Punto Omega 18 - Dialoghi Di Bioetica e Biodiritto 2005

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Remo Andreolli 3 Editoriale 5 Introduzione 9 SALUTE E CULTURE: LA SOCIETà Dialogo di Bioetica e Biodiritto del 3 giugno 2005 Ilario Rossi 10 Salute, società e cultura Cinzia Piciocchi 21 Il diritto possibile Licia Scantamburlo 26 La salute della popolazione immigrata Giulio Donazzan 32 Pluralismo culturale e professioni sanitarie Elisabetta Cescatti 37 Donne immigrate e maternità Giampaolo Rama 40 Storie di immigrati e del loro accesso ai servizi sanitari 49 SALUTE E CULTURE: LA DONNA Dialogo di Bioetica e Biodiritto del 16 settembre 2005 Patrizia Borsellino 50 Le mutilazioni genitali femminili Michela Berlanda 60 Maternità e culture Gaia Marsico 67 Una salute pensata con sguardo di donna 1 8 anno otto numero diciotto Violetta Plotegher 74 La salute delle donne 79 SALUTE E INFORMAZIONE Dialogo di Bioetica e Biodiritto del 7 ottobre 2005 Giovanni Martini 80 La comunicazione come determinante della salute Andrea Gianinazzi 89 La morte è inevitabile Vittorio Curzel 99 Marketing sociale, autoresponsabilizzazione e scelte di salute Mauro Bertoluzza 107 Salute e dintorni... mediatici Marco Clerici, Greta Sona 123 DAL DIALOGO ALLE IPOTESI DI RICERCA SUL CAMPO Considerazioni conclusive del Gruppo di lavoro Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 18

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Dialoghi di Bioetica e Biodiritto 2005 - Atti degli incontri organizzati dall'Università di Trento, dall'Ordine dei Medici della provincia di Trento e dalla Provincia Autonoma di Trento

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Page 1: Punto Omega 18 - Dialoghi Di Bioetica e Biodiritto 2005

Remo Andreolli 3 Editoriale

5 Introduzione

9 salutE E culturE: la socIEtà Dialogo di Bioetica e Biodiritto del 3 giugno 2005

Ilario Rossi 10 salute, società e cultura

Cinzia Piciocchi 21 Il diritto possibile

Licia Scantamburlo 26 la salute della

popolazione immigrata

Giulio Donazzan 32 Pluralismo culturale

e professioni sanitarie

Elisabetta Cescatti 37 Donne immigrate

e maternità

Giampaolo Rama 40 storie di immigrati

e del loro accesso ai servizi sanitari

49 salutE E culturE: la DoNNa Dialogo di Bioetica e Biodiritto del 16 settembre 2005

Patrizia Borsellino 50 le mutilazioni genitali

femminili

Michela Berlanda 60 Maternità e culture

Gaia Marsico 67 una salute pensata

con sguardo di donna

1 8anno otto numero diciotto

Violetta Plotegher 74 la salute delle donne

79 salutE E INForMaZIoNE Dialogo di Bioetica e Biodiritto del 7 ottobre 2005

Giovanni Martini 80 la comunicazione come

determinante della salute

Andrea Gianinazzi 89 la morte è inevitabile

Vittorio Curzel 99 Marketing sociale,

autoresponsabilizzazione e scelte di salute

Mauro Bertoluzza 107 salute e dintorni...

mediatici

Marco Clerici, Greta Sona 123 Dal DIaloGo

allE IPotEsI DI rIcErca sul caMPo Considerazioni conclusive del Gruppo di lavoro

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“Serrati gli uni contro gli altri dalla crescita del loro numero e dalla moltiplicazione dei collegamenti, accomunati dal risveglio della speranza e dell’angoscia per il futuro, gli uomini di domani lavoreranno per la formazione di una coscienza unica e di una conoscenza condivisa”.

Pierre Teilhard de Chardin

“Punto Omega”, nel pensiero di Teilhard de Chardin, filosofo e teologo vissuto tra il 1881 e il 1955, è il punto di convergenza naturale dell’umanità, laddove tendono tutte le coscienze, nella ricerca dell’unità che sola può salvare l’Uomo e la Terra. “Punto Omega” è anche il titolo scelto per la rivista quadrimestrale del Servizio sanitario del Trentino ideata nel 1995 da Giovanni Martini, poiché le sue pagine vogliono rappresentare un punto di incontro per tutti coloro che sono interessati ai temi della salute e della qualità della vita.

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a bioetica, cioè quella branca dell’etica che studia i valori morali all’interno delle scienze biomediche, si sta evolvendo anche come risposta allo sviluppo e ai progressi della scienza e della tecnologia in campo biologico e medico laddove si propongono in continuazione problemi nuovi, riferibili non solo alle “zone di frontiera” dell’esistenza umana, come la nascita, la morte, le malattie, ma anche alla vita quotidiana di ciascuno.

Il tema della salute non è molto presente nel dibattito bioetico che solitamente privilegia le situazioni estreme, come la fecondazione assistita, i trapianti di organi, le condizioni di sopravvivenza terminale, trascurando il fatto che la salute e la malattia sono per ciascuno di noi elementi di esperienza, di riflessione e anche di scelte di carattere morale.

Mi ha quindi fatto molto piacere che il Comitato Scientifico, che ha programmato i “Dialoghi di Bioetica e Biodiritto” per l’anno 2005, abbia scelto proprio il tema della salute come filo rosso delle 7 giornate che hanno visto la partecipazione di importanti ed autorevoli relatori.

Il fatto di ribadire la centralità della salute e di coinvolgere fra i relatori e i partecipanti a questa serie di “Dialoghi” non solo professionisti della salute, ma anche persone che, a vario titolo, si occupano di salute, costituisce un aspetto di assoluto rilievo in quanto le manifestazioni e le difficoltà della vita sono molteplici e articolate e non si possono esaurire all’interno di una sola scienza, la medicina, o di un solo settore, la sanità.

La medicina e le professioni sanitarie infatti non possono essere considerate come l’unico modo possibile per mantenere, tutelare e miglio­

­ rare la salute degli individui e delle comunità. Talvolta le informazioni a cui tutti noi siamo esposti tendono ad orientare la domanda di salute in termini di merce da acquistare, lasciando in secondo piano i fattori di salute che dipendono da scelte collettive o personali, che vanno sotto il nome rispettivamente di determinanti socio-economici e di stili di vita. Succede spesso che da parte del cittadino vi sia la delega di parte di sé verso un potere esterno, mentre da parte del medico vi sia l’assunzione di una delega sulla vita altrui sempre più ampia. Questo aspetto va necessariamente riequilibrato anche attraverso momenti di discussione, dibattito e formazione che consentano ai cittadini e ai professionisti della salute di poter interagire sulla base di una cultura condivisa che comprenda non solo gli aspetti tecnici propri della medicina, ma anche quella costellazione di valori che sono parte intrinseca di ciascun essere umano e di ciascuna comunità.

È proprio per questo che i professionisti della salute, ma anche i professionisti in un’accezione più vasta, nonché l’intera popolazione devono avere sempre di più la possibilità di dibattere e discutere i temi della bioetica perché questi temi, talvolta nuovi e poco conosciuti, che si legano ai progressi scientifici e all’evoluzione dell’umanità, possono consentire una maggior comprensione reciproca fra professionisti della salute e cittadini per costruire una forma di alleanza terapeutica e relazionale contro la malattia. Tale alleanza deve costituire anche la base per relazioni interpersonali più positive fra professionisti e pazienti nella logica che i servizi sanitari non siano solamente luoghi di competenza tecnica, ma divengano sempre di più luoghi di buona accoglienza.

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Questo è uno degli obiettivi che la Giunta provinciale ed io personal-mente ci siamo dati ed è per questo che ho voluto proporre che il 2005 sia, per la sanità, ”anno del cittadi­no”, l’anno cioè nel quale tutti gli operatori della sanità, nessuno esclu­so, devono mettere in atto buone pratiche e strategie di relazione e di accoglienza orientate a valoriz­zare la centralità delle persone che utilizzano i servizi. L’iniziativa dei “Dialoghi di Bioetica e Biodiritto” si è ben inserita in questo progetto e mi auguro che i frutti che ha prodot­to facciano sì che la sanità trentina oltre al buon funzionamento che la caratterizza e che le è riconosciuto, possa connotarsi sempre di più in termini di “sanità amica”.

dott. Remo Andreolli Assessore alle politiche per la salute

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Introduzione e normativo, e non semplicemente descrittivo come le altre scienze sperimentali.

In questa logica si colloca lo stretto collegamento con il biodiritto. Ci si sta infatti rendendo sempre più conto che le problematiche che si è soliti ricondurre alla bioetica sono estremamente stimolanti, nel senso che pongono al diritto interrogativi molto concreti e sempre nuovi ed essi non sono facilmente inquadrabili nelle categorie giuridiche con cui si è abituati a ragionare. Per fare un esempio, una fase di fine vita altamente medicalizzata spinge ad interrogarsi sulle definizioni di morte e di vita, sul principio di disponibilità o indisponibilità delle stesse, sulla reazione dell’ordinamento nei confronti di imposizioni contro la volontà individuale.

In quest’ottica il biodiritto spinge alla verifica della validità e dell’utilità delle categorie giuridiche tradizionali, alla luce dei mutamenti sociali e scientifico-tecnologici tipici del nostro tempo.

È in questo contesto che è nata l’iniziativa formativa “Dialoghi di Bioetica e Biodiritto”, organizzata dal Dipartimento di Scienze Giuridiche della Università di Trento, dall’Ordine dei Medici, Chirurghi e Odontoiatri della provincia di Trento e dall’Assessorato provinciale alle Politiche per la Salute e progettata da un apposito Comitato Scientifico cui hanno dato il proprio contributo rappresentati dei tre Enti organizzatori 1 .

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Il termine “bioetica”, che derivadall’anglo-americano bioethics, èun neologismo che risale agli inizidegli anni ‘70. Il suo campo di interesse è costituito dall’applicazionedell’etica alla vita, nello specificol’etica in quanto relativa ai fenomeni della vita organica, del corpo,della generazione, dello sviluppo,maturità e vecchiaia, della salute,della malattia, e della morte.

La bioetica non è una disciplinaautonoma e indipendente, ma costituisce un punto di collegamentoe di raccordo interdisciplinare fraMedicina, Giurisprudenza, Biologia,Psichiatria e Filosofia Morale.

La bioetica, pur rivendicando lasua novità e la sua dignità all’interno delle discipline etiche, nonpuò, sicuramente, essere elevataal rango di “scienza”.

Infatti, pur attingendo alle novità e agli aggiornamenti, speciequelli più rilevanti sotto il profilodel loro utilizzo tecnologico, dellescienze empiriche, la bioetica è unadisciplina di carattere prescrittivo

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Attraverso tale iniziativa, che

nell’anno 2005 è stata realizzata per il terzo anno consecutivo, gli organizzatori si sono posti l’obiettivo di analizzare, approfondire, discutere e dibattere i principali problemi con cui si devono confrontare, anche nell’attività quotidiana, le persone che si occupano dell’assistenza sanitaria.

Va opportunamente precisato che una importante caratteristica dei “Dialoghi di Bioetica e Biodiritto” è quella di essere rivolti all’intero ambito, diversificato e complementare, delle professioni sanitarie e sono sempre stati collocati all’interno del programma di Educazione Continua in Medicina (ECM).

I primi quattro dialoghi del 2005 sono stati proposti anche agli studenti della Facoltà di Giurisprudenza sotto forma di “laboratorio applicativo”.

Per quanto riguarda la parte valutativa del programma dei “Dialoghi di Bioetica e Biodiritto” nel contesto dell’Educazione Continua in Medicina, si è ritenuto di proporre ai partecipanti non tanto la compilazione di un test, bensì la descrizione di esperienze personali dirette o indirette contenenti commenti, osservazioni, valutazioni attinenti ai temi trattati.

Il materiale raccolto, costituito da ben 413 casi vissuti e raccontati dagli operatori sanitari partecipanti agli incontri, è stato analizzato da un Gruppo di lavoro coordinato dalla dottoressa Greta Sona, laureata in

Scienze Giuridiche, e composto da 9 operatori sanitari e da un dottorando in Giurisprudenza 2.

I casi sono stati analizzati e commentati sotto il profilo giuridico, etico e deontologico, nel corso di apposite riunioni che si sono svolte parallelamente ai “Dialoghi di bioetica e biodiritto”.

Alcuni casi che sono stati oggetto di discussione vengono riportati nella presente pubblicazione.

La pubblicazione successiva che completerà la documentazione dei “Dialoghi di Bioetica e di Biodi-ritto” dell’anno 2005, oltre ai casi specifici relativi alle temi che verranno riportati, conterrà anche la sintesi e il commento dell’attività svolta dal Gruppo di lavoro sopra descritto.

Le sette giornate in cui si sono articolati i “Dialoghi di Bioetica e Biodiritto” hanno visto una partecipazione numerosa sia di professionisti della salute sia di studenti. Di seguito è riportato, per ciascun “Dialogo”, il numero dei partecipanti e i contributi raccolti:

4 marzo 2005 LA SALUTE Al dialogo hanno partecipato 84 persone, che hanno prodotto 57 contributi.

1 aprile 2005 SALUTE E COnFInI: nUOVI FEDERALISMI SAnITARI Al dialogo hanno partecipato 124 persone, che hanno prodotto 91 contributi.

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13 maggio 2005 SALUTE E GLOBALIzzAzIOnE Al dialogo hanno partecipato 105 persone, che hanno prodotto 73 contributi.

3 giugno 2005 SALUTE E CULTURE: LA SOCIETà Al dialogo hanno partecipato 86 persone, che hanno prodotto 58 contributi.

16 settembre 2005 SALUTE E CULTURE: LA DOnnA Al dialogo hanno partecipato 91 persone, che hanno prodotto 67 contributi.

7 ottobre 2005 SALUTE E InFORMAzIOnE Al dialogo hanno partecipato 82 persone, che hanno prodotto 67 contributi.

4 novembre 2005 AnCORA LA SALUTE Tavola rotonda conclusiva, alla quale hanno partecipato 50 persone.

A ciascuno dei primi quattro “Dialoghi” hanno partecipato, inoltre, circa 80 studenti della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento.

NOTE

[1] COMITATO SCIEnTIFICO Franca Bellotti (Assessorato alle Politiche per la Salute), Fabio Branz (Ordine dei Medici), Carlo Casonato (Univer

sità di Trento), Marco Clerici (Ordine dei Medici), Michela Fedrizzi (Ordine dei Medici), Giovanni Martini (Assessorato alle Politiche per la Salute), Cinzia Piciocchi (Università di Trento), Loreta Rocchetti (Ordine dei Medici).

[2] GRUPPO DI LAVORO Michela Berlanda, ostetrica; Roberta Calza, farmacista; Ada Clementi, infermiera; Marco Clerici, medico di medicina generale; Fabio Cembrani, me-dico legale; Michela Fedrizzi, funzionario presso l’Ordine dei Medici della provincia di Trento; Maria Rosanna Gor-za, medico; Federica Merz, infermiera; Simone Penasa, dottorando in Giurisprudenza; Federica Rosa, infermiera.

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salute e culture: la società

Dialogo di Bioetica e Biodiritto del 3 giugno 2005

Le concezioni di vita, morte, corpo e salute cambiano da una cultura all’altra e talvolta il confronto su questi concetti è difficoltoso, ostacolando la comunicazione tra operatori sanitari e pazienti.

L’immigrazione, ad esempio, pone quotidianamente in evidenza queste problematiche, di fronte alle quali si manifesta sempre più la necessità di una preparazione specifica unitamente all’intervento di personale preparato a superare le difficoltà culturali della comunicazione.

Tuttavia, la diversità culturale emerge anche in un’ottica più ampia, perché da un lato le diversità

nell’interpretazione delle problematiche attinenti la sfera della salute non derivano solo dalla provenienza da contesti geo-culturali differenti, ma emergono anche all’interno di contesti sociali sempre più eterogenei.

D’altro lato, l’approccio dei sistemi sanitari a queste problematiche può essere esso stesso indice di diversità, caratterizzando gli orientamenti delle diverse realtà sanitarie.

L’incontro è volto ad analizzare i diversi profili (medici, sociologici e giuridici) dell’incontro tra medicine e culture differenti.

(G.S.)

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salute, società e cultura

Ilario Rossi

Tra le pratiche della razionalità medica i percorsi terapeutici dei pazienti si è nstaurata una discrepanza che impone la edifinizione del concetto di terapia.

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Dobbiamo cercare di comprendere come, in un mondo che ci vede testimoni di trasformazioni e mutazioni importantissime, sia possibile contestualizzare la problematica della salute, partendo da un presupposto antropologico.

L’obiettivo principale dell’antropologia è quello di osservare ciò che succede concretamente, in termini di pratiche e legami sociali, e successivamente di mettere in luce il senso delle pratiche che si osservano.

Oltre a questo l’antropologia tenta di costruire dei legami tra delle logiche macrosociali e delle traiettorie personali, esistenziali.

Inizierei cercando di illustrare le trasformazioni sociali che oggi stiamo vivendo e che stanno modificando sensibilmente le nostre società.

Il termine mondializzazione giustifica e dà senso a queste trasformazioni. La mondializzazione non è un fatto recente: molti autori la situano all’epoca delle grandi scoperte geografiche indotte

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dall’Occidente a cavallo tra il XV e XVI secolo. Oggi siamo arrivati alla fine delle scoperte. Abbiamo preso coscienza dei limiti del territorio del pianeta Terra e del fatto che siamo 6 miliardi di persone. Infine ci siamo resi conto che la coabitazione di questi sei miliardi di persone ci induce a riflettere sulle strategie, le modalità e i valori che dobbiamo introdurre in maniera trasversale per permettere appunto la coabitazione.

La mondializzazione oggigiorno ha assunto contorni molto specifici: ci sono fattori che contribuiscono a costruirla e a definirla.

Uno di questi fattori è quello delle migrazioni generalizzate.

Le migrazioni sono sempre esistite, ma fino a poco tempo fa erano limitate nello spazio geografico, concernevano solo alcuni luoghi e tragitti specifici. Oggi invece siamo di fronte a un fenomeno migratorio generalizzato; vi è stata un’esplosione di spostamenti dal Sud del mondo verso il nord e dall’Est verso l’Ovest, sulla spinta della ricerca di nuovi e migliori stili di vita.

L’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, che ha sede a Ginevra, nel cercare di analizzare questi fenomeni ha ricavato dei dati che sono rivelatori della portata di questo irreversibile processo storico.

Oggi siamo in presenza di: – 130 milioni di persone che sono

nate in un Paese e vivono definitivamente in un altro;

– 150 milioni di persone che vivono la maggior parte dell’anno

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in un’altra società e rientranosolo per qualche mese nella lorosocietà d’origine;

– 30 milioni di rifugiati; – 4 milioni di persone vittime

della tratta di esseri umani; – 700 milioni di persone che ogni

anno si spostano dal loro Paesed’origine per motivi turistici oprofessionali. Se fino a ieri avevamo l’abitudi

ne di considerare le nostre societàcome relativamente omogenee, nelsenso che condividevano nel beneo nel male norme, pratiche, valori ecomportamenti, oggi stiamo scivolando irreversibilmente verso società plurali, eterogenee, multiple.

Penso che siamo la prima generazione a doversi confrontare conquesto dato di fatto irreversibile,che accompagnerà l’intera umanitànel corso dei prossimi secoli.

Da ciò nasce l’esigenza di riflettere su come “fare società” in uncontesto di pluralità.

Un altro fattore che contribuisce alla mondializzazione è laglobalizzazione economica, che staproducendo un cambiamento fondamentale in termini di identitàdell’essere umano.

Due sono i principi motori dellaglobalizzazione economica: la rinnovabilità e la competizione

nel proprio ambito professionale, ciascuno di noi, in fondo, è unprodotto del mercato .

Oggigiorno, il proprio percorsoformativo non dà più a nessuno lagaranzia di poter lavorare nel campo in cui ha sviluppato le propriecompetenze.

Ciascuno di noi è obbligato a rinnovare continuamente le proprie conoscenze per poter fornire le migliori prestazioni nel proprio ambito professionale.

Gli antropologhi dicono che ormai l’identità di un individuo è condannata a costruirsi e a rinnovarsi incessantemente nel tempo. non abbiamo più le garanzie di stabilità che probabilmente accompagnavano le generazioni che ci hanno preceduto.

Un terzo fattore che contribuisce all’affermarsi della mondializzazione è la rivoluzione tecnologica.

Umberto Galimberti, nel suo libro dal titolo Psiche e techne, afferma che l’uomo si è sempre servito della tecnologia. In fondo, possiamo definire l’oggetto tecnologico come il risultato della capacità del nostro intelletto di costruire oggetti che sono estensioni del nostro corpo e che ci permettono di migliorare le condizioni di vita.

Il grande problema attuale è che con la rivoluzione informatica (iniziata alla fine degli anni ’80) e microelettronica abbiamo assistito a un’accelerazione nella comparsa di oggetti tecnologici.

Quest’esplosione sta disegnando una nuova tendenza nel rapporto tra essere umano, società e tecnologia. Se fino a oggi la tecnologia è stata considerata come un mezzo per poter migliorare le nostre condizioni di vita, ora la tecnologia sta diventando l’ambiente, il contesto in cui l’essere umano dovrà evolvere. L’essere umano sarà costruito ed educato

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per fare funzionare un mondotecnologico.

L’informatica ha inciso moltoanche sulle professioni sanitarie,facendo sorgere la necessità didover formalizzare con dati semprepiù precisi e dettagliati ogni prestazione che l’operatore sanitariofornisce, mettendo in secondopiano la sofferenza dei pazienti.

Dunque la tecnologia sta trasformando ineluttabilmente l’identità degli esseri umani.

Un quarto fattore è la trasparenza sociale, cioè la tendenza delprivato a introdursi sempre più nelpubblico e il pubblico nel privato.

Pensiamo, per esempio, ai realityshow: perché si sente il bisogno dimostrarein modo tanto esplicito leproprie emozioni?

E perché i poteri pubblici hannobisogno di sempre più informazioniper essere operativi e per finalizzarele proprie pratiche professionali?

Stiamo assistendo a una permeabilità sempre maggiore tra lospazio del privato e lo spazio delpubblico.

Un ultimo fattore è quello deirischi potenziali, concetto che utilizziamo ogni giorno nell’ambitodella salute.

Il sociologo tedesco Ulr ichBeck, nel libro La società del rischio, afferma che, sin dagli alboridell’umanità, tutte le società sononate per tentare di gestire al meglioi rischi naturali. nel corso dellanostra evoluzione storica siamoarrivati a costruire una societàche è per sua natura produttrice di

rischi, che non concernono solo la salute ma anche il clima, la società, l’educazione...

La “società del rischio” obbliga ciascuno di noi ad anticipare i rischi potenziali che potrebbe incontrate nel suo percorso di vita. La logica dell’anticipazione ci porta a costruire il presente in funzione di un futuro potenzialmente negativo, mentre il presente, in quanto tale, ci sfugge.

Anche questo, in termini antropologici, costituisce una trasformazione sostanziale della concezione dell’identità umana.

La medicina, nel suo progredire, si è sempre riferita alla scienza come a uno strumento e come a un elemento di rigore nella evoluzione delle sue conoscenze e delle sue pratiche. Questa fedeltà della medicina alla scienza non può mai essere dissociata dalla mentalità delle varie epoche storiche.

