Quaderni Parmenide -...

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ISTITUTO DI ISTRUZIONE SUPERIORE “P ARMENIDE VALLO DELLA LUCANIA Quaderni Parmenide Rivista di cultura e didattica Anno VII Numero 15 – Dicembre - 2012

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  • IstItuto dI IstruzIone superIore“parmenIde”

    Vallo della lucanIa

    QuaderniParmenide

    Rivista di cultura e didattica

    Anno VII Numero 15 – Dicembre - 2012

  • QUADERNI PARMENIDE

    Rivista semestraledell’Istituto di Istruzione Superiore “Parmenide”Vallo della LucaniaAnno VII – n° 15 – Dicembre 2012

    DirettoreCarlo Di Legge

    RedazioneSanta Aiello, Eugenia Rizzo

    CopyrightIstituto di Istruzione Superiore “Parmenide”Via L. Rinaldi, 184078 Vallo della LucaniaTel /fax 0974/4147

    [email protected]

    Stampa Editrice Gaia Srl - www.editricegaia.it

    In copertina: Parigi dalla finestra, Marc Chagall

  • Indice

    edItorIaleCarlo Di Legge p. 7

    VIncenzo GuarracIno leGGe pascolIRiflessioni a cura di Mariassunta De Masi e Marilena Ficucella 13

    le mIlle maschere dI ItacaA cura della classe III A – Liceo classico 17

    la poesIa ametodIca dI maría zambranoA cura di Santa Aiello 29

    la pIetra perIfrastIca dI KIKì dImoulaA cura di Clelia Albano 37

    DIDATTICA E LABORATORI

    seneca: addolcImento della raGIoneA cura di Santa Aiello 47

    la poesIa oltre la loGIca. poesIa come φάρμακον“Il cIclope dI teocrIto”A cura di Eugenia Rizzo 55

    come opprImente lacrImosa acqua assorbIta da arIda terraA cura di Alan Consorti 65

    leopardI, nonno del 1900A cura di Rosalba Feo 69

  • poesIa e loGIca: la relatIVItà deI sIstemIA cura di Maria Ruocco 73

    poesIa e loGIcaA cura di Nicola Scarano 77

    loGIca e poesIa/loGIche della poesIaCarlo Di Legge 85

    Hanno collaborato a questo numero:

    Carlo Di Legge Dirigente IstitutoVincenzo Guarracino Poeta, critico, traduttoreSanta Aiello Docente dell’IstitutoClelia Albano Docente dell’IstitutoEugenia Rizzo Docente dell’Istituto

    studentI

    Giada Benincasa, Mariassunta De Masi e Marilena Ficucella (V A Liceo Pedagogico); Rossella De Luca (V E Liceo linguistico); Alan Consorti e Rosalba Feo (III A Liceo classico); Ruocco Maria (III B Liceo classico), Nicola Scarano (I A Liceo classico).

  • carlo dI leGGe

    EDITORIALE

  • editoriale. 7

    In primo piano, nell’editoriale di questo numero, due argomenti: il movi-mento di agitazione e protesta dei docenti e la nostra – consueta ma sempre straordinaria – giornata della poesia. In terzo luogo, darei evidenza alle no-vità elettroniche che stiamo introducendo nel nostro Liceo.

    Ma intendo ringraziare prima ancora quella gran parte dei Docenti, il Di-rettore dei servizi e il personale non docente, che, in un momento per me non facile, portano avanti con grande dignità e buoni risultati le imprese quotidiane e le innovazioni.

    Per la scuola italiana il momento è addirittura critico. Vecchi nodi con-tinuano a venire al pettine: pur dovendo distinguere tra il mio ruolo di di-rigente dell’amministrazione e quello dei docenti e del personale, debbo ri-cordare che tutte le posizioni giuridiche si ritagliano e vengono comprese nell’ordinamento della Costituzione della Repubblica democratica, che co-munque salvaguarda, nella parte iniziale, le libertà, tra cui quella di parola.

    Chi opera nella scuola sa che le nostre posizioni sono super difese dai sin-dacati, che hanno contribuito, in maniera molto netta, all’appiattimento delle carriere e degli stipendi. Ogni volta che si cerca di iniziare un discorso sulla differenziazione dei docenti (e dei dirigenti, perché no?) sul piano del merito e dell’impegno, ci si arena sullo scoglio dei criteri, su cui fervono discussioni bizantineggianti, inconcludenti.

    Questa è una nostra colpa, se i sindacati ci rappresentano. Ma stiamo im-parando a diffidare dei sindacati come diffidiamo di noi stessi: resta che la scuola in genere si salva, e non va condannata per pochissimi che (in qua-lunque istituto; ma anche in qualunque settore del lavoro!) lasciano vera-mente a desiderare!

    Ciò non vuol dire che, se dal punto di vista giuridico ed economico le po-sizioni dei docenti e del personale si eguagliano, mentre nella realtà possono

  • 8 Carlo di legge

    essere ben diverse, i lavoratori della scuola siano degni di essere trattati come le anime morte – pesati, acquistati e venduti! Le ultime iniziative governative, dopo la propaganda populista del ministro Brunetta (che, comunque, aveva individuato alcuni punti critici), hanno mostrato come sia bassa la stima dei governanti nella scuola: dopo aver congelato – si sa che il clima economico prelude forse all’era glaciale, e va bene, anzi va male – gli adeguamenti degli stipendi al costo della vita ufficiale, per cui il lavoratore della scuola sapeva e sa che viene a lavorare con il vantaggio di un fisso mensile – indubbio privi-legio rispetto ad altre categorie, su questo ci siamo – ma con uno stipendio reale che decresce di mese in mese di fronte ai ritmi dell’inflazione; dopo avere ripetutamente indicato all’esecrazione pubblica e alle gogne mediatiche gli statali dell’istruzione; dopo averli, con ciò, esposti all’invidia pubblica, per cui si sente che l’importanza della scuola, se nelle cose resta invariata e cresce, nella considerazione di tutti gli idioti tende a diminuire – i Ministri, alla ricerca disperata di tagli possibili, ci dicono: voi adesso aumentate il nu-mero delle ore di servizio, mentre i vostri stipendi, che già vengono erosi ogni giorno, restano uguali! Che è dire: diminuiscono ancora, per legge!

    Un atteggiamento che sconfina nello spregio, tanto più che cresce il sospetto – purtroppo alimentato dai fatti che emergono alla crescente attenzione di tutti verso tutti – che alcune categorie – vedi la finanza – aumentino o conservino privilegi, mentre le retribuzioni dei più calano rovinosamente.

    Come dirigente in una realtà che considero confortante – con i collabora-tori all’altezza delle situazioni, in linea di massima alunni che sanno di dover studiare e docenti che hanno in chiaro il da farsi in aula – e pur avendo a mia volta presenti le distinzioni dei compiti e dei ruoli, ho sempre creduto e riten-go sia nell’interesse delle scuole che si crei un clima propizio al lavoro sereno; dove, proprio perché si è consapevoli delle reciproche differenze e difficoltà, alunni e personale, docenti e dirigenti sappiano ascoltarsi a vicenda su ciò che è giusto. Ora questo, beninteso, vale anche rispetto ai rapporti tra scuola e governi – ma, per (non) dirla col ministro Profumo, il Governo questa volta forse non ha affatto il merito di aver tastato il polso alla scuola: e perché poi? Per il gusto della provocazione? Piuttosto, più semplicemente, il governo ci ha provato con la scuola. Ha innescato una forte reazione di esasperazione, che minaccia di non esaurirsi.

    Non si esaurisce, viceversa, il fascino e l’impatto della poesia sullo spirito. Anche questo numero reca l’impronta dell’ennesima giornata, che è stata preparata egregiamente da docenti e alunni, in particolare dalle prof. Santa

  • editoriale. 9

    Aiello ed Eugenia Rizzo, ma anche Clelia Albano ed altri, ed ha avuto luogo il lunedì 19 dicembre, in aula magna dell’Istituto e in parallelo dalla I A del Liceo Classico, che ha organizzato e coordinato due laboratori, su Iliade e Odissea, con partecipazione di alunni delle classi prime.

    La giornata è stata aperta dalla mia breve sintesi sulla relazione che è stata preparata per questo numero e qui viene riportata integralmente: logica e poesia/logiche della poesia.

    Ha fatto seguito la lezione consueta del prof. Vincenzo Guarracino, nostro abituale e graditissimo ospite di queste occasioni, che questa volta si è oc-cupato di alcune liriche pascoliane – anche la relazione del prof. Guarracino viene riportata, in questo caso in sintesi e per appunti – di eventuali incom-pletezze ci scusiamo.

    Hanno continuato gli alunni della III A – Liceo Classico, con la ricerca le maschere di Itaca, riportando brani e sintesi della versioni del mito di Ulisse nel tempo; Giada Benincasa (V A - Liceo Pedagogico) con il brano non bi-sogna cercare, di Maria Zambrano, la notissima filosofa e poetessa spagnola, tradotto per l’occasione in italiano; a cura della prof. Clelia Albano, e con sua lettura finale, il suggestivo video e la traduzione delle incisive parole di Kiki Dimoula, la pietra perifrastica, sul tema dell’assenza.

    Aveva aperto la mattinata, con la danza di un ritmo hip hop, l’alunna Stefa-nia Perfetto (V A – Liceo Pedagogico); avevano proseguito due esecuzioni di pianoforte da parte di Teresa Ruggiero (V B – Liceo Classico), a scandire la successione delle parti della manifestazione; aveva concluso Dario Speranza (V B – Liceo Classico) con un pezzo di pianoforte. Tutte queste esibizioni sono state molto apprezzate.

    Tanto la ricerca sulle versioni di Odisseo quanto i temi dell’assenza e del non dover cercare si possono ritenere altamente significativi nell’ambito po-etico, ma anche filosofico e religioso, come ho posto in risalto, nella breve conclusione.

    L’ultimo argomento di cui riferisco qui consiste nelle innovazioni in atto nell’Istituto. Abbiamo progettato durante la pausa estiva e a inizio d’anno, conformemente alle disposizioni ma anche allo spirito del tempo e all’esigenza di una maggiore efficacia ed efficienza, tre punti-chiave per la gestione telematica e digitale dei dati e degli adempimenti: un nuovo e più potente server per la gestione elettronica dei dati della segreteria e dei docenti, in fun-zione degli adempimenti previsti: un nuovo sito web del Liceo Parmenide, completamente ridisegnato, per far fronte in modo più agile alle esigenza

  • 10 Carlo di legge

    d’immagine, di pubblicità e di informazione nei rapporti della scuola con se stessa e con l’esterno; infine, la realizzazione della gestione digitale della pagella e del registro, oltre che dei rapporti con le famiglie.

    Tali innovazioni si aggiungono ai nuovi laboratori e ai viaggi di studio che l’Istituto, con l’impegno di tutti e in particolare di alcune classi, della segre-teria, dei proff. Mauro Ruocco e Leonardo Ricci, ha realizzato e realizzerà. Il server interno della scuola ha iniziato a funzionare a novembre; il nuovo sito sarà on web ai primissimi giorni di dicembre. Si tratta di un impianto piuttosto elegante e sobrio nei colori ma anche molto semplice, concepito ai fini dell’immediata possibilità di fruizione da parte di chiunque voglia entrar-vi. Le pagelle elettroniche, come il registro digitale, non potevano essere in funzione se non in dipendenza dalle precedenti due innovazioni. Il software viene acquistato e installato nella dotazione elettronica dell’ Istituto a fine novembre, con il travaso di tutti i dati e gli elenchi di vecchi ai nuovi conteni-tori. Di questi dati si serviranno i docenti per la prima pagella elettronica, che si spera sarà visibile già con il primo trimestre, quindi nell’ultima decade del mese di dicembre.

    Dovesse trattarsi della fine del mondo, speriamo anche che, come ad ogni conclusione, subentri un nuovo inizio! Digitale, ma non solo!

