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DIRITTO, PAPIRI E SCRITTURA

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DIRITTO, PAPIRI E SCRITTURA

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SECONDA EDIZIONERiveduta ed ampliata

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PREMESSA

Il testo, che si configura come parte generale di un manuale di Papirologia giuridica, amplia l’ambito tradizionale della disciplina, dilatando la trattazione sino a ripercorrere le tappe dell’evoluzione della scrittura ed a prendere in considerazione le funzioni di essa in campo giuridico, con particolare riferimento al diritto romano.

La seconda edizione del testo, ormai lungamente sperimentato, mira ad ampliare le principali tematiche, fornendo nuove prospettive, approfondimenti ed una bibliografia aggiornata.

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INDICE

I - INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLAPAPIROLOGIA GIURIDICA

1 -La Papirologia disciplina “ausiliaria” delle scienze storiche

2 -I diversi tipi di materiale scrittorio3 -Periodi storici e caratteristiche della

Papirologia giuridica4 -Breve storia della disciplina5 -Storia e funzione della scrittura, con particolare riferimento alla scrittura greca e latina dei papiri

II - LIBRI E DOCUMENTI

A - I LIBRI

1 -Libri, biblioteche e vicende editoriali.2 -Dal volumen al codex3 -I papiri e le opere della giurisprudenza classica4 -I papiri e le codificazioni postclassiche5 -I papiri e il Digesto

B - I DOCUMENTI

1 -Documenti scritti e documenti non scritti2 -Cenni sul documento greco ed ellenistico3 -Cenni sul documento romano

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Sigle ed abbreviazioni

O. Douch – Collezione di óstraka, ritrovati in una fortezza a Kysis nell’Oasis Maior, si ricollegano all’annona militare del IV sec. d.C.

O. Claud. – Collezione di óstraka, ritrovati nella fortezza di Mons Claudianus.

P. Amherst – Collezione di papiri tolemaici, romani e bizantini raccolti grazie al mecenatismo di Lord Amherst.

P. Ant. – Collezione di papiri e tavolette cerate da Antinöe (Antinoopolis) dell’Egypt Exploration Society conservata nel British Museum.

BGU – Berliner griechischen Urkunden. Collezione in quasi venti volumi di papiri, óstraka e tavolette cerate del Museo di Berlino. Nel V volume è stato pubblicato il testo del Gnomon dell’Idioslogos.

P. Bon. – Collezione di papiri dell’Università di Bologna.

P. Cattaui v. – Papiro opistografo iscritto sul verso, ripubblicato nella crestomazia di Mitteis (Chr. M.).

P. Col. – Collezione di papiri della Columbia University.

P. Dura – Collezione di papiri trovati a Dura Europos sull’Eufrate e comprendenti l’archivio della ventesima Coorte dei Palmireni. P. Fay. – Collezione di papiri dalle città del Fayûm.

P. Flor. – Collezione fiorentina in tre volumi di testi documentari e letterari.

PGU – Collezione di papiri dell’Università di Genova.

P. Giessen (P. Giss.) – Collezione di centoventisei papiri greci di età tolemaica, romana e bizantina, pubblicata nel 1910-12 da Kornemann e Meyer. Tra questi un frammento di rotolo posteriore al 215 d.C. con tre costituzioni di Caracalla. La prima sembra essere la constitutio Antoniniana de civitate.

P. Hal. – Collezione di disposizioni legislative del III sec. a.C. pubblicata dall’Università di Halle (Germania).

P. Heid. - Collezione di papiri dell’Università di Heidelberg.

P. Hercul. – Collezione dei papiri di Ercolano, ritrovati nella c.d. Villa dei Papiri, di contenuto prevalentemente filosofico.

P. L. Bat. – Collezione di papiri ed óstraka dell’Istituto di Papirologia di Leida.

P. Louvre (P. Par.) – Collezione di papiri del Museo del Louvre di Parigi.

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P. Med. – Collezione di papiri della Scuola di Papirologia dell’Università Cattolica di Milano.

P. Merton – Collezione di papiri letterari e documentari di varia epoca raccolti da W. Merton. P. Mich. – Collezione in quasi venti volumi di papiri, tavolette ed óstraka dell’ Università del Michigan.

P. Mil. Vogliano – Collezione di papiri dell’Università di Milano in quasi dieci volumi editi da Vogliano ed altri studiosi.

P. Oxy. - Collezione dei papiri di Ossirinco in quasi sessanta volumi.

P. Reinach (P. Rein.) – Collezione di papiri greci e demotici pubblicati da Th. Reinach e dall’ Università di Parigi.

P. Ryl. – Collezione di papiri della John Rylands Library Manchester.

PSI – Collezione di Papiri della Società Italiana per la ricerca dei papiri greci e latini in Egitto.

P. Strass. – Collezione di papiri greci romani e bizantini della Biblioteca Nazionale e dell’Università di Strasburgo.

P. Tebt. – Collezione di documenti tolemaici e romani da Tebtunis.

P. Vindob. G. – Collezione di papiri greci della Biblioteca Nazionale di Vienna.

P. Yadin –Yigael Yadin, archeologo israeliano, ha dato il nome a questa raccolta di tre gruppi di documenti del II sec. d.C. trovati nella “Cava delle Lettere” nei pressi del Mar Morto e connessi con la rivolta antiromana di Bar Kokhba.

P. Yale - Collezione di papiri della Yale University.

T. Iucund. – Archivio di tavolette cerate del banchiere pompeiano Lucio Cecilio Giocondo anteriore al 62 d.C. e relativo prevalentemente a quietanze (apochai) per somme erogate dal banchiere in occasione di acquisti di clienti in vendite all’asta.

T. Herc. – Tavolette di Ercolano, studiate e pubblicate dal 1927 al 1953 da Arangio Ruiz e Pugliese Carratelli.

TP. Sulp. – Archivio puteolano dei Sulpicii, ritrovato a Pompei nel 1959 in località Murecine.

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I - Introduzione allo studio della Papirologia giuridica

1 - La Papirologia disciplina “ausiliaria” delle scienze storiche

Il moderno concetto di scienza si basa, come è noto, sulla possibilità di una verifica costante dei dati e la Papirologia, che ha per oggetto la lettura e l’interpretazione degli scritti su papiro, non solo consente di effettuare riscontri e verifiche delle conoscenze sul mondo antico, ma suscita grande emozione quando permette di percepire con vivida immediatezza il vissuto dei nostri predecessori. Lo studio dei papiri in altri termini offre, oltre all’evidente vantaggio dell’acquisizione di nuovi dati, la possibilità di cogliere intimi ed insospettati particolari della vita pubblica e privata degli antichi; di percepire cioè “il calore residuo delle esistenze che furono, le pedate furtive della storia minore, quasi sempre più maestra d’ogni altra”1.

La Papirologia è, dunque, disciplina cosiddetta “ausiliaria” delle scienze storiche, come l’Archeologia, l’Epigrafia, la Paleografia, la Numismatica, etc..., ma al pari di queste gode di una sua autonomia per la specificità intrinseca della materia e per l’ampiezza e varietà dei settori che abbraccia.

I papiri infatti contengono informazioni relative ai più svariati campi - dalla letteratura alla filosofia, dal diritto alla religione, dalla sociologia alla medicina, dall’antropologia alla magia - ed hanno grandemente contribuito ad allargare le conoscenze, persino in settori come l’ingegneria, l’idraulica, l’astronomia, la cosmetica, la musica o la strategia militare2. Seppur specifiche sono le aree in cui essi operano, non trova più alcuna giustificazione, oggi, la proposta, fatta da Wilcken, di espungere i papiri letterari in lingua greca e latina dall’ambito della stessa Papirologia e di assegnarli per il loro contenuto, alla storia della letteratura.

Se si intende recuperare la memoria storica, ricostruendo la cultura del passato, al fine di una maggiore consapevolezza di sè e di una migliore comprensione della complessità del presente - obiettivo primario di ogni indagine storica - è evidente che la suddivisione in discipline diverse acquista un significato eminentemente pratico. In un’epoca di smisurato incremento delle conoscenze e di assai spinta specializzazione dei saperi, non è forse inutile ribadire con forza la fondamentale unitarietà della Scienza ed in particolare della Storia.

E’ stato osservato che nello studio del mondo antico è regola costante per gli specialisti tendere fatalmente a privilegiare i rispettivi campi d’indagine, salvo le eccezioni costituite da pochi eminenti studiosi che, dominando il particolare, mirano ad una visione d’insieme e ad una sintesi. Si finisce invece spesso col prendere in considerazione nella prospettiva limitata dei “proprî” documenti solo alcuni dei molteplici parametri che potrebbero essere utilmente impiegati (come il supporto scrittorio, gli aspetti paleografici, filologici o contenutistici di un testo), fornendo fatalmente “una versione di uno stesso originale” e ponendo un limite così all’interpretazione di ciò che era in realtà un insieme unitario3. “Inoltre, una volta che

1 Bufalino, Museo d’ombre, Milano, 1993, p. 21.2 Un’ampia rassegna in Montevecchi, La Papirologia, Milano, 1988, pp. 240 ss. 3 Nicolet, A la recherce des archives oubliées: une contribution à l’histoire de la bureaucratie romaine, La mémoire perdue, Publications de la Sorbonne, Paris, 1994, pp. VIII- IX.

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bene o male la storia del documento sia stata ricostruita - e sovente un po’ troppo rapidamente o troppo parzialmente - ciascuno passa a ciò che è ai propri occhi essenziale”4, finendo magari per porre in primo piano una storia individuale, a scapito di una ricostruzione generale che l’“histoire des documents” è invece potenzialmente in grado di esprimere.

Se dunque nel più vasto quadro dello studio della Storia, la Papirologia appare indissolubilmente correlata ad altre discipline come l’Archeologia, l’Epigrafia, la Paleografia, non v’è dubbio che essa, mantenendo la propria specificità, deve tendere ad una ricostruzione storica globale.

Anche la distinzione tra Papirologia e Papirologia giuridica appare giustificabile solo da un punto di vista pratico. Il papirologo mira soprattutto alla lettura ed alla pubblicazione dei testi, divulgando indifferentemente il testo di una poesia antica o di un’ordinanza prefettizia5; colui che si può avvalere anche della conoscenza del diritto, tende alla valutazione complessiva degli aspetti giuridici dei testi papiracei, anche già editi, in quanto la competenza nel campo giuridico gli consente di cogliere problematiche d’insieme di particolare interesse per la comprensione dell’esperienza del diritto moderno.

Se è più agevole cogliere la differenza tra Papirologia e Paleografia, in quanto la prima, pur avvalendosi dello studio della scrittura antica, oggetto specifico della Paleografia, non si limita ad esso soltanto, ma si estende all’esegesi dei testi, più sfumato è invece il confine con l’Epigrafia6. A prima vista sembra evidente la differenza da un lato tra epigrafi, cioè iscrizioni redatte su materiali durevoli come pietra, marmo, bronzo, rame, piombo, e papiri dall’altro, la cui durata in condizioni ordinarie non dovrebbe protrarsi al di là di un cinquantennio, in quanto, macchiati e rosi dalle tarme, divengono quasi illegibili. In realtà la distinzione fondata sul tipo di materiale scrittorio utilizzato appare anche in questo caso meramente di comodo. Non solo esistono materiali scrittori che si è incerti se ascrivere ad una delle due specifiche discipline (tavolette di legno cerate, óstraka, cioè iscrizioni su frammenti di terracotta, tabelle plumbee), ma si possono riscontrare dei casi limite, quando, ad esempio, tra i rotoli papiracei del Mar Morto è stato rinvenuto un testo del tutto simile agli altri, redatto però su di una sottile lamina di rame.

Riguardo alla funzione delle iscrizioni nella vita antica si è parlato di una vera e propria “civilisation de l’épigraphie”7. Ma, per postulare una demarcazione tra Papirologia ed Epigrafia non ci si può basare neppure sulla distinzione tra l’uso ufficiale delle epigrafi, destinate a durare nel tempo, e quello privato ed individuale della documentazione papiracea, che non solo non era destinata alla posterità, ma spesso neppure ad un pubblico. Sovente documenti ufficiali sono stati tramandati proprio attraverso i papiri, oltre che nelle epigrafi, e viceversa iscrizioni su materiali durevoli hanno trasmesso testimonianze meramente private, come nel caso delle epigrafi delle mortuorum laudationes, la c.d. laudatio Turiae, che contiene le lodi intessute nel I sec a.C. dal marito nei confronti della moglie defunta, insieme al racconto di alcuni importanti eventi storici dell’ultima Repubblica e all’esposizione di interessanti questioni giuridiche e sociali8.

4 Nicolet, l.c.5 Sull’utilizzazione dei papiri e la necessità di superare i limiti della pur necessaria specializzazione cfr. Bagnall, Reading papyri, writing ancient history, London – New York, 1995.6 Luzzatto, Appunti di Papirologia Giuridica, Bologna, s.d., p. 2 e s. 7 Bataille, Papyrologie, Enciclopédie de la Pléiade, XI, L’histoire et ses méthodes, Paris, 1961, p. 498 - 527. 8 Secondo Storoni Mazzolani, Una moglie, Palermo, 1982, p. 13 ss. non è possibile accertare l’effettiva identità dei protagonisti dell’elogio detto di Turia inserito in CIL VI, 1527; 31670; 37053. In Valerio Massimo VI, 7, 2 una vicenda simile accadde a Turia, moglie di un Quinto Lucrezio, proscritto e nascosto

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Seguendo il criterio della distinzione tra uso pubblico e privato occorrerebbe espungere l’immensa mole di vivaci iscrizioni parietali pompeiane dall’ambito specifico dell’epigrafia. Gli antichi poi attribuivano alla scrittura scopi ben diversi dagli attuali, privilegiando in genere la funzione della conservazione di un testo nel tempo, piuttosto che quella di diffusione di uno scritto nello spazio9 . L’affissione in pubblico non sempre veniva effettuata a scopo di pubblicità e di divulgazione, ma spesso per ragioni simboliche o sacrali, essendo la scrittura carica di valori e significati profondamente diversi dagli attuali.

Anche questa volta dunque la distinzione tra le discipline si pone da un punto di vista pratico ed è evidenziata dal fatto che le tecniche di esecuzione di iscrizioni su materiali durevoli, coll’impiego di righe, compassi e squadre, presupponevano abilità ben diversa da quella necessaria agli antichi scribi dei papiri. La differenza tra scalpellino e scriba è in fondo oggi riflessa in quella fra i moderni interpreti: epigrafisti da un lato e papirologi dall’altro.

Ben più importante è osservare che tanto epigrafi che papiri offrono una base documentaria per la storia antica che appare frammentaria, casuale e soprattutto condizionata da fattori ambientali. Una serie di filtri si frappongono tra l’osservatore e l’oggetto del suo studio10: circostanze locali, climatiche, o di varia natura possono aver contribuito a selezionare una documentazione11 che di per sè rappresentava già nel momento del suo concepimento una scelta. “Il tempo e il caso hanno scelto per noi le testimonianze che si sono conservate”12. Lo scritto, ironico, di Umberto Eco dal

in soffitta con la complicita di una schiava. In Appiano (Guerre Civili IV, 39, 44), un tal Quinto Lucrezio si era prima nascosto in un sepolcro, donde gli sarebbe poi derivato il soprannome di Vespillo, ma aggredito nottetempo dai ladri era stato costretto a rifugiarsi nel sottotetto di casa sua. Costui aveva avuto il padre proscritto da Silla e sembra essere divenuto successivamente console (Appiano, Storie di proscritti, a cura di Amerio, Palermo, 1990, p. 105 e p. 130 nt. 96). Nell’elogio c.d. di Turia entrambi i dati non vengono ricordati ed invece dal testo risulta la lontananza del vedovo dalla propria casa in occasione del primo triumvirato, quando Cesare nel gennaio del 49 a.C., varcato il Rubicone, era calato su Roma inducendo Pompeo e la maggior parte dei senatori a ritirarsi in Oriente. Durante la sua assenza la donna aveva superato prove di ogni genere: l’assassinio in campagna dei genitori, forse per opera della famiglia servile, l’identificazione e persecuzione degli autori dell’omicidio, di cui ottenne la cattura e lacondanna. Assolveva così con la sorella all’obbligo di pietà filiale, che legittimava l’adizione dell’eredità paterna. Altre dure esperienze erano state la difesa del testamento del proprio padre, che nominava coerede e tutore il vedovo, a quel tempo fidanzato, mantenuto in clandestinità attraverso la vendita dei propri gioielli e la protezione della casa, un tempo dell’ex-tribuno della plebe Milone, assaltata invano per l’energica organizzazione predisposta dalla donna. Dopo aver impetrato e ottenuto il perdono, di nuovo la donna aveva dovuto prodigarsi, a causa di una nuova proscrizione in occasione del secondo triumvirato, per supplicare il triumviro Lepido, ottenendone in cambio una profonda umiliazione. Alcuni studiosi assegnano alla seconda proscrizione l’episodio del nascondiglio nel proprio domicilio e ciò finirebbe per conferire ai personaggi una precisa identità (cfr. FIRA III, 69 e pp. 625 e s.). La coraggiosa denuncia della donna dei maltrattamenti subiti aveva offerto ad Ottaviano l’opportunità di una riabilitazione che si accompagnava alla restituzione della pace nella Repubblica. Ma neppure allora erano cessate le vicissitudini della coppia, poiché la donna per la mancanza di figli si era spinta al punto da proporre al marito il divorzio, rinunciando ad ogni bene per assicurare a costui una discendenza. Lo sdegnato rifiuto del marito finiva per ripagare una vita esemplare vissuta con rischi e sacrifici in uno dei più travagliati e significativi periodi della storia romana. Cfr. Fowler Warde, On the Laudatio Turiae and its additional fragments, Classical Review, 1905, pp. 261 ss.; Crawford, Laudatio funebris, Classical Journal, 1941-2, pp. 17 ss.; Arangio Ruiz, Il caso giuridico della cosidetta Laudatio Turiae, Parerga, 1945, p. 10 ss.; Van Oven, Laudatio Turiae, Mélanges De Visscher, II, Louvain, 1949, pp. 373 ss.; Durry, Eloge funèbre d’une matrone romaine. Eloge dit de Turia, Paris, 1950.9 Cavallo, Libri, editori e pubblico nel mondo antico. Guida storica e critica , Bari, 1975, pp. XV ss.; Harris, Lettura ed istruzione nel mondo antico, Bari, 1991, pp. 220 ss.10 Bagnall, op. cit., pp. 13 ss.11 La provenienza egiziana della maggior parte dei papiri pone la questione: “was Egypt ‘normal’ or a world of its own ?” (Bagnall, op. cit., pp. 11 ss.).12 Cardona, Storia universale della scrittura, Milano, 1986, p. 201.

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titolo “Frammenti”13 , che immagina la ricostruzione in un lontano futuro della nostra società sulla base di pochi frustuli ritrovati e dei conseguenti, paradossali equivoci, illustra efficacemente i limiti e la drammaticità delle condizioni delle suddette testimonianze umane.

Se conforto può esservi, valga a ciò la considerazione che la base documentaria offerta dai papiri e dalle epigrafi costituisce in fondo “per noi la migliore garanzia che la nostra comprensione del mondo antico non è destinata ad essere statica”14, ma attraverso questa via può risultare sempre suscettibile di arricchimento e di una costante trasformazione15.

13 Eco, Diario minimo, Milano 1983, pp. 17 - 25. 14 Millar, Epigrafia, Le basi documentarie della storia antica, Bologna, 1984, p. 137. 15 Bagnall, op. cit., p. 6 osserva che “Wilcken nel 1880 disponeva per l’Egitto romano soltanto di due dozzine di dichiarazioni di censimento rispetto alle trecento circa oggi pubblicate. Poteva forse aver letto i suoi testi meglio di quanto non si faccia oggi, ma non poteva certo ricavarne da essi quanto oggi si desume, semplicemente perché la moderna disciplina della demografia allora non esisteva. I dati comparativi, i modelli matematici, gli strumenti informatici per l’analisi oggi disponibili non erano allora neppure lontanamente immaginabili. Soltanto uno straordinario solipsismo può indurre a negare la certezza che tale rivoluzione continuerà ancora in un futuro indefinito”.

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2 - I diversi tipi di materiale scrittorio

Un sistema di trasmissione di segni, che possono essere non solo simboli grafici, ma anche veri e propri oggetti, può avvalersi dei più diversi tipi di materiale: argilla, metallo, pietra, legno, cuoio, stoffa, fogliame, terracotta, carta di papiro o di stracci ed ora anche di supporti magnetici16. Il più diffuso materiale scrittorio dell’antichità classica, oltre la pietra, fu costituito dalla carta di papiro, ma furono ampiamente utilizzate anche tavolette lignee, pergamena, pelli, óstraka, lamine plumbee o di altri metalli, e persino cordicelle annodate (come nel caso dei quippus peruviani).

Secondo Plinio e Varrone i più antichi materiali scrittori furono le foglie di palma e le fibre (libri) di certi alberi17, ma è stato osservato che “le più antiche testimonianze della grafia romana, falisca ed etrusca non presentano l’aspetto arrotondato che assumono i caratteri scritti con uno stilo su foglie di palma”18. Le moderne espressioni “foglio”, “libro” (liber = scorza), “codice” (codex = tronco, pezzo di legno) traggono comunque la loro origine dal mondo vegetale. “In seguito si cominciarono a registrare i documenti pubblici su rotoli di piombo, poi a fissare anche quelli privati, su tela o su tavolette cerate”. In realtà i più antichi archivi pervenutici sono costituiti, come è noto, da tavolette d’argilla e la pratica descritta da Plinio della registrazione su lamine plumbee può essere forse ascritta al mondo greco arcaico.

Secondo Pausania una copia del testo ”Le opere e i giorni” di Esiodo si conservava in Beozia su lamine di piombo, ma l’uso di scrivere su piombo si mantenne a lungo, soprattutto per testi di maledizione (defixiones plumbeae) o magici a causa del potere venefico del relativo ossido.

E’ recente la pubblicazione di uno straordinario testo del V sec. a.C. su laminetta di piombo di una lex sacra da Selinunte, incastonata in un kýrbis, in un modo cioè per la prima volta riscontrato, che consentiva la rotazione del testo fissato orizzontalmente su di un perno nella parte mediana, come è documentato letterariamente per Atene, dove le leggi di Solone furono scritte agli inizi del V sec. a.C. su tavole siffatte inserite in kýrbeis19. Sembra che il tenore della lex sacra di Selinunte per la purificazione da omicidio indichi che il controllo dei luoghi di culto non sia più dei fondatori della città e che ciò rifletta già una coscienza politica nei cittadini-opliti che costituivano il dámos selinuntino, pur permanendo immutato il potere di singoli e di gruppi familiari20. 16 Cardona, St. univ. della scrittura, cit., pp. 29 ss. e pp. 39 ss. 17 Per Ulpiano nel II- III sec. d.C. i termini liber e charta sono equivalenti (D. 32, 52, 4: …in usu plerique libros chartas appellant) e corrispondono al rotolo, tómos, volume (Lewis, L’industrie du papyrus dans l’Égypte Gréco-Romaine, Paris, 1934, pp. 59- 68; Id., Papyrus in Classical Antiquity, Oxford, 1974, pp. 70 ss.; Capasso, CARTHS/CHARTA: primo contributo alla terminologia libraria antica, Atti Accad. Pelor., 67, 1991, pp.121 ss. = Volumen. Aspetti della tipologia del rotolo librario antico, Napoli, 1995, pp. 21 ss. Cfr. anche Id., Diminutivi, derivati e composti di CARTHS: secondo contributo alla terminologia libraria antica, Volumen, cit., pp. 31- 53). Tuttavia rotoli contenenti diversi libri di un’opera, soprattutto romanzi, avevano cominciato a circolare già quando agli inizi dell’età imperiale l’uso elitario del rotolo era stato affiancato dall’impiego popolare del codice e dunque probabilmente opere originariamente in più libri in codice erano state trascritte in un unico rotolo, anticipando problematiche testuali successivamente emergenti in occasione dell’inverso passaggio dal rotolo al codice, dal tardo III sec. d.C. in poi.18 Storia naturale XIII, 21. Peruzzi, Origini di Roma, II, Le lettere, Bologna, 1973, p. 135.19 Secondo Plutarco, Solone 25, 1-2: “A tutte le leggi assegnò validità per cento anni, e furono scritte su áxones di legno girevoli sotto intelaiature quadrangolari che le contenevano, dei quali ancora ai nostri tempi si conservavano esigui resti nel Pritaneo, e furono chiamati, come dice Aristotele, kýrbeis…Alcuni però affermano che furono chiamati propriamente kýrbeis quelli con cui sono contenute le norme circa i culti e i sacrifici, áxones gli altri”. Le leggi di Solone vennero esposte nel 462 a.C. nell’agorà di Atene, ancor prima della realizzazione a Roma delle XII tavole. 20 Ad Atene alla fine del VI sec. a.C., dopo l’abbattimento della tirannide, Clistene aveva consentito “ad ogni cittadino, a seconda della propria provenienza, di continuare ad appartenere ai gruppi gentilizi, alle fratrie ed alle cariche sacerdotali” (Aristotele, Athenaion Politeia XXI, 6). Cfr. Jameson, Jordan, Kotansky,

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Anche la Tabula Cortonensis, della fine del III sec. a.C. - inizi II sec. a.C., contenente la registrazione su lamina bronzea di una transazione tra due famiglie etrusche - in un periodo per il mondo romano di fondamentale importanza per lo sviluppo del sistema contrattuale del ius gentium - appare imperniata per consentire la rotazione e la lettura del testo retrostante in senso verticale e non orizzontale, come nella legge di Selinunte. Si potrebbe così forse spiegare la differenza tra i kýrbeis e gli áxones, i primi ruotanti intorno ad un asse orizzontale, i secondi intorno ad un asse verticale. La Tabula Cortonensis sarebbe allora il primo caso di áxon, finora ritrovato21.

Sembra confermata la notizia di Plinio relativa all’antichità dei libri su tessuto di lino (libri lintei), materiale scrittorio prevalentemente italico collegato all’impiego sacrale di tale pianta. Livio afferma che testi di tal genere erano conservati nel 344 come libri magistratuum a Roma nel tempio di Giunone Moneta22. Di lino erano i libri contenenti gli oracoli relativi al destino di Roma (libri Sybillini). Ripiegati “a soffietto” possono essere osservati su sarcofaghi etruschi del IV sec. a.C. Anche in un più tardo bassorilievo romano (I sec. a.C. - I d.C.) della Galleria degli Uffizi a Firenze e relativo alla bottega di un venditore di tessuti, un liber linteus - simile ad un codice ligneo, ma con pieghe alle estremità delle pagine riquadrate - è proposto da un mercante tra cuscini e stole all’acquisto da parte di una famiglia patrizia, che avrebbe potuto ancora registrarvi i ricordi familiari23. In tale contesto, non avrebbe avuto alcun senso esibire tavolette lignee. Ancora alla fine dell’età classica l’imperatore Aureliano utilizzava con valenza simbolica libri lintei per stendere commentarii pubblici.

A noi è pervenuto un unico superstite manufatto del II sec. a.C. in lingua etrusca: il liber linteus di Zagabria. Si tratta di una benda di mummia, originariamente iscritta in colonne, marcate da linee verticali rosse. Le colonne di scrittura appaiono più larghe di quanto non siano nei rotoli di papiro, ma, come in quel caso, perpendicolari alla lunghezza della striscia. La struttura “a soffietto”, colonna contro colonna come indicano le pieghe, determinava uno spessore doppio di ogni pagina e l’utilizzazione sequenziale di un lato del telo, come nel volumen. Il manufatto, che doveva essere protetto da una parte terminale avvolgente che fungeva da copertura, appariva dunque come un rudimentale codice le cui pagine potevano essere sfogliate e alternativamente lette, ma a differenza del più evoluto formato librario non presentava la caratteristica alternanza recto - verso24.

Appare dimostrata l’attribuzione ad un periodo molto antico anche delle tavolette lignee25: nel relitto di una nave etrusca nell’isola del Giglio, che risale agli inizi del VI sec. a.C., è stata ritrovata una tavoletta cerata non ancora iscritta ed una tavoletta

A Lex Sacra from Selinous, Greek, Roman and Byzantine Monographs, 11, Duke University, Durham, North Carolina, 1993, pp. XIII + 171; Nenci, La KURBIS selinuntina, ASNP, XXIV, 1994, pp.459-466; Brugnone, Una laminetta iscritta da Selinunte, Sicilia Archeologica, 93-94-95, 1998, pp. 121-130; Rausch, Individuo, gruppi e polis in una lex sacra da Selinunte, Iuridica Epigraphica et Papyrologica, Primo Incontro Intern. di Epigrafia e Papirologia Giuridica, Scilla, 12-15 marzo 1999, Minima Epigraphica et Papyrologica, III, 1999 (in corso di stampa).21 E’ probabile che la distinzione, obliterata al tempo di Plutarco, non fosse basata sul contenuto religioso o laico, anticamente indistinguibile, ma sull’aspetto formale. Áxon è un cardine, un asse verticale, come l’asse del cielo. La stessa lex sacra di Selinunte, con le sue prescrizioni cultuali sull’omicidio, esplicava i suoi effetti in un ambito che oggi definiremmo giuridico.22 Livio, IV, 7, 12; IV, 13, 7; IV, 20, 8; IV, 23,2. Cavallo, Libro e cultura scritta, Storia di Roma, IV, Caratteri e morfologie, a cura di Gabba e Schiavone, Torino, 1989, p. 703. 23 Serrao, Il diritto dalle genti al principato, Optima hereditas. Sapienza giuridica romana e conoscenza dell'ecumene, Milano, 1992, p. 56 fig. 20.24 Ciò non legittima l’esclusione del liber linteus dalla storia del codice, come proposto da van Haelst, Les origines du codex, in Atti del Colloquio del CNRS “Les débuts du codex”, Paris, 1985, Bibliologia, 9, Brepols - Turnhout, 1989, p. 15.25 Fondamentali al riguardo sono gli Atti del Colloquio del CNRS “Les tablettes à écrire de l’Antiquité à l’Époque moderne”, Paris, 1990, Bibliologia, 12, Brepols - Turnhout, 1992.

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scrittoria con cerniere in avorio si riscontra nel ben più antico relitto del XIV sec. a.C. di Ulu Burun26. Altre tavolette cerate in avorio dell’VIII e VII sec. a.C. erano state in precedenza ritrovate in Assiria27; e in Egitto raffigurazioni tombali del XIV sec. mostrano scribi con tavolette scrittorie nell’atto di registrare le merci sul punto di essere sbarcate da navi siriane. Due rilievi neo-hittiti del IX e VIII sec. sembrano mostrare la presenza di tavolette28 ed anche in un rilievo etrusco della fine del VI, inizi del V sec. a.C. proveniente da Chiusi e conservato nel Museo Archeologico di Palermo appare uno scriba con tavolette scrittorie che registra premi assegnati da un governante assiso in un tribunal29. Già Erodoto nel V sec. a.C. accennava ad informazioni segrete portate in Grecia su tavolette durante le guerre persiane, nascoste al di sotto dello strato cerato30. Tutto ciò dimostra che l’uso di tavolette lignee come materiale scrittorio, soprattutto per testi documentari, fu ben più antico delle testimonianze di III sec a.C. di provenienza egiziana talvolta indicate 31.

Come già osservava Plinio “sappiamo da Omero che l’uso delle tavolette per scrivere esisteva anche prima dell’epoca della guerra di Troia”. Infatti ad esse si riferisce l’episodio omerico di Preto che aveva dato a Bellerofonte una “tavoletta ripiegata” con segni costituenti una condanna a morte dell’ignaro messaggero32. Alcuni studiosi ritengono addirittura che i diversi episodi dei poemi omerici si riferiscano a testi staccati redatti su tavolette scrittorie, e poi variamente composti33.

In realtà la riluttanza in dottrina ad ammettere l’impiego delle tavolette in età assai antica deriva dal fatto che esse sono state considerate un tipico materiale scrittorio dell’Occidente e, in questo ambito, indubbiamente la scrittura ha avuto una diffusione assai più circoscritta e tarda rispetto all’Oriente.

Le tavolette lignee impiegate come materiale scrittorio potevano essere grezze, imbiancate o cerate. In età greco romana queste ultime furono le più diffuse, mentre le tavolette imbiancate furono prevalentemente destinate ad essere affisse in pubblico (albo). Le tavolette cerate venivano ricavate da un unico pezzo di legno, in modo da avere venature simili e scoraggiare così eventuali sostituzioni. La singola tavoletta veniva scavata, risparmiando una cornice ai margini e negli esemplari di maggiori dimensioni veniva lasciato qualche piccolo tratto centrale, per evitare che, flettendosi le tavolette al centro, potesse all’interno essere danneggiata la scrittura. Trovano così spiegazione anche i “piedini” menzionati in alcuni papiri in riferimento all’acquisto di tavolette sul mercato. Alcuni codici lignei redatti su ampie e sottili tavole di bosso, acacia o salice, come quelli trovati a Dakhleh34 e dotati di supporti di cuoio incollati, 26 Bound, Una nave mercantile di età arcaica all'Isola del Giglio, Il commercio etrusco arcaico, Quaderni del Centro di studio per l’archeol. etrusco-italica, 9, 1985, pp. 65 - 70 (una foto del reperto in Archeol. Viva, V, 1, 1986, p. 55); Bass, Oldest known shipwreck reveals splendors of the Bronze Age, National Geographic, 172, 6, december 1987, pp. 730 - 1; Bass, Pulak, Collon, Weinstein, A Bronze Age shipwreck at Ulu Burun, 1986 Campaign, Am. Journ. of Archaeology, 93, 1989, pp. 10 - 11; André-Salvini, Les tablettes du monde cunéiforme, in Les tablettes, cit., 1992, p. 25; Sirat, Les tablettes à écrire dans le monde juif, in Les tablettes, cit., p. 53. 27 Mallowan, Iraq, XVI, 1954, pp. 65 e 97 ss.; ibid., XVII, 1955, pp. 3 - 20.28 Turner, I libri nell'Atene del V e IV secolo a.C., Libri, editori e pubblico, cit., p. 11.29 Colonna, Scriba cum rege sedens, Mél. Heurgon, I, Roma, 1976, pp. 187 ss. Turner, Papiri greci, Roma, 1984, p. 26, segnala il rinvenimento di tavolette imbiancate e poi dipinte vivacemente in una grotta presso Sicione. Esse risalirebbero al VI sec. a.C. 30 Erodoto VII, 239; VIII, 135.31 Bell, Waxed Tablets of the Third Century B. C., Ancient Egypt, III, 1927, pp. 65 - 74; Turner, Papiri greci, cit.,p. 26; Cavallo, Libro e cultura scritta, cit., p. 697.32 Iliade VI, 209 - 210.33 Russo, La tavoletta scrittoria di Omero, Atti XVII Congresso Intern. di Papirologia, Napoli, 19-26 maggio 1983 (pubbl. 1984), II, pp. 242 ss.34 Lawrence Sharpe III, The Dakhleh tablets and some codicological considerations, Les tablettes, cit., p. 127 - 148.

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sembrano offrire la prova archeologica di ciò. All’interno delle tavolette veniva cosparsa la cera, che era in realtà una gumma ricavata dalla resina degli alberi da frutta. Lo strato cerato si incideva con uno stilus. Alla scriptura interior, tracciata graphio, si accompagnava sovente una scriptura exterior con inchiostro (atramento), composto da gumma e nerofumo. Visto che cornice ed umbone centrale finivano per evitare l’adesione di più tavolette tra loro o fenomeni di abrasione della scrittura, era allora possibile riunire insieme più tavole in dittici, trittici o codici lignei, talvolta muniti di fodera di cuoio ansata (codices ansati). In un trittico le pagine seconda, terza e quinta erano incerate; la prima, la quarta e la sesta, che non potevano essere incavate per insufficienza di spessore, venivano lasciate lisce. La scrittura esterna era tracciata sulla prima o quarta pagina di un dittico o sulla quinta pagina cerata di un trittico ed eventualmente ad inchiostro anche sulla quarta pagina. La scrittura interna dei documenti giuridici veniva sigillata mediante legamenti e solo in caso di contestazione dello scritto esterno veniva data lettura della scriptura interior, in presenza dei testimoni che avevano apposto i sigilli. La doppia scrittura, dunque, insieme alle venature delle tavole lignee, concorreva ad assicurare l’autenticità del testo e traeva probabilmente origine da antichissime pratiche orientali, come mostrano alcuni testi degli inizi del secondo millennio a.C., sigillati in tavolette d’argilla e riassunti in involucri esterni35. I testamenti romani, redatti su trittici o polittici, comprendevano una parte interna segreta e suggellata con le ultime volontà (ad es. le pagine seconda e terza di un trittico), oltre ad una parte pubblica, contemplante le formalità di rito (le pagine quinta ed eventualmente sesta).

A partire dal 61 d.C., con il senatoconsulto Neroniano, che prese forse spunto da una vicenda connessa ad un falso testamentario ed alla repressione della tergiversatio (senatoconsulto Turpilliano), fu prescritta l’apposizione del sigillo sul legamento costituito da una cordicella passante per tre volte in due fori, al fine di evitare che le tavolette potessero essere sfilate e sostituite36. Le tavolette dell’area campana, che ci sono pervenute in seguito all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.37, mostrano in genere

35 Andrè-Salvini, Les tablettes du monde cunéiforme, cit., p. 17 e fig. 5.36 Svetonio, Nerone XVII: Adversus falsarios tunc primum repertum, ne tabulae nisi pertusae ac ter lino per foramina traiecto obsignarentur; cautum ut testamentis primae duae cerae testatorum modo nomine inscripto vacuae signaturis ostenderentur. E' merito di Arangio Ruiz ( Il testamento del cavaliere romano Antonio Silvano, Studi papirologici ed epigrafici, Napoli, 1974, pp. 382 -389) aver spiegato come le ultime tavole di un codice ligneo testamentario, sfogliabile dal basso in alto, potessero essere invece indicate come le prime duae cerae. E’ sufficiente ipotizzare che, redatta e sigillata la parte segreta del testamento nelle prime tavole, i testimoni venissero chiamati ad apporre i loro sigilli sulle ultime tavole, come in tutti i testamenti romani sinora pervenuti, ma senza ruotare il voluminoso dossier. Così le ultime cere sarebbero apparse agli astanti le prime col nome del testatore, la mancipatio familiae ed i sigilli.37 Alcune tavolette cerate furono rinvenute ad Ercolano intorno al 1752, in occasione dello scavo dello scavo della Villa dei Papiri, ma oggi risultano disperse (Capasso, Le tavolette della Villa Ercolanese dei Papiri, CErc., 20, 1990, pp. 83-86 = Id., Volumen, cit., pp. 111-117). Nel 1875 e 1877 sono stati ritrovati centocinquantatre documenti dell’archivio del banchiere pompeiano L. Cecilio Giocondo (T. Iucund.), relativi al decennio 52 d.C. – 62 d.C. Si tratta prevalentemente di quietanze relative a vendite all’incanto, pubblicate da Zangemeister nel 1898 in CIL IV, Suppl. I, pp. 276 ss. (Andreau, Les Affaires de Monsieur Jucundus, Roma, 1974). Nel 1887 fu ritrovata nel praefurnium delle Terme del Sarno la mancipatio fiduciaria relativa a due schiavi di Poppaea Note del 79 d.C., avvolta in una tela con altri oggetti preziosi (FIRA III, 91). In scavi di Maiuri furono ritrovate e pubblicate nel dopoguerra le tavolette di Ercolano (TH), relative a circa centocinquanta documenti, tra i quali quelli del processo di Giusta, puella pompeiana. Nel 1959 a Pompei è stato rinvenuto l’archivio dei Sulpicii (TP.Sulp.), composto da centoventicinque documenti provenienti però da Pozzuoli (Camodeca, L’archivio puteolano dei Sulpicii, 1, Napoli, 1992), tra cui un dittico con due formulae processuali precedute da una praescriptio (Purpura, Tabulae Pompeianae 13 e 34: due documenti relativi al prestito marittimo, Atti del XVII Congresso Intern. di Papirologia, Napoli, 1984, pp. 1245 – 1266; Santoro, Le due formule della Tabula Pompeiana 34, AUPA, XXXVIII, 1985, pp. 335 – 350).

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le due diverse modalità di confezione dei documenti, a seconda se anteriori o posteriori alla data del senatoconsulto del 61 d.C.38

Per completare il quadro dei più importanti rinvenimenti, con l’indicazione di dati anche esterni all’area campana, occorre ricordare le tavolette egiziane, costituite da dichiarazioni di nascita, tabulae nuptiales, testamenti; le transilvane, scoperte in Romania nei cuniculi di una miniera d’oro, ove erano state nascoste forse per sottrarre ad una rivolta locale i documenti di alcuni uomini d’affari romani ivi residenti; le africane, relative a compravendite di fondi probabilmente collegate alla conquista vandalica (V d.C.)39, oltre alle insolite tavolette di Vindolanda, che ritrovate in un accampamento militare in Britannia, si presentano con legature alternate che fanno assumere ai documenti una struttura ‘a soffietto’.

Se sono stati manifestati dubbi sulla datazione originaria delle tavolette, fuori discussione è invece apparsa l’antichità della carta di papiro, soprattutto per il fatto che le relative testimonianze archeologiche sono assai note. Il più antico rotolo di papiro a noi pervenuto è in bianco e, scoperto a Saqqara nella tomba del visir Hemaka, risale al periodo della prima dinastia, circa al 3000 a.C. Per ritrovare frammenti papiracei iscritti occorre arrivare alla quinta dinastia (seconda metà del terzo millennio a.C.), ma quei frammenti - come è stato rilevato40 - hanno già una lunga tradizione alle spalle. Il più antico papiro greco noto, oltre al coevo rotolo orfico di Derveni, risale al IV sec. a.C. e contiene l’opera I Persiani di Timoteo di Mileto, ma è possibile che nel II millennio a.C. il papiro fosse già diffuso nel mondo egeo, anche se di ciò mancano sicure testimonianze ed il più antico frammento rinvenuto al di fuori dell’Egitto è scritto in ebraico e risale al 750 a.C.

Fu comunque in età ellenistica che il rotolo di papiro conobbe una grande diffusione e questo è forse il senso da attribuire alla notizia riferita da Plinio che “l’invenzione della carta risale al tempo della vittoria di Alessandro Magno sull’Egitto, quando fu fondata Alessandria” (332 a.C.). E’ lo stesso Plinio che fornisce nel I sec. d.C. informazioni più precise, anche se molto discusse e non sempre chiaramente intellegibili, sulla confezione della carta: “il papiro nasce negli acquitrini d’Egitto o nei pantani lasciati dal Nilo dopo le inondazioni, dove le acque stagnano in pozze...Ha una radice obliqua..., un fusto a sezione triangolare non più lungo di dieci cubiti” (cm.525) “...con una infiorescenza priva di semi e senza altro uso se non quello di farne vari utensili casalinghi. Con la pianta di papiro vera e propria, inoltre, costruiscono imbarcazioni, mentre dal suo libro ricavano vele, stuoie e capi di vestiario, nonchè materassi e corde. Usano anche masticarla, cruda o cotta, ingoiandone soltanto il succo. Il papiro alligna anche in Siria... Recentemente si è accertato che anche il papiro che nasce lungo l’Eufrate nei dintorni di Babilonia ha i medesimi impieghi cartacei di quello egizio; nonostante ciò, ancora oggi i Parti preferiscono ricamare le lettere su stoffe.