La medicina scientifica è un dato recente nella storia dell’umanità perché è nata a metà del XIX secolo. La mentalità di un secolo e mezzo fa non è certo la stessa dei nostri tempi.

Le spinte della modernità stanno mostrando sempre più i loro limiti e i loro paradossi, che interagiscono anche con il mondo della medicina.

Stiamo assistendo all’inversione del processo secolare di concentrazione delle competenze della salute nelle mani della classe medica. Quella classe medica che è nata nel Rinascimento con le prime autopsie, che si è trasformata con la

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nascita dei primi ospedali nel XVII- XVIII secolo, che si è cristallizzata col paradigma scientifico nel XIX secolo, oggi è in crisi perché non è più l'unico attore a decidere cosa bisogna fare nell’ambito della salute e come lo si debba fare.

Ci sono altri fattori che intervengono, come quello economico e politico. La salute è diventata un mercato con tutte le implicazioni che ciò comporta.

Ma non solo: c’è una valorizzazione importante delle cure paramediche. Il mondo infermieristico non è più sottomesso a una gerarchia rigida rispetto alla classe medica, ma le competenze mediche ed infermieristiche divengono complementari e sono chiamate a collaborare in una nuova prospettiva e attraverso nuove strategie.

Un altro problema è legato alla riattualizzazione di quello che in termini antropologici viene chiamato pluralismo medico. Accanto al paradigma scientifico e alle professioni mediche e paramediche si osserva sempre più frequentemente il ricorso a pratiche terapeutiche complementari che sta modificando anche il senso strutturale che noi diamo alla salute.

La salute è un valore della società estremamente importante. Alcuni antropologi non esitano a mettere in relazione la crisi delle religioni tradizionali con l’emergere della salute come valore in seno alla nostra società: se ieri i valori di riferimento parlavano di vita eterna, oggi parlano di longevità; se ieri parlavano di anima, oggi parlano di corpo.

Ci dobbiamo dunque confrontare con un cambiamento semantico nella costituzione dei valori che caratterizzano la nostra società.

La salute sta diventando un valore e nella salute s’inscrivono simultaneamente dei concetti, delle pratiche, delle competenze e delle indicazioni che hanno a che vedere con i diritti e i doveri di chi fornisce le cure e di chi le domanda, con scienza e morale, economia e umanesimo, pubblico e privato.

Per parlare di salute dobbiamo sì parlare di medicina, ma non solo, perché oggi la salute coinvolge la società civile nella sua totalità.

Un’altra problematica è legata ai cambiamenti epidemiologici. A ogni epoca storica corrispondono determinate malattie.

nell’epoca della mondializzazione gli esperti di epidemiologia constatano che i tipi di patologie da affrontare si modificano. C’è innanzitutto una riattualizzazione molto forte delle malattie infettive (TBC, AIDS), ma la grande novità epidemiologica è data dalle c.d. malattie da civilizzazione, costituite da sindromi psicosomatiche, da malattie di adattamento, dalla depressione, dalla sofferenza psichica, dalle malattie degenerative, dalle sindromi legate alla geriatria, ma soprattutto dalle malattie croniche, che stanno aumentando vertiginosamente.

Le malattie croniche hanno una caratteristica in comune: le risposte mediche e scientifiche non sono definitive, risolutive, l’unico mandato è quello di accompagnare

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nel tempo un individuo. La medicina si deve confrontare con nuovi problemi, nuove malattie, per le quali non ha sempre le migliori soluzioni terapeutiche.

In quest’ambito constatiamo come, sempre più, le persone che soffrono di malattie della civilizzazione non consultino solo la medicina tradizionale, ma si rivolgano ad altre offerte terapeutiche (agopuntura, medicina ayurvedica, shiatsu, medicina tibetana, omeopatia, sofrologia…). I pazienti sollecitano contemporaneamente il mondo della medicina occidentale tradizionale e altre tecniche complementari.

i caso

M. è una signora sulla cinquantina. Vive sola e lavora come impiegata. Da esami di laboratorio di routine è emerso un valore piuttosto elevato di colesterolo. In seguito a ulteriori accertamenti, è stata fatta diagnosi di ipotiroidismo. All’inizio ha assunto la classica terapia sostitutiva con ormone tiroideo (levotiroxina). Tempo dopo, me la sono ritrovata in ambulatorio con la richiesta del dosaggio degli ormoni tiroidei redatta da un noto omeopata. Da un anno ha abbandonato la terapia classica e si cura con prodotti omeopatici con graduale ripristino dei valori ormonali normali. Puntualmente, ogni tre mesi, arriva con la solita richiesta. Il mio atteggiamento nei confronti dell’omeopatia è andato

mutando negli anni. All’inizio provavo stizza nel trovarmi di fronte a dei “concorrenti” che influivano pesantemente sugli assistiti, propinando teorie strampalate senza alcun fondamento scientifico. Non ho mai voluto comunque denigrare palesemente ciò che non conoscevo, ma mi limitavo a raccomandare di rivolgersi a professionisti della massima ser ietà, perlomeno verif icando il possesso della laurea in medicina degli stessi. Nel frattempo mi sono accorta che, con il passare degli anni, cresceva notevolmente il numero dei transfughi, dei pazienti che si rivolgevano altrove, in particolare agli omeopati. È un dato di fatto: M. fa parte della larga schiera di chi si rivolge alle altre medicine. Inutile ignorarlo. In seguito, per mio interesse personale, ho approfondito la teoria di Samuel Hanemann, fondatore dell’omeopatia. Sono rimasta affascinata dai principi su cui si basa. Trovo interessante in particolare la modalità dell’anamnesi e la personalizzazione della terapia. Credo che questo possa gratificare maggiormente il paziente in quanto individuo unico con patologie del tutto peculiari. Da allora mi interesso alle storie dei miei pazienti che per vari motivi hanno scelto questo tipo di medicina. Cerco informazioni sulla terapia, tento di instaurare un dialogo per capire le motivazioni di questa scelta. A questo punto sorge un problema, un conflitto interiore in cui Sa

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mi dibatto. Sono un medico di medicina generale. La mia professione si basa su assunti teorici ben chiari. L’EBM (Evidence Based Medicine – medicina basata sulle prove di efficacia) dovrebbe essere il faro che illumina tutto il mio operato. Il codice deontologico all’art. 5 afferma che “il medico nell’esercizio della professione deve attenersi alle conoscenze scientifiche […]”, all’art. 12 “Le prescrizioni e i trattamenti devono essere ispirati ad aggiornate e sperimentate acquisizioni scientifiche […]. Sono vietate l’adozione e la diffusione di terapie e di presidi diagnostici non provati scientificamente o non supportati da adeguata sperimentazione e documentazione clinico-scientifica, nonché di terapie segrete”. L’art. 13 lascia aperto uno spiraglio: ”La potestà di scelta di pratiche non convenzionali nel rispetto del decoro e della dignità della professione si esprime nell’esclusivo ambito della diretta e non delegabile responsabilità professionale, fermo restando, comunque, che qualsiasi terapia non convenzionale non deve sottrarre il cittadino a specifici trattamenti di comprovata efficacia e richiede l’acquisizione del consenso”. L’omeopatia rientra fra le medicine non convenzionali, a tutt’oggi non è supportata da studi che ne dimostrino valenza scientifica. Questo perché lo stesso tipo di sperimentazione viene applicato a modelli teorici molto diversi. Da qui le difficoltà a porre sullo

stesso terreno sperimentale due pratiche diverse come la medicina ortodossa e l’omeopatia. Intanto M. continua ad assumere i suoi granuli e io a prescrivere i dosaggi ormonali... [Medico]

ii caso

Nel servizio presso il quale lavoro ogni settimana viene programmata una giornata in cui i pazienti del reparto di oncologia, che ne abbiano necessità per le cure, vengono sottoposti a un piccolo intervento per l’impianto di un catetere venoso centrale a permanenza. In questa circostanza io incontro pazienti dei quali conosco poco e che rivedrò solo qualora tornino per l’espianto del presidio. Alcuni mesi fa mi sono fermata a parlare con uno di questi pazienti, un signore di circa 50 anni che ha sempre goduto di ottima salute ma al quale da pochi mesi era stata diagnosticata una neoplasia per la cura della quale doveva sottoporsi a chemioterapia. Il paziente era spaventato, mi è sembrato depresso, ma allo stesso tempo risoluto nella sua intenzione di guarire. Mi ha raccontato che oltre la chemioterapia aveva iniziato di sua spontanea iniziativa ad assumere una terapia omeopatica e a sottoporsi a massaggi energetici. Mi ha anche detto che il suo oncologo gli aveva detto di ritenere tali trattamenti complementari del tutto inutili. Nella situazione sopra descritta ho provato un certo imbarazzo.

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Ho ritenuto che la libertà del paziente dovesse essere considerata prevalente rispetto al resto e che la sua scelta di ricorrere a terapie complementari dovesse essere rispettata. L’individuo è, a mio avviso, libero di curarsi come di rifiutare la cura, ed è altrettanto libero di affidarsi alle tecniche che ritiene più opportune. Il paziente in questione, nel raccontarmi la sua storia, mi ha fatto capire quanta fiducia riponesse nelle terapie alternative a cui si era affidato, e io, pur con l’imbarazzo che mi derivava dal dare un messaggio contrastante con quello del suo oncologo, mi sono sentita di rinforzarlo rispetto alle sue scelte. Del resto lui non aveva rifiutato la chemioterapia, ma aveva, a mio avviso, individuato dei metodi che, quantomeno sotto il profilo psicologico, lo mettevano nella condizione di credere maggiormente a una riuscita positiva della terapia scientifica. [Infermiera]

iii caso

E., donna di anni 35, impiegata. Non ha precedenti significativi. Sposata da 5 anni, non ha avuto figli. Da 4 anni ha smesso di fumare. È donatrice di sangue. Riferisce da un mese dolore e tumefazione alle mani e ai piedi, con scarsa risposta all’aspirina e a vari FANS. Cinque mesi fa aveva avuto una otosalpingite, gli esami di laboratorio correnti erano negativi,

­ compresi VES e proteina C-reattiva; vi era una positività IgG (ma non IgM) degli anticorpi EBM, CMV e toxoplasmosi. L’obiettività dimostra solo dolore provocato alla pressione delle metacarpo-falangee e metatarso-falangee, senza tumefazioni. Nessuna risposta a paracetamolo, naproxene e coxib. VES 28, proteina C-reattiva e fattore reumatoide negativi. Positivi ANA (di tipo omogeneo, alto titolo), anti-DNA nativo, e poi, degli ENA, positivi anti-RNP e anti-SSA; negativi gli altri. Avevo discusso con la paziente e con la madre dell’opportunità di approfondire gli accertamenti e della probabilità di dover impostare una terapia di maggiore impegno. La paziente si mostrava riluttante; infine decideva di prendere tempo. Dopo dieci giorni di silenzio, telefona riferendo di avere iniziato una dieta macrobiotica su consiglio di una amica, e di avere anche intrapreso cure omeopatiche con delle “polverine” di cui non conosce la composizione. Si dichiara, per ora, invariata quanto ai disturbi. Cerco di spiegare che quella probabilmente non è la strada giusta, dichiarandomi ulteriormente disponibile. La paziente non si è più presentata e, dalla madre, apprendo che sta continuando i trattamenti alternativi, che è più o meno invariata, e che segue i consigli delle amiche e non della madre. Questo caso, a giudicare le cose dal punto di vista di un medico

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che segue la medicina ufficiale,cioè quella che cerca di applicarenozioni e metodi scientifici, rappresenta chiaramente un insuccesso professionale. Alla nostra medicina si imputaspesso di trascurare il colloquiocon il paziente. Se è vero che questa accusa è spesso giustificata(ma io imputo ciò semplicementea cattiva pratica della medicina,e non a un difetto insito nellamedicina scientifica), non credoche lo sia in questo caso. La paziente è stata seguita, non esitoa dire, amorevolmente, spiegandoe discutendo di volta in voltai ragionamenti e i passaggi. Aposteriori devo dire che forse lapaziente può avere avuto la percezione che nel primo mese in cuil’avevo seguita non avessi ancoramesso a fuoco, con una diagnosidefinitiva, il suo caso. Penso che,specialmente quando ci sono inballo diagnosi pesanti, discuterea lungo possa ingenerare questasensazione in qualche paziente. D’altra parte, in questo caso l’attenzione si focalizza in primo luogo sui comportamenti alimentarisuggeriti da pratiche alternativeche mescolano assurdità scientifiche a norme di buon senso, risultate, queste ultime, accattivanti,ma delle quali, per la loro ovvietà,la paziente non aveva alcun bisogno. Si può rendersi conto delsuccesso di queste pratiche pressogente di scarsa cultura scientifica,o con capacità di giudizio limitatada situazioni personali emotive o,in altri casi, dalla conoscenza diepisodi che, a torto o a ragione,

creano sfiducia nelle procedure della medicina tradizionale. La madre della paziente mi riferiva che, non mangiando la frutta durante i pasti, evitando la carne, mangiando cereali integrali e altri prodotti particolari (tra parentesi, molto costosi), la figlia digeriva meglio. A nulla serviva l’obiezione mia, ritrasmessa alla figlia, che così facendo le sue difficoltà digestive (del resto banali, e irrilevanti rispetto al suo problema clinico) sarebbero nel tempo aumentate. Al contrario, la paziente attribuiva alla dieta possibilità di cura della sua malattia. Appaiono evidenti le aspettative ingiustificate generate da distorsioni divulgative, e in definitiva anche le spinte al consumismo, supportato da elucubrazioni pseudo-scientifiche e teorie attraenti per il loro aspetto esotico, con ricorso agli alimenti “naturali”, “non inquinati” dall’industria e dai trattamenti chimici: zucchero grezzo, sale marino senza addizione di iodio, farina di grano intero, cereali non raffinati, con costo mediamente ben più elevato e potere nutrizionale inferiore rispetto ai prodotti comuni. E, per quanto riguarda le pratiche omeoterapiche, la fiducia in esse portava la paziente a trascurare il fatto che i suoi disturbi articolari rimanevano invariati e le prospettive future del tutto incerte. Vi sono diverse altre considerazioni che si possono fare: l’accettazione di pratiche alternative è spesso facilitata dal gusto dell’esotico

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e dell’orientale, più radicato nei giovani e in circoli ambientalisti, spesso con un contenuto di contestazione verso i poteri costituiti, e facilitato probabilmente dalla scarsa attenzione che nelle nostre scuole viene dedicata all’insegnamento scientifico. Ma anche presso persone di buon livello culturale, il ricorso alla pratiche alternative può esprimere il rifiuto di aspetti della medicina ufficiale quali l’accanimento terapeutico, le contraddizioni, spesso solo apparenti, tra specialisti di branche diverse, o anche la percezione di un consumismo farmaceutico; quando questo ricorso non rappresenti addirittura un inconscio sottrarsi alla pressione del rapido svilupparsi delle conoscenze e dei cambiamenti. È vero che con i pazienti che ricorrono alle medicine alternative l’atteggiamento migliore è quello di mostrare molta pazienza, evitando le rigide opposizioni; certo è però che, in casi di malattie serie, quando il paziente si ravvede e torna a noi, spesso si sono perse delle buone opportunità di remissione o di guarigione. [Medico]

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Dobbiamo parlare dunque di bipolarismo formato da un lato dalla medicina scientifica (ortodossia) che comprende: – la medicina di base; – le specializzazioni mediche; – le scienze infermieristiche; – la psichiatria;

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– la psicologia medica; – le tecniche psico-corporee.

Dall’altro dalle medicine e dalle cure complementari (eterodossia) che comprendono: – le medicine e le cure non con

venzionali (per esempio l’omeopatia, un sistema medico che propone una visione dell’essere umano radicalmente diversa rispetto a quella proposta dal paradigma scientifico). Esse garantiscono una personalizzazione della presa a carico, in un mondo in cui tutto è standardizzato e uniformizzato (da ciò si può dedurre il fascino che queste pratiche esercitano sul paziente di oggi);

– le medicine e le cure extraeuropee: la riflessologia plantare (che deriva dalla medicina egiziana di 4.000 anni fa), la sofrologia (tecnica di introspezione sciamanica che permette di controllare il dolore), l’osteopatia, la chiropatia, l’agopuntura, la medicina ayurvedica, ecc.;

– le cure popolari. È un campo che dovrebbe interessare chi si occupa di alleviare la sofferenza altrui. In termini di efficacia ho potuto verificare personalmente miglioramenti sensibili a seguito di tali pratiche. naturalmente è necessario fare attenzione ai ciarlatani.

Perché le persone si rivolgono a questo pluralismo medico? Io direi che ci sono due livelli interessanti: uno è ovviamente quello della ricerca dell’efficacia terapeutica,

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l’altro è quello della ricerca di significati nella terapia (“dimmi come curi e ti dirò che concezione hai di me”). Il pluralismo medico è una sorta di autoregolazione sociale di certe tendenze monolitiche indotte dalla tecnologia e dalla “chirurgizzazione” della vita. Questi aspetti non vengono rinnegati, ma ci si rende conto che non possono dare un senso a tutto. Da ciò deriva la ricerca di itinerari terapeutici complessi e sovente paradossali e la constatazione, per lo meno in una prospettiva antropologica, che salute e malattia sono sempre più dei luoghi di costruzione identitaria.

L’identità e i saperi delle persone in una società plurale come la nostra, si pluralizzano sempre più. nelle varie ricerche che abbiamo condotto, abbiamo potuto constatare come ai riferimenti professionali che sono compresi e interiorizzati, le persone abbinino almeno altri due livelli, uno legato alle credenze e alle concezioni appartenenti alle reti sociali comunitarie in cui sono inscritte, l’altro di natura idiosincratica.

Concludendo, il legame tra medicina e società ci spinge a constatare che esiste una discrepanza tra le pratiche della razionalità medica e i percorsi terapeutici dei pazienti. Le strategie terapeutiche attraverso cui lavora la medicina non sono esclusive, sono parte di ciò che la gente mette in pratica per trovare delle risposte ai propri problemi.

L’episodio malattia si riferisce a una molteplicità di forme, tra le quali la razionalità medica occupa

­ una posizione relativa. La condotta terapeutica del paziente è collegata alla logica interpretativa alla quale aderisce, e questa logica non è unicamente medica, scientifica.

Ma allora quale significato dare al concetto di “terapia”?

Supponiamo che nella cura di un paziente si riescano a fare interagire più forme di terapia (chemioterapia, agopuntura per rinforzare il sistema immunitario, pranoterapia per alleviare gli effetti collaterali della chemioterapia, omeopatia per rinforzare l’organismo: sono tutte strategie che appartengono a diversi sistemi medici, ciascuno dei quali ha una sua finalità terapeutica).

In questa società in continua trasformazione anche gli individui si trasformano.

Il vero potere di decisione sta passando dalle mani dei medici alle mani dei pazienti.

I pazienti diventano il laboratorio in cui si sperimenta la conciliazione dell’inconciliabile (prescrizioni terapeutiche della medicina tradizionale con strategie delle medicine complementari). Il corpo diventa un luogo di sperimentazione di queste grandi trasformazioni sociali e culturali.

È necessario, quando si parla di salute, prestare attenzione alle pratiche sociali esterne a quelle della medicina.

Perché tutto ciò? Perché la medicina moderna è laica. Tuttavia le categorie laiche non rispondono a interrogativi propri dell’essere umano in tempi di crisi e di mu

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tazioni (chi sono, che cosa faccio, dove vado, cosa significa la mia sof­ferenza, che cos’è la mia vita?). Si tratta di interrogativi di carattere metafisico. Spesso le tecniche tera­peutiche complementari veicolano significati spirituali – non forzata­mente religiosi, ma spirituali – che vanno al di là della povertà e della rigidità di una lettura strettamente scientifica della vita.

In un mondo in mutazione la salute è un campo in cui gli esseri umani contemporanei elaborano le proprie identità; constatiamo come la salute riguardi un corpo, ma questo corpo nella società contem­poranea non è riducibile alla sola biologia. Il mondo delle cure deve essere temperato da una critica razionale che tenga conto delle dimensioni socio-culturali della società nella quale viviamo.

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Ilario Rossi è antropologo presso l'Uni­versità di Losanna

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Il diritto possibile

Cinzia Piciocchi

L´ordinamento giuridico deve confrontarsi con la pluralità delle culture sia nell´ambito sociale che in quello medico.

Quando parliamo di pluralismo medico e pluralismo sociale, facciamo riferimento a un valore: la pluralità è un dato di fatto, mentre il pluralismo mira a tutelare la pluralità, intesa come valore.

Ritengo che il diritto si debba occupare delle problematiche del pluralismo, con particolare riferimento alla diversità culturale, sia in ambito medico sia in ambito sociale.

A livello giuridico, quando parliamo di cultura parliamo di fenomeni tra loro diversi: i documenti di natura internazionale, sovranazionale e nazionale utilizzano questo concetto in accezioni tra loro diverse. Il termine “cultura” può essere riferito all’istruzione, ai beni culturali, all’identità nazionale di un popolo, così come ai prodotti audiovisuali.

In quest’incontro parliamo della cultura in relazione alla salute e questo restringe il campo d’indagine, poiché la nozione di cultura che s’interseca con la scelta tera

peutica porta a riferirsi al sistema assiologico individuale che detta le scelte esistenziali di ciascuno di noi nel campo della salute; un sistema nel quale le scelte individuali hanno un valore spesso letteralmente esistenziale, poiché può essere in gioco la vita stessa. Che vi sia una pluralità di culture è un dato di fatto e lo si può notare in modo tangibile nei “luoghi della pluralità”, ad esempio nelle scuole o nei luoghi di lavoro.

Le diverse identità culturali chiedono spesso un riconoscimento giuridico.

Quando si fa riferimento alla pluralità culturale si pensa generalmente al fenomeno dell’immigrazione. Questo perché l’Italia, da terra di emigrazione, è divenuta terra di immigrazione, con un contesto sociale in continua trasformazione.

Il concetto di cultura al quale mi riferisco oggi è in realtà più eterogeneo, poiché le scelte terapeutiche possono essere determinate dalla provenienza da contesti geo-culturali lontani, ma anche dall’adesione a una particolare filosofia di vita, oppure da precetti di natura religiosa che non dipendono necessariamente dalla diversità etnica.

Per comprendere perché il diritto si debba occupare della diversità culturale, è necessario chiedersi: “Diversità rispetto a che cosa?”

Il fatto stesso che un giurista percepisca la diversità culturale, mi fa pensare che, in qualche misura, gli ordinamenti abbiano essi stessi un’identità, una sorta di DnA cul

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turale che le norme presuppongonoe che viene percepito proprio nelmomento in cui ci confrontiamo conqualcosa di diverso da noi.

Tale confronto ci permette dicapire molto dell’altro, ma, soprattutto, ci permette di comprenderemolto di noi stessi.

Un esempio è dato dalle festività; credo che non a caso ungrande costituzionalista, Haberle,abbia scelto di occuparsi di quest’aspetto.

Ogni ordinamento prevede determinate festività, alcune dellequali sono legate alla storia deidiversi Paesi, altre sono feste religiose. Siamo soliti pensare alleregole giuridiche relative alle festività in termini neutri, ma quandogli ordinamenti giuridici si trovanodinanzi alle richieste di inclusionedella diversità in quest’ambito, sicomincia a percepire che anchein quest’aspetto (apparentementemarginale) sussiste un’identitàculturale precisa.

