territorio particolare, dove vivono le “novantanovepecorelle smarrite”.

Quello che il sacerdote dovrebbe acquisire, in Seminario,è lo stile dell’esodo, che è proprio delle Persone della Trinità,le quali sono l’una per l’altra (e in ciò consiste la loro identità).Questo stile ha caratterizzato tutta la storia della salvezza.Non è un caso che Israele abbia avuto la sua origine, come po-

112 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

L’esodo:lo stile del sacerdozio

polo, solo nell’uscita dall’Egitto. Come non lo è che il primoatto della Chiesa appena costituita dall’azione dello Spirito siastato di venir fuori dal cenacolo. Uscire significa rischiare, ab-bandonare il terreno sicuro delle proprie abitudini, delle pro-prie certezze, per rimettersi in discussione fino in fondo. Ad at-tendere fuori c’è il deserto, c’è un mondo che può sembrare, aprima vista, ostile e i cui linguaggi sono incomprensibili. Mac’è anche il Signore, che proprio nel deserto si fidanza col suopopolo. Come dice il profeta Osea: “Perciò, ecco, la attirerò ame, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore [...] Là can-terà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscìdal paese d’Egitto [...] Ti fidanzerò a me nella fedeltà e tu co-noscerai il Signore” (Os 3, 16-17. 22).

Anche oggi il presbitero è chiamato ad affrontare la nuo-va Babele dei messaggi elettronici, le vicende convulse di unmacro-cosmo, il mondo, o di un micro-cosmo, il territorio ol’ambiente, travagliati entrambi da immensi problemi. È com-prensibile la sua tentazione di restare al sicuro dentro il pro-prio rifugio, come il protagonista del film di Giuseppe Torna-tore La leggenda del pianista sull’oceano, spaurito da un mon-do troppo vasto e senza paletti. Ma così nessuna mediazioneè possibile. Ciò che al contrario si chiede, al prete, è di esse-re solidale con tutti gli uomini e le donne della terra, non perdisperdersi in un vuoto paralizzante, ma per poter esserlo ve-ramente nei confronti dei pochiche potrà raggiungere fisica-mente. Come dice San Paolo:“Infatti, pur essendo libero datutti, mi sono fatto servo di tuttiper guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto Giudeo coni Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sottola legge sono diventato come uno che è sotto la legge, pur nonessendo sotto la legge, allo scopo di guadagnare coloro chesono sotto la legge. Con coloro che non hanno legge sono di-ventato come uno che è senza legge, pur non essendo senzala legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo, per guada-gnare coloro che sono senza legge. Mi sono fatto debole con ideboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, persalvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9, 19-22).

Non meno impegnativa si presenta la missione del sa-cerdote in una società complessa e frammentata, dove eglinon trova più i tradizionali punti di riferimento per i suoicomportamenti e deve inventare prassi nuove, per far fronte a

113 CORSO PER STUDENTI DI TEOLOGIA

Ministero sacerdotalemediazione

tra il macro-cosmo e il micro-cosmo

situazioni sempre più problematiche. Un esempio per tutti. Untempo la pastorale familiare si svolgeva secondo binari sicuri.Il compito del sacerdote era di andare a benedire le case, di ac-cettare qualche invito a cena, di far festa ai bambini. La suacollocazione era ben definita da una tradizione consolidata.Oggi, sempre più spesso, le coppie che frequentano la Chiesae lo avvicinano non sono sposate religiosamente, o perché nonvogliono, o perché non possono farlo. Le questioni che pongo-no sono spinose, come quelle relative alla contraccezione oalla fecondazione assistita. E la posizione del prete nei loroconfronti non è più quella di un’autorità indiscussa, ma di uninterlocutore che deve riuscire a farsi accettare.

Non si tratta solo di mutati atteggiamenti soggettivi: ilquadro delle famiglie presenta delle difficoltà oggettive. I ruolidei due partner, in casa, non hanno più nulla a che vederecon la tradizionale divisione dei compiti, a cui ancora il Ma-gistero si appella. Il lavoro di entrambi è sempre più spessocaratterizzato da condizioni di mobilità, anche spaziale, cherendono precaria la convivenza materiale. I bambini cresconoin un’orgia di consumismo che è difficilissimo controllare.Diventa molto difficile, per il sacerdote, dare indicazioni, as-sumere una linea coerente e al tempo stesso flessibile, percercare di fare unità in questo guazzabuglio. Eppure è questoche gli si chiede. Certo, a cena può continuare a parlare delpiù e del meno, distribuire sorrisi e buone parole, accarezza-re i bambini e tornare di corsa tra le sue signorine devote, chequesti problemi non li hanno. Ma ciò, appunto, sarebbe lafine della sua mediazione. I mediatori devono essere, comeGesù, capaci di lasciarsi ferire, al limite della lacerazione, daiproblemi degli altri.