38 Camodeca, Nuovi dati dagli archivi campani sulla datazione e applicazione del “SC Neronianum”, Index, 21 , 1993, pp. 353 – 364, rileva che il sistema di chiusura già escogitato dalla burocrazia imperiale di Claudio per la redazione dei dittici bronzei dei diplomi militari non fu subito ed uniformemente applicato. Le tavolette di Ercolano 40; 73 (del 4 dicembre del 62) e 61 (del maggio del 63) non si adeguarono ad esempio immediatamente alle prescrizioni, ignorate anche nel più antico dittico egiziano finora noto (FIRA III, 2) del 23 luglio del 62, contenente una copia autenticata (descriptum et recognitum) di una dichiarazione di nascita (professio liberorum natorum). Ma già le formalità per la chiusura furono rispettate nella tavoletta 152 dell’archivio di Cecilio Giocondo, databile al luglio 61/giugno 62 (probabilmente anteriore alla data proposta per il disastroso terremoto che sconvolse l’area campana il 5 febbraio del 62). Cfr. Onorato, Rend. Accad. Lincei, 4, 1949, pp. 644 ss.; Hine, The date of the campanian earthquake A.D. 62 or A.D. 63, or both ?, Ant. Class., 53, 1984, pp. 266 ss. 39 Saumagne, Tablettes Albertini. Actes privés de l’époque vandale, Paris, 1952. 40 Turner, Papiri greci, cit., p. 20.

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Per ottenere la carta dal papiro, si divide quest’ultimo, con un ago, in strisce sottilissime ma larghe il più possibile. Le migliori sono quelle ricavate dal centro della pianta, poi via via tutte le altre, secondo l’ordine di taglio. Anticamente la carta riservata esclusivamente ai testi sacri veniva chiamata ieratica; più tardi, per adulazione, essa prese il nome di carta di Augusto, così come quella di seconda qualità assunse l’appellativo di carta di Livia dal nome di sua moglie... La varietà immediatamente seguente era stata chiamata carta dell’anfiteatro dal luogo della sua fabbricazione... Dopo questa troviamo la saitica... e ancora la teneotica... Quanto poi all’emporitica, inutilizzabile per scrivere, serve ad avvolgere le altre carte e ad imballare mercanzie...Tutto il papiro si “tesse” su una tavola inumidita con acqua del Nilo, il cui limo ha effetto di una colla. Per prima cosa si stendono verticalmente sulla tavola le strisce...e se ne tagliano le parti eccedenti..., poi si dispone sopra un altro strato di strisce, in senso normale alle prime, quindi si pressa il tutto, si fanno seccare i fogli al sole e si uniscono l’uno altro in ordine sempre decrescente di qualità, fino ad arrivare ai più scadenti... Le asperità del papiro vengono levigate con un dente o con una conchiglia, ma ciò provoca la caduta delle lettere. La carta, se levigata, assorbe di meno ed è più brillante... Dopo tali operazioni la carta viene assottigliata col martello e passata nella colla, poi di nuovo pressata per spianarla e battuta col martello. Così dovette essere fabbricata la carta di documenti molto antichi. Io stesso ho visto...manoscritti di Tiberio e di Gaio Gracco” (133 - 121 a.C.) “vecchi di circa duecento anni...Anche il papiro è soggetto a cattivi raccolti e, ancora sotto l’impero di Tiberio, è accaduto che per la penuria di carta fossero nominati dal senato dei commissari addetti alla sua distribuzione; in caso contrario c’era il pericolo di disordini fra la popolazione”41.

Il procedimento di fabbricazione del foglio (kòllema) e del rotolo (tòmos, volumen) descritto in precedenza indica che quest’ultimo era composto di più fogli uniti, nei quali era mantenuto costante l’orientamento delle fibre42. Per sottoporre la struttura fibrosa ad una tensione minima, l’orientamento delle fibre all’interno del rotolo era di solito perpendicolare alle giunzioni e parallelo alla lunghezza del rotolo, che veniva disposto per la scrittura e lettura con il lato lungo in basso. In questa facciata (recto) l’andamento orizzontale delle fibre favoriva il procedere della scrittura. Nell’altra facciata del foglio le fibre apparivano verticali rispetto alla lunghezza del rotolo (verso) e parallele alle giunzioni dei fogli. Solo il primo kòllema (protòkollon) era incollato con fibre in senso contrario, per fungere da copertura del volumen. Naturalmente, oltre ai rotoli così confezionati nelle officine cartarie, potevano successivamente essere creati dei rotoli compositi (tómoi sugkollésimoi), incollando uno di seguito all’altro documenti omogenei numerati. Questo particolare sistema di archiviazione consentiva il reperimento attraverso l’indicazione del numero del rotolo e del foglio.

Sul rotolo le colonne di scrittura si succedevano di solito le une accanto alle altre, perpendicolarmente alla sua lunghezza e nella scrittura greca e latina da sinistra verso destra. In questo caso nelle giunture il foglio di sinistra era sovrapposto a quello di destra, per evitare un percorso in salita del calamo nel punto critico della sovrapposizione. Nelle scritture orientali invece con andamento inverso (egiziano demotico, ebraico, arabo) un semplice capovolgimento del rotolo non ancora scritto avrebbe potuto determinare l’inversione della sovrapposizione. Alcuni esemplari antichi di volumina furono scritti dall’alto in basso nel senso della lunghezza, come molti documenti medievali. In queste transversae chartae, per le quali è stata proposta la denominazione di rotuli43, l’andamento delle fibre interne appariva perpendicolare

41 Traduzione italiana di Centi, nella collana I millenni, Einaudi, III, Torino, 1984, pp. 131 ss. 42 Sulla giunzione dei fogli Capasso, Kollemata e kolleseis: per l’anatomia del rotolo ercolanese, Volumen, cit., pp. 55- 71.43 Turner, The Terms Recto and Verso. The Anatomy of the Papyrus Roll, Bruxelles, 1978, cap. IV.

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alla lunghezza del volume e dunque parallelo alle giunture tra i fogli. In altri termini la parte interna del foglio arrotolato sarebbe stata il verso di un comune rotolo, ma la posizione delle giunture, parallela all’andamento della scrittura, rivela oggi la provenienza da un rotulo di minuscoli frammenti. Per convenzione tuttavia anche in questi rotuli si intende per recto quella faccia in cui la scrittura è parallela all’andamento delle fibre, anche se perpendicolare alla lunghezza della striscia.

Nel comune rotolo di papiro sul verso di solito non si scriveva parallelamente all’andamento delle fibre, se non un indice del contenuto del volume o un indirizzo di una epistola. Sussistono tuttavia esempi di papiri opistografici, cioè scritti anche sul verso. E’ questo il caso della Costituzione degli Ateniesi di Aristotele, pervenutaci su di un papiro che nel recto registra un conto agricolo del I sec. d.C. Anche la copia del II sec. d.C. del celebre Gnomon dell’Idioslogos, codice fiscale dell’Egitto romano, fu scritta sul verso di un papiro circa venti anni dopo la prima utilizzazione del rotolo per alcuni conti. Accadeva frequentemente che per risparmiare carta un rotolo venisse riutilizzato a distanza di tempo o addirittura, fosse messo da parte in un primo momento per imperfezioni e successivamente impiegato, come nel caso del P. Columbia 123, che contiene gli apokrímata di Settimio Severo, trascritti su di un vecchio rotolo lasciato bianco con buchi e macchie.

La lettura del rotolo implicava l’utilizzazione di entrambe le mani, in quanto da un lato si svolgeva il papiro, dall’altro si arrotolava; il volume doveva essere poi riavvolto per essere pronto per il successivo svolgimento. Talvolta il rotolo era avvolto intorno ad un bastoncino (omphalós, umbilicus) non staccato dal papiro, ma fissato alla sua estremità finale, per evitare i danni conseguenti allo schiacciamento. Diversi cilindretti più piccoli e corti, a guisa di pomelli, potevano essere inoltre impiegati per chiudere il vuoto che talvolta si formava al centro delle due basi del rotolo avvolto. Servivano per evitare infiltrazioni di polvere e forse anche per proteggere gli orli più esposti44.

Oltre alle tavolette ed al papiro, un altro tipo di materiale scrittorio dell’antichità classica era costituito dalla pergamena (membranae). Narra Plinio che: “quando poi a causa della rivalità fra i re Tolomeo ed Eumene a proposito delle loro biblioteche, Tolomeo impedì l’esportazione di carta, sempre secondo Varrone, a Pergamo fu inventata la pergamena”. Non sappiamo se la vicenda riferita, che si ascrive al 197 - 182 a.C., sia realmente avvenuta, anche se è probabile che essa contenga almeno un nucleo di verità. L’utilizzazione della pelle a scopo scrittorio poteva dar luogo a prodotti diversi come il cuoio, la pergamena vera e propria, derivante da pelli di pecora e di capra e il velino d’agnello e capretto. L’impiego della pelle è certamente assai antico, ma a Pergamo potrebbe essersi verificato un notevole progresso tecnico, la possibilità ad esempio di scrivere sia sul lato carne, che sul lato pelo, dando luogo a quei “taccuini di pergamena”, quei codici membranacei, presenti a Roma tra la fine dell’età repubblicana e l’inizio dell’età classica, che tanta importanza finirono per assumere nell’impero cristiano ed in età medioevale. La pergamena, morbida e resistente, si prestava più del papiro alla pieghettatura dei fogli, alla scrittura calligrafica, ad una migliore resa cromatica di raffigurazioni, ma soprattutto avrebbe potuto essere prodotta anche in assenza del papiro, se pur a costi più elevati. Si è dunque sostenuto che siano stati i romani, più che i Greci, a sostituire alle tavolette di legno, nella manifattura del codice - l’antenato del nostro libro - i foglietti ripiegati di pergamena e che i taccuini di tale materia costituissero “nel mondo romano il materiale scrittorio più diffuso, anche se scarsamente duraturo, giacchè funzionale a

44 Skeat, Two notes on papyrus, Scritti in onore di O. Montevecchi, Bologna, 1981, p.376; Capasso, OMFALOS/ UMBILICUS: dalla Grecia a Roma, Rudiae, 2, 1990, pp. 7-29; 3, 1991, pp. 37-41 = Volumen, cit., pp. 73- 98.

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prodotti, scritti per la maggior parte d’indole occasionale e provvisoria e perciò destinati alla distruzione”45.

Gli óstraka infine, frammenti di terracotta o di calcare, facilmente reperibili nelle città antiche, furono ampiamente utilizzati per trasmettere brevi comunicazioni: dalle quietanze ai voti nelle assemblee, dalle poesie agli esercizi scolastici. Il gran numero di ricevute di tasse o di dazi consentì a Wilcken di ricostruire in un corpus di 1624 óstraka, realizzato nel 1899,46 un quadro complessivo del sistema fiscale dell’Egitto greco e romano. E’ forse un compito scolastico il testo trascritto in un óstrakon della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, contenente alcuni versi di Saffo, non altrimenti tramandati.

La pratica dell’ostracismo dopo la tirannide di Pisistrato alla fine del VI sec. a.C., che consentiva ad Atene ma anche ad Argo, Megara, Cirene e Criso Mesotaurica, l’allontanamento di un cittadino in seguito alla deposizione di seimila óstraka, iniziò intorno al 490 – 470 a.C. ed il primo ad essere ostracizzato, nonostante precedenti mitici, sembra essere stato Ipparco. Utilizzata ad Atene per circa settantanni, ha lasciato la testimonianza di circa diecimila óstraka, con insulti, indicazioni parentali e altri dati politici e sociali. La prassi giuridica si basava innanzitutto su di un voto popolare sull’opportunità di ricorrervi, la deposizione degli óstraka, lo spoglio e l’eventuale allontanamento, che non sembra comportasse la confisca dei beni47. Celebre è un gruppo di óstraka, che prescriveva il bando per Temistocle, dal quale si evidenzia tuttavia che erano in realtà pochi gli individui in grado di tracciare le lettere del nome, in quanto su circa settanta voti si constata la presenza di solo quattordici mani diverse. Ricorrendo sovente le medesime grafie, sembra dunque che la prassi dell’ostracismo non necessariamente presupponesse un’ampia alfabetizzazione, potendosi utilizzare cocci preparati in precedenza dall’autorità che avrebbe dovuto al tempo stesso garantire la segretezza. Talvolta ad Atene e Siracusa per votazioni religiose potevano essere utilizzate foglie d’olivo (petalismo), pianta sacra ad Atene alla divinità poliade48.

Da un punto di vista funzionale sembra opportuno distinguere i testi iscritti su contenitori ceramici integri e successivamente accidentalmente spezzati, che potrebbero indicarne il contenuto, il produttore, il trasportatore, il pagamento del dazio e persino il destinatario o riferirsi ad una dedica di accompagnamento, dalle scritte tracciate su reperti ceramici solo dopo la rottura, come impiego secondario quale materiale scrittorio. Solo questi ultimi sono veri e propri óstraka49, che si rinvengono in gran numero in prossimità di accampamenti militari o fortezze tardo romane, come a Dura Europos, a Douch50 o a Mons Claudianus51. Si tratta di ricevute di vettovaglie, ordini di pagamento, elenchi di militari ed infine brevi lettere d’affari o private, spesso dense di errori e di difficile interpretazione. 45 Cavallo, Libro e cultura scritta, cit., p.699.46 Wilcken, Ostraka aus Ägypten u. Nubien. Ein Beitrag zur Antiken Wirtschaftsgeschichte, Leizig- Berlin, 1899 (rist. anast. con aggiunte di Sijpesteijn, Amsterdam, 1970). 47 Berti, Ostracismo e ostrakophoriai ad Atene (490-470). Profili istituzionali e fonti epigrafiche, Iuridica Epigraphica et Papyrologica, Primo Incontro Intern. di Epigrafia e Papirologia Giuridica, Scilla, 12-15 marzo 1999, Minima Epigraphica et Papyrologica, III, 1999 (in corso di stampa), in base alla testimonianza di un manoscritto greco della Biblioteca Vaticana (n. 1144) ha rievocato la possibilità dell’esistenza di un ostracismo buletico con solo duecento voti, in altre fonti ignoto. Cfr. Keaney, Raubitschek, A late byzantine account of ostracism, AJPh, 93, 1972, pp. 87 – 91.48 Diod. XI, 87, 1-2; Peruzzi, Origini di Roma, II, Le Lettere, Bologna, 1973, p. 134. 49 Come ad esempio gli óstraka di età tolemaica con ricevute fiscali, un giuramento templare decisorio dell’8 gennaio 134 a.C., ed altri testi giuridici in demotico e greco pubblicati da Vleeming, Ostraka Varia (P. L. Bat 26), Leiden, New York, Köln, 1994. 50 Cuvigny, Wagner, Les ostraca grecs de Douch (O.Douch. 1- 355), fasc. I-II-III , Publ. de l’IFAO, Documents de fouilles, XXIV ss., 1986 – 1990, Le Caire, 1992.51 Bingen ed altri, Mons Claudianus. Ostraka Graeca et Latina, (O.Claud. 1 – 190), I, Publ. de l’IFAO, Documents de fouilles, XXIX, Le Caire, 1992.

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Valutando in conclusione i diversi tipi di materiali scrittorii e la forma assunta dal libro nell’antichità greco - romana, sembra che i rotoli diffusi nel mondo greco fin dal VI - V secolo a.C., siano stati accolti nella cultura romana per effetto di un fenomeno di “acculturazione”, tra il III ed il I sec. a.C. Anche se nel mondo etrusco i rotoli furono ampiamente utilizzati nel IV sec. a.C., è stato osservato che nel mondo latino la prima menzione di un rotolo di papiro è in Ennio, poeta del circolo degli Scipioni, e che dunque nel momento in cui la classe dirigente romana divenne una classe culturalmente ellenizzante iniziò il cambiamento nel mondo italico dal “codice di legno” al rotolo papiraceo52.

La tipologia del più antico libro romano era quella del codice, ligneo o di lino “a soffietto”: libri rudi e domestici o testi sacri, destinati a sacerdoti e patrizi, che erano indotti a scrivere per esigenze pratiche o rituali, quasi dipingendo a grossi caratteri. La scoperta a Vindolanda (Inghilterra) di tavolette lignee “a soffietto” da leggere sfogliandole da destra verso sinistra o dal basso verso l’alto risalenti al I - II sec. d.C., mostra la persistenza del più antico modello romano, idoneo per registrazioni e testi di non troppo estesa portata53. “La nascita di una letteratura latina innervata da modelli greci”, il trasporto a Roma di intere biblioteche ellenistiche54 e, soprattutto, una più ampia diffusione della scrittura, che necessitava di più estesi e funzionali supporti scrittorii, determinò che il rotolo incarnasse sul finire della Repubblica e nei primi secoli dell’Impero per le élites colte il modello ideale di libro, almeno sino a quando il codice, con la scomparsa dell’antica aristocrazia culturale e l’avvento al potere delle classi medie, non riuscì ad ottenere dall’età dioclezianea in poi la sua rivincita. La sopravvivenza del codice durante l’età imperiale era stata garantita - non solo dall’attaccamento ad un antico modello italico - e dalla novità forse introdotta per la prima volta da Cesare di trasmettere al Senato relazioni non su tavolette lignee, ma su fogli di papiro tenuti uniti per un lato55, ma anche da una innovazione tecnica nella lavorazione della pergamena, realizzata a Pergamo tra la fine del III e gli inizi del II sec. a.C.: la possibilità di scrivere su entrambe le facciate di un foglio. Ciò favoriva la creazione di taccuini di appunti pergamenacei, veri e propri block-notes, utilizzati per la maggiore capacità in rapporto al contenuto e per la loro praticità soprattutto nella letteratura tecnica e popolare, insieme alle piccole tavolette di legno denominate codicilli e pugillaria. Non solo dai codici sacri, siano essi di lino o di pergamena, ma anche da queste scritture provvisorie, occasionali, quotidiane deriva l’odierno modello di libro.

52 Cavallo, Le tavolette come supporto della scrittura: qualche testimonianza indiretta, Les tablettes, cit., p. 105. 53 Birley, Un posto di frontiera nella Britannia romana, Le scienze, 106, giugno, 1977, (= Letture da Le Scienze, L'Antico Mediterraneo, Milano, 1983, pp.209 - 216); Bowman , The Vindolanda writing tablets and the development of roman book form, ZPE, 18, 1975, pp. 237 - 252; Bowman, Thomas, Vindolanda: the latin writing-tablets, London, 1983, pp. 35 – 45; Bowman, Life and letters on the roman frontier. Vindolanda and its people, British Museum, 1994, pp. 13 ss.; Bowman, Thomas, The Vindolanda Writing Tablets, 2, London, 1994.54 Cavallo, Libro e cultura scritta, cit., p.705. 55 A Cesare dunque, secondo Cavallo, Le tavolette come supporto della scrittura, cit., pp. 100 e s., si ascriverebbe la nascita del libro di papiro in forma di codice, ispirato dal libro di tavolette in base al passo di Svetonio, Iul. 56: primum videtur ad paginas et formam memorialis libelli convertisse, cum antea consules et duces non nisi transversa charta scriptas mitterent . Avrebbe cioè trasformato “in codice di papiro i commentarii inviati al Senato dalle campagne di guerra, i quali fino ad allora, diversamente da altri commentarii in forma di codici lignei, erano usualmente redatti transversa charta, vale a dire su rotolo di papiro scritto nel senso del lato più corto invece che in serie continua di colonne disposte secondo il lato più lungo”. L’attenzione su questo testo è stata richiamata da Roberts e Skeat, The birth of the codex, Oxford, 1983, p.18 e s., ma il valore di tale passo è contestato da van Haelst, Les origines du codex, Bibliologia, 9, Brepols - Turnhout, 1989, p. 20.

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3 - Periodi storici e caratteristiche della Papirologia giuridica

Anche se il papiro, come materiale scrittorio, è antichissimo e numerose sono le testimonianze provenienti dall’antico mondo egiziano, si ritiene opportuno datare l’inizio dei periodi storici dalla conquista macedone dell’Egitto nel 332 a.C., adeguandosi di fatto a quanto inesattamente affermava Plinio quando dichiarava che l’invenzione della carta di papiro risaliva alla vittoria di Alessandro Magno sull’Egitto ed alla fondazione di Alessandria.

Pur riconoscendo la specificità di settori, come il diritto faraonico e persiano, si ritiene in dottrina opportuno prendere in considerazione i papiri per l’apporto che possono offrire soprattutto alla ricostruzione del diritto greco e romano: indubbiamente la scelta d’indagine nei relativi settori è giustificata da una documentazione coerente e dalla specializzazione richiesta.

Alla morte di Alessandro, nel 323, seguì la spartizione di quell’impero che, in ottemperanza ad un sogno straordinario, si era spinto verso oriente, al di là del mondo conosciuto, fino a costituire un regno greco ai piedi dell’altopiano del Pamir56.

Anche dalle biblioteche del regno di Battriana provengono papiri e recenti scoperte in Afghanistan documentano la sopravvivenza per alcuni secoli di una comunità greca e la sorprendente koiné venutasi a creare tra ellenismo e culture orientali57. L’Egitto toccò in sorte a Tolomeo Soter, figlio di Lagos, che diede inizio alla dinastia dei Tolomei o Lagidi; essa resse il territorio fino alla conquista romana, avvenuta nel 31 a.C. I Seleucidi regnarono sul regno di Siria e gli Antigonidi in Grecia, mentre il piccolo regno di Pergamo in Asia minore fu governato dagli Attalidi e dagli Eumenidi58.

L’età tolemaica presenta caratteristiche unitarie, che i papiri, più di qualsiasi altro tipo di fonte, hanno grandemente contribuito a ricostruire. Sembra che il governo ed i fondamenti dell’amministrazione siano stati posti da Tolomeo Soter, ma soprattutto perfezionati dal successore Tolomeo Filadefo. Il limitato sviluppo iniziale della burocrazia spiegherebbe la scarsità di documenti del primo periodo.

Caratteristica della storia egiziana rispetto alle altre monarchie ellenistiche sarebbe stata una posizione di isolamento, volutamente e faticosamente ricercata. A differenza della Siria, ove più accentuata era la presenza dell’elemento greco macedone e maggiore il numero di colonie di militari e di città autonome, in Egitto l’eccezionalità della pólis e la riduzione progressiva dell’elemento greco, sembra che abbiano favorito una concezione del potere regio, non tanto fondata su basi personali, come presso i Seleucidi, quanto su presupposti divini. Ai numerosi indigeni abitanti la campagna (chóra) i Lagidi tendevano ad apparire come i naturali continuatori delle dinastie faraoniche. Il forte tradizionalismo locale favoriva tale situazione vantaggiosa per il dinasta che superava così l’antica concezione macedone di un reggente affiancato da “hetaíroi” (compagni), ponendo i fondamenti dell’assolutismo monarchico. Correnti filosofiche ellenistiche imperniate sulla filantropia e sull’evergetismo del sovrano contribuivano poi a rendere accettabile ai più colti questa situazione.

Se l’Egitto differiva dalle altre monarchie ellenistiche in rapporto alla natura del potere regio, presentava problemi abbastanza simili per quanto atteneva alla coesistenza 56 Un affresco assai vivido della vita e delle imprese di Alessandro è tracciato da Lane Fox, Alessandro Magno, Torino, 1981 e 1999.57 Rapin, Les textes littéraires grecs de la tésorerie d’Ai Khanoum, BCH, 111, 1987, pp. 230 ss.; 259 - 265; Bernard, Un’antica città greca nell'Asia centrale, Le Scienze, 163, marzo, 1982 (=Letture da Le Scienze, L'Antico Mediterraneo, Milano, 1983, pp. 199 - 208); Id., CRAI, 1978, pp. 456 - 8; Ivanovich Sarianidi, The Golden Hoard of Bactria, National Geographic, 177, 3, 1990, pp. 50 - 75.58 Per la storia delle monarchie ellenistiche resta fondamentale l’opera in tre voll. di Rostovtzev, Storia economica e sociale del mondo ellenistico, Firenze, 1966.

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di una pluralità di diritti specifici di gruppi etnici diversi. Pur non offrendo la varietà della Siria, ove le pratiche di commercio erano probabilmente assai sviluppate, la coesistenza in territorio egiziano di stirpi eterogenee (egiziani, persiani, greci, ebrei, romani) creò problemi di non facile soluzione relativi al principio della personalità della legge o del diritto. A differenza del principio della territorialità del diritto oggi vigente, il principio della personalità seguito dai popoli del mondo antico implicava che ogni gruppo etnico, stabilmente residente in un determinato territorio, utilizzasse il proprio diritto, riconosciuto dall’autorità politica dominante. Non vigendo dunque un unico diritto che si estendesse per tutto il territorio dello Stato e che si applicasse a tutti coloro che stabilmente vi risiedevano (principio della territorialità), sussisteva una complessa problematica relativa ai conflitti di legge, che potevano essere risolti o ricorrendo ad una deroga convenzionalmente stabilita dalla legge specifica di una delle parti, o ad una disciplina particolare con presunzione di nazionalità, come quando si stabiliva l’applicazione della legge del convenuto nelle controversie, o quando ancora si presumeva il diritto utilizzabile nei rapporti contrattuali dalla lingua usata dalle parti nella stesura di un documento. Inoltre accanto ad organi giurisdizionali specifici, potevano sussistere tribunali misti.

Accanto al diritto locale (egizio) e al diritto greco, in età tolemaica si assistette alla formazione di una koinè assimilatrice tra questi diritti. Così ad esempio si ritiene che la posizione più libera della donna nel diritto degli indigeni risulti negativamente influenzata dal diritto greco, e, viceversa, la promessa da parte dell’avente potestà di concedere la donna come moglie (eggué), che costituiva un presupposto della validità dell’unione nel diritto greco, cadde in desuetudine e come gli egiziani cominciarono a praticare le forme matrimoniali dei greci, così questi ultimi utilizzarono talvolta la forma egiziana di matrimonio, che oltre all’assenza della promessa, prevedeva la redazione di un documento scritto disciplinante gli accordi patrimoniali59.

Alla relativa scarsezza di documenti papiracei del primo periodo dell’età ellenistica, fece presto seguito un gran numero di documenti che consentono di ricostruire nei dettagli la vita e l’amministrazione del territorio egiziano, che era il più ricco e potente tra gli Stati ellenistici. All’età di Tolomeo II Filadelfo (285 - 246 a.C.) risale uno dei più significativi rinvenimenti papiracei di questo periodo: l’archivio di Zenone.

Più di tremila papiri redatti tra il 260 ed il 230 a.C. e rinvenuti a Filadelfia nel 1914-15 da scavatori di fertilizzante (sebakh). Anche se disperso in tutto il mondo e pubblicato in una diecina di collezioni diverse l’archivio, comprendente vari archivi minori, si riferiva ad un unico personaggio, Zenone di Cauno, economo e uomo d’affari di Apollonio, preposto alle finanze (dioiketés) del re Tolomeo Filadelfo. Per necessità del suo ufficio Zenone teneva un’accurata documentazione dei rapporti con impresari, ingegneri, architetti, funzionari, commercianti e marinai per la bonifica di un’ampia zona paludosa dell’Arsinoite, che prevedeva la fondazione di alcuni centri abitati, tra i quali la stessa Filadelfia, ove è stato ritrovato l’archivio. Quest’uomo ordinato e metodico si occupava anche degli affari pubblici e privati di Apollonio e dunque il complesso documentale, che adesso può essere idealmente riunito60, appare di grande interesse per la ricostruzione del periodo tolemaico. Per citare un esempio curioso, è stata avanzata l’ipotesi che il carico di un’antica nave recuperato sul fondo del mare si riferisca ai traffici documentati in questi papiri61.

59 Biscardi, Corso di Papirologia Giuridica, Milano, 1966, p. 110. 60 Un gradevole, anche se datato, resoconto delle vicende di Zenone e di Apollonio in Rostovzeff, Città carovaniere, Bari, 1971, pp. 211-239. 61 Grace, Some amphoras from a hellenistic wreck , Recherches sur les amphores grecques, BCH, Suppl. XIII, 1986, pp. 551-565.

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Il c.d. “Codice di Ermopoli” in scrittura demotica, pubblicato nel 197562, non solo getta luce sul diritto egiziano praticato in età ellenistica, ma mostra, insieme ad altri frammenti di raccolte giuridiche egiziane63, che in epoca tolemaica, se non già persiana, circolassero raccolte indigene per un uso pratico, come quello di indicare la prassi corrente e la migliore soluzione da adottare. Favorite dalla familiarità degli egiziani con la scrittura e dall’antico ricorso ai sacerdoti e alla giustizia templare, sembra che tali raccolte di disposizioni locali di origine sacra abbiano avuto l’effetto di preservare il patrimonio nazionale del passato faraonico64 e che siano state tradotte dal demotico in greco (nómoi tês chóras, leggi del paese) sotto il regno di Tolomeo II Filadelfo (308- 246 a.C.) 65.

Una raccolta infine di disposizioni legislative promananti dal sovrano nel III sec. a.C. è costituita dai Dikaiomata (P. Hal. 1); il Corpus delle ordinanze dei Tolomei redatto da Lenger rappresenta uno strumento di fondamentale importanza per lo studio del diritto dell’età ellenistica e della legislazione regia 66.

Il successivo periodo romano ebbe inizio con la conquista che seguì la battaglia di Azio nel 31 a.C. e con la redactio in formam provinciae l’anno successivo 67.

I più importanti funzionari di governo furono: il praefectus Aegypti, il iuridicus e l’idiológos, ma ai mutamenti istituzionali non si accompagnarono grandi cambiamenti per la popolazione. La rigida politica economica ed il complesso sistema di controlli instaurato dai Tolomei favorirono uno sfruttamento intensivo del territorio, perseguito anche dai romani soprattutto per il reperimento del grano e dei cereali necessari per l’annona dell’Impero.

I tre fondamentali gruppi etnici degli Aigyptioi, Éllenes e Romáioi, in ossequio al principio della personalità del diritto, continuarono ad utilizzare istituti giuridici diversi e strutture che inevitabilmente erano costrette ad entrare in contatto tra loro. Accanto al diritto greco-egizio - quella koiné formatasi in età tolemaica - sussisteva il diritto romano, riservato ai soli cives conquistatori sino alla data della generale concessione della cittadinanza da parte dell’imperatore Antonino Caracalla (212 d.C.). Dibattute sono la portata e le conseguenze di tale provvedimento. Sembra tuttavia che indipendentemente dagli sviluppi successivi, il diritto dei dominatori, ancora prima della stessa constitutio Antoniniana, abbia rappresentato un modello generale e culturalmente ambito dagli stessi provinciali68.

Tra gli innumerevoli documenti di età romana pervenuti attraverso i papiri, uno dei più importanti per la conoscenza del diritto e dell’amministrazione è costituito dallo

62 Il P. Caire dém. 89127-89130 e 89137- 89143 fu ritrovato nel 1938-9 a Touna el Gebel; Mattha, Hughes, The Demotic Legal Code of Hermopolis West, Le Caire, 1975 (IFAO, Bibl. d’études 45); Mélèze- Modrzejewski, “La loi des Égyptiens”: le droit grec dans l’Égypte romaine, Proceedings of the XVIII Intern. Congress of Papyrology (Athens, 1986), II, Athens, 1988, pp. 383 e s.63 Il P. Oxy. XLVI, 3285, posteriore al 150 d.C., non rappresenta una traduzione in greco del medesimo codice, ma una versione greca di un’altra raccolta simile (Rea, The Oxyrhyncus Papyri, XLVI, London, 1978, pp. 30-38; Pestman, Le manuel de droit égyptien d’Hermoupolis. Les passages transmis en démotique et en grec, Textes et études de papyrologie grecque démotique et copte, Leyde, 1985 (P. Lugd. Bat. 23), pp. 116-143. Ad un’altra raccolta in demotico rinviano i frammenti di Tebtynis pubblicati nel 1981 da Bresciani, Frammenti di un ‘prontuario legale’ demotico da Tebtynis, Egitto e Vicino Oriente, 4, 1981, pp. 201-215. 64 Quaegebeur, Sur la ‘loi sacrée’ dans l’Égypte gréco-romaine, Anc. Soc., 2, 1980-1, pp. 227-240; Mélèze-Modrzejewski, op. cit., p. 384.65 Mélèze-Modrzejewski, Livres sacrées et justice lagide, Acta Universitatis Lodziensis, Folia Iuridica, 21 (Mélanges Kunderewicz), Lodz, 1986, pp. 11- 44; Allam, Réflexions sur le ‘Code légal’ d’Hermopolis, Chron. d’Égypte 61, 1986, pp. 50-75.66 Lenger, Corpus des Ordonnances des Ptolémées, Bruxelles, 1964 (rist. 1980).67 Geraci, Genesi della provincia romana d'Egitto, Bologna, 1983, pp. 141 ss.68 Mélèze-Modrzejewski, La regle du droit dans l'Égypte romaine, Proceedings of the twelfth Intern. Congress of Papyrology (Ann Arbor, 1968), Toronto, 1970, pp. 317 - 377.

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Gnómon dell’Idios lógos, giunto a noi attraverso una copia della metà del II sec. d.C. (BGU V, 1210) ed ora anche in un breve frammento più antico, del I sec. d.C. (P. Oxy. XLII, 3014). Il documento presenta straordinario interesse in quanto contiene una raccolta di disposizioni per l’amministrazione finanziaria dell’Egitto, risalenti ad un nucleo di età augustea, forse un liber mandatorum, accresciuto via via nel corso del tempo. Oltre a rappresentare una preziosa fonte di innumerevoli notizie, rivela lo stato di penetrazione ed evoluzione del diritto romano in Egitto nella fase centrale dell’età classica e le condizioni degli altri diritti applicati in quello, che era uno dei territori più ricchi ed interessanti dell’Impero.

Le riforme dioclezianee dell’Egitto a partire dal 296 d.C. determinarono la divisione di quell’unico territorio, che era stato sottoposto al praefectus Aegypti, in tre province ascritte adesso alla diocesi d’Oriente: l’Aegyptus Iovia, l’Aegyptus Herculia e la Thebais. Alle riforme amministrative si accompagnarono riforme economiche, fiscali, giudiziarie, tendenti ad integrare quel territorio al resto dell’Impero. Anche se alcune delle riforme ben presto ebbero a subire modifiche, indubbiamente era iniziata una nuova fase della vita dell’Egitto. L’età tardo romana e bizantina, massicciamente rappresentata nella documentazione papiracea, pur con vuoti tra la fine del IV sec. e nel corso del V sec., ascrivibili alla crisi e decadenza dell’amministrazione, presenta caratteristiche profondamente diverse dalle età precedenti, non solo per il sorgere di problemi e di istituti nuovi o almeno diversamente disciplinati, come il patronato e l’autopragia, ma soprattutto per la diffusione del diritto romano e l’influenza dei diritti locali. Si è infatti dibattuto se in conseguenza dell’editto di Caracalla abbia avuto luogo un conflitto tra diritto romano (diritto dell’Impero, Reichsrecht) e diritto locale (Volksrecht) tale da determinare una resistenza del diritto ufficiale sino a Diocleziano ed un crollo da Costantino in poi. Tale ipotesi enunciata nel 1891 da Mitteis implicava una profonda trasformazione del diritto romano classico per effetto delle consuetudini locali, ellenistiche in particolare69, con conseguenze di grande portata per la valutazione della compilazione giustinianea, delle scuole d’Oriente, dell’entità e dell’epoca delle alterazioni dei testi classici. I papiri, che hanno contribuito in un primo tempo alla genesi dell’ipotesi di Mitteis, sembra che adesso concorrano piuttosto a ridimensionarne la portata70. La questione dei fattori di trasformazione del diritto romano classico in postclassico sembra dunque che possa risolversi, considerandoli determinati non dall’influsso delle consuetudini ellenistiche, ma seguendo Riccobono, in primo luogo da fattori primari – come la prassi e la fusione dei sistemi di diritto (ius civile, honorarium, extraordinarium) – poi anche da fattori secondari, come il cristianesimo, il nuovo assetto economico e sociale ed infine dalle consuetudini locali. Con la concessione di Caracalla si sarebbe verificata un’”inclusione” delle condizioni locali (consuetudini) nel più ampio quadro della cittadinanza romana, piuttosto che un “cumulo” di cittadinanze diverse (tesi di Schönbauer o della doppia cittadinanza).

Con la conquista araba dell’Egitto, nel 641 d.C., ed il sistematico incendio della biblioteca di Alessandria, i cui rotoli si dice che per mesi abbiano alimentato, per ordine dell’emiro, le pubbliche terme, non solo si concluse l’età bizantina, ma in questo rogo, che fu forse in parte simbolico essendo già il patrimonio librario fortemente ridotto71, andarono definitivamente distrutti i testi della cultura classica, che solo le scoperte dei papiri consentono oggi, seppur in frammenti, di far rivivere.69 Mitteis, Reichsrecht und Volksrecht in den Östlichen Provinzien des römischen Kaiserreichs, Leipzig, 1891.70 Mélèze-Mozdrejewski, La regle du droit, cit., pp. 353 ss. 71 Canfora, La biblioteca scomparsa, Palermo, 1986, pp. 92 ss.; Id., Le biblioteche ellenistiche, Le biblioteche nel mondo antico e medievale, Bari, 1989, p. 23.

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4 - Breve storia della disciplina

Nel 1752, gli scavatori che lavoravano in profondi cuniculi alla ricerca di oggetti d’arte antica in una villa suburbana della cittadina di Ercolano, sepolta dall’eruzione del 79 d.C.72, ebbero la sorpresa di rinvenire strani “carboni”, fragili, friabili e neri, tanto da tingere la mano di chi incautamente li toccasse73. Si trattava dei primi volumina di papiri carbonizzati destinati a destare un grande interesse ed aspettativa nel mondo culturale europeo, che in quegli anni era particolarmente propenso a credere nel mito di un’antica sapienza posseduta dagli antichi e successivamente perduta. Ed in effetti da quegli ambienti sotterranei vennero estratti, non solo papiri e tavolette, ma anche busti di antichi filosofi, i cui nomi ebbero in tal modo un volto preciso. In realtà quei volumina, parte di una biblioteca filosofica epicurea, non erano veramente i primi ad essere noti in Occidente: ai rari papiri medioevali superstiti si aggiungevano due frammenti di papiri greci d’Egitto, che un umanista già alla fine del XVI sec., aveva avuto tra le mani e che aveva preso per “turchi”74. Ma fu la charta borgiana, donata nel 1778 da un mercante al cardinale Stefano Borgia, il documento destinato a suscitare il più vivo interesse, anche se già nel 1768 - 70 un viaggiatore inglese, James Bruce, aveva acquistato in Egitto due codici di papiro, uno greco ed uno copto, contenenti scritti gnostici. La charta borgiana, lungi dal rivelare i segreti della sapienza degli antichi, conteneva un semplice elenco di abitanti di un villaggio, sottoposti al munus del rifacimento di dighe e canali nel 192-3 d.C. Nonostante la delusione, l’interesse per l’Egitto ed i papiri era ormai destinato a crescere, alimentato dalla breve, ma determinante, campagna egiziana di Napoleone (1799 - 1801). Come giustamente osserva Turner, “nel Flauto Magico di Mozart (composto nel 1791) possiamo ancora sentire quanto alla fine del diciottesimo secolo si sperasse di trovare nella saggezza e nel rituale egiziano: una nuova e soddisfacente risposta al mistero della vita”75. Agli inizi dell’Ottocento diplomatici, studiosi ed avventurieri spinti dall’interesse

72 Le vicende della scoperta e dello scavo di Ercolano e Pompei da parte dei Borboni sono efficacemente riassunte in Corti, Ercolano e Pompei, Torino, 1957, pp. 100 ss. Si tende adesso a ribaltare la radicata convinzione che Ercolano sia stata distrutta da fango lavico freddo, a differenza di Pompei sepolta dalla pomice incandescente, e che la carbonizzazione dei papiri sia dipesa dall’umidità e dalla decomposizione del materiale organico. Sembra invece che l’eruzione vesuviana si articolasse in due fasi: una prima di dodici ore con caduta di pomici bianche e grigie, una seconda di sette ore con nubi ardenti e colate di masse calde e dense. Ercolano, poco colpita per il vento nella prima fase, fu inondata nella seconda da flussi piroclastici con temperature tra i 350 ed i 400°C., che la seppellirono sotto una coltre di oltre venti metri di altezza. E’ stato accertato che la biblioteca della Villa dei Papiri fu sottoposta ad una temperatura oscillante tra i 300 ed i 320°, infatti le due principali sostanze della pianta di papiro - la cellulosa, che brucia tra 250 - 300°, e la lignina, che scompare tra 380 - 450° - apparivano nei campioni ercolanesi in quantità assai diverse: la prima assai ridotta, la seconda in misura completa. Dunque il processo di carbonizzazione derivò dal calore e non dall’umidità. Anzi, in qualche modo “incapsulandoli”, costituì la salvezza per rotoli, che altrimenti sarebbero stati soggetti ad agenti disgreganti esterni ed all’umidità. Cfr. Störmer, Kleve, Fosse, What Happened to the Papyri during the eruption of Vesuvius ?, CErc., 16, 1986, pp. 7 – 9; Basile, I papiri carbonizzati di Ercolano. La temperatura dei materiali vulcanici e le tecniche di manifattura dei rotoli, Siracusa, 1994; Capasso, Volumen, cit., pp. 56 ss. nt. 7. 73 Bartoletti, La papirologia in Italia, Atene e Roma, 1954, 13, p. 1. E’ curioso notare che la colorazione dei rotoli varia a seconda dell’autore del testo in essi contenuto. Sembra possibile distinguerne alcuni di colore marrone chiaro con opere di Demetrio Lacone, da altri di un nero intenso e profondo con scritti di Filodemo. La differenza deriverebbe dal trattamento per la conservazione e lucidità dei fogli prima della scrittura con sostanze ignifughe a base di alluminio. I primi, trascritti in Grecia, nel Mediterraneo greco-orientale e simili a materiali egiziani, si differenziano dai secondi, realizzati in Italia nel I sec. a.C.- I d.C. Capasso, l.c.74 Erano così finiti nella Biblioteca di Basilea (Papiri Amerbach). Sono stati pubblicati agli inizi del '900 (P. Bas.). Montevecchi, La papirologia, cit., p. 30; Turner, Papiri greci, cit., p. 38; Donadoni, La “Charta Borgiana”, La Parola del Passato, CCVIII, 1983, pp. 5 - 10.75 Turner, op. cit., p. 39.