  • a cura dI marIassunta de masI e marIlena fIcucella

    VINCENZO GUARRACINO LEGGE PASCOLI

  • VinCenzo guarraCino legge PasColi 13

    Nell’ambito della “Giornata della Poesia” lunedì 19 novembre 2012, pres-so l’Aula Magna del nostro Liceo, il Prof. Vincenzo Guarracino, poeta, sag-gista e traduttore, ha presentato il volume “Giovanni Pascoli poesia esèncial” (Madrid, Pigmalion, 2012), una raccolta delle liriche del poeta di San Mauro di Romagna tradotte per la prima volta in lingua spagnola, dal professore medesimo – uscito in occasione del Centenario Pascoliano.

    Guarracino ha definito Pascoli “il poeta che ha contribuito notevolmente al rinnovamento dell’opera italiana nel passaggio tra il XIX e il XX secolo”, che “sintetizza le grandi domande della modernità più inquieta”. Ricordiamo che il critico Guarracino ha pubblicato numerosi saggi su Giacomo Leopardi e che proprio dal poeta recanatese egli è partito per ricercare le origini della moderna poesia in Italia.

    Baudelaire aveva menzionato Leopardi come “stella” del panorama letterario; infatti Leopardi anticipò il Simbolismo soprattutto con un uso dell’ analo-gia che anticipa tale elemento nei poeti maudit, da Baudelaire a Mallarmè. E fa riferimento al terzo e quarto verso della prima famosa quartina delle Corrispondenze di Baudelaire: “l’uomo va, e foreste di simboli attraversa/che lo scrutano con occhi familiari e intenti”. (I fiori del male). Ma perché Guarracino nell’ambito di questa giornata è ritornato su Leopardi? La sua analisi ci ha suggerito che Leopardi è simbolista come Pascoli e si colloca nel clima e nel fare poetico tipico dei simbolisti; Pascoli non fu infatti estra-neo alla letteratura d’Oltralpe pur se la sua conoscenza si limitava ad Edgar Allan Poe, di cui tradusse Il Corvo. Dunque Pascoli è da ritenersi, più che decadente, simbolista, specie per la forza evocativa del lessico. Ne è emerso un ritratto interessante del poeta romagnolo, il quale, come si è evinto dalla citazione di alcuni versi di Romagna, attribuiva grande importanza al potere dell’immaginazione, attraverso cui rievocare la propria infanzia, attraverso

  • 14 a Cura di Maria assunta de Masi e Marilena FiCuCella

    cui cercare l’“altrove”. Problema centrale nella poetica pascoliana, data dall’esigenza di esprimere l’altrove e l’angoscia o la purezza dell’infanzia, risulta essere proprio il linguaggio. Nei Primi poemetti, di cui Guarracino ha citato L’Aquilone, si approfondisce il problema linguistico. Per Pascoli è fondamentale la precisione lessicale; egli, esperto botanico, rimproverò al Leopardi la genericità del lessico riferito alla natura (è nota la polemica su “rose e viole” ne il Sabato del villaggio, di cui Pascoli scrisse in Pensieri e discorsi, 1914). Pascoli riteneva necessario attribuire il giusto nome alle cose, alle umili cose, che lo distinsero rispetto, ad esempio, alla tronfia retorica dannunziana. Era attento alla selezione dei vocaboli sull’asse paradigmatico e alla loro combinazione, sull’asse sintagmatico; Guarracino ha infatti letto un verso assai suggestivo proprio per la sapiente selezione e combinazione: “trascorre le foglie una gioia leggiera”. Vorremmo concludere riferendoci alla gioia che poco fu presente nella vita del poeta, traumatizzato da frequenti lutti e che tuttavia seppe trasformare il dolore in potenza creatrice, come a dire che il fare poetico libera l’uomo dall’angoscia. Non a caso il prof. Guar-racino ha concluso l’intervento declamando il X Agosto.

    Mariassunta De Masi, Marilena Ficucella Classe V A Liceo Pedagogico

  • a cura deGlI alunnI della III a lIceo classIco

    LE MILLE MASCHERE DI ITACA

  • le Mille MasChere di itaCa 17

    La più antica testimonianza del mondo greco è l’Iliade, ma è nell’Odissea che si realizza la vera svolta. Non più frastuono di battaglie dal rosso su-dore, non più semidei, ma un uomo, con i suoi limiti; il primo personaggio nel senso compiuto del termine lacera irreparabilmente coscienze umane. Sebbene Omero (e con Omero abbiamo deciso di indicare l’intera comu-nità rapsodica greca) ci abbia donato un uomo, un Odisseo, il nostro es-sere uomini non ha potuto che smembrare e cibarsi delle dilaniate carni per restituire non uno ma mille Ulisse, mille maschere diverse eppure così uguali hanno trovato dimora nella celeste Itaca e chissà quante ancora sol-cheranno il mare Egeo.

    omero

    ἄνδρα μοι ἔννεπε, μοῦσα, πολύτροπον, ὃς μάλα πολλὰπλάγχθη, ἐπεὶ Τροίης ἱερὸν πτολίεθρον ἔπερσεν·πολλῶν δ᾽ ἀνθρώπων ἴδεν ἄστεα καὶ νόον ἔγνω,πολλὰ δ᾽ ὅ γ᾽ ἐν πόντῳ πάθεν ἄλγεα ὃν κατὰ θυμόν,ἀρνύμενος ἥν τε ψυχὴν καὶ νόστον ἑταίρων.ἀλλ᾽ οὐδ᾽ ὣς ἑτάρους ἐρρύσατο, ἱέμενός περ·

    eurIpIde

    La prima maschera nasce nella culla della civiltà greca, sono gli stessi Greci a distruggere e creare il loro uomo.

  • 18 a Cura degli alunni della iii a liCeo ClassiCo

    Ingrata razza la vostra, voi che cercateil favore popolare! Non voglio conoscervi,voi che non vi fate scrupolo di danneggiare le persone care,pur di ottenere il favore del popolo

    Euripide, Ecuba, vv. 254-257

    Il nostro Odisseo diviene personificazione di un sistema corrotto, un mon-do di spregiudicate parole e di menzogne.

    Il verosimile impera, non la verità. Il discorso viene stuprato e deriso, nient’altro.

    dante

    Una visione parziale, discontinua, poeticamente leopardiana, riesce a trasformare il più grande rappresentante dei sofisti in un impavido ricerca-tore di verità. Conoscenza per la conoscenza e non auliche parole di mistifi-cazione. Mai “ignoranza” fu tanto gradita.

    “O frati”, dissi “che per cento miliaPerigli siete giunti a l’occidente,a questa tanto picciola vigiliad’i nostri sensi ch’è del rimanente,non vogliate negar l’esperienza,di retro al sol, del mondo sanza gente.Considerate la vostra semenza:fatti non foste a viver come bruti,ma per seguir virtute e conoscenza”

    Inf. XXVI, 112-120

    Il dado è tratto. Non è più possibile tornare indietro. Le parole di Dante aprono le porte alla dimenticata cultura antica, ponendo le basi al moderno culto di Ulisse.

  • le Mille MasChere di itaCa 19

    foscolo

    Ulisse ora è Foscolo… onde non tacquele tue limpide nubi e le tue frondel’inclito verso di colui che l’acque cantò fatali, ed il diverso esiglioper cui bello di fama e di sventurabaciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

    A Zacinto, vv. 6-11

    Dall’Ulisse di Dante, ricercatore di aletheia, di verità, si passa, in Foscolo, ad un’immagine di uomo ricolmo dell’ansia di ricerca, al sensucht dell’eroe romantico che, come l’autore, vive “bello di fama e di sventura” la condizione angosciosa del “diverso esiglio”.

    pascolI

    Quello di Pascoli è un Ulisse che sa di non sapere

    Era Odisseo: lo riportava il marealla sua dea: lo riportava mortoalla Nasconditrice solitaria,all’isola deserta che frondeggianell’ombelico dell’eterno mare.Nudo tornava chi rigò di piantole vesti eterne che la dea gli dava;bianco e tremante nella morte ancora,chi l’immortale gioventù non volle.Ed ella avvolse l’uomo nella nubedei suoi capelli; ed ululò sul fluttosterile, dove non l’udia nessuno:– Non esser mai! non esser mai! più nulla,ma meno morte, che non esser più! –

    L’ultimo viaggio, da Poemi conviviali, vv. 39-52

  • 20 a Cura degli alunni della iii a liCeo ClassiCo

    Oppresso, inerte, dubbioso, tormentato, l’Ulisse di Pascoli non è né eroe né uomo omerico, ma è un uomo moderno, un uomo che ha combattuto una guerra senza spade e che ha visto città crollare, un uomo che ha visto il pro-prio mondo andare in fumo.

    d’annunzIo

    Nel 1896 un uomo piccolo piccolo, tanto piccolo quanto furono tutti gli al-tri uomini del suo tempo, cercò di fare suo un concetto non suo, ripescando-lo dalla mole di pensieri del forse più grande filosofo tedesco di tutti i tempi.

    è uno dei pochi autori italiani del Novecento che ha fame europea, non fama europea, ma una vera e propria ingordigia che darà sempre più vigore al concetto di superomismo che prenderà in prestito da Nietzsche.

    Gabriele d’Annunzio incentra sulla condizione superumana le sue Laudi, che verranno pubblicate nel 1903, purtroppo in parte vacanti. D’Annunzio aveva previsto la stesura completa di sette libri da dedicare alle sette stelle delle Pleiadi. Riuscì soltanto in quattro: la lode alla Vita o Maya, la lode alla terra, al mare e agli eroi.

    Incontrammo coluiChe i Latini chiamano Ulisse,nelle acque di Leucade, sottole rogge bianche rupiche incombono al gorgo vorace,presso l’isola macracome corpo di rudiossa incrollabili e struttoe sol d’argentea cinturaprecinto. Lui vedemmo su la nave incavata…

    L’incontro di Ulisse, da Maia, canto IV

    Quale uomo migliore se non proprio Ulisse, dunque? Egli, che era stato già tutto, diviene simbolo dell’uomo particolare al di sopra di leggi morali e sociali, fondamentalmente libero, unico nella sua specie, di costruire il proprio destino.

    D’Annunzio immagina di incontrare Ulisse in sdegnosa solitudine, mentre

  • le Mille MasChere di itaCa 21

    naviga nel mar Ionio, con uno sguardo che ha sprezzo per la vita e per il peri-coli. è il capo, l’eroe guida di uomini che vogliono condurre la propria vita al di sopra della mediocrità. A differenza dello sguardo che verrà concesso ai com-pagni, freddo e ostile, d’Annunzio sarà guardato in modo meno tracotante. è in questo che il poeta sottolinea la propria volontà di potenza. Con Ulisse in tal modo muore Dio e si accetta l’eterno ritorno dell’uguale, per sempre.

    D’Annunzio spererebbe in un distacco aristocratico ma alla base vi è solo un uomo, che è in grado di manipolare i valori del popolo, ma che tangibilmente ha bisogno di quella folla che egli disprezza e del mondo borghese che egli fugge.

    saba

    Nella mia giovinezza ho navigatoLungo le coste dalmate. IsolottiA fior d’onda emergevano, ove raro un uccello sostava intento a prede,coperti d’alghe, scivolosi, al solebelli come smeraldi. Quando l’altaMarea e la notte li annullava, veleSotto vento sbarcavano più al largo,per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regnoè quella terra di nessuno. Il portoaccende a d altri i suoi lumi; me al largosospinge ancora il non domato spiritoe della vita il doloroso amore.

