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Quaderni di Engramma • 03 • novembre 2012

Pensiero in azioneBertolt Brecht, Robert Wilson, Peter Sellars:tre protagonisti del teatro contemporaneo

Daniela Sacco

Edizioni Associazione Culturale Engramma

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Quaderni di Engramma

Collana diretta da Monica Centanni

ISBN 978-88-98260-02-7www.engramma.org

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Sommario • 03

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Presentazione

Pensare per immagini. Il principio drammaturgico del montaggio.A partire dal Kriegsibel di Bertolt Brecht

25 Una partitura (post)drammatica.Per una lettura di Einstein on the Beach di Robert Wilson

40 “C’è una nuvola in un pezzo di carta”.Attualità del mito nel teatro di Peter Sellars

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La creazione del frammento. Kafka Fragments di Peter Sellars

Appendice“here is a cloud in a piece of paper”.he actuality of the myth in the theater of Peter Sellars

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Presentazione

Questo volume raccoglie alcuni contributi dedicati al teatro contemporaneo e in particolare a tre maestri della scena internazionale, europea e statunitense: Bertolt Brecht (1898-1956), Robert Wilson (1941), Peter Sellars (1957)*.

Pur nella distanza storica e culturale che separa le loro poetiche e le loro espe-rienze, i tre autori possono essere accomunati per un particolare modo e una precisa intenzione nella costruzione della messa in scena: l’impronta della com-posizione per montaggio, e la restituzione tragica e mitica della materia della rappresentazione teatrale. Nelle rilessioni sui tre casi presi in esame, il mon-taggio – termine preso a prestito, nella sua accezione tecnica, dall’arte cinema-tograica e traslato a deinire un dispositivo più generale – si propone come un metodo privilegiato della drammaturgia contemporanea, già a partire dalle Avanguardie, di cui Brecht, Wilson, Sellars, ciascuno a suo modo, ereditano e interpretano le premesse teoriche e gli stilemi compositivi. E proprio il mon-taggio, adottato come meccanismo mitopoietico nel teatro deinito ‘postdram-matico’ nella fase della cosiddetta ‘postmodernità’, rappresenta bensì la strut-tura compositiva del ‘pensare per immagini’ propria della visione del mondo del Novecento, ma appare sorprendentemente aine alle modalità compositive delle prime forme teatrali, sorte in Grecia nel V secolo a.C, al teatro che è stato deinito ‘predrammatico’.

Seguendo il ilo di questa rilessione si è cercato di indagare in che termini il teatro contemporaneo, con l’intento dichiarato di trascendere il dramma mo-derno considerato come una forma decaduta e imborghesita di tragedia, riesca ad esprimere al meglio la sua tensione teoretica e le proprie valenze originali quando adotta la forma e il senso del tragico antico, e cosa della sensibilità e della visione del mondo propria del Novecento lo rende possibile.

Brecht, Wilson, Sellars condividono la volontà di superare la rappresentazione come mimesis: nella loro poetica non si tratta più di riprodurre l’imitazione di una realtà pensata come separata dal soggetto, secondo la concezione propria

* Il saggio Pensare per immagini, sul Kriegsibel di Bertolt Brecht, è stato già pubblicato in “La Rivista di Engramma”, n. 100 (ottobre 2012); il saggio Una partitura (post)drammatica, su Einstein on the Beach di Rober Wilson, è stato pubblicato in “La Rivista di Engramma”, n. 98 (maggio-giugno 2012); l’intervista a Peter Sellars, nella versione italiana e inglese, è stata pubblicata in “La Rivista di Engramma”, n. 87 (gennaio-febbraio 2011) e n. 91 (luglio 2011); il saggio La creazione del frammento, sui Kafka Fragments di Sellars, è pubblicato per la prima volta in questo volume.

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Daniela Sacco Presentazione

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del dualismo moderno, ma di afermare il senso e la ragione propri della poiesis: senso e ragione originali, e purtuttavia consonanti con la produzione dramma-turgica tragica antica.

Bertolt Brecht, a cavallo tra la prima e la seconda riforma del teatro nove-centesco, si fa promotore di un teatro epico che è tragico nella misura in cui è dialettico, ed è mitico nella misura in cui interrompe attraverso il montaggio la narrazione storica. Un teatro quindi tragico e mitico nella volontà di smarcarsi dal teatro drammatico inteso come forma decaduta di tragedia. Una modalità drammaturgica che risulta particolarmente evidente sia attraverso l’analisi di un’opera non propriamente teatrale – il Kriegsibel, messo in relazione all’evento tragico della Seconda guerra mondiale – sia dalla scrittura dell’Antigone des Sophokles.

Robert Wilson e Peter Sellars, entrambi esponenti di una cultura americana esemplare per l’approccio visibile al sensibile, a una distanza epocale dal pre-decessore europeo costituiscono due casi indicativi di ri-creazione di mythos in due versioni, complementari e apparentemente antitetiche, della creazione di storie secondo il principio aristotelico della mimesis praxeos. Ma Wilson e Sellars – per i quali si propongono qui le letture di Einstein on the Beach e dell’eclettico Kafka Fragments – rilanciano anche il principio compositivo della frammentazione e ‘polverizzazione’ in scena delle storie secondo il principio della nuda visibilità scenica – quell’opsis, che ancora Aristotele nella Poetica indicava come elemento essenziale caratterizzante del dramma rispetto a tutti gli altri generi poetici.

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Pensare per immagini. Il principio drammaturgico del montaggio.A partire dal Kriegsibel di Bertolt Brecht

D’accordo con Arnold Hauser si può afermare che “il ‘Novecento’ comincia dopo la Prima guerra mondiale, cioè fra il 1920 e il 1930, come l’ ‘Ottocento’ era cominciato solo con il 1830”, ossia con quella che è stata nominata ‘la rivolu-zione di luglio’, o seconda rivoluzione francese (Hauser [1953] 1967, 451). Le guerre, in forma diversa rispetto al frangente storico in cui si collocano, regi-strando profonde crisi sociali, dischiudono quindi una cesura rispetto al passato e corrispondono alla nascita di una nuova visione del mondo. Il ‘pensare per immagini’ sembra essere il tratto saliente della visione del mondo che permea la trasformazione della coscienza nel XX secolo a seguito della ine della moderni-tà illuministicamente intesa. La prima e la Seconda guerra mondiale – le trage-die del Novecento – segnano infatti una frattura nel passaggio dalla visione del mondo della modernità a quella che è stata deinita ‘postmodernità’. Si è assistito cioè alla crisi della forma metaisica di pensiero che improntata sulla supremazia del logos sul mythos ha predominato come paradigma concettuale nella cultu-ra europea dall’antichità ino al XIX, e, di seguito all’emersione di un pensie-ro diversamente improntato all’immagine: un ‘pensiero per immagini’ appunto, che, in una terminologia ancora inluenzata da un’ottica evoluzionistica, indica l’ambito del ‘prelogico’ o del ‘prediscorsivo’, come ad esempio è stato deinito da Olaf Breidbach e Federico Vercellone (Breidbach, Vercellone 2010). La ine del pensiero metaisico è accompagnata alla crisi del concetto di identità e unità trascendentale che lo ha governato nelle sue declinazioni ilosoiche e religiose e nell’episteme della scienza moderna. Nel passaggio tragico dalla distruzione di un ordine – il caos – alla creazione di un nuovo ordine – il cosmos – attraverso un inedito o rinnovato paradigma gnoseologico dell’immagine, ad essere stravolto è anche il modo di intendere il rapporto tra le parti e l’intero, a sua volta rilesso in un diverso modo di percepire lo spazio e il tempo. Il rapporto tra particolare e universale, unità e molteplicità si rideinisce rispetto all’approccio consolidato dal pensiero logico ilosoico tendente a ridurre il molteplice nell’unità e nell’i-dentità. Nel pensiero improntato all’immagine, il rapporto tra l’uno e i molti è rovesciato: non è l’unità che contiene il molteplice ma il molteplice che contiene al suo interno l’unità e l’identità. E questo avviene di rilesso a una ricollocazione dell’uomo nel mondo che si smarca dall’impostazione dualista moderna secondo cui il rapporto uomo-mondo è basato fondamentalmente sulla frattura cartesia-na tra io e non io, res cogitans e res extensa.

La forma del pensare eminentemente visiva, attraverso cui si articola questo mutato rapporto tra uomo e mondo e tra particolare e universale risulta essere leggibile strutturalmente attraverso il meccanismo compositivo del montaggio.

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Termine novecentesco preso a prestito dal cinema – nuova arte che signiicativa-mente inaugura il XX secolo – e traslato a signiicare un dispositivo più generale, il montaggio appare allora come il principio costruttivo e il dispositivo composi-tivo del pensare per immagini. Nella misura in cui il Novecento risolve il duali-smo moderno è aine a quel pensiero che viene prima del dualismo: il pensiero antico, per cui la conoscenza è profondamente veicolata dal paradigma visivo ed è nella sua natura tragica e mitica, come tragica è la cifra del secolo scorso.

Si potrebbe tracciare una costellazione molto ampia di intellettuali e artisti che nel secolo scorso, in ambiti disciplinari diversi, hanno denunciato la crisi della modernità introducendo una visione del mondo alternativa a quella che la mo-dernità stessa sottende, permeata da un rinnovato valore gnoseologico attribuito all’immagine. È però nel contesto teatrale che è possibile riconoscere il pensare per immagini – e il meccanismo che lo informa, il montaggio – nella sua peculia-rità profondamente drammatica, e quindi tragica. Questa rilessione parte nello speciico da un’opera che ha preso forma nella temperie tragica della Seconda guerra mondiale: il Kriegsibel di Bertolt Brecht, ossia il ‘sillabario’, l’Abicí della guerra, come è stato tradotto nella prima edizione italiana pubblicata da Einaudi nel 1972. Si tratta di un’opera signiicativa per molteplici aspetti: oltre che per il frangente storico in cui viene creata, anche per la forma che la contraddistingue e per il fatto che, pur non essendo un lavoro teatrale, è rivelativa del metodo teatrale del suo autore. È inoltre un’opera interessante da considerare alla luce delle riles-sioni teoriche e al mutato atteggiamento di Brecht nei confronti dei classici e del mito dopo l’esperienza dell’esilio avvenuto durante la Seconda guerra mondiale.

Come ha argomentato Georges Didi-Huberman, il Kriegsibel può essere con-siderato a tutti gli efetti un caso di ‘forma Atlante’ se posto a confronto con l’esemplare supremo del Bilderatlas Mnemosyne di Aby Warburg (Didi-Huber-man 2009). Il sillabario composto da Brecht è di fatto un atlante fotograico sul tema della guerra che nella struttura tematica sembra seguire cronologicamente lo svolgimento del conlitto mondiale: dalla guerra di Spagna alla controfensiva degli Alleati al ritorno dei prigionieri. Pubblicato per la prima volta nel 1955 nel-la Berlino Est, dopo una serie di rimaneggiamenti e non poche battaglie contro tentativi di censura, il Kriegsibel viene invero composto molto prima, nel contesto tragico dell’esilio che tiene Brecht lontano dall’impegno attivo ed esclusivo in teatro per ben quindici anni, dal 1933 al 1947. L’esilio, cominciato il 28 febbraio del 1933, il giorno dopo l’incendio del Reichstag, a seguito dell’avvento al potere di Hitler e del partito nazionalsocialista in Germania, durerà ino al 1947 e lo porterà a vivere per periodi di tempo diversi a Praga, Parigi, Londra, Mosca, in Danimarca, a Stoccolma, in Finlandia, a Leningrado, di nuovo a Mosca e inine negli Stati Uniti, passando da Los Angeles a New York, per poi tornare a Zurigo e inine a Berlino. Rientrato in Germania, nel 1948 Brecht si stabilisce deiniti-vamente nella Berlino Est dove riprende a lavorare e fonda il Berliner Ensemble.

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La struttura compositiva di questo particolare atlante segue il meccanismo dell’assemblaggio associativo di immagini e testi e risulta fatto secondo lo stes-so metodo dell’Arbeitsjournal, a cui si dedica Brecht durante tutto il periodo dell’esilio (Brecht [1938-42; 1942-55] 1976). Il Diario di lavoro, a cui Brecht ricorrerà in modo più programmatico anche per studiare e costruire alcune messe in scena, è un montaggio di testi di varia natura e di immagini altret-tanto varie che ritaglia e incolla seguendo il lusso associativo del suo pensiero. Nel considerare il Kriegsibel un’opera signiicante nell’orizzonte del ‘pensare per immagini’ tre sono gli aspetti su cui posare l’attenzione: l’appartenenza al con-testo della guerra; la sua peculiarità formale; il legame metodologico e insieme poetico e compositivo con il lavoro drammaturgico dell’autore.

Il lavoro sul singolare abbecedario è quindi il frutto della condizione di esiliato in cui è costretto Brecht, per lo più senza la possibilità di lavorare in teatro, sen-za denaro e in contesti culturali e linguistici estranei, ovvero in una condizione assolutamente precaria in cui “non era in grado di fare altro che ritagliare im-magini della stampa e comporre qualche ‘piccolo epigramma’ di quattro versi” (Brecht 1940, cit. in Didi-Huberman 2009, 31). Brecht è ‘esposto alla guerra’, con tutta la fragilità e i limiti che questa esposizione comporta, ma anche, per converso, con il guadagno dell’accentuazione di facoltà di pensiero diverse da quelle utilizzate in condizioni di normalità; questa ‘esposizione alla guerra’ ha infatti rappresentato per Brecht “un sapere, una presa di posizione e un insie-me di scelte estetiche assolutamente determinanti” (Didi-Huberman 2009, 13). Assieme alla riduzione del testo in frammenti in cui si rilette anche una certa fragilità del logos, della capacità razionale di fare ordine sugli eventi tragici che lo investono, si accompagna dall’altra un ‘acutizzarsi della vista’ che, nel pathos del momento, si esprime nella necessità di parlare per immagini. L’epigramma è la forma poetica che Brecht desume dall’antichità classica per commentare la selezione di immagini apposte nel Kriegsibel, e che nell’insieme andranno a formare quello che ha deinito un “Fotoepigramm”. Il fatto che storicamente in origine l’epigramma sia un’iscrizione legata per lo più a contesti funebri rende la scelta obbligata ancora più pertinente rispetto alla tragicità degli eventi su cui rilette. Il montaggio è il meccanismo compositivo con cui Brecht tesse le relazioni tra gli elementi, testi e immagini, e si rivela “un metodo di conoscenza e una procedura formale nata dalla guerra, che prende atto del ‘disordine del mondo’” (Didi-Huberman 2009, 86).

Brecht è ‘esposto’ alla guerra così come lo era stato, e con modalità forse ancora più destabilizzanti, Aby Warburg. Sono numerosi i “sismograi sensibilissimi”, per riprendere un’espressione di Warburg (cfr. A. Warburg, Burckhardt e Nietzsche [1927], tradotto in italiano a cura di M. Ghelardi in Jacob Burckhardt, Friedrich W. Nietzsche, Carteggio, 2002), che direttamente o indirettamente hanno soferto sul-la loro pelle la tragedia dei due conlitti mondiali e hanno restituito tale soferenza

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al mondo in forma di creazioni artistiche o intellettuali in cui l’immagine ha un valore gnoseologico profondo. Volendo rimanere nella metafora del ‘sismogra-fo sensibilissimo’ che accomuna per ainità elettive Warburg, Jacob Burckhardt e Friedrich Nietzsche si potrebbe aggiungere ai tre anche Carl Gustav Jung – virtuosamente legato sia al pensiero dello storico dell’arte che del ilosofo – per cui la composizione di Das rote Buch, Il libro rosso, un libro in forma di scrittura drammatizzata e immagini di creazione dello stesso autore, è profondamente se-gnata dallo scoppio della Prima guerra mondiale (Sacco 2011). Ma si potrebbe aggiungere anche Ernst Jünger, autore di un ‘sillabario per immagini’, composto da foto relative alla Prima guerra mondiale, che signiicativamente titola Il mondo mutato. Sillabario per immagini del nostro tempo: Die Veränderte Welt: eine Bilderibel Unserer Zeit (Schultz, Jünger 1933). Anche in questo caso la scelta della parola sillabario o abbecedario, associata all’evento della guerra, risulta essere rivelatrice di un azzeramento della sintassi, quindi del raggiungimento di un punto zero della signiicazione del mondo a cui segue una rinominazione elementare.

Il disordine del mondo come efetto della conlagrazione della guerra è colto nel segno dall’immagine della ‘guerra cubista’ tratteggiata da Gertrude Stein in Picasso. La rilessione sul cubismo condotta dalla scrittrice è l’occasione per distinguere la cultura ottocentesca da quella novecentesca: la diferenza essen-ziale tra i due mondi è compresa nel fatto che se i pittori dell’Ottocento aveva-no bisogno di un modello da guardare, quelli del Novecento si sbarazzano del modello, perché “l’assioma secondo cui le cose vedute con gli occhi sono le sole cose reali aveva perso ogni signiicato” (Stein [1938] 1959, 19). Ciò che cambia nelle generazioni, osserva Stein, è “il modo di vedere ed essere veduti”, la gente rimane la stessa ma a cambiare è la “composizione della generazione”; ossia il cambiamento, leggibile nel mondo, ad esempio delle strade, del modo di essere trasportati nelle strade, del modo in cui le strade sono frequentate, è questo che determina la ‘composizione’. Allora, rilettendo sulla Prima guerra mondiale, Stein osserva come:

La composizione della guerra 1914-1918 non era la composizione delle guer-re precedenti. Questa composizione non era una composizione in cui c’era un uomo al centro, circondato da una massa di altri uomini; era una composizione senza né capo né coda, una composizione in cui un angolo contava quanto un altro angolo: la composizione del cubismo, insomma. (Stein [1938] 1959, 21)

Il cubismo è la forma artistica capace di rilettere il fenomeno di distruzione proprio dell’evento guerra, così come alla ine degli anni ‘10 il dadaismo ber-linese usava i fotomontaggi per mettere in scena “il disordine di una cultu-ra ridotta in frantumi dalla catastrofe della Prima guerra mondiale” (Somaini 2011, XIII). La frantumazione corrisponde al decoupage che è sempre sotteso al montage: il meccanismo del montaggio utilizzato nella creazione pittorica dei

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cubisti come in quella fotograica dei dadaisti implica intrinsecamente la sua operazione inversa, ossia lo smontaggio, la scomposizione in parti, in frammen-ti che vengono successivamente ricomposti, montati appunto.

L’immagine della “guerra cubista” di Stein è raccolta da Stephen Kern per leg-gere nella Prima guerra mondiale un sintomo dei radicali cambiamenti che, complici le nuove tecnologie, hanno investito i modi di pensare e di esperire lo spazio e il tempo tra Ottocento e Novecento (Kern [1983] 1988). Nell’impos-sibilità di individuare una tesi unica che racchiuda tutti questi cambiamenti, Kern riconosce tra le nuove idee emergenti: “l’idea della simultaneità”, “l’afer-mazione di una pluralità di tempi e spazi”, e in particolare “l’afermazione della realtà del tempo privato” e “il livellamento di gerarchie spaziali tradizionali”, a cui segue una rivalutazione fondamentale dello spazio non più inteso come semplice contenitore ma signiicante in ogni sua parte. La ilosoia di Bergson (la durata – durée – che implica un rapporto continuo tra passato e presente e dischiude al tempo personale) e il cubismo (la non gerarchia tra i piani rap-presentati) sono soltanto due tra i molti esempi che esprimono queste novità. Kern pone questo livellamento delle gerarchie tradizionali in parallelo con il progressivo sgretolamento della società aristocratica, l’ascesa della democrazia e la dissoluzione della distinzione tra lo spazio sacro e lo spazio profano della religione. Con il livellamento delle gerarchie tradizionali è messo in discussio-ne il fondamento metaisico implicito che le sosteneva, e le istituzioni sociali, politiche e religiose fondate su di esso. Di rilesso, le immagini della frontiera, della trincea e della ‘terra di nessuno’, proprie del vissuto della guerra mondiale, restituiscono la frammentazione e la distruzione dell’idea di unità e identità che l’evento tragico rende tangibile: “La frammentazione psicologica sperimentata nella terra di nessuno durante la guerra non era altro che una serie di forme ridotte a pezzi – conini nazionali, sistemi politici, classi sociali, vita familiare, relazioni sessuali, sensibilità umane” (Kern [1983] 1988, 383). Sono immagini della frammentazione del vecchio mondo, immagini che registrano la frantu-mazione della sintassi tradizionale e aprono alla nuova sintassi che trova il suo meccanismo compositivo nel montaggio, nella costruzione a partire da fram-menti. Kern osserva ad esempio l’impressionante analogia tra un cambiamento strutturale della strategia delle battaglie, ossia ‘la difesa in profondità’ anziché il mantenimento della ‘linea del fronte’ (dove “l’intero esercito incalzava in unità ammassate sotto un unico comando”) e lo spostamento in pittura dal singolo punto di fuga prospettica alle prospettive molteplici del cubismo: “In guerra e in pittura l’idea della linea perse la sua inviolabilità come una frontiera che separa due regni distinti. Le due arti assunsero una composizione nuova che in-corporava le ambiguità e i contorni irregolari della realtà. I cubisti avevano cer-cato una nuova uniicazione del valore estetico dell’intera supericie pittorica; la guerra riunì elementi disparati di classe, rango, professione e nazione livellando le distinzioni gerarchiche tradizionali” (Kern [1983] 1988, 388). Osservazione

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che potrebbe stimolare una rilessione sul montaggio come ‘forma simbolica’ del pensiero della ‘postmodernità’, così come lo è stata, nella deinizione che ne ha dato Panofsky (Panofsky [1924/1932] 1999), la prospettiva nel Rinascimen-to per la modernità.

