Inchiesta sulla Melodia e sulla Musica Contemporanea

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41 «S uccessione di suoni, con sviluppo nel tempo, che formano un organismo a sé. Il termine è usato in contrapposizione a puro ritmo e ad armonia (simultaneità dei suoni). Con essi è elemento essenziale della musica, e quello di più facile compren- sione». Il redattore della voce «Melodia» per il volume enciclopedico Il mondo della musica (Garzanti, 1956), sarebbe senza dubbio sorpreso nel constatare che a di- stanza di mezzo secolo, musicologi e compositori con- tinuano a interrogarsi sul concetto di melodia e sulle sue possibili ramificazioni teoriche e analitiche. Rias- sumere in qualche breve riga la storia della melodia e dei suoi rapporti possibili con i vari parametri musica- li (quali l’armonia, il ritmo, il timbro…) è ovviamen- te fuori dalla portata di questo lavoro, così come risul- ta impossibile proporre una definizione esauriente del concetto di melodia. Dal Terminorum musicae diffinitorium (c. 1475) del fiammingo Johannes Tinctoris alla recen- tissima Enciclopedia della musica a cura di Jean-Jacques Nattiez (Einaudi, 1991-1995), le molteplici definizioni del termine «melodia» non fanno che rivelare la com- plessità di un concetto che oltre a rappresentare un fe- nomeno umano fra i più universali rimane, paradossal- mente, fra i più difficilmente formalizzabili. Basti pen- sare che nel suo Traité de l’harmonie (1722), Rameau con- sidera la melodia come subordinata all’armonia, a dif- ferenza, per esempio, di Rousseau che, a qualche an- no di distanza, sottolinea l’autonomia della melodia ri- spetto agli altri parametri musicali (Dictionnaire de mu- sique, 1768). È difficile non concordare con Rossana Dalmonte, quando afferma che la difficoltà nel defini- re la melodia è inerente alla sua stessa natura, in quan- to il termine ««melodia» non corrisponde a un concet- to unico ma, piuttosto, a un reticolo complesso di si- gnificati le cui interpretazioni, potenzialmente infini- te, sono difficilmente iscrivibili all’interno di una tipo- logia esaustiva 1 . Ma per quanto le tipologie possano va- riare, a seconda dei contesti storico/stilistici, ci sem- V eneziaMusica e dintorni si è aperta nuovamente, dopo il forum sulla lirica e il dibattito a più voci sul teatro spe- rimentale del nostro territorio, a una discussione allar - gata su un tema specifico. Attorno al concetto di melodia nella musica contemporanea abbiamo costruito un piccolo quesito in- dirizzato a moltissimi compositori italiani oltre che a una ridot- ta ma quantomai autorevole pattuglia di studiosi e musicologi. Questa «inchiesta», che ancora una volta non si pone come obiet- tivo l’esaustività, e men che meno intende fornire risposte graniti- che e assolute, ci è stata sug- gerita in primo luogo dal ti- tolo che ha voluto dare Gior - gio Battistelli alla sua terza Biennale Musica, «Va’ pen- siero», e che tra le tante im- plicazioni simboliche riman- da sia a una delle arie più celebri del nostro melodram- ma che all’universo semanti- co dell’attività speculativa. Il caso ha poi voluto che quella che era poco più che una va- ga intuizione si vestisse di un senso maggiormente compiu- to grazie alle due giornate de- dicate in ottobre proprio al- la melodia dall’Ircam di Pa- rigi. E ancora più fortunata si è rivelata la collaborazio- ne con Moreno Andreatta, giovane studioso dell’Istituto francese, che cofirma il presente dossier e ci regala un esauriente scritto pre- liminare, perché la materia non sia eccessivamente ostica ai non addetti ai lavori. Tra le tante persone che hanno contribuito a queste pagine, ol - tre a tutti gli interpellati e al determinante appoggio dell’ufficio stampa della Biennale, non si può non citare Mario Messinis, che da dietro le quinte ci ha anche questa volta consigliati al meglio e aiutati a colmare inevitabili lacune. Non è questa la sede per bi- lanci e valutazioni, che lascia- mo ai singoli lettori. Tuttavia il tenore delle risposte, estre- mamente variegato e comples- so, dà conto in ogni caso della centralità che ancora possie- de un terreno d’indagine come quello proposto. In questo sen- so siamo davvero lieti di aver messo insieme il fulmen epi- grammatico di Fabio Vacchi con la sentita e articolata ri- flessione di Alessandro Sol - biati, per citare soltanto due nomi all’interno della trenti- na tra artisti e intellettuali che hanno avuto la gentilezza di rispondere alla nostra bre- ve domanda. (l.m.) Melodia e musica contemporanea Mito conciliabile o retaggio ingombrante? La rivincita della melodia a cura di Moreno Andreatta, Leonardo Mello e Ilaria Pellanda introduzione di Moreno Andreatta La domanda «L’evoluzione della musica nel corso del ‘900 ha vi- sto un progressivo ripensamento del concetto di melo- dia, che è stato da sempre fondamento della prassi com- positiva. Che spazio può assumere oggi una riflessio- ne sulla funzione della struttura melodica nella musica contemporanea?» Hanno risposto Claudio Ambrosini, Mario Baroni, Giorgio Battistelli, Mario Bortolotto, Massimo Botter, Sylvano Bussotti, Aldo Clementi, Renzo Cresti, Rossana Dalmonte, Carlo De Pirro, Ivan Fedele, Fabrizio Festa, Luca Francesconi, Adriano Guarnieri, Giovanni Mancuso, Giacomo Manzoni, Giordano Montecchi, Luca Mosca, Mario Pagotto, Marcello Panni, Quirino Principe, Enzo Restagno, Veniero Rizzardi, Valerio Sannicandro, Alessandro Solbiati, Javier Torres Maldonado, Paolo Troncon, Fabio Vacchi, Giovanni Verrando. Speciale Melodia

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«Successione di suoni, con sviluppo nel tempo, che formano un organismo a sé. Il termine è usato in contrapposizione a puro ritmo e ad

armonia (simultaneità dei suoni). Con essi è elemento essenziale della musica, e quello di più facile compren-sione». Il redattore della voce «Melodia» per il volume enciclopedico Il mondo della musica (Garzanti, 1956), sarebbe senza dubbio sorpreso nel constatare che a di-stanza di mezzo secolo, musicologi e compositori con-tinuano a interrogarsi sul concetto di melodia e sulle sue possibili ramificazioni teoriche e analitiche. Rias-sumere in qualche breve riga la storia della melodia e dei suoi rapporti possibili con i vari parametri musica-li (quali l’armonia, il ritmo, il timbro…) è ovviamen-te fuori dalla portata di questo lavoro, così come risul-ta impossibile proporre una definizione esauriente del concetto di melodia. Dal Terminorum musicae diffinitorium (c. 1475) del fiammingo Johannes Tinctoris alla recen-tissima Enciclopedia della musica a cura di Jean-Jacques

Nattiez (Einaudi, 1991-1995), le molteplici definizioni del termine «melodia» non fanno che rivelare la com-plessità di un concetto che oltre a rappresentare un fe-nomeno umano fra i più universali rimane, paradossal-mente, fra i più difficilmente formalizzabili. Basti pen-sare che nel suo Traité de l’harmonie (1722), Rameau con-sidera la melodia come subordinata all’armonia, a dif-ferenza, per esempio, di Rousseau che, a qualche an-no di distanza, sottolinea l’autonomia della melodia ri-spetto agli altri parametri musicali (Dictionnaire de mu-sique, 1768). È difficile non concordare con Rossana Dalmonte, quando afferma che la difficoltà nel defini-re la melodia è inerente alla sua stessa natura, in quan-to il termine ««melodia» non corrisponde a un concet-to unico ma, piuttosto, a un reticolo complesso di si-gnificati le cui interpretazioni, potenzialmente infini-te, sono difficilmente iscrivibili all’interno di una tipo-logia esaustiva1. Ma per quanto le tipologie possano va-riare, a seconda dei contesti storico/stilistici, ci sem-

VeneziaMusica e dintorni si è aperta nuovamente, dopo il forum sulla lirica e il dibattito a più voci sul teatro spe-rimentale del nostro territorio, a una discussione allar-

gata su un tema specifico. Attorno al concetto di melodia nella musica contemporanea abbiamo costruito un piccolo quesito in-dirizzato a moltissimi compositori italiani oltre che a una ridot-ta ma quantomai autorevole pattuglia di studiosi e musicologi. Questa «inchiesta», che ancora una volta non si pone come obiet-tivo l’esaustività, e men che meno intende fornire risposte graniti-che e assolute, ci è stata sug-gerita in primo luogo dal ti-tolo che ha voluto dare Gior-gio Battistelli alla sua terza Biennale Musica, «Va’ pen-siero», e che tra le tante im-plicazioni simboliche riman-da sia a una delle arie più celebri del nostro melodram-ma che all’universo semanti-co dell’attività speculativa. Il caso ha poi voluto che quella che era poco più che una va-ga intuizione si vestisse di un senso maggiormente compiu-to grazie alle due giornate de-dicate in ottobre proprio al-la melodia dall’Ircam di Pa-rigi. E ancora più fortunata si è rivelata la collaborazio-

ne con Moreno Andreatta, giovane studioso dell’Istituto francese, che cofirma il presente dossier e ci regala un esauriente scritto pre-liminare, perché la materia non sia eccessivamente ostica ai non addetti ai lavori.

Tra le tante persone che hanno contribuito a queste pagine, ol-tre a tutti gli interpellati e al determinante appoggio dell’ufficio stampa della Biennale, non si può non citare Mario Messinis, che da dietro le quinte ci ha anche questa volta consigliati al meglio e aiutati a colmare inevitabili lacune.

Non è questa la sede per bi-lanci e valutazioni, che lascia-mo ai singoli lettori. Tuttavia il tenore delle risposte, estre-mamente variegato e comples-so, dà conto in ogni caso della centralità che ancora possie-de un terreno d’indagine come quello proposto. In questo sen-so siamo davvero lieti di aver messo insieme il fulmen epi-grammatico di Fabio Vacchi con la sentita e articolata ri-flessione di Alessandro Sol-biati, per citare soltanto due nomi all’interno della trenti-na tra artisti e intellettuali che hanno avuto la gentilezza di rispondere alla nostra bre-ve domanda. (l.m.)

Melodia e musica contemporaneaMito conciliabile o retaggio ingombrante?

La rivincita della melodia

a cura di Moreno Andreatta, Leonardo Mello e Ilaria Pellanda

introduzione di Moreno Andreatta

La domanda«L’evoluzione della musica nel corso del ‘900 ha vi-sto un progressivo ripensamento del concetto di melo-dia, che è stato da sempre fondamento della prassi com-positiva. Che spazio può assumere oggi una riflessio-ne sulla funzione della struttura melodica nella musica

contemporanea?»

Hanno rispostoClaudio Ambrosini, Mario Baroni, Giorgio Battistelli,

Mario Bortolotto, Massimo Botter, Sylvano Bussotti, Aldo Clementi, Renzo Cresti, Rossana Dalmonte, Carlo De Pirro, Ivan Fedele, Fabrizio Festa, Luca Francesconi, Adriano Guarnieri, Giovanni Mancuso, Giacomo Manzoni, Giordano Montecchi, Luca Mosca, Mario Pagotto, Marcello Panni, Quirino Principe, Enzo Restagno, Veniero Rizzardi, Valerio Sannicandro, Alessandro Solbiati, Javier

Torres Maldonado, Paolo Troncon, Fabio Vacchi,Giovanni Verrando.

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bra che le posizioni e di Rameau e Rousseau rispetto al-la melodia restino attuali e costituiscano i due estremi all’interno dei quali si posiziona, de facto, ogni possibile indagine sulla struttura melodica. Dipendenza o auto-nomia della struttura melodica rispetto ai vari parame-tri musicali? Qualsiasi posizione si voglia assumere al-l’interno di questi estremi ideali, resta il fatto che il con-cetto di struttura melodica attraversa epoche storiche, correnti, stili musicali, tradizioni culturali e costituisce un terreno d’incontro per varie orientazioni della ricer-ca musicologica contemporanea, dalla semiologia musi-cale alla psicologia sperimentale, dall’etnomusicologia alla teoria matematica della musica. Vi sono senza dub-bio delle ragioni profonde per le quali, come si chiede-va Hindemith, risulta così difficile analizzare una me-lodia mentre invece le regole dell’armonia si riducono a un corpus relativamente ridotto2. Una delle ragioni che possono spiegare questa difficoltà riguarda la natura «psicologica» del concetto di melodia. A differenza del-le strutture armoniche, per le quali i vari teorici della musica hanno saputo offrire dei criteri esaustivi d’enu-merazione e classificazione3, è molto più difficile offrire dei criteri oggettivi per dire, innanzitutto, quando una sequenza di note costituisce o meno una struttura me-lodica (e trovare, in caso affermativo, le proprietà che permettono di distinguerla da una qualsiasi altra me-lodica basata sulle stesse note musicali). Per quanto sia

sempre possibile decomporre una melodia nelle sue co-stituenti elementari (note e intervalli), allo stesso modo di quanto avviene per gli accordi musicali, l’ordine tem-porale nel quale le note si susseguono svolge una fun-zione strutturante essenziale, che impedisce di ridurre una melodia alla somma delle sue costituenti elementa-ri. Non stupisce quindi che buona parte dei primi ten-tativi di formalizzazione del concetto di melodia si sia-no ispirati allo studio dei fenomeni percettivi (in parti-colare alla teoria della Gestalt)4. La ricerca teorica sulla melodia, sia essa basata su prin-cipi derivanti dalla psicologia della forma (Leonard Meyer e Eugene Narmour), dalla linguistica struttura-le (Nicolas Ruwet), dalle grammatiche trasformazionali di Chomsky (come la Generative Theory of Tonal Mu-sic di Fred Lerdahl e Ray Jackendoff o Le regole della musica di Mario Baroni, Rossana Dalmonte e Carlo Ja-coboni) o da teorie matematiche astratte (ultima delle quali è la teoria degli Orbifolds dell’americano Dmitri Tymoczko che utilizza delle rappresentazioni geome-triche per mostrare che contrappunto e armonia sono fenomeni strettamente connessi), costituisce un campo di ricerca in forte espansione, suscettibile di interessare musicologi, teorici della musica, analisti, compositiori, filosofi, matematici5... Dopo secoli di studi approfondi-ti sulla struttura armonica, che la melodia possa infine prendersi la meritata rivincita?

