Quadernetto sulla timidezza

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In principio era la vergogna N on ho mai riflettuto sulla mia timidezza. Du- rante tutti questi anni, l’ho accettata come una componente del mio carattere, impossibile da sradi- care, e mi ci sono talmente abituato da non farci più caso. Dipendo dalla mia timidezza e ci sono molto affezionato, come se fosse una passione indi- spensabile al mio «buon funzionamento». I tormenti, il nervosismo e le umiliazioni che mi causa mi dan- no la prova della mia esistenza, la mia dimensione in questo mondo. Lei, sono io. Forse ho finito addirittura per coltivarla, per os- servare con curiosità questa esplosione della mia mente, questo terremoto che si scatena in me non appena mi devo esprimere, le cui scosse percorro- no tutto il mio corpo, provocandomi tremiti, facen- domi arrossire in volto e grondare la fronte di una lava trasparente. La metafora del terremoto mi vie- ne spontanea per descrivere questo stato, ma an- drebbe bene anche quella del vuoto: parlare mi dà le vertigini, l’impressione di gettarmi nel vuoto. Spesso, immagino la parola come una scogliera 7

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Si dice che la timidezza sia più una disgrazia che un difetto, ma mai che è una meravigliosa disgrazia, una ricchezza indispensabile. Quando è accettata, compresa, e quindi in parte controllata, rivela le sue virtù.

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In principio era la vergogna

Non ho mai riflettuto sulla mia timidezza. Du-rante tutti questi anni, l’ho accettata come una

componente del mio carattere, impossibile da sradi-care, e mi ci sono talmente abituato da non farcipiù caso. Dipendo dalla mia timidezza e ci sonomolto affezionato, come se fosse una passione indi-spensabile al mio «buon funzionamento». I tormenti,il nervosismo e le umiliazioni che mi causa mi dan-no la prova della mia esistenza, la mia dimensionein questo mondo. Lei, sono io.

Forse ho finito addirittura per coltivarla, per os-servare con curiosità questa esplosione della miamente, questo terremoto che si scatena in me nonappena mi devo esprimere, le cui scosse percorro-no tutto il mio corpo, provocandomi tremiti, facen-domi arrossire in volto e grondare la fronte di unalava trasparente. La metafora del terremoto mi vie-ne spontanea per descrivere questo stato, ma an-drebbe bene anche quella del vuoto: parlare mi dàle vertigini, l’impressione di gettarmi nel vuoto.Spesso, immagino la parola come una scogliera

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dalla quale cado senza toccare terra, sostenutodall’imponderabilità del Verbo.

In Normandia – probabilmente è una forma idio-matica, una caratteristica sociale o regionale – si di-ce di un uomo che parla poco che è un taiseux[ ‘taciturno’]. Sono probabilmente questo, untaiseux. Se potessi calcolare il tempo che ho passa-to parlando sin dalla mia infanzia, mi renderei con-to di quanto sarebbe ridicolo rispetto al tempo cheho passato tacendo. Sarà a causa della timidezzache parlo così poco. Perché conosco i miei limiti esento che rimarrei senza fiato dopo qualche frase?Perché il poco di cui sono capace mi fa optare, fratutto, per il mutismo, oppure avrei parlato poco inogni caso, anche senza essere timido? Sarà la timi-dezza che mi ha modellato o sono io che mi sonomodellato su di lei?

Fare l’elogio del timido non è fare l’elogio del si-lenzio ma, al contrario, quello della parola, di unaparola straziata, di un dire bisbigliante che non hatrovato la sua voce. Ogni timido è un parlatore chenon si nomina e non si rivela.

Ho fatto la guerra alle parole in silenzio, nellasofferenza e nel godimento di tacere. Il mio dilem-ma è questo: non potrei immaginarmi senza la timi-dezza, di cui non vorrei soffrire più, sapendo chenon soffrirne più significherebbe immaginarmi sen-za di lei, e che pensare che la mia vita potrebbenon essere più dominata da lei, probabilmente non

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avrebbe maggiore senso che continuare a soffrirne.Quando mi domando che uomo sarei diventato senon fossi stato timido, sento già l’assurdità del ra-gionamento da esporre, l’ipocrisia di una tale do-manda, poiché una simile eventualità è per me im-pensabile e, ammettendo perfino che non lo sia, ilpiacere di non averne mai sofferto non potrebbecompensare il dolore di non soffrirne più. L’assur-do di questo dilemma mostra la mia incapacità adecidermi in favore dell’una o dell’altra ipotesi,quando la sorte della mia timidezza dipende ap-punto dal fatto che io raggiunga una decisione. Neconcludo che questo dilemma rappresenta la chiavedella mia timidezza e che, in fondo, vorrei meno li-berarmene che sognare di liberarmene. Forse l’ideastessa che possa essere felice senza timidezza m’in-timidisce. Ho diversi anni di ritardo sulla felicità.