Ma sono molti gli autori che, alla pari di Kern, hanno prediletto una lettura della guerra come fenomeno da osservare dal punto di vista degli efetti men-tali: assieme a Hereward Carrington (1918), Charles Carrington (1929), Eric J. Leed (1979), per fare qualche esempio, più di recente Antonio Gibelli (Gibelli [1991] 1998) che, in un contesto storicistico, a partire dalle testimonianze di medici, psichiatri e psicologi, ha studiato la trasformazione delle strutture men-tali come conseguenze degli efetti traumatici provocati dalla guerra. Il vissuto della guerra suscita, attraverso l’esperienza percettiva disgregata e scomposta, la moltiplicazione e la frammentazione delle immagini visive e sonore del mondo. E ciò avviene con il concorso delle tecnologie e di nuove forme di comunica-zione, di rappresentazione, nuove forme di riproduzione e manipolazione delle immagini, assunte anche dalle correnti artistiche dell’avanguardia, dalla pub-blicità e in generale nella comunicazione sociale. In quest’ottica discontinuità e dissociazione sono associate all’esperienza della guerra sia come efetto che come sintomo di un diverso rapportarsi dell’uomo alla realtà.

Quindi, come anche il Kriegsibel di Brecht mostra, la risposta formale al con-litto della guerra è il montaggio, ossia un dispositivo creativo che implica in sé il principio del conlitto, della discordia, della disgregazione e della composizione per frammenti. Dal punto di vista formale a strutturale le pagine del Kriegsibel sono nel complesso un montaggio di frammenti poetici, immagini tratte dalla stampa e didascalie, di modo che ciascun ‘quadro’ è composto da una foto che può avere o meno la relativa didascalia, e da un epigramma posto a commento. Come ha osservato Didi-Huberman, il meccanismo compositivo è regolato da rapporti dialettici tra le componenti in gioco, così come, pur nella diversa articolazione compositiva, accade nelle tavole warburghiane. Perciò nel testo si condensano e interagiscono dialetticamente piani diferenti: l’evento storico che il drammaturgo intende riportare, l’immagine fotograica del giornale che lo immortala, assieme alla didascalia esplicativa, che di per sé rappresenta già un’interpretazione, e il suo commento poetico. L’efetto che ne consegue è una visione assolutamente inedita degli accadimenti in corso durante la guerra.

Accade quindi che il montaggio, strumentale alla composizione di tutti questi elementi, disarticola la percezione abituale dell’evento, o la percezione che passa la cronaca o il dettato storico e costruisce un nuovo ordine di senso. Interviene cioè una comprensione nuova che attraverso il montaggio smonta l’ordine spa-ziale e temporale delle cose che vengono così sottratte alla loro ‘origine’, al loro primo contesto di appartenenza, poste in una nuova collocazione, rispetto a un

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nuovo contesto e così inserite in un “reticolo di relazioni”, come lo ha deinito Didi-Huberman, con gli altri elementi in cui si intrecciano dialetticamente.

Brecht legge la polarità spesso già espressa intrinsecamente nell’immagine e la rende esplicita o ampliica nel testo di commento giustapposto alla didascalia. Si potrebbero fare molti esempi: tra le immagini più cariche di ambiguità tra quelle scelte da Brecht certamente è da considerare quella che compare nel quadro n. 52.

Si tratta di una foto apparsa su “Life” che ritrae soldati dormien-ti all’interno di buche scavate nella terra. La didascalia del giornale descrive “soldati esau-sti” (“Erschöpfte Sol-daten”) che “colgono l’occasione di farsi un sonnellino al sole” (“ein kurzes Schläfchen in der Sonne zu machen”) all’interno di tane sca-vate con le loro stes-

se mani e, noncuranti del fuoco tedesco, dormono a terra “senza nessun riparo” (“schlafen ungeschützt auf dem Erdboden”). Brecht coglie l’evidente risvolto ma-cabro dell’immagine, un aspetto che appare totalmente ignorato dalla didascalia: le pose più o meno naturali dei soldati, infatti, pur appartenendo a delle persone dormienti, stimolano immediatamente l’idea della morte. Le tane scavate somi-gliano piuttosto a delle fosse e i corpi stesi a terra sembrano dormire un sonno

di morte. L’epigramma infatti parla di tombe, e l’ultimo verso condensa in una frase il destino di morte dei soldati in guerra: “Ma se non dormis-sero, non sarebbero svegli lo stesso” (“Doch wären sie, nicht schlafend, auch nicht wach”).

Il quadro n. 9 è composto con un’immagine senza didascalia e come si legge dall’epigramma si trat-ta di una foto della città di Roubaix scattata dopo un bombardamento. La ragione della scelta appare evidente nel profondo contrasto che trasmette l’im-magine e nel commento che lo esplicita: si tratta di una città devastata dal bombardamento ma le rovi-ne, i frammenti sono composti nel massimo ordine; Quadro n. 9.

Quadro n. 52.

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l’immagine della delagrazione e della ricomposizione sono sovrapposte polar-mente. Per questo l’epigramma recita: “Non ci fu mai tanto ordine a Roubaix. Ha trionfato, assoluto è il suo potere” (“Nie herrschte solche Ordnung in Roubaix. Sie hat gesiegt, sie herrscht jetzt absolut”).

Il quadro n. 23 si com-pone di una foto che ritrae Hitler durante un discorso tenuto “in una fabbrica di armi vicino a Berlino”, così infatti è indicato il luogo nel-la didascalia in cui sono citati anche i personag-gi che compaiono al suo ianco. Il riferimento alla fabbrica di armi è giustiicato dalla pre-senza di enormi canno-

ni alle spalle del dittatore ed è da questo dettaglio – innocuo nella didascalia – che scaturisce l’epigramma di commento. Qui rispetto al parlare del Führer, “uno dei suoi grandi discorsi” (“eine seiner großen Reden”) – come è scritto nella didascalia della foto – e al “parlare di tempi nuovi” (“reden von der Zeitenwende”), come scrive Brecht nel primo verso, fa da contrappunto la minaccia muta dei cannoni dietro di lui; i cannoni muti, come si legge nella composizione, sono idealmente puntati su chi guarda: “puntati su di voi: sono le opere delle vostre mani che vedete” (“Doch hinter ihm, seht, Werke eurer Hände: Große Kanonen, stumm auf euch gericht”). Assieme alla minaccia per quello che verrà è comunicato anche il senso di responsabilità per chi condivide il destino di guerra: le armi sono il frutto del lavoro del popolo.

La composizione del Kriegsibel rivela come per Brecht la Polarität è un ele-mento fondamentale (Didi-Huberman 2009, 51-59) così come per Warburg la polarità e la polarizzazione sono il fulcro del suo approccio morfologico all’im-magine (Pinotti 2001, 177). Nella dialettica tra testo e immagine è quest’ultima a catturare per prima lo sguardo e a direzionare la vista stimolando l’attenzione tanto per il dettaglio quanto per la visione d’insieme. È proprio la peculiarità del darsi visivo dell’immagine a imporre la necessità di considerarla mai irrelata ma continuamente connessa al contesto: l’immagine apre alla relazione, e alla multidirezionalità della prospettiva. A direzionare il movimento di lettura del quadro è la polarità semantica provocata dalla giustapposizione degli elementi in gioco, riconoscibile proprio dallo sguardo d’insieme capace di cogliere visi-vamente immagine e testo in modo sinottico.

Quadro n. 23.

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Didi-Huberman, in riferimento al Bilderatlas Mnemosyne, riprendendo una af-fermazione di Saxl secondo cui nell’Atlante si avrebbe una “dimostrazione ad oculos”, osserva come questa dimostrazione non ha “la forma di un sillogismo classico: non riduce il diverso all’unità di una funzione logica” (Didi-Huberman [2002] 2006, 424). Quindi è il primato della vista, non dell’argomentazione lo-gico discorsiva, che guida il senso e il signiicato della disposizione e della lettura di tale disposizione. E attraverso la vista si conigura propriamente la forma di conoscenza mediata dal montaggio: in esso si dispiega la complessità, la moltepli-cità non riconducibile a univocità che la tensione polare continuamente rifrange.

Ponendo una proporzione esplicativa si potrebbe afermare che il montaggio sta al pensiero fantastico/immaginale come la logica sta al pensiero razionale. Nel primo caso le particelle elementari che vengono composte dal montaggio sono immagini che, intese come frammenti, rinviano sempre ad altro, accostate tra di loro per giustapposizione, secondo legami associativi guidati da un principio di polarità semantica di modo da creare una rete di rapporti non univoci. Nel secon-do caso le particelle elementari sono concetti, quindi astrazioni che sussumono una molteplicità sensibile in una unità di segno, legati tra loro secondo rapporti univoci di consequenzialità logica, tali da garantire la non equivocità del senso.

L’associazione tra immagini e testi avviene quindi in virtù di un rapporto di giustapposizione permesso da una dimensione e collocazione spaziale. Signi-icativamente Jean-Luc Nancy, introducendo il concetto di ‘spaziatura’ (Nancy [1996] 2001), usa la giustapposizione di parole per indicare il rapporto tra “es-sere singolare e plurale” che si può pensare solo dopo la ine di ogni ontologia metaisica, svelando però in questo modo quale sia il limite della signiicazione discorsiva rispetto alla potenza della collocazione spaziale, visiva. La giustap-posizione di parole riproduce il meccanismo di segmentazione dell’immagine in inquadrature semplicemente poste l’una accanto all’altra – senza che vi siano quindi segni interpuntivi o congiunzioni – come è proprio del linguaggio cine-matograico. “Essere singolare plurale” è a tutti gli efetti un montaggio di paro-le accostate, dove l’intervallo, lo spazio tra le parole è fondante, perché l’assenza di determinazione sintattica garantisce il signiicato che il ilosofo francese in-tende comunicare: “ ‘essere’ può essere verbo e sostantivo, ‘singolare’ e ‘plurale’ possono essere aggettivi o sostantivi, si può scegliere la combinazione che si vuole – marcano al tempo stesso un’equivalenza assoluta e la sua articolazione aperta, impossibile da racchiudere in un’identità”. Qui in discussione è l’essere che agli albori della ilosoia ha fondato il principio di identità e non contrad-dizione, e che è stato posto come sostanza preesistente all’esistenza; l’essere che intende svelare Nancy è “singolarmente plurale e pluralmente singolare” e “non preesiste al suo singolare plurale”. Nella spaziatura c’è allora la co-essenzialità dell’essere, quella “spartizione in guisa di assemblaggio”, dove la relazione è fondante, il ‘con’ fa essere, non è semplicemente aggiunto all’essere.

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Signiicativamente è in riferimento a Brecht che è stato introdotto per la prima volta da Roger Planchon nel contesto teatrale il concetto di ‘scrittura scenica’, indice del mutato rapporto con lo spazio proprio del teatro novecentesco. Ossia lo spazio inteso non come semplice contenitore ma come campo di segni; secon-do Planchon per Brecht “la rappresentazione forma al contempo una scrittura drammatica e una scrittura scenica; ma questa scrittura scenica – ed è stato il primo a dirlo […] – ha una responsabilità uguale alla scrittura drammatica e, in deinitiva, un movimento sulla scena, la scelta di un colore, di una decorazione, d’un costume, etc., impegna una responsabilità totale” (Planchon [1961] 2003). E la nuova spazialità auspicata in realtà già dalle Avanguardie Storiche – per non parlare di Artaud – è rilesso di una trasformazione della visione del mondo che coinvolge tutti gli ambiti disciplinari. Come ha osservato Michel Foucault – tra i primi a mettere l’accento sulla questione negli anni ‘60 – se “la grande ossessione che ha assillato il XIX secolo è stata la storia […] forse quella attuale potrebbe essere considerata l’epoca dello spazio” (Foucault [1967/1984] 2001, 19).

Nel metodo di composizione per montaggio che dà forma al Kriegsibel si può leggere il portato sovversivo del teatro che Brecht, fondando, ha deinito ‘epi-co’. Collocandosi a metà strada tra la prima e la seconda riforma del teatro novecentesco, il regista e drammaturgo riforma il teatro a partire dalle stesse premesse poste dall’Avanguardia Storica. A essere messo in discussione è, come per Artaud, la distanza accumulata dal teatro rispetto alla vita, l’incapacità di parlare del e al tempo presente, e quindi l’attaccamento a stilemi obsoleti per quanto alla moda. Sotto accusa è l’estetizzazione del teatro, il suo vuoto for-malismo, e l’obiettivo è resuscitarne la forza politica, la capacità di impatto sulla società appiattita a una fruizione neutralmente disinteressata e inalizzata semplicemente allo svago e al divertimento. Di qui, in nome di un realismo socialista, le accuse di Brecht al teatro decaduto – di cui fanno parte anche le messe in scena dei classici – che nella bellezza formale della facciata nasconde un contenuto stantio e rilette delle immagini falsate della vera realtà. Il teatro per il regista e drammaturgo tedesco ha il potere e il dovere di trasformare il pubblico e con il pubblico il mondo. Brecht però, a diferenza di Artaud che parte dalle stesse premesse critiche per rovesciare il sistema che vuole combat-tere, fa i conti con il sistema che cerca di trasformare convivendoci, standoci dentro e operando in esso. Quindi non intende negare la ‘rappresentazione’ – quella estrinsecazione della violenza del pensiero metaisico occidentale che Derrida ha letto nel tentativo della sua destituzione fatto da Artaud (Derrida [1966] 2002, 301) – ma la mette in scena e così la svela, la smaschera attraverso il meccanismo di straniamento proprio del teatro epico.

Brecht, alla drammaturgia che provoca l’immedesimazione dello spettatore nei personaggi imitati dagli attori, oppone una drammaturgia in cui il mec-canismo dell’immedesimazione viene annullato nell’efetto di ‘straniamento’:

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il ‘Verfremdungsefekt’ teorizzato negli scritti sul teatro ed elemento fondante del teatro epico. La inzione nel teatro secondo Brecht deve essere dichiarata ed esplicitata per stimolare la distanza critica dello spettatore. Quindi, dife-rentemente da Artaud la rappresentazione non è negata con l’intenzione di recuperare uno stato che la precede – quella “Parola prima delle parole” che è poi la voce del mito e della tragedia – ma è esibita, messa in scena, esplicitata, dimostrata e messa in crisi attraverso l’efetto dello straniamento. Brecht at-tua proprio quello “spezzare il linguaggio” che si era proposto Artaud (Artaud [1935] 1997, 132) per riformare la cultura occidentale attraverso il teatro e lo fa scegliendo i drammi storici come trame privilegiate delle sue messe in scena.Artaud e Brecht, come eredi delle Avanguardie Storiche, sembrano spartirsi i domini rispettivamente del mito e della storia, come orizzonti di senso del te-atro che intendono riformare, sostenendo il primo l’ipotesi tragica e il secondo l’ipotesi epica (Longhi 1999, 2001).

Così facendo, Brecht, con la consapevolezza di non poter parlare alla sua epoca prescindendo da essa, rivoluziona il teatro a partire dal sistema, lo mette in sce-na e lo spezza al suo interno. L’esito ultimo di questa operazione sarà scoprire la natura eminentemente dialettica del teatro, e della vita che nel teatro trova espressione. Allora la Storia, come una delle principali forme di rappresentazione, come narrazione che nel sistema occidentale più di altre ha preso il posto della narrazione del mito e che ha il suo momento culminante nello storicismo otto-centesco, è condotta da Brecht sulla scena nella forma epica, ed è spezzata per essere ricondotta al presente del dramma. A permettere questo spezzettamen-to, la frantumazione della narrazione storica nella forma dello straniamento è il meccanismo del montaggio.

L’operazione epica del teatro di Brecht consiste da un lato nello spezzare lo svolgi-mento cronologico dei fatti, quindi nel creare delle interruzioni nello svolgimento storico, e dall’altro nel mettere in crisi l’efetto illusionistico della inzione rappre-sentativa. Rispetto a queste due operazioni, il montaggio ricolloca gli eventi tra loro secondo un ‘reticolo di relazioni’ che ne stravolge totalmente la connotazione. La trama portata sulla scena, come vede bene Benjamin nello scritto sul teatro epico, è sottoposta all’atto dello “snodare le articolazioni ino al limite estremo” (Benjamin [1939] 1966, 128). La sua interruzione crea discontinuità e anacroni-smi funzionali a una visione diferente, nuova e inusuale, delle vicende che devono provocare stupore, non immedesimazione. Attraverso questa percezione straniata dell’evento si aferma il paradigma eminentemente politico del montaggio che mette in crisi la visione abituale del dato di fatto per stimolare non tanto una iden-tiicazione dello spettatore ma una “presa di posizione” (Brecht [1931] 1975). Allo stesso modo Benjamin intende “adottare nella storia” (Benjamin [1927-1940] 1986, 515) il montaggio per spezzarla, per interromperne la cronologia, per opera-re una rottura rispetto all’ordine temporale dello storicismo.

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Rispetto ai primi scritti sul teatro epico, permeati di pensiero storicistico, an-drebbe in verità osservato il risvolto dialettico e tragico di cui si colora la teoria di Brecht di ritorno dalla guerra, aprendosi a uno sfondo più tragico e mitico che epico e storicistico. Il valore dialettico dell’operazione di straniamento è infatti un’acquisizione più matura nella teoria di Brecht e risulta così forte-mente improntata all’esperienza dell’esilio e della guerra. A seguito di questa acquisizione il montaggio allora, anche rispetto all’uso che Brecht ne fa nel Kriegsibel così come nel Diario di lavoro, appare in tutto il suo portato di “gesto drammaturgico fondamentale”, come lo ha deinito Didi-Huberman (Didi-Huberman 2009, 79). È il riconoscimento dell’elemento dialettico, che Brecht matura signiicativamente solo dopo l’esperienza della guerra, a rendere piena-mente il senso della drammaturgia brechtiana, e a caricare di un ulteriore senso il teatro deinito epico che è eminentemente dialettico nella misura in cui il suo processo compositivo avviene attraverso il montaggio.

Il teatro dialettico intende mostrare quindi i conlitti e le contraddizioni, e la tec-nica utilizzata per la scena sarà tutta inalizzata alla loro resa. Ad esempio Brecht osserva come nel lavoro dell’attore devono comporsi procedimenti contrari: “L’at-tore ottiene i propri efetti ricavandoli dalla tensione, come pure dalla profondità, dei due elementi in contrasto” (Brecht [1948] 1975a, 120), elementi che quindi non devono sintetizzarsi o annullarsi tra di loro, ma mostrare il loro intersecarsi. Secondo questo principio ad esempio un ruolo femminile sarà reso meglio da un attore uomo, come il ruolo di un vecchio sarà reso meglio da un attore giovane o il ruolo di un borghese da un attore abituato a recitare il ruolo del proletario. La tensione polare tra gli elementi contrastanti che rende l’efetto dello straniamento emerge dal conlitto degli stessi elementi che è mantenuto in scena. La contrad-dizione, l’ambiguità, la tensione polare, la complexio oppositorum deiniscono la dialettica del montaggio con cui vengono composti gli elementi in scena, e però colorano di senso tragico e mitico il teatro epico che, rispetto a questi elementi, può essere compreso pienamente nella sua accezione propriamente drammatica.

La deinizione di montaggio che troviamo in uno scritto di Ejzenštejn del ‘29 (Ejzenštejn [1929] 1992), per prendere le distanze da quella dei suoi prede-cessori, rende il senso dello scarto tra epico e drammatico e permette di ri-considerare il valore ‘epico’ del teatro che Brecht rivendica rispetto al teatro drammatico. Secondo Ejzenštejn infatti il montaggio non implica “un pensiero composto da pezzi che si succedono bensì un pensiero che trae origine dallo scontro di due pezzi indipendenti l’uno dall’altro (principio drammatico)”. Il principio epico implica quindi il rapporto di ‘successione’, e rende il montaggio ‘descrittivo’, il principio drammatico invece implica il rapporto conlittuale, lo scontro tra le parti e la loro ‘sovrapposizione’ che genera lo scontro.

Nello scarto tra successione e giustapposizione si condensa quindi lo scarto tra

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epico e drammatico e, si può evincere, di rilesso tra storico e mitico; e quindi tra un tempo lineare che implica la successione cronologica di un prima rispet-to a un poi e un tempo in cui si ha la giustapposizione di due tempi diversi: in cui presente e passato sono considerati contemporaneamente. Nello stesso scritto inoltre l’arte intesa nel complesso, coerentemente a una visione iloso-ica dialettica che si riconduce esplicitamente al pensiero di Marx ed Engels, è intesa da Ejzenštejn come frutto di un conlitto: “l’arte è sempre conlitto, per la sua missione sociale, per la sua natura essenziale, per la sua metodologia”. E, qualche pagina dopo, il montaggio è considerato proprio come il meccani-smo che quella metodologia è chiamato a regolare.

Se accettando la deinizione di Ejzenštejn si considera la dialettica, il conlitto, come la cifra del drammatico e non dell’epico, allora, nella misura in cui la dia-lettica è strumento del teatro epico, questo teatro è nel fondo drammatico. Di fatto “la forma drammatica del teatro” rispetto alla quale Brecht, in uno schema stilato in un saggio del 1930 (Brecht [1930-38] 1975), contrappone “la forma epica del teatro”, è da riferirsi al dramma che ha dominato ino alla modernità come forma decaduta di tragedia e contro cui si impone la rivoluzione del tea-tro novecentesco dalle Avanguardie Storiche in poi. In altre parole si compren-de come il teatro epico di Brecht sia profondamente drammatico nella misura in cui è tragico e dialettico. Se di ritorno dall’esilio Brecht utilizza l’accezione di dialettico per qualiicare ulteriormente il teatro epico, allo stesso tempo cambia anche l’atteggiamento nei confronti dei classici e, rispetto all’adesione al reali-smo socialista, muta in favore di un recupero della funzione artistica del godi-mento estetico, che non è più vista in contrasto con la funzione eminentemente politica del teatro, ma si presenta come un suo importante complemento.