In Francia si sono avuti casi distudenti di fede ebraica che chiedevano di poter osservare il sabatoanziché la domenica come giornodi riposo scolastico; nell’ambitodella Comunità europea personedi fede ebraica hanno chiesto chefosse riconosciuto loro il diritto apartecipare ai concorsi per l’accesso agli impieghi pubblici in datadiversa da quella stabilita, perchéquest’ultima coincideva con quelladi una festa religiosa; l’ordinamentobritannico si sta confrontando conle richieste di lavoratori musulmanidi poter osservare le loro festivitàreligiose.

Ogni ordinamento ha dato risposte diverse. Ad esempio, nel Regno Unito si è dato avvio a un dibattito su che cosa siano criteri quali l’etnia, la religione, la razza e quali tra questi definiscano le identità giuridicamente rilevanti.

Il dato importante è che nel momento in cui i giuristi si confrontano con la diversità, cominciano a percepire l’identità culturale degli ordinamenti giuridici. Questo spiega perché i giuristi debbano occuparsi delle problematiche relative al pluralismo culturale.

Quindi, alla domanda se l’ordinamento giuridico debba confrontarsi con le culture, la risposta è sicuramente affermativa. E l’effetto principale generato da questo confronto consiste nella possibilità di conoscere meglio noi stessi (il nostro ordinamento).

Va poi analizzata la reazione dei vari ordinamenti di fronte alle richieste di riconoscimento giuridico della diversità culturale.

L’ordinamento può escluderla, può includerla o può aprire una negoziazione, cominciare un dialogo.

Il nostro diritto esclude quando sono in gioco valori che vengono percepiti come fondamentali, in quanto costituiscono l’essenza stessa della tradizione giuridica occidentale. Di fronte a una richiesta di riconoscimento di diversità che metta a rischio tali valori, gli ordinamenti scelgono di rifiutare il riconoscimento.

Questo avviene ad esempio quando sono in gioco la vita o l’integrità fisica degli individui; anche

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se, nell’ambito delle scelte terapeutiche, il dialogo con la diversità culturale si svolge nel confronto non semplice tra due poli: il diritto alla salute, da un lato, e il diritto all’autodeterminazione, dall’altro.

Il confronto con la diversità culturale nell’ambito della salute ci dice moltissimo sull’identità, non solo degli ordinamenti giuridici, ma anche dei sistemi sanitari (che hanno, a loro volta, una precisa identità culturale).

Tale confronto evidenzia poi un altro aspetto: il concetto di diversità culturale in quest’ambito non si correla solo alla provenienza da contesti geo-culturali lontani (conseguentemente all’immigrazione), ma anche e soprattutto con il pluralismo etico, che è ciò che solleva i problemi maggiori.

A questo proposito, constatiamo il fatto che i nostri sistemi sanitari hanno un’identità quando parliamo di medicina “ufficiale”.

Se chiediamo al cittadino italiano quale sia, secondo lui, la medicina “ufficiale”, ci risponderà che è quella che egli trova negli ospedali, quella che gli viene somministrata dal suo medico curante, ecc.

Se facciamo la stessa domanda a un cittadino indiano o cinese, avremo la stessa risposta, ma spesso con riferimento a medicine che da noi sono definite “alternative”.

Le diverse concezioni sono quindi relative e i problemi sorgono quando esse s’incontrano, s’intersecano e, talvolta, si scontrano. Questo accade, ad esempio, quando un paziente chiede di poter usufruire di quella che per lui è me

­ dicina “ufficiale” nella cura di una patologia che, secondo la medicina occidentale, non ha speranza di guarigione se non seguendo altri metodi terapeutici.

Di fronte a ciò come reagisce l’ordinamento giuridico: include, esclude o dialoga? Dipende, come dicevo, dai valori che sono in gioco.

La richiesta di essere lasciati liberi nella propria scelta terapeutica è generalmente rispettata sulla base del principio d’autodeterminazione (garantita nell’ordinamento italiano dall’art. 32, comma 2, della Costituzione).

La risposta è più complessa quando siano coinvolti dei minori, ad esempio nel caso di genitori che decidono di curare con la sola preghiera i propri figli (il c.d. faith healing) o nei casi in cui sia difficile appurare se la scelta possa veramente definirsi tale.

Ma la vera sfida, relativamente al riconoscimento della diversità nella scelta terapeutica, non viene tanto dalla richiesta di poter scegliere, quanto dalla richiesta di avere un supporto nella propria scelta. Mi riferisco, ad esempio, alle medicine “alternative” delle quali alcuni chiedono l’inclusione nell’ambito del SSn. Va notato, al riguardo, che in questo campo il diritto ha in un certo senso prevalso sulla scienza, poiché spesso sono state le sentenze a chiarire quali medicine “alternative” possano essere praticate dai soli laureati in medicina, (ad esempio, l’agopuntura).

È necessario dunque che gli or

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dinamenti prendano coscienza del loro DnA culturale e in quale misura questo sia imprescindibile: quanto, cioè, esso possa lasciare spazio alla diversità o quando, essendo tale diversità in contrasto con i suoi valori fondamentali, non possa ammetterne alcun riconoscimento.

L’illustre giurista Paolo Cendon parla della scelta terapeutica come “identità progettuale del malato” (I malati terminali e i loro diritti, Giuffrè, Milano, 2003, pag. 337). Questa espressione evidenzia come nella scelta terapeutica di ciascuno di noi si manifesti una parte della nostra identità, la nostra personale visione del mondo. La diversità culturale che chiede riconoscimento giuridico è una manifestazione d’identità. Quando questo avviene gli ordinamenti a volte escludono, a volte includono, a volte dialogano, a volte rispondono differenziando i diritti proprio in ragione della diversità culturale.

Talvolta, ad esempio, a favore di determinati gruppi si creano veri e propri diritti d’esenzione rispetto all’osservanza di alcune norme giuridiche. I sikh, che chiedono di poter rispettare il precetto religioso che impone loro di indossare il turbante, hanno talvolta ottenuto con legge l’esenzione dall’obbligo di portare il casco protettivo in motocicletta o in alcuni luoghi di lavoro. Le macellazioni rituali secondo le religioni ebraica e mussulmana sono oggetto di regole specifiche, che creano un’esenzione rispetto a norme giuridiche che rimangono valide tranne che per gli appartenenti a

quei gruppi. Alcuni Stati americani garantiscono esenzioni rispetto agli obblighi di vaccinazione per i minori sulla base del credo religioso o delle convinzioni filosofiche dei genitori.

L’analisi giuridica comparata attesta che in molti casi gli ordinamenti giuridici assumono la diversità culturale a fondamento dell’attribuzione di diritti, attribuendole rilevanza giuridica.

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iv caso

Recentemente siamo stati chiamati di notte per eseguire un taglio cesareo a una donna algerina, la quale, per convinzione sua e per la grande insistenza del marito, si rifiutava di togliere il velo. Le regole della sala operatoria impongono che i pazienti entrino privi di alcun indumento personale e che indossino un camice ospedaliero e una cuffietta che raccolga i capelli, per garantire l’igiene e ridurre così al minimo i rischi di infezione. La necessità di intervenire d’urgenza ha fatto sì che nessuno si sia messo a discutere il fatto che la paziente non volesse togliere il velo, peraltro visibilmente poco pulito. Sempre in ambito di diversità culturali, ultimamente da parte dei Testimoni di Geova c’è stata la richiesta di far entrare in sala operatoria un loro ministro del culto durante l’intervento chirurgico di un correligionario, allo scopo di vigilare sull’operato dei medici, affinché venga rispettata

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la volontà di non subire trasfusio­ni di sangue. Per quanto riguarda la paziente del taglio cesareo, ho notato un grande disagio da parte di tutta l’equipe chirurgica, soprattutto da parte degli anestesisti. La situazione d’urgenza ha permesso di non rispettare le normali regole; ma la cosa potrebbe ripetersi in situazioni di non urgenza, e in questo caso come ci si dovrà comportare? È giusto rispettare la volontà del paziente che non vuole assoggettarsi alle regole di una struttura sanitaria, quando la loro violazione può determinare complicazioni al paziente stesso? Nel caso dei Testimoni di Geova, fino a ora la direzione dell’ospe­dale ha negato la possibilità di ingresso in sala operatoria al mi­nistro del culto, ma non è escluso che tali richieste non vengano reiterate o che non ne arrivino altre da altri gruppi religiosi. Come conciliare le soggettive esigenza di tutela con il normale svolgimento dell’attività di un ospedale italiano? [Infermiere]

nell’ambito del diritto alla salute, e in particolar modo della scelta terapeutica, gli ordinamenti giuri­dici spesso si rivolgono alla scienza chiedendo certezze su questioni che non sono scientifiche ma etiche (ad esempio: in che momento inizia e in che momento finisce la vita?), in modo da poter poi includere queste “verità” in regole che impongono una visione sulle altre, negando

la diversità. Il dibattito attuale ci fa capire che manca quell’aspetto fondamentale del riconoscimento da parte della propria identità culturale.

Gli ordinamenti giuridici, infatti, in molti casi, non accolgono, non dialogano, ma semplicemente escludono la diversità senza una presa di coscienza della propria identità culturale, che spesso è rappresentata da più anime. Spesso si considera unitaria la cultura quando essa unitaria non è, perché su uno stesso argomento (per esempio, quando abbia inizio e quando finisca la vita) possono coesistere diverse visioni culturali.

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Cinzia Piciocchi è dottore di ricerca pres­so il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell'Università di Trento

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la salute della popolazione immigrata

Licia Scantamburlo

I determinanti e le caratteristiche delle manifestazioni di disagio psichico nelle persone immigrate.

Con il termine “immigrato” ci riferiamo a una “categoria” in cui includiamo tutte quelle persone chevengono da Paesi “altri” rispettoal nostro e che per questo hannoun carattere di “estraneità”. È un termine che livella la vasta gammadelle esperienze umane riferite a unprocesso tanto vario e complessocome quello della migrazione.

All’interno della categoria “immigrato” abbiamo poi le sottocategorie dei “regolari”, degli “irregolari”, degli “extracomunitari”, ecc.

Questo ci predispone agli stereotipi e ai pregiudizi con cuiquotidianamente abbiamo a chefare nella relazione con i pazienti.Ritengo che sia importante averneconsapevolezza, perché tale consapevolezza ci aiuta, come medicie come operatori sanitari, a interrogarci e a metterci in discussionenella relazione con il paziente.

Anche quando parliamo di “disturbo psichico” è importantericordare che ci riferiamo a dellecategorie (in questo caso, psichia

triche) assunte come omogenee, che fanno parte del sistema di classificazione occidentale, del nostro apparato bio-medico.

In queste categorie facciamo rientrare espressioni di sofferenza e di malessere che molto spesso richiederebbero anche altri livelli di lettura, al di là degli schemi prettamente medici.

Il rischio è di pensare come universalmente valide le nostre definizioni su che cosa è o non è un disturbo mentale.

Fatte queste premesse, dobbiamo chiederci: quando parliamo di sofferenza mentale, a quali tipi di disturbi facciamo riferimento in relazione alle persone immigrate?

Innanzitutto è necessario distinguere vari livelli sanitari che si occupano di tali disagi: – il Territorio; – la Medicina di base e la Medicina

ospedaliera; – i Servizi di Salute Mentale (inte

so come servizio specialistico).

Le persone immigrate che giungono ai Servizi di Salute Mentale solitamente non presentano sindromi “strane”. Come, a livello internistico, sono rare le patologie esotiche di importazione, così, in ambito psichiatrico, gli operatori non si trovano di fronte a sindromi c.d. culturalmente correlate.

La sindrome culturalmente correlata più diffusa e trattata nei nostri Servizi, è quella riconosciuta come sindrome “occidentale” e riguarda i disturbi del comporta

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mento alimentare come l’anoressia e la bulimia.

Gli immigrati visitati nei Servizi di psichiatria ricevono le stesse diagnosi degli italiani e vengono trattati per disturbi depressivi, sindromi ansiose, scompensi psi­cotici.

Ma questi pazienti rappresenta­no però solo la punta dell’iceberg di un disagio e di una sofferenza psichica più allargata, che rimane sommersa e non arriva agli opera­tori della salute mentale.

nelle strutture di medicina di base e ospedaliera, si riscontrano più frequentemente le c.d. sindromi da somatizzazione, manifestazioni di un disagio psichico che trova espressione in sintomi corporei.

Esse sono caratterizzate – dalla preponderanza di sintomi

corporei che non riflettono un danno organico;

– dall’assenza di un’alterazione funzionale di organi giustificata da un processo somatico. I principali sintomi riguardano:

– sindromi addominali poco spe­cif iche (ad esempio, dolor i addominali diffusi);

– gastriti; – sindromi dolorose aspecifiche

(ad esempio, nevralgie, mialgie, lombalgie);

– cefalee. In uno studio condotto da

medici del Poliambulatorio per immigrati dalla CARITAS di Roma (vedi “Studi Emigrazione/Migration studies”, XLII, n. 157, 2005) le somatizzazioni rappresentano il 38% dei casi.

Quando le sindromi da soma­tizzazione non sono identificate possono: – evolvere in disturbi cronici; – compromettere la qualità della

vita delle persone; – determinare un utilizzo impro­

prio di farmaci.

Anticamera delle sindromi da somatizzazione e di altri disturbi psichici è il c.d. disagio sommerso, che, pur essendo frequente, non ar­riva alla soglia dei servizi sanitari. Se si riesce a intercettare questo disagio, correlato alle particolari situazioni psicologiche e sociali in cui si ritrovano gli immigrati (in particolare se irregolari), e a rispondervi in modo appropriato e adeguato, si evita che evolva in disturbi più gravi. Ciò significa intervenire per migliorare la qua­lità di vita delle persone, con una conseguente limitazione dei costi a carico dei servizi sanitari.

Gli immigrati, soprattutto quelli in condizione di irregolarità, sono esposti a quelle che l’OMS defini­sce “disuguaglianze evitabili dello stato di salute”, che li rendono vulnerabili e maggiormente a ri­schio di ammalarsi e di sviluppare disturbi psichiatrici. Su queste disuguaglianze si può intervenire, poiché riguardano la situazione di povertà, di emarginazione sociale e di degrado ambientale in cui gli immigrati spesso si trovano a vivere.

nell’approcciare la salute e i di­sturbi psichici dei migranti è utile servirsi di una griglia a quattro

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variabili (cultura, storia personale,percorso migratorio, contesto),grazie alla quale è possibile una lettura basata su variabili comunie nel contempo sulle peculiaritàindividuali di ogni immigrato.

Cultura Ognuno di noi è portatore della cultura in cui è cresciuto. Ogni societàha un proprio modello culturale,che condiziona anche la percezionee la visione della propria salute, ilrapporto con il proprio corpo, lamalattia e la cura.

Ma non è detto che il nostromodo di pensare la malattia valgaanche per persone provenienti daaltri Paesi.

Al riguardo, basti prendere inconsiderazione il dolore, che è unsintomo importante per i medicinella valutazione delle condizionidi un paziente (ad esempio, è unaspetto importante per capire ilpunto del travaglio).

In alcune culture l’espressionedel dolore è molto contenuta,quindi essa non potrebbe essere unaffidabile variabile di riferimentoper capire la gravità o meno di undisturbo.

Storia personale Conoscerla ci aiuta a capire qualisono gli eventi traumatici che unapersona ha vissuto, a comprendereil peso dell’esperienza soggettiva.

Ad esempio, i rifugiati spesso non parlano delle esperienzetraumatiche che hanno vissuto; laricostruzione paziente della lorostoria e della possibilità che possano averne subite può rendere com

prensibile alcuni quadri di disagio, i malessere e di sofferenza.

ercorso migratorio a delle ripercussioni molto forti ulla salute psichica delle persoe immigrate. Quanto più alto è ’obiettivo del progetto migratorio, anto più alto è l’investimento motivo della persona in questo rogetto. Se questo fallisce o non a secondo le aspettative, possono anifestarsi conseguenze molto

mportanti sulla salute psichica. Si pensi ad esempio a molte

onne moldave, ucraine, alle “baanti” che per venire a lavorare in talia contraggono debiti che si ggirano tra i 1.000 e i 2.000 euro, restati con interessi altissimi. La ealizzazione del loro progetto è ondizionata dal riuscire a pagare debiti contratti, ad affrontare la ondizione di clandestinità, a vivee in condizioni di emarginazione, a esistere alla lontananza dei propri ari, ecc.

nel progetto migratorio possiao distinguere tre fasi: ) La preparazione del viaggio e la

partenza. Partire fa parte di un progetto pensato e pianificato all’interno della famiglia. Solitamente si compie una scelta ponderata di quale componente del nucleo familiare partirà. La partenza può essere contrassegnata da momenti di euforia per la speranza di andare verso una condizione migliore, ma anche da sentimenti di appiattimento, di demoralizzazione per la perdita ciò che si lascia. Poi c’è il momento del viaggio,

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un momento importante perché è un fattore di stress, quando non diventa una vero e proprio evento traumatico. Basti pensare ai viaggi sui barconi, in pullman straripanti di persone o in veri e propri carri da trasporto merci.

2) L’arrivo, seguito dalla fase di impatto e, se tutto va bene, dal processo di adattamento e di integrazione. Il confronto con una lingua e una cultura nuove, con abitudini di vita e con un’organizzazione sociale diverse da quelle conosciute, con istituzioni pubbliche, con regole e con autorità non note. Un’alta percentuale di immigrati inizialmente vive in clandestinità (questa è una condizione che ha riguardato, o riguarda, quasi tutte le “badanti”). Clandestinità significa illegalità, significa guardarsi attorno quando si cammina per strada, essere pronti a cambiare direzione se si intravvede una divisa, essere sempre sul chi va là. Molti immigrati, non sapendo che il SSn fa espresso divieto di denunciare gli irregolari all’autorità, evitano di rivolgersi ai servizi sanitari.

mestruale e quindi ha il dubbio di essere incinta. In merito a questa possibilità, mi comunica di non desiderare un’altra gravidanza. Le propongo di eseguire il test di gravidanza e lei acconsente. Il risultato del test è positivo. La signora dice che la gravidanza è frutto di un ultimo rapporto sessuale con il compagno, col quale ha poi avuto una lite molto grave e che è fuggito lontano in un’altra città. Lei non desidera la gravidanza e la vorrebbe interrompere, ma dato che non è in regola con il permesso di soggiorno, la gravidanza le darebbe modo di sistemare la sua situazione (per il periodo della gravidanza e poi fino al compimento di sei mesi da parte del figlio). Alla signora vengono date tutte le informazioni sia rispetto a un’eventuale procedura di interruzione della gravidanza che di proseguimento della stessa. Le si offre la possibilità di sostegno psicologico e/o sociale. La signora chiede del tempo per riflettere e dice che ci ricontatterà. In seguito ci richiama dicendo di aver deciso di proseguire con la gravidanza. Viene alla prima visita, portando con sé il disagio/sofferenza di aver scelto quella strada solo per rimanere in Italia. Non accoglie la proposta di aiuto psicologico. Passa un lungo periodo e la signora ritorna, dopo circa tre mesi, per un controllo pediatrico della figlia. In questa occasione vengo a conoscenza che ha abortito spontaneamente. La signora continua a venire qui

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Arriva al nostro Servizio una signora proveniente dall’Ecuador, che ha una figlia di un anno nota al nostro Servizio perché è stata seguita dalla pediatra del Consultorio. La signora dice di avere un ritardo

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con la figlia e non ha ancora sistemato la sua condizione di clandestina. Rispetto alla situazione descritta mi sono sentita a disagio, perché la signora non aveva la libertà di scelta rispetto ai suoi valori etico-morali, essendo condizionata dalla situazione di straniera non in regola con il permesso di soggiorno. La signora mi ha portato a contatto con la sua condizione di donna che non ha e non può avere lo stesso empowerment di un’altra donna in una situazione adeguata, per cui portava una grave sofferenza psicologica. Questo caso dimostra che la condizione sociale di disuguaglianza nella quale vive l’individuo influenza fortemente la sua salute fisica e psicologica e le sue scelte di vita individuale e collettiva Di fronte a r ichieste di IVG causate da necessità sociali o economiche sarebbe necessario mettere a punto una rete sociale di sostegno che supporti la donna nelle sue scelte. [Ostetrica e infermiere]

3) Il ritorno al paese di origine. Lamaggior parte degli immigratilo include nel proprio progettomigratorio. non sempre avvienecome era stato immaginato easpettato; spesso si realizza al difuori dei tempi progettati e nonsempre a obiettivi raggiunti.

Contesto Gli immigrati sono obbligati aconfrontarsi con la realtà socia

le-ambientale del posto in cui si ritrovano a vivere e a lavorare, con le disponibilità e con le difficoltà che incontrano.

Tra queste ultime vanno ricordate le condizioni abitative (molto spesso di sovraffollamento e scadenti dal punto di vista igienico-sanitario), le situazioni lavorative di precarietà, l’emarginazione, la solitudine, la lontananza dagli affetti.

Gli immigrati vanno incontro a una perdita di diritti: anche quelli in possesso di un regolare permesso di soggiorno godono dei diritti fino a quando hanno un lavoro.

C’è una perdita di ruolo e di status rispetto al Paese di provenienza. Vengono inoltre a mancare le reti interpersonali di sostegno e si rende necessaria una ridefinizione della propria identità.

C’è poi la negazione degli affetti: gli immigrati sono privati della vicinanza delle persone care, condizione spesso aggravata dal mancato riconoscimento dei loro affetti da parte delle persone dello “Stato di arrivo”. Una donna ucraina mi ha raccontato che la signora per cui lavorava, non comprendendo le sue motivazioni affettive, le dava della matta perché si dava da fare per ottenere il ricongiungimento con il figlio.

Istituzioni e servizi non sempre sono in grado di cogliere i bisogni e di dare delle risposte adeguate

Occuparsi della salute degli immigrati e pensare alla risposta dei nostri servizi ai loro bisogni si traduce in un miglioramento dei

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servizi anche per i cittadini ita­liani, perché ci permette di porre attenzione ad alcune variabili che nella pratica quotidiana la nostra medicina ha perso.

Qui a Trento siamo nella terza fase dell’immigrazione, quella in cui gli immigrati hanno cominciato a stabilirsi, ricongiungendosi con le famiglie che avevano lasciato nel Paese d’origine o formandone di nuove. I loro figli si trovano a vivere lo scontro generazionale e a fare da cuscinetto tra famiglia d’origine e la società d’accoglienza; probabilmente sono anche coloro che pagano il prezzo più alto del­l’immigrazione

nuove problematiche e nuove richieste cominciano a presentarsi alle nostre istituzioni sanitarie, tra le quali la salute materno-infantile, la salute dei minori e degli anziani, la salute dei rifugiati e degli esuli, le problematiche delle vittime della tratta di esseri umani.

Licia Scantamburlo è psichiatra a Trento

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Pluralismo culturale e professioni sanitarie

Giulio Donazzan

In Alto Adige, le problematiche sanitarie dovute alla coesistenza delle due differenti culture sono ulterioremente complicate dalla recente ondata migratoria.

In Alto Adige vi sono due differenti culture, che continuano a restare a contatto da ottant’anni senza che nessuna delle due assorba l’altra.