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per l’Egittologia cominciarono a coltivare anche la passione per raccolte di papiri, che furono portate in Europa ed iniziarono pian piano ad essere pubblicate, a Torino da Peyron, a Berlino da Droysen, al Vaticano dal cardinale Angelo Mai, ma anche a Vienna, Londra, Parigi, Leida, suscitando il fiorire di commenti di storici e letterati76. Se iniziava “la Papirologia come scienza specifica”77, è pur vero che essa dovette essere alimentata dalla comparsa nel 1877, sul mercato antiquario del Cairo, di un enorme numero di papiri provenienti per lo più dal Fayûm, che al tempo stesso incrementarono il numero degli acquisti, per ragioni di prestigio e di orgoglio nazionalistico, da parte dei rappresentanti diplomatici delle maggiori potenze europee, Germania, Francia, Inghilterra, ma soprattutto Austria, che con ingenti fondi messi a disposizione dall’arciduca Ranieri, riuscì ad acquistare circa centocinquemila e duecento papiri. Con la pubblicazione di una parte di essi ad opera di Wessely nel Corpus Papyrorum Raineri (CPR) iniziava la Scuola Viennese di Papirologia, ma il dannoso metodo degli acquisti sul mercato antiquario era destinato ben presto ad essere superato da specifici scavi intrapresi dalla Scuola Inglese alla fine dell’Ottocento e via via seguiti da francesi, tedeschi, italiani, americani, non sempre in pacifica competizione scientifica tra di loro78. I papiri venivano ritrovati in antichi immondezzai (kîman) che erano scavati dai contadini arabi alla ricerca di concime e quindi commerciati nel mercato antiquario, ma indagini regolari in abitazioni, archivi e tombe avrebbero potuto offrire informazioni preziose. Se era insolito utilizzare i papiri come arredo funebre, era possibile impiegarli come imbottitura o rivestimento di mummie. Grenfell ed Hunt, indicati come i “Dioscuri della Papirologia” da Mommsen - che considerava determinante nell’incipiente secolo XX l’apporto dei papiri, come lo era stato quello delle epigrafi nel secolo che appena si concludeva - scavarono con l’appoggio dell’Egypt Exploration Fund e l’inizio della pubblicazione della collezione, ancor oggi attiva, dei papiri di Ossirinco (P. Oxy.) rappresentò il superamento di quei limiti derivanti dalla mancanza di una provenienza e di sicuri dati di scavo, dalla mole dei documenti inediti o inadeguatamente pubblicati, dalla incentivazione in pratica della distruzione dei contesti archeologici e dalla deliberata frantumazione e dispersione nel commercio antiquario. A quest’epoca risale dunque la strutturazione della Papirologia come disciplina scientifica, la creazione di fondamentali strumenti di lavoro e l’organizzazione infine dello studio sistematico del diritto nei papiri, ad opera di studiosi come Wilcken e Mitteis, che nel 1912 pubblicarono una fondamentale opera sulle caratteristiche della Papirologia, corredata da una ricca antologia di documenti79. Era nel frattempo iniziata la pubblicazione dei documenti greci del Museo di Berlino (BGU) e di un periodico, Archiv für Papyrusforschung (APF), fondato da Wilcken nel 1900 e divenuto principale punto di riferimento critico e bibliografico per gli studi di Papirologia. A Monaco nei primi decenni del 1900 l’Istituto di Papirologia diretto da Wenger rappresentò un importante centro di formazione e curò anche la pubblicazione di una serie di studi di Papirologia giuridica (Münchener Beiträge). Fu merito delle capacità organizzative di Preisigke, in quel momento di straordinario fervore di studi, compreso tra il 1920 ed il ‘30, avere dotato la disciplina di un vocabolario dei papiri greci, di una raccolta che da allora continua a ristampare tutti i documenti pubblicati in periodici (SB) e di una lista delle correzioni proposte ai testi già editi

76 Ad esempio Leopardi si congratulò con Peyron e pubblicò alcune osservazioni sul primo papiro della raccolta (Rhein. Mus., 1835, pp. 3 ss.). Bartoletti, op. cit., p. 4; Montevecchi, La papirologia, cit., p. 32. 77 Montevecchi, l.c.78 La documentazione raccolta da Petruccioli, Archeologia e mare nostrum. Le missioni archeologiche nella politica mediterranea dell'Italia. 1898/1943, Roma, 1990, pp. 47 ss. evidenzia l’orgoglio nazionalistico e gli interessi politici che accompagnavano le missioni archeologiche all'estero tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento. 79 Wilcken, Mitteis, Grundzüge und Chrestomathie der Papyruskunde, 4 voll., Berlino, 1910 - 1912.

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Page 26: PURPURA/Diritto... · Web viewSembra, ad esempio, che il latore nella consegna di una lettera, nonostante lo scritto, fosse in ogni caso solito riassumerne oralmente il contenuto.

(BL)80. Nell’arco dei primi decenni del Novecento apparivano inoltre manuali come quelli di Gradenwitz, Modica, Schubart, Meyer, Preisendanz, Calderini, che favorivano lo studio di base della disciplina81.

In Italia il Vitelli riuscì agli inizi del Novecento a promuovere acquisti e scavi ad Ermopoli. Fu fondata la Società italiana per la ricerca dei papiri greci e latini in Egitto e ben presto apparvero le pubblicazioni delle prime collezioni italiane, sia dei papiri della Società italiana (PSI), che dei papiri fiorentini (P. Flor.). L’interesse del romanista Scialoia e di discepoli quali De Ruggiero, Maroi, Segrè, era destinato a creare una tradizione di studi, seguita poi da De Francisci, Arangio Ruiz, Volterra, Luzzatto, Biscardi, Amelotti. Nel 1920 Calderini aveva nel frattempo fondato una rivista papirologica: Aegyptus. Ben presto apparve la collezione dei papiri milanesi (P. Med.), ma la città era destinata a dare il nome anche ad un’altra collezione: quella dei papiri dell’Università editi da Vogliano (P. Mil. Vogliano)82. Anche Bologna (P. Bon.) e Genova (PUG) imposero il loro nome a nuove collezioni.

Dopo la prima guerra mondiale francesi, polacchi, italiani, inglesi e americani ripresero gli scavi per la ricerca dei papiri in Egitto, ma anche altre località e regioni erano destinate a fornire una documentazione preziosa, come Dura Europos, città fortificata sull’Eufrate dove fu ritrovato l’archivio di una coorte romana del III sec. d.C. In Palestina furono ritrovati tra la prima e la seconda guerra mondiale i celebri rotoli del Mar Morto; ma, a prescindere da tali significativi testi di carattere religioso, la zona si è rivelata ricca di rinvenimenti di papiri di interesse storico giuridico, relativi all’archivio di una famiglia, travolta dalla rivolta ebraica del 132 d.C. (P. Yadin).

Anche altri luoghi, al di fuori dell’Egitto, hanno offerto l’opportunità di rinvenimenti: oltre alle tavolette scoperte in Transilvania tra il 1786 ed il 1855 nei cuniculi di una miniera d’oro e risalenti al II sec. d.C., tavolette di età vandalica sono state scoperte in questo secolo nell’Africa del nord (tav. Albertini). I documenti rinvenuti ad Ercolano e studiati da Arangio Ruiz dopo la seconda guerra mondiale, si aggiungono a rinvenimenti dell’area campana della seconda metà dell’Ottocento, come

80 Preisigke, Wörterbuch der griechischen Papyrusurkunden, dal 1925; Id., Sammelbuch griechischer Urkunden aus Aegypten, dal 1915; Id., Berichtigungsliste der griechischen Papyrusurkunden aus Aegypten, dal 1922.81 Gradenwitz, Einführung in die Papyruskunde, Lipsia, 1900; Modica, Introduzione allo studio della Papirologia giuridica, Milano, 1914; Schubart, Einführung in die Papyruskunde, Berlin, 1918; Meyer, Juristische Papyri. Erklärung der Urkunden zur Einführung in die juristische Papyruskunde, Berlino, 1920; Preisendanz, Papyrusfunde und Papyrusforschung, Lipsia, 1933; Calderini, Manuale di Papirologia, Milano, 1938. Intorno agli anni trenta fu ideato un sistema di trascrizione e di pubblicazione dei papiri esposto da Bidez, Drachmann, Emploi des signes critiques, Paris, 1938. Questo sistema, detto di Leida, in quanto fissato in questa città nel 1931 e dall'Unione Accademica Internazionale di Bruxelles l’anno successivo, stabiliva le seguenti regole: - un punto al di sotto di una lettera indica incertezza nella lettura (es.: a) ; - tre puntini denotano una lacuna, la cui ampiezza può essere determinata da un numero tra

trattini (- 10 -) o indicata approssimativamente (+ o - 10); - lettere tra parentesi quadre costituiscono delle integrazioni dell'editore [a]. Naturalmente se

l’interno è lasciato in bianco le lettere mancanti non si riescono ad integrare [ ]; - le parentesi uncinate indicano supplementi introdotti per ovviare alle omissioni dello scriba <a>; - le parentesi tonde invece soluzioni di abbreviazioni (a); - le doppie parentesi tonde o le parentesi graffe connotano lettere inserite per errore, vere e proprie

interpolazioni dello scriba ((a));- le doppie parentesi quadre si riferiscono alle cancellature dell'estensore del testo [[a]]; - due accenti contrapposti indicano infine le aggiunte interlineari (‘a’).82 Le sigle delle collezioni di papiri possono trarre origine dal luogo di ritrovamento, come nel caso dei P. Dura ed inizialmente della collezione di Ossirinco; dal luogo di conservazione, come nel caso di Genova, Bologna o Giessen; dal nome dello scopritore o dell’editore (P. Petrie o Reinach); o del proprietario della raccolta o del finanziatore della ricerca (P. Merton o Amherst).

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l’archivio di Cecilio Giocondo, banchiere pompeiano o a quelli più recenti, costituiti dall’archivio dei Sulpicii83.

All’attività di Arangio Ruiz si deve la pubblicazione del terzo volume dei Fontes iuris romani anteiustiniani (FIRA), dedicato ai Negotia, che seleziona razionalmente la documentazione disponibile. Quest’opera di ampia diffusione non è stata però aggiornata.

A Bruxelles nel 1932 è stata fondata l’Associazione Internazionale dei Papirologi e in America l’American Society of Papyrology, che oltre a pubblicare un Bollettino (BASP), ha iniziato una serie di American Studies in Papyrology.

La scuola polacca di papirologia, attraverso uno dei suoi più illustri rappresentanti, Taubenschlag, ha prodotto, sul finire della seconda guerra mondiale, un testo di Papirologia giuridica di grande rilievo84. Sempre in Polonia, a partire dal 1946 ha cominciato ad essere pubblicata una rivista specifica di Papirologia Giuridica, The Journal of Juristic Papyrology (JJP). Tra le più recenti riviste di Papirologia ed Epigrafia vanno ricordate inoltre Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik (ZPE), Tyche Beiträge zur alten Geschichte, Papyrologie und Epigraphik e Minima Epigraphica et Papyrologica. Le opere di Seidl e di H.J.Wolff sul diritto dell’Egitto ellenistico e romano consentono infine di avere una visione di sintesi della disciplina più aggiornata, anche se privilegiano aspetti particolari85.

Sembra adesso che per le prospettive future nello studio del passato e nell’utilizzazione della documentazione papiracea si possa ormai confidare, seppure in parte, nelle potenzialità dell’elaboratore elettronico che consente non solo di gestire un’enorme mole di dati, tenendo conto di minuscoli frammenti di papiri, ingialliti dal tempo, ma anche di facilitarne la lettura86. A cura di Willis e della Duke University è stata costituita una banca dati dei papiri documentari (PHI #7), che registra buona parte dei testi finora pubblicati. E’ questo soltanto un segmento di una ben più vasta raccolta su dischi delle fonti greche e latine (PHI #5.3 e TGL). Utilissimi lavori che hanno richiesto attenzione e pazienza, come l’Heidelberger Konträrindex der griechischen Papyrusurkunden (Berlino, 1931) di Gradenwitz, che ha riportato in ordine alfabetico inverso, risalendo dall’ultima alla prima lettera, ai fini dell’integrazione della parte iniziale di vocaboli in papiri greci danneggiati, appaiono ormai di colpo indiscutibilmente datati. Il nuovo mezzo per la registrazione ed elaborazione, il computer, potrà sempre più in futuro fornire un validissimo aiuto al papiro, suo ben più antico e rudimentale antenato, nella trasmissione delle informazioni.

83 Cfr. supra nt. 37.84 Taubenschlag, The law of the graeco-roman Egypt in the light of the papyri, Warszawa, 1944. 85 Seidl, Rechtsgeschichte Ägyptens als römischer Provinz, Sankt Augustin, 1973; Wolff, Das Recht der griechischen Papyri Ägyptens in der zeit der Ptolemaeer und des Prinzipats , II, Organisation und Kontrolle des privaten Rechtsverkehrs, München, 1978.86 Purpura Giovanni, Epigrafi e computer: come è stato possibile leggere le antiche iscrizioni , in L’Oratorio di S. Giuseppe dei Falegnami e la nascita della Università a Palermo, Kalós, maggio-giugno 1999, p. 28.

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5 - Cenni sulla storia e funzione della scrittura, con particolare riferimento alla scrittura greca e latina dei papiri

Sembra che la storia della scrittura occupi nelle vicende dell’umanità soltanto un brevissimo segmento: lo spazio degli ultimi cinquemila anni. E’ dunque naturale chiedersi quali diverse esperienze abbiano coinvolto l’uomo nel lunghissimo lasso di tempo anteriore.

Il linguaggio ovviamente precede la scrittura; l’articolazione dei primi suoni, l’elaborazione di un sistema di comunicazione orale, la formulazione di concetti astratti rappresentano tappe fondamentali che richiesero un tempo tanto lungo, quanto quello necessario per l’addomesticamento, la sperimentazione ed il controllo delle risorse vegetali ed animali87. Al culmine di tale processo apparvero tecniche per la conservazione e trasmissione delle informazioni, basate sull’utilizzazione di oggetti e poi su rappresentazioni grafiche88.

A Jerf el Ahmar (Siria) sono state recentemente scoperte diverse piccole lastre di pietra con segni graffiti che sono stati datati al 9000 a.C. e interpretati come pittogrammi simbolici, precedenti di circa cinquemila anni la prima testimonianza di una vera e propria scrittura: quella dei Sumeri, che apparve nella stessa regione intorno al 4000 a.C. (ideogrammi di Warka, Iraq) 89. Connesse con le necessità di computo della “rivoluzione agricola”- che dal Vicino Oriente, dal 9000 a.C., probabilmente raggiunse la Valle del Danubio intorno al 5500 a.C., e l’Europa occidentale verso il 5300 a.C. - tali lastre graffite si legano ad un diverso atteggiamento dell’uomo di fronte all’universo. Sembra infatti che la nascita dell’agricoltura sia connessa ad un profondo cambiamento di mentalità che si accompagnò ad una crisi dinnanzi al divino, ad una “rivoluzione dei simboli”, ad una “nascita degli dei”, ad un tentativo di padroneggiare il mondo e non sia stata determinata in un contesto di penuria di risorse naturali, come invece sostenuto dalla “nuova archeologia”, che fa riferimento principalmente all’ecologia ed all’economia per spiegare i grandi mutamenti nella preistoria in seguito all’esaurimento delle risorse naturali.

La scrittura come formulazione linguistica di un pensiero strutturato appare dunque solo quando si forma un insieme organizzato di segni o simboli idonei a determinare e fissare con chiarezza pensieri, sentimenti, emozioni90. E’ probabile che ciò, piuttosto che da originarie e remote istanze magiche e religiose, sia stato accelerato da più prosaiche necessità di contabilità.

Una recente ipotesi sulle origini della scrittura nel mondo egeo rintraccia nelle cretule e nei sigilli - lasciati alla fine del III millennio a.C. come riscontro sulle giare contenenti derrate, e oggetto di prelievo da parte di funzionari - i primi segni di un rudimentale sistema grafico91. Ma sembra che già prima, in Oriente, disposizioni di servizio ed ordini di missione e di consegna da parte dell’autorità centrale, indirizzati a funzionari periferici per l’esazione di derrate, possano aver assunto la forma originaria di piccoli oggetti in argilla, pietra od osso (calculi, tokens),

87 Ross, Glottologi a confronto, Le Scienze, 274, giugno 1991, p. 97; Masetti, Pieraccioli, Il linguaggio umano, Le Scienze, 237, maggio 1988, pp. 74 - 85.88 Schmandt - Besserat, Before - writing, Austin, 1992, I, pp. 95 ss. ; Cardona, St. univ. della scrittura, cit, pp. 18 ss.; pp. 29 ss. 89 Rossion, Questo messaggio viene dalla notte dei tempi, Scienza e Vita, maggio 1997, pp. 72- 75.90 Jean, La scrittura memoria degli uomini, Trieste, 1992, p. 12. 91 Godart, L’invenzione della scrittura. Dal Nilo alla Grecia, Torino, 1992, pp. 91 ss.; 103 ss.; 241 ss.

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simbolicamente corrispondenti in qualità e quantità a quelli richiesti, che venivano rinchiusi in involucri sigillati, sfere cioè cave d’argilla impresse all’esterno con analoghi simboli92. Tali bullae erano destinate ad essere trattenute, quale ricevuta dell’avvenuta distribuzione delle razioni. Segni corrispondenti vennero in seguito apposti direttamente su di un involucro destinato a divenire una tavoletta d’argilla a cuscinetto con dati ideografici e numerici93. Non solo tale ipotesi sulle origini della scrittura collega operazioni di computo e numeri a nascita di un sistema grafico e lettere, ma presenta il vantaggio di spiegare l’antichissima doppia struttura dei documenti contabili, perpetuatasi sino all’età greco romana94.

Gli scribi ben presto, oltre ad esercitare col pennello - un calamo masticato all’estremità - un’arte da iniziati carica di connotati magici, pare che abbiano cominciato ad impiegare anche lo stilo per registrare beni e derrate95. E’ recente la scoperta di circa trecento etichette di reperti funerari con tracce di una scrittura ben strutturata in una tomba egiziana predinastica della necropoli reale di Abido, datate al 3400 a.C., che strapperebbero alla Mesopotamia il primato della comparsa della scrittura, in quanto in Medioriente le prime tavolette in cuneiforme apparirono probabilmente intorno al 3300 a.C.96 Ma anche nel deserto di Isma, nel meridione della Giordania, sono stati adesso rintracciati segni di una scrittura ideogrammatica, che con un complesso di immagini rappresentano sinteticamente un’idea o un concetto astratto. Dalle fasi più antiche della metà del V millennio a.C., per almeno due millenni e forse anche di più (dal 4500 al 2500 a.C.), probabilmente fino ai tempi delle prime scritture alfabetiche fonogrammatiche, tali segni furono utilizzati da piccoli agricoltori, in gruppi ben strutturati socialmente, in un’ampia zona, a quel tempo più umida di oggi97.

A differenza dalle primitive società impregnate di oralità, l’esistenza di un forte potere centralizzato si accompagnava all’impiego della scrittura anche per comunicare i simboli della regalità98. L’alleanza poi tra scrittura e potere politico comportava l’acquisizione di una dimensione ieratica dello scritto, sovente utilizzato come strumento elitario di governo99.

Nella comunicazione verbale scritta gli antichi facevano ricorso a simboli comprensibili indipendentemente dal suono delle parole, o impiegando segni che rendevano possibile la riproduzione dei suoni. Nel primo caso si avevano scritture pittografiche o ideografiche, che necessitavano, per l’apprendimento, della memorizzazione di un elevato numero di caratteri, poichè utilizzavano una figura per ogni parola o idea. I numeri arabi ed i cartelli stradali rientrano in questo sistema o codice, che non implica il suono della parola e non offre alcuna possibilità di riconoscere la lingua originaria, né alcun indizio per l’identificazione dei suoni di quella. Cinese e geroglifico egiziano rientrano in tale sistema grafico, che appare meno progredito dei sistemi fonetici sonori. Lo dimostra, se non altro, il ritardo nell’apprendimento della scrittura dei bambini cinesi che debbono memorizzare un numero assai elevato di segni. Un dizionario cinese dell’Ottocento pare che ne computasse oltre cinquantamila. Fonetico, cioè, basato sul suono era invece il sistema

92 Schmandt-Besserat, How writing come about, Austin, 1996.93 Godart, op cit., pp.118 e s.94 Cfr. infra § - Documenti scritti e non scritti.95 Per un quadro più dettagliato delle funzioni della scrittura in età arcaica v. Harris, Lettura ed istruzione, cit., pp. 30 ss.96 Tiradritti, L’ultima scoperta: le etichette di Abido, in: Bresciani ed altri, Sesh. Lingue e scritture dell’antico Egitto, Arch. Viva, 74, marzo-aprile 1999, pp. 28-9.97 Borzatti von Löwenstern, I segni di Isma, Archeologia Viva, 75, 1999, pp. 61-67.98 Cardona, St. univ. della scrittura, p. 53: “la regalità deve poter trasmettere suoi simboli anche in absentia, senza il continuo richiamo della parola parlata”.99 Havelock, Dalla A alla Z. Le origini della civiltà della scrittura in Occidente, Genova, 1993, pp. 68 e s.

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sillabico, come il lineare B, antenato del greco ed utilizzato dai micenei, che impiegava nella seconda metà del secondo millennio a.C. un ben più limitato numero di segni, i quali riproducevano soltanto il suono di circa settanta sillabe e realizzavano così un notevole progresso nella comunicazione scritta100, che si sarebbe concluso alla fine del XIII sec. a. C. quando, dopo un lungo periodo di crisi, i Popoli del mare sferrarono un attacco contro i palazzi micenei ed il ceto popolare, che comprendeva anche elementi dorici, ne approfittò per ribellarsi ed eliminare la struttura palaziale. L’ulteriore passo innanzi, nell’ambito della scrittura, fu compiuto alla fine del secondo millennio a. C. dal sistema alfabetico, ritenuto comunemente, ma a torto101, un’invenzione semitica, che con poco più di una ventina di segni consentiva una straordinaria flessibilità e si diffuse rapidamente agli inizi del millennio successivo102. Controversa è la questione dell’origine, probabilmente egiziana, dei segni103, non in discussione invece è l’importanza dell’intuizione. Incerta è la ragione dell’ordine costante nella successione dei simboli, che secondo una suggestiva ipotesi rifletterebbe fin dal XIV sec. a. C. la ciclicità del tempo e finirebbe per costituire dunque un calendario simbolico, denotante nei segni della parola scritta l’ordine e la varietà del mondo104.

Nelle scritture semitiche non esistevano però segni particolari per indicare le vocali ed il suono vocalico era insito nei segni delle consonanti. Per questa ragione tali scritture non potevano essere lette, ma dovevano essere in realtà interpretate. Oggi consideriamo invece per alfabeto un tipo di scrittura nella quale ogni segno indica comunemente un suono soltanto e dunque quando i Greci, dopo aver appreso la scrittura semitica, forse in occasione di contatti commerciali, vi apportarono sostanziali modifiche per adattarla alle esigenze della loro lingua, introducendo tra l’altro le vocali, solo allora il sistema grafico fenicio apparve realmente alfabetico105. Successivamente i Greci “attraverso una loro colonia italica, Cuma, trasmisero questa

100 Chadwick, Lineare B. L'enigma della scrittura micenea, Torino, 1979, pp. 60 ss. 101 Il fenicio è stato descritto come un “sillabario senza vocali” che può determinare difficoltà di lettura e di interpretazione senza la conoscenza del contesto. Havelock, Dalla A alla Z, cit., pp. 25 ss. e p. 35: “ I sillabari precedenti...avrebbero utilizzato cinque segni senza rapporto fra loro per...cinque suoni. Il sistema fenicio ne adopera solo uno, l’indice consonantico dell’insieme”. Pur costituendo un progresso rappresentava uno strumento di lettura meno efficace rispetto all'invenzione dell'alfabeto greco.102 Diringer, L’alfabeto nella storia della civiltà, Firenze, 1969, pp.215 ss.; 264 ss. Vedi Havelock, op. cit., pp. 30 ss., per le critiche mosse a Diringer.103 Secondo Garbini, Gli alfabeti semitici settentrionali, La Parola del Passato, 166, Dal sillabario minoico all'alfabeto greco, 1976, pp. 69 e s., l’ “alfabeto” fenicio potrebbe essere stato impiegato intorno al XII sec. a. C. in una città fenicia, forse Biblo, nella quale il principio consonantico della scrittura, scoperto alcuni secoli prima, veniva applicato ad una serie di nuovi segni, utilizzati probabilmente già pochi anni prima in una diversa città fenicia, forse Sidone, ma adesso contraddistinti dal prestigio culturale ed economico di questo grande centro commerciale. Il medesimo A. in: La questione dell'alfabeto, I Fenici, Milano, 1988, p. 89 sottolinea la derivazione egiziana dei segni monoconsonantici, evidenziando la portata rivoluzionaria dell’uso di essi da parte dei Siri di Palestina.104 Garbini, La questione dell'alfabeto, cit., p. 102: “Quando nell’Apocalisse Dio si presenta dicendo "Io sono l’Alfa e l’Omega", e usa la prima e l'ultima lettera dell'alfabeto greco per indicare la sua eternità, ritroviamo ancora l’antica concezione fenicia dell’alfabeto come simbolo del tempo ciclico; e forse comprendiamo perchè l’inventore dell'alfabeto volle conservare quel rapporto tra suono e segno grafico che a noi sembra superfluo”.105 Burzachechi, L'adozione dell'alfabeto nel mondo greco, La parola del Passato, 166, cit., pp. 82 ss. Secondo un noto passo di Erodoto V, 58 - 61 i Greci appresero le lettere (ta grámmata) dai Fenici al seguito di Cadmo, giunto in Occidente alla ricerca della sorella Europa, nel corso della permanenza in Beozia. Diodoro, Bibl. V, 74,1 precisa che secondo i Cretesi “contro coloro che affermano che i Siri sono gli inventori delle lettere dell’alfabeto e che i Fenici, appresele da costoro, le trasmisero ai Greci (questi Fenici sono quelli che navigarono verso l’Europa con Cadmo e per questo i Greci chiamano le lettere ‘fenicie’) essi [cioè i Cretesi] dicono che i Fenici non le inventarono dall’inizio, ma soltanto cambiarono la forma dei segni”. Garbini, La questione dell’alfabeto, p. 86.

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scrittura...ai Latini: per cui, con la mediazione di Roma, molti popoli moderni ancora oggi usano, con lievi varianti, quell’alfabeto greco di tipo euboico che adoperavano i coloni di Cuma”106.

Nel periodo di tempo intercorso tra la fine dell’uso della scrittura sillabica lineare B, intorno al XII sec. a. C., e l’adozione di quella alfabetica, forse intorno alla prima metà del IX, se non addirittura alla fine del X sec. a. C. 107, sembra che la Grecia sia quasi ovunque sprofondata nell’analfabetismo. Si era forse perduto persino il ricordo della scrittura usata nell’epoca micenea, visto che la stessa tradizione indicava l’alfabeto come prima forma di scrittura. Nelle più antiche iscrizioni greche la direzione della scrittura generalmente si orientava, come in quelle semite, da destra verso sinistra, se non seguiva percorsi sinuosi, talvolta circolari. La circostanza che cinque segni fenici furono impiegati come vocali in tutti gli alfabeti greci arcaici con il medesimo valore pare che indichi che tale modifica possa essere ascritta all’iniziativa di un solo uomo e sia stata effettuata in un unico luogo, che avrebbe potuto essere un sito ricco di fermenti e di cultura, come la Ionia asiatica 108. In considerazione del fatto che in Grecia la prima scrittura alfabetica fu utilizzata per dediche ed iscrizioni funerarie, è stata proposta la suggestiva ipotesi di un impiego dei segni alfabetici soprattutto per la perpetuazione del kléos, la rinomanza del gruppo familiare. La prassi dell’onomatotesi, in base alla quale il nome imposto al figlio costituiva uno mnéma idoneo a ricordare la vita e le opere del padre, fu ben presto affiancata dal séma iscritto, che impiegava la voce del lettore per ridare vita alle lettere alfabetiche senz’anima e rievocare la fama del defunto109. Il fenomeno degli “oggetti parlanti”, piuttosto che trovare una spiegazione animista o “vitalista”, attribuendo loro un’anima e la parola (la statua, ad esempio, verso la metà del VI sec. a. C., perdendo il suo antico alone di magia, avrebbe finito con l’essere razionalizzata) 110, può essere spiegato tenendo conto del fatto che “i Greci non credevano, se non metaforicamente, a una scrittura parlante, coscienti del fatto che è il lettore a prestare la sua voce alla stele muta” e dunque solo la lettura ad alta voce di un testo, redatto in scriptio continua, cioè senza intervalli tra le parole, poteva animare i grámmata ápsycha delle steli funebri, idonee a costituire veri e propri paradéigmata per i giovani. Poichè la trascrizione non era di per sé idonea a rendere il componimento durevole o celebre, in quanto la tradizione orale era già in grado di assolvere a questo compito, è possibile che la scrittura sia stata inizialmente utilizzata per realizzare un ágalma, che poneva stabilmente il messaggio scritto davanti agli occhi della divinità111, o per costituire un promemoria all’interno di un gruppo o per fissare opere, dottrine o prescrizioni che adesso non si volevano far più dipendere dalle variazioni della tradizione orale112.

Nel VI sec. già la parola scritta era ampiamente utilizzata nella vita pubblica e privata, anche se le sue funzioni, in un mondo profondamente impregnato di oralità come quello arcaico greco o romano, devono essere valutate in un’ottica ben diversa 106 Burzachechi, op. cit., pp. 82 ss.; Cardona, St. univ. della scrittura, cit., pp. 186 ss.107 Burzachechi, op. cit., p. 91; Cardona, op. cit., p. 187. Aderisce invece ad una tesi fortemente ribassista Harris, Lettura ed istruzione, pp. XIII e 53, quando afferma che “la scrittura fece ritorno in Grecia non molto prima del 750 a. C.”.108 Burzachechi, op. cit., pp. 92 ss.109 Svenbro, Storia della lettura nella Grecia antica, Bari, 1991, pp. 9 ss. 110 Burzachechi, Oggetti parlanti nelle epigrafi greche, Epigraphica, 24, 1962, pp. 3 - 54; Agostiniani, Le "iscrizioni parlanti” dell’Italia antica, Lingue e iscrizioni dell’Italia antica, 3, Firenze, 1982; Colonna, Identità come appartenenza nelle iscrizioni di possesso dell'Italia preromana, Epigraphica, 45, 1983, pp. 49 - 64.111 Robb, Le origini poetiche dell'alfabeto greco: ritmo e abecedario dalla Fenicia alla Grecia , Arte e comunicazione nel mondo antico. Guida storica e critica, a cura di Havelock e Hershbell, Roma - Bari, 1992, p. 41.112 Svenbro, op. cit., p. 148.

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dall’attuale, che tende a far coincidere istruzione con capacità di lettura o di scrittura113. Quando la monarchia in Grecia venne definitivamente rovesciata, un nómos [= lex (formula scandita ad alta voce in un rito), da némein, leggere], inizialmente vocale e successivamente scritto, prese il posto vuoto lasciato dal re detronizzato. Trovava nei magistrati, “servi” dei cittadini, coloro che incarnavano ed animavano in un primo tempo le formule esatte depositate nella loro memoria di “esegeti” e che successivamente vocalizzavano le lettere inanimate di una Legge adesso scritta. Così facendo si ponevano al di sopra della lettera morta del nómos scritto114.

Nel passaggio dall’alfabetismo degli scribi a quello degli artigiani grande importanza dovette assumere il ruolo dei documenti amministrativi e d’affari, giuridici in genere, e forte fu il desiderio di farvi ricorso115, non tanto per la possibilità di trasmettere un’informazione nel tempo o addirittura nello spazio, quanto per l’autorità ed il prestigio quasi magico che finivano per assumere i segni agli occhi di una popolazione di analfabeti. Per un verso incutevano timore e diffidenza, per un altro rappresentavano un simbolo del potere e dell’autorità116. Ciò giustifica l’ubicazione di tali scritture in spazi particolari - come recinti sacri - e la peculiarità della lettura riservata all’opera di sacerdoti esegeti, un tempo cantori di un nómos sonoro117.Sembra che diversi Stati greci, oltre ad utilizzare la scrittura per funzioni di diplomazia e di commercio a lunga distanza, abbiano nel VII sec a. C. cominciato ad inscrivere direttamente sulla pietra alcune leggi, sebbene la percentuale di coloro in grado di leggere e scrivere fosse sicuramente assai esigua. Lo scopo non era ovviamente quello della divulgazione dei testi, nè‚ tanto meno della diffusione della democrazia o di una partecipazione popolare, quanto quello dell’autorevolezza di una regolamentazione per la prima volta fissa, immutabile e chiara 118, sovente sacra, depositata in un luogo di particolare rilievo per la comunità, ma proprio per questo talvolta inaccessibile. L’uso della scrittura consentiva che le fluttuazioni della memoria, le oscillazioni dei ricordi trovassero una forma di riferimento costante alla quale si accompagnava il rispetto del testo scritto 119.

Se epistole, anche commerciali, furono utilizzate precocemente, non sembra che le procedure di diritto privato comportassero ancora nel V sec. per i Greci un significativo impiego di scritti. La situazione era destinata a mutare, anche se la logica fondamentale rimaneva sempre quella dell’oralità.

113 Havelock, op. cit., pp. 10 ss.; Harris, Lettura e istruzione, cit., pp. 76 ss.; Cavallo, Gli usi della cultura scritta nel mondo romano, Princeps urbium. Cultura e vita sociale dell’Italia romana, Milano, 1991, pp. 169 - 251. 114 Svenbro, op. cit., pp. 123 ss. 115 Harris, op. cit., p. 70; Cardona, op. cit., p. 22: “Non più limitati al qui e adesso, e alla caducità della parola che si spegne appena pronunciata, gli uomini hanno dilatato lo spazio concesso alla nostra espressione, hanno chiamato a testimoni gli dei e i secoli; e quando leggiamo oggi dichiarazioni o giuramenti o sanzioni iscritte a molti millenni di distanza da noi, stiamo appunto rispettando e inverando il senso di quella formulazione”. 116 Ben noti sono l’aspetto malefico e la diffidenza nei confronti della scrittura nel mondo arcaico o l'uso come strumento di controllo ed egemonia sociale e culturale, testimoniato persino dal fenomeno delle pseudo-scritture o delle scritture nonsense, prive cioè di alcun senso.117 Susini, Le scritture esposte, Lo spazio letterario in Roma antica, II, La circolazione del testo, Roma,1992, p. 287: “L’impiego della scrittura in simili condizioni non poteva non rivestire carattere magico: come se certi ‘segni’ o grafi fossero stati afferrati dal cielo cangiante e trasferiti sulla terra, quasi ad obbligare - una coercitio deorum - la divinità ad ascoltare la preghiera o il voto degli uomini che il bronzo o la pietra avevano reso perenni, immutabili ed inamovibili. Quasi una sfida all’eterno”. 118 La polemica sulla fissità e chiarezza della scrittura in un mondo ancora profondamente impregnato di oralità si collegava giusto a due delle virtù comunemente ritenute inerenti ai testi scritti. Harris, Lettura, cit., pp.104 e s. 119 Cardona, op. cit., pp. 23 ss.

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Sembra, ad esempio, che il latore nella consegna di una lettera, nonostante lo scritto, fosse in ogni caso solito riassumerne oralmente il contenuto. Commercio, amministrazione ed attività produttive, alla fine del V ed inizi del IV sec. a.C., presupponevano liste scritte, inventari e conti e dunque a questa età risalgono testimonianze di contratti redatti per iscritto, inizialmente per i casi più importanti e per i quali poteva apparire utile integrare in tal modo la memoria.

Prestiti marittimi, contratti d’affitto, d’apprendistato, iscrizioni ipotecarie, adozioni testamentarie ed atti di manomissione per il solo fatto di essere redatti per iscritto e quindi non modificabili, offrivano il vantaggio di divenire fissi ed immutabili, anche se la procedura giuridica restava in misura notevole orale e non dipendente da documenti120. Significativa è l’obiezione, tipica di una mentalità orale, che i testi scritti, al pari dei dipinti, non possono rispondere alle domande. Secondo Aristotele una città non avrebbe dovuto superare una determinata dimensione per il fatto che nessun araldo avrebbe potuto trasmettere al di là di un certo limite i propri messaggi 121. Se al tempo di Senofonte (c.a 430 - 355 a.C.) tra le professioni che richiedevano l’uso di scritti di carattere tecnico non veniva espressamente annoverata alcuna attività avente a che fare col diritto, pure a quell’epoca risale già la divulgazione di informazioni scritte sui sacrifici richiesti, l’affissione dei primi calendari religiosi sistematici, la scrittura di commemorazioni funerarie, modello di condotta per i posteri; tutte attività connesse al concetto arcaico di diritto più strettamente di quanto non si sia finora ritenuto.

Malgrado la persistente ambiguità della sua reputazione, la scrittura venne pian piano associata ai diritti del cittadino: in Grecia l’ostracismo, il diritto di conoscere le leggi e le relative proposte, di ricorrere nei tribunali, sia come parti in causa, che come giurati, la chiamata alle armi, la contabilità pubblica e l’archiviazione di documenti ufficiali presupposero la diffusione di scritti, anche se forse solo gli abitanti dei grandi centri urbani erano in grado di leggere e di scrivere correntemente122.

Nelle grandi monarchie ellenistiche, l’impiego della scrittura - nonostante l’esercizio di un potere assoluto e personale che avrebbe dovuto frenarne la diffusione - raggiunse tra il III ed il II sec a. C. l’apice nel mondo greco ed un’articolata burocrazia si spinse ad imporre l’uso di documenti anche a coloro che non erano in grado di comprenderli da soli e che dunque erano costretti ad avvalersi di intermediari.

Nel mondo italico sembra che gli abitanti di Roma e di altre località del Lazio possedessero “un saldo alfabetismo indigeno già verso la fine del VII sec. a.C. e forse prima: non avrebbero altrimenti potuto sviluppare la loro particolare variante locale dell’alfabeto etrusco”123, ma l’atto del riconoscimento della scrittura era indubbiamente condiviso da un numero ristretto di persone. Esperti o circoli riservati dediti alla lettura con la funzione di promemoria, che utilizzavano la scrittura come dispositivo mnemonico per riassumere una grande quantità di informazioni o dottrine che si desiderava preservare in questa forma124 , sembrano essere caratteristici di una cultura simposiaca diffusa nel mondo greco ed etrusco, assorbita forse anche nel mondo arcaico romano125. Il tracciare un segno per ricordare poteva innanzitutto essere

120 Pasquali, Commercianti ateniesi analfabeti, SIFC, VII, 1929, pp. 243 - 249.121 Aristotele, Andoc. I, 40; Harris, Lettura e istruzione, cit., p. 90.122 Harris, Lettura, p. 131.123 Harris, Lettura, p. 171.124 Havelock, Dalla A alla Z., cit., p. 23.125 Cristofani, Un mercante greco - orientale nel Tirreno: analisi del relitto del Giglio, VIII Rassegna di Arch. sub., Giardini Naxos, 1993 (in corso di stampa); cfr. anche Id, Rapporto sulla diffusione della scrittura nell’Italia antica, Scrittura e civiltà, 2, 1978, pp. 5 - 33.

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effettuato per se stessi, poi per gruppi esclusivi di adulti ed amici resi partecipi dell’invenzione, e solo in seguito esteso a classi più giovani e via via più ampie126.

La notizia di una scoperta insolita avvenuta nel 181 a.C. è tramandata da più fonti127, che possono tra di loro essere conciliate128: il rinvenimento della tomba e dei libri del re Numa Pompilio (714/3 – 671/0, secondo la cronologia plutarchea), fondatore delle più importanti pratiche religiose e giuridiche di Roma129. Sembra che in seguito a piogge torrenziali e ad uno smottamento del terreno alle pendici del Gianicolo nei pressi dell’attuale Ministero della Pubblica Istruzione, siano apparse due arche, che in occasione di successivi lavori agricoli, abbiano rivelato, sui coperchi, delle iscrizioni arcaiche relative al contenuto: nella prima - riscontrata però vuota all’apertura e forse già alterata dallo smottamento – il corpo di Numa, nella seconda due fasci di sette libri ciascuno, di cui uno in latino de iure pontificum, l’altro in greco de disciplina sapientiae 130. Un accorgimento li aveva protetti: essi erano stati posti su di un cubo di pietra fasciato da ogni lato con corde rivestite di cera e trattati in modo tale da essere difesi dai tarli. Letti dal pretore urbano Q. Petillius,131 erano stati ritenuti tanto pericolosi per i riti, rivelandosi le ragioni segrete per cui era stata istituita ogni cerimonia (causae – aitíai), da indurre il senato ad emanare un consulto - il cui testo veniva riferito da Valerio Anziate e letto da Plinio il vecchio due secoli e mezzo dopo - nel quale si suggeriva un provvedimento radicale: la combustione dei libri, almeno di una parte132; distruzione successivamente eseguita dal pretore al cospetto del popolo.

Alcuni tra i moderni interpreti hanno negato ogni attendibilità al racconto, altri hanno sottolineato le difficoltà di conciliazione delle diverse versioni133, ma a prescindere dalla questione dell’autenticità del ritrovamento dei libri del re Numa, risulta difficile ritenere che in quel momento - di poco successivo al SC de Bacchanalibus (186 a.C.), alla reazione catoniana agli Scipioni ed agli influssi culturali ellenistici - non sia stato realmente effettuato un rinvenimento arcaico, provocando la pluralità di narrazioni e la reazione sopra descritta.

Nonostante il mondo romano abbia in genere conosciuto il papiro nel IV sec. a.C., l’uso straordinario in età regia di rotoli papiracei (charta)134 per documenti di eccezionale importanza non può essere radicalmente escluso. In un sistema poi che si avvaleva del diritto come di uno strumento (“concezione strumentale del diritto”)135 e considerava ancora il ius come rito, l’ostilità verso la rivoluzionaria rivelazione delle cause segrete delle cerimonie appare pienamente credibile. Indipendentemente dalla plausibilità della

126 Sulle tecniche per l’apprendimento delle lettere Harvey, I greci e i romani imparano a scrivere, Arte e comunicazione, cit., pp. 89 - 111. 127 Plutarco, Numa 22, 2-5; Livio 40, 29, 3-14; Plinio, Nat. Hist. 13, 27, 84-87; Val. Max. 1, 1, 12; Nepotian. Epit. 1, 14; Fest. p. 178, 19-22; p. 179, 10; Inc. Auct., De vir. ill. 3, 2; Lattanzio, Diu. Inst. , 1, 22, 5; Agostino, De civitate Dei 7, 34-35, richiamando i più antichi annalisti L. Cassio Emina, L. Calpurnio Pisone, C. Sempronio Tuditano e i successivi Valerio Anziate e Varrone.128 Peruzzi, Origini di Roma, II, Le Lettere, cit., pp. 113 ss. 129 Peruzzi, op. cit., pp. 107 – 143. 130 Di carattere pitagorico secondo Calpurnio Pisone e Valerio Anziate. Sugl’impossibili rapporti cronologici diretti tra Numa e Pitagora per il divario di almeno cinque generazioni, notati già dagli antichi, ed i tentativi di conciliazione cfr. Manfredini, Piccirilli, in Plutarco, Le vite di Licurgo e Numa, Introduzione, Milano, 1990, pp. XXX ss. C. Sempronio Tuditano parla genericamente di decreti di Numa. Per Valerio Anziate i libri erano dodici per ciascun gruppo. Peruzzi, op. cit., p. 121 osserva che “la correzione in VII…del numero XII…è paleograficamente ovvia”. 131 Secondo Peruzzi, op. cit., p. 108: Q. Petillius C. f. Q. n. Spurinus (Fasti cos. Capit. a. 578). 132 Per alcuni i libri latini furono affidati magna diligentia ai pontefici, ma forse solo quelli de ritu sacrorum e non quelli più pericolosi sulle ragioni segrete delle cerimonie.133 Manfredini, Piccirilli, in Plutarco, Le vite di Licurgo e Numa, Introduzione, cit., pp. XXX ss.; 327 ss.; 349 riesamina la vicenda e indica la lett. più recente. 134 Plinio, Nat. Hist. 13, 27, 85-86, che cita Cassio Emina, colpito dall’eccellente stato di conservazione. 135 Santoro, Sul Ius Papirianum, Mél. Magdelain, 1998, p. 399 e 415.

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notizia riferita da Plutarco (I-II sec. d.C.), che il sovrano avesse fatto seppellire quei testi per non inaridire il proprio insegnamento “in lettere inanimate”, la vicenda, conclusasi con la distruzione di libri che invece sarebbe stato facile rendere inoffensivi semplicemente contestandone l’indiscussa autenticità, concorre almeno ad indicare che in età regia e repubblicana fu effettuato un uso riservato della scrittura come strumento di potere ad opera del re e dei collegi sacerdotali.