Questa passione timida di cui valuto ora i danninella mia vita, so dove affonda le sue radici. Perquanto io risalga nella memoria, il ricordo si soffer-ma su una scena intrappolata nel mio passato: lafabbrica, il fumo variopinto emesso nel grigioredalle ciminiere; una sera, gli operai che camminanolungo la Senna in fila indiana all’uscita dal lavoroper andare al bar, a bere, i bicchieri di vino allineatisul bancone di zinco e i giri di bevute che si susse-guono al ritmo delle barzellette sconce, dei cori:«Osteria numero zero, paraponziponzipò». Per unascommessa stupida, per una scommessa persa, miopadre sale su un tavolo e si spoglia. Nudo, è nudodavanti agli altri. Rimango interdetto per tutto il

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tempo che dura la scena, trenta secondi o diversiminuti, non so più. Le umiliazioni che si subisconoda bambini non hanno durata, sono tutta la nostrainfanzia. «Non dire nulla a tua madre!».

Anni dopo ho letto quel passaggio della Bibbiain cui Noè, inventore della viticultura, si ubriaca fi-no a denudarsi. Cam, uno dei suoi figli, testimonedella scena, verrà maledetto dopo che i suoi duefratelli ebbero coperto il padre con un mantello.

I miei ricordi di timido si affollano. Ne avrei de-cine da raccontare se mi lasciassi andare, ma nonvoglio affidare la mia timidezza al disordine dellamemoria, e neanche enumerarne le cause – la di-soccupazione e i debiti dei miei genitori, l’alcoli-smo di mio padre, la precarietà nella quale ho vis-suto la mia giovinezza, la mancanza di regole –, co-me sarei portato a fare. Qualsiasi spiegazione misembra insufficiente. D’altronde, l’esperienza cru-ciale della vergogna subita nella mia giovane etànon può spiegare, da sola, la mia timidezza; altrieventi dimenticati, seppelliti nella mia memoria, da-rebbero probabilmente una spiegazione altrettantovalida. Non tutti i figli di alcolizzati sono timidi.Non è detto neanche che la timidezza – come l’al-colismo – sia il privilegio di una classe sociale eche non sarei stato timido in un’altra famiglia, rice-vendo un’educazione diversa, borghese per esem-pio. Sarebbe troppo facile fare della mia timidezzauna conseguenza esclusivamente sociale, anche seil legame risulta, in questo caso, indissociabile, an-che se la coscienza di essere il figlio di un alcoliz-

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zato e la vergogna che ne derivava l’hanno deter-minata. Quello che cerco scrivendo è di ordinestrutturale: cogliere l’essenza della condizione di ti-mido.

In particolare, questa presa di coscienza che mifa collegare la timidezza alla vergogna e che mi fadare un senso alla mia storia è probabilmente sba-gliata e deve essere anteriore a quella scena, e for-se alla mia esperienza del linguaggio. Anzi, non so-no più sicuro che la mia timidezza sia comparsacon l’apprendimento della lingua, quando comin-ciai a parlare. Mi sembra che sia comparsa prima:già ancora prima di parlare, facendo i miei primipassi, cercando il mio posto e il mio equilibrio nel-lo spazio, ero timido. Non ho camminato prima diun anno e mezzo, il che è abbastanza tardi per unbambino. Mi rivedo paralizzato, incapace di avan-zare, scivolando come accade nei brutti sogni, eancora oggi, all’idea di parlare, risento a distanza dianni lo stesso brivido nel corpo, gli stessi fremiti, lostesso rossore invadere il viso, gli stessi sudori, dal-la fronte alle mani, dalla nuca alle ascelle.

Ogni timidezza ha la sua preistoria. È possibileche l’Uomo sia un animale timido, che la timidezzanon lo abbandoni dalla nascita, e che se pensa dinon provarla è perché non le ha lasciato il tempo onon le ha dato l’occasione di manifestarsi: quindiesisterebbero una timidezza di cui prendiamo co-scienza e un’altra che ignoriamo, talvolta per tuttala vita.

Non parlerò della timidezza che si incontra in

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gioventù, che spesso è una crisi passeggera, se nonobbligata, probabilmente persino necessaria nelcammino che porta all’età adulta, e neanche mi av-venturerò a tracciare la storia della mia timidezza,la cui formazione ed evoluzione risultano tropposingolari per essere rappresentative. Basti sapereche la timidezza nasce dalla coscienza di una diver-sità (imperfezione, inferiorità sociale o intellettuale,difetto fisico, vergogna...) e che ha origine dallasofferenza. Quello che mi interessa non è capireperché si diventa timidi – poiché spetta a ognunodi noi trovare la spiegazione nel proprio percorso –ma perché e come lo si resta. Più modestamente, opiù timidamente stavo per scrivere, considererò latimidezza non nei suoi balbettamenti ma nel suopatetico sviluppo, e mi limiterò ad affrontare la ti-midezza dell’età adulta, questa paura degli altri che,a trent’anni, continua a farci agire come degli ado-lescenti.