    L’Ulisse moderno di Saba ricerca i suoi orizzonti nel paesaggio dalmata, im-magine di terre di bellezza smeraldina. Forte e immediatamente percettibile è l’affinità del destino di ricerca che unisce il poeta e l’eroe omerico. Lo stesso des-tino che ha spinto Ulisse attraverso i mari ha reso inquieto e avventuroso l’amore di Saba per la vita. Non sono questi uomini che si fermano alle facili sicurezze che il porto può offrire, non sono appagati nel loro quieto vivere e non accet-tano supinamente la realtà. Si sentono lontani dalla meta e spinti al “largo” da un indomabile e doloroso amore per la vita. Una vita soffocata nel cieco labirinto di una verità sempre introvabile. Il vecchio Ulisse è perennemente disponibile agli impulsi del profondo, ma incapace di concludere la sua ultima avventura dell’esistenza. Il viaggio dunque non può conoscere soste e tende all’infinito.

  • 22 a Cura degli alunni della iii a liCeo ClassiCo

    Joyce

    Come la nostalgica tela ingannatrice della fedele moglie, il corpo del primo UOMO della letteratura viene squarciato e rivisitato, ricucito da aracnica mano esperta, ucciso per poter essere ricondotto su mondano suolo e con-tinuare ad ispirare, faro tra possenti onde, rogo sgargiante di arabica fenice. Il re di Itaca, il prediletto della fiera figlia di Metide, il sofista, il romantico diventa un uomo “comune”, con una moglie che lo tradisce, che va in bib-lioteca, cammina per strade solcate da gracidante folla, un uomo come noi. L’Odissea diviene una pura struttura da seguire e capovolgere, tela da ricom-porre, ogni luogo ogni personaggio diventa altro, restando inspiegabilmente immutato. RICERCA, parola immensa, regale che riassume l’apporto di Joyce alla questione Ulisse. La ricerca di un figlio, la ricerca di un padre, di sangui-nosa libertà, di un senso. James Joyce uccide un greco per restituire un uomo senza tempo in perenne vana ricerca di se stesso..

    Solenne, paffuto Buck Mulligan comparve dall’alto delle scale… portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio ed un rasoio. Una vestaglia gialla, discinta, gli era sor-retta delicatamente sul dietro dalla mite aria mattutina. Levò alto il bacile e intonò: – Introibo ad altare Dei.Fermatosi, scrutò la buia scala a chiocciola e chiamò berciando: – Vieni su, Kinch. Vieni su, pauroso gesuita.Maestosamente avanzò e ascese la rotonda piazzuola di rito. Fece dietrofront e con gravità benedisse tre volte la torre, la campagna circostante e i monti che si destavano. Poi, avvedutosi di Stephen Dedalus, si chinò verso di lui e tracciò rapide croci nell’aria, gor-gogliando di gola e tentennando il capo. Stephen Dedalus, con-trariato e sonnolento, appoggiò i gomiti sul sommo della scala e guardò con freddezza la tentennante gorgogliante faccia che lo benediceva, cavallina nella lunghezza, e i chiari capelli senza tonsura, marezzati color quercia chiaro.

    Ulisse, Joyce, incipit

    Le cose sono però cambiate: Molly, al contrario di Penelope, è infelice. Ciascuno dei personaggi del romanzo è la parodia di quelli dell’Odissea. Il

  • le Mille MasChere di itaCa 23

    peregrinare dell’eroe omerico trova così il suo corrispondente nel vagabond-are per Dublino. La figura di Bloom però non ha niente a che vedere con quella dell’eroe omerico, anzi è l’anti-eroe per eccellenza A conclusione del romanzo si assiste ad un lungo flash-back nel quale Molly ripercorre tutto il suo passato ed è significativo che la donna sia nata proprio a Gibilterra che coincide con i confini dell’Ulisse dantesco. L’Ulisse di Joyce rappresenta quindi l’uomo moderno che aspira al ritrovamento di quei valori di cui viene privato dallo squallore e dalla sordida meschinità della vita quotidiana e del mondo che lo circonda. Joyce, raccontando la vicenda di un uomo qualunque in un giorno qualunque, tenta di far risaltare l’universalità dell’esperienza narrata e la associa a tutta l’umanità.

    Intermezzo IronIco-popolare

    Penelope

    PEN. Sicofanti! Sicofanti! Site buoni sulo a vinna ficu au mercatu! Ma non vi siete stancati? Ulisse di qua, Odisseo di là, Omero…Joyce… BlaBlaBla. Un secolo, due, quattro… per Cerbero, ora basta!

    ROX. Chi è questa?

    AL. Boh, una baccante!

    PEN. Chi è questa?! A me? Ma sta sciaurata! Invece di stare a casa ad allattare i figli, a cucinare, a tessere! Baccante a me? Beh, forse un tempo…qualche orgia divina. Ue sciorta, ma che dico?! Oh, perdon-ami grande Era. Io sono, Penelope, figlia di Icàrio, signora di Itaca…non so se rendo l’idea.

    ROX. Ah… quella che tesseva e scuciva e aspettava mentre il mari-to svolazzava di talamo in talamo?

    AL. Shhh! Ti sente! Quella il telaio te lo fa arrivare in fronte.

    PEN. Ahh siii? Di talamo in talamo? Era già tanto se riusciva a planare nel mio talamo. Ma cosa insegnano a queste moderne? Guar-

  • 24 a Cura degli alunni della iii a liCeo ClassiCo

    datele, tutte bigotte come Dafne che fugge da Apollo. Rinchiudetele in un tiaso! Solo Saffo può fare qualcosa!

    AL. Alla faccia!

    PEN. Eh già! Per venti anni lasciavo essiccare il fiore della mia giovi-nezza, mai gineceo fu più frequentato! Impara, Afrodite non va mai in guerra.

    ROX. L’antenata delle escort.

    PEN. Oh progenie di un centauro! Eris, prendimi, io li spedisco al Tartaro! Apriti madre Gea, lasciali passare.

    G. D’ANN. Calmati buona donna, ignora questi moderni! Non sot-traiamo tempi alla dolce Afrodite!

    KaVafIs

    L’Ulisse di Kavafis è una micidiale miscela di reminiscenze omeriche, per il morboso attaccamento all’avventura, e dantesche, per la curiosità come primo passo verso la conoscenza.

    Itaca Πάντα στον νου σου νάχεις την Ιθάκη.Το φθάσιμον εκεί είν’ ο προορισμός σου.Aλλά μη βιάζεις το ταξείδι διόλου.Καλλίτερα χρόνια πολλά να διαρκέσει·και γέρος πια ν’ αράξεις στο νησί,πλούσιος με όσα κέρδισες στον δρόμο,μη προσδοκώντας πλούτη να σε δώσει η Ιθάκη.

    Η Ιθάκη σ’ έδωσε τ’ ωραίο ταξείδι.Χωρίς αυτήν δεν θάβγαινες στον δρόμο.Άλλα δεν έχει να σε δώσει πια.

    Κι αν πτωχική την βρεις, η Ιθάκη δεν σε γέλασε.

  • le Mille MasChere di itaCa 25

    Έτσι σοφός που έγινες, με τόση πείρα,ήδη θα το κατάλαβες η Ιθάκες τι σημαίνουν.

    Una mente sterile è un antibiotico, un contraccettivo, un principio attivo che impedisce di gettarsi verso Itaca.

    Itaca è la metafora della vita. è pellegrinaggio verso se stessi che conduce alla riflessione con se stessi

    proprio mentre si è pellegrini. E quello si capisce alla fine, che si è pastori ma pastori ciclopici.

    Bisogna combattere i mostri da titani, bisogna combattere se stessi perché è la mente umana a originare mostri.

    Bisogna ringraziare quei mostri perché é grazie ai mostri che siamo quel siamo.

    Kavafis, insieme a tutti gli altri si sarebbe opposto ai cervelli impacchettati che provano a venderci come surgelati. E ognuno di loro, Joyce in primis, credeva che reagire fosse fondamentale. Del perché tutti gli scrittori abbiano scelto Ulisse crediamo che ormai sia chiaro. Noi lo abbiamo scelto perché non c’è figura migliore con cui patire un processo contro la cultura total-mente infondato.

  • santa aIello

    LA POESIA AMETODICA DI MARIA ZAMBRANO

  • la Poesia aMetodiCa di Maria zaMBrano 29

    Quando finisce il gioco dello Jumping e il bimbo esausto si affloscia sulla molla, tutti i suoi pori sprigionano energia, felicità, emozioni per le tante cadute, rialzate e salti verso ogni direzione senza un apparente motivo. Come lo Jumping sono le logiche della poesia vanno in tutte le direzioni e anche quando sono apparentemente esaurienti celano ancora un’infinita energia soprattutto quando incontrano la filosofia. E solo l’incontro, fra filosofia e poesia, fra verità logico-deduttive della ragione e verità intuitive del “cuore”, produce una nuova forma di conoscenza in grado di cogliere la totalità della realtà e l’uomo nella sua interezza.1

    E, di logiche in logiche, inevitabilmente si naufraga nella logica magnum di María Zambrano, una delle voci più significative della filosofia contempora-nea. Basti pensare alla sua vita, una sorta di via crucis: Valencia, Barcellona, Parigi, New York, Città del Messico, Michoacán, Porto Rico, Avana, Roma, Ginevra, Madrid sono le stazioni di María.

    Consci della difficoltosa vastità nel tentativo di dire, poiché il dire resta sempre un mettersi alla prova, un esporsi sul limite di sé, un ex-periri, con voli pindarici proviamo a delineare, in parte, il pensiero poetico - filosofico di questa pensatrice spagnola che ha saputo guardare dentro l’esperienza del vuoto, tenendo insieme il patimento dell’abbandono e le potenzialità inaugu-ranti che il vuoto rilancia e promette.

    Solo una ragione “riformata” disposta ad accogliere anche quelle verità non rischiarate dalla luce dell’intelletto ma, tuttavia, intimamente “sentite”, può contribuire alla nascita di una nuova conoscenza, più aderente all’interezza dell’esperire umano. Ecco che allora l’unica forma di conoscenza che possa

    1 Carlo Di Legge, Il signore delle due vie, poetica dell’esperienza originaria, parte II, per una logica della poesia, Ripostes, pag. 176.

  • 30 santa aiello

    garantire la “vera oggettività”, intesa come una “presa” dell’oggetto in quan-to oggetto, è, per Zambrano, come lei stessa scrive in El realismo español como origen de una forma de conocimiento2, il realismo come “modo di trat-tare con le cose”.

    Per questo, María Zambrano invita il pensiero ad abbandonare qualsiasi sistema filosofico, quel “castello di ragioni, muraglia chiusa del pensiero di fronte al vuoto”, per intraprendere un viaggio fra quelle acque rimaste an-cora in gran parte inesplorate, alla ricerca di una “filosofia vivente”, disposta a confrontarsi con l’essere umano nella sua interezza, disposta, in uno sforzo intellettuale e viscerale insieme, a dar voce a ciò che resta silente, a celebrare l’oscurità, l’altro lato dell’esistenza, quello esiliato, muto, nascosto ma pro-fondamente “sentito”.

    La vita, infatti, senza pensiero rimane sola e ribelle, mentre il pensiero as-tratto, puro, “senza vita”, vaga abbandonato non scoprendo altro che se stes-so e la propria struttura. E ciò porta l’uomo a vivere in uno stato di delirio: “se infatti si perde il contatto con la realtà si delira: delira la ragione in una pura forma senza vita, impassibile e senza tempo; e delira la vita in un vagare spettrale e senza figura, in una dispersione umiliata e rancorosa”.

    Come Heidegger sosteneva che la filosofia doveva tornare alla poesia per riaversi così la Zambrano sostiene che solo una conoscenza poetica, dalla “profonda radice d’amore”, nata dalla simbiosi di lucidità intellettuale e di sapere emotivo, può accogliere anche le verità “dell’altro”.

    E, allora, deve esserci un altro pensiero, un pensiero che sia spazio di nascite, un pensiero che, come un grembo materno, sia in grado di accogliere “l’altro da sé” in un’unione-nella-differenza, perché: “l’essere è vario non uno”, è “rad-icale eterogeneità” che per pensarsi richiede mobilità, “continuo spostamento dell’attenzione” [...]. è allora necessaria la “fede” sia “poetica” che “razionale” per arrivare a comprendere che l’uno soffre di “incurabile alterità”3.