In coincidenza con il declino dell’influenza etrusca intorno al 500 a.C. e con l’avvento della Repubblica e le successive lotte per la “codificazione”, per la pubblicazione del calendario e per la divulgazione del ius, si assiste ad una diminuzione nella pratica dell’uso della scrittura e, nello stesso tempo, alla diffusione dell’analfabetismo popolare ed alla tenace persistenza di pratiche orali. Di canti in lode di antenati eseguiti in occasione di banchetti nella Roma arcaica resta soltanto un ricordo, che può essere collegato alla pratica dell’exemplum ed al rispetto dei mores 136. Ma tra il IV e il III sec. a. C. pare che le funzioni della scrittura si siano gradualmente estese137, al punto che nessun senatore avrebbe in alcun modo potuto insistere nel restare analfabeta138. Alla metà del III sec. si riferiscono non solo le indicazioni relative all’inizio dell’insegnamento pubblico del diritto da parte del primo pontefice plebeo Tiberio Coruncanio, ma anche le notizie ascrivibili alla diffusione limitata di un’istruzione organizzata volta all’apprendimento delle lettere, tramite la scuola di Spurio Carvilio, liberto del console del 234 a.C.: le due attività sono adesso in evidente connessione139. Con l’influenza della cultura greca nel periodo tardo repubblicano e con il progressivo abbandono dell’oralità si assisterà alla genesi di nuove categorie di pensiero e di una letteratura giuridica originale140.

Alla fine della Repubblica, pur persistendo una componente orale assai forte, indubbiamente si faceva ormai un uso intenso di documenti scritti141. Alla seconda metà del II sec. a. C. risale non solo l’indicazione di votazioni per iscritto, ancora riservate ad una minoranza prospera ed alfabeta, ma anche la stesura dei primi testi legislativi che ci sono pervenuti.

Essi, incisi sul bronzo, soprattutto per lo spiccato valore simbolico di questo metallo, non sembrano destinati ad una corrente fruizione pubblica142. Ciò non esclude ovviamente che leggi arcaiche romane potessero essere state sporadicamente tracciate su pietra, come nel mondo greco ove direttamente si utilizzavano i muri dei templi o a Roma stessa, l’esempio del lapis niger, iscrizione arcaica del Foro143. Foedera e leges sacratae, almeno dal V sec. a.C., furono tracciate su tavole bronzee poste a brillare nel Foro e sul Campidoglio, omphalós della città, non per divulgarne 136 Cic., Brut. 19, 75; Id., De Or. 3, 51, 197; Cic., Tusc. 4, 2, 3; 1, 2, 1; Val. Max. 2, 1, 10; Peruzzi, La poesia conviviale di Roma arcaica, PP, 272, 1993, pp. 332 - 373; Harris, Lettura, p. 178.137 Romano, Il collegium scribarum. Aspetti sociali e giuridici della produzione letteraria tra III e II sec. a.C., Napoli, 1990. 138 Harris, Lettura, cit., p. 178.139 Sul passaggio tra oralità e scrittura nelle pratiche della giurisprudenza repubblicana v. Schiavone, Publio Mucio e la nascita della letteratura giuridica romana, Atti Copanello, 28 - 31 maggio 1986, Napoli, 1989, pp. 142 ss. 140 Schiavone, Publio Mucio, cit., pp. 142 ss. 141 Nicolet, A la recherche des archives oubliées, cit., pp. V – XVII.142 Williamson, Monuments of bronze: roman legal documents on bronze tablets, Class. Antiquity, VI, 1987, p. 173; Harris, Lettura, p. 187 e s. La ricostruzione nel 69 d.C. da parte di Vespasiano (Svetonio, Vesp. 8) di tremila antiche iscrizioni danneggiate da un incendio in Campidoglio, indica la collocazione nel centro simbolico della citta di antiche disposizioni non al fine della conservazione, ma a causa del senso di sicurezza che derivava “dal monimentum e dalla sua scrittura, proprio perchè concettualmente imperituri”. Susini, op. cit., p. 285.143 Corbier, L’écriture dans l'espace public romain, Urbs. Espace urbain et histoire. I siécle avant J.C. - III siécle aprés J.C., Coll. de l'Ecole francaise de Rome, 98, Roma, 1992, p. 41; Santoro, Il tempo ed il luogo dell'actio prima della sua riduzione a strumento processuale, AUPA, XLI, 1991, pp. 281 ss.

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il contenuto o perpetuarne il ricordo, essendo sovente affisse a notevole altezza in caratteri minuti o essendo dense di sigle ed abbreviazioni di non facile soluzione, ma allo scopo di consacrare un testo tra i monumenta - monimenta imperituri della città, in prossimità del luogo e dell’autorità medesima che lo aveva prodotto144.

Quando dunque alla fine del VI sec. a.C. fu inciso menzionando il rex ed il suo calator (banditore)145, nel sito dove si riunivano i comitia curiata, il lapis niger, “unica vera fonte di cognizione in senso tecnico del diritto quiritario”146, pochi forse erano in grado di leggere l’epigrafe, ma tutti ne intendevano certamente il senso. Il suo scopo non era quello di divulgare un testo, ma di fissare una prescrizione sacrale dinanzi ad un’ara sacrificale collegata all’attività del comizio. Secondo una recente ipotesi, l’iscrizione avrebbe marcato il luogo in cui al tempo del re Servio Tullio, in seguito ad un sacrificio ed all’apertura del periodo favorevole al compimento dell’attività giuridica, si sarebbe svolta l’originaria attività dell’agere, riferibile addirittura ad una età nella quale attività negoziale, elettorale, legislativa e giudiziaria non erano ancora distinte, ma si risolvevano tutte in pronunzie solenni (leges) effettuate, in seguito ad un rito, dal re e dagli altri appartenenti alla comunità arcaica147.

Solo lentamente le successive leggi repubblicane persero le caratteristiche originarie ed affisse all’inizio in spazi pubblici per finalità diverse dalla divulgazione finirono pian piano per essere saltuariamente archiviate e in qualche caso per giungere sino a noi, sia sotto l’aspetto di leggi rogatae, che datae. Era infatti la proclamazione che continuava a dar forza alla legge e la registrazione ed il deposito nell’erario erano previsti solo a fini di conservazione.

Secondo la tradizione, una legge del console Valerio Poplicola alle origini della Repubblica avrebbe previsto la creazione dell’aerarium Saturni, come luogo di deposito del tesoro del popolo romano e dei documenti pubblici, affidato ai questori. Ivi, almeno a partire dal 187 a.C.148, il magistrato richiedente un consulto avrebbe potuto liberamente 144 Susini, op. cit., p. 298: “Si crea quindi nel pubblico...una sorta di ‘saputo’ commemorativo, che conferisce sicurezza, apporta il senso della conservazione, della perennità e della pace: tale è l'effetto della scrittura esposta, che esorcizza per se stessa la caducità, rimpiazza, con il fatto di esistere e di venire letta, il rito periodico commemorativo”. Sull’importanza degli oggetti d'arte ed i valori etici trasmessi soprattutto dalle statue v. Mitchell Havelock, L'arte come sistema di comunicazione nella Grecia antica, Arte e comunicazione, cit., pp. 135 - 166; Belloni, L'origine delle statue onorarie a Roma (Plinio, Nat. Hist. XXXIV, 16), L’immagine dell’uomo politico: vita pubblica e morale nell’antichità, Contributi dell’Istituto di Storia antica dell'Univ. Cattolica, XVII, Milano 1991, pp. 141 - 150. Su dipinti e raffigurazioni in genere utilizzati quale sussidio visivo per introdurre orazioni o racconti v. Keuls, La retorica e i sussidi visivi in Grecia e a Roma, Arte e comunicazione, cit., pp. 169 - 184.145 CIL I, 1: quoi hon[…/…] sakros es/ed sord[…/…]a ias/ recei io[…/…]evam / quos re[…/…]m kalato/rem hab[…/…]tod iouxmen/ta kapia do tau[…]/m i ter pe[…/…]m quoi ha/ velod neq(.)u[…/…]iod iovestod loivquiod qo[…]. Nonostante le difficoltà di lettura e di un latino tanto arcaico da indurre Dionigi di Alicarnasso (1, 87, 2; 3, 1, 2; 2, 54, 2) a parlare forse per questa stele di caratteri greci, il significato di alcuni termini è intellegibile (recei = regi; kalatorem = calatorem; quoi = qui; sakros esed = sacer esset; iouxmenta = iumenta; iovestod = iusto) ed il senso generale dell’epigrafe intuibile (minaccia della sanzione di sacertà per il violatore del cippo o del luogo e forse di una sanzione diversa per chi lo insozzi). Seguono disposizioni relative alle modalità di un sacrificio, che hanno forse per destinatario il re, “del quale si dice che deve avere un calator, che avrà proceduto alla convocazione dell’assemblea in vista dell’esecuzione del sacrificio. Riguardo a questo sono indicati gli animali da sacrificare (una coppia aggiogata di tori: iouxmenta duo taura e forse un giovane agnello). Tutto questo in vista del risultato dell’atto compiuto ritualmente, che è un comitiare, ossia un riunire i quirites mediante un’assemblea (licio), che è qualificata giusta (iusto) proprio per il compimento delle formalità rituali”. Santoro, Il tempo ed il luogo dell’actio, cit., pp. 25 e s. (estratto). 146 Guarino, Storia del diritto romano, Napoli, 1990, p. 591.147 Santoro, Il tempo ed il luogo dell’actio, cit., pp. 300 ss.148 Livio 39, 4, 8 menziona per quell’anno la deposizione da parte di un console di un senatoconsulto nell’erario e sembra che ciò avvenga per la prima volta (Coudry, Sénatus-consultes et acta senatus: rédaction, conservation et archivage des documents émanant du sénat, de l’époche de César à celle des Sévères, La mémoire perdue, cit., p. 72 nt.21).

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depositare il testo senza obbligo di rispettare alcun termine, ma in ogni caso prima dell’uscita di carica149. Come per le leggi, anche per i pareri del senato, non sembra che il deposito abbia avuto la capacità di incidere - se non di fatto - sulla loro validità.

Per influenza probabilmente della moderna concezione autoritaria del diritto si è creduto di poter sostenere invece che già in età repubblicana la registrazione ed il deposito di un senatoconsulto costituissero requisito di validità, che fossero, cioè, indispensabili per assicurare ad esso forza esecutiva, nonostante si sia correttamente osservato che la prassi della registrazione non appare enunciata in alcun testo antico, che il deposito non avveniva in maniera automatica ed era frequentemente pretesa la prova testimoniale per dimostrare l’esistenza e la validità di un senatoconsulto150. Ciò che nell’ottica antica infatti contava era l’effettività della pronuncia dei senatori che con la loro autorevolezza avevano partecipato alla realizzazione, più che i successivi, eventuali adempimenti. Riflette ancora tale concretezza collegata all’attività umana, più che a principî o regole astratte, sia il fatto che nella praescriptio dei senatoconsulti venissero ancora singolarmente ricordati coloro che qui scribundo adfuerunt 151, sia che pareri del senato rimasti inefficaci per un qualsiasi inconveniente - ad esempio per intercessio tribunizia – non solo fossero redatti e conservati, ma che pervenissero fino a noi (auctoritates senatus) 152.

Se soltanto tra la fine dell’età repubblicana e l’inizio dell’età imperiale153, con il radicarsi dell’efficacia normativa dei senatusconsulta si cominciano a porre astratte regole formali per la loro realizzazione e validità, la prassi del deposito del testo scritto del senatoconsulto a fini di conservazione sembra invece essere molto più antica: la tradizione ricorda infatti che i tribuni della plebe con l’aiuto degli edili avevano il compito di conservare nel tempio di Cerere il testo dei plebisciti, delle leggi e dei senatoconsulti154. E’ evidente che tale archiviazione non era disposta per la validità della delibera o la sua efficacia, ma come nel concomitante deposito ad opera dei questori nell’aerarium Saturni per conservarne un’ulteriore testimonianza plebea scritta. Alla fine 149 Il SC de Iudaeis votato il 9 febbraio del 44 a.C. non era stato ancora depositato il 14 marzo, alla data della morte di Cesare e si è giustificato con la necessità di assicurare la sua validità il successivo consultum dell’11 aprile, riferito da Flavio Giuseppe (XIV, 219) con l’invito ai consoli “di trascriverlo sulle loro tavolette e di sorvegliare che i questori urbani le ricopino sulle doppie tavole”. Bats, Les débuts de l’information politique officielle a Rome au premier siècle avant J.C., La mémoire perdue, cit., p. 27 nt.38; Coudry, op. cit., pp. 67 ss. Ma piuttosto che volto a sanare un atto invalido, il successivo consulto avente per oggetto esclusivamente la formalità della trascrizione appare invece mirante a garantire la conservazione di un testo ritenuto già perfettamente valido, come dimostra la mancata ripetizione della deliberazione.150 Coudry, op. cit., pp. 66 e ss. ritiene che alcuni aneddoti dimostrino l’esistenza di questa disposizione: Svetonio (Aug. 94, 3) ad esempio ricorda che un senatoconsulto dell’anno di nascita di Augusto, il 63 a.C., aveva proposto di non far allevare nessuno dei bimbi nati in quell’anno in cui un prodigio aveva avvertito che la natura stava per generare un re per il popolo romano. “Però coloro che avevano la moglie incinta, sperando che quella profezia li concernesse, fecero in modo che il senatoconsulto non venisse depositato nell’erario”. Desumere da ciò l’invalidità di una delibera presa, appare certamente eccessivo, in quanto è possibile che si mirasse semplicemente a limitarne il ricordo nel tempo. Nulla prova la registrazione di falsi senatoconsulti da parte di Antonio (Cic., Phil. 5, 12) circa l’efficacia di quelli approvati. Occorre poi ricordare che la stessa legge comiziale, piuttosto che dotata di una forza normativa assoluta protratta, mantenne nel corso dell’età repubblicana efficacia limitata. Catone pretese per registrare un senatoconsulto il giuramento dei consoli (Plutarco, Cat. min. 17,4) e Cicerone (Leg. Agr. 2,37) deplora nel caso di antichi senatoconsulti che non si possa più far ricorso alla garanzia offerta dai consoli ormai defunti. La stessa Coudry finisce per ammettere che “la registrazione dei senatoconsulti sulle tabulae publicae dei questori, b e n c h è n e c e s s a r i a p e r c o n f e r i r e l o r o v a l i d i t à , non riceveva, tanto sul piano pratico, che su quello della rappresentazione una grande attenzione. La rarità delle testimonianze su questo punto è d’altra parte eloquente”.151 Coudry, op. cit., p. 72.152 FIRA I, 37.153 Crifò, L’attività normativa del senato in età repubblicana, BIDR, LXXI, 1968, pp. 31-120. 154 Livio III, 55, 13; Zon. 7, 15; Coudry, l.c.

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dell’età repubblicana sembra che non solo venisse effettuata una doppia archiviazione dei senatoconsulti155, ma che anteriormente alla deposizione nell’erario il testo venisse copiato una prima volta sui registri dei consoli e poi su quello dei questori, come dimostra un senatoconsulto di Afrodisia del 39 a.C.156 La copia consolare veniva conservata tra gli atti del magistrato e custodita negli archivi personali (commentaria) anche dopo l’uscita di carica157, la copia dei questori era deposta nell’erario e, dal tempo di Tiberio, ciò avveniva con regolarità entro dieci giorni dalla votazione158. In virtù della potestas inspiciendi describendique dello scriba questorio che comandava le tre decurie di scrivani dell’erario potevano essere realizzate copie conformi (descripta et recognita) su tavolette cerate degli atti depositati su tavole nell’archivio, con l’indicazione dei nomi dei questori, dei consoli, la data e la posizione esatta. Sembra che l’impiego di un supporto scrittorio ligneo o papiraceo abbia finito per differenziare nella denominazione due categorie di apparitores, specializzati in compiti di scrittura: gli scribae e gli scribae librarii, o semplicemente librarii, che affiancati dai cerarii, apparivano subordinati ai primi ed addetti a compiti materiali di redazione di copie di documenti elaborati dagli scribae159.

Talvolta nel testo stesso del consulto avrebbe potuto essere consigliata l’affissione con l’espressione unde de plano recte legi possit (UDPRLP) o un’altra simile160.

Nel 29 a.C., nel quadro di un’attività di razionalizzazione dell’amministrazione svolta da Ottaviano, ai questori urbani venne affidata la cura esclusiva dei testi conservati nell’erario, sgravandoli dei compiti in precedenza espletati, che furono invece assegnati a praefecti aerarii 161. L’abolizione da parte di Augusto, nell’11 a.C., della prassi della concomitante archiviazione plebea finiva per rendere i questori unici custodi, i quali venivano così ad essere maggiormente responsabilizzati. Introducendo una continuità tra redazione e conservazione, i due questori urbani furono inseriti fra gli estensori del senatoconsulto già da prima del 19 d.C., come dimostra il senatoconsulto di Larino162. Nel 16 d.C., Tiberio era intervenuto sulla tenuta dell’erario, ormai divenuto un vero e proprio archivio. E’ stato osservato che il cap. 73 della lex Irnitana dimostra un’elevata attenzione per l’archiviazione dei documenti nell’età dei Flavî, che invece appare certamente inferiore nel cap. 81 della precedente lex di Urso163.

Indipendentemente dal deposito dei consulta nell’erario, pare che durante le sedute del senato venisse da tempo redatto un liber sententiarum in senatu dictarum, sorta di resoconto su rotolo papiraceo dei lavori d’assemblea164; vi erano dunque compresi gli

155 Sino all’abolizione da parte di Augusto dell’archiviazione plebea nell’11 a.C.. Dione Cassio 54, 36, 1. Coudry, op. cit., pp.67 e 74 e s. 156 Reynolds, Aphrodisias and Rome, Londra, 1982, pp. 54 – 91; Sherk, Roman documents from the Greek East, senatusconsulta and epistulae to the age of Augustus, Baltimora, 1969, nn. 28 b e 29.157 Così Coudry, op. cit., p. 69, diversamente da Reynolds, op. cit., pp. 54 ss.158 Tac., Ann. III, 51; Dione Cassio 57, 20, 4. Coudry (op. cit., pp. 67 e 69) osserva che il SC di Afrodisia fu estratto dal registro dei consoli, quello riferito da Flavio Giuseppe sui Giudei (cfr. supra) dal registro dei questori.159 Moreau, La mémoire fragile: falsification et destruction des documents publics au Ier S. av. J.-C., La mémoire perdue, cit., p. 131 e s. 160 Come nel caso del SC de Bacchanalibus del 186 a.C. (FIRA I, 30, l. 27).161 Coudry, op. cit., pp. 74 e s.162 Levick, The senatus consultum from Larinum, JRS, 73, 1983, pp. 97- 115. I questori appaiono tra i redattori nei successivi SCC de nundinis saltus Beguensis (a. 138 d.C.) e de postulatione Cyzicenorum (a. 138-160 d.C.). Cfr. FIRA I, 47 e 48; Coudry, op. cit., p. 76.163 La lex coloniae Genetivae Iuliae seu Ursonensis fu data alla colonia spagnola di Urso da Marco Antonio su ordine di Giulio Cesare nel 44 a.C. per l’amministrazione della colonia. L’osservazione del divario redazionale tra i due capitoli delle due leggi spagnole è di Coudry, op. cit., pp. 75 e s.164 La frequente corrispondenza liber/rotolo di papiro (Capasso, CARTHS/CHARTA, cit., p. 23) rende preferibile questa ipotesi, a quella che si possa esser trattato di un codice di tavolette cerate (Bats, op. cit., p.29 nt 50). Coudry, op. cit., pp. 70 ss. tende ad identificare tale liber, menzionato da Cicerone (Att. 13, 33,

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acta senatus, classificati per giornate e in stile diretto. Sembra che i cosiddetti senatoconsulti sulla diminuzione delle spese per i giochi gladiatorî (a. 176-8) e sui ludi secolari del 203 d.C. siano in realtà estratti dei senatoconsulti, e non copie 165, come anche il testo contenuto in un papiro della Biblioteca Bodleiana di Oxford relativo ad un verbale di una seduta del senato per la conclusione della pace con un’ambasceria della popolazione dei Buri intorno al 180 d.C.166

Anche se già nel 63 a.C. il console Cicerone aveva per cautela fatto stendere dei resoconti precisi di una seduta senatoria167, pare che solo dopo il 59 a.C. si sia provveduto alla confezione e pubblicazione di rendiconti giornalieri dell’attività del senato e del popolo romano. Inserendosi nella lunga storia per la divulgazione del diritto, un programma propagandistico di Cesare prevedeva infatti tale opera che soddisfaceva antiche rivendicazioni popolari d’informazione costante dei cittadini e della classe politica, sia a Roma, che ormai per tutto il vasto impero168. Al provvedimento si giungeva dopo l’ostruzionismo effettuato in senato da Catone per impedire la solutio legibus di Cesare e dunque con esso si mirava a sottoporre allo stringente controllo del pubblico l’attività dei senatori. Non sappiamo in effetti se si sia trattato di un’integrale pubblicazione degli atti o piuttosto, come appare preferibile anche in base all’espressione utilizzata da Svetonio169, di un sintetico resoconto giornaliero. Comunque tra il 29 ed il 9 a.C. Ottaviano ne fece cessare la pubblicazione170 e gli acta tornarono ad essere non facilmente accessibili al vasto pubblico. Redatti sistematicamente a partire da Tiberio da un funzionario di nomina imperiale (l’ab actis senatus), finirono per porre sotto il controllo costante dell’imperatore i lavori dell’assemblea171.

Per quanto riguarda le leggi comiziali, sembra che un’innovazione nella procedura di pubblicazione si sia verificata nel periodo graccano insieme ad una liberalizzazione che diede origine ad una serie di leggi elettorali. Pare inoltre che anche le riforme agrarie progettate dai Gracchi non potessero disgiungersi da un riordinamento degli

3:…ex eo libro in quo sunt senatusconsulta Cn. Cornelio L. [Mummio]) e nel SC de nundinis saltus Beguensis del 138 d.C. (descriptum et recognitum ex libro sententiarum in senatu dictarum K[ani] Iuni Nigri, C. Pomponi Camerini co(n)s(ulum), con gli atti conservati su tavole dai consoli e facenti parte dei loro commentarii, successivamente utilizzati dall’ab actis senatus per stendere i rendiconti da trasmettere all’imperatore, come dimostrerebbe il titolo di ab actis senatus co(n)s(ulum), che appare in un’iscrizione del II sec. d.C. (I.L.Afr. 297). Ma le registrazioni degli atti dei consoli su tavole lignee potrebbero essere state parziali, rispetto a resoconti integrali dei lavori dell’assemblea su rotolo, custoditi per anno negli stessi locali del senato. Se nel III sec. d.C. Ulpiano si poneva il quesito se fossero libri gli scritti redatti in forma di codice (D. 32, 52 pr.: Librorum appellatione continentur omnia volumina, sive in charta sive in membrana sint sive in quavis alia materia…quod si in codicibus sint membraneis vel chartaceis vel etiam eboreis vel alterius materiae vel in ceratis codicillis, an debeatur, videmus…), ancor più al tempo di Cicerone sarebbe stato insolito indicare così i codici lignei dei magistrati. In mancanza comunque di ulteriori dati offerti dalle fonti o di un riscontro di resoconti integrali dei lavori del senato su rotolo, la questione appare destinata a restare aperta.165 FIRA I, 49 e CIL VI, 32326 ll.25- 48. Coudry, op. cit., p. 80.166 ChLA IV, 268; Talbert, Commodus as diplomat in an extract from the acta senatus, ZPE, 71, 1988, pp. 137-147; Coudry, op. cit., pp. 80 e s. 167 Sembra che le sedute del senato non fossero segrete e che i cittadini avessero la possibilità di fatto di seguire il dibattito, anche se le porte della sala venivano chiuse durante la notte e la legislazione vietava la partecipazione popolare. In età imperiale i figli dei senatori ricevevano una autorizzazione ad assistere. Così in Valerio Massimo 2, 1, 9; Macrobio 1, 6, 19; Bats, Les débuts de l’information politique officielle a Rome au premier siècle avant J.C., La mémoire perdue, cit., p. 24 nt.18.168 Bats, Les débuts de l’information politique officielle, cit., p. 41.169 Svetonio, Iul. 20, 1: …initio honore primus omnium instituit ut tam senatus quam populi diurna acta confierent et publicarentur. Coudry, op. cit., p. 85, pur affermando che l’attività in questione si sarebbe risolta in una semplice copia degli acta, rileva che “il verbo conficere impiegato da Svetonio è sorprendente, in quanto sottintende un lavoro di redazione o almeno di raccolta dei documenti, che non era più necessario”. 170 Svetonio, Aug. 36,1. Coudry, op. cit., p. 86.171 Coudry, op. cit., p. 93.

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archivi relativi alle terre pubbliche e che la scoperta del ruolo degli archivi e della necessità della loro pubblicità si associasse all’idea che l’autenticità di un documento provenisse dalla notorietà e dal riconoscimento del popolo, in perfetta sintonia con il loro programma politico172. Se per un verso, non solo si limitava l’occupazione delle terre pubbliche amplificando gli effetti delle antiche leges de modo agrorum ed esigendo dichiarazioni (professiones) che miravano a mettere ordine negli archivi delle terre pubbliche173, per un altro si rendeva possibile una reale accessibilità fisica della legge scritta, che nel prosieguo del tempo poteva via via divenire sempre più agevole. Le leggi comiziali, infatti, in sintonia con il loro carattere orale originario, non erano fino ad allora regolarmente conservate in un archivio, né venivano inscritte in vista e ad uso del pubblico174. Solo in età assai avanzata furono sistematicamente pubblicate ed archiviate, in concomitanza con l’attribuzione delle caratteristiche della generalità e dell’astrattezza e con l’accentuazione della loro persistenza nel tempo. Così avvenne a partire dalla lex Licinia Iunia del 62 a.C. per le proposte di legge votate, le liste di votanti, le registrazioni di voto. Così furono conservati anche gli editti dei magistrati iscritti su tavole lignee (in albo) e le stesse costituzioni imperiali, che erano destinate ad acquistare progressivamente sempre maggiore validità ed importanza fino ad essere incise nel bronzo. Forse i libri destinati al trasferimento dei dati del censimento a Roma venivano sigillati per essere conservati, così come in età augustea avveniva per la trasmissione a Roma dei voti dei decurioni delle colonie per l’elezione dei magistrati urbani175.

Secondo una visione “primitivista” dell’amministrazione romana l’Impero sarebbe stato retto senza né mezzi, né personale, in virtù di un’antica saggezza patriarcale, facendo scarso uso di documenti. Tale punto di vista è adesso considerato, se non del tutto falso, almeno esagerato. Il ricorso alla scrittura ed all’uso sistematico dei documenti non poteva che accompagnarsi allo sviluppo dell’Impero ed essere più diffuso di quanto finora non si sia supposto176. Infatti liste del censimento, album del Senato, dell’ordine equestre e dei diversi ordini e privilegi, ‘registri’ delle tribù, delle centurie, dei creditori e debitori dell’erario, degli esentati, dei beneficiari delle vendite del grano pubblico a buon mercato, dei lotti coloniari, dei concessionari sul dominio pubblico, di erogazioni idriche e persino carte geografiche e catastali non potevano, anche in età assai antica, certamente mancare177.

Il continuo incremento nell’impiego della scrittura nell’età imperiale, che, per effetto della parziale centralizzazione del sistema giuridico, attribuiva ormai

172 Moatti, Les archives des terres publiques à Rome (II. S. av-I. S. ap. J.C.): le cas des assegnations, La Mémoire perdue, cit, pp. 117 e s. osserva: “Tale tentativo di riorganizzazione archivistica doveva colpire profondamente gli spiriti poco abituati, non tanto ai documenti, ma al controllo amministrativo e giudiziario sui medesimi”. 173 Moatti, Les archives des terres publiques à Rome (IIe S. AV-Ier S. Ap. J.C.): le cas des assignation, A la recherce des archives oubliées, cit., pp. 117.174 Pertanto Cicerone, De leg. III, 46 lamentava l’inesistenza, a differenza dei Greci, di un sistema romano di custodia delle leggi, che impedisse l’ampia discrezionalità dei subalterni dei magistrati. 175 Svetonio, Aug. 46, 1:…excogitato genere suffragiorum, quae de magistratibus urbicis decuriones colonici in sua quisque colonia ferret et sub die comitiorum obsignata Romam mitterent. Non sappiamo se lo spoglio avvenisse localmente con invio sigillato dei dati o fossero trasmessi materialmente i voti, istituendo una sorta di voto per corrispondenza. Moreau, op. cit., pp. 129 e s. 176 Nicolet, A la recherce des archives oubliées, cit., pp. X-XI osserva con ironia che secondo la concezione ‘primitivista’ “la Roma repubblicana avrebbe, negli ultimi due secoli della sua esistenza, conquistato, esplorato ed amministrato un Impero senza volerlo, senza saperlo e naturalmente senza uomini e senza mezzi. Un pugno di rustici generali, di proconsoli ignari e cupidi, circondati solamente da alcune camarillas corrotte, sarebbe bastato per il miracolo di una delegazione sovrana dell’imperium, lontana dal controllo e come fuori dalla portata di un potere centrale d’altra parte inesistente, a porre di colpo il mondo sotto controllo”.177 Nicolet, A la recherce des archives oubliées, cit., pp. XI-XII.

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un’accresciuta importanza alle fonti scritte, sia nel mondo del lavoro e degli affari, sia per usi politici, civici o letterari, non sembra tuttavia che abbia raggiunto un grado capillare di alfabetizzazione di massa. Radicata era la mentalità orale, che implicava, dal punto di vista giuridico, la persistenza di una valutazione secondaria dei documenti; dal punto di vista pratico, l’abitudine di leggere ad alta voce un testo o di citarlo a memoria e dunque in maniera approssimativa178.

Sembra che alla fine della Repubblica ed agli inizi dell’Impero, agli archivi privati, religiosi179, dei magistrati, non organizzati comunque in maniera sistematica, si siano aggiunti archivi relativi, oltre che alle leggi, ai foedera, alle concessioni della cittadinanza180, alle dichiarazioni di nascita e del censo; e che la segreteria imperiale abbia dovuto tener conto per iscritto degli atti del principe e dei libelli inviati dai sudditi e funzionari. Significativo è il fatto che Augusto abbia predisposto una registrazione cartografica di tutto l’impero - la mappa di Agrippa - una sorta d’inventario del mondo181 ed alla sua morte nel 14 d. C. abbia lasciato un Breviarium totius imperii, per essere letto nel senato e pubblicato come bilancio della sua attività e rendiconto della compagine statale182.

La produzione di papiri ed óstraka raggiunse il culmine nella metà del II sec. d.C. per poi progressivamente calare e ciò rappresenta un significativo indice della diffusione della conoscenza tra la popolazione dei caratteri di scrittura, che assunsero nel tempo forme diverse. All’unità fondamentale delle scritture greche nel mondo ellenistico e romano, testimoniata dai papiri, corrispose la fondamentale unità della scrittura latina nella stessa epoca. Si pervenne così ad una koiné‚ scrittoria greco-romana ed ad un bilinguismo, determinato anche dalla introduzione del latino nella prassi giudiziaria.

La più antica forma di scrittura latina fu detta ‘capitale’ perchè nel medioevo le sue lettere erano ancora utilizzate, non più per interi manoscritti, ma al principio di singoli capitoli (capita). Una scrittura può essere distinta secondo la forma dei segni alfabetici in maiuscola, compresa in un sistema bilineare, e minuscola, i cui tratti eccedono due ideali linee parallele comprendenti il corpo delle lettere. La capitale latina è una scrittura maiuscola che può assumere tre forme principali: la varietà monumentale o quadrata nella quale i tratti orizzontali e verticali della scrittura si congiungono ad angolo retto determinando una scrittura epigrafica tracciata nelle lapidi con riga e compasso. La seconda varietà è detta actuaria, perchè usata per gli acta e rappresenta dunque una varietà libraria. La rustica infine è così denominata dai paleografi per designare la flessione del canone originario di una scrittura con un andamento tendente al corsivo.

Secondo il ductus o la rapidità del tracciato può distinguersi una scrittura diritta o posata, una scrittura semicorsiva ed infine la corsiva. Assai importante è dunque nello studio della scrittura antica tenere conto del tratteggio, cioè dell’esame del numero dei tratti di cui si compone ogni lettera, insieme all’ordine in cui sono tracciati.

178 Cavallo, Gli usi della cultura scritta, cit., pp. 239 e 244. 179 Sembra che gli arvali disponevano nel santuario di Dia di un tabularium di codices, che costituivano un importante riferimento sacerdotale. Schied, Les archives de la piété. Réflexions sur les livres sacerdotaux , La mémoire perdue, cit., p. 179.180 Sembra che in seguito alla lex Plautia Papiria de civitate sociis danda dell’89 a.C.le diverse liste locali siano state fuse e che il risultato sia stato trascritto in una lista unica deposta negli archivi ufficiali. Moreau, op. cit., p. 138. La Tabula Banasitana, che concedeva nella seconda metà del II sec. d.C. la cittadinanza ad abitanti della Mauretania Tingitana, si riferiva forse ad un aggiornamento ancora costante di tale lista ufficiale.181 Nicolet, L’inventaire du monde, Paris, 1988.182 Svetonio, Aug. 101:…tertio (sc. volumine) breviarium totius imperii, quantum militum sub signis ubique esset, quantum pecuniae in aerario et fiscis et vectigaliorum (sic) residuis; Tacito, Ann. I, 11:…opes publicae continebantur, quantum civium sociorumque in armis quot classes, regna, provinciae, tributa aut vectigalia, et necessitates at largitiones. Cfr. anche Dion. 56, 33, 2.

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Occorre poi tener conto delle legature, i collegamenti tra due o più lettere, poichè nella scrittura antica si possono riunire tratti di lettere diverse e separare tratti di una stessa lettera. Nessi sono invece le fusioni di segni alfabetici183.

La scrittura usuale fu maiuscola sino ai primi secoli della nostra era, ma già intorno al II sec a.C., la greca documentaria aveva cominciato ad evolversi in senso corsivo, rimanendo autonoma sino al III sec. d.C.; dal IV sec. d.C., in seguito al contatto con la scrittura dell’amministrazione romana, si pervenne alla formazione di una koiné grafica greco - romana per usi burocratici184.

Per quanto riguarda la scrittura latina, pare che la capitale rustica, testimoniata da alcuni papiri di Ercolano e la corsiva del I sec. d.C. risalgano ad una scrittura originaria di molto anteriore185. Nel II sec. d.C. si assistette ad un mutamento d’angolo che si manifestò nell’inclinazione a destra e finì per determinare un’evoluzione da un sistema grafico bilineare ad uno quadrilineare. Sorgerà dunque una scrittura latina minuscola che diventerà usuale. Si intende per scrittura usuale quella di tutti i giorni e per tutti gli usi. Scrittura cancelleresca è invece solenne e caratterizzata, ben diversa dalla libraria che è chiara e solenne. Scrittura canonizzata è quella che segue regole scrittorie (canoni) elaborate in certi tempi e certi luoghi. Tra il III e IV sec. d.C. si formò una scrittura latina ‘onciale’ a carattere tondeggiante (da uncia), artificiosa mescolanza di forme maiuscole e minuscole, influenzata in buona parte dalla maiuscola biblica greca. Fu utilizzata dal IV sec. sino ad oltre l’VIII d.C. e con tali caratteri, in una varietà particolare (BR), furono scritte numerose opere giuridiche, come le Istituzioni di Gaio, i Vaticana Fragmenta e la Littera Florentina, il manoscritto fondamentale del Digesto di Giustiniano. Questo nuovo tipo di scrittura si accompagnava ad una rivoluzione culturale, alla scomparsa dell’antica giurisprudenza, all’avvento al potere delle classi medie, all’ascesa di funzionari e burocrati che utilizzavano un nuovo modello librario, il codice.

La scrittura corsiva ebbe un ciclo vitale che giunse sino al V sec. d.C.; infatti la minuscola antica, detta anche semionciale ed affermatasi tra il IV e il V sec., presentava anch’essa il vantaggio della corsività, pur avendo una diversa origine.

Agli inizi del IV sec., affermatasi la tendenza minuscoleggiante, venne utilizzato nei documenti un “corsivo recente” che fu impiegato tanto frequentemente che i suoi caratteri furono denominati litterae communes. La cancelleria imperiale invece continuò ad usare costantemente il “corsivo antico” e così facendo caratterizzava gli atti da essa promananti, al punto da rivendicarne in una costituzione della fine del IV sec. un uso esclusivo da parte degli uffici centrali della cancelleria e da inibirne l’imitazione degli uffici amministrativi locali186. In conseguenza di ciò i caratteri del “corsivo antico” furono riservati alle manifestazioni della volontà imperiale e indicati come litterae caelestes, in contrapposizione alle litterae communes delle cancellerie subalterne.

La scrittura semionciale fu una scrittura mista, che partecipava dei caratteri dell’onciale e della corsiva, della maiuscola e della minuscola. Ebbe un ciclo vitale protratto sino al IX sec., anche a causa del reimpiego di essa, secondo l’opinione tradizionale, a Tours nel monastero di S. Martino ad opera di Alcuino, dotto di Carlo Magno, che certamente ebbe grande familiarità con preziose opere tardo romane oggi perdute, redatte con quei caratteri tipici della scrittura latina dell’ultima parte dell’evo antico.

183 Cencetti, Lineamenti di Storia della scrittura latina, Bologna, 1954, pp. 51 ss.; 60 ss. 184 Cardona, op. cit., p. 192. 185 Montevecchi, La papirologia, cit., p. 58.186 C. Th. IX, 19, 3 (a.367).

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II - LIBRI E DOCUMENTI

A - I LIBRI

1 -Libri, biblioteche e vicende editoriali.

Oggi gli strumenti di comunicazione di massa e le nuove tecniche consentono di riprodurre la vita nel suo svolgimento reale ed anche se a cinque secoli dall’invenzione della stampa si scrive, si pubblica e si legge molto di più che in qualsiasi altra epoca precedente, la natura e la funzione del libro appaiono soggette ad una trasformazione così ampia e complessa da suscitare in taluni persino il dubbio sulla sopravvivenza stessa del supporto cartaceo e sul recupero di qualità strutturali dell’opera antica187.

Alle origini il libro era nato come “opera d’arte”, inserito in culture, che, anche molti secoli dopo l’impiego della scrittura, continuavano a mantenere marcate caratteristiche di oralità. Nelle culture arcaiche infatti l’istruzione era affidata all’udito e alla memoria, ai racconti degli anziani, a canti ripetitivi, a rappresentazioni di vita reale, piuttosto che a testi scritti e ancora nella seconda metà del IV sec. a.C. si avvertiva la necessità di precisare che le lettere avevano tanto potere che coloro che le capivano e le usavano divenivano esperti “non solo di ciò che è stato fatto nel loro tempo, ma anche su tutto ciò che è accaduto in qualsiasi tempo”188. E dunque si è affermato che ad uno dei maggiori storici greci, Tucidide, “non sarebbe mai venuto in mente che i documenti scritti potessero essere le fonti principali per la storia” 189. Ma anche il “padre della storia”, Erodoto, aveva nel V sec. organizzato letture pubbliche della sua opera, redatta in forma di racconti brevi ed attraenti per un auditorio in grado di mantenere desta l’attenzione solo per un tempo limitato. Già alla fine del V, al tempo di Tucidide, l’opera storica non era composta più per declamazioni di breve durata, “ma affidata allo scritto, al libro e dunque alla meditazione di lettori contemporanei e futuri”190.

Anche quando in età greco - romana la civiltà libraria si era consolidata, persistevano vistose tracce dell’arcaica oralità: la prassi, ad esempio, della lettura solitaria ad alta voce, la resistenza degli autori alla scrittura diretta dell’opera, redatta in seguito a dettatura, la recitazione prima della pubblicazione a gruppi di amici ed ascoltatori. Ancora in età postclassica un testo giuridico esibito in tribunale veniva “recitato”. Ma già alla fine dell’evo antico, alla citazione ad alta voce nelle aule giudiziarie si contrapponeva un insolito silenzio nelle aule di lettura, un tempo luogo di conversazioni; “qui la pratica antica della scansione del testo da leggere era ormai giunta al termine; iniziava l’età della meditazione e della contemplazione, caratteristiche dell’uomo medioevale”191. Il ruolo prevalentemente attribuito al libro nella cultura

187 Cavallo, Libri, editori e pubblico nel mondo antico. Guida storico critica, Roma - Bari, 1975, p. XI; Martin, Storia e potere della scrittura, Bari, 1990, pp. 512 ss.188 Isocrate, Panath. 209; Harris, op. cit., p. 93.189 L’osservazione è di Momigliano, Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma, 1960, p. 37; Sesto contributo, I, Roma 1980, p. 38, citato da Harris, op. cit., p. 92, che critica Goody, L'addomesticamento del pensiero selvaggio, Milano, 1981, pp. 108 e s. il quale sostiene che gli archivi fossero necessari per la storiografia.190 Cavallo, op. cit., p. XV.191 Purpura, Dalle raccolte di precedenti alle prime codificazioni postclassiche: alcune testimonianze papiracee, AUPA, 42, 1992, p.676; Fedeli, Biblioteche private e pubbliche a Roma e nel mondo romano,

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arcaica sembra che sia stato quello di estendere la portata ed il valore di un testo nel tempo, piuttosto che favorire l’agile circolazione delle idee. Quando si cominciò a comprendere la straordinaria capacità dei libri redatti su materiali scrittorii leggeri ed economici di divulgare conoscenze anche nello spazio, la parola scritta cominciò ad essere temuta proprio da chi voleva conservare il vecchio ordine delle cose, così come in precedenza era stata apprezzata. Ma anche nell’età della formazione delle grandi biblioteche ellenistiche (Alessandria, Pergamo, Antiochia), dopo che Demetrio Falereo, “primo degli amici di Tolomeo” Soter ed “iniziatore della legislazione tolemaica” aveva esortato “il re ad acquistare libri sulla regalità e sul comando” costituendo il nucleo della Biblioteca di Alessandria192, la funzione delle raccolte e dei libri restavano quelli arcaici di fissazione e determinazione della migliore tradizione di un testo. Agenti del sovrano viaggiavano per tutto il mondo conosciuto alla ricerca di testi rari per rifornire le biblioteche e pare che i doganieri di Alessandria sequestrassero addirittura i testi posseduti dagli stranieri in transito rilasciando in tutta fretta copie apprestate da scribi presenti nei medesimi posti di dogana, ma lo scopo era quello di rifornire una struttura che è stata indicata come una biblioteca pubblica “senza pubblico”, un deposito universale e razionale, altrettanto esclusivo e riservato delle più antiche raccolte librarie delle scuole filosofiche o degli archivi - biblioteche del Tempio o del Palazzo di tradizione orientale193.

A Roma il modello delle biblioteche a circuito chiuso cominciò a modificarsi, aprendosi ad un pubblico esterno. Plinio il Giovane riferisce che le sue opere si trovavano anche a Lione e che Tacito, conversando nel circo con un provinciale sconosciuto, ebbe una volta a dire: “Tu mi conosci; mi conosci dai miei scritti”. Ciò denota una diffusione della cultura, del libro e dell’alfabetismo, che giunse all’apice intorno al I - II sec. d.C., ma che era destinata ben presto a regredire194.

La pubblicazione di un’opera, affidata talvolta ad editori librai (come Pomponio Attico, editore di Cicerone; Doro, di Livio; i fratelli Sosii, di Orazio; Trifone, di Marziale), che si avvalevano di scrivani specializzati (librarii) e di correttori (anagnostae)195, seguiva in genere alle letture collettive, alle recite e revisioni di amici e prevedeva la dettatura simultanea di più parti di un testo a distinti gruppi di scribi, le cui copie, dopo una correzione, avrebbero reso possibile la realizzazione di ulteriori esemplari. Disponendo di parecchi copisti ben allenati che lavorassero contemporaneamente, era possibile pubblicare in tempo limitato tirature relativamente alte di un’opera, le cui copie, realizzate su papiro o su pergamena, recavano tracce dell’originario processo di dettatura ad alta voce, negli errori dovuti all’originaria imperfezione della dizione o ai fraintendimenti dell’udito, e sfuggiti all’opera dei correttori, che annotavano a margine l’effettuazione della collazione ed il numero di linee computate per il compenso dell’editore, talvolta non adeguato al conto finale del copista196.