Note

1. Per una cartografia dei significati più ricorrenti del concetto di melodia rinviamo il lettore al saggio sulla melodia di Rossana Dal-monte nel secondo volume dell’Enciclopedia Einaudi a cui si è fatto riferimento precedentemente.

2. Si veda in particolare il capitolo V della parte teorica del tratta-to Unterweisung im Tonsatz (1940).

3. Per esempio teorici della musica, analisti e compositori con-cordano sul fatto che nel sistema temperato tradizionale vi sono 80 accordi di 6 note (esacordi), che possono essere classificati in una sorta di «dizionario ragionato», nel quale i vari elementi si sus-seguono secondo un ordine logico (lessicografico).

4. E viceversa, nel saggio che dà origine alla teoria della Gestalt, Christian von Ehrenfels utilizza il fenomeno melodico per spie-gare che la forma è una struttura globale che non può quindi es-

sere ridotta alla somma delle singole parti, al pari per l’appunto di una melodia che trasposta in una qualsiasi tonalità mantiene lo stesso grado di percettibilità indipendentemente dalle note che la costituiscono (Ernst Cassirer suggerirà qualche anno più tar-di, in un studio intitolato The Concept of Group and the Theory of Per-ception (1944), che è possibile offrire una formalizzazione matema-tica di questo fenomeno musicale basata sulla teoria matematica dei gruppi.

5. Per questa ragione l’Ircam e la Sfam (Società Francese di Ana-lisi Musicale) hanno preso l’iniziativa comune di organizzare, re-centemente, un Convegno Internazionale dedicato alla melodia e funzione melodica come oggetto d’analisi (Ircam, 17-18 ottobre 2006) del quale diamo una breve descrizione nella scheda infor-mativa a fine dossier.

Qui e nelle pagine seguenti, Variazioni melodiche di Anton Webern (1883-1945) a pag. 57, Primo, Retrogrado, Inversione, Rertogrado Inversione.

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Claudio Ambrosini

Melodia c’è sempre, anche se il compositore non la mette. C’è perché l’orecchio la cerca. In qualsiasi even-to, o successione di eventi sonori, l’orecchio scandaglia ciò che più si muove, ciò che più varia e che ha contor-no: quella è «melodia». L’orecchio cerca «al dettaglio» – come melodia – quello che poi coglie più o meno con-sciamente, «all’ingrosso», come forma dell’intero bra-no: è, in entrambi i casi, una ricerca di fisionomia, una ricerca di identità.

«Melodia» può essere varia e vasta: se non sta nelle altezze dei suoni, se non è prioritariamente cantabile, può annidarsi nella successione dei colori strumentali, nella klang farbenmelodie, come ha insegnato Schoenberg (ma l’avevano già fatto ben intuire Giovanni Gabrieli e gli altri compositori rinascimentali che orchestravano a «cori battenti» per la Basilica di San Marco a Venezia).

Se invece è un altro aspetto a variare in continuazio-ne, come per esempio il ritmo, si avrà anche lì la sensa-zione di un «melodizzare», come nel fluire inarrestabi-le e ribollente di alcuni jazzisti. Elvin Jones che accom-pagna John Coltrane, per esempio: un vero «controcan-to». E ancora «controcantano» i tabla, coppia di tambu-ri indiani, quando accompagnano il sitar e lo contrap-puntano con arabeschi incalzanti. E «cantano in melo-dia» e in coro tutti i rumori, dai padri Futuristi in poi.

Ha valenza melodica tutto ciò che ha una direzione: sale, scende o anche solo prosegue diritto. È melodico ciò che costituisce un contorno, un profilo, ciò che de-limita una massa meno distinta che da questo «confine in movimento» viene contenuta e delineata, definita. O che, miniaturizzata in movimenti infinitesimali, si co-stituisce essa stessa come massa: le «micromelodie» di Ligeti, per esempio.

È melodico ciò che, oltre ad una fisionomia, ha un an-damento, un comportamento (logico, illogico), una di-rezione che, nell’evolversi, si tramuta in forma.

Visto che la si percepisce comunque, la «melodia», tanto vale che sia nuova, che permetta di cantare in mo-do nuovo, e anche di ascoltare in modo nuovo.

Nella musica che scrivo, che usa la melodia – ma non l’armonia – le linee vocali (ma anche quelle strumenta-li) sono spesso basate su una gradazione di «forza inter-vallare», a partire dalla scala cromatica – intesa come materiale base, indifferenziato (anche se in realtà ric-co di connotazioni). Da qui hanno luogo degli «allar-gamenti» intervallari secondo la gradazione espressiva di cui di volta in volta ho bisogno e che è connaturata all’aumento di distanza tra le note, al salto (psico-acu-stico) che esse compiono, all’«aura» che esse acquista-no nella relazione-confronto con l’intervallo preceden-te. Compressione, decompressione, tendere, stendere, cangiare… Una tecnica «a fisarmonica».

Ma, ovviamente, su tutto governa – e deve governare – il dio Pan, che tutto prende con quel suo raptus, che un tempo chiamavano «ispirazione».

Mario Baroni

Com’è noto, la maggior parte dei musicisti d’avanguar-dia della seconda metà del secolo scorso ha cercato tut-ti i modi possibili per disfarsi di quel peso ingombrante della tradizione musicale che va sotto il nome di melo-dia: il problema non era quello di inventare nuove for-me di melodia, ma proprio di negare il principio melo-dico stesso. Non è ben chiaro il perché, a meno che non si voglia ricorrere alle solite formule: bisognava rinno-vare tutto, fare tabula rasa. Ma si tratta di spiegazioni che non spiegano niente. Ci si potrebbe infatti chiede-re di nuovo: «Ma che ragione c’era di far tabula rasa?» E così via. Il fatto è che fenomeni di questo tipo han-no radici occulte se non addirittura misteriose: stanno nel profondo delle scelte stilistiche dei compositori e i compositori sono interessati a comporre e non necessa-riamente a mettere in luce le ragioni delle proprie scelte compositive. Non è loro compito ed è giusto che lo fac-ciano in modo approssimativo e che si accontentino di dichiarazioni inutili come quelle sulla tabula rasa.

Dunque non ci resta che prendere atto del fenome-no. Perché infatti il problema reale è un altro: è quel-lo di cercar di capire se il procedere melodico che le avanguardie del dopoguerra hanno evitato con tanta cura sia un fenomeno generale (non voglio usare il ter-mine «universale») cioè ampiamente diffuso nelle cul-ture musicali del mondo, o sia invece limitato alla tra-dizione occidentale. La risposta è quasi ovvia: usare la voce, e usarla melodicamente, è qualcosa che fanno e hanno sempre fatto civiltà di tutte le epoche e di tutti i continenti e che tendono a fare, e comunque impara-no precocemente a fare, anche i bambini in tenerissima età. Insomma è una cosa che «viene spontanea». E in-fatti i musicisti degli anni cinquanta e sessanta per riu-scire a non melodizzare hanno dovuto darsi regole che chi le osserva dall’esterno potrebbe persino considera-re cervellotiche. Parlo delle regole della cosiddetta se-rialità integrale: fatica nel comporre, fatica nel cantare, fatica nell’ascoltare, e mancanza di naturalezza. Non è una critica, è solo un’interpretazione delle caratteristi-che espressive delle musiche d’avanguardia.

Non voglio tornare a chiedermi il perché: mi limito a fare qui una constatazione e una previsione. La con-statazione è che la «naturalezza» dei comportamenti in tutte le arti (non penso solo all’uso del canto, ma anche a quello della lingua, del gesto, del segno grafico, del colore, della costruzione di oggetti) deve essere consi-derata una condizione umana ineludibile, dipendente dalla natura del nostro corpo e del nostro cervello. Dal punto di vista delle attività artistiche non deve essere considerata un obbligo, ma di fatto è un limite: tutta-via l’area concessa all’espressività dai limiti della natura umana è talmente grande che al suo interno si può fare di tutto, come dimostra la storia dell’uomo.

A questo punto diventa naturale la previsione. Non trovo nessuna ragione antropologicamente valida per pensare che oggi non si possa più cantare, o si debba continuare ad arrampicarsi sugli specchi per farlo in

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modo innaturale, tant’è vero che tutti continuano alle-gramente a farlo nella vita quotidiana senza porsi i pro-blemi che si pongono (o si ponevano) i musicisti «impe-gnati». Non si tratta dunque di inventare nuove motiva-zioni ideologiche o inedite giustificazioni, per ricomin-ciare a far melodie. Si tratta semplicemente di mettere in moto le risorse della fantasia musicale. È questo l’au-gurio che mi piacerebbe fare ai compositori delle pros-sime generazioni.

Giorgio Battistelli

Se si intende per melodia una successione orizzonta-le di suoni, la questione è come questo concetto di oriz-zontalità viene inserito all’interno di una struttura più ampia. In ogni caso, non è che la melodia sia più ri-schiosa rispetto a una verticalizzazione: la melodia è ri-schiosa quanto lo può essere un’armonia. L’orizzontali-tà è rischiosa quanto la verticalità del suono, ammesso che si possa parlare di rischio e di retorica, perché or-mai la velocità di connotazione nella musica è fortissi-ma, è questo il tema su cui bisogna riflettere. C’è una connotazione alta perché i media, il cinema la televi-sione divorano tutto, anche la musica pop, di consumo, commerciale è molto veloce… E invece noi come au-tori del presente siamo interessati ad allargare il mon-do percettivo e quindi a inventare e scoprire nuove fon-ti di suono.

Mario Bortolotto

In linea di principio nulla ostacola l’idea di usare una melodia, però si tratta di vedere che melodia è, cosa va-le e come si può collegare con tutto il resto. Nella musi-ca tutto è possibile, non ci sono divieti né regole. Le re-gole casomai si deducono dai successi dei compositori. Proporre un’idea di melodia come la intendono i «codi-ni» di oggi (ce ne sono tanti, di compositori codini…), vicina a quella che poteva avere per esempio Bellini, è chiaro che non ha nessun senso. Ma molti composito-ri hanno usato la voce, e questo significa già in un cer-to modo scrivere delle melodie. Si tratta di sapere quale significato diamo alla parola «melodia», che, come l’ar-monia, deve essere eternamente rinnovata. Ma il rinno-vo avviene nella pratica. Prima vengono le opere e poi la storiografia e la critica.

Massimo Botter

...innanzitutto sarei più preciso perché negli ultimi de-cenni vi è stata anche la fase del rifiuto totale della me-lodia, la distruzione del pensiero melodico, una disso-luzione totale come anche per il pensiero armonico e quindi, in antitesi con la frase «da sempre fondamento della prassi compositiva», io direi che ciò che si è espres-so è valido se pensiamo la «non melodia» come punto di partenza per il lavoro compositivo. Più tardi vi è sta-to il ripensamento di tutto questo processo di decostru-zione ed è iniziato un recupero, uno sviluppo, forse an-che aiutato dall’uso dell’informatica musicale, e oggi ar-monia e melodia hanno riconquistato il loro ruolo fon-damentale nell’estetica musicale contemporanea.

C’è da aggiungere che, parlo ora a livello personale, la melodia viene invasa da tutto ciò che ci circonda, e sta poi al compositore e alla libertà che ognuno ha o che si vuole prendere, più o meno condizionata dalla tecni-ca e dalla ricerca, di rielaborare tutto questo materia-le di diverse provenienze, di diversi stili, di diversa na-tura. Abbiamo aggiunto potenza e nuova linfa a un al-bero che pare non finisca mai di crescere pur con rami secchi ormai estirpati o da estirpare... Vedremo dove la linea melodica porterà la crescita del nostro albero; l’al-bero della musica contemporanea.