La cultura d’origine caratterizza ancora molto i rapporti delle persone con le istituzioni.

Ci sono diverse valutazioni della vita, della morte, del corpo e della salute a seconda della cultura di appartenenza. Anche la formazione culturale degli operatori ne risente. nel reparto ospedaliero che dirigo alcuni collaboratori si sono formati in area culturale tedesca e altri in area culturale italiana. Vi sono delle differenze evidenti di approccio nei confronti della salute.

nell’ultimo decennio c’è stato un fenomeno modesto d’immigrazione che mi sembra molto limitato rispetto ad altre esperienze nazionali.

Il primo problema che si pone nel venire a contatto con pazienti di un’altra cultura è un problema di conoscenza linguistica. È richiesta una discreta conoscenza dell’altra

lingua per poter lavorare nel servizio pubblico. nell’attività sanitaria la comunicazione è essenziale: fiducia ed empatia svolgono un ruolo importante nella gestione dei problemi di salute.

Cercherò di evidenziare alcuni elementi che forse possono sembrare degli stereotipi di quello che è il concetto di vita, salute e malattia all’interno dei due gruppi etnici, ma che mi sembrano utili per capire le difficoltà esistenti in relazione alla diversità di culture.

Il paziente italiano percepisce la vita come “stare bene”, presta grande attenzione all’aspetto fisico, segue la moda e ha un minor senso di appartenenza sociale. È caratterizzato da una forte adattabilità alla realtà che gli sta attorno (e questo si riflette anche nel rapporto con la salute).

Il paziente tedesco manifesta maggiore sobr ietà e maggiore organizzazione sociale, nel senso che trova più facilmente una serie di supporti costruiti nel tessuto sociale che lo portano ad avere un rapporto diverso con le strutture sanitarie.

negli “altri” (intendendo con “altri” i gruppi etnici diversi da quelli italiano e tedesco) predomina la necessità di soddisfare i bisogni essenziali della vita: la casa, il lavoro, ecc.

Anche verso la morte c’è un atteggiamento diverso, dipendente dalla cultura di appartenenza. nel gruppo etnico italiano la percezione della morte varia in relazione alla

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provenienza delle persone dal nordo dal sud Italia (diversa partecipazione individuale e sociale).

nel gruppo etnico tedesco ladiagnosi infausta viene vissuta inmodo più fatalista; si prende attoche la vita finisce; c’è una solidarietà sociale molto sviluppata anche semeno manifesta rispetto al gruppoitaliano.

Per quanto riguarda gli “altri”non ho un modello a cui riferirmi.

In relazione alla percezione delproprio corpo, c’è una maggiore attenzione nel gruppo etnico italianoalle variazioni di stato, al dolore,alla ricerca di una soluzione perogni problema, anche piccolo, e c’èsempre un atteggiamento criticoverso le decisioni riguardanti ilproprio corpo.

nel gruppo etnico tedesco c’èuna maggiore tolleranza verso idisagi del corpo (qui ha un ruoloanche la discriminante città/campagna; le persone che vivono incampagna si rivolgono meno frequentemente alle strutture sanitarie). Comunque, per le decisioniimportanti, la ricerca dei riferimenti culturali e linguistici sicuramenteè molto forte.

Gli “altri” appaiono meno critici, più rassegnati di fronte allasituazione.

L’interesse per la salute, bisognoprimario fortemente sentito dall’individuo, si manifesta spesso comerichiesta di trattamenti e terapienuove, altamente specialistiche, incentri di riferimento avanzati.

nel gruppo italiano a volte c’è

difficoltà ad accettare il fatto che determinate terapie possano essere svolte in loco; molto spesso dobbiamo rispondere alla richiesta di rivolgersi a centri che “ne sanno di più”.

nel gruppo etnico tedesco, invece, si verifica una maggiore tendenza a percorrere la via delle terapie naturali. Culturalmente, in questo gruppo, il legame con la natura, con il non-sintetico, è molto più forte.

Per gli “altri” è più difficile identificare la ricerca della salute come bisogno primario. La salute deriva anche dalle abitudini di vita e può essere difficile capire perché si debba sottoporsi a una terapia quando non si soffre.

Per quanto riguarda la formazione degli operatori sanitari, nel mondo tedesco la formazione medica tende a essere più pratica, meno teorica, con periodi di frequenza più lunghi negli ospedali e negli studi dei medici di medicina generale (nel corso degli studi). L’abilitazione all’esercizio della professione e le specializzazioni mediche sono conferite dalla Professione. È quest’ultima che valuta l’immissione sul mercato dei nuovi prestatori d’opera. Questa è una situazione molto diversa rispetto a quella italiana. L’Ordine dei Medici è garante anche dell’educazione continua in medicina.

C’è un maggiore orientamento verso le attività tecnico-chirurgiche, mentre le specializzazioni mediche sono meno sviluppate perché considerate a complemento di una

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formazione generica in medicinainterna.

nell’organizzazione sociale dellasalute l’assicurazione di malattiaha un ruolo importante nel mondogermanico. Vi sono Casse separate,non un Servizio sanitario unico.Sono le assicurazioni di malattiaa decidere la rimborsabilità dellediverse prestazioni (ad esempio,viene rimborsata l’agopuntura).

È stata istituita da tempo lapossibilità giuridica di valutazioneextragiudiziale dell’errore medico.

In futuro andremo verso la formazione, l’abilitazione, la specializzazione e la creazione di un’eticamedica comune a tutte le nazionieuropee?

Sicuramente c’è già, e continuerà ad esserci, una migrazionedi pazienti e di personale sanitarioall’interno della UE. non è dettoperò che si proceda anche versoun’uniformità di prestazioni etrattamenti, di modelli sanitari, dicultura medica. È certamente ungrosso problema politico, che dovràessere necessariamente affrontatonei prossimi anni.

La coesistenza di due differenticulture all’interno della societàaltoatesina pone dei problemi pratici, che riguardano anche il camposanitario.

Ad esempio, vi è la questionedella traduzione degli atti e deireferti medici. Al momento non èobbligatorio redigere le refertazioni nella lingua del paziente, ma latraduzione deve essere fornita surichiesta: è un diritto del paziente

essere messo a conoscenza del proprio stato di salute nella lingua meglio compresa.

Un altro problema è legato alle istruzioni per l’uso farmaci, che dovrebbero essere tradotte in più lingue per essere comprese dai vari pazienti.

La comprensione delle comunicazioni verbali è un’ulteriore problema, non solo nei rapporti con i pazienti ma anche nei confronti del personale sanitario proveniente dall'estero. Ad esempio, nel reparto che dirigo operano 28 infermiere: 12 sudtirolesi di lingua tedesca, 10 sudtirolesi di lingua italiana, 2 peruviane, 1 panamense, 2 polacche, 1 ungherese.

I nostri pazienti sono abituati a essere approcciati da operatori sanitari appartenenti all’altro gruppo linguistico, ma il rapporto non è sempre privo di difficoltà.

All’interno dell’Azienda gli atti amministrativi sono bilingui per favorire la comprensione della regolamentazione dell’attività medica a tutti i livelli.

nell’ospedale è stato attivato da circa un anno un servizio di intermediazione culturale. Recentemente è stato inoltre istituito un servizio volontario di assistenza agli immigrati clandestini, finanziato dall’Assessorato alla Sanità.

Un’ultima considerazione va fatta rispetto all’influenza dei cambiamenti sociali e culturali sulle scelte sanitarie.

Ritengo che sia cambiato il rapporto medico-paziente, che non è più un rapporto fiduciario di tipo

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paternalistico. È cambiata la modalità di comunicazione, è aumentato l’aspetto relazionale. I nostri pazienti sono ora molto più attenti nei confronti del proprio stato di salute e delle prestazioni sanitarie che ricevono. La possibilità di informarsi attraverso l’accesso a Internet o ad altri supporti informativi porta talvolta alla richiesta di una comunicazione medico-paziente più tecnica di quella praticata tradizionalmente.

È problematico anche il rapporto tra la struttura che eroga i servizi sanitari e l'utente che li fruisce: molto spesso il paziente ha la sensazione di affidarsi non a un medico, ma a una struttura. La salute diviene così un problema di organizzazione sociale e aziendale in cui il cittadino vuole essere coinvolto.

Assumono una notevole importanza anche alcune figure di tipo amministrativo, come l’economato, l’Ufficio relazioni con il pubblico, i direttori generali e l’assessorato alla Salute. Ritengo che vi sia la necessità di un codice deontologico anche per queste figure professionali. Attualmente, soltanto in Gran Bretagna i direttori generali delle Aziende Sanitarie hanno un codice deontologico, che è stato imposto dal governo.

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­riflessione

La medicina tradizionale tecnologica non risponde a tutti i bisogni per cui si ricercano percorsi alternativi, quindi esiste una discrepanza tra le pratiche della

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razionalità medica e i percorsi terapeutici dei pazienti; le decisioni sulla salute stanno passando dalle mani dei medici a quelle dei pazienti. Non tutto ciò che è alternativo è da considerarsi positivo, non sempre è da incoraggiarsi il “fai da te” e è necessaria una costante vigilanza degli Ordini professionali su ciarlatani e pratiche mediche prive di qualsiasi fondamento scientifico. Questo non vuol dire occuparsi solo del farmaco e della medicina ufficiale. Personalmente, mi sono posto come obiettivo professionale l’educazione sanitaria, occupandomi dell’informazione sull’uso corretto dei farmaci, promuovendo corsi di erboristeria e di nozioni basilari di omeopatia (in collaborazione con altri farmacisti, sia pubblici che privati) per fornire le conoscenze scientifiche sull’uso delle piante medicinali e favorire un approccio all’omeopatia semplice, ma scientificamente rigoroso, occupandomi dell’educazione alimentare (del lattante, del bambino, della gestante, dell’obeso, dell’anziano, del diabetico, dell’iperteso, dello sportivo) come fattore di prevenzione e ricerca di nuovi stili di vita. Un altro impegno professionale che mi sono posto è stato quello della scelta dei prodotti da vendere in farmacia. Ritengo infatti che sarebbero devastanti le conseguenze sulla professione farmaceutica se si allentassero quei vincoli di rigore e correttezza che giustificano il ruolo di garanzia e

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di tutela del nostro servizio: nonpossiamo comportarci come deiqualsiasi negozianti. Dobbiamoselezionare accuratamente i prodotti venduti in farmacia, dovenon dovrebbero trovare ospitalità“rimedi“ o integratori che nullahanno a che vedere con la dignitàdi un esercizio professionale postoa tutela della salute collettiva. Consapevoli che il loro uso puòcausare gravi effetti indesiderati,che possono essere prodotti ancheda un’interazione con i farmaciconvenzionali o etici (come denunciato dall’OMS e dall’ISS, e inconformità con il Decreto Legislativo 169/04, entrato in vigore il30 luglio 2004, che recepisce nelnostro ordinamento la direttivaeuropea 46/2002 sugli integratorialimentari), per evitare questirischi nella scelta dei prodottiparafarmaceutici, per attivareefficaci metodi di sorveglianza eper rendere disponibili informazioni esaurienti, abbiamo nominatoun comitato tecnico di farmacistiche si occupa di tali scelte. In particolare è previsto che etichettatura, presentazione e pubblicità non devono attribuire agliintegratori proprietà terapeutichee capacità di prevenzione o curadelle malattie, né devono fareriferimento a simili proprietà. È vietato, inoltre, inserire inetichettatura, presentazione epubblicità, diciture che afferminoo sottintendano che una dietaequilibrata e variata non è generalmente in grado di apportarele sostanze nutritive in quantitàsufficiente. Inoltre, non devono

indurre a credere che i componenti degli integratori a base di sostanze naturali o di estratti vegetali siano necessariamente privi di eventuali effetti collaterali. Tutto questo per far notare che anche un farmacista che si occupa essenzialmente di farmaci della medicina scientifica è attento alla persona e all’etica, e per sfatare quel conformismo mentale che ritiene che solo i cultori di pratiche alternative siano impegnati nella cura e nel conforto dei pazienti. Conosco personalmente molti medici, di base e ospedalieri, che si dedicano con non solo con professionalità, ma anche con umanità e disponibilità alla loro missione. Le medicine alternative meritano comunque rispetto e attenzione: il diritto all’autonomia e alla libertà di cura è infatti un diritto primario di tutti i cittadini, che in ogni caso devono essere informati correttamente e tempestivamente dal medico di medicina alternativa. [Farmacista]

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­ Giulio Donazzan è primario ospedaliero

ed ex presidente dell'Ordine dei Medici della Provincia Autonoma di Bolzano

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Donne immigrate e maternità

Elisabetta Cescatti

Gli aspetti del rapporto della popolazione femminile immigrata con le istituzioni sanitarie.

Generalmente non riscontro difficoltà particolari, né linguistichené culturali, nel rapporto con lemie pazienti perché in sala parto ilrapporto fra donne facilita la comprensione e l’incontro sul terrenoistintivo della maternità.

Le donne straniere si rivolgonoal nostro Servizio per partorire o perinterrompere la gravidanza. nellamaggior parte dei casi sono pluripare, più giovani delle partorientiitaliane e partoriscono spontaneamente (il taglio cesareo incide suiricoveri in misura minore che perle italiane).

I dati dei raggruppamenti diagnostici dei pazienti dimessi(DRG)per il 2003 riportano che nel nostroreparto il 19% delle italiane è stato ricoverato per taglio cesareo afronte del 12% delle straniere. Lafrequenza di questo intervento ècomunque in crescita anche per ledonne straniere.

La fecondità media delle donnestraniere è più elevata di quelladelle donne italiane: i dati ISTATiferiscono una media di 1,8 figli

per le straniere e di 1,2 per le italiane. La fertilità è molto diversa a seconda delle nazionalità delle immigrate: quella delle donne marocchine è molto elevata (3-4 figli per donna), mentre le donne ucraine e moldave hanno livelli di fecondità molto bassi, addirittura inferiori a quelli della popolazione italiana. Quest’ultimo dato è correlato alle modalità della loro presenza in Italia e all’età media piuttosto elevata.

Il nostro lavoro riceve un grande arricchimento dalla collaborazione con le mediatrici culturali. Il loro intervento è possibile, quando richiesto dagli operatori sanitari, grazie a una convenzione stipulata tra l’Azienda Sanitaria e le associazioni dei mediatori.

Con l’aiuto delle mediatrici abbiamo approfondito il vissuto della maternità e il rapporto madre-bambino nelle varie culture dei cittadini immigrati. Grazie a loro abbiamo potuto renderci conto della problematicità del vivere da migrante e delle difficoltà incontrate da queste donne nei Paesi di provenienza. Ad esempio, abbiamo preso coscienza del vissuto di sofferenza che talvolta portano con sé le donne provenienti dai Balcani (ex Jugoslavia), vittime di repressioni razziali e di violenze sessuali durante la guerra.

Abbiamo capito perché è difficile per noi instaurare un rapporto di fiducia con le donne albanesi e macedoni, abituate all’inaffidabilità delle strutture pubbliche da loro frequentate nei Paesi di provenienza. Ci sono stati riferiti dei

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casi di donne che avevano dovuto pagare l’ostetrica per poter avere un’assistenza al parto adeguata. Sono esperienze che segnano profondamente le donne che le hanno vissute, obbligando noi operatori sanitari a costruire con esse rapporti diversi.

nel corso di un incontro a tre con una mediatrice e una paziente, in occasione di una richiesta di interruzione volontaria di gravidanza, ho potuto apprendere le difficoltà economiche che incontrano queste donne, che devono corrispondere un “pizzo” elevatissimo alle organizzazioni clandestine tramite le quali sono arrivate in Italia. Si tratta di cifre che riusciranno a mettere da parte solo dopo anni di lavoro in Italia, addattandosi a qualsiasi condizione. Capire questa problematica mi ha dato la possibilità di comprendere le donne nigeriane, albanesi, tunisine che si prostituiscono e hanno un progetto migratorio ben diverso da quelle che arrivano in Italia per un ricongiungimento familiare, come le marocchine.

Per non parlare delle donne ucraine o moldave, che, per attuare il loro progetto migratorio, si allontanano dai loro figli per lunghi periodi, pagando un costo sul piano affettivo. Anche loro si trovano a richiedere spesso l’IVG (interruzione volontaria di gravidanza) ai nostri servizi: c’è quasi un andamento ciclico, legato ai periodi di permanenza in Italia dei mariti.

Abbiamo una forte richiesta di IVG da parte di donne dell’Est Eu

ropa (dove l’IVG era diffusa come mezzo di controllo delle nascite) e del Centro-Sud America.

nel 2003 l’IVG ha rappresentato il 32% dei ricoveri in Ginecologia delle donne straniere, rispetto al 17% delle italiane. Questo ci porta grossi problemi organizzativi perché la programmazione delle sale operatorie riserva un limitatissimo numero di posti per l’IVG (4 alla settimana nel nostro reparto, 4 alla settimana nell’Ospedale di Rovereto); a questo si aggiunge il fatto che c’è un alto numero di operatori sanitari che esercitano l’obiezione di coscienza.

Le donne straniere si rivolgono più tardivamente delle italiane al nostro servizio per l’IVG, con il risultato che abortiscono più tardivamente (il 25% delle donne straniere abortisce oltre la decima settimana, rispetto al 14% delle donne italiane). Questo fenomeno ha una grande ripercussione sul nostro operare perché, prima di tutto, siamo oberati da richieste di IVG urgenti per lo scadere dei termini di legge (90 giorni) e, in secondo luogo, gli interventi effettuati dopo la decima settimana sono più rischiosi per la salute della donna.

Il fenomeno della ripetitività delle interruzioni di gravidanza è molto frequente. Le donne provenienti da Paesi a economia avanzata hanno dichiarato di aver già abortito in passato, ma con la stessa percentuale delle donne italiane; le donne provenienti da Paesi più poveri abortiscono più frequentemente.

Sta cambiando il modo di migra

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re ed è importante monitorare que­sto fenomeno: mentre fino al 2002, in Trentino, erano le marocchine a costituire la percentuale maggiore delle straniere che utilizzavano i nostri servizi, oggi sono le albanesi, le rumene e le ucraine le donne che incontriamo più frequentemente nei nostri reparti.

Generalmente le marocchine sono entrate in Italia per un ricongiungimento familiare, hanno una situazione familiare stabile e conducono la loro vita soprattutto nell’ambito familiare. Invece le donne rumene e ucraine hanno un’età più avanzata, sono venute in Italia da sole e quindi hanno bisogni e aspettative molto diverse; è probabile che in futuro dovremo affrontare grossi problemi di salute in questa fascia di popolazione.

Troviamo tuttora strati di popolazione che non sono mai stati sottoposti a uno screening, donne che non conoscono la sanità pub­blica e i suoi benefici.

Stiamo assistendo a un aumento di ricoveri per patologie gineco­logiche (tumori, fibromi, malattie infiammatorie pelviche in donne portatrici da 15 anni di spirali, mentre una spirale da noi si cambia ogni 5 anni). Osserviamo anche un incremento dei ricoveri urgenti per metrorragie in donne portatrici di fibromi, affette da anemie gravis­sime, mai diagnosticate. Spesso queste donne non possono inter­rompere il loro impegno lavorativo, per lo più legato all’assistenza ad anziani. nel campo dell’ostetricia riscontriamo problematiche che

qui in Italia non osservavamo più da tempo, ad esempio l’isoimunizzazione RH.

Ritengo che sia auspicabile l'estensione delle campagne di screening al tutte le immigrate e non solo alle donne che risiedono in Trentino da più di tre anni, onde prevenire un peggioramento generale della salute della popolazione.

Considero importante anche l’aggiornamento degli operatori sanitari, a fronte di un panorama sanitario che cambia di giorno in giorno e nel quale le donne immigrate rappresentano ormai il 15% delle nostre pazienti. Di ciò dovrebbero darsi sollecita cura le istituzioni, in particolare l’Azienda Sanitaria, perché come operatori sanitari incontriamo queste problematiche quotidianamente e dobbiamo essere posti nelle condizioni di saperle affrontare nel modo più efficace.

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Elisabetta Cescatti è ginecologa presso l'Ospedale Santa Chiara di Trento

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storie di immigrati e del loro accesso ai servizi sanitari

Giampaolo Rama

Alcune esperienze di contatto con persone appartenenti a diverse culture presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale Provinciale.

Esporrò alcune riflessioni sulle esperienze di contatto con immigrati appartenenti a diverse culture incontrati durante gli anni di lavoro presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale Provinciale, e sui riflessi che le diverse concezioni di salute e di malattia hanno avuto nel rapporto assistenziale.

Da parte del personale del Pronto Soccorso è stato compiuto un sincero ancorché sporadico sforzo di capire, nell’ambito di alcuni gruppi di immigrati, le peculiarità culturali che hanno un riflesso su salute e malattia e sulle modalità assistenziali. Ci siamo dotati di alcuni strumenti organizzativi di comunicazione – come i moduli di istruzione tradotti in varie lingue – ed è nata una prima sperimentazione su un modello di intervento con l’utilizzo di mediatori culturali nei servizi.

Ma la vita quotidiana del Pronto Soccorso è caratterizzata dalla frenesia e incalzata dall’urgenza, non dall’ascolto attento delle peculiarità della persona-utente che vi si ri

volge. Gli operatori che vi lavorano risultano di fatto più attenti alla situazione patologica contingente o all’organo da trattare, piuttosto che all’individuo inteso globalmente come corpo, psiche, spiritualità, cultura e aspettative.

Per queste ragioni dobbiamo considerare l’attenzione agli aspetti più propriamente culturali dei pazienti non come un’esperienza attuale e consolidata, ma piuttosto come un’importante ambito di ricerca nel quadro di un necessario approfondimento futuro della capacità di risposta propria del Pronto Soccorso.

Mi limiterò a riferire sinteticamente la mia esperienza di medico. Ho assistito alcuni immigrati che, per varie ragioni, mi hanno colpito e mi offrono ora lo spunto per fare alcune riflessioni in ordine non agli aspetti dell’incontro tra culture, ma piuttosto all’organizzazione dei servizi sanitari.

Halina Ha 36 anni, è moldava e assiste una persona anziana di Trento nella cui casa risiede e abita, senza permesso di soggiorno. In patria ha il marito e due figli minorenni.

Giunge al Pronto Soccorso una domenica mattina manifestando agitazione, crisi di pianto, irrequietezza. Dopo un certo periodo di attesa (codice bianco), viene accolta nell’ambulatorio medico, dove si rifiuta di riferire l’indirizzo del domicilio. Dopo vari minuti di dialogo, limitato dalle difficoltà linguistiche e anche da un certo timore che la signora manifesta nel confidarsi, si riesce a capire la

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ragione della sua preoccupazione: nel lavarsi ha notato da vari giorni un nodulo alla mammella sinistra. La madre è deceduta per neoplasia mammaria. È terrorizzata. Si cerca di tranquillizzarla, spiegando che solo raramente la sua patologia è maligna, ma sembra inutile.

Dice di essere libera solo la domenica mattina per fare controlli medici. Si cerca di indirizzarla al corretto utilizzo dei servizi sanitari (è improprio recarsi al Pronto Soccorso per un problema di quel tipo!), ma con una certa difficoltà. non ha un medico di famiglia e conosce poco la città e i servizi a disposizione. Le prescrivo ansiolitici e, alterando le procedure del Pronto Soccorso, le do un nuovo appuntamento per un giorno non festivo nel quale il centro senologico è aperto.