    E sembra di assistere a una danza eraclitea di un’ “armonia dei contrari”, per mezzo della quale possano coesistere in una “lotta amorevole” tutti i ter-mini in conflitto tra loro senza che né l’uno né l’altro domini definitivamente la scena dell’esistenza.

    María Zambrano indica un sentiero, mostra immagini, figure che possano

    2 María Zambrano, El realismo español como origen de una forma de conocimiento, in Pensam-iento y poesía en la vida española, Ensayo, Madrid 1996.

    3 María Zambrano, La Guida, forma del pensiero, in verso un sapere dell’anima, Cortina, Mi-lano 1996, p. 58.

  • la Poesia aMetodiCa di Maria zaMBrano 31

    “innamorare” ed essere seguite; il suo pensiero si fa Guida affinché ognuno possa, individualmente e personalmente, mettere in forma quel contenuto impetuoso, caotico, indeterminato e sfuggente che è la vita; la sua parola po-etica, mediatrice tra la luce e l’oscurità, tra il linguaggio e il silenzio, tenta di insinuarsi nelle più profonde caverne delle viscere umane, laddove è rinchiu-so e risuona il mistero dell’origine, per rischiararle e risvegliarle cautamente.

    Filosofia particolare la sua, in cui pensiero e poesia si nutrono l’un l’altro di meraviglia, di aprirsi, di lasciar essere.

    “Il chiaro del bosco è un centro nel quale non sempre è possibile entrare; lo si osserva dal limite e la comparsa di alcune impronte di animali non aiuta a compiere tale passo. è un altro regno che un’anima abita e custodisce. Qual-che uccello richiama l’attenzione, invitando ad avanzare fin dove indica la sua voce. E le si dà ascolto. Poi non si incontra nulla, nulla che non sia un luogo intatto che sembra essersi aperto solo in quell’istante e che non è mai stato così. Non bisogna cercarlo. Non bisogna cercare. è la lezione immediata di chi-ari del bosco: non bisogna andare a cercarli, e nemmeno a cercare nulla da loro. Nulla di determinato, di prefigurato, di risaputo. E l’analogia del chiaro con il tempio può sviare l’attenzione [...]. E resta il nulla e il vuoto che il chiaro del bosco dà in risposta a quello che si cerca. Mentre se non si cerca nulla l’offerta sarà imprevedibile, illimitata. Giacchè sembra che il nulla e il vuoto o il nulla e il vuoto debbano essere presenti o latenti di continuo nella vita umana. E che per non essere divorato dal nulla o dal vuoto uno debba farli in se stesso, deb-ba almeno trattenersi, rimanere in sospeso, nel negativo dell’estasi. Sospendere la domanda che crediamo costitutiva dell’umano. La funesta domanda alla guida, alla presenza che si dilegua se la si incalza, alla propria anima asfissiata dal domandare della coscienza insorgente, alla propria mente cui non si lascia il tempo di concepire silenziosamente, oscuramente anche, senza che quella si interponga per domandare il rendiconto alla schiava ammutolita. E il timore dell’estasi che assale al cospetto della chiarezza vivente fa fuggire dal chiaro del bosco il suo visitatore, che diventa così un intruso”4.

    Qui, nel punto più intimo di questo vuoto spaziale, temporale e identitario che l’esilio apre e disvela, si avverte la risonanza di una parola essenziale che Zambrano pronuncia all’inizio della sua narrazione autobiografica, e che esprime per intero la dimensione dell’abbandono e della nuda presenza: Ad-sum, ci sono, eccomi, voce e presenza di qualcuno che nell’oscurità del vuoto

    4 Carlo Ferrucci, Postfazione a chiari del bosco, Ed. Impronte Feltrinelli, Milano 1991 (il testo declamato da Giada Benincasa nella giornata della poesia lo si riporta integralmente).

  • 32 santa aiello

    si mantiene in contatto con un nucleo luminoso aurorale, inaugurale, quella “fiamma bianca, certa e lieve […] che galleggia nell’oscurità senza imporsi, come un dono, e fa sì che l’oscurità, senza essere sconfitta, cessi di regnare e si ritragga impercettibilmente, senza minaccia di ribellione; come una palpe-bra socchiusa davanti alla nebbia che si ritira”

    Lo scavo interiore che l’esperienza dell’esilio ha portato a termine disegna i contorni ancora incerti di una radura che si apre davanti allo sguardo, a uno sguardo rinnovato e reso più puro dal contatto profondo con la propria finitezza: uno sguardo convertito, capace di cogliere per intero il profilo delle cose nella penombra della luce aurorale.

    In questa radura, in questo orizzonte che si spalanca dalla congiunzione tra terra e cielo, la patria infine appare, si rivela davanti allo sguardo senza pre-tese dell’esiliato, che quella patria aveva ormai smesso di cercare, pur senza mai aver rinunciato alla speranza: “Ormai senza più sete, il suo sguardo non la intravede nel vuoto lasciato dall’ultimo raggio di sole, né nell’albero cadu-to che si ostina a rinverdire, né nel ciottolo che, quantunque luccichi un po’, tutti scansano senza guardarlo, né in nessun’altra parte. Quando ormai si sa senza di essa, senza alcuna sofferenza, quando ormai non si riceve più nulla, nulla dalla patria, allora essa gli appare”

    Ma proprio nel pieno di questa rivelazione della patria che l’esilio offre, ecco emergere la paradossalità e l’ambivalenza con cui Zambrano sfida il nostro bisogno di ancoraggio e di arrivo: “Possiede, la patria vera, la virtù di creare l’esilio. è il suo segno inequivoco” Un’inversione spaesante, come a dire che la vera patria non è mai oggetto di una rivelazione intera e definitiva, ma è “sem-pre incipiente, sempre in atto di nascere”, la vera patria è quella che mantiene ciascuno in cammino verso se stesso, ovvero verso la propria trascendenza.

    Ciò che si profila dunque, a partire dal vuoto dell’esilio, è un viaggio inau-gurale verso di sé, un nomadismo esistenziale, il patimento di un’inquietudine costitutiva che ci rende sempre stranieri a noi stessi, rimpatriati e nuovamente prossimi all’esilio, varco e soglia per ciò che di noi deve ancora venire. In quest’oscillare ci si perde e ci si ritrova, ci si eleva e ci si annulla, come onde del mare o come dune nella notte del deserto: “Un vento ci trasforma / nel silenzio / come fossimo / dune di sabbia. / Il vento del tempo / il tempo del perdono. / Avvolti / sospinti / sospirati / una soglia e poi un’altra / è il nostro abitare”5.

    Forse per questo, la Zambrano a differenza di Sofocle non fa morire An-

    5 María Zambrano, L’innata speranza: scritti dall’esilio, a cura di Filippo Giuseppe di Ben-nardo, Palomar, Bari 2006.

  • la Poesia aMetodiCa di Maria zaMBrano 33

    tigone. Sepolta viva, si, come in Sofocle, ma non suicida. L’Antigone è un macro simbolo di equilibrio e di mediazione tra i due contrari per eccellenza della vita e della morte, dell’essere e del non essere.

    Dodici capitoli di monologhi e dialoghi in cui Antigone rivive e ripensa il suo rapporto con gli altri personaggi della sua storia. I quali, finiscono per essere meno “altri” e finiscono per diventare più “fratelli”. Ma la tomba di Antigone è anche il luogo di una nuova forma di luce; una luminosità sof-fusa e penetrante, che vediamo emanare sempre più nitidamente dall’interno del suo cuore dalla sua attenzione verso l’“altro”, quanto mai “resistente”, quanto mai angosciosamente “eterogeneo”, nodi difficili da sciogliere. Am-morbidendo e sciogliendo questi nodi con la forza della sua mitezza, che questa luce fa maturare quel sogno di radicale trasformazione della con-dizione umana che è per la Zambrano “correttrice” di Sofocle, ossia la legge nuova della fraternità.

    “No me respondes, hermana. He venido ahora a buscarte. Ahora, no tar-darásya mucho en salir de aquí. Porque aquí no puedes quedarte. Esto no es tu casa, es sólo la tumba donde te han arrojado viva. Y viva no puedes seguir aquí; vendrás ya libre, mírame, mírame, a esta vida en la que yo estoy. Y ahor así, en una tierra nunca vista por nadie, fundaremos la ciudad de los her-manos, la ciudad nueva, donde no habrá ni hijos ni padres. Y los hermanos vendrán a reunirse con nosotros. Nos olvidaremos allí de esta tierra donde siempre hay alguien que manda desde antes, sin saber. Allí acabaremos de nacer, nos dejarán nacer del todo. Yo siempre supe de esa tierra. No la soñé, estuve en ella, moraba en ella contigo, cuando se creía ése que yo estaba pensando. En ella no hay sacrificio, y el amor, hermano, no está cercado por la muerte. Allí el amor no hay que hacerlo, porque se vive en él. No hay más que amor. Nadie nace allí, es verdad, como aquí de este modo. Allí van los ya nacidos, los salvados del nacimiento y de la muerte. Y ni siquiera hay un Sol; la claridad es perenne. Y las plantas están despiertas, no en su sueño como estána quí; se siente lo que sienten. Y uno piensa, sin darse cuenta, sin ir de una cosa a otra, de un pensamiento a otro. Todo pasa dentro de un corazón sin tinieblas. Hay claridad porque ninguna luz deslumbra ni acuchilla, como aquí, como ahí fuera.”

    “Non rispondermi, sorella. Sono venuto adesso a cercarti. Adesso non tar-derai più molto a uscire da qui. Perché non puoi fermarti qui. Questa non è la tua casa, è solo la tomba in cui ti hanno gettata viva. E non continuare a

  • 34 santa aiello

    essere viva qui, sarai subito libera, guardami, guardami in questa vita in cui sto io. E adesso si, in una terra vista mai da nessuno, fonderemo la città dei fratelli, la città nuova, dove non ci saranno né figli, né padri. E i fratelli ar-riveranno a riunirsi con noi. Non ci dimenticheremo di questa terra dove c’è sempre qualcuno che comanda da prima, senza saperlo. Lì possiamo nascere, se ci lasceranno nascere del tutto. Io seppi sempre di quella terra. Non la sognai, vissi in essa, morivo ivi in essa con te, quando si credeva che io stavo pensando. In essa non c’è sacrificio e l’amore, fratello, non è circondato dalla morte. Lì non si può fare l’amore, perché si vive in esso. Non c’è altro che amore. Nessuno nasce lì, è vero, così come qui in questo modo. Lì vanno coloro che sono già nati, i salvi dalla nascita e dalla morte. E neanche un sole; la chiarezza è perenne. E le pianta sono sveglie, non nel loro sonno come stanno qui; si sente quello che sentono. E uno pensa, senza rendersene conto, senza andare da una cosa all’altra, da un pensiero all’altro. Succede tutto in un cuore chiaro privo di tenebre. C’è chiarezza perché nessuna luce abbaglia, né accoltella, come qui, come lì fuori6.

    Questa luce è la stessa luce sfrangiata, baluginante, insieme trattenuta e riv-erberata, che guida non solo Antigone, ma ogni creatura umana, attraverso i chiari del bosco dell’esistenza.

    E concludiamo con le parole di Rilke, che nell’intimità del logos poetico rac-colgono l’interezza di quanto si è tentato di dire:

    “Vie della vita. All’improvviso sono i voliche ci sollevano sulla faticosa terra;mentre ancora piangiamo le nostre brocche infranteci sgorga la sorgente nella mano poco fa ancora vuota”.