In uno scritto del 1928 in cui, in forma dialogata riporta una discussione ra-diofonica con il critico e amico Herbert Jhering a proposito del contributo di quest’ultimo sui classici, Brecht si domanda: “Se sono [i classici] morti, quando sono morti? La verità è questa: sono morti in guerra – sono anch’essi vittime della guerra” (Brecht [1929] 1975, 85). I classici sono tacciati di essere inattuali, e, evidentemente, nella sua prospettiva, la guerra ha cambiato il mondo, e il teatro che ripropone i classici alla maniera classica, secondo i dettami e l’ideale che ha predominato ino all’Ottocento con la ragione illuminata, sembra esse-re ignaro di questo cambiamento. I classici non sono più eicaci e la critica a essi è perfettamente in linea con la critica al naturalismo, al into illusionismo, all’estetismo, al teatro di cui si può fare solo un “uso culinario”. Il mutato at-teggiamento nei confronti dei classici e delle loro messe in scena è leggibile nella scelta artistica fatta da Brecht nel 1948, di ritorno dall’esilio americano, di cimentarsi subito con un classico, e in particolare una tragedia greca: l’Antigone di Sofocle con traduzione di Hölderlin, andata in scena il 15 febbraio del 1948 in Svizzera presso lo Staddtheater di Coira con il titolo Antigone des Sophokles.

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Senza entrare nello speciico dell’opera, interessa qui parlarne come segno del mutato approccio di Brecht dipendente dal vissuto di guerra, e come esperienza fondante anche per la più matura teorizzazione del teatro epico come teatro dia-lettico. Come ha osservato Olga Taxidou, è il concetto di frammento, di rovina che connota la nuova attitudine di Brecht nei confronti dei classici (Taxidou 2007, 171). Nella Prefazione all’Antigone-Modell-Buch (Brecht [1949] 1975), il ‘libro-modello’ relativo alla messa in scena di Antigone, costruito con bozzetti e foto delle prove secondo la modalità di montaggio di testi e immagini propria sia del Kriegsibel che del Arbeitsjournal, la rovina è pensata come quel che rimane del vecchio con il pericolo sempre in agguato della sua restaurazione, ma è anche il principio della possibilità della ricostruzione, ne catalizza la sida, oltre che rappresentarne la memoria storica. E signiicativamente, a simbolizzare questo valore della rovina come frammento, sullo sfondo della scena dello spettacolo, Brecht fa apporre “una grande fotograia di città ridotta in macerie”.

L’idea del frammento è intrinsecamente legata a quella di montaggio. Ne è parte costitutiva, la particella elementare, e però allo stesso tempo rimanda alla com-posizione. La frantumazione è tutto quello che rimane del mondo precedente distrutto, e i frammenti tratti dalle macerie possono trovare nella ricomposizione una nuova combinazione, la promessa della possibile ricostruzione di un nuovo mondo. Il teatro che è sopravvissuto alla guerra deve secondo Brecht rispondere a quella ‘sete di novità’ che “il completo sfacelo materiale e spirituale ha indub-biamente prodotto nel nostro paese sventurato e provocatore di sventura” (Brecht [1949] 1975, 237). Ed è, però, una sete di novità che deve fare i conti con il passato:

Il guaio delle rovine non è solo che va distrutta la casa, ma anche che il posto non c’è più; e i progetti degli architetti, a quanto sembra, non si cancellano mai del tutto; sicché con la ricostruzione riappaiono le vecchie iniltrazioni e i focolai di malattia. Quella che è vita febbricitante aferma di essere vita sprizzante di ener-gia: nessuno muove passi più decisi del tisico che ha perso ogni sensazione dalla pianta dei piedi. […]. Può darsi perciò che, proprio in tempo di ricostruzione, fare dell’arte progressiva sia tutt’altro che facile. Ma questa dovrebbe essere la sida. (Brecht [1949] 1975, 238 ‒ traduzione modiicata).

Quindi l’Antigone che Brecht mette in scena di ritorno dall’esilio, a guerra con-clusa, sembra avere la funzione e il valore di un phármakon come ha osserva-to Taxidou leggendo un’ainità con l’idea di teatro veleno/rimedio di Artaud. La scelta di questa tragedia greca in particolare è dettata dalla convinzione che Antigone incarni “la funzione della violenza al momento del crollo dell’autorità statale” (Brecht [1949] 1975, 238), quindi l’argomento che solleva è percepito come attuale. E però non c’è alcun intento ilologico e alcuna intenzione di “evo-care lo spirito degli antichi” ma lo scopo è “di far fare ad essa [l’opera] qualcosa per noi” (Brecht [1949] 1975, 238). Lo studio e la preparazione dell’Antigone è

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signiicativamente contemporaneo alla scrittura del Breviario di estetica teatrale (Brecht [1955] 1975), il primo testo teorico in cui sia espressa in modo maturo un’accezione dialettica di teatro, e dove si coglie la peculiarità del metodo capace di rendere la contraddittorietà dei processi sociali e umani in continua trasforma-zione. Le idee di contraddizione, polarità, di dialettica tra passato e presente sono ricorrenti in tutto lo scritto. Allo stesso modo, nell’Antigone Brecht non intende mettere in scena l’afermarsi di un potere su di un altro, o di una violenza su di un’altra, ma la compresenza dialettica, irrisolta di due sistemi diferenti che sussi-stono contemporaneamente in uno stato di guerra (Taxidou 2007, 174).

Anche rispetto alla contraddizione tra imparare, quindi mantenere la distanza dallo spettacolo, e divertirsi, ossia lasciarsi immedesimare nella scena, Brecht ha in questi anni mutato atteggiamento, la deinisce infatti una contraddizione “da conservare come un elemento importante” (Brecht [1955] 1975, 186). Quindi, anche questa mutata posizione è indice di una ricollocazione del signiicato epico del teatro in un’accezione propriamente drammatica, perché ciò che fa dramma nel teatro epico di Brecht è il meccanismo dialettico reso possibile con il metodo del montaggio.

Assieme alla comprensione della natura intimamente dialettica del teatro, nell’An-tigone-Modell-Buch, Brecht chiariica anche il senso di intendere il rapporto con il modello, e quindi di conseguenza anche il rapporto da intrattenere con i classici, intesi nella nuova accezione. Modello è quanto c’è di “imitabile e inimitabile” al tempo stesso, quindi quanto viene proposto per essere violato; il suo tradimento instaura il rapporto dialettico con esso che è auspicabile di contro a un’epoca “che sa applaudire solo l’‘originale’, l’‘incomparabile’ il ‘mai visto’: che non ammette altro che l’ ‘unico’ ”. E aggiunge inoltre che “perché qualcosa possa essere utilmente imi-tato, bisogna che si faccia vedere ‘come si fa’ ”: quindi è il meccanismo creativo, il metodo, a dover essere imitato, non la creazione, il prodotto. I classici, rispetto alla precedente presa di posizione, non sono negati ma accolti diversamente.

Rispetto alle rilessioni sulla natura dialettica del teatro e alla scelta di mettere in scena l’Antigone – una tragedia greca, un mito – il teatro epico di Brecht non risulta quindi riconducibile tout court all’orizzonte della narrazione storica, come la denominazione epica intende signiicare. Il teatro epico del regista e drammaturgo tedesco è quindi tragico nella misura in cui è dialettico e inter-rompe attraverso il montaggio la narrazione storica. Ed è tragico e quindi miti-co, nella misura in cui si smarca dal teatro drammatico inteso come forma deca-duta di tragedia. Signiicativamente, la consapevolezza della natura dialettica, e quindi tragica, del teatro epico avviene come conseguenza della messa in scena di una tragedia greca. La scelta è dettata dall’esperienza della guerra che, come ha riconosciuto James Hillman, è un fatto intellegibile solo con categorie miti-che, con categorie i cui strumenti interpretativi si compongono in immagini e trascendono l’ordine esclusivamente razionale del discorso. La terribilità della

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sua natura richiede un salto di prospettiva, le categorie della storia non sono suicienti a renderne conto: allora “l’immaginazione diventa il metodo di ele-zione” (Hillman [2004] 2005, 19). Anche per questo si spiega il fatto che molti artisti e intellettuali ne abbiano cercato la comprensione o il contenimento con dispositivi composti in immagini. Il montaggio – meccanismo che plasma il metodo artistico di Brecht – può essere riletto quindi alla luce di un pensare per immagini. E si rivela così un meccanismo mitopoietico per eccellenza.

English abstract

he Kriegsibel (War primer) is Bertolt Brecht’s reference work to recognize the montage as a devi-ce for composition that structurally mirrors the transformation of the world view of the twentieth century, characterized by a way of thinking that can be deined ‘in images’, which is regulated by a dramaturgic principle; a way of thinking, distinct from the modern rationalist way, which recovers the gnoseological value of images and a new evaluation of space, as a consequence of the crisis of metaphysical thinking. It is a signiicant work for several reasons. First, the historical moment in which it is realized: the experience of the exile during the Second World War; second, because of its characteristic form: a montage of texts and images; third, for the reason that, though not a theatri-cal work, it is however revealing of the theatrical method of its author. his work is also interesting in relation to the change of Brecht’s consideration of classics and myth after the experience of war. he decision to stage a Greek tragedy – the Antigone des Sophokles – on his return from the exile, and the relections about the dialectic nature of theater, are revealing of this shift and allow to think back on the meaning of ‘epic’, term used by Brecht to deine his theater. he epic theater can be brought back to an horizon of mythical and tragic – rather than historical – thought, made of a dia-lectic and dramaturgic mechanism that, as Ejzenštejn noticed in his relections about montage, im-plies not the succession but the conlict and the juxtapositions of parts (texts, images as fragments).

Riferimenti bibliograici

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Una partitura (post)drammatica.Per una lettura di Einstein on the Beach di Robert Wilson

1976-2012: le due date scandiscono la distanza temporale che intercorre dalla prima dello spettacolo Einstein on the Beach, andato in scena il 25 luglio del ‘76 al Festival d’Avignone, e la più recente ripresa che quest’anno porta l’opera in tournée nelle principali scene internazionali, tra cui lo scorso marzo le due repliche italiane al Teatro Valli di Reggio Emilia. Alla notizia della riedi-zione dello spettacolo, che ha segnato in modo indelebile la storia del teatro musicale e non, la prima domanda è se per quest’opera il tempo è passato, se lo spettacolo a 35 anni di distanza risulta vecchio, superato o nella migliore delle ipotesi provoca una sensazione vintage. E la risposta corale – a giudicare dalle innumerevoli recensioni che hanno registrato il suo passaggio – è no: Einstein on the Beach è vivo, come lo era all’atto della sua creazione, e lo è senza essere stato modiicato, almeno nella struttura compositiva, di una virgola. Eviden-temente, viene da pensare, quanto si ha modo di vedere in giro per il mondo dell’universo teatrale contemporaneo non mostra qualcosa di più rispetto a quello che a suo tempo ha signiicato quest’opera. Il codice di scrittura scenica introdotto da Wilson rompendo con la tradizione è lo stesso codice che, as-sunto nel corso degli anni, riconosciamo variamente applicato nelle tante for-me di teatro contemporaneo, spesso deinito d’avanguardia. Gli attori in scena sono ovviamente diversi, gli orchestrali anche, le coreograie, un tempo irmate da Andy de Groat, sono oggi aidate a Lucinda Childs che nel ‘76 le eseguiva in scena, le tecnologie utilizzate sono potenzia-te, ma la struttura e composizione dell’opera rimangono invariate così come la musica di Philip Glass. Ed è proprio sulla struttura, su cui la mu-sica viene a sua volta costruita in un processo di riproduzione e ampliica-zione, che si concentra la peculiarità ed eccezionalità dell’opera e l’indagi-ne proposta qui di seguito, che non intende essere una recensione allo spettacolo ma proporre una rilessio-ne di ilosoia del teatro sullo spetta-colo di Wilson. Einstein on the Beach: bozzetto di struttura dell’opera.

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Le creazioni di Robert Wilson, e in particolare Einstein on the Beach, sono con-siderate tra i principali e primi esempi di teatro ‘postdrammatico’, la cui deini-zione è da attribuirsi anzitutto a Hans-hies Lehmann. Quello che distingue il teatro postdrammatico, collocato a partire dagli anni ‘70 del Novecento, da quello drammatico, che indicativamente lo precede, è secondo Lehmann la non dominanza del testo ridimensionato a elemento tra gli altri che concorrono alla creazione dello spettacolo nel suo insieme. E per testo Lehmann intende in primis la ‘favola’, la narrazione, che è considerata il cuore del teatro drammatico ed è ricondotta alla mimesis praxeos secondo un’interpretazione della Poetica di Aristotele consolidata dall’età moderna. Mimesis praxeos, ossia imitazione dell’azione, che avviene secondo verisimiglianza e regole drammaturgiche precise, rispettose dell’unità di tempo e di spazio e aderenti a una tracciato logico. Il teatro postdrammatico, di fondo antiaristotelico, allora negherebbe queste unità e sarebbe eminentemente caratterizzato dalla frammentazione, dalla frattura logica e dall’inconsistenza delle trame che vengono totalmente assorbite nella scrittura scenica, nella composizione globale dell’evento teatra-le. Quindi nel passaggio dalle avanguardie storiche alle neoavanguardie degli anni ‘50 e ‘60 ino alle esperienze postdrammatiche proprie della ine del XX secolo, si assiste alla destrutturazione della tensione all’unità e alla totalità uniicata che il dramma – secondo una lettura modernista e logocentrica – ottemperava nel rispetto delle regole logiche di composizione delle vicende trasposte sulla scena. Nel teatro postdrammatico non si cerca più di realizzare sulla scena la totalità coerente di una composizione costituita da parole, suoni, gesti, azioni perché questi elementi vengono riorganizzati secondo un mon-taggio che tende alla frammentazione e si smarca dal criterio di unità e sintesi propria del dramma moderno. Viene meno quindi la volontà di sviluppare una vicenda oppure questa viene relegata in secondo piano di modo che la categoria del nuovo teatro è ‘la situazione’, ‘l’insieme dinamico’ piuttosto che la vicenda.

Lehmann denuncia la totale equivalenza che la modernità ha posto tra teatro e dramma e l’esclusione di altre realtà determinate di teatro oltre che, di conse-guenza, l’occultamento della comprensione del fenomeno teatro in tutta la sua complessità. Equivalenza che non solo ha portato l’esclusione del teatro con-temporaneo postdrammatico, ma anche quello che deinisce il teatro ‘predram-matico’, ossia la tragedia greca; per cui: “La tragedia antica, i drammi di Raci-ne e la drammaturgia visiva di Wilson sono, certamente, delle forme di teatro. Ma si può dire – se ci si basa sull’accezione moderna del dramma – che la prima è di natura ‘predrammatica’, che i drammi di Racine sono indubitabilmente del teatro drammatico, e che le ‘opere’ di Robert Wilson devono essere qualiicate come postdrammatiche”. Lehmann non entra nel merito della peculiarità del teatro predrammatico, semplicemente lo qualiica come altro e storicamente precedente rispetto al teatro drammatico, individuando un conine rispetto a cui si collocano sia il teatro drammatico che il teatro postdrammatico. È però a

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partire dalla dichiarazione di questi conini che si pone un’interrogazione su ciò che possono avere in comune le due forme di teatro, quella precedente e quella successiva, nello smarcarsi entrambe dal teatro deinito drammatico.

Quello che si vuole sostenere qui, a partire dalla considerazione dell’opera di Wilson e oltre le speculazioni di Lehmann, è che non è tanto la presenza del-la narrazione o della favola a fare la drammaticità di un’opera teatrale, ma la composizione della sua struttura, che di fatto può trascendere le epoche. Teatro predrammatico, teatro drammatico e teatro postdammatico, nell’accezione di Lehmann, se da un lato si distinguono per il ruolo attribuito al testo, dall’altra sono ‘teatro’ nella misura in cui si compongono ugualmente secondo una strut-tura che ne garantisce il drama, l’azione, lo svolgimento, l’eicacia e questo oltre la priorità attribuita al testo o alla narrazione di una storia, o di un ilo narrativo con un inizio e una ine. Questa struttura che orchestra la frammentazione è il meccanismo del montaggio, ossia il minimo comune denominatore all’opera sia nel teatro ‘predrammatico’ che in quello ‘postdrammatico’, la stessa struttura elementare di base. Il montaggio per dare vita alla tensione drammatica non è un caotico assemblaggio di frammenti, ma una giustapposizione di elementi eterogenei che si struttura per contrappunto, per polarità semantica, dove le parti sono accostate principalmente secondo un rapporto di conlittualità, secondo il principio del contrasto, della contrapposizione.

E questo si può afermare per la tragedia greca come per l’opera di Robert Wil-son. Un’indagine sulla tragedia greca, tenendo come riferimento teorico la ri-lessione di Aristotele sulla poetica, permette di cogliere il carattere compositivo e frammentario della drammaturgia antica, che risulta costituirsi secondo una combinazione di parti giustapposte attraverso polarità semantiche, attraverso un intreccio di eterogenei e antitetici. Nel caso di Eschilo ad esempio, il contra-sto, l’attrito, il contrappunto, che sono l’efetto della giustapposizione semantica, fungono da indicatori di senso che creano e dirigono il movimento del dramma: sono il motore che dà energia all’azione, gli snodi, i nessi lungo i quali si condu-ce e si alimenta l’azione dipanandosi via via nello svolgimento della tramatura. E la struttura del dramma, nella disposizione alternata di scene in sequenza e interventi dei personaggi – nella scansione e alternanza concatenata di prologo, parodo, episodi, stasimi, esodo – è l’elemento fondamentale che concorre a dare forma allo stile, a contenere, articolandola a livello micro e macroscopico, la peculiarità semantica polare della scrittura eschilea. Anche la scansione della forma lessicale che caratterizza di volta in volta gli interventi lirici o recitati-vi dei diversi personaggi, rispetta la regola del contrappunto, nell’alternarsi ad incastro del parlato rispetto al canto e al recitativo: le rhesis, i brani, i dialoghi sticomitici, e di canti e corali con diversiicata composizione stroica e relativa variazione ritmica del metro che ne caratterizza i versi. L’alternarsi e l’incastrarsi di tutte queste parti, all’interno delle quali la polarità semantica si riverbera in

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un continuo gioco di rimandi, danno il ritmo del tempo e la collocazione nello spazio, ossia strutturano il movimento della composizione tragica nella sua di-mensione temporale e spaziale, per dare forma all’accadimento, allo svolgimento dell’azione. Nella scansione e distribuzione degli elementi che vengono compo-sti dialetticamente nel dramma ed entrano così in relazione, la staticità propria dell’unità viene vaniicata; la dynamis che tale composizione provoca innesca il movimento, lo sviluppo dell’azione. In questo senso è da leggere l’afermazione di Aristotele secondo cui il mythos è ‘imitazione dell’azione’, ossia riproduce nella composizione drammaturgica dei fatti in scena l’accadere degli eventi. E l’altro elemento essenziale costitutivo della tragedia, e del teatro più in generale, ten-denzialmente trascurato nella molto riduttiva lettura moderna della Poetica di Aristotele, è la vista. Tra i cinque elementi costitutivi dell’arte tragica, accanto al più importante, il μῦθος, il ilosofo riconosce la vista, l’ὄψις che, rispetto ai caratteri, al linguaggio, al pensiero e alla musica ha una prevalenza su tutti gli altri (ὄψις ἔχει πᾶν). Il mythos inoltre è indicato anzitutto come “composizione di fatti” (λέγω γὰρ μῦθον τοῦτον τὴν σύvθεσιν τῶν πραγμάτων), oltre che ‘μίμησις πράξεως’ su cui la lettura modernista sembra essersi concentrata esclusivamente.

Una peculiarità del teatro postdrammatico, come di tutto il teatro novecente-sco improntato a una forma mentis che possiamo deinire propria di un ‘pensare per immagini’, è sicuramente la prevalenza del fattore visivo. È opportuno quindi ridare a questo elemento il valore riconosciuto già da Aristotele (che completa quello della mimesis praxeos), e leggere nel teatro di Wilson il suo dispiegamento, ossia il dispiegamento della visione, dell’ὄψις.

Ciò di cui Einstein on the Beach sembra proprio sbarazzarsi è la narrazione. La non narratività di quello che viene portato in scena è quanto viene da subito dichiarato dai suoi autori, per cui lo spettacolo non intende raccontare la storia del famoso scienziato. Pur utilizzando indizi che rimandano alla sua biograia (il titolo nasce dalla suggestione di una fotograia in cui Einstein appare su di una spiaggia, i costumi usati in scena riprendono dettagli del suo modo di vestire, la sua igura impersonata da un violinista), l’intenzione è di mettere in scena “un’o-pera ritratto”, come l’ha deinita Philip Glass, senza raccontarne trama e vicen-de. Accade allora che molti elementi utilizzati rimandino ad Einstein, ma siano usati con libertà e aperti a un’ulteriorità di senso che la narrazione di una vicen-da avrebbe potuto imbrigliare. Lo stesso approccio è stato utilizzato da Wilson per altre igure storiche a cui ha dedicato alcune sue opere, ad esempio he Life and Times of Sigmund Freud o he Life and Times of Joseph Stalin e, di fatto, la creazione di tutti i suoi spettacoli sin dall’inizio della carriera procede secondo una dinamica modulare, ripetendo, riprendendo e ampliando in ciascun nuovo spettacolo i motivi afrontati in quelli precedenti, e creando così una continuità. È uno stesso pensiero che si rivela di volta in volta nella poetica speciica di ciascuna diferente opera; e Wilson per rendere questo concetto usa la metafora

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eraclitea del iume, diverso in ogni suo punto ma sempre uguale a se stesso, sve-lando in questo modo l’assunto del suo creare pensato ad immagine del divenire, dove l’immagine è il fondamento del divenire.