Ancora più evidente è ilcarattere in qualche modo av-venturoso – dunque anche ri-schioso ma, al tempo stesso, af-

fascinante – che la missione del prete oggi assume di fronte almoltiplicarsi delle scale di valori e alla loro apparente incom-mensurabilità. Qui più che mai è urgente quanto arduo rifareunità, senza per questo pretendere di annullare una diversitàche, mentre ci disorienta, per tanti versi ci arricchisce. La for-mazione del futuro presbitero nei Seminari di cinquant’anni fasi valutava in termini di solidità, di fedeltà, di coerenza. Tuttiquesti aspetti rimangono attuali, anzi lo sono ancora di più

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La missione:carattere avventuroso e affascinante

oggi, ma devono coniugarsi con altri: creatività, duttilità, sensodella prospettiva. Il dogmatismo e lo scetticismo hanno la stes-sa radice: un’idea angusta di ciò che è la verità. Il sacerdote èchiamato a testimoniare che essa, come Dio, è più grande delnostro cuore, e che, accolta generosamente in tutto lo spettrodelle sue innumerevoli sfumature, può sempre sorprenderci.

Meraviglia e unità interioreMa perché dai Seminari escano preti capaci di questo,

forse anche lo studio nelle Facoltà Teologiche dovrebbe essereanimato da uno spirito diverso. Si ha talvolta l’impressione cheesso sia vissuto dai futuri presbiteri come un pedaggio da pa-gare per giungere all’ordinazione. Oppure, comunque, che siainteso come l’acquisizione di un bagaglio di conoscenze che po-tranno tornare utili nell’esercizio del ministero. Si tratta di unfatale equivoco. Il problema non è di imparare libri e di supe-rare esami, come in una corsa ad ostacoli. È, al contrario, di sa-persi fermare e di aprire gli occhi sulla realtà. Le lezioni, i testi,sono come una finestra. Propriamente parlando, essa non èniente: un’apertura nel muro, un’interruzione nel materialedella parete. Ciò che conta è il mondo che questo vuoto con-sente di vedere, la luce che lascia entrare. Ciò a maggior ragio-ne quando, come negli studi teologici, lo spettacolo che si offreè il mistero stesso di Dio, in cui si rispecchia quello dell’uomo.

La virtù più importante,per chi studia – e quindi ancheper chi si prepara al sacerdozio– è la meraviglia. Non quellosbalordimento di fronte a fenomeni straordinari, di cui oggisembra esservi una morbosa ricerca, ma la capacità di aprirei propri occhi su ciò che è più semplice, più vicino, e proprioper questo più invisibile allo sguardo distratto che sogliamoposare sul mondo circostante. Solo occhi limpidi possono ve-dere ciò che la fretta e l’abitudine ci tengono abitualmente na-scosto. Platone dice e Aristotele ripete che è la meraviglia adaprire lo spazio della ricerca. E noi abbiamo bisogno, oggi piùche mai, di preti che sappiano stupirsi e porsi delle domande,non per insicurezza psicologica, come talora accade, ma perpassione nei confronti della verità e per la consapevolezzache nel mistero di Cristo, Verbo di Dio, si celano profonditàancora da scoprire e da esplorare.

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La meraviglia apre lo spazio

della ricerca

Solo in questo spirito sarà possibile al prete affrontare ilfrastagliato, inesauribile arcipelago di idee e di culture in cuioggi dobbiamo navigare a vista, senza mappe precostituite.Solo così egli potrà vincere la tentazione dell’indifferenza e delsincretismo, che accompagnano come un’ombra il pluralismo,senza per questo perdere il gusto di scoprire l’anima di vero edi bene che si nasconde in ogni posizione. Diceva Giustino,un martire del secondo secolo che era anche un filosofo, che“tutto ciò che è stato detto di vero appartiene a noi cristiani;giacché, oltre Dio, noi adoriamo ed amiamo il Logos del Dioingenito ed ineffabile, il quale si fece uomo per noi, divenendopartecipe delle nostre infermità, e ci guarì da esse”50. In unasocietà policentrica e multiculturale come la nostra, un sacer-dote deve aver meditato a lungo su queste parole.