    6 María Zambrano, La tumba de Antígona, Siglo XXI, México 1967 (trad. di Rossella De Luca V E Liceo linguistico).

  • clelIa albano

    LA PIETRA PERIFRASTICA DI KIKÌ DIMOULÀ

  • la Pietra PeriFrastiCa di KiKÌ diMoulÀ 37

    Η ΠΕΡΙΦΡΑΣΤΙΚΗ ΠΕΤΡΑ

    Μίλα. Πὲς κάτι, ὁτιδήποτε.Μόνο μὴ στέκεις σὰν ἀτσάλινη ἀπουσία.Διάλεξε ἔστω κάποια λέξη,ποὺ νὰ σὲ δένει πιὸ σφιχτὰμὲ τὴν ἀοριστία.Πές:“ἄδικα”,“δέντρο”,“γυμνό”.Πές:“θὰ δοῦμε”,“ἀστάθμητο”,“βάρος”.Ὑπάρχουν τόσες λέξεις ποὺ ὀνειρεύονταιμιὰ σύντομη, ἄδετη, ζωὴ μὲ τὴ φωνή σου.Μίλα.Ἔχουμε τόση θάλασσα μπροστά μας.Ἐκεῖ ποὺ τελειώνουμε ἐμεῖς ἀρχίζει ἡ θάλασσα.Πὲς κάτι.Πὲς “κῦμα”, ποὺ δὲν στέκεται.Πὲς “βάρκα”, ποὺ βουλιάζειἂν τὴν παραφορτώσεις μὲ προθέσεις.Πὲς “στιγμή”,ποὺ φωνάζει βοήθεια ὅτι πνίγεται,μὴν τὴ σῴζεις,

  • 38 Clelia alBano

    πὲς“δὲν ἄκουσα”.Μίλα.Οἱ λέξεις ἔχουν ἔχθρες μεταξύ τους,ἔχουν τοὺς ἀνταγωνισμούς:ἂν κάποια ἀπ᾿ αὐτὲς σὲ αἰχμαλωτίσει,σ᾿ ἐλευθερώνει ἄλλη.Τράβα μία λέξη ἀπ᾿ τὴ νύχταστὴν τύχη.Ὁλόκληρη νύχτα στὴν τύχη.Μὴ λὲς “ὁλόκληρη”,πὲς “ἐλάχιστη”,ποὺ σ᾿ ἀφήνει νὰ φύγεις.Ἐλάχιστηαἴσθηση,λύπηὁλόκληρηδική μου.Ὁλόκληρη νύχτα.Μίλα.Πὲς “ἀστέρι”, ποὺ σβήνει.Δὲν λιγοστεύει ἡ σιωπὴ μὲ μιὰ λέξη.Πὲς “πέτρα”,ποὺ εἶναι ἄσπαστη λέξη.Ἔτσι, ἴσα ἴσα,νὰ βάλω ἕναν τίτλοσ᾿ αὐτὴ τὴ βόλτα τὴν παραθαλάσσια.

    ParlaDì qualcosa, una qualsiasi.Soltanto non stare come un’assenza d’acciaioScegli una parola almeno,che possa legarti più forte con l’indefinito.Dì “ingiustamente” “albero” “nudo”Dì “vedremo”“imponderabile”,“peso”.

  • la Pietra PeriFrastiCa di KiKÌ diMoulÀ 39

    Esistono così tante parole che sognano una veloce, libera, vita con la tua voceParlaAbbiamo così tanto mare davanti a noiDove noi finiamo inizia il mareDì qualcosaDì “onda”, che non sta arretraDì “barca”, che affonda se troppo la riempi con periodiDì “attimo”,che urla aiuto affogo,non lo salvare,Dì, “non ho sentito”ParlaLe parole hanno inimicizie,hanno antagonismise una ti imprigiona,l’altra ti libera.Tira a sorte una parola dalla notte.La notte intera a sorteNon dire “intera”,Dì “minima”,che ti permette di fuggire.Minimasensazione,tristezzainteradi mia proprietàIntera notteParlaDì “astro”, che si spegneNon diminuisce il silenzio con una parola…Dì “pietra”,che è parola irriducibileCosì, almenoche io possa mettere un titoloa questa passeggiata lungomare.

    La pietra perifrastica è una poesia della raccolta “Το λίγο του Κόσμου”, L’insignificante del mondo, 1971.

  • 40 Clelia alBano

    L’asciuttezza formale e l’assenza della punteggiatura, nonché il nucleo tematico principale che è la “pietra”, una monade da cui tuttavia si dislo-cano molteplici costellazioni di senso, ricorda “Sono una creatura” di Un-garetti, sebbene il tormento che nel poeta è del periodo bellico, in Dimoulà provenga dal disfacimento postbellico, e si tramuti nella possibilità di fuga dal dolore creando un dinamismo delle immagini, assente nella lirica unga-rettiana, dove invece domina la staticità e l’intransitività. La Dimoulà sembra tracciare con questa poesia un manifesto di poetica, un invito a rinvenire nel linguaggio tutta la sua potenzialità liberatoria, una formula che non tenga l’individuo ancorato alla parola che de-finisce, che de-termina, che preclude la personale evoluzione insieme all’evolversi della vita. La pietra perifras-tica (περιφράζω= riassumo), può riassumere ed unificare la molteplicità dell’esistenza, può veicolare un contatto, colmare una distanza. Questa poe-sia è poesia dell’assenza; forse un’assenza concreta, o il sentimento psicologi-co dell’assenza. L’assenza è un tema ricorrente nelle opere di Kikì Dimoulà. Assenza come morte, o come lontananza.

    “No, non esorcizzo la morte. Aggiungo il mio disgusto per lei al disgusto che la poesia prova per lei, ma anche per tutto ciò che è stato punito per essere incerto, breve, nulla di interessante, eccetto il diverso destino che ab-biamo meritato. (…) Naturalmente esorcizzo la morte ma nel senso che tento di conservare con la scrittura tutto ciò che descrivo, come se non fosse mor-to, come se avesse fatto un lungo viaggio, nella sua forma inalterata”1. Così risponde K. Dimoulà nel corso di un’ intervista. La logica della sua poesia, infatti, è volta ad esprimere le immagini della quotidianità, del proprio per-sonale mondo, in una prospettiva tale da sottrarre l’esistenza e la morte, al chaos. La Dimoulà riesce a creare una perfetta tensione emotiva spesso intes-sendo la trama delle sue poesie di forti contrasti o suggerendo una sorta di straniamento al lettore. Lo fa con l’ironia di chi è consapevole della mortalità, dell’effimero; lo fa da “sfacciata plagiaria”2 abile nel copiare” entrambi il par-lare e il cessare di esistere”, quasi a voler significare che la parola è salvezza.

    Ha scritto Vrasidas Karalis: “La sua scrittura rivolge la grammatica della lingua Greca contro il significato delle parole, nel tentativo, in tal modo, di potenziare il potere emotivo del verso attraverso lo stupore e la sorpresa. Tutti i suoi versi esprimono la stabilità di un mondo che gli occhi non pos-

    1 Intervista a KikìDimoulà, 2011, su Λογοτεχνία Κατεύθυνσης (trad. Clelia Albano).2 “The brazenplagiarist” è il titolo di una raccolta di poesie della Dimoula, tradotte in lingua

    inglese da Cecile InglessisMargellos e RikaLesser, pubblicata dalla Yale University, 2012.

  • la Pietra PeriFrastiCa di KiKÌ diMoulÀ 41

    sono vedere, ma che diventa totale tramite la ricostruzione all’interno del poema come una organica totalità. Questa dimensione di stupore e sorpresa è diventato un attivo fattore emotivo nella poesia Greca contemporanea. La poesia della Dimoulà tratta i temi dell’assenza e della dimenticanza come in un caleidoscopio, dove i colori e le forme si dissolvono e si mescolano allo scopo di essere ricostruite nell’armonia nascosta e nell’ordine. La sua poesia trasforma la fluidità in un processo di transustanziazione: l’universo ancora una volta diviene mondo, l’agonia diviene desiderio, l’assenza appare come tempo di redenzione. Il linguaggio del poeta riesce a vincere le abitudini e nega le certezze di una tradizione romantica che manca della visione del tem-po perduto come una presenza attiva e continua. La sua poesia, attraverso il filtro di Eraclito, presenta il mondo migliore di una personale ontologia e lo determina come materiale sensazionale e fenomeno estetico”3.

    Ed Eraclito riecheggia nella volontà della poetessa, di ricercare l’unità nel molteplice e nel divenire, scavando nella parola fino a raggiungerne l’essenza che possa stabilire l’armonia dei contrari.

    Dimoulà come una rabdomante intercetta nel flusso della vita, nel perpetuo divenire, ciò che la mente umana non è in grado di vedere perché annebbiata dalle “vertigini razionalistiche”4; ella chiama le cose ad essere, le invoca dai luoghi della memoria dove sopravvive, in una dimensione di simultaneità, la molteplicità dell’esistenza; rinviene la parola irriducibile e totalizzante, dalla stratificata realtà dei ricordi, dove non vi è distinzione tra i momenti. La invoca dall’“Ade personale” di ciascuno di noi, scardinando il silenzio e il potere delle tenebre. Ed è capace di riequilibrare le parole in una simmetria di analogie tra la memoria e la realtà, tra il microcosmo e il macrocosmo, in cui esiste la possibilità della “transustanziazione”5 al di là del deterioramento.

    “L’anarchia delle parole si vendica della lingua per ogni assenza, per ogni solitudine, per ogni paura della vita. Terrorizzata dall’esistenza, la Dimoulà terrorizza la lingua”6.

    3 KikìDimoulà, VrasidasKaralis, Senior lecturer University of Sidney, 2001 (trad. Clelia Albano).4 V. Karalis, ibidem.5 V. Karalis, ibidem.6 “Αναρχικήτωνλέξεων, παίρνειεκδίκησηαπότηνγλώσσαγιακάθεαουσία, κάθεμοναξιά,

    κάθεφόβοτηςζωής. Τρομοκρατημένηαπότηνύπαρξη, ηΔημουλάτρομοκρατείτηνγλώσσα.” Da ΚικήΔημουλάΣτηντετράγωνηνύχτατηςφωτογραφίας, di Nikos Dimou (trad. Clelia Albano).

  • DIDATTICA E LABORATORI

  • a cura dI santa aIello

    SENECA: ADDOLCIMENTO DELLA RAGIONE

    Interventi di

    Classe V A Liceo Socio-Psico-Pedagogico

  • seneCa: addolCiMento della ragione 47

    Quando nacque Lucio Anneo Seneca, Roma sovrastava ancora con la sua potenza la maggior parte del mondo allora conosciuto e conobbe i quattro imperatori che caratterizzarono il periodo più crudele della storia romana. Di Tiberio vide la crudeltà, ma non ne fu colpito personalmente, Caligola gli fu tanto ostile che fu sul punto di farlo uccidere, se l’episodio narrato da Cassio Dione (LIX 19, 7) ha qualche attendibilità, Claudio gli inflisse l’esilio in Corsica per volontà della moglie Messalina, mentre la seconda moglie, Agrippina, ne sollecitò il ritorno e poco dopo Seneca diventò aio di Nerone.

    Ma perché queste riflessioni proprio su Seneca? Perché Seneca oltre ad essere un “classico” ha una capacità di “rinascita” per la sua attualità, uni-versalità, mediazione e perché è figlio di un tempo difficile, proprio come il tempo in cui viviamo oggi caratterizzato da un’infinita comunicazione, con-fusione, incertezza immersi in un presente vuoto di significati, e ora come al-lora, l’uomo era ed è troppo ricco e troppo povero e troppo sapiente. Seneca ci ricorda che altri sono i valori veri della vita.

    Lo ricordiamo per la sua attualità perché questo genere di attualità, che nasce dalle viscere stesse del nostro presente, può relazionarsi solo con certe Figure della storia, figure compiute, prospettiche e immortali. E come degli enigmi hanno bisogno di una nuova interpretazione, perché tutto ciò che appartiene al passato deve essere rivissuto e chiarito per la nostra vita. L’uomo ha il privilegio di possedere degli antenati: siamo sempre figli di qualcuno, eredi, discendenti.