Sylvano Bussotti

Nel mio lavoro specifico il concetto di melodia è pro-babilmente l’unico concet to esistente. Naturalmen-te lo dico con un minimo di paradosso e di forzatu-ra, ma lavorando in grande misura e da sempre con la voce che canta, è chiaro che questo concetto è per me fondamentale.

In una riflessione più generale, ricordo una massima di Max Deutsch, che ho sempre riconosciuto come mio maestro: «La musica, se non è armonia, non è». L’armo-nia può sembrare una sorta di contraltare alla melodia, tanto è vero che parlando di melodia sovente si diceva anche «linea melodica», mentre per armonia i più inten-dono degli accordi, cioè una sovrapposizione di suoni. Scolasticamente infatti le melodie armonizzate si de-finivano «accompagnate» e dunque l’armonia diventa-va qualcosa di simile all’accompagnamento, che coin-volgeva anche il ritmo. Mettendo un’altezza o una fre-quenza dopo l’altra naturalmente viene a crearsi l’inter-vallo. Questo intervallo, regolato oramai da parecchio tempo sulla serie dodecafonica – nel senso della se-quenza di dodici intervalli diversi e differenti l’uno dal-l’altro (anche se a molti o alla quasi totalità dei musicisti oggi può sembrare una regola antiquata) – rimane per-tanto l’ossatura principale della melodia. Se parliamo

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di strumenti musicali sappiamo che alcuni sono in gra-do di emettere più di un suono contemporaneamente e altri no. Ma quello che rimane comune denominato-re a tutti gli strumenti, come alla voce umana, è appun-to il dato melodico, l’intervallo, il passaggio da una fre-quenza alla frequenza successiva. Quando il dato melo-dico diventa un motivo di estrema semplicità (pensia-mo alla cosiddetta «canzonetta», anche se è una parola che non si usa più…), la lingua italiana utilizza un ter-mine intraducibile nelle altre lingue, cioè «orecchiabi-le». L’orecchiabile rimane il dato fondamentale dell’in-tervallo, della sequenza, del susseguirsi di intervalli. E non credo faccia differenza che questi intervalli siano dodici diversi l’uno dall’altro o siano due sempre iden-tici a se stessi (come appunto in certe canzonette). La melodia dunque è un dato fondamentale che permette a chiunque si avvicini a una qualsiasi forma di intratte-nimento musicale, di spettacolo e perché no di pensiero musicale di coglierne immediatamente il senso. Que-sto ci fa pensare che si tratti del momento più impor-tante. Stockhausen ha detto spesso che sono necessa-ri almeno due elementi per creare qualcosa di signifi-cativo, e infatti una volta che si arriva all’intervallo ec-co che c’è già in nuce una certa melodia. In conclusione vorrei citare un bellissimo intervallo (fa diesis e do be-quadro naturale): si tratta di quello che gli antichi chia-mavano diabolus in musica, la personificazione del demo-nio, che diventa proprio una sorta di base sulla quale vengono molto spesso a distribuirsi degli altri suoni. E vorrei chiudere evocando Luigi Dalla Piccola, persona religiosissima, che sul diabolus in musica basa tutte le sue composizioni.

Aldo Clementi

La melodia mi serve per un lavoro di linee e contrap-punto. Ho composto anche per voce sola, ma normal-mente quello che mi interessa è il gioco delle linee.

Renzo Cresti

In aderenza all’etimo mélos il termine «melodia» è im-piegato spesso come sinonimo di canto, inteso però non in senso ampio e generale, ma con l’accezione ro-mantica, per cui s’intende melodia tout court quella di un Mozart o di un Rossini, di uno Chopin o di un Ver-di, ma non è detto che sia proprio questo o solo que-sto il significato da dare al termine «melodia». Il Canto gregoriano, l’Ars Antiqua e Nova, il Rinascimento e il Manierismo hanno melodie struggenti e profonde, ma molto diverse da quelle del periodo tonale. Il poeta tre-centesco Iacopone la definiva, in maniera assai propria, «una successione di diversi suoni aventi fra loro una

organica relazione» e il Novecento ha – a grandi linee – privilegiato proprio l’«organica relazione» ossia una melodia che deriva da un progetto compositivo unita-rio e complesso. A parte rigurgiti neo-qualunquisti che rifanno il verso alla melodia (post)romatica (i musicisti che si sono rifatti al déjà vu nella storia della musica sono sempre stati chiamati «accademici»), la melodia è oggi quel quid espressivo che deriva da un’«organica relazio-ne» fra parametri ed elementi compositivi che, di vol-ta in volta, il compositore sistema in maniera da forni-re loro un carattere fortemente comunicativo: i timbri, le dinamiche, la gestualità... ogni aspetto può assume-re un tratto melodico, un filo rosso che conduce l’ascol-tatore nei meandri della composizione. Melodia è tutto ciò che ogni compositore intende e chiama con questo nome. Melodia dunque come figura, come punto foca-le di un espandersi della musica, più che canto lirico, la sua funzione è allora quella di una sorta di espansione del tessuto compositivo verso un abbraccio di suoni.

Rossana Dalmonte

A cavallo dei secoli XIX-XX il «fait musical» per dir-la con Molino-Nattiez, vive profonde trasformazioni in ciascuno degli aspetti che lo compongono ed è naturale che l’elemento più «esposto» sulla superficie della musi-ca, la melodia, rimanesse come gli altri o forse più degli altri influenzato dal nuovo spirito del tempo. Nella me-lodia le correnti di pensiero più radicali del primo No-vecento videro il riflesso impudico delle poetiche ot-tocentesche con al centro l’io lirico che soffre e canta le sue passioni, videro impronte di aspirazioni incon-fessate, di velate o troppo palesate angosce, espressio-ni di Sehensucht e di spleen, di disperazione e di euforia, mondi interiori per loro natura «privati», che agli oc-chi del nuovo secolo parevano poco interessanti quan-to non addirittura decisamente imbarazzanti. Ma, no-nostante il mutato clima culturale, nella musica la me-lodia è sopravvissuta molto più a lungo che nelle teo-rie, e forse non è mai definitivamente morta, anche se si è presentata con maggiore precauzione o si è nasco-sta dietro forme diverse. D’altra parte il fatto di «ab-bandonarsi» a qualche frase cantabile non ha mai rele-gato un compositore nel novero dei «sorpassati». Che dire, ad esempio delle canzoni o dei «recitativi» spar-si qua e là, ma non avaramente, nelle opere di De Fal-la, di Bartók o di Stravinskij? Qui la melodia ha spes-so grande risalto, anche se viene esposta «furtivamen-te», sotto banco, nelle citazioni più o meno infedeli di una tradizione non sospetta di svenevolezze e roman-ticherie. Altre volte si manifesta in aiuto della dimen-sione verticale, quella sì del tutto vedova dell’antica ar-monia. Si riascoltino, ad esempio i Lieder di Das Bu-ch der hängenden Gärten (Schönberg 1908-1909) con orec-chio selettivo capace di (quasi) annullare la parte stru-mentale e non si potrà negare la forza di figure linea-ri di una cantabilità struggente, anche se condita di

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qualche durezza nei salti e nei cambi di registro. Nei così detti neo-classici (in un certo Hindemith, in Mi-lhaud o in Alfredo Casella), al contrario, la melodia si nasconde dietro la freddezza della monotonia, anticipa-trice, forse, della sospensione del tempo raggiunta dai minimalisti; in entrambi i casi, tuttavia, pur da percor-si diversissimi, si approda al canto, un canto «oggetti-vato» ma sempre in sintonia con i ritmi del linguaggio, fonte primaria della melodia. Chi può attribuirsi il van-to di aver cacciato la melodia da un brano di musica vo-cale? Si potrà dire che le scale su cui si distendono le pe-ripezie vocali di Lulu non sono né maggiori né minori, che l’isteria delle successioni orizzontali non rispetta le regole auree del rapporto fra gradi congiunti e salti, ma la «natura melodica» resiste e a volte, perfino, commuo-ve. Ciò che muta decisamente nella melodia novecente-sca è il «respiro», ossia la sua scansione in frasi formate da un inizio, un corpo centrale e una fine ben delineata. Questa cornice si disgrega già prima dell’inizio del XX secolo: si ritrova di rado in Debussy e non nelle parti più significative dei suoi canti. L’aver negato il model-lo formale non significa però negare la melodia, ma sol-tanto tentarne manifestazioni diverse, più fluide, dutti-li, imprevedibili.

Carlo De Pirro

Primo: cosa ereditiamo? Forti impulsi artificiali, poi codificati in retorica, hanno esercitato pressione sul diagramma melodico. Ovviamente le parole chiave di un testo letterario, più recentemente il magnete armo-nico e la veste timbrica. Come una calamita che ordi-na occultamente la limatura di ferro melodica, l’armo-nia ne stabiliva – e spesso stabilisce – il carattere (il si-stema modale in cui agisce), il grado di tensione (rispet-to alla temporanea fondamentale), la scansione (trami-te le varianti del ritmo armonico). La metamorfosi da motto tematico, soggetto di fuga, tema di sonata e leit-motiv porta alla definizione di personaggio melodico, a una variazione nella percentuale di ripetizioni (l’auto-memoria di una melodia) e a una variazione di reattivi-tà a seconda della posizione formale. Quando la centra-lità del comporre evapora verso nuove astrazioni, si as-siste a una frammentazione subliminale delle preceden-ti retoriche e a un rafforzamento della seduzione tim-brica. D’altronde tutto si logora. In Cipriano De Ro-re la sesta maggiore sonorizza l’aggettivo«crudele»; lo stesso intervallo, trecento anni dopo, lanciò il Brindi-si in Traviata. Da queste eredità si possono raccogliere idee da trasformare in stile. Ciò che attribuiamo al se-dimento melodico è una somma di relazioni (non a ca-so personaggio melodico) che tratteggiano un caratte-re plurimo. Certamente la frammentazione, il tabù del-la ripetizione semplice e un certo sospetto per intervalli consonanti non facilitano la proiezione emotiva in chi ascolta. Escluso (almeno per mio conto) il ruminaggio stilistico, la via è quella di creare nuovi rapporti e nuove polarità. Melodia non è solo un rapporto di altezze, ma

un rapporto di timbri (il vestito strumentale scelto) e di tensioni (l’altezza ottimale in cui quel rapporto produce il suo senso). Nello scrivere ci si può innamorare di una perla d’ispirazione, ma è la collana che regala il tesoro compiuto. Il senso del com-porre (porre in relazione) è questo, creare un plus-valore olistico nella connessione dei neuroni melodici. Proprio questo continuo scambio fra un carattere archetipo-sintetico e la storia degli arti-fici retorici che ne hanno modificato il DNA rende tut-tora centrale questa speculazione. Ridisegnando il rap-porto fra figura e fioritura, assimilando nuovi orizzonti di materia che facilitino il dialogo espressivo fra tempe-rato e non-temperato, sperimentando forme di ripeti-zione non necessariamente regressive. Per narrare (co-me per comporre) ci vuole una precisa definizione di caratteri e il controllo del superfluo. Proprio l’orizzon-te del narrare, con tutte le integrazioni novecentesche, compresa la gestione di tempi paralleli sviluppata dal montaggio cinematografico, può fornire corporeità di pensiero ai nuovi melos. Teatro della meraviglia di un ritrovato orgoglio popolar-sperimentale.

Ivan Fedele*

Evidentemente si tratta di una domanda che ci si po-ne da oltre mezzo secolo. Da quando, cioè, si affermò l’estetica e la prassi (ora superate) del serialismo integra-le, coi suoi intenti rivoluzionari tra i quali quello del-la disintegrazione del linguaggio musicale in tutti i suoi parametri. Quella istanza aveva come obiettivo la «de-gerarchizzazione» degli elementi strutturali della com-posizione affinché nessuno di essi potesse assumere un ruolo premininente o di rilievo rispetto agli altri, i qua-li, in questo modo, avrebbero assunto a loro volta un ruolo di «contesto». Quindi, nulla che potesse identifi-carsi con una linea melodica nè con un campo armoni-co «dominanti». Nessun registro che potesse assumere un ruolo di rilievo rispetto agli altri. Nessuna dinami-ca che ricorresse anche solo due volte di seguito e quin-di, almeno in linea teorica, potesse assumere un ruo-lo semantico di riferimento più o meno «stabile». Ne consegue che, all’interno di questo auspicato «comu-nismo strutturale», in realtà il compositore decideva di non decidere. Ed è bellissima l’osservazione di Nicolas Ruwet, il quale afferma che, a conti fatti, lo scollamen-to progressivo tra la musica nuova e la sua percezione non è soltanto di tipo culturale, ma soprattutto di ti-po concettuale e psicoacustico. La musica è un linguag-gio autoreferenziale, ovvero per essere percepita come evento dotato di senso (poetico) non può fare riferi-mento che a sé stessa. E il serialismo integrale (in se-guito anche lo strutturalismo radicale e altre correnti di pensiero) non fornisce più questi elementi intriseci poi-chè abolisce i principi di «direzionalità» («Ti faccio ve-dere da dove sto partendo», «Guarda dove ti conduco, e guarda dove arrivo»…) e di «ridondanza» («Guarda che sto ripetendo questa cosa, anche se un po’ variata, perché questo è un elemento centrale della composizio-

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ne...»). In questo modo scompare la componente dram-maturgica della musica. E questo accade a causa di un grande equivoco dal quale sono stati tentati, nel loro «furore» giovanile, geni assoluti della musica del No-vecento come Boulez, Berio, Stockhausen. Quegli stes-si compositori che, conclusasi quella esperienza così ra-dicale, hanno generosamente recuperato il concetto di «gerarchia» nella loro musica!