Ingenuamente forse, mi sembra che la timidezzadebba essere stata provata per essere pensata, eche non si riuscirebbe a liberarsene senza essersicompromessi una volta fino alla vergogna, senzaessersela fatta addosso a causa sua.

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Delle mie timidezze

Mi sento svuotato nel momento in cui evoco lamia timidezza, non per pudore, ma perché mi

appare oggi come un’esperienza astratta. Anche semi sembra di essere stato sempre timido, non lo so-no mai stato nello stesso modo. La mia timidezza siè evoluta e ha mutato, per così dire, natura o obiet-tivo, non lo so. Forse mi si presenta in forme trop-po diverse perché possa comprenderla, o forse so-no io che nell’arco degli anni la vedo in manieradiversa. La timidezza mi disorienta talmente che mirisulta difficile datare con precisione alcune scenedel mio passato – e quindi poter raccontare la suaevoluzione nel tempo. Quando penso alla mia timi-dezza, mi vedo senza età, nel corso di un’assem-blea, risolutamente muto, immobile e assente – im-magine mitica dalla quale attingo all’infinito e chemi dà l’impressione di vivere la mia timidezza daspettatore. La mia timidezza non ha tempo, fa partedel tempo senza di me.

L’impossibilità di un ricordo preciso genera ladelusione di sentirla sbiadire nella memoria, disper-

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sa in molte forme, la cui diversità mi impedisce diconcepirne una sola: non ho una timidezza ma tan-te timidezze, difficili da collegare tra di loro, fra lequali non trovo altra unità che l’anarchia delle im-pressioni in cui mi precipitano, che la logica del-l’imprevedibilità con cui devo subirle. Recensirlesarebbe fastidioso quanto arbitrario, poiché nonhanno né la stessa frequenza né la stessa durata; eogni situazione provoca una timidezza inedita, di-stinta dalle altre nella manifestazione fisica provata:una volta mi coglierà una forma di afasia, un’altrala sudorazione, il rossore o un tremito simile aquello di un malato affetto dal morbo di Parkinson,un’altra volta ancora sarà un’allegria volubile o unumore scherzoso che interverrà per dissimularla.Ogni situazione genera la propria timidezza, una ti-midezza nuova che non ha un ordine prestabilito.In un certo senso, la timidezza è irriducibile ancheper quelli che la provano.

Individuare la timidezza è difficile perché esisto-no mille timidezze – pura e impura, pubblica e pri-vata, visibile e invisibile, muta e volubile, coraggio-sa e febbrile, conquistatrice e codarda, sincera eipocrita – la cui enumerazione sarebbe inutile.Questa diversità accresce la difficoltà di definire latimidezza, poiché non tutte le timidezze sono indi-viduabili. Quindi non è perché un uomo non parlache è timido, come non è perché parla che non loè. E se si può con certezza dedurre che un uomolo è per un modo di arrossire o di cercare le paro-le, nulla prova che lo sia di più rispetto a un altroche non è tradito dal fisico e che sa semplicemente

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controllarla meglio. Le apparenze timide sono in-gannevoli. Probabilmente ci sono tante timidezzequanti individui, e quindi tanti individui quanti imodi di provarle. Le situazioni, a seconda delle etàin cui le viviamo, a seconda che le scegliamo o lesubiamo, portano diverse forme di timidezza, equesta varietà aderisce così bene alle sinuosità delnostro carattere, alla confusione dei nostri umori,che sembriamo determinati tanto dalla timidezzaquanto noi stessi a determinarla. A volte la timidez-za sceglie noi, a volte siamo noi a sceglierla, perpiacere o per pigrizia di provare qualcos’altro. Pro-viamo timidezze depressive dalle quali traspare unprofondo smarrimento e timidezze felici che ci ren-dono euforici; timidezze da abbandono che ci iso-lano o che ci rendono la solitudine più cara; timi-dezze anticipate che ci angosciano (all’idea di unincontro) e timidezze retrospettive che ci rendonoquelle stesse angosce ridicole; timidezze di parolache si muovono sui registri del silenzio o della po-lifonia per offrire un’indistinta melodia.