    Lo ricordiamo per la sua universalità perché ha caratteristiche che riguar-dano ogni uomo. Seneca è una figura chiara, nitida e duratura della storia universale al di fuori del paese d’origine. La sua figura ha la corporeità di una statua e il suo pensiero le fattezze di uno stile e provoca nel lettore mistero e seduzione perché ci indica una strada che non siamo del tutto convinti di voler percorrere. Ma questo non deve stupirci, tutti i filosofi antichi danno

  • 48 a Cura di santa aiello

    un’amara medicina fatta di veglia e di astinenza, ossia il risveglio della ra-gione. Seneca, pur appartenendo alla stessa categoria ha qualcosa di diverso dagli altri, perché il suo pensiero non ci costringe a nulla, e possiede qualcosa di musicale, una musica che rassicura, rasserena, addormenta. Quasi come un medico, un guaritore della filosofia ci porta il rimedio. Un rimedio meno rigoroso che, più che curare, vuole alleviare: più che svegliarci consolarci.

    Lo ricordiamo perché ci attrae e ci attrae perché è un mediatore, specie rara di uomini. Mediatore tra vita e pensiero, tra l’alto logos della filosofia greca e la vita umile e miserevole.

    Ma, ci piace ricordarlo soprattutto attraverso il pensiero di María Zam-brano, entrambi ispanici per nascita ed entrambi “amanti” della filosofia.

    E, come la “ragione” di Seneca si presenta come una forma di ragione che, non è più in antagonismo con la vita ma che, al contrario, si fa strumento per comprenderla, guidarla e sostenerla, così la “poetica” della Zambrano, non si isola nella scoperta della propria struttura ma si pone come una cura pronta ad aiutare l’uomo a vivere e a dar voce e chiarezza alle necessità dell’anima.

    Ma, soprattutto, ci piace leggere che la Zambrano attribuisce alla ragione senechiana l’aggettivo “materna” perché in questo modo, a suo avviso, si rende maggiormente l’idea di un pensiero che, impietosendosi dello stato di abbandono della condizione dell’uomo, gli insegna ad accettarla: “Si direbbe che la ragione si è fatta “madre”, si è riempita di tenerezza materna, per poter consolare l’uomo in stato di abbandono”1.

    Perché, nonostante la scoperta del Logos, la vita continuava ad essere pesantemente condizionata da una tirannica irrazionalità; “alla malinconia per lo scorrere del tempo, cosa che sappiamo essere nelle mani della natura, si è aggiunta ora l’amarezza infinita di sentirsi alla mercé del potere, eser-citato nella sua più barbara grandiosità”2.

    Sotto l’Impero romano, la condizione umana era ancora più critica di quando, prima della nascita della filosofia, l’uomo si sentiva soggiogato dalle imperscrutabili leggi della natura; e, commenta Zambrano, doveva essere ter-ribilmente amaro aver scoperto l’ordine, la figura degli ultimi elementi della realtà, averla resa trasparente, aver trovato la sua misura, la sua ragione, ed essere poi costretti a vivere in un mondo senza ragione e senza misura, a vi-vere in un mondo in cui l’assurdo e il delirio erano la realtà quotidiana.

    1 M. Zambrano, Un camino español: Séneca o la rasignación, in “Hora de España” XVII, Barcel-lona 1938.

    2 María Zambrano, Seneca, Bruno Mondadori, Milano 1998.

  • seneCa: addolCiMento della ragione 49

    La vita era tornata nuovamente ad essere un incubo, gli antichi e volubili Dei che la filosofia aveva già sconfitto, sedevano di nuovo al potere, con il nome di Imperatore.

    Nonostante la solitudine e l’amarezza Seneca non si abbandonò alla disper-azione ma tornò a diffondere la ragione tra gli uomini, per farli “tornare alla ragione”. E poiché la ragione pura rivolta alla contemplazione delle idee, così distaccata dalle cose terrene, non poteva apportare alcun aiuto all’uomo in quel momento di sconforto, Seneca ricorse ad una “ragione ristretta”, “rad-dolcita”, pronta a curare le ferite dell’uomo abbandonato a se stesso ed asfis-siato dalle tirannie del potere. Uno dei momenti più drammatici della storia, infatti, è proprio quello in cui la ragione non si adatta alla misura dell’uomo, e l’uomo rimane solo. Impossibile non notare, a questo punto, una similitu-dine tra il periodo in cui visse Seneca e l’attuale situazione di crisi in cui verte, l’uomo contemporaneo.

    Proprio per questo motivo oggi Seneca ci viene incontro: stiamo vivendo un momento analogo di grave crisi storica in cui la scienza ci insegna troppo e troppo poco al contempo, in cui la ragione, isterilita, non riesce a venirci in soccorso e a trarci fuori dalla situazione di stallo in cui ci troviamo. …Abbiamo bisogno della sua amara medicina che ci risvegli e ci faccia ac-cettare una verità che richiede tutto il nostro coraggio, abbiamo bisogno, a partire dalla nostra confusione e perplessità, di essere persuasi da una ragione “materna” ad intraprendere una strada che potrebbe portarci più vicino alla soluzione dei nostri problemi ma che non siamo del tutto sicuri di voler percorrere.

    Ma, in cosa risiede, secondo la Zambrano, la grandezza di Seneca? Nel fat-to che, nel suo dispensare consigli, egli si presenta più come un maestro del genere umano che non come un filosofo nel senso tradizionale del termine, visto che “la filosofia pura, in realtà, la Ragione, si preoccupa di proseguire il suo corso, più che di diffondersi”. Seneca incarna una delle figure più posi-tive di uomo, e nonostante la sua persona, in virtù della sua completezza e della sua saggezza, ci sovrasti, la avvertiamo, allo stesso tempo, come famili-are, come un Padre.

    Lo sguardo di Seneca non si innalza al mondo Iperuranio, non contempla le idee, ma si volge, caritatevolmente, verso amici e parenti per consolarli della morte, della malattia, dell’esilio, della perdita della ricchezza. Eppure, si domanda retoricamente Zambrano, quando una filosofia si preoccupa di tutto questo che conosciamo tutti già così bene, è davvero una filosofia? O sta piuttosto occupando il posto di qualcosa che non è filosofico? [...] No, non si

  • 50 a Cura di santa aiello

    è distratta, anzi è realmente questo il suo compito, la sua ragion d’essere. è la filosofia, la ragione impietosita della condizione derelitta dell’uomo.

    In quel tempo in cui l’uomo, sopraffatto dalla potenza dell’Impero, aveva abbandonato la Ragione, Seneca lo ammoniva a servirsene ancora per trovare la giusta misura del vivere, per rassegnarsi a vivere con virtù. Seneca inseg-nava a sfuggire al desiderio di assoluto che fa troppo spesso dimenticare la “reale natura delle cose”, che fa credere che siano “nostre le cose in cui ci muoviamo” quando, invece, dobbiamo essere “pronti a ridare quel che ci è stato assegnato senza una scadenza precisa e, se siamo convocati, a restituirlo senza lagnarci”, perché tutte le cose che ci sono state date, siano esse la ric-chezza, la bellezza, un figlio o un’amante le abbiamo ricevute in prestito.

    La Zambrano, a Marcía, ricorda che è nata mortale ed è madre di creature mortali e non c’è bisogno di un grande temporale per ridurre in polvere l’uomo. Tuttavia è crudele perdere un figlio giovane dopo averlo educato, quando ormai è divenuto sostegno e vanto per la madre e per il padre. …Chi nega che sia cosa crudele. Ma è cosa umana: per questo sei stata generata, per perdere, per perire, per sperare, per temere, per tormentare te stessa e gli altri, per avere paura e desiderio della morte, e, quel che è peggio, per non conoscere mai la tua reale condizione. La morte è liberazione da tutte le sof-ferenze, non è né bene né male, tu figlio ha varcato la soglia entro la quale c’è il limite della schiavitù, lo ha accolto una grande, eterna pace […] I grandi spiriti non amano indugiare nel corpo ma vogliono vagare alti nell’universo e contemplare da lassù la misera umanità3.

    E solo in virtù della rassegnazione compare la ragione, perché soltanto la ragione è capace di farcela raggiungere. Perché se non ci venisse in aiuto la ragione, la rassegnazione sarebbe impossibile, lascerebbe il posto a ciò che risiede nel profondo ancora prima di lei, a ciò che forza e motiva la rasseg-nazione, la disperazione”

    Rassegnarsi significa non voler alterare in nessun modo l’ordine del mondo, per strano che possa sembrare; guardarsi senza rancore, avere smesso di ve-dersi e sentirsi finalmente come qualcosa che è. Significa estirpare, se c’è mai stata, la tentazione dell’io, della libertà. è come una specie di debolezza davanti al cosmo: cadere sconfitti senza serbare rancore. Rassegnarsi a vivere, infine, significa accettare il movimento della vita e “sapersi muovere nella relatività senza posa che è la vita umana”. Per questo Seneca ha orrore del dogma, dell’assoluto: la vera misura delle cose si percepisce solo accordando,

    3 Seneca, Consolazione a Marcia in M. Zambrano, Seneca, cit. alla nt. 3, pag. 61

  • seneCa: addolCiMento della ragione 51

    di volta in volta, il movimento interiore con quello esteriore, è una “ques-tione d’orecchio”, un talento musicale: è un’arte.

    La morale si è trasformata in estetica e, come ogni estetica, ha qualcosa di incomunicabile.

    Per questo suo aderire all’uomo concreto, Seneca si rivela come un Padre. Un padre, volto com’è a modellare il lato ribelle e non ancora formato del figlio fa leva, da una parte, sull’oggettività della legge vigente nel mondo, “nella cultura, nel diritto, nella scienza, nel sapere e nella morale, nella reli-gione”, e dall’altra parte fa riferimento “all’intimità del figlio, alla parte eret-ica, eterodossa e nemica dell’oggettività vigente che possiede ogni uomo in formazione”. Per questo, Seneca, il sapiente, è un padre molto virile e molto materno insieme.

    Paternità in cui si fonde la maternità, per il sapere che in essa è racchiuso, fatto della più ermetica intimità, per la persuasione con cui scorre nelle vis-cere umane. La ragione in questi padri diventa materna, per la sua stessa rinuncia al proseguimento dialettico, per il suo rifiuto di perseguire l’idealità [...]. Da logicamente ideale, diventa divinamente materialista, se con mate-rialismo intendiamo l’attaccamento materno al concreto, all’uomo reale, la rinuncia all’astrazione per non separarsi dalle viscere umane.

    …Seneca rende viva, operante, quella forma di sapere che, senza temere la discesa nella notte oscura del senso, illumina il sentire originario in cui convergono corpo e spirito, passione e ragione, divenendo, così, mirabile testimone di quella “ragione poetica”, “materna”, “mediatrice” che, secondo le parole della stessa Zambrano, si muove nella penombra dell’essere e del non essere, del sapere e del non sapere, nel luogo in cui si nasce e si dis-nasce, che è il più appropriato, il più proprio al pensiero filosofico4.