Che cosa accadde veramente in quegli anni? A mio avviso, sotto l’impulso rivoluzionario e innovativo, si commise una semplificazione impropria, assimilando il concetto generale di gerarchia (nel senso di ruolo diver-so che gli elementi ricoprono all’interno della struttura del linguaggio musicale) e quello di gerarchia tardoro-mantica o espressionista. Un po’ come dire butto via il bambino con l’acqua sporca!

Alla luce di quella esperienza e di altre che ne sono derivate, ecco che, oggi, una riflessione sulla melodia può certamente dare frutti interessanti. Come pure un approfondimento del concetto di armonia. Riguardo a quest’ultimo, la ricerca più avanzata che è stata con-dotta negli ultimi anni è quella cosiddetta «spettrali-sta». Dall’analisi del suono nella sua fisicità più recondi-ta sono state rilevate proprietà microformali del timbro estremamente interessanti. Al punto tale da prenderle a modello anche della macroforma. Questo ci fa com-prendere meglio come, ad esempio, melodia e armonia siano due aspetti della stessa medaglia, così come spa-zio e tempo sono due aspetti dell’evento, o dell’avve-nimento, come Einstein ci insegna. Il problema allora è distinguere che cos’è una melodia e che cosa non lo è. Ancora meglio sarebbe formulare una domanda del tipo: «Che cosa percepiamo come melodia e che cosa no?» La melodia non è altro che uno snodarsi di eventi sonori, che possono essere singole note, timbri o anche costellazioni di «figure» posti diacronicamente uno dopo l’altro e legati da almeno un elemento comune ag-gregante. Direi che gli elementi di coerenza potrebbero essere suddivisibili in due famiglie: da una parte la coe-renza «fisica», inerente al succedersi diacronico di even-ti musicali; dall’altra quel tipo di coerenza che si espli-cita all’interno della melodia ma che è extrafisica, cioè culturale. È sufficiente che un’ocarina suoni tre note qualsiasi perché io mi «disponga» a coglierne un’origine di tipo etnico, perché ho un imprinting di questo genere su quel timbro. Ma quali sono gli elementi che rendono una successione diacronica di eventi un tutto coeren-te, e quindi una «linea melodica»? Per esempio il tim-bro, come si è già accennato. Ma potremmo dire an-che la dinamica: un pezzo che avesse delle dinamiche non «ballerine» presenterebbe delle continuità e delle discontinuità, dei percepibili incrementi e decremen-ti d’intensità. Prendiamo, ad esempio, una successione diacronica di note che si svolge tutta su un campo limi-tato di frequenze polarizzate (poche note incastonate nella tavola delle altezze): ciò determinerebbe una sor-ta di omogeneità (che in alcuni casi può sfociare anche nella «monotonia», come accade talvolta con la musica modale) per cui questa melodia sarebbe percepita come un percorso che ha una sua coerenza all’interno di una «superficie» armonica solida, definita e, fondamental-mente, «significante». Questi sono alcuni modi, a mio avviso efficaci, che, (reintroducendo il concetto di ge-

rarchia tra elementi importanti ed elementi non secon-dari ma «di contesto»), ci rimandano inevitabilmente alla nozione di «archetipo». Gli archetipi sono il motore e il fondamento dei comportamenti simbolici e di tutte le invenzioni artistiche. E un compositore attento se ne rende conto in ogni istante della sua attività.*

* Ivan Fedele proprio in questi giorni ha terminato la stesura del-la sua prima opera di teatro musicale, Antigone.

Fabrizio Festa

Melodia, ritmo e armonia – nonostante l’evoluzione storica e le peculiarità geografiche che ne hanno con-traddistinto le diverse storie – sono gli elementi fon-danti della grammatica musicale. Così come materia ed energia, spazio e tempo, restano gli elementi costituti-vi delle nostre teorie fisiche e cosmologiche, indipen-dentemente dall’evoluzione delle stesse, analogamente melodia, ritmo e armonia appartengono in maniera na-turale (in senso fisico e psicologico) all’universo della musica. In particolare, la melodia costituisce l’elemento strutturale con il più alto contenuto informativo, e per-ciò quello che contribuisce in maniera determinante a stabilire una connessione intellettiva tra opera e ascol-tatore, piuttosto che quella intuitiva (percettiva) che si fonda invece sul ritmo, o quella simbolica evocata dal-le combinazioni armoniche. Di conseguenza la melo-dia, qualora pensiamo alla musica come un linguaggio che debba mettere in relazione musicista e ascoltatore (una relazione tanto intellettiva quanto emotiva), assu-me una funzione primaria: trasmettendo informazio-ni, è l’uncino che il compositore utilizza per agganciare l’ascoltatore. Che le informazioni in oggetto siano meri fonemi (e quindi non abbiano un contenuto semantico) è irrilevante. Si tratta comunque di fenomeni fisici con un alto impatto psicologico e fisiologico. Del resto, non tutte le informazioni veicolano dati, e il concetto stes-so d’informazione ha assunto valenze che vanno al di là di una visione esclusivamente «nozionistica» del sa-pere. Esiste un sapere «emotivo», uno «evocativo», uno «percettivo», saperi che sono altrettanto importanti di quello cognitivo, e sono commensurabili, sebbene con gli strumenti adeguati. Che poi qualcuno tra i compo-sitori, una minoranza sia rispetto all’intero mondo del-la musica, sia all’interno del più ristretto contesto della «classica», abbia deciso di non avvalersi di melodia, rit-mo e armonia, o comunque di rielaborare tali elemen-ti all’interno di contesti nati da una precedente destrut-turazione delle grammatiche musicali tradizionali, non modifica la sostanza delle cose. La musica, in quanto linguaggio, può essere anche concepita attraverso la ge-nerazione di grammatiche totalmente artificiali, e quin-di fondate su basi estetiche e/o ideologiche. Che poi i ri-sultati siano insoddisfacenti e che tali esperienze siano finite ai margini dell’attività artistica è un fatto stori-

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co. Un esito che si sarebbe potuto facilmente prevede-re, dal momento in cui si è pensato all’opera d’arte co-me il prodotto di un solo individuo, e non in relazione alla comunità, cui quello stesso individuo appartiene.

Luca Francesconi

Innanzitutto bisogna intendersi sulla definizione stes-sa della parola. Da un certo punto di vista, nell’ambito della musica moderna, porre il problema usando la pa-rola «melodia» è forse poco preciso. Siamo soliti conce-pire la melodia come funzione della struttura armoni-ca, dell’armonia tonale. In realtà si tratta di un concetto molto più vasto, che ha a che fare con alcuni principi fondamentali della logica percettiva. Ecco quindi che, dal punto di vista della percezione, il discorso viene im-mediatamente allargato a un approccio di tipo fenome-nologico. Se si parla di melodia per quel che concerne la musica più recente, preferirei parlare piuttosto di una sequenza privilegiata di altezze con una struttura linea-re. Si tratta di capire che tipo di comparazione può es-sere fatta fra un comportamento lineare, non lineare e, ampliando il discorso, poli lineare. Questo significa chiedersi se esista la possibilità di avere più linee, o ad-dirittura dei comportamenti non lineari e lineari allo stesso tempo. Bisogna fare una piccola premessa: ri-guardo qualsiasi evento di tipo estetico oggi siamo sot-toposti a una doppia pressione. Da una parte c’è quella che chiamo «pressione semantica», che si rivolge a quanto viene evocato: attinge all’archivio che abbiamo nella mente, un archivio storico legato alle tradizioni delle diverse culture. Esiste una semanticità della musi-ca, un potere evocativo, il confine del quale è impossi-bile stabilire dal punto di vista fisiologico o storico. Il massimo di questo stato è rappresentato dalla citazione: il massimo della pressione semantica lo si ravvisa quan-do a essere citato è qualcosa di estremamente noto, per cui la nostra percezione estetica viene immediatamente attratta in quanto riconosce un modello. A questo pun-to non siamo più all’interno di un organismo estetico a sé stante, ma introduciamo un elemento estraneo che distrugge, dal punto di vista di una composizione nuo-va, l’elaborazione strutturale del pezzo in quanto disto-glie totalmente l’attenzione dalla costruzione del com-positore. Dall’altra parte possiamo immaginare invece una sorta di esplosione di energie fisiche pure in movi-mento, come materia organica, in evoluzione e trasfor-mazione continua. La musica partecipa di quest’attività puramente fisica, incandescente: uno stato di trasfor-mazione perenne. Al momento in cui si dà forma e si crea un equilibrio di tutte queste energie tipo, si può ar-rivare a costruire una figura musicale, un equilibrio unico di queste forme che può arrivare anche a cristal-lizzarsi in una forma definita, statica. Un procedimento lineare è un procedimento che prevede un certo anda-mento del tempo: in qualsiasi fenomeno lineare della percezione, il momento t4 o tn è legato al momento che precede da un’evidente connessione di valori in aumen-

tazione o in diminuzione. Allo stesso modo anche un crescendo è un elemento lineare, perché la pressione delle onde sonore nell’aria ha un andamento accresciti-vo-cumulativo. Fenomeni lineari sono anche il ritmo e, evidentemente, la melodia. Un fenomeno non lineare, invece, fa riferimento a elementi unici, nel senso che ogni evento ha un suo set di informazioni parametri-che autonomo, indipendente dall’elemento che l’ha pre-ceduto e da quello che lo seguirà. Non ci sono necessa-riamente delle connessioni lineari, cioè un trapasso gra-duale di energia nei diversi parametri, da un elemento all’altro. In questo ambito abbiamo la cosiddetta musica seriale, in cui ogni momento è organizzato con un suo set di informazioni parametriche autonome. Quanto fi-nora detto implica l’essere di due concezioni del tempo completamente diverse: una, quella lineare, ha una fe-nomenologia teleologica, va da un punto A ad un punto B; l’altra è una concezione del tempo che prevede inve-ce una percezione istante per istante. Questa distinzio-ne è fondamentale e implica un elemento altrettanto fondamentale: il lavoro sulla memoria. In che modo il compositore decide o meno di costruire una mappa geografica ideale del tempo nella memoria dell’ascolta-tore? Si può ravvisare un tardo modernismo che impli-ca l’inesistenza di una lingua comune che pretenda di costruire un oggetto secondo regole private o non ne-cessariamente condivise con chi ascolta. Questo atteg-giamento ha generato la cosiddetta musica contempo-ranea, sviluppandone anche la separazione dal pubbli-co: se un oggetto apparentemente ha senso solo per chi lo ha costruito, provocherà automaticamente un certo disinteresse negli altri. Quando l’identità degli oggetti musicali non cambia nel tempo, quando ciò che viene a verificarsi è piuttosto una rotazione, o un cambio di prospettiva, o un cambio di scala che lasciano inaltera-to il cromosoma tematico, allora anche l’identità del-l’oggetto in questione, anche se viene diminuito o altro, non cambia: i rapporti interni, anche se moltiplicati per unità diverse, rimangono invariati. La mappa del tem-po è una mappa della memoria; ne consegue che il prin-cipio di riconoscibilità e di ripetizione, di simmetria e di asimmetria, il principio di differenziare nella perce-zione degli eventi – e cioè il modo in cui il cervello cap-ta la differenza fra un elemento A e un elemento B – sono tutti elementi che danno luogo a un diverso dise-gno e a diverse velocità di spostamento all’interno della mappa stessa. In questo senso il tempo è elastico e non cronometrico: è un’unità che si misura in senso qualita-tivo e non quantitativo. Il problema, così, si amplia e diviene un problema di scelte estetiche. Parlando di energie pure e di capacità evocativa – come diceva Lu-ciano Berio, tutto quello che si fa significa anche se non lo si vuole – ne esiste una in riferimento a qualsiasi ele-mento musicale, anche al più astratto. Tant’è vero che un certo tipo di rumorismo può facilmente diventare la colonna sonora, ad esempio, di un certo tipo di cartoni animati, etc. La melodia o, meglio, qualsiasi tipo di fi-gura musicale è uno stato «n» di una materia in conti-nuo movimento. Questo stato è uno stato unico e in un certo qual modo irripetibile, che ha un dato e preciso equilibrio fra i parametri. Ogni parametro ha un suo quoziente di stabilità o instabilità: ritmo, timbro, altez-ze, etc. Questo stato «n» della materia è uno stato in