Sia la scarsa tutela del diritto d’autore, che avrebbe potuto determinare la comparsa di edizioni pirata - come sembra essersi verificato nel caso delle Metamorfosi di Ovidio, opera distrutta dal poeta, ma a noi pervenuta197 - sia la disinvolta utilizzazione di opere altrui o la disattenta gestione da parte dello stesso autore attraverso continue

Le Biblioteche nel mondo antico e medioevale, Bari, 1989, p. 55. 192 Cavallo, Introduzione, Le Biblioteche, cit., pp. XX ss. 193 Plinio, Ep. IX, 11,2; IX, 23.194 Cavallo, Libri, editori e pubblico, cit., p. XVIII; Harris, op. cit., pp. 317 ss.195 Cavallo, Libro e cultura scritta, Storia di Roma, IV, Torino, 1989, pp. 712 ss.; 715.196 Kleberg, Commercio librario ed editoria nel mondo antico, Libri, edit. e pubbl., cit., p. 53: “I due pervengono a diversi risultati, il che ci fa conoscere spiegabili ma anche riprovevoli inclinazioni umane: il copista calcola troppo alto, il correttore” (per conto dell'editore) “troppo basso”.197 Kleberg, Commercio librario, p. 56; Simmaco, Ep. 1, 31 dichiara: oratio publicata res libera est.

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rielaborazioni parziali, come anche la ricerca collezionistica, che poteva incentivare la realizzazione di opere false, invecchiando artificialmente rotoli sotto cumuli di cereali in grado di ingiallire e corrodere, rendevano i testi antichi sovente inaffidabili e suscitano oggi numerosi e talvolta insolubili problemi di critica testuale.

Per quel che riguarda la cultura libraria antica, l’entità dell’incendio scoppiato nel 48 - 47 a.C. nella Biblioteca di Alessandria, un tempo ritenuto devastante, sembra che debba essere adesso ridimensionata; una distruzione assai grave della stessa pare sia avvenuta invece nella seconda metà del III sec. d.C., al tempo del conflitto tra l’imperatore Aureliano e la regina Zenobia, che fu combattuto appunto per le strade di Alessandria; ma fu al tempo della conquista araba dell’Egitto (641 d.C), con la sistematica distruzione dei testi che andò definitivamente perduto quanto ancora sopravviveva degli antichi libri. Roghi numerosi e reiterati nel tempo segnarono definitivamente la sorte delle straordinarie raccolte librarie antiche.

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2 - Dal volumen al codex

Nel periodo compreso tra la fine del III e gli inizi del IV sec. d.C. il mondo romano abbandonò l’antica forma libraria del volumen per adottare il nuovo formato del codex. Ancora al tempo di Ulpiano, nel III sec. d.C., si poneva la questione se fossero da considerare libri veri e propri quelli scritti in codicibus di qualsiasi materia198, ma già intorno al 372 i codici assunsero in campo giuridico il predominio, al punto da esserne sistematicamente previsto il restauro199.

Le ragioni del passaggio dal rotolo al codice sono state via via rintracciate in motivi di natura pratica, come la maneggevolezza e la facilità di lettura, l’idoneità all’uso scolastico, la maggiore capacità di contenuto, l’economicità e la maggiore rapidità nel ritrovare un brano da citare. Non sembra invece che abbia in qualche modo influito il tipo di materiale scrittorio prevalentemente impiegato: il papiro per il volumen, la pergamena per il codex. La pergamena infatti pare che sia stata utilizzata a Roma già dal I sec. a.C. e, d’altra parte, a partire da quell’età pian piano divennero comuni i codici composti di fogli di papiro.

Molteplici sembrano essere le influenze sul modello di libro oggi utilizzato: dai codici lignei che presentano legature simili ai primi codici papiracei200, al libro “a soffietto” di origini assai antiche, dal taccuino membranaceo ai pugillaria lignei, da sfogliare come block-notes.

Se il codice poteva essere scorso impegnando una sola mano, altrettanto importante era la circostanza che in un’epoca nella quale era invalso il ricorso ad una letteratura di riferimento, sia essa rappresentata dalle Scritture Sacre, che dai vasti commentari giuridici o raccolte di provvedimenti dell’Impero, la possibilità dell’immediato reperimento costituiva un indiscutibile vantaggio. In quest’età, al mutamento dei caratteri della scrittura, col passaggio dalla scrittura capitale dell’età classica al primo minuscolo o Halbunziale, si accompagnava l’ascesa di nuove classi sociali al potere dopo la drammatica crisi del III sec. d.C. E’ probabile allora che il formato librario del codice, che era apparso a Roma contemporaneamente all’avvento del cristianesimo, in quanto libro di letturatura popolare e tecnica, sia prevalso in seguito ad una spinta dal basso di nuovi ceti e categorie, immessi nel mondo della parola scritta, del diritto, del potere. Il rotolo, simbolo dell’ arte letteraria riservata ai ceti superiori, appariva ormai superato dai codici dei burocrati dioclezianeo costantiniani, che esprimevano e diffondevano, attraverso libri di tale formato, unitamente al retaggio della nuova religione, le loro ansie di maggiore preparazione professionale e di progresso201.

Alcuni studiosi hanno ipotizzato che l’adozione in ambiente cristiano del codice abbia tratto origine dalla stesura del Vangelo di Marco nella forma libraria tipica delle classi meno agiate e che la perdita di qualche linea conclusiva, che si constata nella versione pervenutaci, difficilmente si sarebbe verificata all’interno di un volumen202. Comunque sia, non v’è dubbio che alla necessità del ricorso ai testi fondamentali si accompagnava l’aspirazione da parte dell’ordine legislativo ad una solennità sacrale: il cristianesimo, avvalendosi di un antico e radicato rispetto per l’autorità del Libro, infatti aveva introdotto l’idea dell’accettazione totale delle Sacre Scritture che erano

198 D. 32, 52.199 C. Th. XIV, 9, 2.200 Marichal, Les tablettes ácrire dans le monde romain, in Les Tablettes, cit., pp. 173 e s.201 Cavallo, Introduzione, Libri, editori e pubblico, pp. XX ss.202 Roberts, Skeats, The birth of the Codex, Cambridge, 1989, pp. 45 ss.; praecipue, p. 55; le diverse tesi sulle origini del codex sono riassunte in van Haelst, Les origines du codex, in Les débuts du codex, cit., pp. ss.

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scritte in forma di codice. “L’uso del codice si legava così ad una reverenza per i testi scritti, che si accompagnava alla necessità di imporre l’osservanza assoluta del loro contenuto; e tale reverenza, nel caso delle costituzioni imperiali, giungeva al limite con gli imperatori cristiani che parlavano proprio in nome di Dio. Il codice era, così, depositario al tempo stesso della legge divina ed umana”203 ed i due poli della civiltà medioevale, Chiesa ed Impero, trovavano nei codici delle Sacre Scritture e del diritto i fondamenti della vita sociale204.

All’inizio dunque i testi giuridici, come altri testi tecnici, utilizzavano nella prassi quotidiana, forense ed amministrativa la forma del codex, “sicchè‚ il passaggio alla nuova tipologia libraria non dovette essere né sistematico né programmatico ma piuttosto affidato alle necessità pratiche nell’esercizio del diritto, giacch‚ il codice si prestava meglio per opere che dovevano essere correntemente citate. In ogni caso la struttura piuttosto rozza nei primi codici giuridici non lascia dubbio sull’uso privato, professionale, che di essi si faceva. Soltanto più tardi la nuova forma libraria si impose ufficialmente ed in conseguenza del mutare della concezione stessa del diritto”205. Dalla concezione giurisprudenziale del diritto dell’età classica, nella quale predominava il rotolo, predisposto per una cultura sostanzialmente ancora basata su tecniche orali ed affidata a non numerosi esperti, si passò gradualmente ad un mondo retto dalla parola scritta in codici, simbolo dell’interpretazione autoritaria dei testi.

A partire dal 250 - 300 d.C. la trasformazione dal rotolo al codice impose dunque di ricopiare tutti i testi giuridici classici nella nuova forma libraria ed è possibile allora, secondo Wieacker, che parte delle alterazioni riscontrabili negli esemplari d’età pregiustinianea e giustinianea abbiano tratto origine proprio da tale attività206. Anche se ancora intorno al 360 d.C. si utilizzavano codici lignei per trascrivere non solo i conti di una fattoria ma anche un testo impegnativo come un’orazione di Isocrate207, indubbiamente il nuovo tipo di libro era destinato a prevalere, anche in conseguenza di una attività sistematica. Tracce di un lavoro programmatico sono state intraviste nell’ordine impartito intorno al 357 dall’imperatore Costanzo II a scribi professionisti di trasferire in nuova veste i libri degli autori antichi deteriorati dal tempo. Anche l’imperatore Valente, nel 372, ordinava che quattro antiquarii greci e tre latini, abili calligrafi, lavorassero ad bibliothecae codices componendos vel reparandos208. E certamente assai interessato a tale attività era l’imperatore Teodosio II, non solo ispiratore del primo codice ufficiale di costituzioni, ma anche abile calligrafo che pare amasse vergare testi sacri in lettere d’oro, disponendo lo scritto a forma di croce209. E proprio in questa età con il codice cristiano d’alta qualità, di lusso, si pervenne all’estremo capovolgimento della prima umile prassi cristiana. Apparve il codice oggetto, destinato non alla lettura, ma a mera e ricca funzione ornamentale. Scrive S. Gerolamo: “Si tinge la pergamena di colore purpureo, si tracciano le lettere con oro fuso, si rivestono i libri di gemme, ma nudo, davanti alle loro porte il Cristo muore”210.

203 Cavallo, Libro e pubblico alla fine del mondo antico, Libri, editori e pubblico, cit., pp. 127 e s.204 Purpura, Dalle raccolte di precedenti alle prime codificazioni postclassiche: alcune testimonianze papiracee, AUPA, 42, 1992, pp. 676 e s.205 Cavallo, l.c.206 Wieacker, Textstufen klassicher Juristen, Göttingen, 1960, pp. 93 ss.207 Lawrence Sharpe III, The Dakhleh tablets and some codicological considerations, Les tablettes, cit., pp. 127 ss.208 Temistio, Orat. IV, 59d - 60c; C. Th. XIV, 9, 2; Cavallo, op. cit., pp.91 e s.209 Niceforo Callisto, Eccl. Hist. XIV, 441 (Patrologia Graeca 146, 1064 A - B); Purpura, Sulle origini della Notitia Dignitatum, AUPA, 42, 1992, pp. 481 e s.210 Girolamo, Ep. XXII, 32; Cavallo, op. cit., pp.122 e s.

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Nello stesso tempo l’utilizzazione delle opere dell’anticagiurisprudenza comportava la necessità di adattare gli antichi testi alle nuove esigenze e princŒpi dell’età postclassica, senza mutarne paternità, titolo ed oggetto, continuando, cioè, per reverenza ad impiegare le opere dei giuristi scomparsi, ma avvertendo anche in modo sempre più vivo la necessità l’esigenza di sanzionare ufficialmente le forme testuali del ius, respingendo le opere considerate false. E’ possibile in altri termini che la trascrizione in codex finisse per mettere fuori uso le vecchie copie su rotoli e che agli inizi del IV sec. si giungesse al graduale riconoscimento di versioni più o meno ufficiali dei testi normativi. All’età di Costantino risale la prima notizia sulle autorizzazioni imperiali delle opere degli antichi giuristi: il divieto dell’uso delle Notae di Paolo ed Ulpiano a Papiniano in quanto di dubbia genuinità ed il riconoscimento per universa quae scriptura Pauli continentur, che in pratica consentiva di utilizzare le Sentenze di Paolo211. L’oratio Valentiniani ad senatum del 426, che da una parte disciplinava l’impiego delle opere giurisprudenziali, presupponeva ancora l’esistenza di varie forme testuali degli antichi originali di giuristi di età severiana (Papiniano, Paolo, Ulpiano, Modestino), oltre Gaio (II sec. d. C.), prevedendo la collatio codicum, il confronto, cioè, in caso d’incertezza, tra più versioni testuali. Di più antichi giuristi, come Scevola, Sabino, Giuliano e Marcello non si prevedeva che potessero ancora ritrovarsi copie e si disciplinava soltanto la citazione indiretta.

In primo luogo fu certamente trasportata in codex la letteratura giuridica di uso comune, come i libri di scuola, i trattati istituzionali e le più elementari raccolte. Solo in un secondo momento fu trascritta la letteratura più consona a maestri di diritto e funzionari, come i vasti commentari edittali e di diritto civile (libri ad Sabinum), che avrebbero potuto essere scissi ed utilizzati anche in parti distinte. Poichè le opere che non venivano ricopiate apparivano destinate a scomparire, si dovette ben presto giungere ad una selezione degli scritti di maggiore utilità pratica ed impiego, che non sempre coincideva con il maggior valore intrinseco. E dunque, soprattutto nei lavori sopra indicati dei giuristi della c.d. legge delle citazioni, avrebbero potuto infiltrarsi alterazioni testuali per effetto di tale trascrizione. Si è notato ad esempio che nel ricopiare un brano del commentario di Ulpiano ad edictum tramandato, oltre che nel Digesto di Giustiniano, anche nella Mosaicarum et romanarum legum collatio, il copista aveva saltato almeno due righi per mera svista e questo errore si era perpetuato sino ai compilatori per circa duecento anni212.

Con il codex poi faceva la sua prima apparizione una nuova unità libraria, alla quale avrebbe potuto non corrispondere più l’unità dell’opera trascritta. E’ possibile infatti che nelle più recenti edizioni in codice l’editore andasse alla ricerca di una nuova unità interna dell’opera, da far coincidere con la forma esteriore del codex. Si poneva dunque il problema delle edizioni complete e delle edizioni parziali. In conseguenza della trascrizione, opere classiche in diversi rotoli poterono essere riunite in un solo codex o, al contrario, opere molto ampie, come i commentari tardo classici, poterono essere scomposte in parti che circolavano con una autonomia. Si è notato che a partire dal IV sec. il termine corpus, impiegato in precedenza per denotare una unità ideale di libri o di scritti di un determinato autore compresi in una pluralità di rotoli, finì per indicare l’unità fisica degli scritti raccolti in un solo ponderoso codex.

Pare che all’insegnamento della materia edittale in due diversi corsi nelle scuole bizantine corrispondessero edizioni parziali in codice dei libri ad edictum. Si è notato ad esempio che il Vat. Frag. 266, che reca l’inscriptio: Ulp. lib. I de rebus creditis,

211 C. Th. I, 4, 1 (321); 2 (327).212 D. 9, 2, 27, 9 e Coll. 12, 7, 7.

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potrebbe dimostrare che già agli inizi del IV sec. la parte de rebus creditis del commentario edittale (ll. 26 32) era già dotata di una sua autonomia. Sembra che anche i quattro libri singulares, utilizzati nel primo anno di studi giuridici secondo la costituzione Omnem, fossero edizioni parziali dell’ampio commentario di Ulpiano ad Sabinum. Negli Scholia sinaitica è indicato un liber primus de tutelis di Ulpiano, evidentemente parte del suo vasto commentario civilistico. Il problema più delicato consiste comunque nella datazione degli interventi su accennati, in quanto essi potrebbero essere stati assai precoci ed in ogni caso protratti nel tempo, non arrestandosi al tempo delle disposizioni costantiniane, come ritiene Wieacker, ma estendendosi nel V, per concludersi nel VI sec d.C.213. Se comunque è innegabile la circolazione di edizioni parziali in codice, è altrettanto probabile che nelle migliori biblioteche venissero pur sempre conservate edizioni complete e che a queste ultime soprattutto facessero ricorso i commissari giustinianei nel momento della compilazione.

Come ci informa Libanio, gli studenti delle scuole orientali della fine del IV e inizi del V utilizzavano ormai codices che, oltre ad essere idonei ad ostentare la presunta sapienza, erano suscettibili di essere impiegati, per la loro non indifferente mole, come formidabile arma d’assalto nelle non infrequenti risse studentesche, le quali giunsero, nel caso della rivolta di Nika, al tempo di Giustiniano, persino ad interrompere, anche se solo per qualche tempo, l’attività di altri studiosi applicati sui medesimi codici in una paziente opera di raccolta delle opere dell’antica giurisprudenza, nella stesura cioè del Digesto214.

213 Amirante, Per la storia dei testi giurisprudenziali classici, Labeo, 7, 1961, p. 400. 214 Libanio, Orat. IV, 18; LVIII, 5; Cavallo, op. cit., p.130. Per Pugsley, On compiling Justinian's Digest II: Plans and Interruptions, The Journal of Legal History, 13, 3, 1992, p. 226, l’appendix, che affianca le tre celebri masse del Digesto, potrebbe essere stata una conseguenza della sommossa del 533, che avrebbe sconvolto i lavori della compilazione.

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3 - I papiri e le opere della giurisprudenza

Sono pochi, per non dire pochissimi, i frustuli di antichi papiri o pergamene che tramandono qualche lettera o linea di scrittura di opere della giurisprudenza più antica. Uno di essi più risalente nel tempo è stato individuato tra i celebri papiri filosofici di Ercolano215: si è infatti affermato che tra questi si riscontrano i frammenti di un’orazione politico giudiziaria nella quale era menzionato dopo il 27 a.C. il giurista M. Antistio Labeone (P. Herc. 1067) ed altri frustuli di una oratio iudiciaria di età augustea attribuibili a L. Manlio Torquato (P. Herc. 1475). Entrambi i casi potrebbero riferirsi a libri di diritto della fine dell’età repubblicana o inizio dell’età classica.

Malgrado la modestia intrinseca del contenuto, la scoperta appare di un certo interesse, non solo per il rinvenimento di papiri relativi ad un settore non filosofico della famosa biblioteca, ma soprattutto per la possibilità di riscontrarvi testi afferenti ad una attività di elaborazione e di studio nell’ambito giuridico, come è stato possibile rilevare in passato per il settore filosofico216. In base ad una lettera di Plinio il giovane, che fornisce informazioni sul metodo di lavoro dello zio, il grande naturalista, si è posta in risalto una tecnica di escerpimento che avrebbe potuto essere frequentemente utilizzata con profitto anche nel campo del diritto. La lettura di un’opera determinava la dettatura ad un segretario di escerti da trascrivere su taccuini e la successiva stesura su rotoli di commentarii opistographi217, scritti a lettere minutissime. A parere di Plinio il vecchio non vi era libro, per quanto scadente, che non potesse dar luogo a note di tal genere. Sembra appunto che il P. Herc. 1021 costituisca un commentario opistografo di tale tipo, nel quale parti logicamente coerenti si alternavano a passi più o meno lunghi ancora in gestazione. Pare in sostanza che il papiro di Ercolano in questione, la cui stesura definitiva si ritrova in un altro rotolo ercolanese dell’Index Academicorum del filosofo epicureo Filodemo di Gadara, residente nella villa del rinvenimento, rappresenti un brogliaccio; cioè un primo tentativo di sistemazione dei materiali218. Codici di appunti e brogliacci di tal genere avrebbero potuto essere stati abituali nel mondo del diritto ed essere soprattutto alla base dei commentarii, che tanto spazio finirono per assumere tra le opere dei giuristi romani.

Malgrado le scoperte papiracee, indubbiamente le opere della giurisprudenza sarebbero rimaste in massima parte ignote ai moderni senza la compilazione del Digesto e la sua trasmissione219. Se infatti si valutano con obiettività i frammenti papiracei e pergamenacei pervenuti, si constata che sono di entità modesta, assai rari quelli ascrivibili direttamente all’età classica, e tali da non consentire di individuare nuovi autori od opere. Riflettono in sostanza le preferenze già note per i cinque giuristi

215 Costabile, Opere di oratoria politica e giudiziaria nella biblioteca della Villa dei papiri: i P. Herc. latini 1067 e 1475, Atti del XIV Congr. Intern. di Papirologia, 19-26 maggio 1983, II, Napoli, 1984, pp. 591 - 606.216 Cavallo, Testo, libro, lettura, Lo spazio letterario in Roma antica, II, La circolazione del testo, Roma, 1992, pp.311 e s.217 Plinio, Ep. III, 5, 10 - 17. Dorandi, Commentarii opisthographi, ZPE, 65, 1986, pp. 71 - 75.218 P. Herc. 164. Dorandi, Sulla trasmissione del testo dell’ Index Academicorum philosophorum Herculanensis (P.Herc 1021 e 164), Proceedings of the XVI Intern. Congress of Papyrology, Chico, 1981, pp. 139 ss.; Id., Di nuovo sulla trasmissione dell'Academicorum philosophorum Index Herculanensis, Atti XVII Congr. Intern. Papirol., II, Napoli, 19-26 maggio 1983 (pubbl.1984), pp. 577 ss.; Cavallo, op. cit., pp. 311 e s.219 Volterra, IURA, 1959, p.320

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della c.d. legge delle citazioni e la prevalenza accordata dagli studiosi e lettori postclassici ad Ulpiano, già indicata nel Digesto. Tuttavia i frammenti papiracei mostrano innanzitutto l’ampiezza della diffusione della letteratura giuridica tra i provinciali, a confronto con i non numerosi testi letterari noti attraverso i papiri 220. Consentono poi di verificare le condizioni della tradizione testuale in riferimento ai gravi problemi delle edizioni parziali e definitive dei testi classici, delle alterazioni pregiustinianee, dell’attività delle scuole postclassiche e dei compilatori giustinianei.

Prima di segnalare i più importanti e numerosi residui papiracei di opere della giurisprudenza ancora utilizzate in età tardo romana, occorre menzionare qualche testo a noi pervenuto e certamente ascrivibile all’età classica: il P. Mich. VII, 431, databile al I sec. d. C., che contiene così pochi termini giuridici, disposti in sedici linee di scrittura in grande capitale rustica paleograficamente da non permettere finora l’identificazione della relativa opera221.

Ad un Liber rubricatus di diritto del periodo intorno al 100 d. C. apparteneva invece un altro frammento della collezione dei P. Mich. (VII, 456 r) che, integrato dal P. Yale inv. 1158 r, si riferisce alla bonorum venditio ed alle sue conseguenze222.

Del II - III sec. d.C. è il P. Fay. 10 che contiene un caput ex mandatis dell’imperatore Traiano, riferito nel XLV libro del commentario edittale di Ulpiano. L’identificazione con l’opera giurisprudenziale non è del tutto sicura, in quanto potrebbe trattarsi del testo della costituzione non ancora inserito nell‘opera del giurista. Il riconoscimento del passo è comunque possibile, poichè il brano ulpianeo ci è stato tramandato in D. XXIX, 1, 1. Il frammento, che si riferiva al testamento dei militari, consente allora di confrontare la tradizione più antica con la versione giustinianea e di ritrovarla sorprendentemente fedele, nonostante il notevole divario temporale e l’indubbia stesura di numerose versioni manoscritte intermedie223.

A più di settantanni dalla pubblicazione della Palingenesia iuris civilis del Lenel (1889) è stato realizzato un Supplementum che tien conto, seppur in maniera incompleta, dei frammenti papiracei di opere della giurisprudenza. Tale raccolta può essere in parte integrata con il Corpus dei papiri latini di Cavenaile224, ma dei 220 Soprattutto di Virgilio, Cicerone, Sallustio e Livio. Volterra, IURA, 1958, p. 288.221 Bove, L’ “Edictum” leneliano e le sue aggiunte, Labeo, 7, 1961, p. 254. Il P. Mich. VII, 431 manca nel Supplemento alla Palingenesia iuris civilis di Lenel redatto sulla base dei rinvenimenti papiracei da parte di Sierl (Graz, 1960), ma può essere consultato in Cavenaile, Corpus papyrorum latinarum, 1958, Wiesbaden, p. 143.222 Nörr, Bemerkungen zu einem frühen Juristen-fragment (P. Mich. 456 r + P. Yale inv. 1158 r), Scire litteras. Forschungen zum mittelalterlichen Geistesleben, Bayerische Akadeümie der Wissenschaften, Phil.- Hist. Klasse, 99, München,1988, pp. 299 ss.223 Delle due varianti segnalate da Cavenaile, op. cit., p. 145 (l. 3: professi per proferri; l.10: inserzione del termine milites) la prima appare paleograficamente scusabile con facilità, la seconda del tutto giustificabile nella versione più antica, che non sottindendeva il soggetto. Potremmo allora essere in presenza del testo della costituzione, indipendente dall'opera di Ulpiano e trascritto per l'interesse dei militari residenti in Egitto alla possibilità di far testamento in qualsiasi forma volessero, concessa da Traiano. Sul punto cfr. Plasberg, W. Kl. Phil., 1901, p.141; BL I, p. 127; Bove, Labeo, 7, 1961, p. 255.224 Sierl, Supplementum ad Ottonis Lenel Palingenesiam iuris civilis ad fidem papyrorum , Palingenesia iuris civilis, II, Graz, 1960, pp. 5 - 23; Id., Nachträge zu Lenel's Palingenesia iuris civilis anhand der Papyri, Selbstverlag, Fürth - Bay, 1958. Bove (op. cit., pp. 254 e s.) riscontra, prevalentemente sulla base di Cavenaile, Corpus papyrorum latinarum, Wiesbaden, 1958, pp. 143 ss., le omissioni di P. Mich. VII, 431; 457; 458; 475; 480; 481; P. Aberdeen 130; P. Amh. II, 28; P. Oxy. XXII, 2352; PSI XIII, 1346; 1349; P. Ryl.III, 479 e rileva inoltre il rispetto dei criteri di Lenel, che inducono ad esempio ad omettere il noto frammento di Cod. Leid. B.P.L. 2589, il quale si ritiene riproduca brani delle Sententiae di Paolo. Questo testo pergamenaceo della fine del III, inizi del IV sec. d.C., fornisce utili notizie sui crimina repetundarum e maiestatis e, trasmesso anche dal Breviarium Alaricianum degli inizi del VI, indica che la versione più antica era tre volte più ampia, ma anche che le differenze di sostanza delle parti comuni erano minime.

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diciannove papiri utilizzati per comporre i sessantasei frammenti del Supplemento alla Palingenesia, ascrivibili a tredici diversi giuristi, non sempre è agevolmente ricostruibile il contesto e addirittura manca l’indicazione presunta della data di stesura del testo, talvolta desumibile da dati paleografici o di scavo. Appare pertanto auspicabile la realizzazione di una rassegna più completa e aggiornata.

Tra i papiri e pergamene della fine dell’età classica e del periodo postclassico relativi ad opere della giurisprudenza, un posto certamente preminente occupano i frammenti delle Istituzioni di Gaio: il P. Oxy. XVII, 2103 ed il PSI XI, 1182. Il primo risale alla metà del III sec. d. C. e si riferisce al IV libro, ai paragrafi 57 e 68 - 73, che permettono di colmare una lacuna del palinsesto veronese (72 - 73) relativa all’actio de peculio et de in rem verso. Nel 1928 fu, cioè, possibile confrontare una versione egiziana su volumen di papiro distante un paio di generazioni dall’età degli Antonini, momento di redazione dell’opera, con il codice del V sec. d. C. rinvenuto in occidente225 - quello di Verona - e riscontrarla pressocchè identica. L’insperata possibilità suscitò sgomento al culmine del dibattito interpolazionistico in quanti si erano spinti pochi anni prima a considerare addirittura le Istituzioni un’opera postclassica erroneamente attribuita a Gaio226. Il più tenace assertore della caccia alle interpolazioni era pertanto indotto ad asserire che “gli scopritori di interpolazioni...quando operano con rigoroso procedimento logico-giuridico...nulla hanno da temere, anzi tutto hanno da guadagnare dalla scoperta...di fonti genuine”227. Ciò nonostante il P. Oxy. XVII, 2103 dimostrava l’inconsistenza di presunte alterazioni postclassiche dell’opera di Gaio e, se un noto testo istituzionale si era mantenuto stabile nel tormentato periodo tra il 250 ed il 450 d. C., tutto lasciava presumere che opere più voluminose, come i grandi commentarii ad Sabinum e ad Edictum, certamente meno diffuse e riprodotte per l’elevato costo di una copia, accessibile solo a pochi ricchi studiosi, risultassero ancor meno alterate228.

Nel 1933 Arangio Ruiz pubblicava nuovi frammenti di un codice pergamenaceo di Gaio risalente alla metà del IV sec. d.C. (PSI XI, 1182). Questo codice latino di lusso con glosse greche, non solo consentiva di completare vaste lacune del manoscritto veronese nella parte sulla legis actio per iudicis arbitrive postulationem (IV, 16 - 18), ma trasformava “l’inconcludente discorso sulla società non consensuale...in una digressione sull’antico consortium familiare” 229, il consortium ercto non cito. E dunque dimostrava la soppressione di un brano nel manoscritto di Verona, di un secolo circa successivo all’esemplare egiziano, non una grave alterazione testuale, un “glossema, bensì il risultato di una mutilazione”. In definitiva, l’ 225 Già Scipione Maffei nella metà del '700 aveva pubblicato due frammenti di un foglio, che Haubold nel 1816 aveva deciso di trattare in un corso dell’Università di Lipsia. Con straordinaria tempestività lo stesso anno il Niebuhr rintracciava nella Biblioteca Capitolare di Verona in un palinsesto disordinato e riscritto nel IX sec. con il testo delle Lettere di S. Gerolamo le Istituzioni di Gaio, destinate a trasformare radicalmente lo studio del diritto romano. Cfr. Volterra, La prima edizione italiana del Gaio Veronese, BIDR, 83, , pp. 262 - 283. Dai paleografi il palinsesto veronese fu considerato orientale (Loewe, Il codice veronese di Gaio, Atti Verona, I, Milano, 1953, pp. 3 ss.), ma alcuni romanisti, trattando dei nuovi rinvenimenti egiziani, hanno considerano fuori discussione l'origine occidentale del codex veronensis (V) (Wieacker, Oströmische Gaiusexemplare, Festschrift Schulz, II, pp. 139 ss.; Arangio - Ruiz, PSI 1182. Frammenti di Gaio, Studi papirologici ed epigrafici, Napoli, , p. 58).226 Ebrard, ZSS, 45, 1925, p. 144; Cfr. Diòsdi, The importance of the P. Oxy. 2103 and the PSI 1182 for the history of classical roman legal literature, Proceedings of the XII Intern. Congr. of Papirology, Toronto, 1970, pp. 113 ss.227 Albertario, I nuovi frammenti di Gaio. Studi di diritto romano, V, Milano, 1937, p. 464 e s. Cfr. Diòsdi, op. cit., p. 114. 228 Diòsdi, op. cit., p. 118.229 Arangio Ruiz , op. cit., p. 57.

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eliminazione di un “brano di mera erudizione storica”, che in pratica finiva per confermare la sostanziale stabilità di un testo, che si presupponeva invece soggetto a vivaci trasformazioni. Dichiarava Arangio Ruiz: “il nuovo testo gaiano non prova che in V (codice di Verona) siano state fatte aggiunte postclassiche, né a sua volta ne porta”230 e successivamente soggiungeva: “E’ altamente significativo che, in un manoscritto che le numerose varianti dimostrano del tutto indipendente dalla tradizione a cui risale V, neppure uno tra i sette od otto glossemi supposti dalla critica risulti provato...Quanto meno, bisogna riconoscere che i critici di Gaio sono nati sotto cattiva stella”231.

La sostanziale genuinità del testo tra il 250 ed il 450, nei limiti della norma della tradizione manoscritta antica - che, se operava a seguito di dettatura, fatalmente introduceva errori relativi all’udito, se ricorreva alla lettura diretta, inevitabilmente tendeva a riassumere o a mutare leggermente i termini (come: velut - veluti, quod enim - nam quod, sed - autem e simili conseguenze della tecnica di copiatura non meccanica, termine per termine) - induceva pertanto gli interpolazionisti ad ipotizzare alterazioni non facilmente dimostrabili nel breve periodo compreso tra il momento di stesura dell’opera e la metà del terzo secolo, data del P. Oxy. XVII, 2103. Si supponeva in pratica un archetipo, successivamente glossato, all’origine sia delle Istituzioni tramandate dai manoscritti, che delle Res cottidianae utilizzate nel Digesto232. Non solo però occorre ammettere che a tale iniziale e vivace attività abbiano fatto seguito secoli d’inerzia, ma soprattutto che si sia verificata la totale scomparsa del testo originario e della seconda edizione, di cui non sussiste traccia concreta233; come non sussistono prove reali dell’introduzione di alterazioni testuali nel periodo del passaggio dal volumen al codex234. Non v’è dubbio che il testo delle Istituzioni sia stato ampiamente utilizzato in Occidente in età postclassica sotto forma o di un riassunto del V sec. inserito nella Lex Romana Wisigothorum o di una parafrasi, come i Fragmenta Augustodunensia del IV - V sec. d.C. In Oriente, invece, venne effettuato probabilmente un ampliamento in sette libri (Res cottidianae) dei quattro delle stesse Istituzioni. E’ merito dei papiri comunque aver dimostrato in contesti ed epoche diverse una stabilità nell’opera del pensiero di Gaio.

Naturalmente diversa e assai più affascinante è la questione relativa all’esistenza di un Urgaius, un Gaio originario che si è indotti ad ipotizzare per anomalie o attardamenti della trattazione istituzionale. Si è infatti supposto che alla base dell’opera del II sec. vi sia stato un manuale di scuola sabiniana del I sec. d.C. o addirittura appunti di lezioni di Gaio Cassio Longino, successivamente rielaborati dall’enigmatico Gaio. Attraverso i papiri, che lasciano adesso intravedere il lavorio di gestazione delle opere, tale questione potrebbe ricevere nuovo impulso.

Per altri aspetti ancora il rinvenimento del PSI XI, 1182 è degno di nota. Se per un verso sembra mostrare scarsa conoscenza del latino da parte del copista, che avrebbe dovuto evitare errori come sociaetas o publicae per publice, cedere per caedere, fratruum per fratrum e così via, per altro aspetto indica l’elevata cultura dei fruitori dell’opera, che nelle glosse interlineari hanno proposto esatte traduzioni e che solo di rado hanno riscontrato luoghi così difficili, da rendere necessario un commento235.

230 Arangio Ruiz , op. cit., p. 87.231 Arangio Ruiz, Il nuovo Gaio. Discussioni e revisioni, St. P. ed Epigr., p.111 s. 232 Wolff, Zur Geschichte des Gaiustextes, Studi Arangio Ruiz, IV, Napoli, 1953, p. 171 e pp. 192 ss.; cfr. Diòsdi, op. cit., p. 115.233 Diòsdi, op. cit., p. 115.234 Diòsdi, op. cit., p. 117 critica le valutazioni espresse da Wieacker, Oströmische Gaiusexemplare, Festschrift Schultz, II, pp. 139 ss.; Id., Vorbedingungen einer kritischen Gaius-Ausgabe, Atti Verona, I, pp. 55 ss.; Id., Textstufen klassischer Juristen, Göttingen, 1960, pp. 186 ss.235 Arangio Ruiz, op. cit., p. 103.

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Tutto ciò ha indotto l’editore ad ipotizzare che ad Alessandria sia avvenuta la realizzazione della copia e la sua utilizzazione da parte della locale scuola di diritto. Di poi dal testo originario per esigenze di insegnamento elementare sarebbero state soppresse trattazioni troppo antiquate, come il consortium e l’auctoritas nella tutela mulierum, o di secondaria importanza, come il legato di cose extra commercium, il legatum optionis e così via236.

Tra le opere dei giuristi classici trasmesse dai papiri un posto eminente ha il commento ad Edictum di Ulpiano: oltre al già ricordato P. Fayûm 10, pergamene o papiri del IV sec. d.C. (P. Ant. 22; P. Ryl. III, 474; PSI XIV, 1449), o anche del V - VI sec. (P. Berol. inv. 6757, se pur è corretta l’attribuzione ad Ulpiano e al XVI libro), tramandano importanti frammenti237. I Fragmenta Berolinensia, che si concludono con il colofone in grandi caratteri rossi De iudiciis lib. II, si riferivano forse ad un’edizione postclassica e scolastica del commentario edittale, menzionata da Giustiniano come una delle tres partes legum (Prota, De iudiciis, De rebus creditis), utilizzate nelle scuole di diritto in un formato autonomo rispetto al commentario ed impiegate dai compilatori come riferimento sistematico per le relative parti del Digesto. Infatti i frammenti di Berlino mostrano che l’opera pregiustinianea e la corrispondente parte del Digesto avevano identica struttura ed estensione238.

Il P. Ant. 22, oggetto di una recente revisione239, riguarda un punto del XII libro dell’opera ad edictum di Ulpiano, non compreso nei titolo del Digesto quod falso tutore auctore (D. XXVII, 6) e si utilizzavano abbreviazioni, il cui uso fu proibito da Giustiniano e che ancora oggi suscitano qualche difficoltà di lettura.

Problemi di maggiore entità pongono gli altri frammenti già segnalati. Il P. Ryl. III, 474 si riferisce con ogni probabilità al XXVI libro (= D. 12,1,1,1) e contiene il commento relativo alla clausola edittale de rebus creditis. Alcuni studiosi lo hanno considerato come un’antologia di brani di varii giuristi240, altri hanno ritenuto possibile riscontrare un’alterazione pregiustinianea nel frag. (b) recto, sulla base di una differenza del tutto marginale, che può essere facilmente spiegata come svista dello scriba del papiro (quia - quid)241. Il passo, non solo contiene una glossa greca esplicativa del termine adsentiri rei “come deliberazione adesiva di una parte (che credit) alla proposta dell’altra parte”, concezione alla base del credere edittale242, ma appare di grande interesse in generale per la storia del creditum e per la critica testuale, vista la conformità esistente tra il testo verosimilmente ancora genuino del papiro del IV sec. d.C. ed il brano inserito a distanza di circa duecento anni nella compilazione.

Anche il PSI XIV, 1449 si riferisce al commentario ulpianeo ad edictum e trasmettendoci un brano del XXXII libro243 (32) sembra mostrare la concessione, ipotizzata in dottrina, di una actio utilis ex lege Aquilia al padre per le lesioni subite dal figlio apprendista244. In uno scolio marginale in una parte del testo di incerta lettura sembra ammettersi l’estensione utile dell’actio legis Aquiliae per le lesioni subite da 236 Arangio Ruiz, op. cit., p. 89.237 Wolff, Zur Palingenesie und Textgeschichte von Ulpians libri ad Edictum, Iura, X, 1959, pp. 1 ss.238 Falchi, L'importanza dei papiri per lo studio della compilazione del Digesto, Atti III Sem. Rom. Gardesano, 22 - 25 ottobre 1985, Milano, 1988, pp. 513 - 518.239 Giménez Candela, Una revision de P. Ant. 22, St. D'Ors, I, Pamplona, 1987, pp. 557 - 577.240 Cfr. Albanese, Per la storia del creditum, Palermo, 1971, p. 69. 241 Albanese, op. cit., pp. 70 ss.242 Albanese, op. cit., p. 34. 243 Arangio Ruiz, Frammenti di Ulpiano, Libro 32 ad edictum, in una pergamena di provenienza egiziana, Studi Epigrafici e Papirologici, Napoli, 1974, pp.463 - 478; Id., Di nuovo sul frammento di Ulpiano in PSI. 1449 R, Studi Ep. e P., cit., pp. 591 - 604.

244 Albanese, PSI XIV, 1449 (Ulp. 32 ad edictum) e le testimonianze ulpianee già note, Studi Biondi, I, Milano, 1965, pp. 167 - 186 = Scritti giuridici, I, Palermo, 1991, pp. 387 - 406.

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un soggetto libero e filius familias e ciò rappresenta un valido indizio per un’integrazione del correlato testo in tal senso245. Nonostante le perplessità sollevate in dottrina e l’indiscutibile difformità della pergamena egiziana del IV sec. d.C. dal corrispondente passo tramandato nel Digesto246, non sembra che il commento di Ulpiano abbia subito grandi trasformazioni nella sostanza e soprattutto che dimostri che il dubbio ivi manifestato da Giuliano in merito alla concessione dell’actio ex locato per il ferimento del discipulus in disciplina non sia autentico247. E’ possibile infatti che nella parte iniziale della pergamena fosse affrontata la questione della natura ex fide bona dell’actio locati e della “presupposta accidentalità dell’evento dannoso in seguito ad un atto, in sé non eccedente la normale condotta dei maestri nei rapporti di tirocinio”, in contrapposizione al caso della nimia saevitia che avrebbe invece legittimato la concessione dell’azione, addebitandosi al maestro “un comportamento esorbitante dalla normale (e corrispondente alla bona fides su cui è fondato il rapporto di locazione) potestà di correzione nei confronti del secondo”248. Nel Digesto i commissari, in accordo ad una nota esigenza, semplificarono in sede materiae (D. 19, 2, 13, 4 ) il dubbio di Giuliano, presente nel commentario di Ulpiano e, con ogni probabilità, anche nella pergamena egiziana. In altri termini il PSI XIV, 1449 indicherebbe, come nel caso di Gaio, un’assai ridotta attività di alterazione testuale, in genere una discreta attendibilità dei papiri postclassici e soprattutto che “nel Digesto, i testi classici,...hanno subito alterazioni più formali che sostanziali”249.

Naturalmente papiri e pergamene restituiscono frammenti anche di altre opere dello stesso Ulpiano - come nel caso di un papiro di Strasburgo che contiene frustuli dei libri II e III delle Disputationes, di una pergamena di Vienna con un brano delle Institutiones, dei celebri Scholia sinaitica (ad Sabinum ll. 35 - 8) - o di altri giuristi, non sempre identificati o identificabili250.

Un posto preminente ha Paolo con i libri ad Plautium (l. VIII nel Fragmentum de Formula Fabiana del IV sec., e nel P. Berol. 11753), con i libri ad Edictum [l. 32 (= D. 17, 2, 65, 16 e 17, 2, 67, 1) in Pap Grenf. II, 107 ], e Quaestionum [l.II (D. 5, 2, 17 - 19) in P. Heidelberg inv. 1272, attribuito al VI - VII sec.]. Di particolare interesse è il 245 Albanese, op. cit., p. 391 ha proposto un'espressione del tipo: Sed et de Aquilia lege etiam utilem actionem esse vidimus. 246 D. 19, 2, 13, 4: Item Iulianus libro octagesimosexto digestorum scripsit, si sutor puero parum bene facienti forma calcei tam vehementer cervicem percusserit, ut ei oculus effunderetur, ex locato esse actionem patri eius: quamvis enim magistris levis castigatio concessa sit, tamen hunc modum non tenuisse: sed et de Aquilia supra diximus. Iniuriarum autem actionem competere Iulianus negat, quia non iniuriae faciendae causa hoc fecerit, sed praecipiendi.247 Così Albanese, op. cit., pp. 392 ss. che rivaluta l’attendibilità di D. 9, 2, 5, 3: Si magister in disciplina vulneraverit servum vel occiderit an Aquilia teneatur quasi damnum iniuria dederit ? Et Iulianus scribit Aquilia teneri eum, qui eluscaverit discipulum in disciplina. Multo magis igitur in occiso idem erit dicendum. Proponitur autem apud eum species talis: sutor, inquit, puero discenti ingenuo filio familias, parum bene facienti quod demonstraverit, forma calcei cervicem percussit, ut oculus puero perfunderetur. Dicit igitur Iulianus iniuriarum quidem actionem non competere, quia, non faciendae iniuriae causa percusserit, sed monendi et docendi gratia: an ex locato dubitat, quia <levis dumtaxat> castigatio concessa est docenti. Sed lege Aquilia agi posse non dubito. Diversamente Arangio Ruiz, Frammenti, cit., pp. 147 ss.; Wolff, Zur Palingenesie und Textgeschichte von Ulpians libri ad edictum, Iura, X, 1959, pp. 1 ss. Una rassegna delle diverse opinioni in Ginesta Amargós, La responsabilidad del maestro zapatero por las lesiones causadas a sus discipulos , RIDA, 39, 1992, pp. 127 - 166. Cfr. anche Schipani, Responsabilità ex lege Aquilia. Criteri d'imputazione e problema della colpa, Torino, 1969, pp. 287 ss.; Thomas, The case of the apprentice's eye: An aquilian couplet, St. Biondi, II, pp. 174 ss. Sulle modalità ipotizzabili per l’infortunio v. Schubert, Der Schlag des Schusters, ZSS, 92, 1976, pp. 267 - 269. 248 Albanese, op. cit., p. 393.249Albanese, op. cit., p. 406. 250 Cfr. gli Auctores incerti elencati da Sierl, Supplementum, cit., nn. LVII - LXI.