La signora torna al Pronto Soccorso, meno ansiosa, riesco a prenotarle un controllo senologico con difficoltà, dato che non è in possesso della tessera sanitaria.

Commento La condizione di immigrata che non conosce l’organizzazione sanitaria del Paese, che deve lavorare in nero, che può usufruire solo di brevi periodi di pausa dal lavoro irregolare, con la paura del rimpatrio forzato e della perdita del lavoro, oltre alla preoccupazione per la sua condizione fisica e per il fallimento del suo progetto migratorio, devono averle creato una situazione di grave ansia che il Pronto Soccorso non è in grado di valutare approfonditamente né di risolvere. Quale medico potrà essere in grado di “tenere le fila”

della sua situazione e consigliare adeguatamente la signora? Come garantirle le prestazioni essenziali cui avrebbe diritto?

Yeng Ha 23 anni, è cinese, fa l’operaio in una cava di porfido e risiede ad Albiano, con regolare permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

Arriva al Pronto Soccorso accompagnato in auto da un connazionale, è molto sofferente a una spalla, al torace sinistro, al bacino, al collo. non è in grado di deambulare. I parametri vitali sono buoni, eccetto una lieve tachipnea. Gli viene attribuito il codice verde.

È timoroso e impaurito da ogni cosa gli possa venir detta. È in Italia da venti giorni e non vi è nessuna possibilità di comunicare con lui perché non comprende l’italiano, né io, ovviamente, parlo il cinese. non solo è difficile effettuare la visita, ma anche fargli capire man mano a quali accertamenti viene sottoposto. Grazie all’aiuto dell’accompagnatore si riesce a ricostruire la storia del trauma: a causa di un’incomprensione col padrone della cava è stato dallo stesso sollevato con la pala dello scavatore a un’altezza di vari metri e lasciato cadere a terra.

Poiché è un ragazzo robusto i danni sembrano limitati, la diagnosi è di frattura costale. È necessario trasferirlo al centro traumatologico per approfondimenti specialistici.

Commento Mi sono trovato nella difficoltà di capire la dinamica dell’incidente e

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nell’imbarazzo di non poter spiegare al paziente, evidentemente scosso e impaurito dall’accaduto, i procedimenti e le manovre sanitarie a cui veniva sottoposto.

Dondo Ha 27 anni, è congolese, disoccupato e domiciliato presso la residenza del fratello in un comune del Trentino, dal quale per ordine dei Carabinieri non deve allontanarsi (ha l’obbligo di firmare quotidianamente al Comando). È senza permesso di soggiorno.

Arriva al Pronto Soccorso accompagnato dal fratello, avendo ottenuto dai Carabinieri un permesso apposito per recarsi all’Ospedale, ma dovendo ripresentarsi al Comando in giornata. Accusa da alcuni giorni dolori addominali, epi-mesogastrico, artralgie diffuse. Presenta epatomegalia modicamente dolente. Effettua alcuni esami di laboratorio che risultano normali. La situazione clinica non è tale da giustificare un ricovero, ma merita un approfondimento diagnostico. non ha copertura assistenziale sanitaria, né medico di riferimento. Prescrivo una serie di esami di laboratorio e un’ecografia addominale, ma non so se e quando li effettuerà e se avrà modo di farli ricontrollare da un medico. Mi spiega che è complicato ottenere il permesso e avere qualcuno che lo accompagni. Capisco che sta chiedendo aiuto ma mi trovo nell’impossibilità di prestarglielo. non so come uscirne. Gli comunico il mio numero di telefono offrendogli di rivederlo in Pronto Soccorso (altra cosa anomala dal

punto di vista dell’Organizzazione del Servizio).

Dopo circa un mese mi telefona, ci accordiamo per vederci al Pronto Soccorso durante un mio turno. Gli esami risultano normali, eccetto per una conferma dell’epatomegalia di causa non determinata (comunque non sembra preoccupante). I disturbi sono migliorati ma non regrediti. Gli presento in fretta i risultati degli esami perché sta perdendo l’autobus. Consiglio una terapia antiacida dello stomaco e di rivolgersi a un medico più vicino alla sua residenza. non ne ho più saputo nulla.

Commento È ipotizzabile, anche se non ne ho la certezza, che il signor Dondo fosse affetto da un disturbo psicosomatico o da una patologia transitoria non virale. Di certo il percorso da lui seguito è stato inadeguato oltre che inefficace. D’altronde non esisteva nella nostra organizzazione sanitaria un percorso corretto e utile, in particolare per l’individuazione di chi avrebbe potuto farsi carico del suo problema sanitario sia in primis, che dopo le dimissioni dal Pronto Soccorso e di come Dondo avrebbe potuto effettuare accertamenti sanitari utilizzando una copertura assistenziale e non ricorrendo a espedienti o alla elemosina di qualcuno per pagare le prestazioni.

Manuel Ha 35 anni e proviene da un Paese dell’Europa dell’Est.

Giunge al pronto soccorso affetto da polmonite bilaterale con

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setticemia, grave stato generale concompromissione della coscienza: si èproceduto all’immediato ricovero inrianimazione. Il caso è interessanteperché il soggetto, domiciliato inVal di Cembra, senza permesso disoggiorno, si è presentato nei pressidell’ambulatorio di un medico dimedicina generale, dove il medico,constatata la gravità, l’ha raccolto,caricato in ambulanza e accompagnato d’urgenza in Pronto Soccorso.Oltre al medico non c’era alcun altrapersona di riferimento.

Commento È eccezionale osservare un quadrodi polmonite così grave complicatoda uno stato setticemico secondario.Probabilmente ormai ciò può accadere solo in categorie svantaggiatedi popolazione.

Mi è capitato però più volte divisitare in Pronto Soccorso pazientiimmigrati o indigenti affetti dapatologie che si consideravano superate in Occidente.

Questi scenari di vita ci interrogano dal punto di vista umanoe culturale, e, in particolare, dalpunto di vista dell’organizzazionedei servizi. Se l’immigrazione, comeè evidente, è un fenomeno irreversibile e destinato ad aumentare, ènecessario capire come adeguare inostri servizi a una realtà che sembra sfuggire al nostro controllo.

Lo scorso anno, in una ricerca,mi ero chiesto, e avevo chiesto alpersonale del Pronto Soccorso, diindividuare quali fossero i problemiprincipali che si presentavano loronel dover assistere pazienti immi

grati, e ad alcuni immigrati come vivessero l’esperienza di ricorso al Pronto Soccorso. Presento qui di seguito i risultati.

Quali sono i problemi più comuni avvertiti dal personale sanitario del Pronto Soccorso nell’assistere gli immigrati? 1. Difficoltà di comunicazione per

la mancanza di conoscenza della lingua;

2. Difficoltà, da parte del personale, a capire e comprendere le manifestazioni di malattia o la dinamica del trauma;

3. Timore diffuso dei pazienti immigrati di venire sottostimati o abbandonati. Spesso gli immigrati somatizzano o esprimono diversamente i sintomi, a volte li esprimono in modo più eclatante, a volte sembrano nasconderli;

4. Difficoltà di identificazione del problema o della malattia per la quale si è ricorsi al Pronto Soccorso. Spesso gli immigrati presentano una situazione complessa che sfugge ai nostri parametri culturali, perché non riusciamo a capire esattamente il nucleo del problema;

5. Pretese di tempestività e gratuità degli interventi;

6. Mancanza di un medico di base come punto di riferimento sanitario, per cui non si sa dove appoggiarli e inviarli alla dimissione per proseguire le cure o effettuare i controlli;

7. Manifestazioni di esasperazione dei problemi e necessità di rassicurazioni;

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8. Pregiudizi sulla qualità e tempestività del trattamento che ricevono;

9. Manifestazione di r ichieste improprie, come, ad esempio, dolori, raffreddori, influenza, sospetto di gravidanza;

10. Difficoltà di comunicazione per appartenenza a culture diverse;

11. Difficoltà di soddisfare la richiesta di ginecologhe donne;

12. necessità di ricorrere al marito delle pazienti per comunicare con le donne, per cui si assiste all’aumento di accessi al sabato;

13. Ignoranza del contesto sanitario, familiare e sociale del paziente.

vi caso

Vedo S. per la prima volta in Medicina. È solo un ragazzo, potrebbe essere mio figlio. È ricoverato da tre giorni per “tumefazione calda, molto dolente delle dimensioni di un melone rispettivamente, del ginocchio e del gomito destri”. Quando arrivo, tento un approccio con il mio povero inglese, ma la collega di turno mi dice: “Non ti sforzare! Non capisce altro che il cinese!” Per arrivare alla diagnosi di emartro in emofilia A grave (evento assolutamente comune per questi pazienti) sono serviti tre giorni e una serie di esami, comprese TAC e risonanza magnetica: la comunicazione era infatti impossibile. Sono fortunata, in quel momento è presente la sorellastra, a Trento da diversi anni, che lavora nel settore della ristorazione: capiSa

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sce l’italiano e un po’ lo parla. S. vive con lei e il marito, ha un permesso di soggiorno regolare e lavora come aiutante in cucina. Vive con loro. La sorella dice che la diagnosi era già stata fatta in Cina (provengono da una remota provincia) e afferma che non è mai stata eseguita terapia sostitutiva, ma che S. ha ricevuto, solo ogni tanto, un’imprecisata terapia per bocca. Il ragazzo pare un po’ diffidente. Cerchiamo di spiegare, anche mediante la mediatrice culturale, raggiungibile solo telefonicamente, cosa facciamo, chi siamo, come deve comportarsi in caso di altri emartri, ecc. Inoltre viene loro detto di andare al Distretto per la tessera sanitaria. Dopo appena una settimana, S. è in Pronto Soccorso, questa volta accompagnato dal cognato, per un altro emartro: il messaggio di accedere direttamente al Centro Emofilia è caduto nel vuoto. Per mezzo di un vocabolarietto, cerchiamo di capirlo e di capirci, specie per l’appuntamento successivo. Anche questa volta è colpito il gomito, per cui raccomando di tenere l’articolazione a riposo. Abbiamo avuto alcune altre occasioni di incontrare S. nei mesi successivi, tanto che vorrei metterlo in regime terapeutico profilattico: la gravità dell’emofilia e la frequenza clinica degli episodi giustificherebbero completamente questa scelta. Non riesco però a spiegarmi: lui non arriva più accompagnato, non ha imparato nulla di italiano e ci registra con il

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telefonino, probabilmente per far ascoltare alla sorella le indicazioni che cerchiamo di trasmettergli con l’ausilio delle poche pagine di vocabolario cinese/italiano di cui disponiamo. Comincio a domandarmi anche come giustificare l’uso dei farmaci che sono molto costosi. Lui, pur essendo regolare, non è andato a registrarsi al Distretto. Alla fine decido, dopo aver interpellato il funzionario dell’APSS, di attivare un STP in Pronto Soccorso, ma il responsabile del Servizio Spedalità mi dice che non va bene e “alla prossima occasione, di caricarlo in macchina e di portarlo al Distretto” (sic!). Gli faccio notare che la terapia che utilizziamo è di tipologia salvavita. Intanto S. non si fa più vedere; ricompare solo dopo qualche mese con il peggior emartro del gomito che abbia mai visto. Ha l’aspetto un po’ trasandato e sembra anche un po’ spaventato. Capiamo che non vive più con la sorella; ha cambiato città (e lavoro?). Da quella volta non abbiamo più avuto occasione di incontrarlo. Riflessioni: - S. potrebbe essere mio figlio e mi domando ora dove sia e se abbia trovato il modo di curarsi in un’altra città (gli avevo dato solo gli indirizzi di tutti i Centri Emofilia in Italia). - Ho avuto il timore che sollecitare la regolarizzazione della sua posizione per l’Azienda Sanitaria possa aver contribuito ad allontanarlo, anche se penso che aver perso il lavoro sia dipeso soprattutto dalla

patologia, che non gli permetteva di sollevare oggetti pesanti. - Il problema della comunicazione è fondamentale: solo in età adulta ho frequentato un corso di inglese, che si rivela comunque assolutamente inadeguato rispetto all’eterogeneità delle persone immigrate che abbiamo occasione di incontrare oggi. - Anche la mediazione culturale era assolutamente insufficiente, di difficile accesso e solo telefonico, e mi è rimasto anche il dubbio che la traduzione non fosse esattamente puntuale. - Sapevo che per la legge italiana è possibile prestare assistenza agli stranieri in tutti i casi, specie per interventi urgenti, ma non ho mai ricevuto offerta o notizia di occasioni formazione per saperne di più: trovo che siano indispensabili vista la realtà multietnica in cui ci troviamo a operare. - Penso che la posizione di chiusura del funzionario addetto al problema si commenti da sola e, fra le altre cose, sottolinei come ci si trovi sempre soli nelle scelte per dare risposte etiche e deontologicamente corrette. - Devo però anche rilevare come, a differenza di approcci con persone di altra origine, in questo caso abbia vissuto talvolta un sentimento di “disagio” per la sensazione di diffidenza e l’atteggiamento di chiusura colto nella relazione con il paziente e i suoi accompagnatori, (forse per l’origine cinese?); o erano in gioco miei pregiudizi? [Medico]

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Come gli immigrati vivono il Pronto Soccorso? (Questa domanda è stata rivolta direttamente a pazienti immigrati) 1. Soprattutto nei maschi la

malattia è vissuta con paura e come segno di debolezza e fallimento;

2. La situazione di lontananza da famiglia e Paese d’origine aumenta l’insicurezza;

3. La non comprensione di una spiegazione (soprattutto per il sistema dei codici) aumenta l’incertezza e la frustrazione per l’attesa, che a volte viene vissuta come abbandono;

4. La relazione umana, fondamentale per aver fiducia, è talora insufficiente;

5. La lingua è un ostacolo; 6. Il Pronto Soccorso è vissuto

come la porta d’ingresso dell’ospedale;

7. Quando dal Pronto Soccorso si viene mandati in altri reparti per accertamenti c’è un vissuto di abbandono;

8. Al Pronto Soccorso gli immigrati sentono il bisogno di un rapporto più tranquillo e meno frettoloso;

9. Poca informazione sui servizi sanitari (su cosa si può chiedere e su cosa offrono);

10. Richiesta di avere un’intermediazione culturale.

Credo che l’affrontare e l’approfondire i punti critici emersi, ci potrà aiutare a creare le condizioni per superarli.

Concludo con tre considerazioni che sottolineano quelli che, a mio

avviso, sono tre punti chiave per avviare una più efficace organizzazione dei servizi sanitari:

1. Attenzione all’individuo. Il nostro impegno deontologico e professionale ci obbliga a farci carico del singolo individuo, caratterizzato dalle sue specificità organiche, psichiche, culturali, spirituali e dalle sue aspettative, non solo al fine di rispettarne le scelte ma anche per procedere e proporre interventi che abbiano possibilità di essere efficaci.

Per comprendere il nostro assistito dobbiamo riuscire a superare le barriere linguistiche e a poter tenere in conto il background culturale, al fine di individualizzare l’intervento. Questo deve essere fatto pur in un sistema che cerca, invece, sempre più di “proceduralizzare” tutti i nostri interventi professionali

2. Contesto socio-culturale e accessibilità. Le problematiche sanitarie, come abbiamo visto negli esempi dati, si intrecciano strettamente con la cultura dell’individuo e con problematiche sociali.

ne consegue che i nostri interventi devono essere coordinati in una rete di servizi educativi, preventivi, sociali, sanitari, che comprendano i vari aspetti determinanti sulla salute.

Inoltre per attuare un intervento efficace è necessario mettere l’immigrato nelle condizioni di conoscere l’esistenza dei servizi, di sapere con precisione quali risposte

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essi sono in grado di dare e quindi di potervi accedere correttamente e consapevolmente.

3. L’organizzazione dei servizi. Essa può favorire o impedire l’accesso ai servizi e il loro corretto utilizzo da parte degli immigrati, ad esempio attraverso l’offerta di opportunità che rispettino caratteristiche individuali specifiche (orari di apertura, disponibilità di moduli in varie lingue, mediazione culturale, rispetto, quando possibile, di esigenze specifiche dovute alla religione e alla cultura, ecc.).

Si devono inoltre considerare i non secondari aspetti amministrativi come: modalità del tesseramento sanitario, validità della tessera sanitaria, assistenza degli immigrati irregolari, possibilità di beneficiare dei LEA (livelli essenziali di assistenza).

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Giampaolo Rama è medico presso il Grup­po Immigrazione e Salute di Trento

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salute e culture: la donna

Dialogo di Bioetica e Biodiritto del 16 settembre 2005

La posizione della donna nell’incontro fra concezioni diverse di medicina e salute è spesso paradigmatica di aspetti relativi più in generale alla posizione della donna nei diversi contesti sociali.

Questi aspetti culturali si traducono spesso in difficoltà nei momenti in cui la donna è chiamata a compiere scelte fondamentali relative alla propria salute: dal momento iniziale della visita medica, agli ambiti complessi e delicati del

­ la sessualità e della maternità, sino alle problematiche più drammatiche riguardanti le mutilazioni genitali femminili.

Partendo da una ricostruzione più ampia del ruolo della donna nella società e in rapporto al concetto di salute, l’incontro si propone l’analisi di una serie di problematiche che coinvolgono ormai quotidianamente molti operatori sanitari.

(G.S.)

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le mutilazioni genitali femminili

Patrizia Borsellino

In che misura possono essere giustificate e accolte le richieste e le scelte degli immigrati che confliggono con la cultura di accoglienza?

Intendo proporre alcune riflessioni sulla questione delle sfide che il c.d. multiculturalismo pone alla medicina.

La presenza sul nostro territorio nazionale di soggetti che appartengono a comunità le cui culture e tradizioni non sono solo diverse, ma in taluni casi in palese contrasto con valori per noi irrinunciabili, solleva la questione dell’adeguatezza e dell’applicabilità di un modello di relazione terapeutica che è incentrato su nozioni di salute e di malattia e su principi come quelli di libertà e uguaglianza, che spesso sono estranei ai soggetti appartenenti a queste culture.

Per altro verso, tale connotazione culturale costringe a interrogarsi sulla solidità delle proprie posizioni etiche. Ciò dovrebbe essere fatto soprattutto da coloro che guardano al principio di autonomia come a un irrinunciabile criterio di riferimento per giustificare scelte, decisioni e linee d’azione in campo bioetico. Credere nel principio di autonomia significa infatti considerare il

rispetto del diritto dell’individuo di vivere secondo i propri principi morali (con l’unico limite del danno che ne possa derivare ad altri) come una condizione necessaria per la coesistenza, all’interno di società pluraliste dal punto di vista etico, di soggetti portatori di valori divergenti tra loro.

Il modello di relazione medico­paziente e di assistenza sanitaria, nel quale il principio di autonomia assume il ruolo di criterio decisivo per la giustificazione delle prassi sanitarie, porta a rispettare il più possibile le scelte relative alle cure convenute dai soggetti interessati, anche se si tratta di scelte talora divergenti rispetto a quelle approvate dalla maggioranza dei soggetti appartenenti alla stessa comunità nazionale o rispetto a quelle degli stessi operatori sanitari.

I movimenti migratori, che negli ultimi tempi hanno accentuato il carattere multietnico delle società, hanno posto le premesse per una diversificazione ulteriore dei sistemi etici e culturali, in nome dei quali i destinatari dell’assistenza sanitaria possono rivendicare il loro diritto a compiere scelte e ad avanzare richieste.

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i caso

La mia esperienza si riferisce al periodo di tirocinio ospedaliero nel reparto di chirurgia generale. L’ho vissuta in prima persona in quanto, da tirocinante, seguivo un chirurgo che svolgeva le funzioni di tutor. Una mattina viene mandata in reparto dal Pronto

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Soccorso una signora che accusava dolore addominale. La signora, di nazionalità pachistana, non sapeva parlare la lingua italiana ed era accompagnata dal marito. In ambulatorio il chirurgo si stava apprestando a visitarla, ma il marito si oppose, dicendo che la moglie non poteva essere visitata da un uomo. Il chirurgo disse che in reparto non era presente alcuna dottoressa per cui poteva visitarla solo lui. Il marito della donna rifiutò categoricamente la visita alla moglie. Il chirurgo a quel punto decise di rimandare la paziente al Pronto Soccorso senza averla visitata. La signora era sdraiata sul lettino sofferente, impotente. Avrebbe accettato lei di essere visitata da un uomo in quel momento? Ma lei non poteva decidere perché la cultura del suo Paese d’origine lo impedisce. Cultura talmente forte da impedire di alleviare la sofferenza. E il medico cosa doveva fare? Rispettare questa cultura o imporsi e visitare la paziente, magari dopo aver allontanato il marito? Incontrando culture così diverse non basta più la preparazione professionale e anche l’etica e la deontologia non riescono a trovare dei compromessi tali da portare a una soluzione diagnostico terapeutica [Medico]

ii caso

Un pomeriggio, durante il mio turno, giunge dal Pronto Soccorso una coppia che richiede

­ un ginecologo femmina perché la paziente già proviene da un ospedale dove ha rifiutato le prestazioni assistenziali richieste in quanto il ginecologo di turno era maschio. Fortunatamente nel nostro turno sono presenti ginecologi di entrambi i sessi, e la paziente in questione viene visitata e le vengono prestate le cure necessarie. La signora, extra-comunitaria come il marito, non necessitava di cure particolarmente urgenti o di alta gravità assistenziale, ma alla luce di quello che si è detto durante il corso di aggiornamento e relativamente a questo caso, mi si sono poste delle domande: Si può garantire sempre la presenza di una ginecologa femmina, visto che questa esigenza viene espressa anche da altre pazienti extra-comunitarie? La scelta fatta è specifica della donna o è una esigenza imposta dal marito per diffidenza, religione o gelosia? Fino a che punto è quindi accettabile venire incontro a una simile esigenza, posta da una minoranza culturale? Se la paziente assistita fosse stata in pericolo di vita sarebbe stato lecito dal punto di vista etico, morale e professionale permetterle di vagare di ospedale in ospedale alla ricerca a ogni costo di una ginecologa per una convinzione, una credenza culturale o altro, mettendo a repentaglio la sua stessa vita? Io proporrei che, quando ciò sia possibile, la visita venga effettuata da una ginecologa, nel rispetto del desiderio della coppia; ma che

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tale richiesta venga elusa nel caso in cui si rendano necessarie prestazioni urgenti o di emergenza. [Infermiere]

iii caso

Tempo fa è stata ricoverata nel reparto in cui lavoro una ragazza straniera di 25 anni. Nel corso della degenza la paziente ha avuto sempre accanto i suoi tre figli. Durante il giorno il marito lavorava e i bambini rimanevano in ospedale con la madre, anche quando stava poco bene. Tutto ciò con disagio da parte della paziente (anche se, a dir la verità, non lo esprimeva molto), degli altri pazienti e del personale del reparto. Anche alla sera, quando il marito o il fratello giungevano in reparto, i bambini erano comunque sempre accuditi dalla madre, e non è stato semplice spiegare alla paziente e alla parentela che alla sera i bambini se ne dovevano tornare a casa perché non potevano rimanere a dormire con la madre. Il suo quadro clinico prevedeva la necessità di un intervento chirurgico in anestesia generale, con la relativa preparazione fisica della paziente: doccia, tricotomia, ecc. La comunicazione fra personale e paziente inoltre era resa difficoltosa a causa del suo italiano stentato. Il giorno dell’intervento il marito era presente e ha cacciato a male parole un mio collega uomo che si accingeva alla preparazione fisica della paziente. Ho dovuto quindi, in quanto donna, sostituire io il mio collega. La preparazione della paziente al

l’intervento chirurgico non è stata semplice sia per le difficoltà di comprensione della lingua, sia per la continua presenza dei figli. Anche al ritorno dalla sala operatoria la madre dolorante si trovava a dover accudire i figli, quando non eravamo noi operatori sanitari a occuparci di loro nei ritagli di tempo. Sotto continue pressioni del marito, la moglie ha firmato la cartella clinica per essere dimessa e poter tornare al più presto al suo ruolo di madre e di moglie. Questo fatto mi ha dato molto da pensare. Quella ragazza, pur avendo dei problemi di salute, non aveva la possibilità di abbandonare nemmeno per qualche giorno il suo ruolo di moglie e di madre. Tutto ciò avveniva non solo durante il giorno, mentre il marito era al lavoro, ma anche alla sera quando l’uomo era presente. I figli dovevano sempre essere accuditi dalla madre. Ho provato a discuterne con la paziente e con il compagno, per valutare la possibilità di allontanare i figli dall’ospedale. La risposta che ho ricevuto è stata che loro erano da poco in Italia e l’unico parente accanto a loro era un fratello, e sia quest’ultimo che il marito, in quanto uomini, non si potevano certo occupare dei figli, anche perché durante il giorno lavoravano. Mi ha anche colpito il fatto che quando si rivolgevano delle domande alla moglie era sempre il marito a rispondere per lei, ed è sempre stato l’uomo a insistere

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per una dimissione anticipata della donna, chiaro segno di sottomissione. Ora io mi chiedo: Come è possibile che una donna non possa esprimere il suo pensiero in piena libertà? Come è possibile che una donna ammalata non abbia la possibilità di abbandonare il suo ruolo di madre e moglie anche solo per alcuni giorni? Come è possibile che una donna non possa essere assistita da un operatore dell’altro sesso? Come donna, ho provato compassione e pena per quella ragazza che viveva una situazione del genere e che si trovava in una condizione psicologica e ambientale difficile, senza rete sociale di supporto. Come operatrice ho cercato, per quanto possibile, di aiutarla, standole moralmente vicino, cercando di rispettare le convinzioni e le tradizioni appartenenti alla loro cultura, e di sollevarla dal peso di accudire i figli. [Infermiere]

Ma qui si pone una domanda: inche misura, e fino a che punto, taliscelte e richieste possono appariregiustificate e, quindi, possono ricevere accoglimento in nome delvalore dell’autonomia?