Per quanto la continuità modulare tra le opere fa sì che molte osservazioni che si possono fare per uno spettacolo valgano in generale per tutta la sua poetica, ciò non toglie che Einstein on the Beach costituisca, in continuità con le prime esperienze databili dal ‘65, un passaggio importante per la compiutezza della sua poetica. E la presenza della partitura musicale realizzata da Glass, perfettamente consonante alla struttura dell’opera, segna lo scarto rispetto alle opere precedenti costruite anch’esse su personaggi le cui vicende storiche sono trasigurate poe-ticamente in scena. In Einstein on the Beach la sperimentazione sullo spazio e il suono va a completare quella sul tempo e la visione a cui era approdato con i la-vori precedenti. Se la storia di Einstein non è quanto Wilson intende raccontare nell’opera, la sua immagine è però evocativa della rivoluzione del modo di inten-dere lo spazio e il tempo di cui lo scienziato è stato portavoce, rivoluzione che, di rilesso, vuole essere rappresentata in scena come trasformazione del modo di intendere e vivere lo spazio e il tempo del teatro, distintiva della poetica del regi-sta statunitense rispetto al teatro che lo ha preceduto. Come ha osservato Franco Quadri, se nelle altre creazioni di Wilson l’intrusione di un personaggio storico poteva risultare puramente pretestuosa, questo è “veramente uno spettacolo su Einstein”, e Wilson per parlare dello scienziato è sceso sul proprio terreno, per-ché “oltre che col suono, ha a che fare ininterrottamente e esclusivamente col problema dello spazio e col problema del tempo nel teatro” (Quadri, 17).

a. Albert Einstein su una spiaggia.

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Secondo Frédéric Maurin: “al tempo astratto, assoluto, omogeneo e meccanico come lo concepiva Newton, segue in Wilson un tempo instabile, irregolare: lo stesso che ha messo a nudo Einstein e che il regista può giocare a interrompere, a lavorare a invertire o a far scomparire secondo i suoi bisogni” (Maurin, 49). Il tempo si spazializza, si ofre come uno spazio da costruire, viene pensato esclusivamente rispetto a esso, e il ritmo che regola i movimenti degli attori, così come la musica, è creato rispetto allo spazio. Questo aspetto è illustrato metaforicamente anche attraverso dettagli che compaiono in scena: gli orologi collocati in scena sono orologi senza lancette oppure con lancette che si muo-vono all’inverso, o orologi che impiegano venti minuti per segnare un’ora. Ma è soprattutto agito nello spazio attraverso le coreograie dei movimenti che per rendere il senso di questo tempo si alternano nella polarità tra lentezza e velo-cità. Quindi, ad esempio, alla lentezza della prima immagine che appare nella prima scena del primo atto, ossia l’immagine di una locomotiva che avanza impercettibilmente dal fondo della scena, si giustappone il movimento veloce e carico di energia della danzatrice ‒ Lucinda Childs nel ‘76, Kate Moran nel 2012 ‒ che dal proscenio disegna una diagonale composta da otto passi in avanti e otto passi indietro: l’efetto è tale che “la diversità dei tempi si so-vraimprime sulla scena, i tempi diversi si urtano nella percezione”.

Lo slow motion è un elemento essenziale nel teatro di Wilson perché la sua im-portanza è legata a una percezione dello spazio e del tempo diversa da quella canonica. Infatti gli esperimenti sul ralenti nascono nei suoi primi lavori teatrali dall’osservazione di persone portatrici di handicap, che gli permette di compren-dere e riprodurre sulla scena i meccanismi di una percezione diversa. L’attenzio-ne per una percezione altra sembra la costante nei primi lavori e conferma l’esi-genza da parte di Wilson di appropriarsi di un codice diverso di percezione del reale, come bagaglio fondamentale per la costruzione della sua poetica; si pensi anzitutto al caso di Raymond, il ragazzo sordomuto che appare in he Deafman Glance, ma anche al caso schizoide di Cindy in Ouverture, o a Francine in he Life and Time of Joseph Stalin, o alla balbuzie di Christopher Knowles in A letter for Queen Victoria. Sono tutti casi in cui Wilson scopre una percezione sensoriale distinta dalla comprensione verbale che in casi di ‘normalità’ ha la preponderan-za nel rapportarsi al reale. Ad esempio l’atroia del tempo, che è resa dal ralenti del movimento, ha l’efetto di provocare l’ipertroia dello sguardo, per cui, come aferma Wilson: “più gli attori si muovono lentamente, più si vedono cose”. È evidentemente questa percezione, che ha un rapporto diverso con il tempo e lo spazio, a interessarlo e che vuole portare sulla scena.

L’alternanza polare tra lentezza e velocità è totalmente inalizzata alla costruzio-ne di una struttura drammatica generale regolata dal ritmo. Come ha dichiarato Glass, ‘contrapporre scene contrastanti’ è un espediente drammaturgico, è fun-zionale all’eicacia dell’opera che deve poter essere recepita dallo spettatore. Così,

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secondo Glass, “l’assenza di un ‘signiicato’ connotativo diretto ha reso molto più facile allo spettatore personalizzare questa esperienza attribuendole un “signiica-to” particolare, emerso dal suo vissuto, mentre l’opera in sé rimaneva risolutamente astratta”. La questione del signiicato viene fatta quindi rimbalzare dall’autore allo spettatore, che costruisce a piacere la storia o il senso di ciò a cui assiste; lo spetta-tore è libero di interpretare come crede senza essere vincolato a precise direttive.

La contrapposizione, principio drammaturgico fondante, nell’opera di Wilson trova espressione soprattutto attraverso la ripetizione e variazione. La struttura dello spettacolo, che è la base su cui si costruisce il tutto ed è pensata e resa in immagini, è costruita totalmente sulla ripetizione e variazione. “Io comincio da una forma – aferma Wilson – anche prima di sapere l’argomento. Comincio da una struttura visiva e all’interno di questa forma, conosco il contenuto” (Wilson in Mourin, 87). La struttura elementare di base, concepita come un ediicio – Wilson ha abbandonato gli studi di architettura per dedicarsi al teatro – viene riempita di contenuti scelti secondo dei meccanismi associativi, che si dispon-gono nella griglia di partenza. Così Einstein on the Beach si struttura in quattro atti, della durata di un’ora circa ciascuno, inframmezzati da cinque Knee Plays, o giunture (letteralmente: ‘scene ginocchio’) della durata di circa dieci minuti, che inquadrano ogni atto dando così l’idea di un’opera pensata nella sua interezza come corpo o organismo anatomico.

Ciascun atto si compone a sua volta di due scene eccetto il quarto e ultimo atto che è composto da tre; nel corso dei diversi quadri che formano questa struttura,

b. Scena Ib del II Atto.

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tre elementi costituiti da immagini emblematiche o tipi di ambiente-immagine, ossia un treno, un tribunale e un campo-macchina spaziale si alternano e ripetono per tre volte trasformandosi via via. La struttura è modulare secondo il ripetersi, l’accorparsi e l’alternarsi della scansione dei numeri 1-2-3. Di modo tale che nei primi tre atti i tre elementi si ripetono due volte con alternanze e combinazioni di ambienti interni ed esterni: così il treno (1), il processo (2) e il campo-macchina spaziale (3) si dispongono nell’ordine 1-2 (nel primo atto), 3-1 (nel secondo atto), 2-3 (nel terzo atto), andando a formare in successione la serie 1-2-3/1-2-3. Inine, nel quarto atto ricompaiono tutti e tre gli elementi però trasformati.

Gli elementi che compongono gli atti, nel ricomparire nelle varie scene, impli-cano ogni volta un mutamento del punto di visione e della prospettiva, per cui nella prima scena il treno appare avanzare lentamente dal fondo della scena da destra verso sinistra, nella seconda scena invece si intravvede la coda del treno; il tribunale, che appare frontalmente nella prima scena con accanto un letto, nella seconda è sezionato e appare per metà come prigione; il campo è percorso da un’astronave/macchina del tempo che attraversa lo spazio e nella seconda scena si avvicina in primo piano; nella terza scena gli elementi che tornano sono trasigurati: il treno è trasformato in ediicio che ne mantiene i contorni, il tribunale è sostituito interamente dal letto che prima gli stava accanto e si trasigura ulteriormente all’arrivo dell’astronave/macchina del tempo di cui alla ine si intravvede l’interno. Nella metamorfosi delle scene si riconoscono così gli elementi nel loro continuo diferire. I Knee Plays agiscono sia da ta-glio che da sutura, quindi appartengono a pieno titolo alla struttura e però la

c. Scena da Knee Play.

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destabilizzano: rispetto all’opera totale possono introdurre un principio di di-scontinuità, d’alternanza e di specularità. La struttura dello spettacolo quindi si deinisce come ha osservato Maurin attraverso “una dialettica spazialista con il divenire, attraverso un ritmo temporale che nasce, come una tavola visiva, dai rapporti di equilibrio e di simmetria, di disequilibrio e di asimmetria, tra diferenti unità costitutive”. Infatti, oltre alla polarità lentezza/velocità anche la polarità ripetizione/variazione ha l’efetto di rovesciare l’ordine strettamente cronologico del tempo. Ciò non toglie che le immagini utilizzate, quali il treno o l’astronave, avessero nelle intenzioni di Wilson anche un valore storico rispetto alla vita di Einstein, indicando “in qualche modo la misura della durata della sua vita”, ad esempio il treno come mezzo di trasporto ai tempi dell’infanzia dello scienziato e l’astro-nave come emblema dello sviluppo della tecnologia al momento della morte. Allo stesso modo un disco nero che ricopre un quadrante di un orologio con due luci alle estremità del diametro intende ricondurre per analogia all’eclissi di luna che nel 1919 ha confermato la teoria della curvatura dello spazio for-mulata dallo scienziato. Gli eventi storici, i dettagli accaduti realmente sono così trasigurati nel prodotto artistico in entità mitico-poetiche; per questa ragione il teatro di Wilson è stato letto anche come una delle ‘mitologie arti-stiche dei nostri tempi’ o un teatro ‘neomitico’. Secondo Maurin, non si tratta tanto di immagini della storia, ma “di immagini tagliate della storia”, per cui nella creazione interviene il decoupage, il taglio, l’estrazione del dato, del fatto storico che viene ricollocato in un nuovo contesto, e per questo trasigurato poeticamente. Sono immagini mitiche indiferentemente Medea o Prometeo, Einstein o Freud, piuttosto che Stalin o Faust, tutte igure che compaiono in forme diverse nei suoi spettacoli e tutte igure riassorbite nel contesto virtuale di un catalogo d’immagini della storia dell’umanità, che sembra fungere, come ha notato Marranca, da immenso archivio da cui attingere a piene mani.

Si comprende ulteriormente questa accezione di mitico se si intende il teatro immagine di Wilson come indicativo del montaggio del visuale proprio dell’e-poca contemporanea, perché di fatto il metodo dell’artista americano si realizza, come ha scritto Maurin, attraverso un vero e proprio “pensare in immagini”. È attraverso il montaggio di immagini che Wilson assembla elementi eterogenei e compone le sue opere. Anche una sola immagine è considerata da Wilson un elemento mitico e in quanto tale di per sé già una storia: in occasione di un’in-tervista l’artista americano dichiara che l’ideazione di un’opera comincia dalla deinizione dello spazio e della struttura con cui viene composta la scena: “la prima cosa che faccio quando penso a una pièce sono i diagrammi della scena. È quello il mio punto di partenza. Una volta stabilito il mio spazio la storia è narrata. Per esempio basta mostrare una sala di una corte e la cosa essenziale è detta, perché sei già di fronte a una situazione mitica” (Wilson in Adnan, 18).

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Sulla scena si assiste a un ripetersi e variare di motivi che, anche rispetto alla resa scenica di azioni propria del teatro drammatico o alla narrazione di eventi (la mimesis praxeos), può essere spiegato come un processo di ‘metamorfosi’ come lo ha deinito Lehmann. Le ripetizioni e variazioni trasportano lo spet-tatore in un “universo immaginario fatto di trasformazioni, d’ambiguità e di corrispondenze” in cui realtà uguali e eterogenee vengono collegate in una plu-ralità di piani. In un cosmo che può essere inteso come mitico, come il micro-cosmo degli spettacoli wilsoniani, non c’è termine migliore per rendere il senso del movimento e della trasformazione della forma che quello di metamorfosi. Come “il fenomeno precede la narrazione” allo stesso modo, si può afermare, sempre con Lehmann, il carattere fenomenico delle opere di Wilson: l’aspetto morfogenetico in cui cogliere e catturare il trasformarsi della forma.

Wilson compara esplicitamente il suo teatro ai processi naturali, la vita che inten-de portare in scena è parte della molteplicità cosmica, in un’idea di cosmo dove non è afermata la divisione tra spazio e tempo, soggetto e oggetto, per cui lo spazio non è concepito secondo un a priori kantiano, implicito nella visione new-toniana ed euclidea, ma è un pullulare di processi, è saturo di dispersioni, difra-zioni, variazioni. Anche le parti costitutive dell’opera sono chiamate da Wilson con una terminologia pittorica e naturalistica: i Knee Plays, che utilizza in tutti i suoi spettacoli, corrispondono a dei ‘ritratti’ perché si compongono di oggetti o

d. Scena da Knee Play.

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persone in primo piano; le scene in cui compare il treno o il processo sono intese come ‘nature morte’ perché si collocano in una profondità di campo intermedia; e le scene di danza e movimenti degli attori nello spazio sono ‘paesaggi’, perché uti-lizzano tutto lo spazio del palcoscenico e sfruttano tutta la profondità di campo. A questi tre tipi di spazio corrispondo inoltre tre gradi di intensità espressiva del gesto che va da un’intensità minima a una media a una massima.

Einstein on the Beach è tutto costruito sulla combinazione di strati vocali, mu-sicali e verbali realizzati secondo le stesse modalità di ripetizione e variazione progressiva, per cui accade che una stessa scena è ripetuta in momenti diversi e atti diversi dello spettacolo con minime variazioni: quindi ad esempio il mo-vimento dell’attrice lungo la diagonale si ripete, ma spostato rispetto al punto spaziale in cui veniva fatto prima, o un’azione viene ripetuta quasi identica salvo qualche variazione nei movimenti o un suono si ripete ma leggermente modiicato. Anche la drammaturgia – quella che Marranca ha deinito “una drammaturgia del testo disperso” poiché si tratta più che altro di testi, per la precisione undici brani in tutto, che vengono cantati o parlati in ordine spar-so da qualche personaggio – si struttura secondo la stessa modalità, ossia si sviluppa nella ripetizione di una stessa frase che può progressivamente addi-zionarsi di parole; si tratta di parole che fungono da unità sonore, che valgono come atomi di materialità fonica che si amalgamano al suono e al movimento.

Il senso della ripetizione in Wilson sta tutto, come ha colto Maurin, nella fun-zione “di dire o mostrare lo stesso diversamente, di dire o mostrare l’altro dello stesso; in breve, di salvare la diferenza dallo scoglio della ridondanza” (Maurin, 119). Nella ripetizione si riverbera il rapporto tra l’unità e la molteplicità. Si tratta della stessa funzione e signiicato della ripetizione utilizzata nella scrittura da Gertrude Stein, che ha profondamente inluenzato la poetica di Wilson. Nel ‘presente continuo’ teorizzato dalla scrittrice americana un oggetto o un perso-naggio è mostrato nella sua identità da prospettive ogni volta diferenti. È il sen-so della famosa espressione “a rose is a rose is a rose”, secondo cui una rosa può essere rossa per la prima volta dopo un secolo di poesia inglese; espressione che quindi non è da intendersi come una conferma del principio logico dell’identità di una cosa con se stessa quanto, al contrario, l’afermazione del riverbero della novità, della sua identità vivente, nella ripetizione e variazione continua. L’ite-razione, aferma Mourin, ha il potere di “cristallizzare l’essenza” e questo però avviene nello spostamento continuo, per cui questa ‘essenza’ è ogni volta dife-rente poiché l’istante con il quale coincide non è mai lo stesso. Secondo Gertru-de Stein nella ripetizione, come nell’insistenza che qualiica il movimento della vita, ogni volta c’è una diferenza perché si colloca ogni volta nel presente, in un presente che è ogni volta diferente. La rosa si dice ogni volta nella diferenza, garantisce la ripetizione: è ciò che sposta e diferisce continuamente l’identità ontologica; è ciò che acuisce la diferenza precisa di ogni fenomeno.

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Il modello di scrittura di Gertrude Stein è considerato da Lehmann come riferimento drammaturgico rilevante per comprendere l’istanza antinarrativa propria del teatro postdrammatico. Wilson è giudicato il regista ideale per la realizzazione scenica delle opere teatrali e non di Stein, ignorate o considerate a lungo non trasponibili. A permettere l’afermazione di questa ‘iliazione’ è lo stesso Wilson che dichiara come la lettura di he Making of Americans lo abbia portato a fare teatro. La Stein con il termine Landscape Play introduce l’idea che il teatro, la scena e il testo sono da intendersi come paesaggio, ossia esprime la volontà di rapportarsi al teatro, a quanto si realizza sulla scena, sia dal punto di vista dell’autore che dello spettatore, come si trattasse della con-templazione di un parco o di un paesaggio, dove quindi la spazialità e la visione che la coglie hanno un ruolo assolutamente preponderante.

Signiicativamente, lo scrittore e drammaturgo americano hornton Wilder, amico di Stein, autore di prefazioni ai suoi libri e inluenzato nella scrittura teatrale anch’esso dall’opera he Making of Americans, spiega l’assimilazione da parte di Stein del teatro al paesaggio nella dimensione del presente propria del mito e che trascende la narrazione: “Un mito non è una storia che si legge da sinistra a destra, dall’inizio alla ine, ma una cosa che si ha costantemente da-vanti agli occhi. Può essere ciò che voleva dire Gertrude Stein quando pensava a una pièce di teatro come un paesaggio” (Lehmann, 95). La dimensione del presente come propria del mito è allo stesso tempo la dimensione del presente che Wilder aferma come paradosso del teatro: “sul palco è sempre ‘ora’: i per-sonaggi sono sempre in piedi sul quel rasoio-bordo, tra il passato e il futuro, che è proprio dell’essere coscienti; le parole salgono alle loro labbra in una

e. Scena 3C del IV Atto.

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spontaneità immediata” (Wilder, 25). Il teatro contemporaneo e postdram-matico ha voluto catturare totalmente questo presente, cercando di metter-lo in scena. Così il principio del “continuo presente”, gli intervalli di tempo presente che condensano nell’attimo il passato e il futuro, reso nella scrittura di Stein, trovano concretizzazione sulle scene con l’annullamento della narra-zione drammatica o storica, di protagonisti deiniti o personaggi identiicabili con nettezza.

Allora è la novità ciò che Wilson cerca nella ripetizione: cerca l’efetto della resi-stenza e del decentramento percettivo mettendo ogni volta in gioco l’identità di quanto viene ripetuto. Questo vale per l’opera intesa nel complesso, come ripe-tizione e variazione di scene nel passaggio da un atto all’altro, e vale per ciascun elemento che compone la scena, dalla musica alla coreograia. Così la musica deinita minimalista o postminimalista creata da Glass per Einstein on the Beach segue gli stessi meccanismi della struttura drammaturgica, per cui il materiale elementare di base, seguendo la modalità della ripetizione e variazione del pro-cesso additivo e ciclico, dà vita a sequenze in continua trasformazione che danno il senso del movimento e del divenire, l’efetto di staticità dato della ripetizione è apparente: secondo lo stesso Glass la “musica non si ripete mai, ma cambia per tutto il tempo”. E di rilesso, anche per ciò che concerne la coreograia, a seconda della prospettiva viene di volta in volta colta la variazione di uno stesso elemento.

L’opera di Wilson è indicativa di come l’opsis, la visione, sia attivata e composta secondo delle regole che deiniscono la struttura compositiva delle immagini e queste regole rispondano al meccanismo del montaggio. La frammentarietà con cui si qualiica la caratteristica dell’opera postdrammatica, spesso con un’acce-zione caotica, nega solo apparentemente il principio della mimesis praxeos: come si è già detto, nello spettacolo di Wilson i Knee Plays sono elementi di frattura, di intervallo, ma allo stesso tempo sono elementi di sutura, di relazione e col-legamento. La frammentazione è un processo ambivalente, nella separazione e nell’intervallo c’è al tempo stesso la coordinazione, la relazione, il collegamento, il dialogo tra le parti: in questa duplicità sta il principio del montaggio. E questo stesso principio, che si struttura secondo la dinamica del contrasto, del contrap-punto, della polarità semantica, è riconoscibile all’opera sia nella drammaturgia antica in cui si tende a leggere soprattutto il meccanismo della mimesis praxeos che in quella postdrammatica in cui si vede concretizzato soprattutto l’opsis. E però è rinvenibile all’opera anche dietro le narrazioni del teatro moderno rico-nosciuto come propriamente drammatico, là dove a far dramma è per l’appunto il meccanismo compositivo polare e non la presenza o meno della storia.