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cd. Paolo di Leida (Cod. Leid B.P.L. 2589), pergamena che riporta testi riscontrabili nelle Sententiae (V, 28 - 29), relativi ad utili notizie su crimen repetundarum e maiestatis. Nel confronto tra il testo delle Sententiae trasmesso nel Breviarium Alaricianum ed i frammenti di Leida della fine del III o inizi del IV sec. d.C. si può rilevare, oltre ad una sensibile riduzione nel Breviario nel VI sec., una modesta difformità sostanziale nelle parti comuni dei due testi. E ciò appare un dato assai significativo in rapporto alle condizioni dei testi postclassici.

A Papiniano infine vanno attribuiti i celebri frammenti di Berlino (P. Berol. inv. 6762 + 6763 con il V libro dei Responsa, ascritto al V - VI sec. d.C.) e di Parigi (P. Louvre inv. E 7153 con il IX libro della medesima opera, assegnato al IV - V sec. d. C.). In calce ai Responsa di Papiniano sono riferite le annotazioni di Paolo ed Ulpiano nella versione parigina, forse anche di Marciano nella copia berlinese251. A quest’opera probabilmente alludeva Giustiniano nella const. Deo Auctore 6, consentendo ai commissari il superamento del divieto di utilizzazione formulato da Costantino [C. Th. I, 4, 1 (321)], in omaggio a Papiniano e all’esistenza di un diritto non controverso. L’opera, che certamente era stata utilizzata a lungo, nonostante il divieto, che determinava effetti giudiziari, più che editoriali, può essere confrontata con i testi utilizzati dai commissari. Anche se si è supposto che la proibizione di Costantino avesse provocato una nuova edizione della fine del IV sec., nella quale lentamente si sarebbero introdotte le notae, testimoniate già nei frammenti di Berlino e di Parigi252 e dunque determinato il rinnovo del divieto da parte di Valentiniano III [C. Th. I, 4, 3 (426)] e Teodosio II [C. Th. I, 4 (438)], si constata che non v’è prova dell’esistenza dell’ipotizzato corpus Papiniani postcostantiniano senza notae253 e dunque i frammenti berlinesi e parigini, che incerto stabilire se provengano da un medesimo codice254, appaiono utili ad illustrare i rapporti tra una versione pregiustinianea in genere ed una giustinianea dell’opera255. Si rileva il prevalente impiego da parte dei compilatori del Digesto di brani originariamente senza note ritenuti espressione di un diritto non controverso, apprezzato da Giustiniano. Quando ciò non accadde, i commissari non tenendo più conto dell’antico divieto, conservarono solo una delle opinioni in contrasto: talvolta risolvendo il caso in favore del commento, talvolta in favore di Papiniano256, ma l’esiguità del confronto tra frammenti pergamenacei e testi del Digesto, attinente a solo sette casi non sembra autorizzare conclusioni particolarmente significative.

All’opera Definitiones di Papiniano rinvia un commento sulla stipulatio aquiliana del 430 - 460 d.C., forse proveniente dalla scuola di Alessandria e contenuto in un frammento pergamenaceo della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze257. La reiterata citazione in lingua greca di Paolo nel frammento, unico autore con il quale il commentatore intende stabilire dei paralleli, ha indotto addirittura ad ipotizzare che siano esistite delle note di Paolo ai libri Definitionum di Papiniano, per altro verso ignote258. 251 Alibrandi, Sopra alcuni frammenti di scritti di antichi giureconsulti romani, St. e doc. di St. e dir., I, 1980, pp. 39 ss.; 169 ss.(= Opere giuridiche, Roma, 1896, pp. 353 ss.). 252 Wieacker, Textstufen klassisher juristen, Göttingen, 1960, p. 340 ss. 253 D’Ors, SDHI, 1960, p.375.254 Santalucia, Le note pauline ed ulpianee alle Quaestiones ed ai Responsa di Papiniano, BIDR, 68, 1965, p.131. 255 Falchi, L'importanza dei papiri, cit., pp. 507 - 510, che sorprendentemente non solo trascura l'ipotesi di Wieacker, ma anche un papiro fondamentale per la sua indagine, come il P. Ryl. III, 479, un frammento del Digesto. Altri rilievi in Migliardi Zingale, In margine ad un recente contributo romanistico in materia papirologica, Iura, 38, 1987 (pubbl.1990), pp. 165 - 167. 256 Falchi, op. cit., p. 510. 257 Bartoletti Colombo, Prime notizie su un nuovo frammento giuridico, Firenze, 1971. 258 Bartoletti Colombo, op. cit., p. 13.

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Questa sommaria rassegna di papiri e pergamene attinenti ad opere della giurisprudenza non può concludersi senza una menzione infine del PSI XIII, 1348, che conteneva almeno diciannove brani volti ad illustrare nel IV - V sec. d. C., con un’edizione di lusso, probabilmente una memoria di difesa o un parere con la citazione prevalentemente di Ulpiano, ad Sabinum, ma anche di altri giuristi, sovente non determinati259. Non solo i cinque della legge delle citazioni, ma anche Giavoleno, che avrebbe potuto essere menzionato comunque indirettamente. L’opera in questione, non contenente scolii apó phõnes, in pratica appunti di lezioni di un maestro260 - dunque diversa dagli Scholia sinaitica, contraddistinti dai singoli termini del testo commentato - appare in qualche modo accostabile alla Consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti. Essa avrebbe costituito una sorta di raccolta di definizioni “anticipante a qualche modo, ma senza che si possa stabilire il minimo legame, il titolo” del Digesto 50, 16 (de verborum significatione)261.

259 Segrè, Tre papiri giuridici inediti, St. Bonfante, 3, Roma, 1930, pp. 421 - 8; Scheltema, , TR, 17, 1940, pp. 423; Schulz, A collection of roman legal maxims on papyrus, JRS, 31, 1941, pp. 63 - 69; Arangio Ruiz, Frammenti di giurisprudenza bizantina (PSI. 1348 - 1350), Studi P. ed epigr., pp. 390 - 403.260 Schulz, op. cit., p. 69, non condivide l'ipotesi di Segrè, che si trattasse cioè di scolii sotto dettatura, in quanto non contraddistinti da termini del testo commentato e numerati progressivamente. Sulle varie forme d’insegnamento nelle scuole bizantine cfr. tuttavia Scheltema, L’enseignement de droit des antécesseurs, Leiden, 1970.261 Così secondo Arangio - Ruiz, op. cit., p. 391.

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4 - I papiri e le codificazioni postclassicheSul finire dell’età classica il passaggio dalla concezione giurisprudenziale del

diritto alla nuova visione autoritaria e gerarchica del fenomeno giuridico determinò la comparsa di raccolte organiche di disposizioni, di codices, denominati in tal modo in ossequio al nuovo modello librario, ma anche perchè traevano origine da raccolte pratiche di disposizioni ed atti giudiziari di operatori del diritto, che originariamente avevano già quella veste perchè, come si è già detto erano di più facile consultazione e suscettibili di eventuali modifiche. Nell’ Egitto romano pare che tali opere pratiche circolassero con una relativa diffusione, dato che diversi esemplari, in forma però di volumina, sono giunti in frammmenti fino a noi262. Questi residui di raccolte di precedenti, di disposizioni eterogenee, talvolta riunite in base a criteri cronologici, gerarchici o sistematici e redatte sia da privati che da funzionari, venivano incontro alla radicata concezione romana dell’exemplum e non dovevano essere caratteristiche soltanto del territorio egiziano, ma diffuse per la loro praticità in tutto l’impero. Anche raccolte di archivi pubblici e privati che si riferivano a disposizioni, precedenti, sentenze o responsa furono alla base delle collezioni dei primi codici, ove si cominciava pian piano a distinguere in base alla tipologia delle fonti utilizzate, o per temi ed argomenti affini, o secondo un ordine cronologico.

Alla fine dell’età classica probabilmente circolava già in Egitto una raccolta delle costituzioni di Settimio Severo, Caracalla e successori263 ed il P. Col. 123 sembra riferirsi ad una fase preparatoria di raccolta di costituzioni imperiali, in vista di un’opportuna selezione da tre diversi elenchi di interlocutiones de plano264. Anche il celebre P. Giessen 40 contiene, oltre all’editto della concessione della cittadinanza ai provinciali del 212 d.C., una raccolta di costituzioni imperiali, redatta nel secondo quarto del III sec. d.C. ed è possibile ritenere che sia BGU II, 611, che 628, contemplassero varie disposizioni tramandate in una forma abbastanza estesa265. I frustuli in questione, importanti anche per il problema della massimazione dei testi delle costituzioni imperiali, sembrano comunque indicare che, pur non sussistendo la reverenza verso il tenore letterale dell’atto normativo tipica della concezione autoritaria del diritto, assai presto si giunse al pieno rispetto del dettato dell’imperatore nel ricavare la massima giuridica.

Oltre che dalle registrazioni negli archivi ufficiali, la formazione dei primi codici fu influenzata dalle raccolte private degli operatori di diritto. E certamente un notevole progresso fu conseguito col superamento del criterio cronologico dei registri e coll’introduzione della partizione per materia. Alle collezioni pratico-giudiziarie, testimoniate in petizioni e verbali processuali, come la famosa petitio Dionysiae del 186 (P. Oxy. II, 237) o P. Tebt. II, 286 del 121 - 138, ove parte di un rescritto di Adriano influenzò la sorte di tre successivi processi, si affiancarono raccolte didattico scientifiche, come il P. Strass. 22 o il P. Cattaui r, ove precedenti eterogenei dal 114 al 142 d.C. sviluppavano con intenti teorico didattici le implicazioni dell’invalidità del matrimonio dei militari.

Le prime raccolte di precedenti furono fonti di cognizione volte a mostrare la continuità nell’applicazione di un determinato comportamento, piuttosto che fonti di

262 Katzoff, Sources of law in roman Egypt, ANRW, II, 13, pp. 833 - 844; Id., Precedents in the courts of roman Egypt, ZSS, 89, 1972, pp. 256 - 292. 263 Wolff, TR, 42, 1974, p. 127; Modrzejewski, APF, 34,1988, p. 87.264 Katzoff, On the intended use of P. Col. 123, Proc. XVI Intern. Congr. P., Chico, 1981, pp. 559 ss. 265 Purpura, Dalle raccolte di precedenti alle prime codificazioni postclassiche: alcune testimonianze papiracee, AUPA, 42, 1992, p. 684.

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produzione del diritto266. Se inizialmente materiali assai eterogenei potevano essere raccolti su di un livello di parità, ben presto il fenomeno della generalizzazione del rescritto, risposta specifica imperiale che finì per applicarsi ai casi analoghi, contribuì a confermare la forza del precedente, soprattutto se riferito all’imperatore.

In base all’esame di queste raccolte non sembra che in Egitto vi sia stato alcun obbligo, almeno inizialmente, di attenersi al giudicato di un giudice gerarchicamente superiore e l’inesistenza del concetto di fonte del diritto e di un ordine gerarchico determinava la possibilità di citare indifferentemente precedenti di corti giudiziarie di più basso rango, con una tendenza a collegare materiali vari, anche con citazioni non di prima mano, allo scopo di indicare la continuità di una disposizione o la sua protratta applicazione pratica, accordando la preferenza alla più recente prassi.

Nello stesso tempo in cui circolavano raccolte di tal genere realizzate per l’esigenza di agevolare i giudizi e favorire il rapido reperimento della regola costante nel tempo da seguire, la crescente autorità delle costituzioni imperiali, che godevano di certezza e stabilità, favorì gradualmente la formazione di collezioni di costituzioni realizzate da studiosi e pratici e coadiuvate da registrazioni, più o meno ufficiali, più o meno massimate, degli archivi pubblici e privati. Come le più antiche raccolte di precedenti in volumina, i primi codici proponevano all’interprete la più recente e stabile regola inserita tra materiali di non eguale valore. Ben presto però il venir meno della libertà insita nel sistema giurisprudenziale condusse alla determinazione di criteri automatici per il reperimento della regola da applicare al caso concreto, alla determinazione di un ordine gerarchico delle fonti del diritto, all’aspirazione ad un codice di tutte le leggi generali dell’impero. La pretesa da parte dell’ordine legislativo ad una solennità sacrale troverà nel codice, monumento del passato ed al tempo stesso astratta opera dottrinale, il simbolo dell’autorità divina ed umana, che condurrà ad una accettazione totale del testo.

Finora i papiri non hanno consentito di svelare che pochi dei numerosi problemi collegati alla storia delle raccolte di costituzioni imperiali. A prescindere da più antiche vicende, ben poco si conosce del Codex Gregorianus, compilazione privata di età dioclezianea, e della collezione semiufficiale realizzata forse successivamente da Ermogeniano, giurista e magister libellorum267. Ma i papiri potrebbero anche contribuire a risolvere la questione relativa alle revisioni di questi codici con le aggiunte delle ultime costituzioni di Diocleziano (295 - 301), di Costantino e Licinio (314 - 323), di Valentiniano e Valente (364 - 5)268, come anche il problema della possibile esistenza di una versione orientale del Codice teodosiano non del tutto conforme all’occidentale e quella di una successiva revisione, ipotizzata anche sulla base del fatto che in età giustinianea Giovanni Lido sembra menzionare un antico e nuovo teodosiano269.

Il P. Oxy. XV, 1813, che contiene un brano del Codice teodosiano (VII, 8, 9 - 14) anteriore al VI sec., di provenienza egiziana e dunque orientale, consente di confutare l’affermazione che questo codice sia noto unicamente attraverso una

266 Katzoff, Precedents, cit. p. 291; Purpura, Dalle raccolte di precedenti, cit., pp. 675 - 693; Vincenti, Il valore dei precedenti giudiziali nella compilazione giustinianea, Padova, 1992, pp. 57 - 76. 267 Liebs, Hermogenians Iuris Epitomae, Göttingen, 1964, pp. 23 ss. sottolinea l'inferiorità del Codex Hermogenianus e lo ritiene raccolta precoce senza una vera sistemazione delle costituzioni, che avrebbe avuto lo scopo di far conoscere ai giudici inferiori la prassi interpretativa del tribunale imperiale, piuttosto che l'obiettivo di completare il Codice Gregoriano, come ancora invece ritiene Cenderelli, Ricerche sul Codex Hermogenianus, Milano, 1965, che aderisce all'opinione tradizionale che nega a questi primi codici un carattere più o meno ufficiale.268 Purpura, op. cit., p. 677.269 Falchi, Sulla codificazione del diritto romano nel V e VI sec., Roma, 1989, p. 231; Id., La duplicità della tradizione del Codice teodosiano, Labeo, 32, 1986, p. 283.

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tradizione completamente occidentale270. Proprio in ciò risiede l’importanza del papiro, paradossalmente trascurato forse per la contiguità con il celebre indice del primo Codice di Giustiniano (P. Oxy. XV, 1814). Altra ragione dello scarso interesse destato in dottrina risiede nel fatto che la versione egiziana presenta una pressocchè perfetta conformità al testo di tradizione occidentale ricostruibile soprattutto sulla base del manoscritto parigino (Paris. Lat. 9643) contenente i libri VI - VIII, piuttosto che sulla base della Lex romana Wisigothorum, che del VII libro tramandava solo una costituzione del titolo primo271. Anche se si tratta finora di un documento isolato, esso non depone certamente in favore della presunta difformità tra la tradizione occidentale del Codice teodosiano, rispetto alla versione orientale.

In occasione della ricorrenza del centenario del progetto di Teodosio venne portato a compimento nell’aprile del 529 il primo Codice di Giustiniano. Si realizzava così nel segno della continuità il proposito non pienamente raggiunto nel 429 ell’eliminazione delle costituzioni abrogate o superflue, della fusione delle precedenti raccolte, del riordinamento sistematico delle leggi, anche anteriori a Costantino o di efficacia originariamente speciale, ma ormai ritenute di generale validità272. Ben presto però, in seguito al compimento del Digesto, fu opportuno procedere ad una revisione del Novus Codex Iustinianus che determinò la rapida scomparsa di esso e la sostituzione con il Codex repetitae praelectionis.

Se dunque ben poco era destinato a sopravvivere per questa ragione del primo Codice, il secondo giungerà a noi attraverso una non cospicua tradizione manoscritta ed un papiro, il PSI XIII, 1347 che contiene tre costituzioni del libro VII (16, 41 - 42 e 17, 1) del Codex repetitae praelectionis e non parte del Novus Codex, come in un primo momento si era creduto a causa del non corretto accostamento di due frammenti273.

Una parte del primo Codice invece è contenuto nel P. Reinach Inv. 2219. Lo dimostra l’assenza di una costituzione giustinianea in lingua greca [C. XII, 60 (61), 7], che, se manca anche nei manoscritti occidentali del secondo Codice, avrebbe però dovuto essere presente in un papiro relativo alla seconda redazione del Codex proveniente dall’Egitto274. La copia in questione è dunque relativa alla parte finale del primo Codice e può essere ascritta ad un arco di tempo piuttosto ristretto, compreso tra il 529 ed il 534. La presenza di abbreviazioni e di qualche errore ( ad es.: l. 1: specta]vilium, per spectabilium; l. 2: Phonesse[s, per Phoenices; l. 3: Nentapo[leos, per Pentapoleos) sembra indicare che non doveva trattarsi di una copia libraria di elevata qualità. La subscriptio di C. XII, 62 (63), 3, mancante nel secondo Codice e presente nel papiro, consente di assegnare la costituzione in questione al 287 d.C.275. Purtroppo per le altre parti in questo caso confrontabili i due codici non sembrano presentare le notevoli divergenze che pur dovevano riscontrarsi tra la versione più antica e la più recente del Codice di Giustiniano.

Ciò è evidente nel P. Oxy. XV, 1814, che contiene l’indice del primo Codice con abbreviazioni vietate nei testi giuridici ufficiali da Giustiniano dopo la realizzazione del primo Codice. Ivi si riscontra non solo la presenza ancora del brano dell’oratio Valentiniani ad senatum del 426, noto come legge delle citazioni, nel titolo de auctoritate iuris prudentium, ma anche l’esistenza di “divergenze notevoli nella

270 Falchi, Sulla duplicità della tradizione del Codice teodosiano, cit., p. 286.271 L’unica variante testuale di rilievo che è possibile riscontrare (P. Oxy. XV, 1813, l. 15: ad vela, invece di ad bella in C. Th. VII, 8, 13 ) deriva chiaramente da un errore del copista, che si riscontra anche nel manoscritto parigino e rivela per questa svista una discendenza comune.272 Falchi, Sulla codificazione, cit., pp. 68 ss. e pp. 231 ss. 273 Migliardi Zingale, Le costituzioni giustinianee nei papiri, Milano, 1985, p. 12 e pp. 27 ss. 274 Migliardi Zingale, op. cit., pp. 24 - 6.275 Migliardi Zingale, op. cit., p. 28.

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sistematica e negli orientamenti”276. Sembra in sostanza trovare conferma l’impressione di una prima raccolta di costituzioni operata nel solco di una tradizione teodosiana, successivamente abbandonata con la compilazione del secondo Codice.

Già la prima rubrica de paganis sacrificiis et templis, identica nel secondo Codice (C. I, 11), conteneva una costituzione forse di Costantino successivamente soppressa e non presentava la costituzione greca conclusiva del titolo che, priva di data, può essere adesso ascritta ad un momento successivo al primo Codice. La posizione della rubrica rivela che in rapporto alla materia ecclesiastica, che nel Codice teodosiano è posta alla fine (l. XVI), Giustiniano aveva già assunto un atteggiamento divergente da Teodosio, anche se ancora non del tutto definito. Infatti mentre nel secondo Codice la materia ecclesiastica venne ulteriormente sviluppata in due titoli successivi ( C. I, 12: de his qui ad ecclesias confugiunt vel ibi exclamant e 13: de iis qui in ecclesiis manumittuntur), queste due rubriche con le relative costituzioni nel papiro mancavano, essendo probabilmente ancora trattate come nel C.Th. (IX, 45 e IV, 7) in altro luogo. Nel primo Codice dunque, dopo aver posto in risalto con significativa modifica sistematica che la materia teologico-ecclesiastica era al vertice di tutta l’organizzazione e dell’intera normazione dell’impero, si passava immediatamente a trattare (I, 12 = C. I, 14) de legibus et constitutionibus principum et edictis. Anche in questo titolo mancava l’ultima costituzione, pubblicata dopo l’entrata in vigore del primo Codice (C. I, 14, 12 del 30 ottobre 529) e ciò bene rivela l’opera di completamento da parte dei nuovi commissari con le costituzioni più recenti. La gerarchia delle fonti del diritto fissata per la prima volta nel Teodosiano risultava già modificata: dopo il titolo sugli editti mancava quello sui rescritti e dopo de mandatis principum appariva con tendenza classicheggiante il titolo de senatus consultis.

Il contributo più significativo del papiro risalente al breve periodo compreso tra il 529 ed il 534 concerne la rubrica [de auctoritate] iuris [prudentium] che, se dimostra un interesse non più accentrato sul complesso delle opere canonizzato dalla legge delle citazioni (de responsis prudentum in C. Th. I, 4), ma direttamente sul prestigio degli autori di diritto277, indica al contempo la persistenza dell’atteggiamento teodosiano da tenere di fronte alla giurisprudenza classica a causa del mantenimento dell’antico regolamento della recitatio dei iura. L’ignota costituzione inserita poi in questo titolo del papiro (l. 46) dopo la legge delle citazioni e indirizzata da Giustiniano al prefetto del pretorio Mena potrebbe essere stata in realtà un paragrafo della Summa rei publicae278

nel quale Giustiniano dichiarava che per la soluzione di qualsiasi controversia sarebbe ormai apparsa sufficiente la lettura delle costituzioni del Codice appena realizzato, con l’aggiunta in posizione subordinata degli scritti degli antichi giuristi (par. 3: “l’opinione del giurista varrà solo quando non contrasti con le costituzioni del nostro Codice”). Alcuni studiosi hanno sostenuto che possa essersi trattato di una costituzione relativa ai conflitti di opinioni nelle opere dei giuristi che già da allora l’imperatore si riservava di risolvere, precorrendo la linea seguita con le Quinquaginta decisiones, e altri invece hanno creduto possa essersi trattato di un testo in qualche modo preparatorio rispetto alla compilazione del Digesto, espresso con la Deo auctore279.

276 Migliardi Zingale, op. cit., pp. 17 - 23.277 Archi, Giustiniano legislatore, Bologna, 1970, pp. 80 s s.; Falchi, Sulla codificazione, cit., p. 107.278 Anche nel C. Th. (I,1) fu inserita nel titolo de constitutionibus principum et edictis parte del primo progetto e la successiva costituzione del 435. Nel Codex repetitae praelectionis nel medesimo titolo sulla disciplina delle opere dei giuristi classici saranno inserite la Deo auctore e la Tanta. Non è dunque affatto improbabile ed in contrasto con la prassi dell’epoca l’inserimento di parte della costituzione di promulgazione dell’intero codice in un titolo pertinente allo specifico punto trattato. 279 De Francisci, Frammento di un Indice del primo Codice di Giustiniano , Aegyptus, 3, 1922, p.74; Bonfante, Un papiro di Ossirinco e le Quinquaginta decisiones, BIDR, 32, 1922, pp. 280 ss.; Falchi,

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Ma in assenza di alcuna prova in tal senso, è più probabile pensare che si sia trattato della disciplina della recitatio dei iura prevista nella Summa rei publicae. Si sarebbe allora perseguito con coerenza l’indirizzo già tracciato da Teodosio II e Valentiniano III, senza ancora aspirare al grandioso progetto del Digesto.

La stessa opera Quinquaginta decisiones, che indubbiamente tendeva a superare il criterio meccanico del c.d. tribunale dei morti, con la ricerca di una soluzione diversa al problema del ius controversum basata sulla sanzione dell’autorità imperiale (decisio), quasi a fingere esistente un’immaginaria controversia tra giuristi classici dinanzi al tribunale imperiale di Giustiniano, si poneva nel solco di quella tradizione. Dopo la rapida realizzazione del Digesto, il titolo de auctoritate iuris prudentium diverrà nel Codex repetitae praelectionis de veteri iure enucleando et auctoritate iuris prudentium qui in Digestis referuntur e conterrà le costituzioni Deo auctore e Tanta. L’abolizione della legge delle citazioni forse rientrava in un progetto d’intervento sui iura già non più procrastinabile al tempo della pubblicazione del primo Codice, ma il superamento della linea di politica legislativa risalente a Teodosio II ed il sollecito compimento del Digesto rientrano in eventi successivi, forse inattesi, che assai difficilmente i papiri riusciranno a chiarire in modo definitivo.

Osservazioni sulle L Decisiones di Giustiniano, St. Biscardi, 5, Milano, 1984, pp. 121 ss.; Id., Sulle codificazioni romane del diritto dei secoli V e VI, pp. 104 e s.; Scheltema, Les Quinquaginta Decisiones, Subseciva Groningana, I, 1984, pp.1 - 9.

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5 - I papiri e il Digesto

Il potenziale contributo dei rinvenimenti papiracei alla conoscenza del Digesto pare possa esplicarsi prevalentemente in tre direzioni: in funzione della genesi del progetto giustinianeo e della determinazione delle opere precedenti la compilazione; in funzione di un migliore accertamento del testo originario e dei metodi seguiti nella realizzazione nel breve lasso di tempo dal 530 al 533 d.C.; in rapporto al successivo studio, commento e rielaborazione del medesimo. Le questioni indicate, relative alla valutazione dell’opera giustinianea, delle interpolazioni pregiustinianee, dell’attività dei maestri delle Scuole d’Oriente, dell’esistenza di uno o più Predigesti, addirittura della formazione, studio e commento del testo, sono chiaramente sproporzionate in rapporto ai non numerosi frustuli papiracei o pergamenacei pervenuti sino a noi, che necessiterebbero di letture sicure e datazioni precise, nella maggior parte dei casi non raggiungibili.

Il primo problema sollevato è forse il più interessante, ma assai difficilmente potrà essere chiarito da rinvenimenti, tanto agognati, quanto improbabili: all’atto della pubblicazione della Summa rei publicae nel 529 Giustiniano dichiarava, come abbiamo visto, che per la soluzione di qualsiasi controversia appariva sufficiente la lettura delle costituzioni del Codice appena realizzato, con l’aggiunta degli scritti degli antichi giuristi in posizione subordinata (§. 3), seguendo all’apparenza l’indirizzo già tracciato da Teodosio II e Valentiniano III. Il P. Oxy. XV, 1814 ha mostrato appunto l’esistenza nel primo Codice di Giustiniano della c.d. legge delle citazioni, ma ha indicato anche la presenza, nello stesso titolo del primo Codice regolante l’uso dei iura, di una costituzione rivolta al prefetto del pretorio Mena che potrebbe essere stata proprio la parte della Summa rei publicae nella quale si accennava ai veteris iuris interpretatores280 e dunque l’atteggiamento di Giustiniano nei confronti dei iura all’atto della pubblicazione del primo Codice apparirebbe essere ancora incanalato nell’alveo tracciato da Teodosio II.

Quale allora fu l’intento delle Quinquaginta decisiones ? Quello di concorrere alla preparazione del Digesto, risolvendo preventivamente ed autoritativamente alcune controversie riscontrabili nelle opere della giurisprudenza, svolgendo cioè un’attività che avrebbe finito per agevolare i lavori della commissione successivamente preposta alla compilazione del Digesto281?

280 L’obiezione avanzata da De Francisci, l.c. e riproposta da Falchi, l.c., che Giustiniano mai avrebbe incluso nel Codice le costituzioni che ne ordinavano la compilazione o la promulgazione, non appare certo insuperabile alla luce del fatto che proprio nel titolo corrispondente del secondo Codice le costituzioni che ordinavano la compilazione del Digesto (Deo auctore) e la pubblicazione (Tanta), sostituirono la c.d. Legge delle citazioni e la misteriosa costituzione indirizzata a Mena. 281 Per Rotondi, Studi sulle fonti del Codice giustinianeo, BIDR, 26, 1914 (= Scritti giuridici, I, Milano, 1922, pp. 226 ss.) le Quinquaginta decisiones sarebbero state emanate, prima dell’avvio ufficiale dei lavori indicato nella Deo Auctore per il 15 dicembre 530, in un arco di tempo compreso tra il 1 agosto ed il 17 novembre del 530. Le costituzioni ad commodum propositi operis pertinentes, associate nel 534 alle Quinquaginta decisiones nella costituzione di pubblicazione del secondo Codice di Giustiniano (Cordi § 1: Postea (dopo la redazione del primo Codice) vero, cum vetus ius considerandum recepimus, tam quinquaginta decisiones fecimus quam alias ad commodum propositi operis pertinentes plurimas constitutiones promulgavimus), sarebbero state leggi emanate su sollecitazione dei commissari del Digesto a partire dal 15 dicembre 530 per favorire l’avanzamento dei lavori. Nel momento della revisione delle costituzioni per la pubblicazione del secondo Codice i due distinti gruppi di leggi sarebbero stati presi in distinta considerazione, ma se la funzione fosse stata la stessa non si comprende la ragione di una separazione ancora nel 534.

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O piuttosto le Quinquaginta decisiones ebbero lo scopo di perseguire un progetto transitorio che nelle more della compilazione anticipasse legislativamente per le necessità della pratica giuridica alcune scelte d’intervento sulle principali controversie del vetus ius282? Si è allora sostenuta la prosecuzione nell’emissione di costituzioni riferibili alle Quinquaginta decisiones anche dopo l’ordine impartito il 15 dicembre 530 per la realizzazione del Digesto - almeno sino al 1 settembre 531283 - ma in questo caso appare non facilmente giustificabile né la durata dell’opera284, né del tutto chiara la funzione delle constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes: forse sarebbe stata limitata a sanare in maniera autoritaria i contrasti insorti tra i commissari nel corso dei lavori.

Infine, escludendo aprioristici ed unitari progetti compilatorî di Giustiniano o dei suoi collaboratori, le Quinquaginta Decisiones avrebbero potuto mirare ad un’attività nettamente divergente dalla sistematica raccolta delle opere della giurisprudenza; alla realizzazione di un’opera alternativa al Digesto ed in sintonia con la linea teodosiana di conversione dei iura in leges sotto il controllo imperiale. Quest’ipotesi, che porrebbe l’opera in linea con il progetto di una progressiva sostituzione della diretta decisione imperiale al criterio automatico per l’utilizzazione degli scritti classici previsto dalla legge delle citazioni, indurrebbe ad ipotizzare un evento imprevisto che ne avrebbe determinato l’abbandono285, una circostanza che avrebbe fatto intravedere l’insperata possibilità della realizzazione dell’impresa radicale del Digesto: la scoperta negli archivi imperiali di una schedatura dei iura, già articolata nelle masse di opere che si riscontrano all’interno dei titoli delle Pandette286. Qualche studioso ritiene, sulla base dell’Index florentinus, allegato alla Littera conservata a Firenze, che sarebbe stata ritrovata un’intera biblioteca di età costantiniana che avrebbe reso possibile l’opera di compilazione287. Si verrebbero così a spiegare diversi dubbi che hanno travagliato la dottrina, come l’apparente perseguimento ed il successivo abbandono di un progetto come quello delle Quinquaginta decisiones; le incertezze iniziali e la rapidità di realizzazione del Digesto; il “fantasma” di uno o più Predigesti, sempre inseguiti, ma mai identificati; la straordinaria “biblioteca” di Triboniano, unitamente alle sue insolite capacità; l’improvviso intensificarsi dal 529 della citazione di opere dei giuristi nelle costituzioni imperiali; il frequente riferimento alla scoperta di opere dei giuristi

282 Russo Ruggeri, Studi sulle Quinquaginta decisiones, Milano, 1999, pp. 112 ss.283 V’è chi ritiene che la Glossa torinese alle Istituzioni (3, 1, 2, glossa adoptivi) di Giustiniano espressamente riconduca C. 8, 47(48), 10 del 10 settembre 531 alle Quinquaginta decisiones (…sicut in libro L constitutionum invenies). Anche C. 6, 30, 20; 21 e 6, 27, 5 del 30 aprile 531sono state attribuite alle Quinquaginta decisiones. Cfr. Russo Ruggieri, op. cit., pp. 20 ss.284 Poco più di un’anno sarebbe stato necessario per realizzare la raccolta delle costituzioni (Novus Codex Iustinianus) ed uno spazio di tempo almeno analogo per individuare cinquanta casi controversi nelle opere classiche da proporre alla attenzione imperiale.285 E’ evidente che in questo caso le decisiones posteriori all’ordine di realizzazione del Digesto, se appartenenti effettivamente alle Quinquaginta decisiones, dovrebbero essere interpretate come il frutto di una conversione del progetto originario, questa volta effettivamente come disposizioni transitorie. 286 L’ipotesi della scoperta di una schedatura dei iura, realizzata dai commissari di Teodosio II in occasione del primo progetto teodosiano (429 - 435 d.C.), è stata avanzata da Cenderelli, Digesto e Predigesti. Riflessioni ed ipotesi di ricerca, Milano, 1983, e ha dato luogo ad un dibattito (v. Guarino, Labeo, 29, 1983, pp. 353 e s.; Id., Lo spettro dei Predigesti, Iusculum iuris, Napoli, 1985). Mantovani, Digesto e masse blumiane, Milano, 1987 ha sottoposto a verifica la celebre ipotesi di compilazione formulata da Bluhme, riscontrandola nel complesso attendibile. Per altre ipotesi sulla genesi del Digesto v. Falchi, Sulla codificazione, cit., pp. 121 ss. e 145 ss; Pugsley, Some riflections on the compilation of Justinian's Digest, Irish Jurist, 1984, pp. 350 - 359.287 Pugsley, On Compiling Justinian’s Digest (3): ‘The Florentine Index’, The Journal of Legal History, 14, 2, 1993, pp. 94 - 105.

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classici da parte di Giustiniano e infine la stessa struttura ed anomalia dell’Index florentinus288.

Anche se non sembra che queste suggestive ipotesi possano trovare mai conferme documentali, esse sono certamente utili per porre in risalto l’importanza di rinvenimenti relativi a questo periodo e valgono bene ad indicare quanto le nostre conoscenze di questioni importanti, come la genesi della Compilazione, siano in realtà incomplete, talvolta apparentemente contraddittorie, ed in definitiva fortemente dipendenti dalle condizioni della tradizione testuale ed influenzate dall’acquisizione e dall’interpretazione di nuovi dati.

La tradizione del testo del Digesto è essenzialmente basata sulla Littera Florentina, novecentosette fogli pergamenacei vergati in onciale B-R, scrittura caratteristica non soltanto di Costantinopoli, come un tempo si credeva, ma anche di testi giuridico letterari prodotti in Egitto ed in Occidente. Sembra che un attento studio della fascicolazione del codice in rapporto al contenuto delle partes e quindi al curriculum di studi del diritto rispettato sino al 557 induca a datare la realizzazione del manoscritto tra il 533 ed il 557289. Si tratta dunque di una eccellente copia pressocchè coeva alla promulgazione, anche se non si è del tutto certi che sia proprio un esemplare “ufficiale”, proveniente dalla capitale dell’Impero290. Alcune note in scrittura beneventana del IX - XI sec. a margine del testo sembrano avallare la credenza, non suffragata da ulteriori prove, che il manoscritto sia stato portato da Amalfi a Pisa dopo il 1135 - 7, prima di giungere quale ulteriore preda bellica a Firenze nel 1406291. Anche se in base alle più recenti indagini, si propende a credere che il codice fiorentino delle Pandette si trovasse già fin dalla tarda antichità in Italia, a Napoli o a Ravenna292, l’origine orientale del manoscritto resta, fino a prova contraria, ancora la più plausibile, soprattutto a causa della precocità della sua redazione e del collegamento con un centro di studi, che difficilmente avrebbe potuto essere diverso da Costantinopoli293.

288 Secondo Pugsley, On Compiling Justinian’s Digest II: Plans and Interruptions, The Journal of Legal History, 13, 3, 1992, p. 226 l'Appendice, non rifusa successivamente nelle masse, sarebbe ascrivibile alle conseguenze della rivolta di Nika, che avrebbe determinato un'interruzione nell'opera di compilazione ed un'attività su poche opere eterogenee. Sull'Indice fiorentino cfr. le divergenti spiegazioni di Falchi, op. cit., pp. 126 ss. e Mantovani, op. cit., pp. 135 ss.289 Cavallo, Magistrale, Libri e scritture del diritto nell’età di Giustiniano, Index, 15, 1987, p. 103; Stolte, The Partes of the Digest in the Codex Florentinus, Subseciva Groningana, I, 1984, pp. 69 - 91.290 Cavallo, Magistrale, op. cit., p. 104; v. anche Cavallo, La circolazione libraria nell'et… di Giustiniano, L'imperatore Giustiniano. Storia e Mito, Giornate di studio a Ravenna, 14 - 16 ott. 1976, Milano, 1978, p. 234 e s.291 Spagnesi, Cat. della Mostra “Le Pandette di Giustiniano. Storia e fortuna della Littera Florentina”, Firenze, 1983, pp. 37 ss.; 49 ss.; Cavallo, Magistrale, op. cit., p. 105. 292 La maggioranza delle tredici mani, dodici di nazionalità latina ed una greca, impegnate nell'opera di trascrizione pare che mostrino un'educazione grafica di segno occidentale e in qualche caso inesperienza o incertezza nel tracciare la stessa onciale B-R di sicura origine greco orientale, anzi scrittura legata all’attività giuridica di Palazzo, che si è sostenuto essere “tipizzazione indotta dalla grande impresa di sistemazione del diritto dovuta a Giustiniano...ispirata a forme ‘old style’, ma costretta a mescidanze e adattamenti dalla realtà scrittoria del tempo” e dunque rientrante “in quella reverentia antiquitatis richiamata come programma dell'opera giuridica giustinianea”. Cavallo, Magistrale, op. cit., pp. 102 e 106. 293 In assenza di una autopsia grafica scientificamente nuova ed esaustiva, auspicata da Cavallo, Magistrale, op. cit., p. 105, le osservazioni di Stolte, op. cit., pp. 77 - 88, sul collegamento tra la Florentina e l’insegnamento, piuttosto che con la pratica dell’amministrazione, giocano in favore della probabilità di un’origine orientale. Sulla rapida fine del metodo di insegnamento propugnato da Giustiniano cfr. Scheltema, L’enseignement de droit des antécesseurs, Leiden, 1970, pp. 3 ss. L'obiezione di Pescani, Studi sul Digestum Vetus, BIDR, 84, 1981, p. 163, che due lacune in D. 48, 20 e 22, destinate ad essere lasciate in bianco per essere completate successivamente, dimostrerebbero che la Florentina non fu prodotta a Costantinopoli in quanto in quella citt sarebbe stata sicuramente disponibile una copia perfetta del Digesto, è confutata da Stolte, op. cit., pp. 84 ss., rilevando, tra

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Ancora più incerta è l’origine della c.d. Littera Bononiensis o Vulgata, testo seguito dalla Scuola di Bologna, che per alcuni risalirebbe ad un gemello della Littera Florentina utilizzato nel XII sec. per realizzare numerosi manoscritti in scrittura preumanistica come la Littera Parisiensis, Patavina, Lipsiensis e Vaticana294, ma secondo l’opinione dominante dovrebbe ascriversi ad un testimone perduto derivante dalla stessa Florentina, vergato in beneventana forse a Montecassino nell’XI sec., come indica l’indole degli errori riscontrabili nei discendenti295. Pare però che tale testo sia stato corretto, senza molta cura con l’aiuto di un manoscritto più antico, indipendente dalla Florentina e talvolta recante lezioni più corrette, ancora oggi superstiti nei discendenti del XII sec.

Altri frammenti di codici coevi alla Florentina o posteriori, conservati attraverso la tradizione manoscritta, sono: il frammento del Digesto di Pommersfelden, che si ritiene di origine ravennate; romana invece è stimata la provenienza di un frammento di Napoli, databile a poco oltre la prima metà del VI sec., età alla quale si ascrive anche un frammento di Heidelberg. Del IX sec., invece, sembra essere un manoscritto (R) di Berlino, derivato verosimilmente da un codice diverso dalla Littera Florentina296 .

I frammenti di codici papiracei del Digesto, anche se solo in due casi provengono con certezza dall’Egitto (P. Ryl. III, 479 e P. Reinach Inv. 2173), testimoniano indubbiamente una tradizione orientale. E’ difficile infatti ipotizzare una diversa provenienza per il terzo reperto papiraceo: il P. Heidelberg inv. 1272. E anche se ben presto un buon numero di manoscritti del Digesto sembra aver raggiunto località alquanto remote, ciò non deriva soltanto dall’efficienza della trasmissione ufficiale del testo nelle diverse parti dell’Impero dall’ampiezza della divulgazione nella pratica, quanto piuttosto dalla circostanza che esemplari dotati di abbondante materiale scolastico, come quelli rinvenuti, fossero preziosi ricordi degli anni di apprendistato per studenti di diritto provenienti dalle province, che conservavano al ritorno a casa i testi di studio utilizzati nella capitale. Ci si interroga, in dottrina, se questi papiri siano in grado di attestare un’effettiva incidenza del diritto della compilazione sulla prassi egiziana contemporanea297 ed inoltre sulla reale applicazione di questa nell’Impero; i pochi frammenti papiracei disponibili non consentono, però, di fornire risposte certe ai quesiti posti.

Dei tre reperti citati uno, il P. Rylands III, 479, privo di note, a differenza degli altri due che appaiono dotati di un apparato scolastico, sembra essere relativo ad un codice papiraceo di buona qualità, che si è ipotizzato essere addirittura la copia ufficiale inviata al governatore della Tebaide 298. Ritenuto in un primo tempo un frammento di un Predigesto de legatis299, ad un più attento esame si è rivelato come parte del XXX libro del Digesto, con qualche svista e numerazione redatta a tutte lettere, in ottemperanza alla nota prescrizione di Giustiniano300.

l’altro, la varietà delle spiegazioni plausibili. 294 Pescani, Studi sul Digestum Vetus, cit., pp. 159 - 250. 295 Miquel, Mechanische Fehler in der Überlieferung der Digesten, ZSS, 80, 1963, pp. 281 ss.; Cavallo, Magistrale, op. cit., p. 109. 296 Pescani, La posizione del codice R nella tradizione della Litera Bononiensis, Atti II Congr. Intern. Soc. It. St. del Dir., La critica del testo, II, Firenze, 1971, pp. 671 - 690.297 Steinwenter, Was beweisen die Papyri für die Geltung des justinianischen Gesetzgebungswerkes , Aegyptus, 32, 1952, pp.131 - 7; Lanata, Legislazione e Natura nelle Novelle giustinianee, Napoli, 1984, p. 24.298 Lanata, op. cit., p. 23.299 Schulz, Fragmente des liber singularis de legatis ?, TR, 1941, pp. 19 ss.300 Tanta 22. Düll, Seidl, Ein Digestenfragment aus Ägypten, aber kein "predigesto de legatis, ZSS, 1941, pp. 406 ss.