Si possono considerare accoglibili, in quanto eticamente giustificate,richieste di intervento fatte in nomedi un preteso diritto all’incondizionato rispetto della cultura minoritaria del richiedente, soprattuttoquando tali pratiche sono in palese

contrasto con i fondamentali principi della società liberale, della libertà e della dignità personale?

E ancora: distinguere tra pratiche ammissibili e non ammissibili in nome di nostri principi, significa inevitabilmente negare alle minoranze la loro identità culturale, incorrendo in una sorta di imperialismo etico?

Per poter dare risposta a queste domande, un osservatorio privilegiato è rappresentato dai problemi relativi alle donne in ambito assistenziale. Questo non solo in ragione della consistenza numerica della presenza femminile e del prevalente ricorso alle strutture sanitarie per questioni attinenti alla riproduzione, ma anche per il fatto che molte delle donne straniere presenti sul territorio nazionale appartengono a culture nelle quali operano limiti e tabù che amplificano le difficoltà degli operatori sanitari nel raggiungere un adeguato livello di assistenza e nel garantire la loro salute.

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iv caso

Il caso clinico di F., magrebina di 35 anni, nel reparto di Ginecologia e Ostetricia dove lavoro è ricordato quale modello di storia ostetrica complicata ed esplicativo di tutte le difficoltà che una donna incontra se condizionata dalle tradizioni culturali. F. parla bene l’italiano ed è stata seguita dal mio reparto in occasione delle sue quattro gravidanze nell’arco di circa dieci anni. È sposata con un connazionale, molto più vecchio di lei; racconta

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di essersi sposata per procura. La prima gravidanza è complicatada una severa eclampsia con crisiepilettiche e si conclude con untaglio cesareo d’urgenza. Nasceuna bambina. La seconda gravidanza evolve inmaniera fisiologica e, con tagliocesareo a termine, nasce la seconda femmina. A venti settimane dall’inizio dellaterza gravidanza, il feto appare,ecograficamente, malformato. Lacoppia decide di interrompere lagestazione con un aborto terapeutico. L’aborto si complica a causadella rottura dell’utero. I medici consigliano un interventodi asportazione uterina, ma la paziente rifiuta e firma un consensoper un’operazione di riparazionedella breccia uterina. Nonostante il rischio e il parerecontrario dei curanti, F. affrontauna nuova gravidanza, che evolve senza problemi fino alla 35°settimana, termine per il qualeè stato programmato il tagliocesareo. Nasce un maschietto. Questo caso mi ha colpito molto,perché le scelte fatte da questapaziente sono state condizionatedal proprio contesto sociale didonna araba, senza tenere contodei rischi per la salute. Infatti, come confidatoci, il suomatrimonio, nato come un contratto, per essere valido dovevaessere suggellato dalla nascita diun erede maschio. Nel suo Paesele donne che non hanno generato figli maschi possono essereripudiate, e sempre più spessosuo marito minacciava di farlo,

le metteva fretta, anche perchépiù vecchio di lei. Il ripudio, giàpesante da subire nel suo Paesed’origine, diventava insostenibileper lei lontana dagli affetti della famiglia d’origine, in un Paese vissuto come ostile. Per la nostra cultura occidentale è impensabile affrontare la maternità come un dovere e rischiarela vita per salvare un matrimonionon proprio ideale. Nonostante le conoscenze mediche sconsigliassero un’altra gravidanza, lapaziente ha deciso di rischiare enoi le abbiamo fornito tutto l’aiuto psicologico e assistenziale utilea evidenziare tempestivamenteeventuali problemi. [Infermiere]

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All’interno di un multiculturalismo dalla connotazione così spiccatamente “femminile”, vi è una sorta di surplus di problematicità, dovuto in primo luogo alla circostanza che per molte donne straniere, nei Paesi di provenienza, non è ancora iniziato o è solo agli inizi un processo di emancipazione, e in secondo luogo alla connessa circostanza che numerose credenze, caratteristiche delle culture di appartenenza, sembrano finalizzate a tutto fuorché al benessere delle donne stesse.

A questo proposito la pratica delle mutilazioni genitali femminili (MGF) risulta emblematica.

Tali pratiche coinvolgono un numero sempre più crescente di adolescenti appartenenti a famiglie immigrate e sono un esempio paradigmatico dal quale si può trarre

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spunto per ridisegnare i confini di un modello di assistenza sanitaria incentrato proprio sul principio di autonomia, di cui si è precedentemente parlato. È necessario infatti sgombrare una volta per tutte il terreno dagli equivoci circa alcune implicazioni permissivistiche che taluni ritengono collegate all’adozione di quel modello.

nel mio intervento cercherò di addurre argomenti etici, giuridici e deontologici, a sostegno della tesi secondo cui tale pratica non è né legittima, né ammissibile; da ciò consegue che affermarne l’inammissibilità non indebolisce per nulla il modello di relazione terapeutica incentrato sull’ampio riconoscimento dell’autonomia.

Vediamo gli argomenti che possono essere addotti contro le MGF.

1) Le MGF non sono un trattamento sanitario, non avendo nessuna delle finalità che l’etica, la deontologia e il diritto considerano oggi idonee a legittimare gli atti medici. Assumiamo come punto di riferimento il codice di deontologia medica, che all’art. 50 vieta espressamente le MGF. Al di là di questa disposizione, tuttavia, si può prendere in considerazione un’ampia serie di articoli di carattere generale, contenuti nel codice deontologico, gli artt. 3, 5, 12 e 18, che circoscrivono gli atti medici.

Da queste disposizioni risulta chiaramente che gli atti al cui compimento è tenuto il medico sono atti di natura preventiva, diagnostica, terapeutica in senso stretto, riabilitativa, medico-legale, e sono

finalizzati alla tutela della vita, della salute fisica e psichica, nonché al sollievo della sofferenza.

L’esplicita menzione al sollievo della sofferenza, unitamente al riferimento alla salute psichica, consentono di intravedere la ricezione da parte della deontologia medica delle istanze di cui si è fatta portatrice la riflessione bioetica, nel momento in cui ha messo in evidenza i limiti della concezione meramente biologistica e organicistica della terapia e ha suggerito la messa in atto di una sorta di controtendenza rispetto alla tradizione assai radicata, che riconosceva nel sedare dolorem un obiettivo solo secondario rispetto a quello primario del serbare vitam.

Se tutto questo è vero e se è vero che ci sono state aperture che hanno portato a un allargamento rilevante degli atti di pertinenza medica, ritengo che sia altresì sostenibile che a nessun titolo si possa operare un’estensione tale da includervi i trattamenti di cui stiamo parlando.

Tale allargamento non può essere operato né con riferimento alle c.d. forme intermedie di riduzione del danno (che, se attuate in ambienti adeguati, si rivelerebbero molto meno devastanti), né con riferimento a interventi mutilatori giustificati dalla volontà di evitare il disagio e la sofferenza psicologica che alle bambine, una volta divenute donne, potrebbero derivare dalla stigmatizzazione della loro comunità sociale di appartenenza.

Ritengo che le c.d. soluzioni intermedie (anche volendo tacere del loro contrasto con il rispetto di valori quali la libertà, l’uguaglianza

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o con disposizioni specifiche delnostro codice penale che sanzionanole lesioni personali), presuppongonol’attribuzione al medico del potere diprocurare all’individuo una sofferenza minore, al fine di prevenire unasofferenza maggiore che potrebbeessergli causata da altri soggetti.Tale attribuzione risulta del tuttopriva di giustificazioni etiche.

Per quanto riguarda poi la sofferenza psicologica che potrebbe derivare dalla mancata sottoposizionealla pratica, essa risulta essere nonattuale e difficilmente presumibileper donne che non trascorrerannointeramente la loro vita nel contestochiuso della loro civiltà. Si parlainoltre di una sofferenza futura eradicalmente incerta per evitarela quale si infligge una sofferenzaattuale e certa.

Concludo questo punto osservando l’impossibilità di far leva sulconcetto di sollievo o di prevenzionedella sofferenza, dal momento chele preadolescenti destinatarie di talipratiche non vengono mai prese inconsiderazione come soggetti allecui condizioni psicologiche (bisogni, desideri e volontà) si attribuisce la benché minima rilevanza.Esse compaiono invece nel ruolo dioggetti passivi di scelte e decisioniriguardanti la loro salute, assunte inloro vece da altre persone.

2) I genitori sono legittimati a compiere una simile scelta al posto delleproprie figlie? Sebbene a tutt’oggi perdurino diverse concezioni giuridiche del minore,si può affermare con una certasicurezza la prevalenza dell’orien

tamento che considera il minore preadolesecente come soggetto di diritti e libertà personali, alla conquista di una sempre più ampia sfera di autonomia di pari passo con la sua crescita fisiologica. L’affermarsi di tale orientamento ha posto le premesse per un ripensamento critico della stessa incapacità di agire che il nostro codice civile attribuisce ai soggetti minorenni, e per la ridefinizione dell’estensione della rappresentanza legale che la legge conferisce di regola a entrambi i genitori.

Per quanto riguarda l’incapacità di agire del minore, se ne è sottolineata sempre più l’ispirazione patrimonialistica; si è cioè osservato che l’incapacità di agire riguarda più l’ambito dei rapporti patrimoniali che non quello dei rapporti personali.

Si profilano innovazioni significative a questo riguardo: nel luglio 2004 è stato infatti approvato un disegno di legge dal titolo “Disposizioni in materia di consenso informato e di manifestazioni anticipate di trattamenti” che all’art. 6 prevede l’abbassamento ai 14 anni dell’età minima per prestare il consenso ai trattamenti sanitari.

Per quanto riguarda la rappresentanza legale affidata ai genitori, essa si configura come potere-dovere (non come diritto-potere) attribuito ai genitori non certo nel loro interesse personale, né tanto meno nell’interesse della comunità, bensì solo nell’interesse dei figli.

Le decisioni relative alla salute e agli interventi sul corpo ricadono nell’art. 33 del Codice di Deontolo

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gia medica. A livello deontologico, infatti, già oggi si ritiene che la potestà genitoriale incontri un li­mite preciso nel dovere dei medici di informare l’autorità giudiziaria in caso di opposizione da parte del rappresentante legale al trattamento necessario e indifferibile a favore del minore.

La rappresentanza dei genito­ri appare dunque rigorosamente finalizzata non solo all’interesse del minore e alla tutela della sua salute, ma anche alla tutela e al rafforzamento della sua libertà di scelta. In quanto tale, essa non può essere invocata a sostegno della le­gittimità di interventi e trattamenti incompatibili tanto con la tutela della salute quanto con il rispetto e la promozione della libertà delle minori.

3) I medici hanno diritto di rifiutare l’attuazione di trattamenti e di in­terventi la cui idoneità a perseguire scopi di prevenzione, cura e sollievo dalla sofferenza non sia scientifica­mente provata. nonostante sia tramontata l’era paternalistica e si sia affermato un modello di relazione medico-pazien­te bipolare, cioè caratterizzato dalla rivalutazione del paziente o di chi lo rappresenta come soggetto che ha un ruolo imprescindibile nelle decisioni dei trattamenti, non si può certo affermare che sia venuta meno l’autonomia del medico e che questi sia dunque obbligato ad accogliere qualsiasi richiesta.

In capo al medico è rimasto quindi il dovere di proporre strategie terapeutiche circoscritte, ispirate ad

aggiornate e sperimentate acquisi­zioni scientifiche.

4) L’erogabilità a carico del SSN trova limiti nella necessità di allocare le risorse sanitarie secondo criteri di equità e di appropriatezza. Questo rilievo porta a escludere dal­la legittima destinazione le risorse pratiche mediche che non soddisfa­no la c.d. certezza scientifica.

Giunta a questo punto mi ren­do conto che gli argomenti finora proposti potrebbero andare incon­tro all’obiezione di essere viziati dall’adesione unilaterale a un’etica, a una deontologia e a un diritto eurocentrici che, come tali, ap­presterebbero strumenti normativi per la tutela e la promozione dei diritti fondamentali degli individui senza prestare alcuna attenzione alla circostanza che le convinzioni occidentali in tema di diritti umani non trovano corrispondenza in altre culture. L’estensione degli istituti a soggetti che, pur vivendo nelle società occidentali, appartengono a diverse culture, potrebbe pregiu­dicare il rispetto del diritto alla sal­vaguardia e al mantenimento della loro identità culturale. Secondo tale prospettiva, sia in sede di valuta­zione etica che di progettazione politica, si dovrebbe attribuire il riconoscimento alla specificità di ogni cultura, per non incorrere in una sorta di imperialismo etico.

È necessario dunque interrogarsi sulla portata e sul significato degli argomenti relativistici con cui si mette in dubbio l’applicabilità, a civiltà diverse dalla nostra, dei

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principi delle società a improntaliberal-democratica.

Io sostengo che le MGF non trovano giustificazione e supporto nellepretese implicazioni relativistichesul piano dell’etica normativa, delmulticulturalismo e del pluralismodei valori.

Innanzitutto è necessario capire a cosa ci si riferisce quandosi parla di relativismo. Quando sipone l’accento sulla molteplicitàdelle concezioni etiche e se ne sottolinea il condizionamento a operadell’ambiente sociale e culturale,ci si fa sostenitori di una teoriache potremmo definire “relativismoculturale”. Si tratta di una teoria descrittiva, psico-socio antropologica,secondo la quale l’etica dei valorisarebbe influenzata dalla culturadi appartenenza. A suo sostegnopossono senz’altro essere addottibuoni argomenti.

Questa teoria empirica tuttavianon implica affatto l’adozione di unateoria normativa (non descrittiva)denominabile con l’espressione “relativismo etico”, intendendo con ciòla teoria normativa che fa dipenderel’approvabilità di un comportamentodalla conformità alle tradizioni e aivalori diffusi nella cultura cui appartengono i soggetti che pongono inessere tali comportamenti.

Si tratta di due teorie ben distinte: la prima si limita ad accertareche i valori e le convinzioni sonoinfluenzati dalla società di appartenenza, la seconda invece arriva adaffermare che tali valori, in quantoconformi a una determinata cultura, debbano considerarsi sempree comunque giustificati sul piano

etico. E ancor meno il relativismo culturale implica l’adozione di quel c.d. scetticismo morale secondo cui, una volta escluso che si possa fondare razionalmente un unico punto di vista morale, non resterebbe altra alternativa che ritenere che nulla faccia differenza, che qualsiasi posizione etica vada bene.

Credo che oggi si debba fare uno sforzo importante per sostenere che dal riconoscimento descrittivo dell’inerenza alle diverse culture di appartenenza delle convinzioni morali, non discende affatto che sul piano giustificativo tutte le posizioni etiche siano equivalenti e debbano considerarsi quindi ugualmente meritevoli di accoglienza.

Alla luce di queste precisazioni è necessario chiedersi se gli organi e le istituzioni investite di responsabilità e poteri politici possano distinguere tra pratiche ammissibili e pratiche (come le MGF) non ammissibili. Io mi dichiaro a sostegno della possibilità di distinguere tra pratiche, appartenenti ad altre culture, ammissibili e altre non ammissibili, alla luce del principio di autonomia precedentemente approfondito.

Sulla base di tale principio si deve senz’altro dare accoglienza ai c.d. diritti delle culture compatibili con il rispetto della libertà e dell’autonomia individuale dei soggetti. Ciò implica, al contrario, che si debbano ritenere inammissibili, all’interno del Paese di accoglienza, le pratiche la cui attuazione non è scelta, bensì è imposta dal gruppo di appartenenza agli individui ai quali non è riconosciuto il diritto

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di esprimere la loro volontà e quindi un eventuale dissenso. A chi obietta che questo significa costringere a riorganizzarsi, secondo principi liberali, intere comunità che vedono nella restrizione della libertà di alcuni il proprio carattere distintivo, si può rispondere che bisogna avere il coraggio politico di affermare l’intollerabilità di tutto ciò che si traduce in abusi tra individui, ideando strategie utili a far sì che tali abusi cessino.

Queste strategie sono: – le strategie repressive. Si tratta

sicuramente di una strada percor­ribile, tuttavia non può costituire l’unico strumento di opposizione agli abusi. Ritengo però che sia comunque necessario adotta­re un atteggiamento di ferma opposizione alle pratiche muti­latorie, evitando di consentire pratiche intermedie di riduzione del danno, che porterebbero ad avvallare e a rafforzare le con­cezioni culturali di soggezione della donna, che stanno alla base delle mutilazioni stesse;

– lo sviluppo dell’attenzione verso i bisogni e i timori degli appar­tenenti alle culture minoritarie. Senz’altro occorrono iniziative internazionali volte a supportare incisivi cambiamenti culturali nei Paesi di provenienza. È necessa­rio quindi creare le condizioni idonee a far sì che la stessa fa­miglia che, per ossequio alla tra­dizione, mette in atto abusi nei confronti delle giovani figlie, non debba, da queste stesse, essere vista come l’unico contesto in cui possono trovare protezione;

– la difesa dei diritti fondamentali e l’affermazione della loro inviolabilità costituiscono la condizione per la sopravvivenza delle culture a cui gli individui scelgono di appartenere, condividendone i valori e i principi ispiratori. Questo nella convinzione che i diritti fondamentali efficacemente definiti da un importante teorico del diritto, Luigi Ferraioli, come leggi dei più deboli contro le leggi dei più forti, valgono a proteggere gli oppressi dalle loro culture e famiglie.

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Patrizia Borsellino è professore di Fi­losofia del Diritto presso l’Università dell'Insubria

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Maternità e culture

Michela Berlanda

Gli aspetti della gravidanza e del parto legati alle caratteristiche culturali e alle condizioni socio-ambientali.

La gravidanza e il parto sono, sotto il profilo biologico, uguali in ogni parte del mondo; ciò che li caratterizza e li diversifica sono per lo più gli aspetti culturali.

Genericamente si può distinguere la modalità occidentale, abbastanza omogenea e caratterizzata da un massiccio utilizzo della tecnologia, ritenuta fondamentale per una buona sorveglianza della gravidanza (basti pensare alla fecondazione assistita, alle indagini genetiche, alle ecografie, alla registrazione elettronica delle contrazioni uterine, alla modalità del parto (fino a poco tempo fa espletato prevalentemente in posizione orizzontale), al numero dei tagli cesarei (compreso tra il 30 e il 50% dei parti). nel resto del mondo le modalità nell’affrontare una gravidanza sono variegate, spesso caratterizzate da maggior fatalismo e nelle quali la tecnologia, quando è presente, resta marginale.

Organi autorevoli come l’OMS e l’ISS (Istituto Superiore Sanità) raccomandano ai Paesi occidentali un uso più oculato della tecnologia

(che quando viene usata impropriamente diventa causa di problemi iatrogeni), mentre suggeriscono di fornire più aiuti sanitari ai Paesi più poveri, dove la prima causa di morte per le adolescenti è proprio il parto.

Per paradosso, l’uso improprio delle tecnologie genera ansia e apprensione nelle donne occidentali, facendole vivere la gravidanza come una continua verifica, nell’attesa del responso di ogni esame di controllo.

Le donne non appartenenti alla nostra cultura affrontano la gravidanza e il parto con maggior fiducia. Anche se residenti nel nostro Paese, alcune trascurano i controlli periodici in gravidanza, o per lo meno non li percepiscono come fondamentali: la gravidanza è considerata un evento naturale, che quindi non necessita di una particolare vigilanza medica.

È senz’altro più probabile che una immigrata africana a mediobassa scolarità acceda fedelmente ai controlli ecografici piuttosto che alle visite periodiche: l’ecografia in gravidanza esercita un grande fascino su tutte le donne del mondo.

Tendenzialmente, quando si avvia una gravidanza, le donne occidentali avvertono un senso di inadeguatezza. La scelta di avere un figlio avviene spesso senza una preparazione derivante da esperienze vicine o dalla trasmissione di competenze; questo genera solitamente ansia, apprensione e paura.

Invece, per le donne africane e medio-orientali la maternità è un aspetto fondamentale della loro

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vita, imprescindibile per il riconoscimento sociale del loro ruolo.Le donne sposate appartenenti aqueste culture, se non hanno figli,vanno incontro a una disapprovazione sociale.

È pur vero che anche in Africa siriscontrano molteplici realtà socio­culturali. Ad esempio, la diversitàtra centri urbani e periferia puòessere sostanziale: un conto è viverea Casablanca e un altro è vivere inzone più periferiche del Marocco.Tuttavia in tutte queste culture ilruolo di madre ha sempre un pesomaggiore di quello che ha nella società occidentale, dove le donne nonsi sentono e non sono emarginatese non formano una famiglia.

Esiste anche una diversità diaspettative: nelle donne occidentali i numerosi esami in gravidanzainducono ad aspettarsi il bambino“perfetto”, poiché gli strumentidiagnostici, sempre più sofisticati,vengono ritenuti infallibili; nelledonne extracomunitarie questaaspettativa è indubbiamente menopresente.