Ne consegue che sostenere la postdrammaticità come negazione della mimesis praxeos implica attribuire al mythos, all’intreccio che dà forma alla narrazione delle storie, una logicità che appartiene invece pienamente solo al logos – al

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pensiero logico razionale che ha posto l’identità di una cosa con se stessa, la consequenzialità sillogistica, il principio di causalità, escludendo ambiguità e polarità semantica – e non riconoscere invece nella struttura del mythos la tramatura del meccanismo del montaggio, che non risponde a quella logici-tà ma al principio del contrasto e per l’appunto dell’ambiguità e polarità. La categorizzazione proposta da Lehmann avviene all’interno dell’acquisizione indebita che il logos ha fatto del mythos, riconducendolo alla propria logicità; e nel momento in cui il pensiero ‘postrammatico’ o ‘postmoderno’ vuole sottrarre al mythos questa logicità per afermare l’opsis, la pura visibilità di contro alla narrazione, non può che negarlo tout court. Il pensiero contemporaneo e la ri-lessione sul teatro contemporaneo può invece salvare il mythos se ne riconosce la sua coappartenenza all’opsis. Una coappartenenza che si fonda sulla condi-visione della stressa struttura compositiva elementare di base, ossia quella del montaggio, che è meccanismo mitopoietico per eccellenza. Allora l’opsis, la pura visibilità, il darsi sensibile della cosa non contraddice l’intreccio narrati-vo, il mythos, ma ne è la sua parte costitutiva, il suo complementare. Ciò che qualiica la loro apparente diferenza è una questione di prospettiva, si tratta, come ha scritto Rancière, di vedere lo stesso fenomeno da due punti diferenti, ossia di vedere l’ininitamente piccolo (il particolare, il materiale) piuttosto che l’ininitamente grande (l’ideale come tipo, come sintesi del molteplice), o di riconoscere all’opera nell’uno come nell’altro il medesimo meccanismo basilare del montaggio, al di là della diversa combinazione che può regolare la connessione o sconnessione tra le parti, facendo prevalere l’intreccio o la visibilità. L’opera di Wilson è quindi drammaturgica nella misura in cui, nella struttura compositiva, risponde al meccanismo del contrappunto, della pola-rità che regola l’articolazione per montaggio all’opera sia nella mimesis praxeos che nell’opsis, i due poli che danno forma al mythos. Quindi è attuale, ancora oggi rispetto alla sua prima edizione non solo perché risponde al codice ancora vivo che ha inaugurato ma anche perché risponde alla regola, elementare, della partitura drammatica.

English Abstract

On the occasion of the international revival of Einstein on the Beach, Robert Wilson’s master-piece dated 1976, this paper proposes a relection on the topicality of the work that changed, among other things, the history of musical theater: the originality of Wilson’s play lies in its dramatic structure which deeply renews contemporary staging and still remains faithful, at the same time, to the basic principles of dramaturgical composition. While Hans-hies Lehmann considers Wilson’s work as one of the best examples of ‘postdramatic’ theatre, because of the subordinate importance of the ‘story’ that lies underneath staged narration, this paper asserts that it is not the fairytale that ‘makes drama’ but its structural composition which, always, fol-lows the principles of montage: that is, the juxtaposition of heterogeneous elements composed

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by counterpoint, by semantic polarity, where the parts are combined and connected mainly by a relationship based on conlict, contrast and opposition. his mechanism ‘makes drama’ when is at work both in ‘predramatic’ theater – e.g. in Aeschylus’ Greek tragedy – and in ‘postdra-matic’ theater, because it consists of the same elementary structure: montage can be considered the mythmaking mechanism par excellence.

Riferimenti bibliograici

Adnan 1976E. Adnan, Intervista con Robert Wilson, trad. it. in F. Quadri (a cura di), Il teatro di Robert Wilson, Venezia 1976.Aristotele, PoeticaAristotele, Poetica, trad. it. e cura di D. Lanza, Milano, 2001.

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“C’è una nuvola in un pezzo di carta”.Attualità del mito nel teatro di Peter Sellars*

Abbiamo incontrato Peter Sellars lo scorso novembre al Teatro Palladium di Roma nel contesto del Romaeuropa Festival 2010. Qui il regista statunitense si trovava per la prima italiana di Kafka Fragments, la messa in scena dell’opera composta da György Kurtág per soprano e violino su una tessitura di frasi tratte dai diari, lettere e aforismi privati di Franz Kafka. I Kafka Fragmente, creati tra il 1985 e il 1986 dal compositore romeno naturalizzato ungherese, sono costituiti da quaranta frammenti, divisi in quattro parti, che musicati durano da una manciata di secondi a sette minuti; i temi a cui fanno riferimento i brani sono vari: l’amore, il sogno, il dolore, l’esilio, la musica... La sapiente regia riesce a esaltare l’accostamento ardito tra soprano e violino – gli ottimi Dawn Upshaw e Geof Nuttal – rendendo a tutti gli efetti voce e suono personaggi teatrali. Sellars mette la voce nei panni di una casalinga alle prese con le attività domestiche, e il suono in quelli di un musicista da strada, con l’efetto di catapultare a terra, nella brutale quotidianità, le altezze toccate dai frammenti. La scena che contorna i due è essenziale: i frammenti leg-gibili su schermi posti alle spalle degli artisti si alternano a un veloce susseguirsi di immagini suggestive e contestualizzanti realizzate da David Michalek.

Daniela Sacco: Ho letto alcune sue interviste in cui parla di ‘ fare mitologia’, creare ‘sistemi mitologici’ in cui le ‘ immagini risuonano’. Può spiegarmi esattamente cosa in-tende con queste espressioni? Come possiamo parlare di mitologia oggi? Che signiicato ha per noi oggi?

Peter Sellars: Penso che molto abbia a che fare con la prima infanzia: appena nati si è impressionabili, ci sono immagini che rimangono impresse molto for-temente. Poi, quando si è grandi, capitano delle esperienze che toccano quelle impressioni. La psicologia ci ha insegnato che queste sono le cose che ci forma-no, che formano la nostra sensibilità. Stiamo prendendo consapevolezza che la cosa più importante che possiamo fare è assicurarci che i bambini siano curati molto bene alla scuola materna, ossia che l’investimento più profondo dell’esse-re umano deve avvenire presto nella vita, in questi primissimi anni, e non più tardi. Questa prima fase è fondamentale perché al bambino possono essere dati gli strumenti per avere in mano il proprio destino. Le impressioni che si vivono in quel periodo creano una camera di risonanza e così, quando qualcosa tocca quelle prime impressioni, colpisce il centro del proprio essere e dei momenti for-mativi dell’essere umano: va a toccare, cioè, qualcosa che è al centro della propria

* In Appendice di questo stesso volume la versione originale, in lingua inglese, dell’intervista.

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identità e quel che si percepirà poi non saranno che delle semplici informazioni. Dunque, per sviluppare un tema caro a Platone, la nostra infanzia è fatta di tan-tissime infanzie precedenti, queste impressioni vanno indietro di tante vite e noi ci troviamo in mezzo a un’impressione che è stata creata cento vite fa. Poi, tutto d’un tratto, qualcosa tocca l’epicentro del nostro essere da una vita precedente: questa è la mitologia. È qualcosa che si conosce molto bene e che viene dai primi anni della propria esistenza. Quindi esiste una specie di “camera di risonanza” che si è formata. La risonanza è una cosa davvero speciale, basti pensare ad esempio a quanto succede nella musica classica. Kafka Fragments, questa perfor-mance, risuona diversamente in una bellissima sala da concerti. A Londra l’ab-biamo fatta in una sala del Barbican dove di solito suona la London Symphony Orchestra: la sala è fatta apposta per creare la risonanza, perché è tutta di legno, quindi quando Geof Nuttall suona il violino la risonanza col legno crea un ca-lore, una presenza, una risonanza speciale appunto. Qui a Roma, lo spazio del Palladium, è stato pensato per la musica rock: non c’è legno nell’architettura, e il violino è un po’ freddo e un po’ solo; le note sono “semplicemente” note. Invece la risonanza si ha quando l’ambiente risponde, e quindi un suono o un’impres-sione viaggia oltre se stesso perché è in un ambiente che lo riconosce, perché è in solidarietà, in un rapporto di simpatia: e l’impressione diventa più profonda, più ricca... A Los Angeles, per fare un altro esempio, c’è una meravigliosa sala da concerti disegnata da Frank O. Gehry, la “Walt Disney Concert Hall”, dove abbiamo portato Kafka Fragments. La sala è stata costruita da Yasuhisa Toyota che si è ispirato al teatro tradizionale giapponese Nō, che è interamente di legno, e sotto il palcoscenico dei teatri ci sono dei tamburi, quindi, quando gli attori lo calpestano si avverte una risonanza del suono, perché il palcoscenico stesso è un organo di risonanza. Quando c’è una percussione l’efetto è ampliicato. La stes-sa cosa può dirsi per Epidauro. Quella dell’acustica è la questione più importante per l’estetica greca, proprio perché era basata sul suono e sulla maschera-persona, attraverso la quale si faceva arrivare il suono. Tutto è centrato sulla risonanza e per i greci era molto importante questo qualcosa che tocca il centro dell’essere, non solo la supericie. Come per la sala da concerti disegnata dal signor Toyota con i principi del teatro Nō – là dove la supericie sembra liscia ma in realtà sotto contiene questi giganteschi organi di risonanza, i risuonatori, che vibrano, che tengono il suono – così la curva degli aniteatri greci tiene il suono: non è un’architettura di rettangoli, ma è l’architettura di un profondissimo risuonatore che tiene il suono. Questo ricettacolo è tanto importante perché tiene, ricrea, ampliica. Quindi non si tratta di portare qualcosa da “fuori” a “dentro”, ma il risuonatore è dentro ogni essere umano...

D. S.: Ciò di cui mi piacerebbe discutere con lei è la sua idea che il teatro “riveli l’invi-sibile”. Può dirmi cosa intende per invisibile? Che cosa viene reso visibile? C’è qualche connessione con l’espressione di Paul Klee per cui “ l’arte non riproduce il visibile ma rende visibile”? Possiamo pensare all’arte teatrale in questi termini?

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Peter Sellars: Molto semplicemente, l’arte sta intorno a noi ma è invisibile, non la puoi toccare: come l’amore, che è ovunque ma non lo vediamo. I maggiori sentimenti, i pensieri più importanti, i principi della vita sono tutti invisibili e il mondo visibile non ha quasi nulla a che fare con i sentimenti personali. Eppure, il mondo visibile è un miracolo: la luce sugli alberi verso la ine della giornata, ieri, qui a Roma, era incredibile, la luna piena che sale verso ine po-meriggio... Il mondo visibile è magniico. Come dice il Corano, il mondo è an-che fatto per essere letto, la bellezza non è semplicemente la luna o il tramonto o le rondini che scendono verso il iume facendo dei disegni nel cielo, ma è anche un messaggio: si impara a leggere il cielo, la luna, il sole. Tutti questi sono anche dei testi, sono un messaggio di una creazione più immensa, di una durata di tempi più lunga di un ciclo di vita. Quindi il mondo visibile, come direbbe il Corano, è un segno che le persone possono decifrare, non l’oggetto in se stesso. Allo stesso modo, la mia sensazione rispetto al testo musicale di Kurtág non è il punto di partenza, né il punto di arrivo: è il vascello, il viaggio, non è la destinazione. Il punto di partenza deve essere qualcosa dentro di te, quando per esempio stai avendo un’esperienza profonda e guardi il cielo, vedi tante cose diverse, e il cielo signiica tutte queste cose. Il mondo visibile deve essere attivato dai tuoi sentimenti interni, dalla tua capacità di creazione, dalla tua vita interna. Quindi, anche al contrario, il mondo visibile è fatto per ri-svegliare le tue domande sulla vita, sul signiicato della vita. Ed è anche lì per ricordarti che hai un’altra giornata a disposizione, che il sole risorgerà e tu ci puoi riprovare, che questi sono tutti dei messaggi profondi e che quindi tutti i cerchi nel mondo e tutte le linee dritte sono, come diceva Platone, un’altra

Dawn Upshaw in Kafka Fragments.

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geometria, un altro tipo di ordine. Credo che questo sia il potere della scienza, così come credo che l’arte funzioni in parallelo alla scienza, e stia a guardare il mondo visibile cercando i suoi principi e non quello che il mondo visibile dice di se stesso. Il mondo visibile è un indicatore di realtà più vaste, oppure, è alla ricerca di disegni, motivi più speciici, o un ordine, l’ordine più profondo.

D. S.: Rispetto alla sua formazione artistica, ha fatto spesso dichiarazioni sulla precoce e importante esperienza formativa nello studio del cinema... Potrebbe dirmi perché ha eletto il teatro a sua espressione artistica d’eccellenza rispetto a quella cinematograica?

Peter Sellars: Secondo me l’elemento più importante per il teatro è, social-mente, la condivisione di uno spazio e la domanda imponente del XX secolo è ‘come condividiamo questo pianeta?’. Possiamo condividere il pianeta con il resto del mondo? Con altre persone? La grande questione che ossessionava i Greci era di ricevere gli stranieri. Cosa condividiamo nella vita su questo pia-neta? La cosa più importante non è costruire un muro fra la Palestina e Israele o fra gli Stati Uniti e il Messico, ma il contrario, chiedersi che cosa condivi-diamo, e la ricerca di quello che condividiamo oltre che la sua afermazione. Nel teatro tante persone si riuniscono in uno spazio che alla ine della serata non è né il “mio” spazio né il “tuo” spazio, ma uno spazio condiviso dove si ha un’esperienza condivisa, dove i conini sono dissolti. Per il cinema non è così: il ilm ha il proprio spazio e il pubblico, a sua volta, ha il suo; è uno spazio mentale perché lo spazio isico non è lo stesso. Quindi per me la ragione per cui il teatro ha la priorità è proprio la condivisione. Ci sono i diritti alla terra, all’acqua; c’è la questione di come condividiamo la terra e come ne facciamo tesoro perché non è una cosa che dobbiamo dividere a parcelle e vendere, è sa-cra, dobbiamo riconoscere la sacralità della terra, del cibo, dell’aria, dell’acqua. Non puoi semplicemente comprare e vendere l’acqua, nell’acqua c’è qualcosa di sacro ed è di tutti: quando la Coca-Cola vorrà comprare tutta l’acqua del mondo – quello che stanno cercando davvero di fare – avremo la crisi. E quindi questo spazio condiviso fa ricordare a tutti che la terra è sacra, la luce è sacra, l’acqua è sacra nel senso che è condivisa e tutti ne hanno bisogno. Le piante, gli animali e la vita hanno una dimensione sacra e non alla maniera della religione organizzata ma nel senso del teatro, dove tutto ha una risonanza, un’aura, un insondabile, dove tocchiamo qualcosa di ininito: abbiamo una quantità d’ac-qua che è inibile ma abbiamo un livello di generosità ininito. Ci sono cose ininite, come amore, coraggio, generosità onestà e ci sono altre cose che sono limitate, come l’acqua o la terra: tutto sta nel capire come usare queste cose inibili, come trovare una correttezza nell’usare le cose inibili. Il teatro è un punto di incontro di questa ininitezza e di questa limitatezza sociale che è la condivisione. Il cinema è certamente un grandissimo linguaggio, io adoro il cinema prima del cinema: penso alla pittura cinese, o al teatro cinese e india-no, al teatro d’ombre di Java, o alla pittura nelle caverne. C’è sempre stato il

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cinema prima del cinema: l’impulso cinematograico è molto profondo in noi, e non viene solo dal XIX o XX secolo, così il montaggio...

D. S.: A questo proposito, vorrei proprio parlare speciicatamente della tecnica del mon-taggio, del valore che ne dà e l’uso che ne fa, di come lo studio del montaggio nel cinema è stato formativo per la creazione del suo metodo teatrale.

Peter Sellars: Il montaggio è cruciale; ed è anche la tecnica con cui ha lavorato Sofocle. Sofocle creava sempre degli episodi che poi venivano tagliati e in cui inseriva il coro: in lui non vedi il dispiegarsi degli eventi nel tempo reale, c’è tantissimo che non mostra, anzi esclude. Sofocle presenta un momento mol-to speciico nel tempo, poi taglia in un altro momento e aianca questi due momenti nel tempo contigui: ciò ha un impatto emotivo straordinario, esatta-mente perché Sofocle lavora al montaggio di questi pezzi. Lo stesso si potreb-be dire per Aristofane, forse ancora di più. Da questi momenti distribuiti nel tempo che normalmente non vengono attaccati assieme, ma che vengono con-nessi grazie a questa tecnica, si ottengono dei contrasti molto intensi e molto estremi. Si crea una crisi, ma anche qualcosa di più profondo, ossia la consape-volezza che tutto è connesso. Il montaggio ci dice semplicemente che due cose qualsiasi nel mondo sono connesse: se le connettiamo attraverso una giuntura, questa interconnettività è poesia. Questa sedia non è semplicemente una sedia e questo teatro non è semplicemente questo teatro: niente è solo se stesso, tutto è se stesso in rapporto ad altro. Quindi la questione del rapporto è la ragione per cui il montaggio è così eccitante: perché aguzza, intensiica e rende più profondo questo senso del rapporto. Quando ero all’Università la mia tesi era su Mejerchol’d ed ero assorbito anche da Ejsenstejn e il cinema degli albori; ero molto attratto dal cinema muto, e mi sono specializzato in Griith, ho stu-diato Hitchcock, Godard... Per ciò che concerne il cinema molto importante è il periodo che ho passato a Bruxelles dove tra i 20 e i 30 anni ho lavorato a molti progetti, e dove alla cineteca potevo vedere due ilm muti ogni sera, con le musiche dal vivo. Adoro l’idea del cinema con la musica dal vivo, al modo di Godard, dove hai due tracce – una video e una audio – che son diverse: quindi c’è sempre tensione fra il visivo e il sonoro. È una cosa molto soddisfacente, di-versamente da quanto accade a Hollywood dove il sonoro è schiavo del visivo. Non amo avere questa modalità, in cui un elemento fa da padrone e l’altro da schiavo, preferisco un rapporto tra due adulti consenzienti che possono essere d’accordo o meno, che possono convergere o anche separarsi. Questo è eccitan-te del montaggio: separa il sonoro dall’immagine, dando la possibilità a tutti e due di avere un loro inlusso narrativo e una loro dimensione narrativa, e di andare all’unisono producendo un’esperienza complessa.

D. S.: Sto indagando il rapporto tra mitopoiesi e montaggio. A me pare che sia il mito che il montaggio pongano la stessa relazione tra particolare e universale nel senso che

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entrambi tendono a rappresentare il ‘tipico’. Penso, a questo proposito, anche al concetto di immagine generalizzata e della pars pro toto nelle speculazioni di Ejzenštejn sul montaggio. Crede che si possa afermare questo rapporto?

Peter Sellars: Sì, e anche fra metafora e metonimia. Un esempio che mi capita spesso di fare è quello dell’immagine buddista del pezzo di carta e della nuvo-la; ossia l’idea che quando vedi una nuvola vedi anche un pezzo di carta o che quando vedi un pezzo di carta vedi anche una nuvola. Questo perché un pezzo di carta viene da un albero, e perché quell’albero sia diventato un foglio di carta c’è voluto un boscaiolo che ha tagliato l’albero, e deve esserci stata anche una fabbrica di carta, così come deve esserci stato anche il pranzo del boscaiolo. Doveva esserci tutto ciò perché questo diventasse un pezzo di carta. E perché l’albero esistesse nella foresta doveva esserci il sole, la pioggia, la nuvola... Per questo, quando guardi un pezzo di carta vedi una nuvola. Il buddista dice che tutto contiene tutto quello di cui non è: un pezzo di carta è fatto di elementi non di carta. Questo è molto importante quando pensi, anche letteralmente, a Platone, per cui noi siamo già stati qua, in questo mondo, i nostri corpi si decompongono e poi ritornano, come alberi, come rocce, come piante, ani-mali, centinaia di volte. Non è solo un’immagine poetica, è una realtà isica, noi ci siamo decomposti in molte forme e siamo tornati in altre forme: questo è un processo isico oltre che spirituale. La bellezza del montaggio è che si contrappone un’esistenza precedente con un’esistenza che è ora: abbiamo a che fare, ancora di nuovo, con l’interconnettività di tutto, per cui se c’è un pezzo di carta deve esserci una nuvola. Mettere due cose una accanto all’altra, ha l’efetto di scioccare attraverso il processo lungo delle loro esistenze, cattura l’attenzione proprio perché si avverte un salto nell’ordine delle cose, e non si percorre, invece, il lungo sentiero tra loro. Il pezzo di giuntura che viene inse-rito diventa quel lungo sentiero: ed è lì che ci sono i secoli, che quindi passano tutti in un inserto, in un punto solo. Quindi tagli vengono fatti attraverso il tempo, attraverso lo spazio e attraverso il processo...

D. S.: È in questi tagli che si manifesta il ‘tipico’?

Peter Sellars: Il montaggio porta dallo speciico alla presa di coscienza che lo speciico è un’indicazione di qualcosa di più vasto, come dicono i buddisti: realtà condizionata contro realtà incondizionata. Edipo Re è una realtà condi-zionata: c’è quella madre, quel padre, tutto nella sua vita era basato su un certo numero di condizioni; ma d’altro canto, quello speciico gruppo di condizioni porta a una realtà incondizionata. Come esseri umani noi non sappiamo nulla di noi stessi, le speciiche condizioni di quella realtà condizionata sono un indicatore della realtà incondizionata, di una verità più grande che in qualche modo guida la verità più piccola. Quindi sei dentro a un rapporto di verità relativa, di verità condizionata, di verità provvisoria e di verità più grandi, che

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rimangono tali attraverso un tempo più o meno lungo e attraverso periodi della storia più lunghi e vite diverse.

D. S.: Il suo teatro è realizzato in America e si rivolge principalmente a un pubblico ameri-cano, pur essendo, naturalmente, un teatro in-ternazionale, che si alimenta profondamente di culture diverse. Pensa che la cultura americana abbia qualcosa da insegnare a quella europea? Che intenzione comunicativa c’è nel suo teatro nei confronti della cultura europea? Ad esempio nel caso speciico di Kafka Fragments?