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evoluzione, per cui cambiando per esempio la quantità di pressione su uno dei parametri si può cambiare la faccia di questa figura in una certa direzione piuttosto che in un’altra. La riconoscibilità di un evento, di un oggetto musicale può essere determinato da tantissimi parametri e sub parametri, a cominciare dai due fon-danti almeno per noi e cioè lo spazio e il tempo. Cosa importantissima nella melodia è la direzionalità delle note. Analizzando dei classici a volte si trova che gli in-tervalli sono di scarsissima importanza, e così anche per quel che concerne il ritmo. Più importante è la dire-zionalità di un certo salto intervallare. Ad esempio, se nella Quinta di Beethoven si cambia l’intervallo di ini-zio, la Quinta sarà comunque riconoscibile. E così an-che se in una certa misura si prova a cambiarne il ritmo. Provando a lasciare inalterato ritmo e intervallo, e inve-ce che fare «sol sol sol mi» si fa «sol sol sol si», quindi si va in su, il testo viene completamente stravolto, non ri-conosciuto nemmeno come citazione. Questo per dire che ci sono moltissimi aspetti che definiscono l’identità di un oggetto sonoro. La melodia in sé è un aspetto li-neare, un andamento lineare, una serie di sequenze di suoni. Naturalmente ha dei limiti, come succede impri-mendo energia a tutti questi parametri. Entro certi li-miti la linearità funziona. La melodia è nata come fatto vocale, dunque le caratteristiche principali sono sem-pre state la restrizione dell’ambitus, la relativa semplici-tà degli intervalli, la ripetizione, la costruzione fraseo-logica e una serie di derivazioni. Molto importante è la limitazione di ambitus. Se facciamo un paragone e im-maginiamo una melodia per orchestra, è certo possibile scrivere una grande melodia, anche con degli intervalli giganteschi che sarebbero impossibili per una voce so-la, ma diventa ancora più importante il discorso della li-nearità.Ci vuole una coerenza parametrica, una gradua-lità, una collocazione a livello fraseologico, intervalla-re, vettoriale che renda comprensibile la connessione dei singoli elementi. Anche oltrepassando i limiti della voce rimane questo problema della coerenza lineare. E tuttavia la linearità non è una prescrizione: è una possi-bilità. Stiamo vivendo un momento in cui vi è un’enor-me ricchezza di possibilità alla quale si può attingere li-beramente, sempre che si conosca la materia che si ha fra le mani. Tornando alla melodia, il rapporto con la voce e col testo è sempre stato fondamentale, legato sia all’espressione, sia alla comprensibilità, a ragioni di tipo sociale, politico, liturgico, etc. Il canto gregoriano stes-so limitava l’elaborazione melodica per motivi funzio-nali; andava così persa non solo comprensibilità del te-sto, ma anche quella collettività che era la funzione so-ciale del canto comune. Per quel che concerne la com-prensione del testo, c’è stata probabilmente una doppia genesi: da una parte quella di tipo sociale-religioso, che prevedeva l’utilizzo della funzione melodica in senso rafforzativo del testo, dall’altra un’esplosione emozio-nale di origine popolare, che probabilmente ha dato origine non solo alla melodia di tipo romantico ma an-che all’opera stessa. Quando la parola normale, quoti-diana, quella dell’uomo semplice, della strada, non era più sufficiente a esprimere un sentimento che si faceva urgente nel proprio cuore e c’era il bisogno di urlare più forte l’urgenza di questa emozione, allora la corda vo-cale cominciava a vibrare e usciva così la nota più o me-

no tenuta, più o meno intonata, stretta parente dell’ur-lo. Sia l’urlo sia il canto, infatti, sono degli stati di alte-razione rispetto alla parola parlata: il primo legato a fe-nomeni istintuali e più animaleschi, se non addirittura infantili e quindi pre-verbali, il secondo è qualcosa di post-verbale, una trascendenza di tipo poetico che vira verso l’astrazione. Entrambi, comunque, sono al di qua o al di là della parola. Da questo punto di vista la melo-dia non è illegale: dipende dallo stato, dalla materia mu-sicale che si trova in quel momento. Ogni stato è l’equi-librio, la combinazione unica di tutti i parametri musi-cali che a vicenda si compensano per evitare una frattu-razione dell’informazione. Per avere un oggetto che ab-bia una sua comprensibilità, un suo valore, ci dev’essere una distribuzione di qualità fra i diversi parametri, di-stribuzione che può cambiare all’infinito. Per misurare un parametro ci sono vari sistemi, per esempio un quo-ziente di stabilità o di instabilità che permette di dare al parametro un certo valore: se il ritmo è stabile, ad esem-pio, il quoziente di instabilità sarà di conseguenza mol-to basso, e probabilmente succederanno altre cose ad altri livelli. La melodia come la conosciamo noi, è la melodia come funzione armonica: una sequenza privi-legiata di note organizzate secondo dei principi di sta-bilità tale per cui c’è un equilibrio che in qualche modo privilegia l’aspetto delle altezze o/e della ripetizione e della costruzione fraseologica, è qualcosa di molto si-mile a uno stato melodico. C’è bisogno di una certa ri-conoscibilità, di un certo quoziente di ripetizione. Per questo è possibile un comportamento melodico, linea-re, usando i parametri in modo anche molto diversifica-to. Oggi c’è un problema di saturazione delle informa-zioni e di disperato bisogno di riacquisire la capacità di discernere la qualità e, per fare questo, è indispensabile uno studio sulla percezione. Quello da realizzare è un laboratorio percettivo permanente, in cui si lavori di-vertendosi a ricostruire al buio e con quattro suoni una scala di valori qualitativi per poi aggiungerci tutto il re-sto. Lavorando con mondi a parte come quelli della pa-rola e della semanticità della parola, si aprono moltissi-mi altri problemi di relazione. Si pensi solo a cosa av-viene se a tutto ciò si vanno aggiungendo luci, immagi-ni, personaggi in carne e ossa…

Adriano Guarnieri

Il concetto di melodia, termine tecnicamente sbaglia-to, non si è mai interrotto, come il basso continuo, del resto nemmeno con la serialità né con l’avanguardia. La melodia è una trave portante della struttura compositi-va indipendentemente dal linguaggio. È sempre strut-turalmente stata presente, perchè senza essa non sareb-be possibile identificare un’unità formale, intervallare, episodica.

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Giovanni Mancuso

Parlare della melodia per me è riferirmi al concetto di LINEA, l’archetipo del segno che viaggia nel tempo; non a caso nella cultura occidentale si tracciano linee nello stesso verso dello scorrimento del tempo. Quin-di penso che abbia ancora grande spazio la ricerca al-l’interno di questo concetto così semplice ma fondan-te. La sua evoluzione – non stiamo qui a parlare di me-lodia nella sua connotazione generica di canto o di un certo tipo di canto – può secondo me delinearsi in pa-rallelo con una indagine rinnovata sul ritmo. L’esplo-razione di geometrie complesse può portare la linea a nuove proposizioni musicali. A proposito della tradi-zione musicale italiana recente ricordo come Castiglio-ni, Berio, Donatoni, Rubin de Cervin, Sciarrino tra gli altri siano stati tra i più fervidi costruttori di linee in una corrente forse ancora peculiare (italiana?) di tra-dizione del di-segno. Da parte mia il lavoro su questo aspetto archetipico non solo della musica ma della co-municazione stessa è ora centrale. Certo, depurarsi dal-le illusioni di una comunicazione «espressiva» del con-cetto di melodia sarebbe importante per cominciare a esplorare quella complessità che un autore – forse uno dei più grandi inventori di melodie-linee – come Zap-pa intravedeva alla fine della sua vita nelle geometrie complesse delle sempre più sottili articolazioni ritmi-che del segno. Concludendo invito ad ascoltare – tra gli illuminanti esempi di fecondazione tra concetto di li-nea e di ritmo – le musiche di Frank Zappa ed Ernesto Rubin de Cervin quali possibili prospettive per il futu-ro del di-segno e far notare che attorno a questo con-cetto ruotano le indagini apparentemente più lontane e inconciliabili...segno che siamo di fronte a uno dei pro-blemi centrali della musica occidentale.

Giacomo Manzoni

Contesterei l’affermazione che il «concetto di melodia è stato da sempre fondamento della prassi compositi-va»: per esempio nella grande polifonia classica e fino a tutto il contrappunto barocco il concetto di melodia non è separabile dalla sua «negazione», o sublimazione, la polifonia; né ho mai sentito fischiettare una melodia, che so, di Richard Wagner o di Debussy. Il fatto è che la musica è di per sé «orizzontale», in un certo senso è sempre melodia, né mi interessa indagare da un punto di vista estetico o formale che cosa questo propriamen-te significhi: vorrei solo che l’ascoltatore di musica d’og-gi (ma lo raccomanderei moltissimo anche per quella di ieri e dell’altroieri) si togliesse dalla testa questo princi-pio, e si abituasse ad ascoltare la musica nella sua totali-tà complessa, rendendosi conto che l’eventuale melodia è solo una parte, spesso non la più importante, di un di-

scorso a più livelli, di cui egli non dovrebbe trascurare nessuno. Esisterà mai in Italia un’«educazione all’ascol-to», magari fin dalle scuole dell’obbligo, che possa rea-lizzare questo obiettivo?

Giordano Montecchi

Il ripensamento della melodia nel corso del XX secolo può forse riassumersi in un assioma di fondo che ha lar-gamente influenzato, quantomeno in forma implicita, le successive formulazioni estetiche e poietiche ineren-ti la moderna arte del comporre: «La melodia è la forma d’espressione più primitiva della musica». È uno degli aforismi di Schönberg risalenti agli anni 1909-1910, ed è a partire da questo convincimento, mai espresso da nessun altro compositore con tanta provocatoria net-tezza, che la musica accademica del XX secolo e le va-rie generazioni dell’avanguardia, con la loro ossessione per il nuovo e la sperimentazione (speculare alla fobia per un passato trasformato in tabù) hanno costruito la loro carta d’identità e, con essa, la loro fortuna e la loro decadenza. In sede di teoria e di prassi compositiva, il XX secolo sembra aver modificato l’area semantica del-la «melodia», separando il concetto di melos dalle no-zioni di canto e di cantabilità, a favore di una concezio-ne più astratta del termine, inteso come sviluppo pu-ramente orizzontale di un insieme di suoni, totalmen-te indipendente da ogni valenza di cantabilità. Il risul-tato è stato un deprezzamento della nozione comune di melodia che ha marciato di pari passo con la guer-ra di posizione condotta sul piano estetico, ideologico e anche politico contro il crescente successo di una nuo-va cultura musicale marcatamente popolare e industria-lizzata; una cultura i cui trionfi sono stati in gran par-te determinati per l’appunto della smaccata supremazia in essa esercitata da due fattori inscindibilmente intrec-ciati: la melodia e il ritmo. Certamente il successo della popular music ha svolto un ruolo determinante nel sal-dare definitivamente la categoria del melodico all’idea di una musica primitiva, plebea, concepita per canta-re e per ballare e, in quanto tale, giudicata priva di un intrinseco valore estetico. La catena delle equivalenze: melodia = cantabilità = banalità = tonalità = regressio-ne = disvalore è diventato così un filo rosso argomen-tativo profondamente fuorviante e ancora ampiamente operante. L’attenzione al piano melodico è stata a lungo interpretata come una scelta regressiva, come cedimen-to del rigore compositivo a favore di un gusto più corri-vo, più vicino alle aspettative del pubblico. In parallelo, a fronte di una melodia trasformatasi concettualmen-te in un retaggio mentale dal quale occorreva liberarsi, il compito dell’educazione musicale è stato inteso spes-so come opera di emancipazione dell’ascolto dall’asfis-siante prigionia della pura dimensione melodica, ovve-ro come sviluppo della capacità di accettare e apprezza-re costrutti melodici sempre meno cantabili. In questa prospettiva, il XX secolo è stato rappresentato nei ter-mini del confronto fra una musica d’arte il cui sforzo di

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continuo autosuperamento l’ha condotta a immolarsi nella lotta disperata e solitaria contro l’orda arremban-te di una musica barbarica e primitiva, capace di sog-giogare le masse ottuse proprio in virtù della sua natura essenzialmente melodica. A fronte di questi argomenti vecchi e usurati che ben conosciamo, la negazione più radicale dell’aforisma schönberghiano e dell’impianto teorico che vi ha fatto seguito, l’ha fornita Béla Bartók con la sua ostinata opera di emancipazione della mono-dia contadina di fronte ai suoi denigratori: «Questo ti-po di musica, scrive il compositore ungherese, è certa-mente, dal punto di vista formale, quanto di più perfet-to possa esistere. Ha poi una enorme forza espressiva, ed è nello stesso tempo priva di qualsiasi sentimenta-lismo come di ogni inutile orpello: a volte, anzi, è così semplice da sembrare addirittura primitiva (non già ba-nale però!)». La rivoluzione bartókiana, consistente nel reintegrare la natura della musica attraverso l’inclusio-ne e la nobilitazione estetica della tradizione contadi-na, ha esercitato sul sistema tonale un’azione demolitri-ce altrettanto radicale quanto quella dell’atonalità e dei dodici suoni. Senonché in Bartók il superamento del-la tonalità avviene nella direzione di una ritrovata mo-dalità, emancipata nel suo libero uso dei modi diatoni-ci, ossia in direzione di una concezione eminentemente melodica che nulla ha a che vedere con la tonalità e nel-la quale il profilo melodico diventa l’elemento musica-le fondante da cui scaturisce anche la dimensione verti-cale armonica. A ciò Bartók aggiunge la piena e profe-tica consapevolezza di quanto le inflessioni melodiche e ritmiche connesse alla performance vocale o strumen-tale (ossia quella dimensione che, unitamente allo spes-sore timbrico, non è trasferibile su carta tramite la no-tazione) siano una componente musicale assolutamente essenziale, nei confronti della quale la teoria e l’estetica del Novecento hanno manifestato un’incomprensione o una sordità addirittura imbarazzanti. Ora quel seco-lo è trascorso. Il lascito di Bartók e dell’etnomusicolo-gia ha fornito gli strumenti epistemologici più affidabi-li per affrontare l’attuale universo musicale. Alla nuova musicologia la dimensione melodica si presenta come una realtà ricchissima che, dopo essere stata per lungo tempo ignorata, spregiata o fraintesa, deve essere total-mente rivalutata.