La mia timidezza assomiglia a un impero dalleincerte frontiere, la cui geografia elastica si compo-ne di numerosi territori impossibili da contare. Peradottare un’altra immagine, direi che la mia timi-dezza ne nasconde altre, racchiuse una dentro l’al-tra come le bamboline russe, che sono la ripetizio-ne sfalsata di una stessa timidezza, variabile secon-do il contesto: posso essere intimidito quando devoparlare in pubblico (conferenza o intervento in oc-casione di un dibattito), quando devo parlare di me

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(in occasione di cene con sconosciuti o di una rela-zione sentimentale) o prendere un’iniziativa (fareun reclamo in un negozio, dare un’opinione contra-ria), quando devo affrontare lo sguardo altrui (pas-sare davanti a un locale affollato).

La difficoltà a classificare le mie timidezze derivasia dalla loro contingenza che dal loro carattere po-limorfo, sia dalla molteplicità della loro espressioneche dalla varietà degli oggetti che le causano: sor-gono sia dal contesto pubblico che da quello priva-to; le persone socialmente altolocate non mi intimi-discono più dei parenti che, per esempio, non socome ringraziare, verso i quali non riesco a testi-moniare la mia riconoscenza; posso sentirmi disar-mato nel difendere una posizione davanti a unosconosciuto che mi impegna in un rapporto di for-za o quando devo giustificarmi con un familiare. Lamia timidezza non distingue l’importanza degli in-terlocutori, non ha nessun senso della gerarchiaperché teme tutti.

Inoltre, un accesso di introversione può capitar-mi in qualsiasi momento, quando mi credo a mioagio e quando niente lo lascerebbe prevedere:spesso dovuto a una parola che temo venga maleinterpretata o un segno (d’impazienza, d’irritazio-ne…) che sembra essermi rivolto.

Ogni manifestazione intrusiva nella mia vita ri-schia di provocarlo (incontri imprevisti, curiosità, os-servazioni malevole…). Le mie timidezze sono im-prevedibili. Le porto dentro di me come delle bom-be che possono esplodere in qualsiasi momento.

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È possibile che non riesca a definire la mia timi-dezza proprio perché non ne sono uscito, e il nonpoterla chiarire prova decisamente la mia incapaci-tà a superarla. Il fatto che il mio passato spieghiperché sono stato timido non giustifica che lo siarimasto, né che conservi dopo tanti anni il senti-mento che l’ha fatta nascere: quello di essere infe-riore. Devo chiarire meglio ciò che intendo con iltermine di «inferiore» per evitare ogni malinteso, an-che perché potrebbe lasciare supporre che classifi-co le persone in due categorie distinte – i superiorie gli inferiori, i forti e i deboli – e non è affatto co-sì. Del resto, non si tratta di un’inferiorità reale madi un sentimento di inferiorità – o, se si preferisce,di un complesso – che mi sono creato da solo eche, nel mio caso, non è né fisico né intellettuale(per questi due aspetti credo di rientrare nella nor-ma). Per quanto mi riguarda, le umiliazioni causatedall’alcolismo di mio padre hanno provocato unsentimento di inferiorità sociale, duraturo e oppri-mente. Tutto il mio essere ne è stato sminuito.

Per il momento, provo a considerare il principioorganizzatore della mia timidezza e a non lasciarmisopraffare dalle immagini che mi assalgono scriven-do. Da questo principio mi sembra che dipenda ilmistero della timidezza che ha così sconvolto lamia vita. Scrivendo, valuto la complessità della miatimidezza, maggiore di quanto potessi supporre, eche dipende essenzialmente dalla mia immaginesociale. L’idea di essere giudicato mi rende vulnera-bile. Soffro per quello che immagino si possa pen-

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sare di me, anche quando nessuno pensa niente.Invidio quelli che non sono turbati dall’opinionedegli altri, che agiscono davanti alla gente come sefossero soli e che hanno la certezza, anche se sba-gliata, di piacere. Ho l’impressione di polarizzarel’attenzione solo per essere preso in giro.

Mi faccio tante idee sulla qualità della prestazio-ne che ci si aspetta da me, su quello che dovrei di-re o fare per soddisfare la norma. Mi sembra, peresempio, che io debba provare più degli altri, chenon mi si perdonerà nulla e che il solo modo peressere soddisfacente sia quello di realizzare un pre-stazione perfetta. Ma mi faccio un’idea così elevatadi quello che dovrei essere che non posso che re-stare al di sotto di me stesso, delle ambizioni chemi prefiggo, troppo superiori alle mie capacità.Pensare che il successo di una cosa dipenda menodalla sua realizzazione che dall’impegno che ci simette per ottenerla, e che infliggersi degli obiettivitroppo alti fa miseramente fallire, non fa che ren-dermi la riuscita ancora più improbabile. Si direbbeche io aumenti gli ostacoli per accertarmi di nonessere competitivo, e che la paura di fallire nel pro-durre un’impressione favorevole sia di fatto la pau-ra di riuscire a produrla: temendo di fare male,adotto, a mia insaputa, per affondarmi, condotteinappropriate. L’inferno non sono gli altri, sono io.

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