Peter Sellars: Sofocle, Mozart, Shakespe-are scrivevano per l’America! Sono tutti americani! Scrivevano speciicatamente per il mio Paese: stranamente, scrivono del Paese ‘più potente’, scrivono di potere, di come funziona il potere e l’America è, oggi, il Paese al mondo che sta vivendo proprio l’esperienza di cui scrivono loro. Soprattut-to ora, ogni sbaglio sociale, catastroico che

fa l’America, l’Europa lo ripete dopo cinque anni. Vorrei poter dire che non c’è nulla da imparare dall’America, ma il fatto è che avete delle cose terribili da imparare, se è così che trattate i rifugiati, se è così che costruite prigioni, se è così che vengono condotte le guerre contro la droga... Sono cose terribili che hanno distrutto l’Europa negli ultimi vent’anni, proprio perché l’Europa imita l’America, i politici europei imitano quelli americani: ci sono personaggi catastroici come Berlusconi e Sarkozy i quali hanno imparato tutto dall’A-merica. Sento, come americano che viene in Europa a presentare le sue opere, che sto dando agli europei un quadro che gli sarà presto molto familiare e sto cercando di allertare le persone, come se dicessi: ‘guardate che è questo che sta per arrivare’. Mi dispiace che tutto il mondo sia così inluenzato dall’America in questo momento. Tutti stanno chiudendo i loro conini, stanno conducendo una guerra economica, stanno diventando egoisti e il risultato è la stagnazione economica e sociale in America e ora in Europa. E vi state tagliando fuori dal futuro, state retrocedendo a una versione fasulla del passato: questo fa male. Ora in America e in Europa si vede di nuovo apparire il fascismo: ad esempio quel che accade in Olanda è incredibile. Per me, in questo pezzo di Kurtág, c’è l’immagine del violinista zingaro: solo, per strada, non ha una casa, non avrà mai una casa. Il suono rumeno di Kurtág è il suono che l’Europa ha già cercato di distruggere ad Auschwitz e che ora Berlusconi sta cercando di annientare: questo lo percepisco già dall’America. Penso che il teatro bulgaro sia univer-

Peter Sellars, Per farla inita con il giudizio di Dio di Antonin Artaud, 2003.

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sale quando è massimamente bulgaro, non quando cerca di imitare qualcosa d’altro: noi tutti dobbiamo parlare la nostra lingua in modo più profondo pos-sibile, con le sue sfumature e facendo tesoro di tutto quello che ogni lingua può dare, e non semplicemente parlare un’altra lingua che nessuno parla bene. Dobbiamo tutti parlare la nostra lingua, con la sua complessità e con l’abilità di toccare quello che è più profondo, le verità intrinseche a quella cultura e poi condividerle. In Giappone le persone vedono qualcosa del mio mondo ameri-cano che riconoscono e altre cose che non riconoscono; ma credo che l’umanità abbia degli specchi dove tutti possano rilettersi: ed è molto interessante guar-dare allo specchio di Sofocle, a quello di Mozart o a quello di Shakespeare, e così facendo ritrovare se stessi. Quindi, per me i testi di questi grandi non sono importanti perché lo erano in uno speciico periodo storico, per speciiche persone, ma al contrario, i loro testi funzionano come specchi attraverso cui la storia e ogni generazione si ritrova, ed è questa la cosa potente.

D. S.: Non crede che l ’America possa essere un riferimento per la giovinezza del suo approccio alla cultura?

Peter Sellars: L’America è stata fondata con molta consapevolezza su dei prin-cipi ateniesi, nel tentativo di capire la democrazia ateniese, e con altrettanta consapevolezza le strutture del nostro governo si sono basate sui modelli di Atene, sui testi classici. Non è a caso che in America l’uicio postale abbia i capitelli corinzi, o la Casa Bianca un’architettura che si rifà alla classicità gre-ca. Queste cose non sono a caso: ci siamo costruiti nell’immagine di Atene e su

quella che era la promessa della democrazia ateniese. Per me i testi greci sono fondanti del mio paese, non fondanti di un qualsia-si altro paese: per me hanno un signiicato personale. E credo che lo abbiano avuto anche per Jeferson e Franklin che hanno anche dibattuto a lungo su questi temi, cer-cando di tirarne fuori un futuro, cosa che non era stata possibile nell’Atene di Peri-cle, che infatti è collassata. Quindi è vero che l’America è giovane, ma in rapporto all’Atene di Pericle è anche vecchia: la de-mocrazia americana è andata avanti più a lungo che non in qualsiasi altro posto e la si è scontata con dei terribili problemi. La democrazia è molto minacciata in questo momento dall’economia, così come accade in Europa o ovunque. Euripide e Sofocle furono molto chiari su questo punto: am-

Peter Sellars, Per farla inita con il giudizio di Dio, di Antonin Artaud, 2003.

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monivano di non lasciare che il denaro minacciasse la democrazia, e sapevano che era esattamente questa la ragione della crisi. Quindi, guardo questi testi e vedo il mio paese nella consapevolezza di dove siamo ora, rispetto a quello che erano i principi e i miti di fondazione.

D. S.: Anche rispetto ai miti di fondazione, crede la cultura americana sveli una par-ticolare sensibilità per il mito?

Peter Sellars: Sì perché l’America stava già creando dei miti ai suoi inizi e nel suo governarsi ha sempre usato il mito. C’è la mitologia dei Kennedy, la mitologia di Richard Nixon: tutti questi leader americani sono mitici, oltre ad essere delle vere persone, e sapevano come costruire e come usare il mito o il mitico. La cultura americana ha usato il mito sin dalle origini, perché era un paese basato su un’idea grande, non semplicemente sull’etnicità o su tutte quelle cose su cui si basano di solito i paesi: c’era un’idea nuova, che non si ra-dicava semplicemente sulla gente che vi aveva vissuto, anzi quelle persone sono state escluse per far spazio ad altri che stavano arrivando, oltre agli schiavi. Quindi era un paese molto strano che non assomigliava a nessun altro nella storia: è diventato un paese della mente, che bisognava immaginare, con l’idea di lavorare per un progetto più grande. E questo progetto più grande era quello che voleva l’America. L’America non era un fatto, era un luogo che rappresen-tava certe idee, aspirazioni, successi: la gente da tutto il mondo arrivava per cercare di costruire una nuova vita, un nuovo futuro. Credo che, nella storia, non vi sia stato alcun paese con un simile tipo di spinta, che l’America pren-deva proprio dalla mitologia. Arrivavano da tutte le parti dicendo “andiamo in America, lì c’è il nostro futuro”: è incredibile, generazione dopo generazione, è avvenuto così; e si è creato un futuro. È per questo che l’America ha creato il miracolo sociale ed economico a dispetto di tutti i suoi fallimenti. I suoi successi sono incredibili proprio grazie a questi ideali alti, che erano ateniesi. Abbiamo fatto questo paese, con un’immagine di sé completamente diversa; ed è per questo che mi sembra un incubo quando proprio l’America dice di no all’immigrazione, che la lingua uiciale è l’inglese, che vuole solo bianchi e tutte queste cose “non americane”: perché tutto ciò rappresenta una violazione dei principi fondanti del paese.

D. S.: Il suo teatro è politico: ciò signiica che la funzione mitica del teatro, che si rivolge a un pubblico attraverso dei signiicati universali, è allo stesso tempo politica?

Peter Sellars: Certamente, perché il mito muove in due modi: anzitutto dà po-tere, dà coraggio; il teatro mette in presenza di grandissime azioni eroiche di un’altra epoca e quindi fa pensare che se nel passato erano in grado di fare grandi cose, allo stesso modo ci si può riuscire oggi. Il teatro è qualcosa che ispira ma è anche respingente, quindi il mito dà forza ma può essere anche un monito e met-

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tere limiti all’ambizione umana, quando è politico o è economico, nei riguardi dell’onore, del controllo, del possesso, della hybris. Invece la mitologia è molto fortiicante quando tratta di idee alte, creative, che attraverso il tempo e lo spazio invitano ad avere un’idea più ampia dell’umanità, dell’umana possibilità. Quindi la mitologia lavora in questi due sensi: è una inestra sull’ininito e un monito dei limiti umani. Ed è qui tutto il suo potere: è illimitata, ininita, apre la mente su visioni più ampie, ma allo stesso tempo ti dice “stai attento, chi ignora il limite viene annientato”.

D. S.: Crede che l ’uso della tecnologia, che si alimenta proprio della hybris, possa contribuire alla costruzione della mitologia?

Peter Sellars: Certo, la tecnologia è una pietra, è una matita, è anche un razzo che va su Marte: tutto è tecnologia. La tecnologia di per sé è neutra: puoi pren-dere una matita e puoi usarla per disegnare tua iglia o una bomba atomica, e tra le mani avrai sempre comunque una matita. Per me la mitologia esisterà sempre qualsiasi forma avremo per comunicarla o per farla circolare.

D. S.: È il modo in cui ne facciamo uso che può essere umano o disumano...

Peter Sellars: Sì, la tecnologia da sola non ha un’anima, tutto dipende dall’uso che ne fai: è quello che dà alla tecnologia il potere. Abbiamo tutti visto ilm meravigliosi e pessimi e stranamente la mitologia è presente in entrambi i casi. King Kong è un pessimo ilm, ma ha dato alle persone un mito che è rimasto potente, pericoloso, razzista e orribile. Quello che rimane è che gli uomini bian-chi hanno paura dell’uomo nero; è l’immagine di un uomo nero che fa violenza su una donna bianca: ed è terribile che la paura dell’uomo nero sia derivata an-che da un ilm, da una “scimmia” creata negli anni Trenta. Chiediamoci perché questo pezzo di spazzatura, questo kitsch, dovrebbe avere una vita così lunga. È interessante osservare come lavorano certe cose nel nostro conscio: perché, ad esempio, Harry Potter, in questi anni, sta toccando così tante persone? Per-ché parla all’immaginazione? Cosa ci trova la gente? Cosa c’è in Harry Potter che risuona con la realtà? È una domanda strana e afascinante: penso che la risposta stia nel desiderio nostalgico per l’autoritarismo del sistema privato col-legiale, del sistema inglese all’antica, dove c’è un ordine ma, allo stesso tempo, c’è la libertà di muovere una bacchetta magica e fare accadere una magia o far sparire tutto. È uno stranissimo desiderio di questa generazione per un regime ultraconservatore dove ci sono sempre le risposte a tutto, dove tutto è rigido e ordinato e non ci sono vere domande, ma, allo stesso tempo, si può cambiare tutto quello che non piace per magia. Allora mi domando che cosa nutre il mito di Harry Potter? Questa per me è una questione interessante. Come lo è il bisogno degli uomini di essere bambini per sempre: gli attori di Harry Potter hanno quaranta anni ma si comportano come se ne avessero quattordici. Cos’è

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questo desiderio di voler rimanere a scuola per sempre? Sono curiosi questi fenomeni, che mostrano una cultura con delle stranissime proiezioni nelle fan-tasie delle persone. Ma, per tornare alla suggestione del possibile rapporto tra tecnologia e mitologia, voglio dire che la questione della tecnologia è più pro-fonda. La tecnologia è la nuova mitologia, in un modo molto profondo. Penso ad esempio alla rivoluzione del Chiapas, dove il comandante Marcos ha fatto una guerra che è mitologica e reale, proprio perché quella lotta è stata con-dotta anche attraverso l’uso di internet. Ciò signiica che noi non siamo certo nelle giungle del Chiapas ma, allo stesso tempo, grazie a internet, siamo là in solidarietà. E, quando i militari messicani attaccano i Campesini in Chia-pas, in tutto il mondo quell’attacco diventa parte delle nostre vite. L’idea di un popolo che lotta in un luogo molto remoto in Messico, diventa in tutto il mondo qualcosa che entra nelle coscienze, nella testa di tutti; e la rivoluzione in Chiapas diventa così un’immagine molto potente per tutto il mondo. Nel frattempo, il fatto che le persone possano entrare nel web e denunciare l’attac-co dell’esercito messicano, fa sì che nel mondo intero ci sia riprovazione. Per il governo messicano si pongono una serie di scelte e di pressioni tali da non potere far nulla che vada contro l’opinione pubblica mondiale che sostiene gli agricoltori e il popolo del Chiapas. Questo è molto interessante perché si assi-ste assieme a una realtà e a una mitologia: così, in questo momento storico, quel luogo è sia molto remoto che molto presente, e la sua presenza implica molte cose immaginate in molte parti del mondo.

D. S.: Per tornare al montaggio, anche in relazione a quanto appena detto: crede che abbia una funzione particolare nella costruzione narrativa e che agisca nel rapporto tra verità e inzione?

Peter Sellars: Quello che succede con il montaggio è che interrompe il lusso normale della narrativa e lima i margini della verità. Il lusso narrativo norma-le può procedere con quello che accade, ma il montaggio mette in questione ogni sviluppo, e lo mette sotto la lente per esaminarlo: crea così una situazione in cui guardi le cose da tante sfaccettature anziché da una sola. Le sfaccettature sono punti di vista: per questo il montaggio è un meccanismo tanto potente. Ti accorgi che la storia, la realtà, è composita e la vedi fatta da tante sfaccetta-ture, come l’occhio di una mosca: più sfaccettature vedi, più composita diventa la tua visione del reale, e più sfaccettature ci sono, più multidimensionale è la cosa che vedi. La narrativa non è mai una singola narrativa, ossia non vi è un singolo montaggio: ma sempre sono narrative “multiple”, ovvero immagini multiple. Tutto è multiplo e dunque vi è spazio per molte narrazioni e meta-narrazioni. C’è una narrazione più grande, oltre quello che raccontiamo e ci sono tante narrazioni più piccole che non sono state incluse nella storia che viene raccontata. E quindi si è sempre consci di tutte queste narrazioni che potrebbero in un momento qualsiasi intersecarsi.

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D. S.: Probabilmente la scelta dell ’interruzione è sempre un atto politico...

Peter Sellars: Sì, infatti, perché a volte la narrazione principale è interrotta, e questo è un buon segno. Per questa ragione è così importante fare dei frammenti: perché tutti sanno che la narrazione principale, quella maestra, è una “bugia”. Il grande ilm hollywoodiano, con l’orchestra e il crescendo di musica, è una bugia totale! Tutte le volte che può essere rotto è un buon segno! L’unica cosa in cui possiamo avere iducia sono i piccoli momenti di verità che possiamo veriicare e questi frammenti sono la materia con cui lavoriamo. Possiamo ricomporre i frammenti in tanti modi: le nostre vite e le nostre società sono state frantumate, ma da queste rotture noi raccogliamo dei piccoli pezzi e iniziamo a ricomporli... Kurtag, ad esempio, scrive Kafka Fragmente con l’esperienza di essere stato un rifugiato: ma cosa vuol dire? Che quando scappi sotto la barriera che segna il conine, hai dovuto abbandonare la tua vita precedente. E tutto quello che rima-ne di quella vita sono i frammenti, e da quei frammenti devi costruire una nuova esistenza, dovunque tu sia arrivato. L’idea di verità frammentaria e di vita fram-mentaria, di sistemi rotti ed esperienze di vita rotte, è emozionalmente molto destrutturante e allo stesso tempo stranamente liberatoria. Come nell’esperienza degli immigrati, che ricostruiscono le loro vite e poi creano nuove narrative da questi pezzi rotti. Penso che questa sia una forma speciale di narrazione, che ho apprezzato a partire da Beckett in poi: ed è la constatazione che il frammento è probabilmente in grado di rappresentare la verità, perché non pretende di essere totale, perché dice sin dall’inizio che è una comprensione parziale, e non pre-tende di essere l’intero. La forma del frammento, dunque, è molto soddisfacente artisticamente. Da qui nasce l’ossessione, lungo i secoli, per le rovine greche: perché un frammento è sia “non inito” che destinato a inire ulteriormente, poi-ché non ce ne saranno più. Questa combinazione di qualcosa che è permanente-mente incompleto è molto potente e la mitologia lo è nello stesso modo, è sempre “rotta”. Ci sono tante versioni del mito di Medea: tutti sono in disaccordo, ci si chiede se quanto successo è vero o quale mito sia veramente in atto. Tutti hanno una versione diversa, tutto è frammento: ma dal frammento ricreiamo sempre qualcosa. Stiamo tutti costruendo un mondo a partire da cose rotte – le nostre vite, le nostre emozioni, le nostre speranze incluse – eppure dobbiamo continua-re: raccogliamo pezzetti e andiamo avanti...

D. S.: Quello che possiamo fare è cercare di creare delle composizioni di volta in volta diverse...

Peter Sellars: Sì, proprio così. È questo l’atto forte di perseveranza umana e de-terminazione. In Kafka Fragments le immagini che fanno da sfondo, proiettate di continuo, sono di persone coinvolte in progetti di recupero, in comunità per alcolisti e tossicodipendenti: persone che avevano la vita a pezzi ma che hanno iniziato a raccogliere i pezzi per ricostruirsi la vita.

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D. S.: Questo sembrerebbe an-che tipico dei nostri tempi...

Peter Sellars: In realtà è di tutti i tempi: anche nella Gre-cia antica, dove tutti arriva-vano da posti strani, lontani, o da qualche mito parziale. A Epidauro il mio compagno di viaggio è stato Pausania che, viaggiando di posto in posto, incontrava popoli diferenti, con racconti di storie diversi.

Non è mai una questione di fatti, ma di diverse storie: osservi un rito in un po-polo e lo osservi come cambia in un altro, così ritrovi lo stesso mito associato a un altro rito, con un altro signiicato. Secondo me è sempre stato così, una que-stione di pezzi rotti: anche ai tempi di Pausania era già tutto rotto, e lui aveva il compito di ricostruire, con tutte le contraddizioni, con tutte le informazioni mancanti e con tutti i frammenti che non si assemblavano, con l’obbligo di fare una scelta tra opzioni diferenti. Adoro tutto questo! Lo stesso mito può essere trattato in un modo da Sofocle e in modo completamente diverso da Euripide. Ora, a Chicago, in febbraio, metterò in scena l’Eracle di Händel basandomi su Le Trachinie di Sofocle. Ma quando dici “Eracle” ti chiedi: quale Eracle? È una domanda signiicativa. Tra l’altro, avendo già messo in scena I igli di Eracle di Euripide, ho riscontrato una serie di problemi particolari. La morte di Eracle, ad esempio, è completamente diversa: stesso personaggio, diversa morte, diver-sa storia, diversa traiettoria... Ce ne sono tanti di Eracle! Da dove cominciare? Per me la questione è sempre stata questa.

English Abstract

We met Peter Sellars last November in Rome during the Romaeuropa Festival 2010. He was there for the Italian premiere of Kafka Fragments, the staging of the opera by György Kurtág. he American director talked about several topics: the idea of mythology in the present day; the concept of ‘resonance’; how cinema has inluenced his approach to theater; montage in the art of theater, and the importance of classical culture in the founding myths of America.

Dawn Upshaw e Geof Nuttal in Kafka Fragments.

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La creazione del frammento.Kafka Fragments di Peter Sellars

Personalità eclettica, Peter Sellars spazia dalle produzioni internazionali del teatro lirico, il teatro musicale, e dal teatro di prosa all’animazione teatrale in situazioni marginali, socialmente problematiche; si confronta spesso con i classici, la tragedia greca ma non solo, e fa liberamente uso dei nuovi media. Storicamente viene poco dopo la sperimentazione avanguardistica di Robert Wilson, ed avendo cominciato a lavorare dagli anni ‘80 si colloca artisticamen-te a pieno titolo negli anni ‘90 ino ad oggi. È dagli anni ‘90 che nel teatro si regista la tendenza a tornare al testo dopo l’elaborazione dell’esperienza della ‘drammaturgia visiva’ che ha avuto la massima difusione tra gli anni ‘70 e ‘80. Secondo Valentina Valentini, la seconda ondata di artisti americani – che comprende per fare qualche esempio: John Jesurun, Robert Lepage, il Woo-ster Group – prende le distanze dalla precedente per efetto di una reazione, generalizzata negli Stati Uniti, “al conformismo degli anni Ottanta dell’arte e della cultura, al cinismo e yuppismo post-avanguardistico che a sua volta na-sceva dal riiuto dell’impegno totale della generazione degli artisti della neo-avanguardia” (Valentini 1999, 63).

In sostanza si tratta come ha osservato anche Bonnie Marranca di un riiuto di un certo formalismo disimpegnato, e in qualche modo di un ritorno, per quanto di-verso, all’impegno politico che aveva caratterizzato le neo-avanguardie degli anni ‘60 e ‘70. E infatti Peter Sellars, alla domanda sulla sua posizione rispetto al nuovo teatro americano risponde di aver visto Einstein on the Beach cinque volte, di am-mirare la grandezza di Wilson ma di non apprezzare troppo il suo formalismo che manca, a suo giudizio, di “presenza morale” (Sellars in Pomarico [1997] 1999, 80).

Di fatto Wilson e Sellars si collocano ai due poli che danno forma al mythos, come li ha individuati Aristotele nella Poetica in riferimento alla tragedia: la mimesis praxeos (l’imitazione delle azioni) e l’opsis (la visione). Wilson in occa-sione di un’intervista, alla domanda sull’afermazione di un giudizio morale su Stalin, relativamente all’opera he Life and Time of Joseph Stalin risponde appellandosi alla sospensione del giudizio, evidentemente al di là del bene e del male: “No. Guarda Ivan il terribile di Ejzenštejn. Non ti vien fatto di dire quanto è malvagio. Lo è e basta. Tutto diventa scenico e non giudichi più, guardi e basta” (Wilson in Adnan 1976, 20). Questo è il regime della pura vi-sibilità, dell’opsis, dove si annulla il giudizio per far emergere la crudezza della cosa in sé. Sellars di contro non vuole annullare il giudizio e quanto intende mettere in scena sono storie, o non storie, che hanno la capacità di comunicare un senso morale. Entrambi sono americani ed entrambi rivendicano inluen-

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Daniela Sacco La creazione del frammento

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ze comuni nella loro formazione, a partire da Gertrude Stein a cui Wilson si è esplicitamente ricondotto, e con cui Sellars condivide la città d’origine, Pittsburgh in Pennsylvania e ha condiviso la casa parigina, nella quale il regi-sta diciottenne ha trovato ospitalità.