Luca Mosca

È paradossale che nel momento in cui l’altezza delle note era diventata il principal feticcio, la melodia fos-se quasi completamente scomparsa. Da allora è passato del tempo e la melodia è tornata a essere semplicemen-te uno dei tanti parametri con cui si costruisce, si «com-pone» la musica.

Mario Pagotto

Nella mia musica l’elemento melodico è fondamen-tale. Vigilo con molta attenzione affinché le mie linee melodiche soddisfino alcuni parametri: memorabilità, funzione strutturale, forza espressiva.

La memorabilità è data da: direzionalità melodica, im-pianto centripeto, durata.

La funzione strutturale è determinata dal fatto che gli elementi costitutivi delle mie melodie sono gli stes-si che innervano l’opera in toto. Ciò può accadere per composizioni brevi, ma anche per composizioni lunghe e complesse dove le necessità d’unitarietà e sviluppo or-ganico dell’opera stessa sono assicurate dal medesimo D.N.A. che informa gli elementi melodici principali.

Se gli elementi descritti fanno parte di una dimensio-ne evidentemente fisiologica della melodia, essendo di-mostrato che le capacità percettive, ricettive e di me-morizzazione, senza le quali peraltro non esiste reale comprensione, hanno dei limiti umani precisi, l’ultimo elemento, la forza espressiva, è un parametro sogget-tivo e denota il gusto, la cultura e la sensibilità del suo artefice.

L’essenza melodica non è garantita da nessun siste-ma sintattico musicale, tuttavia ne può essere inibita, o estraniata del tutto, da principi compositivi intellettual-mente autogeni, come la serialità.

La melodia ha una forte componente fisica-coporale. Chi la scrive e chi l’ascolta deve essere in grado di com-penetrarsi con essa, viverla sul proprio corpo, sentir-la come un’essenza vivente. La seconda metà del Nove-cento, viceversa, ha prodotto una frattura, per fortuna non insanabile, tra mente e corpo. In base ad avventate ideologie di rinnovamento musicale, la musica, e quindi la melodia, erano diventate solo un fenomeno intellet-tuale e concettuale che trovava fondamento in processi logici, anche affascinanti, ma estranei all’essere musica.

Marcello Panni

Il ritorno alla MelodiaLa Melodia al giorno d’oggi?Bisogna innanzitutto chiarire cosa si intende per me-

lodia: se vogliamo, possiamo definirla semplicemente come una successione di frequenze o altezze che si suc-cedono nel tempo, e in questo senso essa è un elemen-to essenziale della struttura di qualsiasi musica - si di-ceva un tempo dottamente un «parametro» - insieme al ritmo, alla durata, al timbro, e come tale insopprimi-bile, anche nel più astratto serialismo. Oppure possia-mo intenderla come una sequenza di note nell’ambito di un’ottava e mezzo circa (l’ambito della voce umana) riconoscibile all’orecchio (orecchiabile, appunto) con

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una ritmica chiara e procedente per piccoli intervalli nell’ambito tonale o cromatico. Questo tipo di melodia, dominante nella musica eurocentrica dal Rinascimen-to in poi, base della costruzione tematica della musica strumentale,e trionfante nella musica lirica da Mozart fino a Wagner, dalla fine dell’800 e nel corso del XX secolo venne a perdere progressivamente la sua impor-tanza, con l’abbandono simultaneo della tonalità (salvo che nelle sacche neoclassiche), e con l’avvento, nel se-condo dopoguerra, del serialismo post- weberniano.

Si verificò un processo analogo a quello delle arti fi-gurative dove la «figura», il corrispondente della melo-dia nella musica, nell’incalzare dell’astrattismo conside-rato come destino ultimo dello spirituale nell’arte, ven-ne mortificata a vantaggio del colore, della geometria, del materico.

Con una differenza: mentre nella pittura l’astrazio-ne raggiunse quasi subito, anche se a livello inconscio, una popolarità enorme, adattandosi rapidamente al gu-sto contemporaneo nella sua forma decorativa (quanti negozi e hotel hanno un aspetto «alla Mondrian!), la ri-nuncia alla melodia e alla sua caratteristica, quella di re-stare nella memoria, ha isolato progressivamente la mu-sica che chiameremo «d’arte» – secondo una recente de-finizione per distinguerla da quella di consumo e che non è mai stata così florida! – allontanando il grosso del pubblico dall’ascolto delle novità.

Una frattura irrimediabile, che crea una situazione in-sostenibile: la musica «d’arte» sinfonica e lirica oggi è l’unico campo dell’attività culturale dell’uomo moder-no in cui si preferisce il vecchio al nuovo e si consu-ma al 95% quella del passato. Mentre nel cinema, nel-la letteratura, nella moda, la novità è attesa e apprezza-ta in tutto il mondo, nella musica la presenza di un ti-tolo moderno o contemporaneo è considerato un han-dicap per il botteghino. E questo lo sa bene chiunque organizzi concerti o opera al giorno d’oggi. Ma anco-ra una volta la storia ha cambiato direzione, trovando, se non è troppo tardi, i suoi correttivi. Nella pittura il ritorno alla figura è generalizzato dal fenomeno della post-avanguardia, con un grande riscontro nel pubbli-co e nel mercato: la musica si affaccia in quest’alba del XXI secolo anch’essa ad una ennesima trasformazio-ne. Abbandonando la vertigine dell’assolutamente coe-rente, con una spinta propulsiva che ha origine dal mi-nimalismo americano, la nuova generazione di com-positori si apre a una libertà di espressione che inclu-de un ritorno alla tonalità, e di conseguenza alla melo-dia riconoscibile, alla ritmica semplice, pur non esclu-dendo tutto il patrimonio della sperimentazione del se-colo scorso. Un ritorno salutare e auspicato dal pubbli-co: anche se nulla si ripete e l’innocenza non si riacqui-sta! A salvarci dalla banalità e dall’ovvio l’unica arma a disposizione per un arte disincantata dopo l’ubriacatu-ra della modernità e della post modernità, resta quel-la dell’ironia, che da Nietzche in poi è ancora e sempre un valido passe-partout o alibi che sia.

Quirino Principe

Ha senso la melodia nella musica contemporanea? C’è melodia nella musica che oggi i compositori scrivo-no? A prima vista, le due domande sono strane e inam-missibili. La musica è, per definizione, ritmo, melodia, armonia, timbro, velocità, intensità, dinamica. Non è possibile che esista un quadrato di soli tre lati: se ne ha tre, allora è un triangolo, non un quadrato. Una musi-ca qualsiasi non può NON avere ritmo: magari sarà un ritmo irregolarissimo e continuamente mutevole, con valori ritmici infinitesimi ed esorbitanti dalla «mensu-ra», ma un ritmo, anche ripugnante e miserabile, ci sa-rà sempre, per definizione. E così, qualsiasi sequenza di suoni intonati in maniera determinata è una melodia, per piatta e poco significativa che sia. Ogni emissione simultanea di più suoni diversi è armonia, per sgrazia-ta e dissonante e volgare che sia. Una musica qualsia-si, un suono qualsiasi, sarà sempre prodotto da QUAL-COSA, e quella qualsiasi fonte sonora (che deve esser-ci, altrimenti non c’è il suono) avrà comunque un tim-bro. Eccetera. Detto questo, non sono tanto stolido da non capire che cosa si intenda, ponendo la domanda in oggetto. Non fingo di non capire. Quando si domanda se abbia un senso e se possa esistere ancora la melodia nella musica d’oggi, s’intende una melodia che abbia un minimo di riconoscibilità e d’intonazione precisa, non aleatoria né fondata sugli infinitesimi di tono; che ab-bia un minimo di regolarità aritmetica; che possegga un minimo di simmetria geometrica; che sia ritmica-mente precisa e memorizzabile; che ci collochi con una certa riconoscibilità in un determinato ambito tonale. Esiste, è legittimo che esista tutto questo? Rispondo. Nulla, nel linguaggio delle arti e nell’ordine delle per-cezioni accolte dai nostri sensi (che, si badi, sono stru-menti di conoscenza intellettiva, non di percezione sol-tanto fisica!), nulla è illegittimo. Questa è una defini-zione filosofica, e ha valore come formula etica e come opzione estetica. Ma c’è una definizione storica e politi-ca in senso lato: la tendenza a cancellare la melodia (di-co, la tendenza, poiché di fatto una effettiva cancella-zione è impossibile per definizione, secondo ciò che ab-biamo detto sopra) è stata un’arma utilizzata dagli ideo-logi della musica (figure alquanto turpi) negli anni Cin-quanta, Sessanta e Settanta per perseguitare i musicisti liberi, i compositori contro corrente e non pronti a pie-gare la schiena, gli interpreti che accettavano l’emargi-nazione pur di non eseguire composizioni brutte di au-tori potenti. Concludo con una constatazione. Il Nove-cento è stato il secolo delle feroci ideologie e delle ten-denze persecutorie connesse con le avanguardie e con le neo-avamguardie, più intolleranti delle prime. Ebbe-ne, la musica del Novecento che sopravvivrà e resterà sarà proprio quella di cui chiunque può ritenere nella percezione personale e conservare nella memoria gra-zie alla sua evidenza melodica: Britten, Sostakovic, Li-geti, Stravinskij, Poulenc, Hindemith, naturalmente la triade Schoenberg-Berg-Webern... e resteranno a lun-go le musiche che lungo il secolo XX hanno saputo as-

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sociarsi al cinema: Bernard Herrmann, Erich Wolfgang Korngold, Max Steiner, Nino Rota, Ennio Morricone, Maurice Jarre, Jacques Ibert, Sergej Prokof’ev... Per for-tuna sono esistiti loro, giustificando con la propria fe-lice creatività melodica un secolo noioso, mentitore e ottuso.

Enzo Restagno

È un tema vastissimo... L’idea di melodia, così co-me si è formata nella musica moderna dell’Ottocento, comporta, all’interno della nostra cultura musicale, la complementarità con l’armonia: una monodia, quin-di, accompagnata. La melodia in sé certamente esiste, ma è quasi un’astrazione. Il grande sviluppo della me-lodia ravvisabile nella musica dell’occidente, che rag-giunge il culmine nella civiltà ottocentesca, si fonda su questa stretta complementarità: è l’armonia a valoriz-zare la melodia, a metterne in luce gli aspetti più se-greti, etc. Verso la metà del Novecento viene a verifi-carsi una crisi, un’eclissi della melodia coincidente con una crisi del sistema armonico. I compositori russi, in particolare Stravinskij, Prokofiev, Shostakovich, o Brit-ten in Inghilterra, continuano a coltivare la melodia, in quanto continuano anche a coltivare la dimensione ar-monica. Un’eccezione va però segnalata: quella di Al-ban Berg, che pur adottando, anche se non in manie-ra esclusiva, le tecniche dodecafoniche, le quali com-portano la cassazione del sistema armonico tradiziona-le, nella sua scrittura conserva una vena di invenzione melodica molto significativa. Il punto più basso, quel-lo della quasi negazione della melodia e della dimensio-ne armonica, si raggiunge intorno alla metà del secolo: negli anni cinquanta, negli anni della nuova musica, si può parlare davvero di una reale indifferenza nei con-fronti della dimensione melodica e, ovviamente, della dimensione armonica. Si tratta di un’indifferenza to-tale, un’indifferenza che non nasce dall’oggi al doma-ni, ma che va a recuperare dei precedenti nella cultu-ra della scuola di Vienna dove già si formava la conce-zione della musica atematica: la possibilità di costrui-re un componimento musicale privo di temi, di armo-nia, usando degli incisi o anche soltanto degli intervalli. Ne scaturisce un linguaggio musicale totalmente indif-ferente al concetto di tema, che diviene qualcosa di cui altri autori rispetto al lavoro originale possono appro-priarsi. Tendenza molto importante, che ha anche cer-cato di egemonizzare la cultura musicale senza mai riu-scire in maniera completa. Esistevano difatti alternati-ve, altre ipotesi, ad esempio la cosiddetta melodia del-le parole: la melodia implicita nel parlato, nella voce che parla, che è una linea non molto visibile, e tuttavia di grande risorse musicali. Comincia a manifestarsi in cer-ti passi della scrittura di Mussorgsky, per poi aprirsi ad-dirittura a enunciazioni teoriche oltre che pratiche nelle opere di un compositore come Leos Janacek, conside-rato da tutti gli storici della musica il codificatore della melodia delle parole. Fa una certa impressione trovar-