    4 M. Zambrano, La “Guida”, forma del pensiero in verso un sapere dell’anima, Cortina, Milano 1996, pag. 58

  • a cura dI euGenIa rIzzo

    LA POESIA OLTRE LA LOGICA. POESIA COME ΦΑΡΜΑΚΟν“IL CICLOPE DI TEOCRITO”

  • la Poesia oltre la logiCa. Poesia CoMe ΦΑΡΜΑΚΟν “il CiCloPe di teoCrito” 55

    ΚΥΚΛΩΨ

    Οὐδὲν πὸτ τὸνἔρωτα πεφύκει φάρμακον ἄλλο,νικία, οὔτ᾽ἔγχριστον, ἐμὶν δοκεῖ, οὔτ᾽ἐπίπαστον,ἢταὶ Πιερίδες· κοῦφον δέ τι τοῦτο καὶἁδύγίνετ᾽ἐπ᾽ἀνθρώποις, εὑρεῖν δ᾽ οὐῥᾴδιόν ἐστι.Γινώσκειν δ᾽ οἶμαίτυ καλῶς, ἰατρὸν ἐόντακαὶ ταῖς ἐννέα δὴ πεφιλημένον ἔξοχα Μοίσαις.Οὕτω γοῦν ῥάϊστα διᾶγ᾽ὁ Κύκλωψ ὁ παρ᾽ἁμῖν,ὡρχαῖος Πολύφαμος, ὅκ᾽ἤρατο τᾶς Γαλατείας,ἄρτι γενειάσδων περὶ τὸ στόμα τὼς κροτάφως τε.Ἤρατο δ᾽ οὐ μάλοις οὐδὲῥόδῳ οὐδὲ κικίννοις,ἀλλ᾽ὀρθαῖς μανίαις, ἁγεῖτο δὲ πάντα πάρεργα.Πολλάκι ταὶὄϊες ποτὶτωὐλίον αὐταὶἀπῆνθονχλωρᾶς ἐκ βοτάνας· ὃ δὲ τᾷ Γαλατείᾳἀείδωναὐτόθ᾽ἐπ᾽ἀϊόνος κατετάκετο φυκιοέσσαςἐξ ἀοῦς, ἔχθιστον ἔχων ὑποκάρδιον ἕλκος,Κύπριδος ἐκ μεγάλαςτό οἱἥπατι πᾶξε βέλεμνον.Ἀλλὰ τὸ φάρμακον εὗρε, καθεζόμενος δ᾽ἐπὶ πέτραςὑψηλᾶς ἐς πόντον ὁρῶν ἄειδε τοιαῦτα·Ὦ λευκὰ Γαλάτεια, τί τὸν φιλέοντ᾽ἀποβάλλῃ,λευκοτέρα πακτᾶς ποτιδεῖν, ἁπαλωτέρα ἀρνός,μόσχω γαυροτέρα, φιαρωτέρα ὄμφακος ὠμᾶς, φοιτῇς δ᾽ αὖθ᾽ οὔτως ὅκκα γλυκὺς ὕπνος ἔχῃ με, οἴχῃ δ᾽ εὐθὺς ἰοῖσ᾽ὅκκα γλυκὺς ὕπνος ἀνῇ με, φεύγεις δ᾽ὥσπερ ὄϊς πολιὸν λύκον ἀθρήσασα;Ἠράσθην μὲν ἔγωγε τεοῦς, κόρα, ἁνίκα πρᾶτονἦνθεςἐμᾷ σὺν ματρὶθέλοισ᾽ὑακίνθινα φύλλα ἔξ ὄρεος δρέψασθαι, ἐγὼ δ᾽ὁδὸν ἁγεμόνευον. Παύσασθαι δ᾽, ἐσιδών τυκαὶὕστερον, οὐδέ τί πᾳ νῦν ἐκ τήνω δύναμαι·

  • 56 a Cura di eugenia rizzo

    τὶν δ᾽ οὐ μέλει, οὐ μὰ Δί᾽, οὐδὲν.Γινώσκω, χαρίεσσα κόρα, τίνος οὕνεκα φεύγεις·οὕνεκά μοι λασία μὲν ὀφρὺς ἐπὶ παντὶ μετώπῳ ἐξ ὠτὸς τέταται ποτὶθὥτερον ὦς μία μακρά, εἷς δ᾽ὀφθαλμος ἔπεστι, πλατεῖα δὲῥὶς ἐπὶ χείλει. Ἀλλ᾽ ωὑτὸς τοιοῦτος ἐὼν βοτὰ χίλια βόσκω,κἠκ τούτων τὸ κράτιστον ἀμελγόμενος γάλα πίνωτυρὸς δ᾽ οὐ λείπει μ᾽ οὔτ᾽ἐν θέρει οὔτ᾽ἐν ὀπώρᾳ, οὐ χειμῶνος ἄκρω· ταρσοὶ δ᾽ὑπεραχθέες αἰεί.Συρίσδεν δ᾽ὡς οὔτις ἐπίσταμαι ὧδε Κυκλώπων, τίν τε, φίλον γλυκύμαλον, ἀμᾷ κἠμαυτῷἀείδωνπολλάκι νυκτὸς ἀωρί. Τρέφω δέ τοι ἕνδεκα νεβρώς,πάσας μηνοφόρως, καὶ σκύμνως τέσσαρας ἄρκτων. Ἀλλ᾽ἀφίκευσο ποθ᾽ἁμέ, καὶἑξεῖς οὐδὲν ἔλασσον, τὰν γλαυκὰνδὲ θάλασσαν ἔα ποτὶ χέρσον ὀρεχθεῖν· ἅδιον ἐν τὤντρῳ παρ᾽ἐμὶντὰν νύκτα διαξεῖς.Ἐντὶδάφναι τηνεί, ἐντὶῥαδιναὶ κυπάρισσοι,ἔστι μέλας κισσός, ἔστ᾽ἄμπελος ὁ γλυκύκαρπος, ἔστι ψυχρὸν ὕδωρ, τό μοι ἁ πολυδένδρεος Αἴτνα λευκᾶς ἐκ χιόνος ποτὸν ἁμβρόσιον προΐητι. Τίς κα τῶνδε θάλασσαν ἔχειν καὶ κύμαθ᾽ἕλοιτο; Αἰ δέ τοι αὐτὸς ἐγὼν δοκέω λασιώτερος ἦμεν,ἐντὶ δρυὸς ξύλα μοι καὶὑπὸ σποδῷἀκάματον πῦρ· καιόμενος δ᾽ὑπὸτεῦςκαὶτὰνψυχὰνἀνεχοίμαν καὶ τὸν ἕν᾽ὀφθαλμόν, τῶμοι γλυκερώτερον οὐδὲν.Ὤμοι, ὅτ᾽ οὐκ ἐτεκέ μ᾽ἁ μάτηρ βράγχι᾽ἔχοντα,ὡς κατέδυν ποτὶ τὶν καὶ τὰν χέρα τεῦςἐφίλησα,αἰ μὴ τὸ στόμα λῇς, ἔφερον δέ τοι ἢ κρίνα λευκά ἢ μάκων᾽ἁπαλὰν ἐρυθρὰ πλαταγώνι᾽ἔχοισαν· ἀλλὰ τὰ μὲν θέρεος, τὰ δὲ γίνεται ἐν χειμῶνι, ὥστ᾽ οὔ κά τοι ταῦτα φέρειν ἅμα πάντ᾽ἐδυνάθην.νῦν μάν, ὦ κόριον, νῦν αὐτίκα νεῖν γε μαθεῦμαι,αἴκά τις σὺν ναῒ πλέων ξένος ὧδ᾽ἀφίκηται, ὧς εἰδῶ τί ποθ᾽ἡδὺ κατοικεῖν τὸν βυθὸν ὔμμιν,Ἐξένθοις, Γαλάτεια, καὶἐξενθοῖσα λάθοιο, ὥσπερ ἐγὼ νῦν ὧδε καθήμενος, οἴκαδ᾽ἀπενθεῖν·ποιμαίνειν δ᾽ἐθέλοις σὺν ἐμὶνἅμα καὶ γάλ᾽ἀμέλγεινκαὶ τυρὸν πᾶξαι τάμισον δριμεῖαν ἐνεῖσα.Ἁ μάτηρἀδικεῖ με μόνα, καὶ μέμφομαι αὐτᾷ· οὐδὲν πήποχ᾽ὅλως ποτὶ τὶνφίλον εἶπεν ὑπέρ μευ, καὶ ταῦθ᾽ἆμαρἐπ᾽ἆμαρὁρεῦσά με

  • la Poesia oltre la logiCa. Poesia CoMe ΦΑΡΜΑΚΟν “il CiCloPe di teoCrito” 57

    λεπτὸν ἐόντα.70 Φασῶτὰνκεφαλὰν καὶτὼςπόδας ἀμφοτέρωςμευ

    σφύζειν, ὧς ἀνιαθῇ, ἐπεὶ κἠγὼν ἀνιῶμαι.Ὦ Κύκλωψ Κύκλωψ, πᾷ τὰς φρένας ἐκπεπότασαι;Αἴκ᾽ἐνθὼν ταλάρως τε πλέκοις καὶ θαλλὸν ἀμάσας ταῖς ἄρνεσσι φέροις, τάχα κα πολὺ μᾶλλον ἔχοις νῶν.Τ’ὰν παρεοῖσαν ἄμελγε· τί τὸν φεύγοντα διῴκεις;Εὑρησεῖς Γαλάτειαν ἴσως καὶ καλλίον᾽ἄλλαν. Πολλαὶσυμπαίσδεν με κόραιτὰν νύκτα κέλονται,κιχλίζοντι δὲ πᾶσαι, ἐπεί κ᾽ αὐταῖς ἐπακούσω.Δῆλον ὅτ᾽ἐν ταῖγαῖ κἠγών τις φαίνομαι ἦμεν.Οὕτω τοι Πολύφαμος ἐποίμαινεν τὸν ἔρωταμουσίσδων, ῥᾷον δὲ διᾶγ᾽ἢ εἰ χρυσὸν ἔδωκεν.

    Contra amorem, Nicia, nullum aliud remedium est,, nec illitum, ut mihi vide-tur, nec quod inspergitur, quamPierides: ho minibus leve et suave (remedium) est, sed facile non est id invenire.

    Quodte, cum medicus sis et novem Musis carissimus, bene cognosce reputo. Sic igitur optime apud nos vitam degebat Cyclops, Polyphemus antiquus, cum Galateam amaret modo pubescens circum os temporaque.

    Nec pomis, nec rosa, nec cincinnis amabat, sed veris insaniis, omnia ab eo levi momento aestimabantur.

    Saepe ipsae oves e virenti pabulo redibant in ovile. Ille autem Galateam ca-nens, prima luce, cupiditate flagrabat in litore algoso, cum odiosissimum vulnus sub corde teneret, quod magnae Cypridis telum illi in iecur intulerat. Sed reme-dium invenit, in alta rupe sedens, ad mare spectans, talia canebat:

    “Candida Galatea, cur illum spernis qui te amat, coagulo candidior visu, ove tenerior, vitulo recenti elatior, uva acerba nitidior? Sic vagaris eo loco, cum me dulcis somnus teneat, abis statim proficiscens, cum me dulcis somnus relinquat, fugis ut ovis quae lupum canum vidit. Amore tui ardere coepi, puella, cum folia hyacinthina volens decerpere de monte cum mea matre primum venisses atque ego vobis praeirem. Cum in te intuitus sim etiam postea, nullo modo prorsus inde nunc possum desistere te amare. Sed id tua minime interest, per Iovem. Intelligo, gratiosa puella, cur fugias: quod hirsutum supercilium supra totam frontem extenditur ex aure ad alteram, ut unum longum, unus oculus subest, patulus est meus nasus super labrum. Cum ego talis sim, oves mille pasco, et ex iis mulgens optimum lac bibo. Caseus mihi non deest nec aestate nec autumno, nec media hieme. Crates semper nimis gravatae. Ut nemo sic Cyclopum, scio

  • 58 a Cura di eugenia rizzo

    me calamum inflare, canens te, qui es meum dilectum malum praedulce, simul cum me, saepe intempesta nocte. Tibi undecim hinnuleos alo, omnes collare gestantes et quattuor catulos ursorum. At ad me perveni et nihil minus habebis, Sine caeruleum mare se illidere in litore.