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Il P. Reinach Inv. 2173, oltre al testo del titolo locati et conducti (XIX, 2) del Digesto (rhetón), recava a margine anche alcune paragraphaí che sono state identificate essere quelle di Stefano, sovente introdotte dal termine paragraphé, che costituisce un segno caratteristico di questo docente [fr. II verso, l. 1: paragraphé (et) máthe tò nómimon]301. Si tratta dunque del seul reliquat d’un cahier de cours authentique d’un antécesseur, volto a chiarire, in una seconda fase dell’apprendimento, le difficoltà del testo latino (rhetón) con osservazioni staccate, citazione di testi di confronto e risposte a quesiti (erotapokríseis), con un apparato che poteva essere marginale al testo, come in questo caso, o separato e richiamato da lemmi latini302. In precedenza, in un primo corso di studio del diritto, gli studenti, dopo aver ascoltato le digressioni del maestro necessarie per la comprensione del passo preso in esame (protheoríai), come nel caso del PSI XIII, 1349303, ed eventuali regole di diritto con esempi (thematismoí), avevano utilizzato degli Indices, traduzioni in greco non letterali dei testi latini. Questi Indici avrebbero potuto essere integrati con altre traduzioni letterali (ermeneía katá póda), di singole parole (sovente interlineari), o addirittura dell’intero brano e solo successivamente gli studenti avrebbero potuto leggere il testo latino con l’ausilio delle paragraphaí 304. Il P. Reinach Inv. 2173 sembra dunque ulteriomente confortare l’ipotesi che l’Indice del Digesto menzionato dallo stesso Stefano e le sue Paragraphaí non fossero riunite in un’opera sola, ma costituissero due opere separate assai diffuse nell’ambiente studentesco305.

Anche il P. Heidelberg inv. 1272, che contiene assai miseri resti del testo latino del titolo de inofficioso testamento del Digesto (5, 2, 17 - 19), è corredato da un apparato di glosse marginali che si riferiscono a paragraphaí di un maestro non meglio determinato, forse lo stesso Stefano. Pare che i commentari del Digesto di Stefano, oltre ad essere i più diffusi, comprendevano le materie dei quaderni dei suoi corsi e sembra che per questo motivo si limitassero ai biblía prattómena, i libri del Digesto trattati nei corsi e distinti dai biblia extraórdina, che studenti ormai esperti affrontavano senza alcun aiuto306. Lungi dall’offrire la possibilità di un confronto del testo latino del Digesto con altri manoscritti superstiti a causa dell’esiguità dei caratteri latini, non sembra tuttavia che ammettere che il papiro tramandi un brano di una versione pregiustinianea delle Quaestiones di Paolo, desumendo ciò da una glossa, che farebbe supporre l’esistenza di una interpolazione pregiustinianea del corrispondente brano latino307. Il P. Heidelberg inv. 1272 offre infine un’ulteriore testimonianza della rapida diffusione, lontano dalla capitale, di commenti e spiegazioni, ascrivibili all’apparenza a tre diverse mani308, del testo del Digesto (rhéton), richiamato, senza essere trascritto, talvolta dal lemma latino oggetto della

301 Scheltema, Über die Werke des Stephanus, TR, 26, 1958, pp. 5-14; Amelotti, Le costituzioni giustinianee nei papiri e nelle epigrafi, Legum Iustiniani Imperatoris vocabolarium, Subsidia, I, Milano 1972, p. 21 nt. 1, ricorda la ricostruzione di Naber, Scholia ad Pandectas, Studi Albertoni, I, Padova, 1935, pp. 21 - 3, che però Van der Wal, Encore une fois le P. Reinach Inv. 2173, TR, 47, 1, 1979, p. 275 e s., ha dimostrato essere inattendibile. 302 Scheltema, L'enseignement de droit des antécesseurs, cit., pp. 13 ss. e 67.303 Arangio Ruiz, Frammenti di giurisprudenza bizantina, Studi epigrafici e papirologici, Napoli, 1984, pp. 403 - 5. 304 Se dunque per greci costretti a studiare testi latini apparivano indispensabili Indices e Paragraphaí, solo delle seconde si avvertiva la necessità in occasione dello studio delle coeve costituzioni greche, salvo poi ad essere necessarie traduzioni delle novelle greche per studenti latini, come sembra essere l’Authenticum. Scheltema, l.c.305 Scheltema, op. cit., pp. 24 ss; Van der Wal, op. cit., p. 276.306 Scheltema, op. cit., pp. 11 e 25.307 Boye, Essai critique sur une crux iuris. La Loi Mater (Dig. 5, 2, 19) et le P. de Heidelberg 1272, TR, 5, 1924 pp. 464 - 488; Collinet, Hist. de l’École de droit de Beyrouth, Paris, 1925, p. 283. 308 Boye, op. cit., p. 481 nt. 2.

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glossa (l. 12 ss.: non recte), talaltra dall’indicazione dell’annotazione (l.24: semeíosai óti).

Ad opere infine di docenti forse leggermente più tarde, che traevano origine da adattamenti dell’intero Digesto al Codice ed alle Novelle, si riferiscono i frammenti del PSI XIII, 1350, ascrivibili con ogni probabilità a Doroteo, e del PSI I, 55, forse riferibili al commento di Cobida. Dopo l’ antecessore Giuliano ed il mutamento del metodo d’insegnamento tra il 557 ed il 572 d.C. gli “antecessori” saranno detti scolastici.

Scompariranno le protheoríai ed il Digesto sarà insegnato in tutta la sua estensione, non limitandosi solo ai biblía prattómena.

Il PSI XIII, 1350 è stato inizialmente attribuito ad un katá  póda del Digesto309, ma successivamente si è decisamente esclusa questa attribuzione, riconoscendovi l’ Index di Doroteo310. Degno di nota è il fatto che non è uniformemente osservato il distacco che si nota nel Digesto fra un frammento ed il successivo e talvolta viene indicato il nome dell’autore del passo, “seguito dalla prima parola del testo latino, ma avviene anche che brevi frammenti siano assorbiti in altri che li precedevano, senza che neppure risulti il passaggio della parola da uno ad altro giureconsulto”311. Abolite sembrano essere le citazioni dei giuristi anteriori e “tutte le osservazioni dirette a coordinare la casistica”. Si tratta di una riduzione alquanto spinta, non risultando riprodotto tutto ciò che si leggeva nel Digesto, che denota un atteggiamento verso la compilazione dei iura caratteristico della successiva giurisprudenza bizantina312.

Il PSI I, 55 contiene quattro pagine di un codice vergato su due colonne in onciale B-R. Si riscontrano sigle ed abbreviazioni in contrasto con le prescrizioni di Giustiniano, che non indicano tuttavia l’appartenenza ad uno di quei commenti collegato ai predigesti, che tanto ansiosamente la dottrina ha ricercato313. Nessuno degli argomenti addotti per sostenere l’origine pregiustinianea appare convincente314: non certo l’ampiezza del suo contenuto, se si tien conto che l’Indice di Stefano era detto o plátos, proprio per la sua prolissità, pare addirittura estendentesi il triplo del Digesto. Neppure la mancata citazione di Paolo nella l. 9, in rapporto alla definizione della conventio legitima (= D. 2, 14, 6) appare decisiva, se si constata la frequenza di citazioni non puntuali da parte dei maestri, soprattutto qualche tempo dopo la compilazione. Il rinvio seppur insiticio, contenuto nella l. 111, ad un luogo di un libro XVIII, identificato con D. 18, 5, 2, sembra infine confermare l’origine

309 La Pira, Frammenti papiracei di un katá póda del Digesto, BIDR, 38, 1930, pp. 151 ss. Diversamente Pringsheim, ZSS, 53, 1933, pp. 488 ss.; Berger, The emperor Justinian's ban upon commentaries to the Digest, BIDR, 55 - 56, 1951, pp. 124 ss.; Arangio Ruiz, PSI 1350. Frammenti di una Summa del Digesto, St. Ep. e Pap., cit., pp. 405 - 413 310 Scheltema, L’enseignement de droit, cit., p. 61.311 Arangio Ruiz, PSI 1350, cit., p. 406.312 Arangio Ruiz, l.c.313 Partsch, Das dogma des Synallagma in röm. u. byzant. Rechte, Berlin, 1931, pp. 19 ss.; Collinet, Hist. de l’École de droit de Beyrouth, Paris, 1925, pp. 284 ss.; Arangio Ruiz, La compilazione giustinianea e i suoi commentatori bizantini, Scritti Ferrini, Milano, 1946, pp. 106 ss. (= Scritti Dir. Rom. Arangio Ruiz, IV, Camerino, 1977, pp. 3 ss.); Id., Precedenti scolastici del Digesto, Scritti Arangio Ruiz, II, Camerino, 1974, p. 319. 314 Gli argomenti in favore dell'origine pregiustinianea sono riassunti da Cerami, D. 2, 14, 5 (Ulp. 4 Ad Ed.). Congetture sulle tres species conventionum, AUPA, 36, 1976, p.132 nt. 15.

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postgiustinianea315. Si tratta allora di un commento del Digesto privo del rhéton, da attribuire forse a Cobida316.

Il papiro alle ll. 3 - 6 indicava duo species conventionum, invece delle tres indicate nella Florentina (D. 2, 14, 5) e nel quarto libro del commentario ad edictum di Ulpiano: le conventiones ex causa publica, ex causa fiscali, ex causa privata317. Piuttosto che supporre l’abolizione già in un’opera pregiustinianea del terzo tipo di conventio, quella ex causa fiscali, è plausibile ammettere che nel commento al Digesto, ove sopravviveva la tripartizione, il maestro bizantino constatasse ormai l’indistinzione affermatasi in età postclassica tra la conventio ex causa publica ed ex causa fiscali e distinguesse solo la conventio publica dalla privata.

Il commento del titolo de pactis del Digesto (2, 14) rientrava nei prattómena biblía, i libri studiati nei primi anni ed oggetto di corsi scolastici. I caratteri del codice, di grande formato e di buona fattura, con ampi margini e paragrafi318, sembrano tuttavia indurre ad escludere che si possa trattare di un modesto quaderno scolastico. Invitano a propendere per un’opera utilizzata invece da studiosi di livello superiore in una fase di studi avanzata.

Il testo del PSI I, 55 ancora conservava termini ed espressioni tecniche latine e questa circostanza denota l’uso ancor vivo degli originali latini319. Ben presto la decisione poco pratica di dotare l’impero di codici pressocchè interamente in latino apparirà superata attraverso una formazione più pratica e professionale di scolastici che utilizzaranno con disinvoltura il linguaggio giuridico greco. Anche i nomi classici di Stico e Pamfilo, utilizzati negli esempi del PSI I, 55, saranno, ancor prima della realizzazione dei Basilici, sostituiti da nomi cristiani come Pietro e Paolo.

315 Vassalli, Frammento di un indice del Digesto, BIDR, 24, 1911, pp. 180 - 203; De Francisci, Edizione critica del PSI 55, Rend. Ist. Lombardo, 45, 1912, pp. 209 ss.; Id., Intorno al PSI 55, ll. 125 - 128, St. della Scuola Papirologica, I, Milano, 1915, pp. 48 e s.; Id., Nuove osservazioni intorno al PSI 55, Scritti Lumbroso, Milano, 1925, pp. 217 - 222; Lombardi, Ricerche in tema di ius gentium, Milano, 1946, p. 233 nt. 4. 316 Scheltema, L'enseignement, cit., p. 61.317 Cerami, op. cit., pp. 123 - 215.318 Vassalli, op. cit., p. 186. 319 Vassalli, op. cit., p. 184.

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B - I DOCUMENTI

1 - Documenti scritti e non scrittiAccogliendo una definizione assai ampia, per documento deve intendersi “una cosa

qualsiasi rappresentativa di un fatto” e dunque soprattutto uno strumento che consenta la formulazione di un giudizio circa l’esistenza di un evento. Memoria storica e documenti appaiono inscindibilmente connessi.

Sotto il profilo della storia del diritto occorre aggiungere che è necessario che la rappresentazione del fatto sia giuridicamente rilevante e pertanto è necessario distinguere la res signata (documento), dal contenuto immateriale costituito dal pensiero che in esso è stato racchiuso per essere trasmesso. In realtà la rappresentazione non è nei segni, ma in chi intende il significato dei segni e dunque nei successivi interpreti di documenti, che nascono tali in seguito ad una deliberata attività di stesura e formazione, o negli studiosi di reperti, che contengono dati e segni capaci di fornire elementi su cui fondare una valutazione ritenuta giuridicamente rilevante320. Tale ampia nozione di documento ci consente di percepire immediatamente i limiti del valore che il mondo moderno attribuisce al documento scritto, essendo la scrittura solo una delle tante forme della comunicazione, come ben sa chi vive in un’epoca nella quale si constata la rapida trasformazione dei modi di trasmissione e di conservazione delle idee.

Oltre che al documento scritto, l’età contemporanea attribuisce nel processo rilevanza al documento di qualsiasi genere, come prova, al punto da arrivare talvolta ad affermare che la mancanza di relazione con il tema della prova processuale impedirebbe addirittura ai reperti esibiti di essere qualificati come documenti321. Ma l’attività di documentazione è oggi, diversamente dal mondo antico, espressamente prevista e disciplinata dalla legge, viene svolta da pubblici ufficiali e produce innegabilmente documenti che esistono, in quanto tali, indipendentemente dal processo322. Dunque il documento non è necessariamente connesso al processo, come non è imprescindibilmente legato alla scrittura. I codici civile e di procedura italiani non contengono una definizione del documento, ma naturalmente vi fanno riferimento in connessione alla prova giudiziaria ed all’atto scritto, anzi quando adoperano il termine in questione notoriamente si riferiscono solo ai documenti scritti 323. Tuttavia non solo contemplano la disciplina di altri tipi di documento324, ma il codice civile conserva nell’art. 2713 (già art. 1332 c.c. del 1865) un autentico “relitto” storico che disciplina le taglie o tacche di contrassegno325.

320 Patti, v. Documento, Digesto delle discipline privatistiche, Sez. civile, VII, Torino, 1991, pp. 2 ss.321 Denti, v. Prova documentale, Enciclopedia del Diritto, XXXVII, 1988, p. 714.322 Patti, op. cit., p. 3.323 Patti, op. cit., p. 2; Bove, v. documento (storia del diritto), Digesto delle discipline privatistiche, Sez. civile, VII, Torino, 1991, p. 14. 324 Ad es.: l’art. 2712 c.c., riproduzioni meccaniche, fotografiche, cinematografiche, ma ora occorre tener conto anche delle elettroniche.325 “Taglie o tacche di contrassegno. Le taglie o tacche di contrassegno corrispondenti al contrassegno di riscontro formano piena prova tra coloro che usano provare in tal modo le somministrazioni che fanno o ricevono al minuto”. Pare che i fornai francesi usassero computare e documentare le prestazioni periodiche con tacche sulle due metà di un bastone scisso longitudinalmente e dunque l'art. 1333 del Codice Napoleonico recitava: “Le taglie corrispondenti ad un campionario fanno fede tra coloro che se ne servono per controllare nei particolari le forniture che fanno e ricevono”. Ma in Inghilterra pare che per tenere i conti pubblici i bastoni intagliati siano stati aboliti solo nel 1826. Ifrah, Storia universale dei numeri, Milano, 1989, pp. 100 ss.

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Non si può dunque in una trattazione di storia del diritto limitarsi all’esame dei soli documenti scritti, escludendo i mezzi non graficamente formati326, poichè il mezzo grafico è solo uno degli innumerevoli modi di fissazione e trasmissione di un contenuto, non certo il più antico, anche se attualmente il più diffuso. Si eliminerebbero dal campo giuridico innumerevoli testimonianze apparentemente secondarie, ma in realtà tali da fornire informazioni utili per la conoscenza di un passato assai remoto ed essenziali per una società ellenistica e romana, che sino almeno al II sec. a.C. utilizzò la scrittura in maniera alquanto esclusiva.

In questa sede per opportunità pratiche ci limiteremo a cenni disparati e fugaci. Riguardo alle origini del documento scritto, una delle più accreditate ipotesi sulla nascita della scrittura nel mondo egeo collega, come si è visto, cretule con contrassegni a funzioni di contabilità palaziale e di custodia delle derrate alimentari.

Segni di scrittura e numeri sembra che siano all’inizio strettamente collegati, non solo per il naturale rapporto tra segni e oggetti per fini computazionali, ma anche perchè sembra che l’esibizione di un simbolo della derrata o di un contrassegno personale autorizzante il prelievo (sigillo) o di entrambi, presto simbolicamente rappresentati non più da veri e propri oggetti, ma da segni tracciati sull’argilla, consentiva il rilascio del bene o l’esecuzione della prestazione da parte dell’addetto alla custodia, previa acquisizione del simbolo, apposizione di un altro contrassegno di riscontro su di una cretula o conservazione della tavoletta di argilla con segni da esibire per giustificare la mancata corrispondenza tra le derrate originariamente consegnate al custode e quelle successivamente verificate327. Piccoli oggetti in argilla, pietra od osso in corrispondenza originariamente biunivoca in qualità e quantità a quelli computati e consegnati potevano essere rinchiusi in involucri sigillati328. Successivamente segni corrispondenti verranno apposti su involucri destinati a divenire tavolette d’argilla con dati ideografici e numerici che nella forma a cuscinetto sembrano ancora mantenere traccia dell’originario contenitore. Bolle sferiche d’argilla (bullae) elamiti completamente chiuse, risalenti al IV millennio a.C., contenevano all’interno gettoni d’argilla di valore convenzionale e recavano sulla superfice esterna traccia del rotolamento di uno o due sigilli cilindrici329. Le successive tavolette degli inizi del II millennio a.C., avviluppate una dentro l’altra con duplice scritturazione330, si collegano forse a queste pratiche ben più antiche e sembrano racchiudere almeno l’idea fondamentale alla base della duplice scritturazione nel mondo greco romano: quella dell’autenticazione di un testo331.

326 Pur segnalando la rilevanza del problema, Bove, v. Doc. (St. del dir.), cit., p. 15 ancora limita la trattazione ai soli documenti iscritti.327 Godart, L’invenzione della scrittura, cit., pp. 118 e s.328 Sulla scrittura per oggetti v. Cardona, Storia universale della scrittura, cit., pp. 39 ss.329 Ifrah, op. cit., pp. 121 ss.; Cardona, op. cit., p. 52. Ivi a p. 288 l’ampia lett. sulle bullae, sulle quali per ultimo v. Schmandt - Besserat, Before writing, I, Austin, 1992, pp. 167 ss.330André-Salvini, Les tablettes du monde cunéiforme, Les tablettes á écrire de l'antiquité á l’époque moderne, Actes du Colloque intern. du CNRS (Paris, 1990), Brepols - Turnhout, 1992, p. 17 e fig. 5. 331 Preferisce non pronunziarsi sull’ipotesi di un origine orientale del fenomeno documentale Migliardi Zingale in Amelotti, Migliardi Zingale, Osservazioni sulla duplice scritturazione nei documenti, Symposion, 1985, p. 301 nt. 5, poichè sarebbe “difficile provare una recezione diretta nel mondo greco”. Cfr. anche Wolff, Das Recht der griechischen Papyri Ägyptens in der Zeit der Ptolemäer und des Prinzipats, II, München, 1978, p. 63; Zuccotti, Symbolon e stipulatio, Testimonium amicitiae, Milano, 1992, p. 334. Ma l’esigenza di garanzia dell’autenticità del testo risolta ricorrendo al medesimo accorgimento è indiscutibilmente identica nelle due diverse pratiche. V. Lévy J. Ph., Sur trois textes bibliques concernant des actes écrits, Mél. Prévost, 1982, pp. 23 - 48 (= Autour de la preuve dans les droits de l'antiquité, Antiqua, 63, Napoli, 1992, p. 137); Id., Sur l’hist. de la preuve litterále, Index, 15, 1987, p. 476.

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Un’altra pratica antichissima che ancora sopravviveva nel mondo greco romano era quella che si collegava alle sýlai ed al sýmbolon. La diffusione del diritto di rappresaglia nella pratica del commercio più antico, il soddisfacimento cioè sui beni di un concittadino di un “debitore” straniero insolvente332, imponeva che i traffici si effettuassero in località protette, come santuari (asili) o facendo ricorso all’asylía ed al sýmbolon. L’ospitalità (xenía) offerta ad uno straniero determinava la scissione di un oggetto (sýmbolon) che materializzava così la prestazione ricevuta. Ma il sýmbolon, le cui metà con la partenza erano destinate ad essere separate e dunque portate lontano, non racchiudeva ancora un diritto, tuttalpiù un dovere. Il dovere, non sanzionato da alcun obbligo - anzi sorto ancor prima della nascita di un obbligo civile - di ricostituire l’unità dell’ospitalità ricevuta al momento dell’esibizione della metà dell’oggetto (semeîon) da parte dell’ospite, un familiare o qualsiasi portatore. La fractio non denotava dunque la fine del rapporto, anzi il suo inizio, e non era volta a precostituire una prova, ma un segno sacrale della prestazione e dunque della necessità di ricostituirla restituendola333. Poteva così esser ricambiata l’ospitalità, come recuperato un bene depositato presso uno straniero o restituito un mutuo ed il sýmbolon, piuttosto che costituire una prova decifrabile, come la successiva singrafe334, presentava il vantaggio, indiscutibile nelle condizioni di insicurezza del commercio arcaico, di rappresentare un documento non scritto che non aveva alcun significato o valore, se non per chi fosse in grado di intenderne il messaggio. Il rapporto, non ancora basato su di una prestazione e controprestazione, era posto sotto la protezione della divinità, dipendeva dall’esibizione del sýmbolon e dal riconoscimento da parte dello stesso “debitore” ed al “creditore”, oltre al deferimento di un eventuale giuramento, non restava possibilità alcuna di soddisfacimento. Similmente in diritto greco sembra che il concetto di obbligazione non fosse ancora svincolato dalla sfera religiosa e dunque dalla violazione di una promessa giurata non scaturiva un’azione diretta, ma che l’azione contrattuale, la díke blábes (azione di danneggiamento) costituiva solo un rimedio a tutela del danno subito o minacciato per la violazione di una promessa posta sotto protezione divina335.

Tra individui, gruppi gentilizi e familiari, comunità straniere potevano essere scambiati sýmbola la cui esibizione accordava allo straniero asilo, ospitalità e soprattutto di riflesso protezione giudiziaria336 e, nonostante la diffusione della scrittura,

332 Nel noto papiro di Wennamone, sacerdote egiziano partito per acquistare legname siriano per il suo tempio e che viene immediatamente spogliato da uno straniero che vantava crediti nei confronti di egiziani, la pratica in questione è riferibile già al 1075 a.C. (Rivista Studi Fenici, X,1, 1982, p. ).333 Riferendosi invece alla fractio stipulae, che subito esamineremo, v’è chi ha sostenuto “che in un contesto simbolico, difficilmente potrebbe indicare la concordia tra le parti e la complementarietà delle reciproche obbligazioni (non avendo del resto la stipulatio carattere sinallagmatico)”, poichè l’atto “in una dimensione animistico – religiosa” avrebbe assunto “una valenza decisamente negativa”. Zuccotti, Symbolon e stipulatio, Testimonium amicitiae, Milano, 1992, p. 412.334 Velissaropoulos, Les symbola d'affaires. Remarques sur les tablettes archaíques de l'íle de Corfou , Symposion 1977, Köln - Wien, 1982, p. 83 e p. 81 nt. 51, che constata le “coincidenze” giuridiche tra le tavolette mesopotamiche ed i sýmbola. La denominazione sýmbolon ed antisymbolon che si riscontra nei papiri potrebbe esser collegata alla pratica antichissima suaccennata (su tali termini v. Herrmann, Symbolon und Antisymbolon in den Papyri, Actes de XV Congr. Intern. de Papyrologie 1977, IV, Bruxelles, 1979, pp. 222 - 230). 335 Wolff, H. J., La structure de l'obligation contractuelle en droit grec, RHDEF, 44, 1966, pp. 572 ss. 336 Gauthier, Symbola. Les étrangers et la justice dans les cités grécques, Nancy, 1972.

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l’impiego di questi oggetti, che pian piano cominciarono a recare brevi iscrizioni337, persistette a lungo trasformandosi in tesserae hospitales e tabulae patronatus338.

Ad un momento intermedio tra la documentazione non scritta e la documentazione scritta, la quale non costituisce ancora mezzo di prova e che non genera veri e propri diritti, sembrano ricondurre le tavolette di Corfù della fine del VI, inizi del V sec. a.C. ove, piuttosto che essere esattamente determinate l’identità del debitore, il tempo ed il luogo della prestazione, eventuali interessi e tipo di rapporto, è indicato il creditore, l’ammontare del debito e talvolta due testimoni339. Come i sýmbola, queste tavolette plumbee rappresentano materializzazioni di un rapporto prive di forza probatoria e ci riportano ad uno stadio ancora di formazione di un diritto astratto nel quale già cominciava ad essere utilizzata la scrittura340.

Anche per le origini della stipulatio romana si è rievocata una pratica affine a quella dei sýmbola in base ad un brano di Isidoro di Siviglia che riferiva una pratica desueta, in genere utilizzata realmente nell’ambito del commercio arcaico, ma che quel testo tardo sorprendentemente ancora riferiva341. La fractio stipulae avrebbe comportato la scissione di un ramoscello, per alcuni un bastone scisso in senso longitudinale secondo le modalità del “contratto-intaglio” per ottenere la corrispondenza tra le due parti di uno stesso oggetto con delle tacche, che potrebbero essere state anche relative ad un computo numerico342. Il motivo c.d. del ramo secco presente nelle stipi di aes signatum 343 si collega a questa pratica, che ha indubbiamente a che fare con il ramoscello. Lo conferma un passo di Festo nel quale la stipe è connessa all’operazione di bloccaggio delle anfore in più strati sovrapposti mediante ramaglia, che è stata adesso rinvenuta, nella stiva appunto, di numerosi relitti dall’età arcaica all’età bizantina344. D’altro canto se la stipula si connetteva alla firmitas per motivi comprensibili345, resta non del tutto chiarita l’operazione realmente effettuata con un ramoscello, piuttosto che con un bastone, che aveva forse a che fare con il computo, la consegna e valeva a confermare il rapporto.

Anche cippi di confine (hóroi) e pietre miliari rientrano nel quadro di documenti non scritti, che prima di assolvere ad una funzione probatoria o di costituzione di un

337 Celebre ad es. il leoncino in avorio proveniente da Roma dal deposito votivo del tempio arcaico della prima fase della metà del VI sec. a.C. con l’iscrizione sul lato liscio forse con un nome e due gentilizi Aras Silketenas Spurianas. Cfr. Ampolo, La città riformata e l'organizzazione centuriata, St. di Roma, I, Roma in Italia, Torino, 1988, p.237. 338 Messineo, Tesserae Hospitales ?, Xenia, 5, 1983, pp. 3 e s.; Nicols, Tabulae Patronatus: a study of the agreement between patron and client-community, ANRW, II, 13, 1980, pp. 535 ss.339 Velissaropoulos, op. cit., pp. 78 ss.340 Velissaropoulos, op. cit., p. 83.341 Isidoro, Orig. V, 24, 30: Stipulatio est promissio vel sponsio, unde et promissores stipulatores vocantur. Dicta autem stipulatio ab stipula. Veteres enim, quando sibi aliquid promittebant, stipulam tenentes frangebant, quam iterum iungentes, sponsiones suas agnoscebant sive quod stipulam iuxta Paulum iuridicum firmum appellaverunt. Zuccotti, op. cit., pp. 400 ss. 342 Zuccotti, Congettura sulle origini della stipulatio, Atti del seminario sulla problematica contrattuale in diritto romano (Milano, 1987), II, Milano, 1990, pp. 51 - 127.343 Festo, De verb. signif. (Lindsay, p. 409): <Stipem>...<pe>cuniam signa<tam quod stiparetur;> ideo stipular<i dicitur is qui in>terrogat a<lterum spondeatne stipem, id est> aes. Zuccotti, op. cit., p. 98 e s.; Id., Symbolon, cit., p. 312.344 Festo, De verb. sign. (Lindsay, p. 440): Stipatores ait dictos a stipe quam mercedis nomine custodes cuiusque corporis. Unde et stipam qua amphorae cum exstruuntur firmari solent . Gianfrotta, Pomey, Archeologia subacquea, Verona, 1981, p. 279. L’uso di fermare il carico con ramoscelli era talmente diffuso da essere testimoniato dal XIV sec. a.C. (relitto di Ulu Burun) al VI sec. d.C. (relitto bizantino di Cefalù). Non intende l’importanza di questa pratica Zuccotti, Symbolon, cit., p. 425 nt. 669, che si spinge ad ipotizzare che le anfore venivano immagazzinate mediante una sorta di contromarca.345 Il termine obstipus ebbe al contrario il significato di obliquo, storto, insicuro. Zuccotti, Congettura, cit., p.104.

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diritto, rappresentavano segni concreti di assoggettamento ad un potere, come il sigillo apposto su di una res. Ben presto in diritto attico saranno iscritti, ma non sussistendo alcuna configurazione dogmatica di una serie di diritti soggettivi gravanti sull’immobile, ogni creditore, il cui denaro fosse stato mutuato previa apposizione di un hóros su di un immobile, avrebbe potuto concretamente impossessarsi del fondo sul quale era stata consentita l’imposizione del segno di assoggettamento346.

Oggi in dottrina si tende a distinguere tra tacche e taglie di contrassegno e le tesserae del mondo greco romano in base alla differenza dogmatica tra quanto costituisce la prova di un credito, di un’ avvenuta somministrazione (tacche o taglie) e quanto invece avrebbe documentato il diritto ad una prestazione (tesserae)347. Ma come si è visto, in origine la tessera non concedeva alcun diritto e piuttosto rappresentava il segno concreto di una situazione di supremazia, talvolta di un dovere ad una prestazione, non correlato ad alcun obbligo effettivo. Nel caso delle tesserae, a differenza del sýmbolon, il riscontro non si effettuava tra contromarche eguali tra loro, ma tra un referente unico e generale utilizzato da una delle parti (tavola divisoria e divisibile, registro), originariamente spezzato in tante parti, oggetto di una distribuzione e poi ricostituito; ben presto posseduto in copia dalla parte pubblica che assegnava tessere che era possibile riscontrare sull’elenco di tutte le contromarche così distribuite. Proprio secondo tali modalità venivano eseguite le distribuzioni granarie mediante tesserae frumentariae: dopo il controllo della cittadinanza veniva consegnata una tessera di diverso formato, originariamente parte di tabulae di incisi. La presentazione di essa ai magazzini (horrea) consentiva la consegna delle derrate e la ricostituzione ideale del registro originario o meglio il riscontro su di una copia di esso. Se la tessera in età progredita rappresentava ormai il diritto ad una determinata prestazione, non v’è dubbio che in precedenza, piuttosto che prova, era stata proprio la materializzazione numerica della medesima348.

Le tessere furono ampiamente utilizzate nel mondo greco romano per gli impieghi più vari: come tesserae theatrales in Grecia davano la possibilità di ottenere il theorikón, gratifica offerta dallo Stato agli spettatori; come tesserae nummariae a Roma offrivano persino somme di denaro o quantità di grano a pezzi speciali e non è escluso che queste ultime conservino traccia di un’origine simbolica e privata della moneta, evidente nelle prime coniazioni microasiatiche in oro o elettro.

Tali documenti indicano la persistenza delle abitudini di una società di illetterati che attraverso tesserae di vario tipo, da quelle dei Saturnalia, corrispondenti a regali elargiti da privati o dall’imperatore, alle nummulariae, contromarche rilasciate da argentarii per il deposito ed il saggio delle monete349, gettoni consegnati da caupones e stabularii per la custodia di beni, oggetti simbolici con parole d’ordine per militari e subalterni analfabeti, lasciava sopravvivere i reperti di pratiche giuridiche remote di una società non fondata sulla scrittura. Ancora nella Palestina del II sec. d.C. pare che i publicani sotto la dominazione romana utilizzassero addirittura un grosso cavo probabilmente formato dall’insieme di parecchie cordicelle come registro delle imposte; del resto, una cordicella annodata in modo particolare costituiva la ricevuta rilasciata ad ogni contribuente, che registrava così attraverso i nodi un determinato ammontare350.

346 Biscardi, Diritto greco antico, Varese, 1982, pp. 222 ss. 347 Cfr. Zuccotti, Symbolon, cit., p. 346 e s. e la lett. ivi cit.348 Sulle tesserae v. Zuccotti, Symbolon, cit., pp. 348 ss. 349 Sulle tesserae nummulariae Herzog, Aus der Geschichte des Bankwesens im Altertum, Tesserae nummulariae, Giessen, 1919; Andreau, La vie financière dans la monde romain. Les métiers de manieurs d’argent (IV siécle av. J.C. - III siécle ap. J.C.), Roma, 1987, pp. 485 ss. 350 Ifrah, Storia universale dei numeri, cit., pp. 92 e s. Le cordicelle utilizzate da Gesù per scacciare i venditori di offerte sacre dal Tempio erano con ogni probabilità collegate a pratiche di contabilità.

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2 - Cenni sul documento greco ed ellenistico

La storia del documento scritto nel mondo antico, in culture che dall’oralità procedono verso la scrittura, sembra oscillare tra due diverse concezioni351: una, che consiste nel considerare lo scritto alla stregua di una qualsiasi testimonianza orale, raccolta in precedenza mediante una descrizione oggettiva del rapporto giuridico (testatio), l’altra, altrettanto antica, soggettiva, basata sulla finzione della personificazione della scrittura la quale contiene quasi la confessione della parte disponente (chirografo) e reca di solito una traccia fisica dell’emittente, come l’impronta della veste, dell’unghia, del dito, del sigillo o, se possibile, un’intera scrittura autografa e sovente anche solo la firma.

Si è affermato in dottrina che il chirografo sia un’invenzione greca del IV sec. a.C., in quanto la prima testimonianza nota si attribuisce ad Iperide352, ma sembra che esistano documenti mesopotamici redatti dal disponente e recanti il suo sigillo, senza menzione di alcun testimone. Per questi atti si è tuttavia obiettato che essi non presentavano in realtà elementi scrittorii caratterizzanti, per la peculiarità della scrittura cuneiforme, che non era collegabile ad una particolare grafia, e dunque non possedevano alcuna forza probatoria intrinseca. In effetti neppure nel chirografo greco-romano sono particolarmente significativi gli elementi scrittorii caratterizzanti, in quanto la scrittura personale e l’apposizione di una firma assunsero, a causa del predominio dell’oralità nel mondo antico, un’importanza relativa, ricavando esso origine ed efficacia solo dall’essere imputabile all’emittente; in ciò riposava l’originalità della sua invenzione.

Non v’è dubbio comunque che i chirografi ampiamente utilizzati in età ellenistica e romana si collegassero direttamente alla precedente prassi greca.

Si è sostenuto che nel mondo greco il documento scritto, significativamente denominato sýmbolon, abbia espletato una funzione, non solo probatoria, come nel mondo romano, ma anche dispositiva. Un documento si dice probatorio quando la sua redazione vale come una delle prove del negozio in esso attestato, che esiste indipendentemente dalla stesura di uno scritto. Si parla in tal caso di documento redatto ad probationem actus. Nel documento costitutivo invece la redazione del documento è necessaria per la nascita del rapporto negoziale. Si è, in tal caso, in presenza di un documento realizzato ad substantiam actus. Infine il documento si considera dispositivo quando la sua realizzazione è necessaria per l’esercizio dei diritti che nascono dal negozio. Si arriva così ad ammettere una vera e propria incorporazione del diritto nel documento.

Si è dunque generalmente ammesso che l’atto scritto presso i greci abbia avuto una funzione dispositiva, anche se solo in un caso, a ben vedere, sembra sussistere un dubbio in tal senso: nel caso cioè della singrafe nautica, la cui realizzazione consentiva il ricorso al tribunale commerciale (díkai emporikaí)353. Ma in realtà l’assenza di essa non pare potesse escludere in via di principio il ricorso alla giurisdizione ordinaria, che avrebbe assicurato in tale eventualità una tutela meno spedita. E dunque la singrafe nautica era richiesta come condizione di procedibilità per una procedura

351 Levy J. Ph., Sur l’hist. de la preuve litterále, Index, 15, 1987, pp. 473 ss.352 Secondo Polluce, Onom. II, 152 Iperide avrebbe chiamato cheîra ciò che è detto chirografo, dicendo che non è possibile rinnegare la propria mano. Levy J. Ph., Trois textes bibliques concernant des actes écrits, Mél. Prévost, 1982, = Autour de la preuve dans les droits de l'antiquité, Napoli, 1992, p. 43 nt. 117. Per i dubbi sulla valutazione di questo testo v. Amelotti, Migliardi Zingale, Syggraphé, cheirographon - testatio, chirographum. Osservazioni in tema di tipologie documentali, Symposion 1988, Köln - Wien, 1990, p. 302 nt. 24. 353 Levy J. Ph., La fonction dispositive de l’écriture dans le droit grec, RHD, 37, 1959, pp. 454 e s.

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speciale, ma non aveva alcun valore dispositivo e neppure era richiesta ad substantiam actus354. Si è pure sostenuto che la singrafe nautica, attestata dalla metà del IV sec. a.C. al II sec. d.C. (P. Vindob. G. 19792)355, sia stata in realtà un titolo esecutivo, al quale però non ineriva la clausola all’ordine ed al portatore. Ma la testimonianza delle fonti sembra indicare la possibilità di un adempimento integrale senza la distruzione della singrafe; togliendole in pratica ogni valore. Tutto ciò dimostra che, “indipendentemente dalla cedibilità del documento, la singrafe nautica non era senza rapporto con l’obbligazione sottostante e, quindi, non si può riconoscerle il carattere di titolo di credito, che presuppone invece l’autonomia del diritto del legittimo possessore dell’atto scritto”356.

In seguito alla conquista macedone dell’Egitto, i Greci si trovarono in stretto contatto con una cultura, quella egiziana, che da tempo utilizzava la scrittura ed impiegava come notai gli scribi dei templi, ove venivano redatti e depositati i documenti. E dunque le originarie scritture private greche pian piano furono sottoposte a forme di pubblicità e di conservazione. L’ atto - testimonianza realizzato con il concorso dell’autorità pubblica pare che inizialmente assai di rado venisse utilizzato per i privati357. Nell’antico Egitto un sigillo di un funzionario avrebbe potuto essere apposto su di un atto di privati; presso i Lagidi fu prescritta, a partire dal 146 a.C., la registrazione (anagraphé) con scopi non solo di conservazione, ma anche fiscali e di pubblicità per i documenti degli indigeni, estesa - forse non obbligatoriamente - anche ai documenti privati dei greci358. Il “prendere la città come testimonio”, come dirà Dione Crisostomo (Or. XXXI) nel I sec. d.C., per giungere poi ad una insinuatio apud acta, avrebbe potuto condurre a sostanziali modifiche del documento e della sua efficacia probatoria. Infatti la registrazione tendeva a rendere superflua la formalità della duplice scritturazione, garanzia di autenticità e di genuinità del documento, ed a ridurre il numero dei testimoni. Se nell’Egitto ellenistico la doppia scrittura dalla fine del III sec. tendeva ormai nel I sec. a.C. a scomparire, riducendosi prima ad una sottoscrizione (hypographé) in stile oggettivo e poi personale ed autografa sempre più breve359, nel mondo romano essa incontrerà nuova fortuna fino al III sec. d.C., riscontrandosi addirittura nel chirografo, che ne era sfornito nell’uso ellenistico, e ritornando in Oriente attraverso l’impiego dei cittadini romani residenti, nonostante l’iniziale indifferenza dei locali che persistevano nell’ ignorarla360.

La singrafe a sei testimoni (syngraphé hexamártyros), sulla cui origine si discute, fu una delle più importanti ed antiche forme documentali private ellenistiche, caratterizzata da una data, dalla narrazione del fatto in forma oggettiva, dalla partecipazione di sei testimoni e dalla duplice scritturazione, realizzata su papiro, mediante tecniche di arrotolamento. Si trattava dunque di un atto - testimonianza privato, redatto nello stile del processo verbale obiettivo, che veniva consegnato ad uno dei sei testimoni, guardiano della singrafe (syngraphophýlax), o ad un tempio per la custodia. In tal modo la singrafe avrebbe potuto essere utilizzata per i contenuti negoziali più varii, ma l’impiego in essa della forma homológein indicava in particolare 354 Bianchini, La syggraphe ed il problema delle forme contrattuali, Atene, 1978, pp. 247 e 258. 355 SB VI, 9571.356 Purpura, Ricerche in tema di prestito marittimo, AUPA, 39, 1987, p. 232. 357 Lévy, Sur l'hist. de la preuve littérale, cit., p. 476. 358 Montevecchi, La papirologia, cit., p. 197 e s.; Segrè, A., Note sulla forma del documento greco - romano, BIDR, 35, 1927, pp. 73 ss.; Wolff, H. J., Das Recht der griechischen Papyri Ägyptens in der zeit der Ptolemäer und des Prinzipats, II, Organisation und Kontrolle des privaten Rechtsverkehrs, München, 1978, pp. 169 ss.; Migliardi Zingale, Amelotti, Osservazioni sulla duplice scritturazione nei documenti, Symposion, 1985, Köln - Wien, 1989, p. 302.359 Migliardi Zingale, Osservazioni, cit., p. 302 s.360 Amelotti, Genesi del documento e prassi negoziale, Contractus e pactum, Atti Copanello, 1988, Napoli, 1990, p. 319.

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che la dichiarazione era resa da una o da entrambe le parti e dunque che si trattava di una syngraphé homologías o semplicemente di una omologia361.

Accanto alla singrafe privata a sei testimoni362, l’Egitto ellenistico conobbe tre tipi di documento autentico: la singrafe agoranomica, diffusa tra i greci a partire almeno dal II sec. a.C. ed utilizzata sino al IV sec. d.C., era redatta dall’agoranómos, pubblico ufficiale controllore del mercato con funzioni accostabili a quelle di un notaio, ed era caratterizzata da uno stile oggettivo, sovente reso nella forma dell’omologia. A differenza della singrafe a sei testimoni, dopo la data e l’indicazione dell’ agoranómos, recava alla fine l’indicazione dell’avvenuta archiviazione. Normalmente redatto i duplice copia, il primo esemplare era detto protocollo, il secondo omologia363. Altro tipo di documento pubblico, il cui uso sembra limitato ad Alessandria e prevalentemente agli inizi del principato, era la synchóresis, che, stilata nell’ufficio del magistrato alessandrino giusdicente (archidikastés, presidente del kritérion) in forma oggettiva, si presentava come una transazione a chiusura di una lite utilizzabile per i più varii tipi di rapporti negoziali. Infine, in età romana, la diagraphé fu un documento realizzato attraverso banche, che assunsero funzione pressocchè notarile, preparando uno scritto nel quale è attestata non solo l’operazione finanziaria realizzata dalla banca per conto del proprio cliente, ma anche il negozio che ha dato motivo all’atto.

Il documento privato assunse le forme del chirografo, dell’hypómnema, del protocollo privato, gli ultimi due soprattutto caratteristici dell’epoca romana. Il chirografo, stilizzato soggettivamente in forma epistolare, era indirizzato alla controparte da colui che assumeva l’obbligazione: di solito si trattava di un mutuo. L’ hypómnema si presentava invece come un’offerta con un indirizzo seguita dall’hypographé dell’accipiente che perfezionava il contratto, frequentemente si trattava di una locazione. Il protocollo infine era un documento privato redatto da un notaio nella forma dell’omologia oggettiva (idiógraphos syngraphé).

In età romana, la legalizzazione del chirografo (demosiôsis) poteva ormai essere conseguita attraverso l’invio di copie all’archivio pubblico del katalogeîon, ma anche un’ekmartúresis, riassunto notarile del contenuto del chirografo, precedente il chirografo stesso (sustatikôs chrematismós), avrebbe conseguito l’effetto di una pubblicazione in senso lato, tramite l’inserzione negli archivi del nomo, attraverso l’intermediazione dell’agoranómos364.