la applicata molto bene anche da un compositore lonta-no da quest’area culturale: l’americano Steve Reich rea-lizza un componimento, Different Trains, per quartetto d’archi con voce recitante registrata a parte, basandosi proprio sul presupposto della melodia delle parole, che viene tradotta in inglese da Reich e chiamata speech me-lody. Per quel che riguarda un avvicinamento ulteriore al nostro tempo, forse più che di una ripresa della me-lodia in sé e per sé, che sempre in nome di quella com-plementarità tra melodia e armonia non avrebbe mol-to senso, va segnalata una ripresa d’interesse per la di-mensione armonica. Cosa che avviene, per esempio, in un compositore giovane come l’inglese George Benja-min. Non casualmente, forse, perché Benjamin è sta-to allievo di Messiaen, il quale è stato un grande teori-co dell’armonia. Tuttavia non si tratta di una vera e pro-pria causa-effetto, in quanto molti altri allievi di Mes-siaen hanno invece percorso strade diverse. In Benja-min c’è un ritorno a un tipo di armonia che suona al-le nostre orecchie in modo relativamente familiare, co-me potrebbe essere, anche se si tratta di tutt’altra cul-tura, questo parziale recupero della dimensione armo-nica e melodica in compositori russi della generazione successiva a quella dei maestri della nostra avanguardia storica: tutti compositori per i quali la dimensione ar-monico-melodica rivela una certa importanza e un cer-to interesse. Tuttavia se il discorso ha da essere centra-to sulla melodia, l’esempio più importante e originale, corroborato per altro da un vastissimo successo, è quel-lo di Arvo Pärt, colui che reintroduce la melodia nel-la musica del nostro tempo e lo fa partendo da presup-posti assolutamente originali. Il suo linguaggio nasce da una meditazione prolungata, una riflessione fonda-ta sulla melodia stessa, sulla parola che si trasforma in musica. Ha passato anni leggendo i salmi o altre scrit-ture sacre, cercando di immaginare quella che avrebbe potuto essere l’immediata eco musicale di queste paro-le. Lui stesso mi raccontò di aver riempito, lungo il pe-riodo di questo strenuo lavoro, quantità e quantità di quaderni di esercizi melodici, melodie che scaturivano appunto dalle letture dei salmi. Dal rinchiudersi in que-sto meditare, in questo sprofondare in quelli che sono i recessi più intimi della parola, acusticamente parlando, nasce una scrittura in cui la melodia è figlia della parola stessa e ne galvanizza le virtualità sonore, musicali e ca-nore, non senza coinvolgere nuovamente la dimensione armonica. Tutto ciò viene realizzato con una notevole originalità, quello che gli studiosi da qualche anno han-no codificato come stile «tintinnabuli»: un procedere per triadi che però non segue la meccanica tradizionale del concatenamento degli accordi, ma regole più libere e diverse. Tutto ciò lo dico con la massima trasparenza, cercando cioè di spogliarmi di tutte quelle che sono le velleità polemiche che pur si sviluppano intorno a que-ste tendenze. Caratteristico della musica del Novecen-to è un elevato tasso di faziosità. Ravviso non come un dato negativo, ma un bene per la musica, per la cultura, per le arti, il fatto che ci siano delle forti spinte polemi-che, dei contrasti, delle fazioni; tutto questo dà in qual-che modo forza e tensione speciale al dibattito cultura-le. Naturalmente occorre poi che, con il tempo, questi elementi di faziosità in qualche modo si allontanino.

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Veniero Rizzardi

Difficile occuparsi di un’istanza estetica in riferimen-to a una categoria sempre più problematica come quel-la di «musica contemporanea». I musicologi preferisco-no di solito parlare in termini storici, e narrare di un passato pur recente di pratiche e linguaggi riferibili alle avanguardie, quando a queste era riconosciuto un ruolo propulsivo nel quadro di un generale progresso socio-culturale, non ancora quello di comparto tra gli altri nel sistema delle produzioni simboliche. Inoltre, finché è

rimasto in vita il suo sottosistema produttivo collega-to al sistema che chiamiamo «musica colta» (teatri, or-chestre, radio, società di concerti, etichette discografi-che) – della «musica contemporanea» si è potuto parla-re in termini oggettivi, come ambito di pratiche musi-cali descrivibili in modo abbastanza chiaro. Ma ora an-che la «nicchia» è ridotta al quasi niente.

Mutando di necessità le condizioni produttive, i para-digmi creativi mutano di conseguenza e così il ruolo so-ciale dell’artista (il compositore). Per fare un esempio, il venir meno delle possibilità di disporre di organici tra-dizionali (orchestre, gruppi cameristici, solisti preparati e motivati – nonché tempi adeguati per studio e prove) e il parallelo svilupparsi di tecnologie di trattamento del suono sempre più potenti ed economicamente con-venienti, ha di necessità indirizzato i compositori del-le ultime generazioni verso una concezione del proget-to compositivo che non solo incorpora naturalmente la tecnologia come parte del progetto stesso, ma che ri-mette in discussione il rapporto scrittura-realizzazione sonora, composizione-esecuzione. Non si spieghereb-bero altrimenti i contatti e le attrazioni reciproche tra il mondo della composizione artigianale e quello del-la club culture, dei dj, un rapporto, a mio parere, fat-to di convergenze oggettive come anche di interessanti incomprensioni... Non sto osservando tutto il panora-ma, sia chiaro, solo la parte che ritengo più interessante (anche per via del recupero di pratiche antiche e/o tra-dizionali e anche della possibilità di una nuova ri-socia-lizzazione della creazione musicale). In questa produtti-va confusione dove mi pare che il centro focale dell’in-venzione sia la costruzione del suono – o comunque la decostruzione di elementi sonoramente connotati – e la scommessa potenzialmente più remunerativa quella di inventare articolazioni formali congruenti, ecco, si potrebbe ripensare in modo nuovo non già all’astrazio-ne categoriale della melodia ma, in una prospettiva più ampia, alla sua matrice concreta, il canto.

Valerio Sannicandro

Quando oggigiorno penso a un qualsiasi parame-

tro, elemento o aspetto musicale nella prospettiva del-la composizione, non riesco a scinderlo da un conte-sto (musicale) di più ampio respiro. Qualunque elemen-to di riflessione o analisi io scelga si inquadra sempre in un’ottica più ampia.

Cercherò di esprimere questa idea partendo da alcune citazioni musicali letterarie: in Kontakte di K. Stockhau-sen il «timbro» (suoni elettronici) proviene dal ritmo (vibrazioni semplici e complesse); nella composizione spettrale l’«armonia» è sia una conseguenza che il risul-tato di un timbro (analisi spettrale).

Se ne deduce quanto segue: in un lavoro compositivo basato sul suono e i relativi parametri (non necessaria-mente finalizzati aprioristicamente a una resa estetica), anche la melodia dovrebbe essere plasmata a partire da un altro punto di partenza che non sia quello di mera «invenzione» melodica.

Sono convinto della necessità di lavorare su un aspet-to «generale», e sviluppandolo e sviscerandolo all’estre-mo, ottenerne un contesto compositivo strettamen-te collegato a questo punto di partenza. In questo ca-so l’obiettivo sarebbe una linea melodica con differen-ti «comportamenti» e qualità, un tentativo di generare una «forma» unica.

Poiché la mia disposizione personale è quella di fo-calizzare l’attenzione sul significato dello spazio nel-la sua natura acustica e architettonica, risponderò per-ciò al problema con una domanda che coinvolge un più ampio campo di ricerca: la spazializzazione è sempre un parametro «esterno» in un lavoro musicale? Come è possibile partire da questo e attraverso le sue proprie-tà fisiche giungere a un insieme (melodia inclusa) che «converga» in una «coerenza musicale» più alta?

Alcune delle possibili risposte e approcci al problema sono i risultati del lavoro (ancora in progress) al proget-to «ius lucis» fatto assieme a Serge Lemouton (Ircam 2006-2007).

Alessandro Solbiati

Il mio rapporto con la musica è sempre stato di tipo creativo. A partire dai miei 10-11 anni, su un organo elettrico di quell’epoca, «componevo» minuti e minu-ti di musica mia, tonalissima naturalmente, sebbene al-l’epoca non conoscessi nemmeno il concetto di tonali-tà. Infatti, chissà perché, mentre da un lato non sapevo vivere senza andare tutti giorni all’organo, dall’altra mi rifiutavo di «studiare musica».

Quando poi mi convinsero, durante il periodo di stu-di pianistici, verso i 17-18 anni, mi gettai a capofitto, con pochissime basi culturali, nell’ascolto della musi-ca del XX secolo. Volevo essere «contemporaneo» e re-gistravo, Radiocorriere alla mano, tutto ciò che la radio proponesse di recentemente scritto.

Tra le tante cose che mi affascinarono subito, una in-vece mi colpì negativamente: mi sembrava che la musi-ca definita «contemporanea» avesse perduto, o meglio

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non avesse mai trovato, un proprio modo di cantare. Seppur in modo molto naïf e poco cosciente, avevo la percezione che questo fosse un forte sintomo di crisi (intendo crisi nel senso etimologico di ripensamento, di fase di passaggio importante e ineludibile). Così decisi, lancia in resta, che il cuore del mio nascente comporre dovesse essere il ritrovamento, la re-invenzione di una dimensione melodica.

Poiché sto parlando del mio 1976, va da sé che ignora-vo che già da tre anni era mancato il grande Bruno Ma-derna, che in modo tanto affascinante aveva lavorato sul melos, nella straordinaria musica del suo ultimo pe-riodo. E comunque non era stato l’unico.

Conobbi Franco Donatoni. Malgrado egli sia rimasto sempre un punto di riferimento fondamentale per me, non posso dimenticare la faccia che fece quando, por-tandogli il mio primo lavoro un poco compiuto, i Sei piccoli pezzi per clarinetto e pianoforte, pubblicati nel 1978 da Suvini Zerboni, gli descrissi il sesto come una lunga melodia del clarinetto. Egli mi guardò e mi disse: «Ma, vuoi dire “sequenza”, vero!?».

La stessa parola «melodia» era in qualche modo inaccettabile.

Non posso qui ricostruire il tracciato del mio percor-so compositivo e mostrare quanta importanza abbia in esso il lavoro e la riflessione per la ricostruzione di una sempre maggiore pregnanza melodica, perché richiede-rebbe pagine e pagine.

Voglio però citare un mio contributo già esistente: nel dicembre 2002, il Teatro Comunale di Monfalcone, nella serie dei suoi «Quaderni di cultura contempora-nea», ha pubblicato un numero da me scritto, intitolato Ah, lei fa il compositore? E che genere di musica scri-ve? – Quattro saggi su un’esperienza.

Nel lungo capitolo dedicato a «che genere di musi-ca scrivo», dopo aver parlato di parametri quali figu-ra, memoria, forma, armonia e così via, vi è un’appen-dice intitolata significativamente La dimensione melo-dica, un particolare affetto. Il suo concetto base è la se-rena coscienza del fatto che ogni musica, di ogni tempo e luogo, ha avuto un proprio modo peculiare di «can-tare». La musica europea a cavallo della seconda guerra mondiale si è trovata nella difficile situazione di dover sospendere ogni forma di cantabilità al fine di rompe-re un’equazione storicamente radicata fino ad essere in-volontaria, un’equazione ingiusta e comunque desueta, quella tra melodia e tematismo, e quindi tra melodia e tonalità. Si è avuta la percezione che l’unico melos pos-sibile fosse di matrice tonale. Per «non essere tonali», quindi, bisognava «non essere melodici».

Noi siamo figli, anzi nipoti o bisnipoti, di coloro che hanno dovuto compiere quel passo, inflessibile, doloro-so e necessario.

Abbiamo quindi tutte le possibilità, e fors’anche il do-vere, di cercare nel procedere affascinante del pensie-ro musicale europeo, le modalità per un nuovo modo di «costruire melodia», di «cantare», nuovo sì, ma pieno di radici storiche, culturali e psico-fisiologiche, cioè nuo-vo ed antico insieme, come tutte le cose importanti.