Le donne extraeuropee che vivono nel mondo occidentale devonoinevitabilmente fare i conti con dueculture, quella di origine e quella diaccoglienza. Questo fatto genera inloro insicurezza: che cosa mantenerevivo del proprio mondo e che cosafar proprio del mondo in cui vivono?Le donne immigrate in Trentinoprovengono prevalentemente dall’Africa e dal Medio-Oriente, realtàper noi distanti dal punto di vistaculturale.

Questo richiede, da parte deglioperatori sanitari, un’alta professio

­ nalità e una grande sensibilità verso le specificità di altre realtà culturali. I saperi oggi presuppongono una competenza maggiore rispetto al passato, un atteggiamento di apertura anche nelle situazioni difficili.

Il Consultorio familiare, insieme ad altri servizi dell’APSS, sperimenta ormai da anni il contatto con donne e con coppie straniere. I motivi più frequenti per cui tali soggetti si rivolgono a questo servizio sono: – gravidanza; – corsi di preparazione alla nascita; – contraccezione; – consulenze psicologiche; – consulenze sociali; – consulenze legali; – consulenze genetiche; – visite ginecologiche.

L’istituzione del Consultorio è avvenuta con la legge 405 del 1975. L’attività della struttura è regolamentata dalla legge provinciale 20 del 1977, che denomina questo servizio “Consultorio per il Singolo, la Coppia e la Famiglia”.

Il Consultorio familiare costituisce un importante strumento, all’interno del Distretto, per attuare gli interventi previsti a tutela della salute della donna più globalmente intesa e considerata nell’arco della sua vita, nonchè a tutela della salute evolutiva, dell’adolescenza e delle relazioni coniugali e familiari.

Le attività consultoriali rivestono un ruolo fondamentale nel territorio, grazie soprattutto all’utilizzo del lavoro di equipe, che le rende uniche nella rete delle risorse sanitarie e socio-assistenziali esistenti.

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L’attività prevalente delle ostetriche di questo servizio con le donnestraniere consiste nella conduzionedei corsi di preparazione alla nascita(CPn), nella visita domiciliare e nell’assistenza durante il puerperio.

Dagli ultimi rilevamenti risultache l’incremento delle nascite inTrentino è prevalentemente dovutoalle famiglie extracomunitarie chevi risiedono.

Spesso le donne immigrate almomento della maternità si trovano sole, non supportate dallafamiglia di origine, e vanno quindiincontro a difficoltà nella gestionedi questa esperienza. La mancanzadi sostegno della famiglia d’originecomporta l’assenza di trasmissionedi competenze e può facilmenteportare all’abbandono dell’allattamento al seno.

Un’indagine campionaria condotta in Trentino nel 2002 dall’Osservatorio Epidemiologico dell’APSS diTrento, ha evidenziato che il 41%delle donne in gravidanza frequentaun CPn; di questa percentuale il 72%sono alla prima gravidanza.

Dai dati raccolti nell’intera provincia nel 2001, il 31% di donne ingravidanza ha frequentato un CPn,di cui il 55% al primo parto.

Presso il Consultorio di Trentoaccedono circa l’80% delle donneche frequentano un qualsiasi corsopre-parto. Di tutte le donne in gravidanza che frequentano un CPn il6% sono donne immigrate. Di questapercentuale lo 0,1% sono donne africane; la loro scolarità è medio-alta ehanno un buon inserimento sociale;la loro frequenza media si aggirasul 70-80%, con una discriminante

­ riferita alle donne nordafricane, che invece raggiungono il 10-15%.

La nazionalità delle donne immigrate è molto varia: rumena, polacca, slovena, croata, russa, tedesca, austriaca, spagnola, cubana, colombiana, brasiliana, tunisina, marocchina e del centroafricana.

Le donne provenienti dall’Europa e dall’America centro-meridionale hanno una buona conoscenza della lingua italiana e la loro cultura è molto simile alla nostra.

Un fattore deterrente a iscriversi e a frequentare costantemente un corso CPn è la difficoltà nella comprensione della lingua italiana, che si aggiunge alla diversità culturale.

Oltre all’educazione sanitaria, i corsi hanno come obiettivi: – lo sviluppo dell’empowerment

(potenziamento) delle donne e delle coppie, come responsabilizzazione del cittadino verso la propria salute;

– il coinvolgimento diretto di questi soggetti nella produzione di salute;

– il miglioramento dell’outcome (esito) della salute della donna e del bambino. È dimostrato che se una donna

ha sviluppato un comportamento attivo nel proprio travaglio, nel parto e nel dopo parto, partecipa con maggior consapevolezza a ogni scelta, esponendosi meno al taglio cesareo e mostrandosi più propensa ad allattare al seno. Per una donna la maternità è un’esperienza che la mette di fronte a sensazioni mai provate prima; il coinvolgimen

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to emotivo la lega fortemente al proprio bambino, dando inizio a quell’attaccamento che, se “sicuro”, diviene un fattore positivo per la salute mentale del figlio nel corso dell’infanzia e dell’età adulta.

Le donne straniere, che potrebbero trovarsi senza il sostegno di familiari stretti e senza il supporto di una rete sociale, sono più esposte a difficoltà nella gestione della maternità, soprattutto dopo la nascita del figlio. nel loro caso, i CPn possono costituire un’opportunità per costruire rapporti amicali con altre donne.

Il Consultorio, come luogo di una serie d’iniziative prima e dopo la nascita del figlio (come i CPn e gli incontri nel dopo parto, tra cui i corsi di massaggio infantile), offre una possibilità di condivisione con altre donne dell’esperienza della maternità.

Bisogna considerare che una donna immigrata in Italia, rispetto alla vita che conduceva nel Paese d’origine, può andare incontro a un cambiamento drastico, dove solitudine e invisibilità rappresentano le difficoltà maggiori. È possibile infatti che, non essendo supportata da reti femminili di aiuto, nell’esperienza della maternità si trovi ad affrontare una condizione di forte vulnerabilità, dovuta al conflitto tra le diverse rappresentazioni culturali, alla perdita di sicurezza ed efficacia del proprio ruolo di madre, alla mancanza di familiari, di amiche e di un contenitore culturale che le permetta di vivere la riproduzione non solo biologicamente, ma anche culturalmente e simbolicamente.

D’altra parte, gravidanza, parto e puerperio sono momenti comuni a tutte le donne, legati ai vissuti, ai saperi, alla stessa identità femminile. Infatti l’esperienza della maternità accomuna tutte le donne del mondo, avvicinando tra loro anche le generazioni; ogni donna nell’affrontarla si avvicina alla propria madre, sentendo di condividere un’esperienza che è stata anche la sua. Le donne straniere possono essere private di questa vicinanza e dunque percepire la mancanza di un supporto importante in un momento della vita così delicato.

È necessario attivarsi per favorire le occasioni nelle quali poter costruire una rete di conoscenze che faciliti l’abbattimento del senso di solitudine che queste donne vivono lontane dai propri cari.

Gli obiettivi generali dei CPn sono: – offrire un territorio sociale che

valorizzi l’esperienza; – offrire saperi ed esperienze par

tendo dalle donne; – promozione attiva della salute e

della qualità della vita; – promozione del piacere in gravi

danza e nel percorso maternità; – promozione dell’accoglimento e

dell’allattamento materno; – promozione della capacità di

porsi come soggetto attivo; – creare nella donna motivazioni

nei confronti del parto fisiologico, nell’affrontare il dolore, nell’accogliere il suo bambino, perché un parto naturale garantisce maggiori probabilità di salute.

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I CPn aperti alle donne straniere devono avere l’obiettivo di: – ridurre la condizione di isolamen

to sociale; – ridurre il senso di perdita del

proprio contenitore culturale; – favorire il passaggio da una cul

tura all’altra; – preparare alla maternità e alla

paternità; – dare valore ai saperi altrui; – rafforzare le competenzematerne; – dare informazione pratica; – permettere di costruire una rete

di rapporti (conoscenze); – dare continuità alla gravidanza,

parto e dopo-parto. nel dopo-parto le cure al neonato

richiedono molto impegno fisico e spesso sono accompagnate da una brusca alterazione del ritmo sonno-veglia della madre, con la continua sensazione di fatica e a volte di tensione nervosa. L’intenso sentimento d’amore e di indispensabilità rispetto al nuovo nato può consumare molta energia emotiva, soprattutto all’inizio, quando questa relazione d’amore tende a essere esclusiva. I ritmi del bambino sono distanti da quelli dell’adulto e questo rischia di disorientare la donna, almeno fino alla crescita di un adattamento che permetta di far fronte all’impegno.

Senza un adeguato sostegno la donna, lasciata sola, può costruire un sentimento di frustrazione dovuto alla percezione di un senso di inadeguatezza. La scelta di avere un figlio è irreversibile e senza ritorno e richiede una ricostruzione del sé, di un nuovo equilibrio, di un riadattamento generale. Tale scelta apre sicuramente nuove prospettive, ma

può comportare la rinuncia ad altri progetti di vita; qualche volta addi­

­ rittura si ha l’impressione di essere fagocitate dal figlio, di smarrirsi nei suoi bisogni. La mamma può essere messa di fronte a una dimensione di

­ costante insicurezza nella ridefini­zione della nuova famiglia. La ricom­posizione dei propri spazi mentali, attraverso il riconoscimento della distinzione fra sé e il figlio non è sempre facile. nella donna straniera, essendo tutto ciò aggravato dalla solitudine e dalla lontananza dai familiari a lei più cari, è urgente il bisogno di accompagnamento

v caso

Effettuo la mia visita domicilia­re a una famiglia marocchina, in seguito alla segnalazione di

­ una infermiera professionale del distretto. La segnalazione riguar­

­ dava una donna che in prossimità della fine della gravidanza era andata incontro a una gestosi grave sfociata in eclampsia. La sindrome è caratterizzata da iper­tensione, albuminuria ed edemi; in questo caso erano comparsi anche accessi convulsivi, seguiti da uno stato comatoso che aveva richiesto il ricovero in terapia in­tensiva. Dopo le cure ospedaliere la donna era stata dimessa e

­ consegnata ai servizi territoriali. Trovo la neo-mamma a letto, in una stanza semi-buia, con evidenti segni di stanchezza at­tribuibili ai postumi della gestosi.

­ Entrambi i genitori hanno una discreta conoscenza della lingua italiana, e questo mi facilita nel

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mio intervento. Noto che i vetri della stanza sono bagnati di umidità (è inverno): una situazione insalubre, e particolarmente in questo caso, date le condizioni di salute della donna. Sappiamo che in molte culture l’allevamento dei figli è un compito esclusivamente femminile. Le cure del neonato richiedono molta energia e la neo-mamma, nello stato in cui si trovava, non era certo in grado di occuparsene da sola. Mi confronto con il marito, cercando di spiegargli che in questa particolare circostanza sua moglie ha bisogno di essere aiutata nel-l’accudimento del bambino e nelle faccende di casa. Nel nostro Paese le donne africane sono spesso aiutate da altre donne, ma in questo caso non era possibile per la lontananza di loro connazionali. Raccomando al marito di areare gli ambienti, di fare entrare nelle stanze luce naturale e alcune norme igieniche. Sembra che il marito capisca, ma quando gli dico che dovrà provvedere lui al bagnetto del figlio, mi comunica che non è in grado di farlo. Mi rendo subito disponibile a insegnarglielo, ma sembra preso in contropiede, assumendo un atteggiamento tra il serio e il faceto. A quel punto, pur rendendomi conto di interferire nelle loro distinzioni di ruoli, in tono scherzoso, ma deciso gli dico che non si può fare diversamente. I pensieri che mi frullavano in testa in quel momento erano tanti: da un lato ero presa dalla

tenerezza nei confronti di quella donna che, pur piena di volontà, esprimeva chiaramente, senza parlare, di non riuscire a farcela da sola, dall’altro ero turbata dall’impatto con aspetti culturali così diversi dai miei. Mi sono però anche detta che di fronte al bisogno non c’era alternativa. A quel punto riuscii a far preparare a quell’uomo tutto l’occorrente per il bagnetto, assistendolo nel lavaggio del bambino. Ogni tanto incrociavo lo sguardo dell’uomo, che sogghignando mi guardava come per dirmi “Non so come hai fatto a convincermi”. Anche lui probabilmente incerto, combattuto tra la difesa del suo ruolo e la consapevolezza della situazione che non gli lasciava scelta. Sorrido ripensandoci, ma ho ben compreso la condizione di solitudine in cui vivono queste donne, che al loro Paese avrebbero sicuramente il sostegno e l’aiuto di altre donne. [Ostetrica]

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I servizi quindi devono essere presenti e capaci di organizzare attività di sostegno da un lato e pedagogiche dall’altro, finalizzate a facilitare l’esperienza della maternità e a sviluppare le capacità genitoriali, tenendo conto anche della multiculturalità.

In Trentino, per colmare un vuoto assistenziale nel dopo-parto, viene offerta, anche se in modo disomogeneo, l’assistenza domiciliare in puerperio dalla rete consultoriale dell’APSS, attraverso le ostetriche.

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Gli interventi domiciliari consistono nella visita nel dopo-parto. Tale visita, oltre a fornire informazioni in ambito sanitario, ha lo scopo di potenziare le competenze materne, sviluppando il riconoscimento delle competenze del bambino, attraverso un’azione di sostegno. È vero che il puerperio caratterizza fisiologicamente nello stesso modo tutte le donne del mondo (la condizione ormonale è la stessa e i bambini sono uguali dappertutto), ma è anche vero che le nostre comunità sono segnate da forti differenze culturali, e ciò deve essere tenuto ben presente nel momento in cui si attiva un intervento domiciliare.

Le madri occidentali nei primissimi mesi hanno un compito molto difficile: vivono l’ansia di un’esperienza che non conoscono, portano con sé la rappresentazione interiore dei propri genitori, e quella dei genitori ideali, confrontandosi con una realtà che è fatta anche di compromessi, sentendo di tradire quanto si erano programmate. Vivono un momento di forte fragilità, ritrovandosi in contatto con sentimenti ambivalenti; se il bambino potesse parlare chiaramente, la mamma si aspetterebbe da lui di essere rassicuratata rispetto all’essere una buona madre.

Con le donne straniere deve essere valorizzata la cultura di origine. Si può trovare, in qualche famiglia, l’applicazione di tradizioni che le fa sentire un pò più vicine alle loro terre, come il colorarsi con l’hennè e il condividere con le amiche questo momento festeggiando la nascita del figlio. In alcuni casi ci capita di

trovare il bambino fasciato da capo a piedi perché si ritiene che questa pratica tranquillizzi il neonato; oppure bambini rasati sulla base di pratiche rituali. Solo attribuendo valore a questi comportamenti è possibile stabilire un rapporto di fiducia, fondamentale nell’azione di supporto e di collegamento con la donna.

A questo scopo, da circa un anno l’APSS di Trento ha avviato una sperimentazione con mediatori culturali al fine di facilitare il confronto con realtà culturali diverse e di permettere di capirsi meglio laddove esista una difficoltà di comunicazione.

L’accompagnamento nel primo mese di vita del bambino ha una funzione rassicurante, sdrammatizzante, di allentamento delle tensioni, e favorisce l’emersione delle competenze materne e del bambino. Se la mamma acquista fiducia rispetto alle proprie capacità potrà avviarsi più facilmente verso il consolidamento del suo ruolo genitoriale.

Fintantoché non si sia sviluppata una reale integrazione degli stranieri, attraverso un’armonizzazione di culture differenti che renda possibile l’assunzione di una doppia identità etnica, l’azione dei servizi è da ritenersi necessaria.

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Michela Berlanda è ostetrica presso l'Ospedale Santa Chiara di Trento

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una salute pensata con sguardo di donna

Gaia Marsico

Nelle attività sanitarie occorre riflettere su quale sia il concetto di salute per la donna e quanto essa venga costretta a subire la spinta alla medicalizzazione.

L’universo femminile è sempre piùoggetto di indagine e sempre menosoggetto di ricerca. Forse, tale universo non si fa carico di portareavanti dei progetti sui problemi disalute specifici della donna.

Penso che ormai tutti siamo stati“medicalizzati”, in particolare ladonna, che a causa di questa medicalizzazione spinta si ritrova menolibera nella gestione della propriasalute. Ed è una medicalizzazioneche ormai, oltre a essere evidentea tutti, non vuole essere messa indiscussione: quando si ha verso diessa un atteggiamento critico o dirifiuto, si viene subito tacciati diirresponsabilità.

Sono stati medicalizzati il parto,la menopausa, il tumore al seno. Peresempio, da quando è stato introdotto il test BRCA1-2, che indica lapredisposizione al tumore al seno,si è dato avvio a una prassi moltopreoccupante: sulla base di untest che dà una risposta comunqueparziale e discutibile, si è arrivatia proporre alla donna interventi(come la mastectomia bilaterale o

la chemioterapia preventiva) che comportano una medicalizzazione estrema di donne ancora sane e che probabilmente non si amma-leranno mai.

vi caso

Tempo fa è venuta in farmacia una signora distinta, che ha chiesto di parlare con una dottoressa. Ha iniziato a esporre il proprio problema, raccontando il suo disagio rispetto al climaterio. Questo disagio non era però riferi-to ai soliti disturbi caratteristici di questo periodo, ma piuttosto alla perplessità riguardo alla possibili-tà di iniziare o meno una terapia ormonale sostitutiva. Dal discorso della signora è emer-so il fatto che lei non accusava alcun fastidio e tollerava benissimo le vampate, tuttavia era preoccupata dalla diversità rispetto alle sue amiche, che facevano tutte uso di cerotti o fitopreparati: la signora non aveva bisogno di nulla, eppure sentiva la necessità di assumere farmaci per non essere diversa dalle proprie coetanee. Personalmente ho cercato di farle capire che non tutte viviamo la menopausa allo stesso modo e, soprattutto, che non si tratta di una malattia, ma di una tappa della vita che può essere affrontata e superata anche senza alcun disagio fisico. La condizione della signora era certamente una condizione parti-colare, che però non doveva essere né colpevolizzata né curata. Assieme, abbiamo ripercorso il

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modo di vivere il climaterio da parte di sua nonna e alla fine anche la signora ha concluso che, nel suo caso, non c’era necessità di farmaci. Questo caso dimostra come alcuni passaggi naturali della vita della donna vengano strumentalizzati a favore del mercato. La donna non è più in grado di ragionare con oggettività sulla propria salute. Viene a tal punto bombardata da messaggi circa la necessità di assumere farmaci a qualunque costo, che si sente quasi a disagio nel non farlo. A tal proposito sarebbe necessario riconsiderare la figura femminile come soggetto di una cura e non come oggetto. [Farmacista]

Ritengo che sia urgente pensarealla salute della donna con occhidi donna. Occorrono riflessioni alfemminile, per capire quanto ladonna subisca certi tipi di proposte“terapeutiche”.

Pensiamo anche al campo delladiagnostica prenatale, che imponeun carico pesantissimo sul corpo esulle scelte delle donne, che a questo carico, credo, non sono ancorapreparate. Il grande peso è dato dalfatto che le risposte che arrivanodalla diagnosi prenatale non ammettono altra scelta se non quella trail portare e il non portare a termineuna gravidanza. Tutto ciò ha resol’attesa un periodo di forte stress perla donna, che diventa il destinatarioinconsapevole di informazioni nonsempre corrette. Una volta sottopostasi alla procedura standard di

esami e indagini prenatali, la donna risulterà indubbiamente rassicurata, senza però aver chiaro che le risposte che si hanno dalla diagnostica prenatale sono caratterizzate da un ampio margine di incertezza.

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vii caso

Il caso clinico da me riportato vuole essere una parziale risposta alla domanda posta dalla dottoressa Marsico: “Quanto subisce, la donna, le proposte di medicalizzazione?” Un lunedì mattina di quattro anni fa, all’ambulatorio di diagnosi prenatale, in una giornata dedicata all’esecuzione degli esami invasivi (villocentesi e amniocentesi) precedentemente prenotati, una signora alla diciassettesima settimana di gravidanza arriva per eseguire l’amniocentesi per un tritest (test di probabilità) patologico. Rimango un po’ perplessa, perché noto in lei una certa esitazione; quindi, fatta una breve anamnesi, le chiedo se è a conoscenza della finalità di tale esame. La signora mi risponde: “Il mio ginecologo [maschio] mi ha detto che devo farlo”. Al che tento approfondire un l’argomento, chiedendole: “Ma, signora, perché vuole effettuare il tritest?”. La signora inizia ad agitarsi, “Il mio ginecologo mi ha detto che dovevo fare il tritest”. A questo punto, combattendo contro il tempo (la seduta è lunga ed entro le ore 11:30 tutti gli esami devono essere terminati), e contro l’insofferenza del

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personale paramedico (abituato a veder eseguire gli esami senza alcun preliminare), tento di spiegare il senso di tali esami, ma naturalmente devo desistere per non agitare ulteriormente sia la signora che il personale, ormai decisi a effettuare tale procedura: “Era prenotata”. Dopo un paio di settimane arriva l’esito dell’amniocentesi: cario-tipo 47 XX, sindrome di Down. Purtroppo tocca a me rivedere la signora e darle notizia: rimane sconvolta, ma lei non aveva mai pensato a un’interruzione della gravidanza. Non ho più notizie della signora per diversi mesi, finchè un giorno si presenta nell’ambulatorio dove svolgo la mia attività come libera professionista e mi racconta: “Mia figlia è nata, ma è deceduta dopo poco tempo. Io mi sono colpevolizzata per l’esame eseguito, che mi ha creato ansia e che forse non ha permesso a mia figlia di nutrirsi bene nell’utero. Ho ripensato a quanto lei mi ha detto: che la scelta dell’amniocentesi spettava a me e non al mio ginecologo. Sono ritornata per raccomandarle di continuare nel suo modo di proporre gli esami senza imposizione, perché è più corretto e permette anche a noi di fare delle scelte; cosa che io, purtroppo, quel giorno ormai all’ultimo minuto non ero in grado di capire”. Come ho vissuto io questo episodio? Quel lunedì, terminati gli esami, mi è venuta una gran rabbia, come purtroppo mi succede spesso quando mi scontro con

questa realtà di esami imposti. Vedevo confermata la correttezza del metodo di lavoro che avevo organizzato altrove nei sei anni precedenti, con colloqui preliminari che permettessero alle donne di comprendere gli esami e di poter fare una scelta loro, in base alla loro ideologia, alla loro sensibilità, alla loro morale, alla loro,etica e non a quella del medico, di solito dettata dalla preoccupazione della propria tutela legale. Infatti, la piccola statistica che mi ero creata in quegli anni metteva in evidenza un calo nel numero di donne che eseguivano l’esame rispetto a quelle che venivano a prenotarlo: ci avevano ripensato dopo una spiegazione semplice, comprensibile e che non indirizzava a una risposta obbligata. Quando ho dovuto riconvocare la signora per riferirle l’esito dell’amniocentesi, la rabbia è aumentata ancor di più ed era rivolta anche verso me stessa, perché avevo perfettamente intuito che quella donna non avrebbe mai fatto la scelta di interrompere la gravidanza, ma io non ero riuscita a permetterle di ragionare e di scegliere con la sua testa. Sì, c’erano il tempo tiranno, l’ansia del personale paramedico e l’agitazione della signora che aumentava... ma com’è possibile che l’organizzazione medica attuale debba vincere e sopraffare anche chi vorrebbe lavorare in modo più giusto, con la sensibilità di noi donne? Quando infine ci siamo ritrovate