Quello di Sellars è un teatro politico; il teatro è “un dialogo con il testo e fra gli attori, è una conversazione sempre aperta tra persone che collaborano” (Sellars in Pomarico [1997] 1999, 79). Il teatro di cui vuole essere portavoce “è cambiamento” e in questo segue la via aperta da Brecht che con Mejerchol’d è tra i principali riferimenti nella sua formazione. Sellars in particolare, anche rispetto a Wilson, rivendica continuamente le sue origini americane, la sua nazionalità, e questo proprio perché il suo teatro è connotato politicamente. Il contesto in cui si fa teatro è un aspetto imprescindibile per il regista statuni-tense, dovendo essere un luogo di confronto e condivisione è fondamentale in esso “dare forma a una esperienza comune” (Sellars in Marranca [2004] 2006, 149) e questo può avvenire solo sulla base di una consapevolezza profonda del contesto in cui si agisce. Sellars lavora con artisti americani e crea negli Stati Uniti le sue produzioni nella convinzione che il teatro debba “fondare le sue radici sulla sua infanzia, sul suo futuro condiviso, sul suo passato in comune”. Porta nel mondo le sue opere consapevole del iltro culturale americano che propone alle altre culture ed è cosciente di metterlo continuamente in discus-sione. Il teatro richiede la comunicazione e il dialogo perché “riporta sempre alla questione della democrazia”. Questo aspetto è centrale nella poetica di Sellars che non si stanca mai di dichiarare continuamente il debito che il teatro contemporaneo dovrebbe riconoscere con la tragedia greca.

Nell’ottica del regista statunitense, il teatro dovrebbe ritrovare la funzione per cui è nato, ossia come “una delle prime pietre miliari nella storia dell’istitu-zione della democrazia” che “forniva ai cittadini l’informazione di cui avevano bisogno per votare, facendo loro udire voci che normalmente non ascoltavano”. E come modello di riferimento per il teatro contemporaneo assieme al potere visivo del teatro greco Sellars rivendica anche “il potere acustico” e “lo spazio sonoro, spazio d’ascolto” proprio del teatro antico che era pensato, anche in funzione di questo, in termini architettonici. In questo spazio sonoro, in que-sta struttura pubblica che contempla un posto per ogni cittadino, trovano col-locazione le voci che sono ignorate nei centri di potere, in questo senso il teatro è il luogo fondante della democrazia. Il proprium del teatro secondo Sellars è la condivisione dello spazio, e questa peculiarità lo distingue profondamente dal cinema; è fondamentale tenere conto di questo aspetto nel momento in cui si considera la trasformazione che il teatro ha subito nel Novecento a seguito dell’inluenza dei nuovi media. Il teatro è sì il luogo della visibilità ma è anche il luogo della condivisione e questo aspetto, secondo Sellars, ne sancisce anche la priorità; perciò nell’intervista pubblicata in questo stesso volume aferma:

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Nel teatro tante persone si riuniscono in uno spazio che alla ine della serata non è né il ‘mio’ spazio né il ‘tuo’ spazio, ma uno spazio condiviso dove si ha un’esperienza condivisa, dove i conini sono dissolti. Per il cinema non è così: il ilm ha il proprio spazio e il pubblico, a sua volta, ha il suo; è uno spazio mentale perché lo spazio isico non è lo stesso. Quindi per me la ragione per cui il teatro ha la priorità è proprio la condivisione. (Si veda, infra, Intervista a Peter Sellars)

La consapevolezza della natura intrinsecamente democratica del meccanismo teatrale sembra essere derivata anche dalla concezione che l’artista ha dell’idea di democrazia nel suo valore fondante nella cultura americana. Quell’idea di democrazia che proprio rispetto all’antico modello greco ateniese è stata parte costitutiva del mito di fondazione della cultura e della politica americana; a questo proposito Sellars è molto esplicito:

L’America è stata fondata con molta consapevolezza su dei principi ateniesi, nel tentativo di capire la democrazia ateniese, e con altrettanta consapevolezza le strut-ture del nostro governo si sono basate sui modelli di Atene, sui testi classici. Non è a caso che in America l’uicio postale abbia i capitelli corinzi, o la Casa Bianca un’architettura che si rifà alla classicità greca. Queste cose non sono a caso: ci siamo costruiti nell’immagine di Atene e su quella che era la promessa della democrazia ateniese. Per me i testi greci sono fondanti del mio paese, non fondanti di un qual-siasi altro paese: per me hanno un signiicato personale. E credo che lo abbiano avuto anche per Jeferson e Franklin che hanno anche dibattuto a lungo su questi temi, cercando di tirarne fuori un futuro, cosa che non era stata possibile nell’Atene di Pericle, che infatti è collassata. (Si veda, infra, Intervista a Peter Sellars)

Ed è rispetto al costante pericolo del collassare della democrazia o al pericolo della sua crisi, del suo misconoscimento che Sellars impronta l’azione del suo teatro. Si tratta di un’azione politica, ma anche di un’azione estetica e culturale, per cui rispetto alla politica intesa in senso stretto la inalità non è quella di ottenere nell’immediato un qualcosa, ad esempio la riforma di una legge, ma di agire in profondità, per mirare a una trasformazione che avviene nel tempo, attraverso le generazioni e con delle conseguenze a lungo termine. E questo, se-condo Sellars, è il proprium della dimensione artistica in cui si colloca il teatro.

Anche per questo, per la natura eminentemente poietica del teatro, Sellars afer-ma che il suo lavoro implica “la creazione di un autentico sistema mitologico, in cui risuonino una serie di immagini, e che permetta a una certa società di parlare a se stessa” (Sellars in Shewey 1984, 24). Si comprende questa afermazione se si considera che nel teatro di Sellars il visivo e auditivo sono considerati inscindibili e il signiicato della parola mito è ricondotto all’accezione del ‘dire gli univer-sali’ coniata da Aristotele a cui di frequente il regista fa riferimento; e il mito è ugualmente ricondotto anche al signiicato personale dell’esistenza singola, e

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nella vicenda incarnata individualmente dal personaggio teatrale in cui ‘risuona’ il valore universale. Il concetto di risonanza, che ricava dalla conoscenza dell’uso del suono nel teatro Nō, è indicativo per Sellars dell’importanza della musica nel teatro al punto da fargli afermare tra i due una perfetta equivalenza o – che è lo stesso – di non essersi mai occupato di prosa in vita sua (Delgado 1999, 28). Per questo considera l’opera il genere teatrale da privilegiare, per l’utilizzo della mu-sica che, se da un lato ha una formulazione completamente astratta – gli artisti cantano note e non si confonde il cantante dal ruolo che impersona – dall’altra implica anche una identiicazione emozionale totale, e questi due aspetti sono simultanei, implicando al tempo stesso distanziamento e immediatezza emotiva (Trousdell 1991, 67-70). Per questa stessa ragione può afermare come la poetica brechtiana sia stata redenta dalla musica e che la musica implica di per sé un efetto di straniamento. L’opera è da privilegiare in un’epoca in cui la questione dei rapporti e delle interazioni tra le cose è centrale:

Per la sua dimensione multilingue, multiculturale, multimediale, per il suo aspetto diacronico, dialogico, dialettico, per quel strano diletto che provoca, è la sola forma capace di evocare e di rappresentare la simultaneità degli eventi, la loro confusione, la loro giustapposizione, l’amara tragedia del mondo – in breve, tutto il caos che costituisce la trama della storia contemporanea. (Sellars [1989] 2003, 16)

Sellars intravvede nell’opera la tragedia greca analizzata da Aristotele: “Nella Po-etica sostiene una sintesi ibrida composta da musica, danza, poesia, di pittura e di spirito civico”, genere che è stato continuamente reinventato nel corso delle epoche ino ad arrivare alla contemporaneità. L’amore per l’opera lo ha portato ad occuparsene di frequente e a essere il più delle volte iconoclasta rispetto alla tradizione consolidata del genere. Un esempio signiicativo di reinvenzione di opera è Kafka Fragments andato in scena per la prima volta nel 2005 a New York, e portato in Italia nel novembre del 2010 al Teatro Palladium di Roma, in occa-sione del Roma Europa Festival. Quest’opera, come molte altre, afronta un tema ricorrente nelle produzioni di Sellars: il confronto tra culture diverse che si ritro-vano a vivere assieme, la questione della condivisione, della comunione. Il regista infatti non si stanca mai di ripetere che la questione fondamentale del XXI secolo è come condividere il territorio e le risorse pianeta: è la massa di persone che ab-bandonano le loro terre in cerca di cibo, protezione, asilo nel mondo occidentale. Kafka Fragments è messa in scena dell’opera composta da György Kurtág per soprano e violino su una tessitura di frasi tratte dai diari, lettere e aforismi privati di Franz Kafka. I Kafka Fragmente, creati tra il 1985 e il 1986 dal compositore romeno naturalizzato ungherese, sono costituiti da quaranta frammenti, divisi in quattro parti, che musicati durano da una manciata di secondi ino a sette minuti.

I frammenti che il compositore seleziona da Kafka sembrano corrispondere allo stile aforistico che lo contraddistingue, in cui brevità e profondità fanno la qua-

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lità delle sue ricerche sul suono. Questi frammenti sono estratti dal contesto d’origine e ridisposti secondo delle costellazioni a cui Kurtág dà una coloratura esistenziale e psicologica, e non a caso dedicherà l’opera alla sua psicoanalista. I temi che emergono dalla selezione sono vari: si spazia dall’amore, il sogno, la disperazione, l’esilio, alla salvezza, gli animali, il sentiero, il suolo. Portati sulla scena i frammenti sono cantati da un soprano e musicati da un violino, acco-stamento ardito, ma coerente alle sperimentazioni di Kurtág, se si pensa che il suono risulta più acuto della voce diversamente dal canone che vuole il suono più grave rispetto alla voce. Soprano e violino si avvicendano così per tessere la partitura dei frammenti, che sono scollegati come in un lusso di coscienza ma trovano un il rouge proprio in questo duetto di voce e suono, in cui spesso il violino gioca con le onomatopee aiutando così la recezione del testo cantato. Ma soprano e violino sono anche personaggi: Sellars attribuisce alla prima il ruolo di una casalinga e al secondo quello di un musicista da strada. Per cui i frammen-ti, altissimi nella tensione poetica che sprigionano, vengono catapultati a terra, perché cantati dalla casalinga impegnata tra una faccenda e l’altra. Il passaggio tra un atto e l’altro è scandito dall’avvicendarsi della casalinga tra una tavola da stiro, un secchio, uno straccio, una ramazza, nella volontà di creare un contrasto forte tra le altezze dello spirito ma anche le passioni dell’anima e la banale realtà quotidiana.

E il violino accanto incarna nelle intenzioni del regista lo zingaro che solo, per strada, non ha una casa e non avrà mai una casa. Il tema del frammento è da Sel-lars strettamente collegato a Kurtág e alla sua condizione di rifugiato. Si tratta di fatto dello stesso valore che acquisisce il frammento nell’esperienza dell’esilio osservata anche per Brecht. Kurtág più precisamente compone i Kafka Frag-mente in virtù del suo essere rifugiato, avendo alle spalle l’esperienza dell’esilio a seguito della rivoluzione ungherese del 1956. La frantumazione è tutto quello che rimane della vita precedente; ovvero come nel caso di Brecht, è l’unica for-ma di pensiero di cui si è capaci vivendo in una condizione precaria di esilio. E dai frammenti c’è la possibilità di ricominciare la ricostruzione per una nuova esistenza: Sellars riconosce questa condizione come propria dell’esperienza degli immigrati, che ricostruiscono le loro vite e creano nuove narrative dai pezzi rotti. I frammenti tratti dalle macerie trovano quindi nella composizione la possibilità di una nuova combinazione e di una ricostruzione; quello vuole far vedere in scena Sellars è infatti anche un grande meccanismo in cui vengono montati e ri-composti i frammenti che sono leggibili su schermi alle spalle dei due personag-gi e si alternano a una serie di immagini proiettate di continuo, che fanno da eco o da contrappunto ai testi. Si tratta per lo più di immagini di persone – come ci racconta Sellars in occasione di un’intervista alla prima romana dello spettacolo – “coinvolte in progetti di recupero, in comunità per alcolisti e tossicodipendenti: persone che avevano la vita a pezzi ma che hanno iniziato a raccogliere i pezzi per ricostruirsi la vita” (si veda, infra, Intervista a Peter Sellars).

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L’idea del frammento è intrinsecamente legata a quella di montaggio. Ne è parte costitutiva, la particella elementare e però allo stesso tempo rimanda alla composizione, all’intero senza avere la pretesa di esserlo; per questo incarna “l’idea di una verità frammentaria” e però in grado di rappresentare la verità, perché “non pretende di essere totale, perché dice sin dall’inizio che è una comprensione parziale, e non pretende di essere l’intero”.

Il frammento apre all’intervallo, all’interruzione della narrazione permessa dall’operazione del montaggio che, interrompendo il lusso normale della nar-rativa, lima i margini della verità, o di una particolare narrazione per sovrap-porne altre. Per Sellars l’uso del montaggio è un meccanismo tanto potente perché “crea una situazione in cui guardi le cose da tante sfaccettature anziché da una sola, da tanti punti di vista diferenti”. Allo stesso modo “la narrazione non è mai una singola narrazione, ossia non vi è un singolo montaggio: ma sono sempre narrazioni ‘multiple’, ovvero immagini multiple. Tutto è multiplo e dunque vi è spazio per molte narrazioni e meta-narrazioni”.

Il meccanismo del montaggio è quanto è esplicitamente utilizzato in Kafka Frag-ments sia nella composizione di Kurtág che nella messa in scena del regista ameri-cano, e scopertamente visibile a partire dalla sua particella costitutiva elementare: il frammento. Ma il montaggio è anche il metodo con cui Sellars compone le sue opere sia che si costruiscano su vicende sia che non abbiano una trama deinita, o immedia-tamente riconoscibile. In entrambi i casi il montaggio è cruciale, e come ha osservato lo stesso regista si tratta di un meccanismo assolutamente contemporaneo ma allo stesso tempo antico, si tratta della stessa tecnica con cui lavoravano i tragici greci:

Sofocle creava sempre degli episodi che poi venivano tagliati e in cui inseriva il coro: in lui non vedi il dispiegarsi degli eventi nel tempo reale, c’è tantissimo che non mostra, anzi esclude. Sofocle presenta un momento molto speciico nel tempo, poi taglia in un altro momento e aianca questi due momenti nel tempo contigui: ciò ha un impatto emotivo straordinario, esattamente perché Sofocle lavora al montaggio di questi pezzi. […] Da questi momenti distribuiti nel tempo che normalmente non vengono attaccati assieme, ma che vengo-no connessi grazie a questa tecnica, si ottengono dei contrasti molto intensi e molto estremi. Si crea una crisi, ma anche qualcosa di più profondo, ossia la consapevolezza che tutto è connesso. (Si veda, infra, Intervista a Peter Sellars)

Il frammento è divisione e congiunzione al tempo stesso, e frammento è parte nella misura in cui può valere per il tutto senza sostituirsi ad esso: nel montag-gio, come aveva notato anche Ejzenštejn vale il meccanismo della pars pro toto. Il frammento, la parte, lo speciico è sempre l’indicazione per sineddoche di qual-cosa di più vasto, per cui, sempre secondo Sellars nella parte c’è l’incontro tra re-altà condizionata e realtà incondizionata, e sempre rifacendosi alla tragedia greca:

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Edipo Re è una realtà condizionata: c’è quella madre, quel padre, tutto nella sua vita era basato su un certo numero di condizioni; ma d’altro canto, quello speciico gruppo di condizioni porta a una realtà incondizionata. Come esseri umani noi non sappia-mo nulla di noi stessi, le speciiche condizioni di quella realtà condizionata sono un indicatore della realtà incondizionata, di una verità più grande che in qualche modo guida la verità più piccola. Quindi sei dentro a un rapporto di verità relativa, di verità condizionata, di verità provvisoria e di verità più grandi, che rimangono tali attraverso un tempo più o meno lungo e attraverso periodi della storia più lunghi e vite diverse. (Si veda, infra, Intervista a Peter Sellars)

Questa frizione tra condizionato e incondizionato si gioca nel presente teatrale dove si incontrano due temporalità: il kairos, il tempo opportuno, si interseca con l’aion, il tempo aoristico. Per questo Sellars aferma che:

La bellezza del montaggio è che si contrappone un’esistenza precedente con un’esistenza che è ora. Mettere due cose una accanto all’altra, ha l’efetto di scioccare attraverso il processo lungo delle loro esistenze, cattura l’attenzione proprio perché si avverte un salto nell’ordine delle cose, e non si percorre, in-vece, il lungo sentiero tra loro.

Allora il frammento:

Il pezzo di giuntura che viene inserito diventa quel lungo sentiero: ed è lì che ci sono i secoli, che quindi passano tutti in un inserto, in un punto solo. Quindi ta-gli vengono fatti attraverso il tempo, attraverso lo spazio e attraverso il processo...

In questo senso si comprende anche il valore di tipicità e universalità preci-pitato nel frammento. E se colleghiamo le parti attraverso giunture, questa interconnettività, ci insegna Sellars, si chiama poesia.

English abstract

On the occasion of the Italian premiere of Kafka Fragments, the Peter Sellars’ staging of the opera by György Kurtág, this paper proposes a relection on the American director, on his idea of mythology in the present day and the importance of classical cultur in his work.

Riferimenti bibliograici

Adnan 1976E. Adnan, Intervista con Robert Wilson, trad. it. in F. Quadri (a cura di), Il teatro di Robert Wilson, Venezia 1976.

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Delgado 1999M. Delgado, “Fare teatro, fare società”: un’introduzione al lavoro di Peter Sellars, in M. Delgado, V. Valentini (a cura di), Peter Sellars, Catanzaro 1999.

Marranca [2004] 2006B. Marranca, Etica e performance: domande per il XXI secolo. Conversazione con Peter Sellars, in V. Valentini (a cura di) American Performance 1975-2005, Roma 2006.

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Trousdell 1991R. Trousdell, Peter Sellars Rehearses Figaro, “he Drama Review”, 129 (primavera 1991).

Valentini 1999V. Valentini, Interculturalismo e modernismo nel teatro di Peter Sellars, in M. Delgado, V. Valentini (a cura di), Peter Sellars, Catanzaro 1999.

Pomarico [1997] 1999P. Sellars, La vera vita del teatro, intervista a Peter Sellars di A. Pomarico, con interventi di F. Maurin e J. Féral, in M. Delgado, V. Valentini (a cura di), Peter Sellars, Catanzaro 1999.

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Appendice

“here is a cloud in a piece of paper”.he actuality of myth in the theater of Peter Sellars*

Daniela Sacco: I read some interviews with you in which you talked about ‘making mythology’ or creating ‘mythological systems’ where ‘ images resonate’. Could you tell me what do you mean exactly by these expressions? What does mythology mean to us nowadays?

Peter Sellars: I think many things have to do with your childhood, certain images that you have when you are very small and coming into the world and when you are deeply impressionable. Later in your life you have experiences that touch those very deep early impressions. So it’s very much in the same way that psychologists understand that life habits are formed at a very young age, by your irst perceptions and by this early period of taking things in. And that’s why people are beginning to realize that the most important thing you can do is to make sure that in the kindergarden children are really take care of. Ac-tually the deepest investment in a human being is early on, not later, and what’s really empowering is this early time. hat’s when somebody is empowered or disempowered as a human being. So the impressions that you have at this time in your life create a kind of “echo-chamber”, which means that later, when you feel something touching those impressions, it goes to the core of your being and your formative moments as a human being. So it doesn’t just become more information, it actually touches something that is very, very deeply at the core of your individual identity. Now just to take Plato a little further: our childhood is also many previous lifetimes and so these impressions actually go back many many lifetimes and so what happens is that we are in the middle of an impres-sion that was created a hundred lifetimes ago. Suddenly something touches that core of our being from some previous lifetime: that’s mythology. It’s something that you know very well from an early formative time in your existence. his “echo-chamber” is set up. So there is a resonance and resonance is something very special that happens in classical music. I would suggest you to hear this performance of Kafka Fragments in a really beautiful concert hall. For example, in London, we did it in the Barbican’s concert hall, where the London Sym-phony Orchestra plays. his hall is made entirely of wood, wood is everywhere. So when Geof Nuttall plays the violin the resonance of the wood against the wood creates warmth, there is a special intensity and this presence of the sound.

* English editing by Silvia Schiavinato and text revised by Jenny Condie.

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Here in Rome, the Palladium’s architecture is really made for rock music. So there is no resonance, the violin is a little cold, a little alone and “notes are just no-tes”. Whereas resonance is when the environment responds, and a sound or an impression goes further than itself, because the environment recognizes it, has in some sense a solidarity with it, a relationship that is sympathetic. So an impression becomes deeper, richer, more profound. To give another example, in Los Angeles we have an amazing concert hall, designed by Frank Gehry, the “Walt Disney Concert Hall”, where we did Kafka Fragments. he concert hall was built by Yasuhisa Toyota, using the same building techniques employed in traditional Japanese Nō theater, in which everything is made of wood. But in Japan, drums are placed underneath the stage, so when the actors walk around there is a very strong resonance, because the stage itself actually resonates like a percussion instrument. he same is true for Epidaurus. Acoustic quality was enormously important question in Greek aesthetics, because in Greece theater was all about acoustics, sound, and the mask-persona through which sound was made. Everything was about this question of resonance, and the Greeks were really concerned with something that touched some inner part of your being, that was not just the surface. Just like Mr Toyota designing the concert hall according to the Japanese principles of Nō drama, with smooth surfaces under which there are these big drums that resonate and hold the sound. In Greek amphitheaters the sound was held by the curves of the architecture of rectangles, but an architecture which was deep resonator, that held sound in this special way. his receptacle is so important because it receives, holds and ampliies. So it’s not just taking something from outside and bringing it in, but the resonator is actually inside the human being.

D. S.: I would like to ask you about your idea that theater ‘reveals the invisible’. What do you mean by the invisible? What is invisible? Is there any connections with what Paul Klee said when he stated “the arts don’t reproduce the visible but make visible”? Is it possible to speak in the same terms about the theater?