Javier Torres Maldonado

Parlare di struttura melodica oggi pone più che mai il problema dell’inscindibilità degli elementi tecnico-co-struttivi della musica stessa. L’interdipendenza delle di-verse dimensioni della nostra «arte del tempo» ci obbli-ga a considerare, all’interno di un’architettura musicale, che una struttura melodica spesso è concepita tenendo conto di dimensioni non solo orizzontali ma anche tem-porali, spaziali, timbriche e verticali. Innumerevoli sono gli esempi di opere di compositori contemporanei in cui l’interdipendenza degli elementi musicali è, volutamen-te, quasi inscindibile. Persino quando, al momento di la-vorare a un nuovo brano, il compositore non può sape-re quale sarà il risultato preciso di un’operazione perché in quel momento lavora applicando parametri diversi a interi processi indipendenti, egli lo fa considerando il ri-sultato percettivo globale dell’evento sonoro. Un chiaro esempio di questa maniera di agire lo troviamo in alcu-ni lavori di Ligeti, come il primo movimento del Concer-to per pianoforte, in cui le altezze melodiche con le qua-li inizia lo strumento solista sembra siano state derivate indipendentemente dall’ostinato ritmico – o «tema pa-radigmatico» – che le percorre, come se avendo due cas-setti, in uno di essi Ligeti avesse messo le ripetizioni del tema paradigmatico in sequenza mentre nell’altro aves-se depositato una grande sequenza di altezze; il risulta-to quindi è dato dalla combinazione del numero esatto di valori ritmici presi dal primo di essi applicato a un nu-mero esattamente corrispondente di altezze prese dal se-condo, tecnica che ricorda poi quella dell’hoquetus.

Una delle caratteristiche più significative che differen-ziano le musiche del nostro tempo da quelle del passato è la complessità dei diversi livelli di costruzione; in que-sto senso è importante considerare i diversi strati in cui le microstrutture melodiche penetrano nella forma mu-sicale: a parte alcune delle mie opere in cui ciò avvie-ne, come quella che è eseguita in questa edizione della Biennale di Venezia, Esferal – in cui il materiale melodi-co percorre diversi strati di velocità di scorrimento tem-porale, spesso sovrapposti –, penso a un modello inte-ressantissimo che è quello di Bhatki di Jonathan Harvey, in cui all’ascolto l’intera composizione rivela la centralità di uno spettro che è spesso melodia ma anche luminosi-tà verticale, timbro, e che in un certo senso dà forma al-l’intera composizione.

Non potendo esaurire in nessun modo l’argomento in poche parole, un ultimo spazio obbligato devo dedicar-lo all’adozione nella musica d’oggi di tecniche di strut-turazione melodica derivanti da musiche extraeuropee o di origine popolare. L’aspetto più interessante che si può cogliere nel lavoro di diversi compositori in questo sen-so risiede nel livello di riconoscibilità che queste tecniche offrono all’ascolto; tale aspetto permette di ripensare gli equilibri tra ripetizione, variabilità e struttura formale.

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Paolo Troncon

Se dovessimo collocare la domanda all’interno di un’ipotetica storia del pensiero estetico-compositi-vo della melodia, non credo sarebbe del tutto corret-to identificare e descrivere il suo «travagliato» processo evolutivo nelle prassi compositive del XX secolo come un «progressivo ripensamento». Si potrebbe forse di-re che nel corso degli anni (e in occidente, a differenza che in altre culture, grazie soprattutto a stimoli di na-tura intellettuale) sono avvenuti progressivi «svelamen-ti» (di ciò che c’era, ma non appariva) delle intrinseche possibilità e dinamicità che la componente melodica può avere nel contesto compositivo. I risultati hanno influenzato sia le prassi creative dei compositori sia il modo in cui la stessa melodia è stata riconsiderata qua-le veicolo di comunicazione di stati emotivi soggettivi. Per questo motivo risulta difficile assumere il concet-to di struttura melodica come punto fermo per pensare al problema compositivo generale, analizzare cioè qua-le possa essere il suo contributo nell’ambito del com-porre odierno. Pensare alla struttura melodica è infat-ti esso stesso un problema ancora irrisolto nell’ambito del pensiero estetico-compositivo contemporaneo, per-ché la concettualizzazione rimanda a questioni aperte o non ancora bene assimilate. E a questo stato ha contri-buito, nel bene e nel male, forse anche l’accelerato svi-luppo dell’analisi musicale in Italia, fenomeno di rilie-vo solo da una quindicina d’anni. Credo utile allora fare una riflessione sul passato prima di tentare una risposta alla domanda titolo di questo contributo.

Negli ambienti della cosidetta sperimentazione è ac-caduto a mio parere un fraintendimento: si è supposto che particolari funzioni strutturali della melodia ritenu-te più consone ai linguaggi «contemporanei» (a ben ve-dere più che altro per ragioni di stile) potessero in qual-che modo diventare il paradigma migliore, se non uni-co, per possibili sviluppi compositivi successivi. Qual-che esempio. Nel campo intervallare: l’esaltazione della funzione puramente diastematica (salti, cambi di regi-stro, ecc.) a discapito di quella «semantica» (il «valore» espressivo dei singoli intervalli). Nel campo ritmico: l’anestetizazzione della componente pulsiva-muscolare (con l’abuso di raggruppamenti irrazionali, con l’ordi-namento delle sequenze degli accenti avulsi da contesti percettivi, ecc.). Nel campo sintattico-fraseologico: la negazione della tradizionale strutturazione dialettico-retorica che ha fatto emergere le componenti forse più «naturali» della melodia quali silhoutte, contorni, com-pressioni, dilatazioni, apici, ecc.

Un altro fraintendimento è avvenuto sul concetto di «opera originale», parole culto della composizione spe-rimentale, che ha portato a negare molte funzioni del-la melodia solo perché ritenute «tradizionali». Molta musica del Novecento si è basata sulla semplice cate-goria logica del «negativo», si è cioè evoluta (ha defi-nito il «nuovo») soprattutto attraverso la negazione di assunti grammaticali, sintattici, espressivi, formali. Ma l’equazione, un po’ necrofila, tra «originalita» e «novità»

da una parte e «negatività» dall’altra, ha contribuito ad asfissiare varie componenti vitali della musica (e quin-di della melodia) che invece non hanno mai smesso di mostrare la loro vitalità.

Il lavoro svolto da molti compositori e intellettuali del Novecento è stato fertile e fondamentale nello svelare ed esaltare componenti che precedenti modi di conce-pire l’apparato melodico trattenevano nascoste. L’erro-re è stato forse quello di pensare che l’essenza di questo svelamento fosse un fatto totalmente nuovo, che potes-se rappresentare una rottura con il passato e quindi un nuovo inizio fondante. Così non è stato: evidentemen-te la ricerca e la sperimentazione hanno portato anche a qualche travisamento, perché la «melodia» — prono-sticata finita come componente del linguaggio musicale contemporaneo – non è morta affatto, anzi nell’era del-la globalizzazione (questo sì fattore veramente nuovo e «contemporaneo»!) sta vivendo molto floridamente e in tutti i generi musicali.

Ma davvero poi i processi compositivi sulla melo-dia usati nella musica contemporanea sono così diver-si da quelli impiegati dai compositori del passato? Al di là degli stili tecnico-compositivi e di quelli linguisti-ci adottati, e tralasciando fattori quantitativi, dal punto di vista dei processi cognitivi io credo, ma anche l’ana-lisi lo ha dimostrato, che le manipolazioni compositi-ve sulla melodia operate da Bach o da Beethoven nel-le loro opere siano sullo stesso livello di complessità di quelle fatte da Boulez o da Stockhausen. Si potrebbe dire, pensando al senso cognitivo, che la ricerca della «coerenza» linguistica (principio basilare e molto ricer-cato nella composizione musicale) abbia spesso portato i compositori dello scorso secolo a operare scelte tecni-che orientate verso il controllo della sfera razionale-in-tellettuale piuttosto che di quella delle relazioni senso-riali. La «musica dell’emisfero sinistro» ha quindi bat-tuto quella del destro, almeno secondo molti dei com-positori eletti quali più rappresentativi della modernità dal pensiero musicologico dominante. Non a caso mol-ti compositori ancora oggi sentono la necessità di spie-gare prima dell’esecuzione delle loro opere i processi compositivi adottati, per «introdurre» gli ascoltatori al-la fruizione delle loro composizioni, come se la ragio-ne, il «senso» della musica potesse risiedere nelle inten-zioni intellettuali degli autori e le parole potessero giu-stificare ciò che l’orecchio magari rifiuta.

Io credo che nel mondo di oggi, molto diverso solo da quello di quindici anni fa, molte posizioni estetiche del secondo Novecento abbiano del tutto perso la loro «at-tualità» a causa della loro forte contraddizione con la «contemporaneità», e che le nuove generazioni di com-positori abbiano gli strumenti e la possibilità di ri-pen-sare in modo nuovo alla funzione della melodia nel tes-suto compositivo. Come? Innanzitutto con un’opera di pulizia concettuale rispetto a tare ideologiche oramai datate e alla cattiva o incompleta definizione dei para-metri musicali che concorrono alla concettualizzazione della struttura melodica. Manca a tutt’oggi, per esem-pio, nel linguaggio comune – e anche in quello tecni-co (al di fuori degli ambienti specialistici) – un voca-bolario sufficientemente ampio per poter esprimere e comunicare molti aspetti significativi del «funzionare» melodico. Credo inoltre che la ricerca possa avvaler-

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si dello sviluppo delle nuove tecnologie, non tanto per l’utilizzo di strumenti musicali nuovi, quanto e soprat-tutto per analizzare le profonde trasformazioni che ta-li tecnologie stanno portando nei costumi culturali del mondo in cui viviamo.

In questo senso credo allora che la «melodia» pos-sa ancora essere testimone della contemporaneità, che possa tradurre le tensioni soggettive e intellettuali del-l’artista di oggi e che possa quindi essere un valido sog-getto nel rinnovamento del linguaggio musicale.

Fabio Vacchi

Mi rifiuto di rilasciare dichiarazioni su questo tema. Forse questo può avere un qualche significato...

Giovanni Verrando

A priori nessun elemento puo’ essere considerato estraneo al linguaggio musicale odierno. Semmai, per giustificare in modo convincente le scelte linguistiche appaiono decisivi l’atto della contestualizzazione e la dimostrazione di una consapevolezza. Nel caso della melodia, ad esempio, sono molte le questioni alle quali un autore deve dare risposta: è interessante la gerarchia degli elementi musicali che la struttura melodica può portare con sé? Oppure possiamo sviluppare il concet-to di melodia in una struttura priva di gerarchie? Ci so-no ragioni extra-musicali che ne giustificano l’uso? Le risposte a queste ed altre domande dimostrano consa-pevolezza, e senza di essa non c’è efficacia. Nell’epoca della personalizzazione dei linguaggi, la consapevolez-za tecnico-storica è, per l’autore, condizione di pari im-portanza alla forza dell’immaginario.

Si è da poco concluso il convegno internazio-nale dedicato alla melodia e alla funzione me-lodica come oggetto d’analisi, tenutosi all’Ir-

cam di Parigi (17-18 ottobre) e coorganizzato dal-la SFAM (Societé Française d’Analyse Musicale) e dall’Ircam. I vari interventi (più di una ventina) hanno offerto un panorama estremamente vasto su un concetto, quello di melodia, le cui ramificazio-ni teoriche, analitiche e compositive costituiscono un attivo campo di studi nella ricerca musicologica contemporanea. Studio-si provenienti da orizzon-ti differenti, dall’etnomu-sicologia alla filosofia del-la musica, passando per la composizione, la matema-tica, l’informatica, l’epi-stemologia hanno accet-tato la sfida dell’interdi-sciplinarità, contribuen-do a offrire un’immagine estremamente complessa della riflessione contem-poranea sulla melodia. Due avvenimenti maggio-ri hanno accompagnato le varie presentazioni. Al-l’occasione della pubblicazione in francese delle Re-gole della musica (éditions Delatour), gli autori (Mario Baroni, Rossana Dalmonte e Carlo Jacoboni) han-no discusso alcuni aspetti del loro comune interes-se per la ricerca sull’analisi melodica, in particolare nei suoi aspetti computazionali. Partendo dal con-cetto generale di grammatica musicale quale siste-ma ordinato di regole, gli autori hanno ritracciato

il percorso teorico che ha condotto all’elaborazio-ne di un modello informatico per le arie di canta-ta di Giovanni Legrenzi. L’interesse di un approc-cio computazionale al problema della melodia è in-nanzitutto quello di verificare il legame fra regole analitiche e regole compositive e confrontare quin-di i risultati ottenuti con l’esperienza percettiva del-l’ascoltatore. La presentazione teorica della ricer-ca condotta dagli studiosi italiani è stata quindi ac-compagnata da vari momenti musicali, nei quali le

arie prodotte dal compu-ter venivano interpretate al pianoforte e alla voce, di volta in volta accompa-gnate dalla versione origi-nale di Legrenzi. Un secondo momento musicale ha accompagna-to i lavori del convegno. La pianista Thérèse Ma-lengreau ha proposto, al termine della prima gior-nata, un Concert-Analyse

sul genere dell’arabesco quale «ossessione della li-nea pura e ideale, del movimento immobile, dell’or-namento vegetale». E benché la questione del lega-me fra arabesco e melodia resti, come d’altra parte la maggior parte delle questioni del convegno, sen-za risposta, queste due giornate di studio hanno si-curamente offerto un punto di partenza per un rin-novato interesse per il concetto di melodia e le sue molteplici ramificazioni nei vari campi della ricerca musicologica contemporanea. (m.a.)

L’Ircam a convegno sul concetto di melodia

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