Se la “legge tolemaica non fissò dunque dei limiti rigidi tra la forma ed il contenuto dell’atto giuridico” e sia la varietà di tipi documentali, non ascribile solo a successione nel tempo, sia la loro interscambiabilità - forse giustificabile in base ad esigenze e varietà locali che hanno indotto a parlare di una “geografia consuetudinaria” dell’Egitto - furono caratteristiche del documento ellenistico, tuttavia sembra che già dalla fine del III sec. a.C. esistessero tracce di disposizioni, attribuibili con ogni probabilità a Tolomeo II Filadelfo e fissanti le condizioni ed i limiti dell’utilizzazione giudiziaria del documento come mezzo di prova365. Non sembra comunque che la validità dell’atto giuridico sia stata subordinata alla scelta del tipo di documento, la cui efficacia restava pur sempre probatoria, anche se i processi civili

361 Migliardi Zingale, Introduzione allo studio della Papirologia giuridica, Torino, 1984, pp. 96 e s. 362 Sui documenti greco - ellenistici v. i lavori di Segrè, A., Note sul documento nel diritto greco - egizio, BIDR, 34,1926, pp. 67 - 161; Id., I documenti agoranomici in Egitto nell'eta imperiale, BIDR, 35, 1927, pp. 61 - 68; Id., Note sulla forma del documento greco - romano, cit., pp. 69 - 104; Id., A proposito delle c.d. clausole al portatore nei documenti di credito greco - egizi , BIDR, 37, 1929, pp. 77 - 79.363 Montevecchi, La papirologia, cit., p. 197; Amelotti, Migliardi Zingale, Syggraphé, cit, p.301. 364 Montevecchi, La papirologia, cit., p. 198. 365 BGU XIV, 2367 e P. Hamb. II, 168 a; Modrzejewski, Le document grec dans l'Ägypte ptolémaique, Atti XVII Congr. Int. Papirol., Napoli, 19-26 maggio 1983 (pubbl. 1984), pp. 1176 ss.

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nell’Egitto ellenistico probabilmente erano basati in prevalenza su atti scritti366; la distinzione stessa, poi, tra vari tipi di prova, come tra testi normativi367, non pare che fosse chiaramente definita, né prediposta in ordine gerarchico. In tal modo è forse possibile spiegare la clausola kyría, che appare a partire dal III sec. a.C. Nei chirografi, che di questa avrebbero avuto un maggiore bisogno se la sua efficacia fosse stata, come è stato sostenuto, dispositiva, si riscontra solo alla fine del II sec. a.C., pressocchè in concomitanza con l’apparizione del primo chirografo registrato, che avrebbe dovuto rendere inutile tale formalità. Dagli inizi del II sec. a.C. la clausola kyría si ritrova persino nelle singrafi agoranomiche, che ne avrebbero potuto tranquillamente fare a meno368. Sembra dunque che la clausola, attraverso la quale lo scritto diveniva prova primaria del rapporto sotteso e nei cui confronti era difficile, se non impossibile, ogni controprova, si collegasse in realtà al particolarismo locale del mondo ellenistico369. Si sarebbe cioè resa operativa la singrafe in tutti i luoghi nei quali fosse stata esibita. La clausola kyría he cheîr pantachoû epipheroméne kaî pantî tõi epiphéronti, che sembrerebbe riconoscere al documento il valore di un’obbligazione letterale indipendente dalla provvista ed il dovere del debitore di adempiere ovunque il documento sia esibito ed a chiunque lo presenti, pare abbia dato al portatore la facoltà di riscuotere un credito senza ricorrere ad una espressa documentazione della cessione del credito medesimo. In assenza della clausola suddetta370, sarebbe stata pretesa l’esibizione della cessione del credito, ma in ogni caso il terzo possessore non sarebbe stato titolare del credito, se non in qualità di avente causa dal creditore originario, sicchè gli sarebbero state opponibili tutte le eccezioni utili a paralizzare fin dall’origine il diritto di costui e sarebbe stato lecito accertare con tutti i mezzi la legittimità del possesso371. Oggi invece l’incorporazione del diritto nel titolo comporta che il terzo possessore sia titolare del diritto di credito indipendentemente dal suo dante causa e dunque il documento ellenistico con la clausola pantî toî epiphéronti rappresentava solo il primo passo nell’evoluzione verso il titolo di credito al portatore: titolo improprio o documento di legittimazione che serviva ad identificare l’avente diritto alla prestazione o a consentire il trasferimento del diritto senza l’osservanza delle forme proprie della cessione (art. 2002 cc.). Concezione assai più vicina a quella del symbolon, della tessera e della contromarca di riconoscimento, che non alle astratte idee della letteralità e dell’autonomia, fondamentali caratteristiche che oggi tutelano l’affidamento del terzo, a cui il titolo di credito sia stato trasferito.

366 Modrzejewski, op. cit., p. 1186.367 Anche se “nell’Egitto tolemaico esisteva una gerarchia di regole di diritto applicabili in giustizia che elevava la legge reale al di sopra di tutte le altre disposizioni normative”, “i testi della legge furono per i Greci dei mezzi di prova” (Modrzejewski, op. cit., p. 1183).368 Modrzejewski, op. cit., p. 1180. 369 Modrzejewski, op. cit., p. 1182. 370 Segrè, BIDR, 34, 1926, pp. 138 ss.; Id., BIDR, 37,1929, pp. 77 ss.371 Arangio Ruiz, Il problema dei titoli al portatore in un nuovo papiro di Tebtunis , St. Ep. e P., Napoli, 1974, p. 141.

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3 - Cenni sul documento romano

Se antichissimo è l’uso della scrittura nel Lazio ed a Roma in particolare - rinvenimenti archeologici, riferibili al VII sec. a.C., ed indicazioni glottologiche o delle fonti, ascrivibili alla stessa fase di fondazione della città372 tendono a confortare l’ipotesi di un impiego, lontano nel tempo, di scritti su materiali varii, dalle pelli ai libri lintei, dalle tavolette eburnee e di scorza, a quelle lignee o plumbee, dalla pietra al bronzo - il documento scritto per uso privato non ebbe, inizialmente, un’efficacia né ampia, né precoce. Si diffuse in seguito ai contatti con il mondo ellenistico e valse in genere ad probationem actus, e non ad substantiam, ad eccezione del caso costituito in età classica dai nomina transcripticia nei quali la stesura di un documento scritto determinava il sorgere di un’obligatio litteris. Gaio373, infatti, dopo aver trattato dei nomina transcripticia per i quali litteris obligatio fit, aggiunge immediatamente praeterea litterarum obligatio fieri videtur chirographis et syngraphis. La semplice scrittura di chirografi e singrafi non sembra determinare la nascita dell’obligatio romana, infatti per Gaio quod genus obligationis, proprium peregrinorum est. Affinchè sorga l’obbligazione romana è necessario che il rapporto venga riversato in una promessa verbale (stipulatio). Il giurista spiega infatti che non nasce obligatio romana si eo nomine stipulatio non fiat. L’obligatio litteris dei romani era dunque quella che nasceva dai nomina transcripticia e non dai nomina arcaria, ove pur era prevista la realizzazione di un documento. Nei nomina arcaria era infatti registrato l’expensum nel codex accepti et expensi del creditore e predisposto un chirografo, talvolta una testatio, da parte del debitore. L’obbligo derivava in tal caso dalla datio e dalla numeratio e non dalla scrittura. Nei nomina transcripticia, invece, nelle due forme a re in personam e a persona in personam, la stesura dello scritto determinava il nascere dell’obbligazione. Nel primo caso (a re in personam) l’expensilatio avveniva tra gli stessi soggetti di un precedente rapporto e serviva a trasformare un’obbligazione non letterale in un’obbligazione letterale basata sullo scritto; nel secondo caso (a persona in personam) con la transcriptio si sostituiva il precedente debitore con uno nuovo, stendendo una scrittura che sembra aver lasciato tracce nelle tavolette di Ercolano374.

Il codex accepti et expensi, il registro dei conti del pater familias su tavole lignee collegate in modo da formare un codex, esistette probabilmente dalla metà del IV sec a.C. fino a tutta l’età imperiale375 suddiviso in due pagine che si fronteggiavano, ma si è poi incerti nell’accogliere la fin troppo naturale conclusione che ivi le entrate si 372 Peruzzi, Origini di Roma, II, Le lettere, Bologna, 1973.373 Gaio III, 128. 374 Arangio Ruiz, Le tavolette cerate ercolanesi e il contratto letterale, St. Epigr. e Papirol., cit., pp. 355 ss. Sui nomina arcaria e transcripticia v. Id., Les tablettes d'Herculanum, St. Ep. e P., cit., pp. 295 ss; Id., Tavolette cerate ercolanesi, St. Ep. e P., cit., pp. 309 ss.; Id., Les documents du droit romain, St. Ep. e P., cit., pp. 414 ss.; Id., Documenti probatori e dispositivi in diritto romano, St. Ep. e P., cit., pp. 425 ss.; Id., Mancipatio e documenti contabili (da Ercolano a Piacenza), St. Ep. e P., cit., pp. 486 ss.; Id., Le tavolette ercolanesi debiti di denaro, St. Ep. e P., cit., pp. 518 ss.; Id., Le tavolette cerate di Ercolano e i nomina arcaria, St. Ep. e P., cit., pp. 673 ss.; Thilo, Der codex accepti et expensi im römischen Recht. Göttingen, 1980, pp. 295 ss.; Bove, Documenti di operazioni finanziarie dall'archivio dei Sulpicii, Napoli, 1984, pp. 150 ss.; Id., Tabellae Eupliae. Testationes ex codice accepti et expensi, Sodalitas, Studi Guarino, Napoli, 1984, pp. 1861 ss.; Andraeu, La vie financiére dans le monde romain, Roma, 1987, pp. 567 ss.; Camodeca, L’archivio puteolano dei Sulpicii, Napoli, 1992, pp. 199 ss. 375 Thilo, op. cit., pp. 162-202; Amelotti, Genesi del documento e prassi negoziale, cit., p. 310: “Questo codex dimostra al contempo l’insufficienza della dicotomia testatio - chirographum e per certi aspetti tipicamente romani implica l’allontanamento da eventuali modelli greci, anche se non si voglia aderire alla perentoria asserzione che si tratti di un’autonoma creazione romana”.

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opponessero alle spese, costituendo una sorta di conto a partita doppia376. Non v’è dubbio invece che coloro che si dedicavano al mestiere di banchiere (argentarii, coactores argentarii e, dalla prima metà del II sec. d.C., nummularii), oltre al proprio codex accepti ed expensi, tenuto in quanto possidenti, utilizzassero un registro professionale con accettazione di depositi ed aperture di conto, le rationes. Sembra che vi venissero registrate le operazioni dei migliori clienti, non conto per conto, ma seguendo l’ordine cronologico delle operazioni: lo si desume dal fatto che in seguito ad esibizione in processo disposta dal pretore (editio rationum) si chiedeva il completamento da parte del banchiere con la data dell’estratto dal registro377. E’ stato osservato che se si fosse trattato di un registro tenuto conto per conto, tale operazione sarebbe stata superflua, poiché ogni registrazione avrebbe già avuto la relativa data ed invece in un registro cronologico la data registrata all’inizio delle operazioni giornaliere avrebbe potuto essere assente nel singolo estratto378.

Anche se i romani, dopo i greci, giunsero con probabilità alla chiara percezione dell’originalità della banca di deposito, il mestiere di banchiere restava un’attività relativamente modesta se comparata all’ampiezza degli affari gestiti da alcuni senatori e cavalieri379. I banchieri intervenivano inoltre sovente come intermediari nelle vendite all’incanto fornendo il credito necessario per un breve periodo non superiore all’anno dalla singola operazione e tenendo delle registrazioni denominate tabulae auctionariae o auctionales380. Oltre a fornire la data della vendita, l’elenco degli oggetti venduti, i prezzi, i nomi degli acquirenti, tali registri offrivano la possibilità di controllare il versamento integrale dell’imposta sulle vendite (centesima rerum venalium), data in appalto381.

Dopo alcuni decenni di attività professionale l’archivio di un banchiere era destinato ad essere colmo di registri lignei e documenti diversi: atti nei quali il banchiere era stato testimone, intermediario o garante, quietanze del prezzo di vendite all’incanto, prestiti ed appalti anche di tasse cittadine, ma soprattutto ordini di pagamento, in forma epistolare, di girata e relativa corrispondenza, in maggior parte quando nei primi secoli dell’età imperiale venne progressivamente vinta la resistenza a servirsi di disposizioni di pagamento per iscritto, inizialmente utilizzate solo da magistrati nell’ambito delle loro funzioni e da clienti assenti382. L’esecuzione di un ordine di pagamento ad un banchiere in favore di un cliente di un’altra banca, per lo più della stessa città, poteva implicare la preventiva apertura di conto presso uno o più colleghi al fine di soddisfare gli ordini di girata dei clienti, talvolta tenendo conto del corso del cambio corrente383. Note di credito e di debito potevano essere inviate come comunicazioni dal banchiere al cliente e, dopo essere state da costui contrassegnate, ritrasmesse al disponente, ma occorre soprattutto ricordare che il conto di deposito del mondo antico, all’interno del quale non sempre si

376 Infatti il conto a partita doppia presuppone il calcolo posizionale, sconosciuto ai romani. E’ significativo che le prime testimonianze di conti a partita doppia sembrano risalire al XIV- XV sec. quando si affermò questo tipo di calcolo. Ifrah, Storia universale dei numeri, Milano, 1989, pp. 277 ss; Jouanique, Le codex accepti et expensi chez Cicéron, RHDFE, 46, 1968, pp. 5- 31; G.E.M. de Sainte-Croix, Greek and Roman Accountig, London, 1956, pp. 14-74; Andreau, La vie financière, cit., pp. 620 e s.; Id., Pouvoirs publics et archives des banquiers professionels, La mémoire perdue, cit., p. 3.377 D. 2, 13, 4 pr.:…adiecto die et consule.378 D. 2, 13, 6, 6; Andreau, Pouvoirs, cit., pp. 3 e s.379 Andreau, Pouvoirs, cit., p. 4.380 Andreau, Pouvoirs, cit., p. 6.381 I documenti dell’archivio del banchiere pompeiano L. Cecilio Giocondo si riferivano prevalentemente ad operazioni di tal sorta. Andreau, Les Affaires de Monsieur Jucundus, cit.382 Andreau, Pouvoirs, cit., pp. 7 ss. In Grecia, sussistevano nell’età classica analoghe forti resistenze. Cfr. Bogaert, Banques et banquiers dans les cités grecques, Leyde, 1968, pp. 336 ss.383 In BGU VI, 1303 si chiede il corso del cambio e si sollecita un deposito di denaro in banca prima dell’invio di mercanzie. Andreau, Pouvoirs, cit., p. 10.

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effettuavano operazioni di compensazione, derivava da esigenze ed assolveva a compiti ben diversi dai moderni conti correnti bancarî384.

Un ordine di pagamento scritto poteva effettuarsi in tre modi: indirizzandolo al banchiere che avrebbe avvertito il beneficiario con una nota di credito, se ciò non fosse già stato effettuato dall’emittente; presentandosi in banca con l’interessato e consegnando al banchiere l’ordine scritto; infine rimettendolo direttamente al beneficiario. In ogni caso gli ordini di pagamento in sè non godevano di alcuna tutela legale, né recavano segnatura. Si trattava di mere comunicazioni che non potevano circolare autonomamente. Soprattutto nell’ultimo dei casi presi in considerazione era opportuno che il banchiere risultasse tutelato in seguito all’esibizione di false scritture. Ciò avveniva con la redazione di una sommaria nota per il banchiere da parte del disponente insieme alla consegna al beneficiario di un altro scritto con nomi poco abbreviati, con indicazione dei motivi del pagamento, dell’ammontare, della data e talvolta di altre clausole. Il P. Meyer 6 del 125 d.C. faceva riferimento ad un idiógraphon di quest’ultimo tipo, di accertata autenticità ma emesso senza adeguata copertura385 ed i papiri editi in BGU XIV, 2401 – 2416 dell’82 – 81 a.C. contenevano ordini poco sintetici e annullati dopo il pagamento (chiázein), originariamente direttamente consegnati ai beneficiarii386. Invece alcuni brevi testi dell’87 - 84 a.C. della Biblioteca dell’Università Statale della Florida sono stati riconosciuti come relativi a note di controllo per il banchiere con i dati essenziali387.

Sembra dunque che in Egitto alla fine dell’età ellenistica, forse per ovviare agli inconvenienti conseguenti alla diffusione di una moneta bronzea molto ingombrante, sussistessero già promesse scritte di pagamento direttamente rimesse al beneficiario, comunque non trasmissibili, insieme a sintetiche note di controllo corrispondenti trasmesse al banchiere, che non disponeva per la protezione dalle falsificazioni, come nel caso dei moderni assegni liberamente trasmissibili, di formulari prestabiliti emessi dalla banca, di segnature depositate, né in definitiva di protezione legale388.

Circolavano invece moderatamente in Egitto, a quanto sembra, polizze di deposito di cereali in magazzini e, con minore frequenza, di somme di denaro o tesserae nummulariae, senza mai conseguire la natura di titoli al portatore per l’assenza del moderno requisito dell’autonomia389, né ottenere mai la diffusione e l’importanza dei moderni assegni.

384 Andreau, Pouvoirs, cit., pp. 11 e s.385 Bogaert, Recherches sur la banque en Égypte gréco-romaine, Histoire économique de l’Antiquité, Louvaine-la-Neuve, 1987, p. 75.386 Bogaert, Note sur l’emploi du chèque dans l’Égypte ptolémaique, CE, 58, 1983, pp. 212-221.387 Ad esempio: “Ireneo al banchiere Protarco salute. Paga a Sarapione, agente di Theone quattro talenti di bronzo, cioè 4. Il 30° (giorno del mese di) Thot nell’anno 32°”. Bagnall, Greek Papyri and Ostraka in the Florida State University Library, Proceedings of the XIV International Congress of Papyrologists, Oxford, 24-31 luglio 1974, Londra, 1975, p. 10; Bagnall, Bogaert, Orders for payment from a banker’s archive: papyri in the collection of the Florida State University, Anc. Soc., 6, 1975, pp. 79-108.388 Bogaert, Recherches sur la banque en Égypte gréco-romaine, cit., p. 77, ricorda che “il moderno chèque è stato inventato in Inghilterra. La parola check o chèque è attestata per la prima volta nel 1706 con il senso di matrice di controllo. Gli ordini di pagamento indirizzati ai banchieri dopo il 1665 non si chiamavano cheques, ma drawn notes, tratte. Dopo il 1717, la drawn note accompagnata dalla sua matrice di controllo, cheque, è chiamata egualmente cheque, e dopo il 1774, la parola cheque è impiegata per l’ordine di pagamento rimesso ad un banchiere ed ha rimpiazzato il termine drawn note.389 CC. art. 1993: “Eccezioni opponibili. Il debitore può opporre al possessore del titolo soltanto le eccezioni a questo personali, le eccezioni di forma, quelle che sono fondate sul contesto letterale del titolo, nonché quelle che dipendono da falsità della propria firma, da difetto di capacità o di rappresentanza al momento dell’emissione, o dalla mancanza delle condizioni necessarie per l’esercizio dell’azione. Il debitore può opporre al possessore del titolo le eccezioni fondate sui rapporti personali con i precedenti possessori, soltanto se, nell’acquistare il titolo, il possessore ha agito intenzionalmente a danno del debitore medesimo”. Così non avveniva nel mondo antico.

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Oltre ai nomina transcripticia ed al codex accepti et expensi, la prassi documentale romana conobbe diversi tipi di documento: la testatio, il chirografo, il descriptum et recognitum, la singrafe, la testatio cum chirographo coniuncta, il testamento e la formula processuale.

La testatio, aderente allo schema dell’atto - testimonianza, era basata su di una descrizione in forma oggettiva e dunque impersonale ( ad es.: L. Titius...habere se dixit) del negozio o del fatto che si voleva documentare, sulla partecipazione di sette o più testimoni che sigillavano il documento ed infine sulla duplice scritturazione, che assicurava l’autenticità nel caso di contestazione. Il fondamento dell’autenticità del documento riposava sulla menzione dei testimoni ed è facile comprendere che in una società scarsamente alfabetizzata come quella romana, ove tanta importanza aveva la forma orale, di cui era impregnata anche il diritto, il documento giuridico solo lentamente fece la sua comparsa ed, in ogni caso, contemplando una descrizione oggettiva dei fatti nel documento e menzionando i testimoni, essenziali per la prova dell’esistenza del rapporto.

Il chirographum, conforme al modello dell’atto - confessione, era fondato su di una descrizione del rapporto in forma personale, soggettiva ( ad es.: L. Titius...scripsi me accepisse). Mutuato dal mondo greco, recava però la data all’inizio e non alla fine, non aveva veste epistolare e appariva sufficiente la menzione di tre - o anche di un numero inferiore - di testimoni.

Se scarsa importanza era data all’autografia e la firma normalmente era assente, l’apposizione di un sigillo dell’emittente concorreva a rafforzare la forza probatoria del documento e ad attestarne l’imputabilità all’emittente, ma in ogni caso non determinava il momento in cui si perfezionava l’efficacia del documento. Infatti il documento soggettivo scritto, come di consueto, da persona di fiducia dell’emittente per conto di costui, presente, veniva direttamente imputato all’emittente stesso anche in assenza di apposizione di firma (subscriptio) o di sigillo390. La subscriptio, poi, in documenti redatti da terzi non consisteva spesso in una semplice apposizione autografa del nome dell’emittente al testo del documento, ma poteva arrivare a costituire un ampio riassunto del contenuto dell’atto. In pratica gli antichi, come s’è detto, attribuivano, alla scrittura ed al documento un valore ben diverso dall’attuale, riconoscendo alla prima un’efficacia secondaria rispetto all’atto ed alla dichiarazione verbale, al secondo un valore probatorio e non costitutivo del rapporto. Significativamente Donato, collocandosi in quest’ottica, ancora nel IV sec. d.C., annoverava gli scritti tra le testimonianze personificate, designandoli come testimonia caeca391.

Pare che per influsso di concezioni non romane sia apparsa nei documenti provinciali la subscriptio dell’emittente in testationes oggettive, dando luogo ad una testatio cum subscriptione coniuncta, diversa dalla testatio cum chirographo coniuncta, che si riscontra in alcune tavolette pompeiane dell’archivio di Cecilio Giocondo. In questi ultimi documenti la scrittura interna è una testatio, l’esterna un chirografo. Non sembra possibile che si sia verificato il caso inverso, cioè di un chirografo interno e di una testatio esterna, poichè la chiusura sigillata della scrittura interna appariva essenziale alla validità della testatio.

Nel caso delle testationes cum chirographo coniunctae si veniva incontro alle esigenze avvertite nel mondo provinciale e greco, che cioè l’autenticità del documento venisse imputata ad una dichiarazione sovente autografa dell’emittente, col conservare nella scrittura interna la redazione oggettiva, piuttosto che ricorrere

390 Steinacker, Die antike Grundlagen der frühmittelalterliceh Urkunden, Leipzig, 1927, pp. 110 ss; Talamanca, Enc. del diritto, XIII, Milano, 1964, v. Documento e documentazione (dir. rom), p. 551. 391 Lévy, op. cit., p. 490 nt. 19.

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all’espediente di aggiungere la subscriptio dell’emittente stesso alla testatio, come nei documenti provinciali sopra citati. Si è osservato infatti che nelle tavolette pompeiane testatio e chirografo erano indipendenti l’una dall’altro, invece la subscriptio non era indipendente rispetto al documento al quale si apponeva “non potendo quello avere autenticità senza questa, e questa aver efficacia senza quello”392. In conclusione nelle testationes cum chirographo coniunctae la scrittura esterna non costituiva un’ampia subscriptio della testatio interna, ma un documento completamente autonomo, che per conferire maggiore forza univa i due fondamenti di autenticità del mondo greco e romano: la menzione dei testimoni e la redazione soggettiva.

Il descriptum et recognitum non ebbe autonomia documentale e non era altro che una testatio, copia autentica di un documento di cui non si poteva ottenere l’originale, redatto dunque in forma oggettiva da uno scriba, retribuito da chi era interessato ad ottenere la copia. La sua autenticità non era quindi garantita da un pubblico ufficiale a ciò legittimato, ma dai normali testimoni. Vi si ricorreva in occasione di dichiarazioni di nascita e, forse, di rescritti e responsi, di testi in genere affissi in pubblico, in un’epoca nella quale non era ancora previsto alcun procedimento ufficiale per il rilascio di copia.

Già il testamento, enunciato in forma soggettiva, contenente con rigore di ordine e di formulazione le disposizioni del testatore (nuncupationes), registrate fin da età assai antica in tavolette cerate (in...tabulis cerisque) e accompagnate dalla descrizione in forma oggettiva del rito della mancipatio familiae, sia la formula processuale, che “riproduceva letteralmente nella sua forma imperativa l’attività del magistrato”, furono documenti tipici ed esclusivi del mondo romano, difficilmente inquadrabili nel ben noto schema: atto - testimonianza, atto - confessione393.

Il diritto romano classico conosceva solo il documento probatorio e non dava alla prova documentale particolare preminenza rispetto ad altri mezzi di prova: in esso la nascita e persistenza del rapporto giuridico appariva indipendente dalla redazione ed esistenza di un documento. Prendere dunque in considerazione la genesi dell’efficacia costitutiva e dispositiva del documento, come in estrema sintesi ci accingiamo a fare, appare di un certo interesse.

Sembra che solo in età postclassica al documento sia stata attribuita in genere un’efficacia anche costitutiva, come pare avvenisse nel caso del testamento, della donazione, della stipulatio, nei negozi di diritto familiare per i quali era richiesto un instrumentum publicum: adozione, emancipazione, manomissione e tutela. Se l’autore dell’Epitome Gai avvertiva la necessità di precisare che i quattro tradizionali contratti consensuali (emptio venditio, locatio conductio, societas e mandatum) potevano concludersi anche verbo (quia in huiusmodi rebus consensus magis quam scriptura aliqua aut solemnitas quaeritur), come è stato giustamente osservato, ciò avveniva perchè ormai, nel V e VI sec. d.C., doveva essere convinzione diffusa che la charta scritta fosse l’elemento necessario per la validità degli accordi tra privati394.

Nel periodo classico invece si tenevano in scarso conto i vari tipi di documento scritto e per tale ragione furono poste, a differenza dell’età giustinianea, poche norme legislative sulla confezione dei medesimi. Il SC Neroniano del 61 d.C. fu una di quelle disposizioni che, muovendo forse da un caso di falso testamentario che aveva anche offerto l’occasione della repressione della tergiversatio attraverso un altro SC, il

392 Talamanca, op. cit., p. 552.393 Amelotti, op. cit., pp. 313 e 316. 394 Ep. Gai 2, 9, 13. Cfr. Bove, v. Documento (Storia del diritto), Digesto delle discipline privatistiche, Sezione civile, VII, Torino, 1991, pp. 20 e s.

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Turpilliano395, escogitò contro le alterazioni delle tavolette il ben noto sistema dei triplici legamenti di lino sigillati, passanti per fori396. Dalla provincia romana della Licia proviene invece il testo di un decreto del governatore Quinto Veranio, che prendendo spunto sotto Claudio da una sentenza emanata in seguito ad una cognitio, puniva con la fustigazione un servo pubblico di una città della provincia, che aveva trascurato ogni avvertimento accettando, per l’inserzione nei pubblici archivi, documenti relativi a negozi giuridici con aggiunte e cancellature397. Con tono edittale si stabiliva pertanto per il futuro che in via generale documenti con aggiunte, cancellature o riscritti fossero privi di ogni efficacia nella provincia e si elencavano tipi di documenti ammessi come il symbólaion, il chirografo e la singrafe, ma anche altri otto tipi poco conosciuti, che certamente non erano caratteristici solo di quella provincia398.

Nonostante il recente recupero di tali disposizioni sui documenti, sembra che il documento romano sia rimasto sino alla fine dell’età del principato prevalentemente un atto di privati. Così gli esperti in materia documentale, tabelliones, pare siano stati semplici privati che redigevano i documenti (tabellionici) con i caratteri fondamentali della documentazione privata399. Solo in età postclassica si riconobbe la forza probatoria vincolante del documento nei limiti della querela di falso, finendo col privilegiare la prova documentale (instrumenta), rispetto ad altri tipi di prova (testimonia, argumenta). Si richiedeva al tempo stesso che colui che esibiva un documento ne dimostrasse l’autenticità (impositio fidei), tramite il confronto con altre scritture della persona dell’emittente (comparatio litterarum). Il numero di testi richiesto per conseguire la prova, nel caso di esibizione di un documento, diminuì da cinque a tre, ma la prova testimoniale prevalse sempre comunque sulla comparatio litterarum400.

Pare che gli unici casi noti nel diritto romano di efficacia dispositiva del documento siano stati, come si è visto, l’expensilatio ed il testamento pretorio. In entrambe le eventualità, infatti, la mancata redazione per iscritto avrebbe comportato l’inesistenza del negozio e la distruzione dei documenti avrebbe dunque implicato l’impossibilità dell’esercizio dei diritti connessi al negozio medesimo. Tutto ciò tendeva a favorire il lento sorgere dell’ idea di una vera e propria incorporazione del diritto nel documento.

Solo in età giustinianea con una serie di disposizioni sulla confezione dei documenti401 il documento privato (instrumentum privatum) apparve contrapposto al documento pubblico (instrumentum publice confectum), redatto cioè secondo rigorose formalità dal corpo professionale dei notai. Con valore intermedio, accanto a questi due tipi di documento esisteva un documento non notarile realizzato in presenza di tre 395 Tacito, Annales 14, 29; 40 - 42; Purpura, Il papiro BGU 611 e la genesi del SC Turpilliano, AUPA, 36, 1976, pp. 239 ss. 396 Svetonio, Nerone 17 (sopra cit. nt. 24); Paolo, Sent. 5, 25, 6: Amplissimus ordo decrevit eas tabulas, quae publici vel privati contractus scripturam continent, adhibitis testibus ita signari, ut in summa marginis ad mediam partem perforatae triplici lino constringantur atque impositae supra linum cerae signa imprimantur, ut exteriori scripturae fidem interior servet. Aliter tabulae prolatae nihil momenti habent. 397 Wörrle, Zwei neue Inscriften aus Myra, in Borchhardt, Myra. Eine lykische Metropole, Berlin, 1975, pp. 254 - 286; Amelotti, SDHI, 45, 1979, pp. 727 ss.; Amelotti, Genesi del documento, cit., p. 319 nt. 28. 398 Ad es. la semeîosis è menzionata per l’Egitto in P. Oxy. II, 269. 399 Ankum, Les tabellions romains, ancêtres directs des notaires modernes, Atlas du notariat, Kluwer - Deventer, 1989, pp. 396 ss. 400 Talamanca, op. cit., pp. 557 e s. Una riforma del valore probatorio del chirografo fu introdotta da Onorio nel 421 (C.Th. 2, 27, 1), che tentò di ricondure la scrittura “per quanto possibile nella realtà del mondo postclassico, alla sua funzione probatoria originaria”. Cfr. Silli, C. Th. 2, 27, 1. Il valore probatorio del chirografo nella riforma di Onorio, St. Senesi, 96, 1984, pp. 400 - 460. 401 C. 4, 21, 17 pr. (528); Nov. 44 (536); 47 (538).

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testimoni sottoscriventi, denominato instrumentum quasi publice confectum. Caratteristiche del documento tabellionico erano la completio ad opera del tabellio, consistente nella menzione e della lettura del documento e della richiesta alle parti di una reale corrispondenza alla propria volontà, e l’absolutio ad opera delle parti che ne approvavano il contenuto. I documenti pubblici venivano infine insinuati, cioè pubblicamente registrati apud acta.

Per quanto concerne infine il problema dell’incorporazione del diritto nel documento si rileva che, al tempo di Giuliano, il legato o la vendita di un chirografo si identificava con il lascito o la vendita del credito402; ma ancora nel 229 d.C. Alessandro Severo affermava che neque scriptura...obligare te contra fidem veritatis potuit403. Nel 293 - 294 d.C., fu ammessa la condictio chirographi relativa ad un debito estinto404 e nel 446 d.C. Valentiniano III si spinse a riconoscere il testamento olografo interamente di pugno del disponente senza testimoni, testamento negato poi da Giustiniano (ripreso solo nel XVI sec.) per i pericoli insiti in un atto predisposto per valere solo dopo la morte di colui che l’aveva redatto405.

Sono tutti questi indizi di una tendenza che, in concomitanza con un progressivo aumento del valore della scrittura, era volta ad un lento riconoscimento dell’incorporazione del diritto nel titolo. Tuttavia per il diritto romano è assai controverso che ciò sia avvenuto con un’ampiezza e soprattutto una portata in qualche modo accostabili all’esperienza moderna.

Le stesse clausole, che nel diritto ellenistico sembravano già riconoscere al documento il valore di un’ obbligazione letterale indipendente dalla provvista e che affermavano il dovere del debitore di pagare, dovunque il chirografo fosse stato presentato ed a chiunque lo avesse presentato (kyría he cheír pantachõu epipheroméne kaí pantì tõi epiphéronti), pare che abbiano avuto come si è detto, una portata ben più limitata: quella di “facilitare la prova, riconoscere la trasmissibilità ereditaria e la cedibilità dei crediti, nonchè la liceità del mandato a riscuotere”406.

L’esistenza poi di numerosi documenti di cessione e di mandato a riscuotere confermerebbe che il chirografo greco-egizio con la clausola al portatore sarebbe stato talvolta utilizzato per facilitare ulteriormente la cessione e riconoscere la facoltà di pagare al presentatore con efficacia liberatoria, senza specifica documentazione della cessione del credito medesimo, ma non per ammettere l’indipendenza del diritto di credito del terzo possessore dal suo dante causa. Da una parte avrebbero potuto essere opposte tutte le eccezioni che avrebbero paralizzato il diritto di costui e “d’altra parte sarebbe stato lasciato alla discrezione del giudice l’accertare con tutti i mezzi la legittimità del possesso”407. Oggi si parla di titoli improprî e di documenti di legittimazione per oggetti che, se trasmessi, servono solo a facilitare la prova per l’individuazione dell’avente diritto alla prestazione (biglietti teatrali, ferroviarî, cinematografici, contromarche di guardaroba, etc.), ma che restano comunque assoggettati alle eccezioni opponibili al dante causa408. E’ dunque possibile ritenere che sin dall’età ellenistica circolassero documenti di deposito di cereali in 402 D. 32, 59: Qui chirographum legat, non tantum de tabulis cogitat, sed etiam de actionibus, quorum probatio tabulis continetur.403 C. 4, 31, 6 e 8,32, 2.404 C. 8, 42, 25 (294): Solutionem adseveranti probationis onus incumbit: quo facto chirographum condicere potest: 4, 9, 2 (293): Dissolutae quantitatis retentum instrumentum inefficax penes creditorem remanere et ideo per condictionem reddi oportere non est iuris ambigui.405 Nov. Val. XXI, 2, 1: si holographa manu testamenta condantur, testes necessarios non putamus. 406 Arangio Ruiz, Il problema dei titoli al portatore, cit., p. 141. 407 Arangio Ruiz, l. c.408 C.C. art. 2002: “Documenti di legittimazione e titoli improprî. Le norme di questo titolo” (relativo ai titoli di credito) “non si applicano ai documenti che servono solo ad identificare l’avente diritto alla prestazione o a consentire il trasferimento del diritto senza l'osservanza delle forme proprie della cessione”.

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magazzini o, con minore frequenza, di denaro presso argentarii, ma che difficilmente nel mondo greco-romano fosse già pienamente riconosciuta l’importante caratteristica nella cessione del titolo di credito dell’indipendenza dal dante causa, peculiare della moderna concezione, che implica l’incorporazione del diritto nel titolo.

Nell’ occidente medioevale in rapporto all’instrumentum, come in altri settori, si verificò un regresso. L’atto - confessione utilizzato dai greci ed adottato dai romani venne ben presto abbandonato. Secondo le concezioni prevalenti dell’epoca il documento scritto tornò ad essere una testimonianza: glossatori, postglossatori e canonisti chiamarono gli atti scritti testimonia ed i tabellioni stessi furono considerati anch’essi testimoni. Riprese valore il sigillo che divenne assai elaborato e la firma fu indotta a trasformarsi in complicato disegno409. A partire dal XII sec. entrarono in conflitto le due opposte tendenze: “le testimonianze prevalgono sulle scritture” o “gli scritti son più affidabili della memoria umana”, poichè memoria hominum labilis est410. Se Innocenzo III, nel 1206 - 1209, affermava che la deposizione di quattro testimoni prevaleva su un atto notarile, confermato addirittura dallo stesso notaio, ciò valeva a significare che, a prescindere dalla querela di falso, uno scritto avrebbe potuto essere contraddetto nei suoi fondamentali enunciati da dichiarazioni di testimoni non instrumentari; per qualche secolo ancora, in effetti, si continuò a discutere sul numero di testi necessario per opporsi con successo al documento scritto (cinque, tre, due, numero quest’ultimo veramente minimo poichè testis unus, testis nullus). Ciò significava porre la singola testimonianza su di un piano di assoluta parità con il documento scritto411. L’idea di considerare la prova letterale come prova testimoniale, avallata dalle fonti romane e rafforzata, in età medioevale, dalla diffidenza derivante dalla diffusione di numerosi falsi, alcuni celebri come la donazione di Costantino, fu in realtà il retaggio persistente di un’oralità mai sopita: alla vox mortua instrumentorum si oppose infatti con successo la viva voce dei testimoni. Si giunse al punto da affermare che l’atto scritto restava impassibile e che la pergamena non era altro che la pelle di un animale morto sulla quale penna cuiuslibet quelibet notare potest412.

Alla fine del medioevo, soprattutto nei centri mercantili delle repubbliche marinare, il documento scritto giunse ormai a prevalere sulla prova testimoniale. A Genova, ad esempio, si agiva dinnanzi al Tribunale della Rota sulla base di atti notarili, o anche privati, quietanze e lettere di cambio. La prova letterale fu ammessa sino a querela di falso nel XV sec. a Bologna e Milano, ma forse già prima a Napoli, e attraverso questa via finirà per imporsi nelle moderne codificazioni, non senza il persistere di qualche difficoltà413. Ancora oggi Svizzera e Germania non pongono limiti all’ammissione della prova testimoniale ed in Russia non è ammesso il sistema delle prove legali e si riconosce la prova testimoniale contro il documento scritto, a meno che esso non sia reso obbligatorio da una disposizione legale o convenzionale. V’è chi adesso prematuramente parla del “declino della prova scritta” e certo potrebbe indurre in tal senso il recupero dell’oralità, della rappresentazione della vita nel suo reale

409 Levy J. Ph., op. cit., p. 480.410 Levy J. Ph., l.c.411 Levy J. Ph., l.c. 412 Levy J. Ph., op. cit., p. 496. Scriveva Innocenzo IV nella metà del 1200: certum est quod contra ius est officium tabellionis, quia chartae animalis mortui creditur sine adminiculo alio...Sunt nam huiusmodi quasi contra naturam et miraculosa..., contra leges publicas et contra ius naturale ed ancora nella metà del ‘400 Antonio Beccadelli, detto il Panormita, affermava probatio per instrumentum est supernaturalis et contra ius, ut credatur pelli animalis mortui. Sed probatio quae fit per duos testes est naturalis, secundum ius divinum et humanum: ergo haec est praeferenda.413 Levy J.Ph., op. cit., p. 485.

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svolgimento, segno di un “neoarcaismo” al quale spingono gli straordinari processi tecnologici in atto, che per un verso facilitano la contraffazione degli originali, dall’altro propongono sempre nuovi supporti e modi d’ intendere le cose in grado di avere influenza nel mondo del diritto. Ma tutto ciò costituisce già il futuro della prova documentale.

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Elenco illustrazioni e didascalie:

1 – Kýrbeis (da Nenci, La KURBIS selinuntina, ASNP, XXIV, 1994, pp.459-466).2 – Liber linteus raffigurato in un coperchio di sarcofago etrusco.3 – Liber linteus posto accanto al capo di un defunto.4 – Bassorilievo di età augustea raffigurante l’interno di una bottega di un mercante

di tessuti, ove membri di una nobile famiglia acquistano un libro di lino per la registrazione dei ricordi familiari. Firenze. Museo degli Uffizi.

5 – Dittico ligneo con perni in avorio dal relitto del XV sec. a.C. ad Ulu Burun (Turchia).

6 – Scriba, assiso in tribunal con un re ed un augure, e registrante su tavolette l’assegnazione di premi. Da Chiusi. VI sec. a.C. Palermo. Museo Archeologico.

7 – Tab. Pomp. 34 con due formule processuali, unificate da un iussum iudicandi. Pozzuoli. 52 d.C.

8 – Rilievo da Neumagen raffigurante uno scolaro con un codex ansatus. Fine del II sec. d.C. Treviri, Rheinisches Landesmuseum.

9 – Uno dei trittici delle tavolette transilvane. II sec. d.C.10 – Tavoletta d’argilla con un contratto di matrimonio del 1850 a.C. c.a., sigillata in

un involucro con identico testo all’esterno.11 – Tavoletta lignea da Vindolanda (Inghilterra) in corsivo latino della fine del I,

inizi del II sec. d.C. Londra, Britsh Museum. 12 – Bulla mesopotamica con calculi (tokens). Baghdad, Museo Archeologico.13 – BGU IX, 1896, rotolo con lista di terreni e proprietarî per l’imposizione fiscale

del 166 d.C. (da Montevecchi, La Papirologia, Milano, 1988).14 – Gnomon dell’idioslogos in BGU V, 1210 del 161-180 d.C. c.a. (da

Montevecchi, La Papirologia, Milano, 1988).15 – Epistula privata su ostrakon da Mons Claudianus. I-II sec d.C.16 – La concessione della cittadinanza romana ai peregrini da parte di Caracalla del

212 d.C. in Pap. Giess. 40 (post. al 215 d.C.).17 – I tredici apokrimata di Settimio Severo e Caracalla pubblicati nel portico del

ginnasio di Alessandria il 14 marzo del 200 d.C. (Pap. Col. 123).18 – Il lapis niger, iscrizione del Foro romano della metà del VI sec. a.C.19 – Uno dei più antichi frammenti papiracei del Vangelo. Inizio del Vangelo di

Giovanni in un papiro della collezione Rylands del II sec. d.C.20 – Pap. Herc. 1475 del I a.C.- I sec. d.C., contenente una delle più antiche opere

giurisprudenziali latine pervenuteci.21 – Le Istituzioni di Gaio nel palinsesto veronese della metà del V sec. d.C. c.a.22 – Il Pap. Oxy. 2103 della metà del III sec. d.C. c.a., contenente le Istituzioni di

Gaio.23 – Il PSI 1182 della metà del IV sec. d.C. c.a., contenente un’altra versione

egiziana delle Istituzioni di Gaio.24 – Il PSI 1449, della metà del IV sec. d.C. c.a., contenente un brano del

commentario ad edictum di Ulpiano.25 – Indice del primo Codice di Giustiniano nel Pap. Oxy. XV, 1814. 26 – Un symbolon dalla Roma di Tarquinio Prisco (fine VII-inizi VI sec. a.C.). In

etrusco: Araz Silqetenas (gentilizio) Spurianas (toponimo).27 – Inizio dell’Index Florentinus allegato alla Littera Florentina, il principale

manoscritto del Digesto.28 – Il titolo sulle costituzioni imperiali (D. 1, 4) della Littera Florentina,

manoscritto non posteriore al 557/575 d.C.

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