Ma l’obiettivo più importante, nella formazione del pre-sbitero del nuovo millennio, è che egli stesso sia unificato. Ditutti i problemi che abbiamo individuato, sia pur sommaria-mente, nella nostra panoramica, la frammentazione dell’io èforse il più grave perché tocca direttamente la persona nel

santuario della sua intimità ecostituisce così lo sbocco ditutti gli altri a livello antropolo-gico. Nessuno, oggi, può esser-

ne immune. E forse, anche potendo, non sarebbe bene torna-re agli uomini e alle donne tutti d’un pezzo (o che almeno talisi manifestavano), da cui era popolato il mondo di alcuni de-cenni fa. Solo se sarà “uno” in se stesso, il presbitero potrà as-solvere il compito, assegnatogli dalla Gaudium et Spes, di eli-minare “ogni motivo di dispersione, affinché tutto il genereumano sia ricondotto all’unità della famiglia di Dio”.

Oggi spesso i preti vivono come un grosso problema quel-lo di comunicare veramente con la gente. Sanno comandare suiloro parrocchiani, ma questo in molti casi viene realizzato inmodo tutt’altro che comunicativo, anzi come fuga da un realeconfronto. Chi si arrocca dietro la propria autorità come dietroun baluardo spesso ha solo paura, anche se non lo sa ammet-tere. Forse tanti presbiteri non sanno comunicare con gli altriperché non sanno comunicare abbastanza con se stessi. Fannotante, troppe cose, ma non riescono ad avere una propria iden-tità che, in ultima istanza, dovrebbero trovare in Cristo.

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50 GIUSTINO, Seconda Apologia, 13; PG VI, col. 468 (trad. nostra).

Uno in se stesso Contro la frantumazionedell’io

Perché ciò accada, però,sarebbe illusorio puntare sulmodello di unità monolitica cheera proprio del credente e delsacerdote di epoche passate. Bisogna, piuttosto, che il presbi-tero impari ad accettare e a vivere la complessità anche dentrodi sé. Bisogna che si attrezzi spiritualmente per dare un voltoa quelli che Jean Vanier chiama “i mostri” che si muovonodentro di noi, nelle profondità del nostro essere, e che vengo-no alla luce specialmente in certi momenti. Perché nulla rendepiù pericolose queste sorde pulsioni, queste inclinazioni di-sordinate, quanto il tentativo di esorcizzarle e di rimuoverlesenza volerle guardare in faccia, anzi negando, davanti a noistessi, prima che davanti agli altri, la loro stessa esistenza.

Questo vale anche a livello di esperienza di fede. C’è, di-cevamo all’inizio, un non credente dentro di noi, di cui nondobbiamo fingere di non sapere nulla. Prendere atto della suapresenza, dialogare con lui, è importante. La molteplicità puòanche diventare una ricchezza, una capacità di capire altriuomini e altre donne che la vivono come noi.

Il miracolo che può restituirci la pace è l’umiltà. A que-sto innanzitutto il futuro presbitero dovrà educarsi. Il model-lo è Maria, con la sua povertà, con la sua difficoltà a com-prendere quanto le accadeva. Delle pochissime parole cheella dice in tutto il Vangelo, due sono domande: quella all’an-gelo, circa la possibilità di concepire il Salvatore, visto cheella non conosceva uomo, e quella a Gesù: “Figlio, perché cihai fatto questo?” (Lc 2, 48). E almeno la risposta alla secon-da fu per lei del tutto incomprensibile: “Ma essi non compre-sero le sue parole” (Lc 2, 50). E tuttavia ella non cessava diriflettere: “Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose me-ditandole nel suo cuore” (Lc 2, 19).

Il verbo greco che qui si traduce “meditandole” è sym-ballein, che significa unire cose diverse, collegandole fra loroe quasi sfregandole l’una contro l’altra. È un significato simi-le a quella del verbo legein, che vuol dire parlare, pensare, maanche unire i diversi nella loro diversità. Il verbo da cui deri-va il sostantivo logos. Maria generò il Logos nel suo cuore,dopo averlo partorito nella sua carne, con questo atteggia-mento di ascolto e di riunificazione dei diversi. L’augurio chesi può fare al presbitero del terzo millennio è di somigliarle.

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Comunicare con se stessiper comunicare

con gli altri

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