Peter Sellars: Very simply: courage is all around us, but it’s invisible, you can’t touch it. Love is everywhere but it’s not visible. he most important feelings, the most important arts, the most important principles of your life are all invisible. he visible world has almost nothing to do with your feelings and the visible world is a miracle: the light on the trees at the end of the day, in Rome yesterday was unbelievable; the full moon coming up in the later afternoon... he visual world is magniicent, but as the Koran says, the world is a book made to be read, and beauty is not just the moon, the sunset, the swallows making their patterns as they come down to the river, but it is also a message: you learn to read the sky, you learn to read the moon or the sun. hese are all texts, they are also a message about a larger creation, about the longer length of a life’s cycle. So the visible world, as the Koran says, is a sign, and not itself the object. I feel about the

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musical score of Kurtág and Kafka, that it’s neither the beginning point nor is it the end point. It is the vessel, the journey. It’s not the destination and it’s not the point of departure. he point of departure has to be something deep inside you. So if you are having some deep experience, when you look at the sky, you see all kind of things and the sky means all these other things. he visible world is only made to be activated by your own inside, feelings and inner life. But also again, in reverse, it’s made also to activate and reawaken your own life’ questions and to remind you that you have been given another day, that the sun will rise again and that you can try again. hese are all profound messages and so the circles in the world and the straight lines are, as Plato said, an indication of another geometry, another kind of order. I believe that this is science’s power, that is why I believe that art is a parallel of science, that it is looking at the visible world for its inner principles and for what else it is telling us. Not as a ending itself, but as an indication of larger realities or more speciic patterns and order, a deep order.

D. S.: You have talked elsewhere about your formative experience with puppetry and cinema; could you tell me why you decided to work mainly in the theater rather than in ilm?

Peter Sellars: For me it’s probably the social element that makes theater more important: theater is sharing space and the whole question of the XXI centu-ry is ‘Can we share the planet?’. Can we share the planet with the rest of the world? With other people? his question of ‘Do you receive foreigners?’ was one which of course obsessed the Greeks. What is it that is not shared about life in this planet? he most powerful thing is not to build the wall between Israel and Palestine or between the United States and Mexico, but to ask the opposite: what do we share? heater is the search for what we share and the assertation of what we ind. In theater a lot of people come together in a space which, by the end of the evening, becomes not “my” space or “your” space, but a shared space where we had a shared experience. Where the borders are dis-solved. Where we truly ind these points of shared experience in space. For me ilm doesn’t share space in the same way: ilm has its own space, the audience has its own space; it’s really a mental space, but the actual physical act of sha-ring a room together is not the same. I think that the reason why for me the-ater has such priority has to do with the land rights of indigenous people, the water rights of indigenous people, the fact that again farmers are committing suicide in India and in Ohio. his question of land and how we share this land and how we treasure it. he earth isn’t just something to be divided up and sold, it’s sacred. We have to admit the sacredness of the earth, of the food, of the air, of the water. You can’t just buy or sell it. here is something sacred, the water belongs to all of us: when Coca-Cola company buys all the water in the world – which is what it is trying to do – we have a crisis. So really this shared space, reminds everybody that the earth is sacred, the air is sacred, the water

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is sacred, the light is sacred, the plants are sacred, the animals are sacred, that life has a sacred dimension; not in the manner of organized religion but in the manner of theater. Where everything has its resonance, its aura, its mistery, its depth. It becomes more touching, it becomes something ininite. We have a inite quantity of water, but an ininite level of generosity. Certain things are ininite: love, courage, generosity, honesty. Other things are limited: the do-main of water, the domain of land. It’s really about understanding how we use the things that are ininite, and how we correctly use the things that are inite. heater is the meeting place of that ininitude and this speciic social limita-tion which is about sharing. Cinema is a great language, I have a great love of cinema before cinema: Chinese watercolour painting, or traditional Chinese and Indian theater, or Javanese shadow puppets, or cave paintings. hey were all cinema before cinema: this cinematic impulse is so deep, it doesn’t come only from the XIX or XX century, nor do the ideas of montage and cutting...

D. S.: Yes, I would like to discuss the importance of montage for you in the way you construct theater. I think it’s really important today, for the theater as well as the cinema. Did you learn about montage from cinema?

Peter Sellars: Montage is crucial; it’s also in Sophocles’ works. Sophocles always created some episodes that he then cut and in place of those episodes he put the chorus. In Sophocles you can’t see simple real time, because there is a lot that he doesn’t show, that he cuts out. He only gives you a very speciic moment in time and then he cuts to another moment in time and then he puts these two mo-ments in time next to each other. It has an incredible emotional impact, precisely because Sophocles is constructing his pieces, in chorus even more so, from these moments in time that normally will not come together, and by putting them right next to each other, the contrasts are so intense and extreme that he creates a crisis, but he also creates the deeper thing which is that everything of course is linked. Montage is simply saying: any two things in the world are connected. And we are going to connect them across this supply and the interconnector is the poetry: this chair isn’t just this chair, this theater isn’t just this theater, so nothing is just itself. Everything is itself in relation to this question of interrelation and that is where montage is so exciting, because it really sharpens, and heightens and dee-pens that sense of relation. When I was in university my obsession and my thesis was about Meyerhold and Ejzenštejn, and the dawn of cinema. I was inluenced by silent cinema. I really specialized in Griith, early Hitchcock, Godard... but in terms of silent cinema, the really great period of my life was in Brussels, where in my twenties I worked on many projects, and where there was a cinemateque that every night showed two silent movies, with live music. So I lived there. I love the idea of cinema and live music. In this Godardian way, the soundtrack and the image-track are diferent: you have the tension between the soundtrack and the image-track. hat’s a very satisfying thing, rather than the Hollywood thing that

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the soundtrack is the slave of the image-track. I love having not a “master slave” relationship, but a relationship between two consenting adults, who can agree or can disagree, and can come together or separate. So for me that’s one very exciting element of montage: montage separates sound and image, and creates the possi-bility that each can have the wrong narrative low and narrative dimension, then, when they come together, a complex experience is created.

D. S.: I’d like to know more about the relation between mythmaking and montage. I think that both myth and montage are ways of describing the relation between par-ticular and universal, in the sense that both tend to represent the “typical”. I’m thin-king about the concept of the generalized image and of the pars pro toto in Eisenstein’s speculations on montage. Do you belive that there is such a relation?

Peter Sellars: Yes, and the relation is also between metaphor and metonymy. An example that I often give is that of the Buddhist image of the piece of pa-per and the cloud; the idea is that when you see a cloud you see a piece of paper, or when you see a piece of paper you see a cloud. hat’s because a piece of paper comes from a tree, and for that tree to have become a piece of paper, there had to have been a lumberjack cutting down the tree and there had to have been a paper-mill, there had to have been the lumberjack taking his lunch break. here had to be everything in world because it becomes a piece of paper and you can see it. But for the tree, which is in the forest, there had to have been the sunlight, the rain, a cloud... So, when you see a piece of paper, you see a cloud. It’s because, as the Buddhists say, everything contains everything and is not just itself: a piece of paper is not only made from paper but f rom elements. his is really important. Plato imagined that we had been in this world befo-re, that our corpses decomposed and came back as trees, as rocks, as plants, as animals, hundreds times. It’s not just a poetic image, it’s a physical reality. We have decomposed many times and come back in some other forms. So this is physical as well spritual process. he beauty of montage is that it counters a current existence with a previous one: again the inter-relatedness of things that for piece of paper to exist there has to have been a cloud. So, in the same way, if two things are put next to each other, the relatedness that is all of a sudden apparent shocks you and grabs your attention because it makes you jump all the other links, taking a shortcut between one thing and the other. Montage iswhere the long path is, where the centuries are, so they cross in one place. Cuts are made across time, across space, across process...

D. S.: Is it in these cuts that the “typical” manifests itself?

Peter Sellars: Montage goes from the speciic to the understanding that the speciic is an indication of something larger, again as the Buddhists say: condi-tional reality versus un-conditional reality. Oedipus Rex is a conditional reality:

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because he had this mother, this father, everything in his life is based on a par-ticular set of conditions; on the other hand that speciic set of conditions takes you to a conditional reality which is an indicator of un-conditional reality, of a larger truth which is somehow guiding this smaller truth. So you are in a rela-tionship of reality of truth, of conditional truth, of small truths, of provisional truth and of larger truths. hey are the main truths across larger piece of time, larger pieces of history and diferent lifetimes.

Daniela Sacco: Your theater is created in America and it is directed at an American audience, though it is also naturally, international in scope and in its reference to other cultures... Do you think that American culture has anything to teach to European culture?

Peter Sellars: Sophocles, Mozart and Shakespeare were writing about America! hey were all American! hey were writing very speciically about my country: in a strange way, they were all writing about power, about the handling of power. Today of all the countries in the world, America is the one that is truly experien-cing what those people were writing about. Every catastrophic social mistake that America has made in the last 20 years, Europe has repeated 5 year later. I could say: there is nothing to learn from America. he sad thing is that you have terrible things to learn, if this is how you start treating refugees, if you build more prisons, if this is how you conduct war, all of these are actually horrible things that have destroyed Europe over the last 20 years. Because Europe imi-tates America and European politicians imitate American politicians:vwe are seeing a catastrophy with Mr Berlusconi, with Mr Sarkozy, all of whom learned their conduct from America. So I feel, as an American coming to present things in Europe that I am giving Europeans a picture of what will soon be very fa-miliar to them and I try to warn people: ‘his is what’s coming’ and I’m sorry to say that the whole world is deeply inluenced by America at this moment. Everybody is closing their borders, everybody is waging economic war, everybo-dy is becoming egoist and selish and the result is economic and social stagnation in America, and now in Europe as well. So you watch Europe cutting itself of from the future and going backwards into a false image of the past: it’s painful. Right now in America and in Europe you see the rise of fascism again, it’s back: for example in Holland, whath incredible for me in this Kurtág piece, was the image of the gypsy violinist on the street who is homeless who will never live anywhere. he Romanian sound of Kurtág is, of course, the sound of that Eu-rope which was almost totally annihilated in Auschwitz and yet Mr Berlusconi continues his politicies unchecked. I feel that from America. I think Bulgarian theater becomes universal when it is most Bulgarian, not when it tries to imitate something else: I think we should always speak our own language as deeply as possible, with its own speciicity, its own interiority. Not just speak some other language which nobody else speaks. I think we all have to speak our language

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with our own deepest articulation and our ability to get in touch with culture through that language. In Japan people see in America some things that they recognize, other things they don’t; but I believe humanity has a sort of mirror where we all look at ourselves: it’s really interesting to look in a mirror of Sopho-cles, of Shakespeare and ind yourself, and so for me that’s why these texts exist: it’s not that they have a certain truth. here is no one truth in a certain moment, in a certain way from a certain group of people but quite the opposite: certain texts are mirrored across all of human history and every generation ind itself in a mirror and that’s what’s powerful.

D. S.: Do you believe that America should be a reference point for its youthful cultural approach?

Peter Sellars: I have to say that America was very consciously founded on trying to understand Athenian democracy and the structures of our gover-ment and our country were based very consciously on models from Athens and on classical texts. It’s not an accident that in America the post oice has these corinthian columns, or that the White House is built in the style of classical Greek architecture. hese things did not come about casually: we were modelling ourselves after an image of Athens and what the promise of Athenian democracy held. For me these Greek texts are the funding texts of my country. I think that homas Jeferson and Benjamin Franklin also took these texts very personally and struggled with them, and tried to draw from them a future that had not been possible in Periclean Athens which eventually, of course, collapsed. So it’s like saying that America is young, but compare to Periclean Athens, it is old: democracy has been going on longer in America that anywhere else right now, and has run into real and serious problems. De-mocracy is really threatened right now by money, as it is here in Europe and everywhere else. Euripides and Sophocles were very clear about that and they said very simply: do not let money replace democracy. hey knew that this was the crisis point. So I look at these texts and I see my own country, both in terms of ‘where we are right now’, but also in terms of what the founding principles and myths were.

D. S.: Do you think that American culture has a special relationship with myth, or a particular sensitivity where mythology is concerned?

Peter Sellars: Yes, because America was already mythmaking from the outset and its goverment has always been seen through the prisma of mythology. he mythology of the Kennedys, the mythology of Richard Nixon: the mythology of that all American leaders are mythical, as well as real people, and all of them have known how to construct and use myth. So American culture has been ac-tively using the mythic from the beginning, because it was a country based on a

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larger idea, it was not based on ethnicity or any of the things that countries are usually based upon: it was a new idea, and therefore it wasn’t for the people, who had always lived there, because they were actually excluded, it was a mythology only for the people, who arrived there, plus all the slaves. So it was a strange country like no country that had ever existed before: it became a country of the mind, you have to imagine it, you have to say: ‘Ok, we are working on a large project’. And this large project was where all the Americans were and were they were represented. New America wasn’t just a country of facts, it was a country that represented certain values, aspirations, achievements: people from all over the world went there looking to build a new life, a new future. I don’t think that there is a country in history that had a incentive like that. It was a very unique mythology. People from all over the world said: “We will go to America and that’s where our future is”. hat’s incredible, generation after generation did that, and they created the future for themselves. hat’s why America was able to create this kind of economic and social miracle, in spite of all its lops. So it’s just amazing, and it was due precisely to these higher ideals, that were Athenian. We made this country with a completely diferent selimage; and that’s why it’s a nightmare when this country says no to immigration, and that English is the oicial language of white people only and judges all these other things to be An-american: because it’s a violation of the founding principles of the country.

D. S.: Your theater is political: so do you think that the mythical function of theater is political as well?

Peter Sellars: Yes, especially because myth is always moving in two ways: in one sense it is empowering because theater puts us in the presence of great he-roic actions of a previous era and so it lets us think that if in the past they could do these things, then in this era too we could do them. heater can be really inspiring in this way. But, at the same time, it can be horrify: it can act as a warning to control human ambition, when human ambition is political or eco-nomic or concerns honor, control or possession of hybris. Whereas mythology is very empowering when it is about thinking in larger and more creative ways, which across time and space invite you to share a larger idea of humanity, of human possibility. So mythology works in both directions: it’s a window on the ininite and also a reminder of human limitations. hat’s what’s powerful: it is unlimited, ininite, it opens your mind to shocking visions, but at the same time it says: “Watch out, those who ignore the limit will be killed”.

D. S.: Do you believe that the use of technology, which feeds on hybris, is a way to make mythology?

Peter Sellars: Yes, it’s so simple. Technology is a rock, it’s a pencil, it’s a rocket going to Mars: all of these are technology. Technology by itself is neutral: it’s

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just a pencil, whether you use a pencil to draw your daughter or a neutron bomb. What you hold in your hand is still just a pencil. For me mythology always exists in whatever form we have to communicate or to circulate information.

D. S.: So it’s in how we use technology that makes it human or inhuman?

Peter Sellars: Yes, technology by itself has no soul, it’s what you do with it: that actually reveals its power. We’ve all seen really bad movies and really good movies and strangely the mythology is in both extremes. King Kong is a re-ally bad movie, but it gave people a myth that remains potent and dangerous, racist and horrible. But it has remained nevertheless, and everybody has it in his consciousness: white people imagining black people raping a white wo-man. All this is ugly stuf from a bad movie about an ape made in the hirties. Now why is it that this piece of kitsch, this piece of junk has had such a long life? It’s interesting how these things work in our consciousness: certain things, particularly bad things, remain. Now suddenly Harry Potter is everywhere in these years. We have to ask, why is it that this particular mythology is making a real connection right now in people’s imagination? What are people inding in Harry Potter that resonates with their own reality? hat’s a really crazy question and maybe there’s a kind of strange longing for an ultra-conservative British boys’-school, whith its strict discipline, but in which at the same time there is total freedom to wave a magic wand and subvert the order. It’s as if there were a strange longing in this generation for some really horrible and conservative thing, where the answers to everything are simple and rigid, where there is an order that cannot be questioned but, at the same time, where you have the ma-gical powers to change everything. What is the Harry Potter myth feeding? hat’s such an interesting question right now. And also the need that everybody has to remain a child forever: even thought the Harry Potter actors are adults, they are still acting like they are fourteen years old. It’s like wanting to remain in high school forever. It’s such a strange moment where you get these pheno-mena. Culture has to do with our projections of people fantasies. We are all high school kids, but we are ighting larger forces. But, to come back to the possible relationship between technology and mythology, for me the question of technology is deeper. Technology is the new mythology in a really profound way. I think of the revolution in Chiapas where sub-comandante Marcos has waged mythological and real war. And because the facts of this struggle takes place on the internet, it means that although we aren’t actually there in the jungle of Chiapas, we are still there in solidarity. So, when the Mexican army attacks the campesinos in Chiapas, all over the world this attack becomes part of our lives. So the idea of people struggling in a remote place in Mexico becomes something that enters into our consciousness and all over the world you can see posters of the revolution in Chiapas. It is not just a revolution in Chiapas but it has become an image, an empowering image for people everywhere. At the same time, the

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fact that they can go on the web and they can say that the Mexican army is atta-cking, they can alert people all over the world and this creates, for the Mexican government a diferent set of choices and pressures, so the Mexican goverment can’t do something that would obliviously violate the world’s opinion, which is now in favour of the farmers in Chiapas. hat’s a very interesting thing where something is both reality and mythology: so in this moment in history, that pla-ce is both very present and very far away, and it presents us with certain things that we have been imagining, in many parts of the world.

D. S.: Do you think that mythology could substitute of history?

Peter Sellars: Between history and mythology there is only an interplay: history is what somebody said happened, so it’s already mythology. I’ll try to explain myself better: think about an event. You were not there, but if you were there, you only saw what you could see and the event is always bigger than what you could see of it. So every time we describe something, it’s mythology because we don’t have a complete vision and we have to depend on what somebody else tell us. It’s only by this act of hearing, only by entering into this mythical sphere that we can form a more complete idea.

D. S.: To come back to montage, in relation to what we have already said: do you be-lieve that montage has a particular function in relation to the narrative construction and could it enter into the relationship between truth and iction?

Peter Sellars: What it is powerful about montage is that interrupts normal nar-rative low and it sharpens the edges of truth. Normal narrative low goes along with whatever is happening, but montage questions each development, and it puts each development up for examination by creating a situation which lo-oks at something from diferent angles instead of from only one point of view. hat’s why montage becomes very powerful. You realize that history, that reali-ty are composed of diferent facets like the eye of a house ly: and the more dif-ferent facets you see, the more multi-dimensional reality becomes. So narrative is not a single narrative, it’s not a single image, it’s not a single montage: every narrative is “multiple”. Everything is “multiple” and therefore there is room for meta-narratives and multi-narrative. here is a large narrative that is behind the story which is being told and there are many smaller narratives that haven’t been included in the story which is beign told. And so we know that all these other narratives could, at any moment, intersect with other narratives.

D. S.: Probably, when you decide to cut a scene it’s always a political act...

Peter Sellars: Yes, and whenever the master narrative is interruped, that’s a good sign. hat’s why it’s so important to make fragments: because everybody

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knows that the master narrative is a “lie”. he big Hollywood movie, complete with swelling orchestral music, is a total lie! Interrupting it is a good sign! he only thing that we can trust is a small moment of truth that we can verify. We can work with these fragments. We can recombine fragments in whatever way: our lives, our societies have been broken, but out of everything that has been broken, we pick up small pieces and put them together... Kurtág, for example, wrote Kafka Fragmente out of his experience of beign a refugee: but what does it mean? hat when you escape under the fence, you have to abandon your previous life. And all that remains is a few fragments, you hold on to them and from those fragments you have to build a new life, wherever your life is con-tinuing. his idea of fragmentary lives and fragmentary life, broken systems and broken life experiences is really quite destructive emotionally and at the same time strangely liberating. Like in this experience of immigrants, who are actually rebuilding their lives creating new narratives out of the broken pieces. I think this is a special form of narration, something that I really appreciate in Beckett: it’s the understanding that the fragment is probably able to represent truth precisely because it doesn’t pretend to be total, it already declares that it is a partial understanding of someone, and because it doesn’t pretend to be all. he form of the fragment is really satisfying artistically. Which is why, in this century, the obsession with Greek ruins is growing: because a fragment is both “uninished” and incomplete and it will remain incomplete. his combination of something which is permanently incomplete is very powerful and mytho-logy is also that way, because mythology is always broken. here are many ver-sions of the Medea myth: everybody disagrees on it, and everybody wonders if what happened in this myth is truth or what the myth stands for. Everybody has a diferent version, so everything is fragmentary: and from that fragment something is recreated. We are all building a world where broken things are strewn around – including our own life, emotions and hopes – and we have to keep going: we pick up the pieces and move on...

D. S.: What we can do, sometime, is try to create diferent compositions...

Peter Sellars: Absolutely, that’s the powerful act of human perseverance and determination. In Kafka Fragments there are some images in the background, images of people in recovery programs, rehabilitation for alcoholics and drug-takers: they used their lives for sharing and they are now picking up the pieces to rebuild their life.

D. S.: his could be a metaphor of the present...

Peter Sellars: It’s always the same: in Greek times everybody was arriving from somewhere else, strange, faraway places, and they brought with them some partial myths. When I was visiting Epidaurus my companion was Pausanias.

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He went from place to place, meeting diferent people with diferent stories to tell. It was never a discussion of facts, it was about diferent stories: you listen to a folk tale and you observe how one myth changes into another myth, so the same myth is associated with another myth, with another meaning. I believe it’s always that discussion, a discussion about broken pieces: by the time of Pausanias everything was already broken, he had to reconstruct, with all the contradictions, with all the missing and diferent pieces of information. I love it! he same myth can be described by Sophocles and in a completely diferent way by Euripides. In February I staged Händel’s Heracles, in Chicago, and I based it on Sophocles he Trachinae... But when you say Heracles you ask: which Heracles? It’s an important question. I’ve already staged Euripides’ he Sons of Heracles, and there were many problems. he death of Heracles, for example, is completely diferent: same character, completely diferent death, completely diferent story, completely diferent trajectory... there are so many Heracles! Where do I start? his, for me, is the perpetual question.

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volume pubblicato da Centro studi classicAcon il contributo dell’Università Iuav di Venezia

editing a cura di Silvia GalassoVenezia • novembre 2012

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