    Pernoctabis apud me suavius in antro. Lauri illic sunt, molles cupressi, hedera nigra est, vitis dulcem fructum ferens, gelida aqua, divinam potionem quam ar-boribus abundans Aetna mihi dimittit e candida nive. Quis velit mare aut fluc-tus habere pro his rebus? Et si ego ipse tibi esse videor hirsutior, e quercu ligna sunt mihi et ignis qui extingui non potest sub cinere; Patiar etiam meam ani-mam a te incendi et unum oculum quo mihi nihil dulcius. Heu mihi, propterea quod mater me non genuit pinnas habentem, ita ut ad te versus immergerer et tibi dexteram oscularer, nisi os cupis, tibi ferrem aut candida lilia aut tenerum papaver rubra crepitacula habens. Sed haec florent aestate, illa hieme, ita ut non possim tibi haec ferre ad unum omnia. Nunc profecto, puellula, nunc statim natare discam, si quis advena navi vehens huc perveniat, sic videbo quidnam dulce sit vobis profundum incolere. Utinam exeas, Galatea, et, cum exiveris, obliviscaris domum redire, ut ego nunc hic sedens, velis pascere una mecum et lac mulgere et caseum facere, coagulum acre iniciens.

    Mater mea sola mihi iniuriam infert et illae irascor: numquam prorsus tibi dixit verbum mihi propitium, cum videret haec facta me infirmum reddere diem ex die.

    Dicam caput et pedes mihi palpitare, sic moerore afficietur, cum ego ipse moes-tus sim. Cyclops, Cyclops, Quo evolavisti mente? Si ad canistra plectenda eas et, cum germen colligeris, id agnis feras, celeriter habeas multum plus consilii. Cur fugientem insequeris? Alteram Galateam invenies, etiam fortasse pulchriorem. Multae puellae adhortantur me ut ludam cum eis nocte, omnes effusius rident, cum eas auscultem. Manifestum est me quoque in terra aliquid pondus habere”.

    Ita Polyphemus suum amorem canendo pascebat, et melius vivebat quam si aurum expendisset.

    Il Ciclope appartiene alla serie degli Idilli di Teocrito, autore vissuto nel periodo della fioritura poetica alessandrina (300-260 a.C.), che, per l’influsso esercitato in età moderna, ha eguagliato, se non addirittura superato, Cal-limaco. Se è vero che Callimaco fu dotato, come afferma Albin Lesky, di una “superiorità intellettuale” con cui dominava anche i gesti cortigiani, Teocrito fu colui che riuscì e riesce ancora oggi a toccare meglio il nostro sentimento.

    Il termine idillio compare per la prima volta negli scolii a Teocrito, e, in lati-no, è usato per la prima volta, per quanto ne sappiamo, da Plinio il Giovane,

  • la Poesia oltre la logiCa. Poesia CoMe ΦΑΡΜΑΚΟν “il CiCloPe di teoCrito” 59

    per indicare poemetti brevi. L’origine del termine è riconducibile al diminu-tivo di eidoò, piccola descrizione, ma l’espressione, all’inizio, pare non avesse nulla a che fare con la poesia pastorale. Solo in seguito acquistò quella sfuma-tura che le è rimasta fino a noi.

    Il componimento è incentrato sull’assunto di ordine logico generale, o priamel, per il quale la poesia è il φάρμακον, il migliore “rimedio”, οὔτ᾽ἔγχριστον, … οὔτ᾽ἐπίπαστον, “né in unguento … né in polvere”, per lenire lo stato di malattia indotto in un individuo da un amore non corris-posto. Questo concetto, unito alla realistica constatazione che, comunque, trovare un tale rimedio non è facile, è espresso già nei primi quattro versi del componimento che hanno carattere introduttivo, e nei quali compare indi-cato anche il nome del destinatario: νικία, Nicia, di Mileto, al quale sono in-dirizzati anche gli idilli 13 e 28 e l’epigramma 8. Ai versi 5 e 6, apprendiamo, inoltre, che Nicia è, ἰατρὸὸ, “medico” ed è “caro oltremodo alle Muse”: egli può, dunque, confermare, alla luce della sua competenza, e meglio di chi-unque altro, la validità della tesi precedentemente enunciata.

    Ai righi 7-8, inizia la narrazione vera e propria, in terza persona singolare, con lo stilema oὕτω, e la presentazione dei protagonisti della vicenda: il Κύκλωψ, definito ὡρχαῖος, “l’antico”, ma che, al tempo dei fatti qui narrati, ci appare ἄρτι γενειάσδων περὶ τὸ στόμα τὼς κροτάφως τε, “da poco la barba gli spuntava attorno alla bocca e sulle tempie”, e Γαλάτεια, Galatea, la ninfa di cui lui è innamorato. Si tratta naturalmente di una passione non corrisposta. Da qui scaturisce la frenesia d’amore del Ciclope descritta nei versi 10-18, che lo induce a trascurare anche le sue abituali attività di pastore, trovando unico conforto alla ferita che, nel petto, gli ha inferto Cipride, nel canto.

    Ed il canto del Ciclope si dispiega per ben 60 versi, da v.19 a v.79, con toni lirici e sofferti, attraverso immagini attinte dal mondo pastorale a cui Polifemo appartiene: così Galatea è λευκοτέρα πακτᾶς, “più candida del latte caglia-to”, ἁπαλωτέρα ἀρνός,, “più morbida di un agnello” μόσχω γαυροτέρα, “più altera di un vitello”, φιαρωτέρα ὄμφακος ὠμᾶς, “più brillante dell’uva acerba”. Il linguaggio è dunque altamente analogico e metaforico.

    Galatea respinge colui che la ama e fugge lontano, ὥσπερ ὄϊς πολιὸν λύκον ἀθρήσασα, “come la pecora che ha visto un grigio lupo”. Polifemo sa bene che il motivo di tale rifiuto è la propria bruttezza fisica, in particolare le sembianze del volto, su cui si stende un unico, irsuto sopracciglio che copre l’unico occhio, ed un largo naso che copre il labbro.

    Alla luce di una sua logica ingenua ed al tempo stesso fortemente material-istica, egli crede di poter compensare tali difetti tramite l’ostentazione della

  • 60 a Cura di eugenia rizzo

    prosperità: le mille bestie da pascolo, con i prodotti che ne derivano, come cacio e latte; le undici cerbiatte e i quattro orsacchiotti.

    Ma egli possiede anche una capacità sconosciuta agli altri ciclopi: l’arte di suonare la zampogna, e di accompagnare il suono con il canto amoroso.

    Polifemo non si capacita inoltre di come mai Galatea possa preferire l’inquietante ambiente marino al rassicurante mondo della terraferma. Quest’ultimo ha da offrire, in luogo del mare e le onde, δάφναι, i lauri, ῥαδιναὶ κυπάρισσοι, gli ondeggianti cipressi, ἔστι μέλας κισσός ὸ, l’edera scura, ἔστ᾽ἄμπελος ὁ γλυκύκαρπος, la vite dai dolci frutti, e ψυχρὸν ὕδωρ, l’acqua fresca che discende dalle nevi dell’Etna, tutti elementi che apparten-gono ad una natura boschiva ed incontaminata.

    Il suo stesso aspetto irsuto è indicativo del fatto che è anch’egli una crea-tura di quella natura, paragonabile al legno di quercia, ed alimenta al suo interno una passione inestinguibile simile ad un fuoco che continua ad ardere sotto la cenere. L’affermazione che per Galatea sacrificherebbe persino il suo prezioso occhio contiene un’allusione ironica a quella che sarà la sua sorte descritta nell’Odissea.

    Visto che, però, Galatea non vuol saperne di raggiungerlo sulla terraferma, egli rimpiange di non essere stato generato con le branchie, perché, in tal caso, si tufferebbe per raggiungerla recandole in dono gigli bianchi o teneri papaveri dai rossi petali. Ma la pedanteria con cui, poi, Polifemo sottolinea che non potrebbe offrire contemporaneamente alla sua bella fiori che sboc-ciano in stagioni diverse è umoristica.

    Ironicamente tragica è l’immagine di questo gigante che nutre la speranza della venuta di uno straniero che possa insegnargli a nuotare: lo straniero che approderà nell’isola, Odisseo, non sarà certo disposto ad insegnargli il nuoto.

    Perduto nel suo sogno d’amore, Polifemo accarezza la speranza che Galatea voglia condividere la sua rozza vita di pastore e, infantilmente, si mostra adi-rato nei confronti della madre, che, ninfa marina come Galatea, non spende neanche una buona parola in suo favore. Egli si propone, dunque, di impieto-sirla enfatizzando il suo stato di malessere. Alla fine il φάρμακον di cui egli si avvale produce i suoi benefici effetti: il Ciclope, scuotendosi dal suo stato di prostrazione, comincia a pensare che sarebbe meglio tornare alle abituali occupazioni e rivolgere le proprie attenzioni a qualche altra ragazza, più dis-ponibile di Galatea. Egli infatti dice rivolto a se stesso: Εὑρησεῖς Γαλάτειαν ἴσως καὶ καλλίον᾽ἄλλαν, “un’altra Galatea troverai, forse anche più bella”, espressione che ci ricorda quella della nota favola di Esopo: omfakeò eisin “è acerba”, con cui la volpe bolla l’uva che non riesce ad afferrare. L’idillio

  • la Poesia oltre la logiCa. Poesia CoMe ΦΑΡΜΑΚΟν “il CiCloPe di teoCrito” 61

    termina con una riflessione dell’autore che riprende l’assunto iniziale, sec-ondo la caratteristica composizione ad anello o Ringcomposition: “Polifemo curava col canto la sua malattia d’amore meglio che se avesse speso denari in medicine”.

    I toni della musa teocritea sono vari e, tra questi, si possono distinguere il bucolico che può essere definito oggettivo e il bucolico calato nella parodia, ed entrambi sembrano appartenere a questo componimento7.

    Il tema affrontato compare anche nell’idillio 6, Bukoliastai, in cui due pas-tori cantano di Polifemo e Galatea, ma, per un umoristico capovolgimen-to della storia, qui è Polifemo che fa la parte dello scontroso. Comunque l’amore è al centro di molti componimenti teocritei, anche se, come fa notare Rosenmeyer, Teocrito non appartiene alla schiera di quei poeti che valutano l’amore come una passione nobilitante o purificatrice. Anzi, egli individua numerosi espedienti per neutralizzare le ragioni del sentimento d’amore e quello preferito consiste nel contrapporre il sesso e il puro e semplice in-namoramento.

    Infatti, in questo Idillio, al verso 75, nel momento in cui ormai la passio-ne sembra aver concluso il percorso della sua insensatezza per incanalarsi nell’alveo della logica e del buon senso comune, il Ciclope rammenta a sé stesso, con un’espressione quasi brutale, che ci sono altre vacche da mun-gere: Τ’ὰν παρεοῖσαν ἄμελγε· τί τὸν φεύγοντα διῴκεις; “mungi quella che ti è vicina; perché insegui chi fugge?”

    Virgilio ha imitato questo carme nella seconda ecloga, ma non ne ha ripreso il carattere sottilmente ironico, ha, anzi, eliminato di fatto il tono umoris-tico del suo modello, sostituendo il Ciclope con un comune pastore di nome Coridone e rinnovando la passione per il giovane Alessi.

    Nella trattatistica filosofica antica e nei poemi didascalici, il tema dell’amore era largamente dibattuto al punto che, nella Vita di Epicuro, si affermava che il saggio non si innamorava e che l’amore non era una grazia del cielo.

    Lucrezio, nel IV libro del De Rerum Natura, rifiutava l’amore per i danni che esso provocava ai sensi, alla sensibilità e alla capacità di giudizio.

    Nella poesia pastorale il tema amoroso è in stretta connessione con la mu-sica, tanto è vero che il Ciclope inizia a cantare proprio perché è innam-orato. Si tratta probabilmente della vecchia teoria platonica per la quale eros fornisce un alimento che aiuta l’uomo nel comporre musica, sia essa intesa nell’accezione di “filosofia” o di “poesia pastorale”.

    Tra le varie chiavi di lettura attraverso cui è possibile proporre questo testo alla classe, una da perseguire potrebbe essere proprio quella psicologica –

  • 62 a Cura di eugenia rizzo

    letteraria, che consiste nell’illuminare, nell’ambito del contesto poetico, il sentimento amoroso, nel ricercare come esso si traduca in linguaggio, quali s