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nel mio ambulatorio, da una parte ho provato compiacimento perché, se pur con effetto tardivo, vedevo compreso e sollecitato un modo diverso di lavorare, di dare spiegazioni, dall’altra, ho sentito amarezza per la sofferenza che non ero riuscita a evitare. Questa mamma ha altri figli, è molto felice e ogni anno viene per un controllo, sorridente. Questo è un esempio semplice, purtroppo molto frequente, di quanto la salute della donna sia stata medicalizzata dalla società maschilista. La gravidanza stessa, un evento fisiologico splendido e irripetibile, ha reso la donna completamente dipendente dalla figura del ginecologo. Che questo espropriazione sia nata da un’invidia, dall’impossibilità maschile di vivere un fenomeno così complesso e appagante? Il fatto è che la disciplina ginecologica, anche adesso che è nelle mani delle donne medico, non si discosta molto dal comportamento precedente. La maggior parte di noi donne ha inteso la parità di diritti tra uomo e donna come un’eguaglianza della donna all’uomo e non è riuscita invece a esprimere quel ruolo diverso che la natura ci ha assegnato, in grado di permettere una nuova relazione tra uomo e donna basata sulla collaborazione e sull’integrazione di due mondi diversi. Forse, quando si comprenderà questo anche nella medicina potrà entrare un’etica femminile [Medico]

viii caso

M., 34 anni, in attesa del primo figlio, vive con gioia ed emozione questo evento: e una donna tranquilla e serena, che vede realizzarsi un suo progetto importante. All’ecografia del quinto mese, il medico rileva una lieve riduzione nello sviluppo degli arti del bambino: è leggermente più piccolo rispetto ai parametri standard. Questo risultato innesca una trafila senza fine. Si ripete l’ecografia dopo due settimane: viene detto alla signora di stare tranquilla, ma escono parole come “nanismo” e “alterazione genetica”. Procedono gli accertamenti, nuove ecografie, analisi genetiche, visite specialistiche a fuori provincia, dove viene fatta una ecografia “tridimensionale” per una miglior analisi morfologica del viso del bambino, per individuare qualche anomalia rara. Il carico di ansia è notevole, la mente della mamma già precorre i tempi, spera che sia “solo” nano, in modo da poterlo aiutare con interventi di allungamento degli arti, e che non ci siano danni neurologici. Finalmente arriva il momento del parto: il bimbo è piccolino, ma bello e proporzionato. Gli accertamenti di “scrupolo” proseguono con esami del sangue, nella ricerca di malattie metaboliche o altre alterazioni... qualche esame risulta alterato e quindi deve essere ripetuto... si applicano i protocolli... Il bambino ora ha tre anni, è cresciuto bene, è sano,

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vivace e chiacchierone. Il periodo nero della sua nascita è solo un ricordo, ma per la mamma quelle paure non si cancelleranno facilmente. Gli stimoli dati dal Dialogo sono stati molti e sono molte le “storie” che tornano alla mente: volti di donne speciali, talvolta fragili, ma poi sorprendentemente forti e determinate quando le esigenze lo impongono. Mamme, mogli, figlie, sorelle... l’universo femminile ha molte sfaccettature e molte ricchezze. La maternità è sicuramente l’evento che più influisce sulla vita delle donne, trasformandola nel profondo. È il momento in cui la donna affronta tutta una serie di trasformazioni fisiche e psicologiche. Attualmente la medicina aiuta molto la maternità, fornendo assistenza e sicurezza, ma talvolta presenta degli eccessi e crea degli ingranaggi che procedono poi in modo autonomo, perdendo di vista l’obiettivo reale e anche la razionalità. Per M., a posteriori, la serenità è tornata e il commento è, ovviamente, “Meglio aver fatto tante indagini per nulla, che...” Questo è sicuramente vero, ma quelle indagini, quell’eccesso di medicalizzazione hanno comunque lasciato dei segni, hanno riempito di incubi i sogni di una mamma che poteva affrontare con serenità un momento magico della sua vita, hanno tolto a M. la voglia di dare un fratellino al suo bambino... Non è un danno da poco!

La nostra società ci fa credere di poter avere il controllo su tutto e ci rende incapaci di gestire le incertezze e le attese, ci spinge a voler sapere tutto di un bambino non ancora nato, fa prevalere la nostra curiosità sul suo bene. Gli eccessi non sono mai positivi: dobbiamo rispettare ogni gravidanza, aiutando le donne con razionalità e serenità e non iriempiendole di paure e lasciandole sole con il loro carico di ansia una volta uscite dall’ambulatorio. [Medico]

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L’idea che più la medicina è tecnologicamente avanzata più la donna è libera, è molto discutibile. È più verosimile immaginare che, molto spesso, la medicalizzazione la renda più dipendente da decisioni altrui: più la medicina è tecnologica, e quindi poco accessibile alle pazienti, più si verifica un fenomeno di espropriazione della salute.

La donna, anziché accettare di essere ridotta a oggetto di indagine, avrebbe bisogno di riflettere se è questo il modello di medicina che vuole e se questo modello contribuisca davvero a un progresso nel campo sanitario.

È necessario dunque prendere la parola su problematiche apparentemente molto tecniche, ma che di tecnico hanno davvero poco.

Tutti abbiamo il diritto di discutere se la menopausa, con i sintomi che comporta, sia o meno un problema medico; o di chiederci se l’astensione dal fare diagnosi prenatali sia o meno un atteggiamento

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da irresponsabili, ma in fondo è un problema di scelte personali. Si prenda ad esempio la procreazione medicalmente assistita: c’è stato un ampio dibattito, soprattutto nell’ultimo periodo, ma sarebbe necessario che esso continuasse, in modo che le donne possano portare la loro storia e il loro punto di vista.

Sarebbe inoltre indispensabile riflettere su uno stereotipo ancora molto forte, che è quello della maternità. L’idea che la donna debba essere agganciata al ruolo di madre è ancora dominante nel nostro contesto sociale.

È stata evidenziata la violenza fisica e psicologica esercitata sulla donna dalle mutilazioni genitali femminili. Ma ci sono altre violenze più sottili, come la chirurgia estetica, in merito alla quale ci si chiede se essa sia frutto unicamente di scelte personali della donna o se alla base vi siano delle pressioni culturali che spingono ad aderire a un certo modello di bellezza.

Anche il concetto di “cura”, che è sempre stato associato alla salute della donna, è senza dubbio frutto di un’oppressione culturale e di una delega forzata. E ritengo che tale concetto non debba essere visto solo in una prospettiva positiva, ma che debba anche venire rivisitato in maniera critica.

Ma veniamo alla domanda centrale: esiste un concetto femminile di salute?

Credo che la natura femminile non sia sostanzialmente differente da quella maschile, ma che sia stata storicamente molto condizionata.

Questa diversità tradizionale che ci portiamo dentro come donne, si traduce, rispetto alla salute e alla medicina, in particolari punti di vista che dovrebbero essere presi in maggiore considerazione: nella bioetica, ad esempio, le donne hanno sottolineato aspetti effettivamente diversi e originali; le donne tendono non tanto a domandarsi se una pratica sia giusta o sbagliata in sé, ma piuttosto a soffermarsi su altre problematiche, ad esempio sulla sostenibilità o meno del nostro modello di medicina (una pratica medica potrebbe essere accettabile in astratto, ma discriminante nella pratica perché generatrice di una medicina insostenibile).

Una salute pensata con sguardo di donna potrebbe dare un grande contributo alla medicina.

Una bioeticista australiana, riflettendo sul valore e il significato della Evidence Based Medicine (che è ormai il nostro paradigma di riferimento) ha affermato che non basta essere sicuri dell’efficacia di un farmaco per giustificarne l'utilizzo, ma che è necessario chiedersi anche il motivo per cui si cura una data malattia e rifletere sul modo in cui la si sta curando. Vi sono, cioè, delle domande imprescindibili di senso: è possibile immettere nel mercato un farmaco senz’altro efficace, che però va a curare un problema che non necessita di cura (ad esempio, la menopausa).

Lo scopo della medicina non è solo quello di dimostrare il bisogno di farmaci e la Evidence Based Medicine dovrebbe essere un metodo, non il fine. La domanda fondamen

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tale che invece dovremmo porci è: “Che cosa stiamo cercando di curare”?

Per quanto riguarda le mutila­zioni genitali femminili, credo che tutti concordino nel ritenerle con­trarie ai diritti umani; il problema vero è individuare le strategie per combatterle.

Anche in questo caso è neces­sario che siano le donne a rendersi promotrici di tali iniziative. Sarebbe un atteggiamento paternalistico, da parte nostra, voler portare avanti progetti al posto delle donne diret­tamente interessate; è necessario invece che esse stesse si rendano protagoniste in prima persona di adeguati progetti culturali, in modo tale da acquisire autonomia decisionale.

Una nota di linguaggio. La medi­cina spesso usa termini di chiara derivazione maschile e militare. Il fatto che si usi spesso un gergo di sapore militare, rende accettabile tutto, perché in guerra tutto è per­messo: la metafora della guerra alla malattia e del corpo come campo di battaglia rende lecita qualsiasi cosa; è la ben nota metafora di cui parla Susan Sontag.

Anche in ambito linguistico la medicina è molto aggressiva e in­vadente: basti pensare ai protocolli di sperimentazione in cui si parla di “reclutamento”, di “arruolamento” delle persone. Questo linguaggio è da considerarsi inaccettabile, perché il paziente viene immediatamente posto in una condizione di soggezio­ne, passando da soggetto a oggetto del trattamento.

Gli esempi non mancano: an­che l’espressione “chemioterapia palliativa” è carica di ambiguità, confonde il paziente rendendolo poco autonomo.

Prestare attenzione al linguaggio nella relazione medico-paziente e depurarlo degli attuali caratteri di aggressività è uno dei tanti inviti che arrivano dall’universo femmi­nile.

Gaia Marsico è professore di Bioetica presso l’Università di Padova e membro della Commissione Regionale di Bioetica della Regione Toscana

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la salute delle donne

Violetta Plotegher

La strada verso l´affermazione di pari diritti e di prospettive migliori per la salute della donna passa attraverso l´eguaglianza con l´altro genere.

La medicina ha a che fare con gli esseri umani, e sappiamo bene che non esiste un essere umano uguale all’altro e che quindi nessuno reagisce allo stesso modo agli stimoli ambientali a cui viene posto di fronte. Reagire agli stimoli ambientali è infatti strettamente legato allo sviluppo natale e post-natale relativo alle stimolazioni dell’ambiente, alle dinamiche sociali, affettive e relazionali con cui entriamo a contatto.

Da un lato la medicina deve tener conto dell’unicità di ciascuna persona, dall’altro, come ogni scienza, ha bisogno di criteri generali che chiaramente non possono essere applicati direttamente al singolo. La medicina deve quindi tentare una mediazione tra questi due estremi.

La qualità della medicina oggi è fondata per molti soprattutto sull’uso della statistica. nella statistica le particolarità individuali divengono fluttuazioni intorno a un valore medio. Si tratta dunque di una soluzione efficace sui grandi numeri, ma il sapere fornito dalla

statistica potrebbe sostituirsi alla conoscenza che può derivare dalla relazione diretta tra curante e paziente. Si potrebbe quindi finire col trascurare informazioni essenziali non solo per il successo terapeutico, ma anche per la capacità della medicina di capire se stessa come scienza. Da ciò consegue che la medicina è veramente scientifica nel momento in cui trova la mediazione specifica, per quel dato paziente, tra le conoscenze disciplinari e la persona con la sua storia unica e irripetibile (non è indifferente essere uomini o essere donne, né dal punto di vista psicologico né da quello emotivo).

Oggi la medicina soffre non di un eccesso, ma di un difetto di scientificità. Questo succede tutte le volte in cui si è incapaci di avere accesso alla ricchezza di saperi che è contenuta nel rapporto terapeutico. La ricchezza di questo sapere è accessibile solo se si mette al centro dell’attenzione la relazione terapeutica. Io sono convinta che le relazioni terapeutiche efficaci siano tantissime, ma sono altrettanto convinta che in questo momento, per il modo in cui è organizzata la sanità, non siamo capaci di utilizzare questi saperi: è una ricchezza che non circola, che non ha modo di codificarsi per essere riconosciuta e valorizzata.

La domanda di senso è cruciale: se il terapeuta e il paziente si incontrano intorno alla domanda di senso, la loro relazione si struttura a un livello alto. Quante volte invece è l’infermiera a compilare la cartella e poi il medico non fa altro che met

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terci le note finali? Una procedura di questo tipo impedisce la possibilità di conoscenza della storia della persona, elemento essenziale nella relazione terapeutica.

Il corpo della donna è, ancora oggi, più oggetto che soggetto di cura. Se dico di “essere” un corpo posso raggiungere una situazione di benessere, ma se dico di “avere” un corpo posso al massimo benestare.

Finchè il corpo femminile non sarà oggetto di diritti anche in termini di salute, questa sostanziale differenza esistente tra i due generi non si potrà svincolare dalla volontà di controllo. La strada verso l’affermazione di una soggettività, di pari diritti, di prospettive migliori per la salute della donna, passa attraverso ragionamenti di eguaglianza con l’altro genere.

Se il corpo è una realtà pensante, un corpo diverso dal mio conosce in modo diverso, e conosce anche un mondo diverso dal mio. Questo vale per ogni soggetto portatore di alterità.

nella “Guida alla salute della donna: la mente, il cuore, le braccia”, pubblicata dalla Commissione nazionale per le Pari Opportunità durante la presidenza di Laura Balbo, vengono fatte alcune interessanti osservazioni; vi viene notato che ci sono dei pregiudizi enormi sulla salute delle donne, due in particolare: 1) Considerare l’osservazione scien

tifica del corpo maschile come valida anche per il corpo femminile. numerose studiose che hanno collaborato alla stesura

di questo testo affermano che è necessario che le donne siano oggetto di osservazioni scientifiche autonome, perché esiste un cuore che lavora al maschile e uno che lavora al femminile, esistono metabolismi maschili e metabolismi femminili...

2) Considerare la salute delle donne come essenzialmente riproduttiva e la salute maschile come essenzialmente produttiva. Questo produce una particolare disparità di trattamento scientifico: la medicina viene orientata a spiegare i fenomeni patologici nella donna in modo diverso da come spiega quelli negli uomini, guardando principalmente al suo apparato riproduttivo-ginecologico.

C’è una possibilità di orientamento per i medici che vogliono un corretto modo di guardare alla differenza di genere nel loro operare?

C’è la possibilità di una differenza di genere da valorizzare come criterio metodologico nella valutazione dello stato di salute della donna?

Il modo corretto è quello di guardare al corpo femminile partendo da esso per come è, e non in relazione al corpo maschile.

È scorretto se noi guardiamo al corpo e alla salute femminile utilizzando strumenti indiretti tratti dalla conoscenza del corpo maschile o focalizzati sullo studio dell’attività ormonale-riproduttiva.

È corretto studiare il corpo femminile integrando la visione della specificità del suo sistema riproduttivo con quella degli altri sistemi e apparati, in relazione con

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il sistema nervoso; a questo si deveaggiungere l’interazione con l’ambiente esterno e con i determinantisociali e affettivi.

È scorretto guardare al sistemariproduttivo come sistema leaderdel corpo femminile. Si studianogli organi e gli apparati, trascurando così la loro specifica storiae sovrascrivendovi la storia delsistema riproduttivo. Un esempioemblematico è rappresentato dallaproposizione delle terapie ormonali-sostitutive come preventive dellepatologie cardiovascolari.

Un’altra dimensione corretta divalorizzare la differenza di generein medicina è quella di studiare ilrapporto tra la salute femminile egli stress ambientali, guardando aimodelli e ai compiti di ruolo cheagiscono specificatamente sulladonna e la indirizzano verso stili divita non sempre favorevoli al suobenessere.

È scorretto invece valutare lostato di salute-malattia della donnacome ormone-correlato.

Oltre ai determinanti sociali disalute legati alla povertà, vi sonoaltri ambiti nei quali la salute delladonna non è così attentamentevalutata.

Ad esempio, in campo psichiatrico, la depressione: c’è una grandepercentuale di donne, soprattuttotra i quaranta e i sessanta anni, chericevono dal medico una diagnosi didepressione e che utilizzano farmaciper curare tale disturbo. Molte voltela diagnosi è affrettata; raramentec’è un accompagnamento rispettoal segnale che la malattia dà. La

depressione è spesso legata a situazioni di vita della donna. Questo segnale non va represso, ma utilizzato per conseguire un cambiamento.

Un altro esempio è dato dall’ambito della sessualità e dei rischi legati alle malattie sessualmente trasmissibili; raramente si dice esplicitamente che sono le donne a essere le destinatarie di una sempre più frequente possibilità di incorrere in una malattia sessualmente trasmissibile.

Rispetto alla menopausa, certamente, con la caduta del livello degli estrogeni, c’è un’accelerata perdita vitale della donna, ma poche volte viene detto che: a) l’osteoporosi ha la sua genesi

nel corso della giovinezza, nel tipo di alimentazione, di attività fisica e di stili di vita che hanno accompagnato la donna fino a quel momento;

b) molti studi dimostrano che l’attività fisica, l’esposizione al sole e all’aria aperta sono molto spesso più efficaci paragonati della terapia ormonale sostitutiva, e a lungo termine danno più benefici. Altri esempi possono essere

trovati nell’ambito della violenza domestica: una donna su dieci lamenta di aver subito, nella corso dela sua vita, violenze in famiglia o da parte di persone conosciute. Questa dimensione va ricordata anche nella raccolta panamnestica. La donna ha piacere se le si chiedono informazioni rispetto alla sua storia personale, indispensabili per interpretare la sua salute.

Infine va accennata la questio

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ne del lavoro che, con tutte le sue dinamiche di stress e di fattori di rischio, incide fortemente sulla salute della donna.

Anche il prendersi cura come realizzazione di sé è un fattore di rischio; è necessario che le donne siano protette da questo sovracca­rico e rese consapevoli e coscienti che sono soprattutto soggetti di cura per se stesse. nelle situazioni di depressione post partum questa dinamica è cruciale. Si otterrebbe già una buona prevenzione se nei corsi di preparazione al parto si trasmettesse un’idea un po’ più realistica di quello che è il compito materno, unitamente al consiglio di non essere eccessive nelle cure.

Concludo proponendo alcuni spunti di riflessione: – Esiste una differenza di genere

nel fare l’operatore sanitario. Tale differenza consente un po­sitivo e arricchente scambio di competenze di cura tra uomo e donna.

– Ci sono dei rischi nell’avere ec­cessive competenze femminili all’interno della sanità e del sociale. Il rischio principale è quello di creare dipendenze: se la cura diventa per la donna che opera nei servizi alla persona una realizzazione di sé, può innescare un pericoloso meccanismo di dipendenza che può privare la/il paziente della sua autonomia.

– Esiste sia una salute di gene­re che un modo femminile di prendersene cura. Spero che si arrivi, con il tempo, a valorizzare questa differenza.

Oggi stiamo assistendo a un par­ticolare fenomeno sociale: le donne emancipate dal ruolo tradizionale, che si inseriscono nel mondo del lavoro e che non riescono a conci­liare i tempi del lavoro con i tempi della famiglia, hanno creato delle debolezze nella dimensione di cura dei più deboli, soprattutto degli anziani e dei bambini. In presenza di un’evidente carenza di servizi, c’è anche la tendenza a chiamare altre donne, più povere, a sostituire quelle che prima stavano in famiglia a prendersi cura dei propri cari.

Il livello di benessere della nostra popolazione non aumenterà solo introducendo nuova tecnologia, ma anche migliorando la cultura del­la salute e la capacità di relazione tra medico e paziente

Violetta Plotegher è ginecologa e asses­sore alle Politiche sociali del Comune di Trento

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salute e informazione

Dialogo di Bioetica e Biodiritto del 7 ottobre 2005

Il momento della comunicazione e dello scambio di informazioni fra medico e paziente è condizionato da numerosi fattori di carattere culturale e psicologico. Una difficoltà particolare, ad esempio, deriva dal tecnicismo che inevitabilmente connota le informazioni che il medico deve fornire al paziente.

Tutti questi aspetti sono condizionati, a monte, dalle informazioni che il paziente può direttamente ottenere da media quali trasmissioni televisive o internet. Si può quindi ritenere che i media (così come

altri fattori, ad esempio i gruppi di interesse) possano influenzare le decisioni del paziente al di fuori della comunicazione tra medico e paziente. Questi fenomeni possono essere meglio compresi anche alla luce dell’uso dell’immagine per descrivere e diffondere modelli di salute.

Attraverso la testimonianza di alcuni esperti del settore, l’incontro si propone una disamina delle principali problematiche del rapporto tra salute ed informazione.

(G.S.)

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la comunicazione come determinante della salute

Giovanni Martini

Comunicazione e informazione fanno parte dei determinanti fondamentali che consentono di migliorare lo stato di salute e di benessere della popolazione.

I grandi cambiamenti sociali, che caratterizzano la nostra epoca evidenziando una transizione dall’era industriale all’era dell’informazione, stanno estendendo il proprio impatto anche nei confronti dei sistemi sanitari e, in particolare, al rapporto fra offerta e domanda dei servizi sanitari.

Ciò risulta particolarmente evidente nell’affermarsi di un atteggiamento sempre più “proattivo” da parte dell’utente (o meglio, del cittadino), che dal tradizionale ruolo di paziente (passivo “oggetto” nelle mani del medico) sta assumendo un ruolo di soggetto, non solo caratterizzato da diritti precisi, ma anche sempre più competente e partecipe sia alle fasi di diagnosi che alle strategie terapeutiche, lungo l’intero processo di guarigione e verso nuovi spazi di salute, che (secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e anche nella percezione di ciascuno) si configura più come benessere complessivo che non semplicemente come assenza di malattia.

Peraltro la scienza e la medicina si stanno evolvendo in modo sempre più accelerato e non hanno la capacità, da sole, di definire gli indirizzi applicativi: pertanto è sempre più necessario che l’etica e la politica assumano un ruolo importante nella determinazione degli indirizzi e degli obiettivi. In tal modo non solo la politica, ma anche tutti i soggetti in grado di produrre opinione (dai media alle istituzioni laiche o religiose, ai vari attori del mercato) concorrono, insieme alla comunità scientifica, a definire uno scenario in cui si va a collocare l’assistenza sanitaria.

L’evoluzione verificatasi nel campo dei media, dai giornali alla radio, alla televisione e a Internet, sta facendo esplodere le conoscenze in campo medico, anche a beneficio delle persone che non hanno una preparazione specifica, ma sono ugualmente interessate al problema. In particolare, l’irruzione di Internet nella società ha aperto al grande pubblico, in questi primi dieci anni, l’accesso a molte informazioni precedentemente disponibili esclusivamente a specifiche categorie di persone. Questo fatto ha contribuito in modo rilevante a sgretolare il modello paternalistico della relazione fra medico e paziente. non a caso la maggior parte delle ricerche che viene fatta su Internet è relativa al reperimento di informazioni medico-sanitarie o comunque inerenti la salute. Superati gli eccessi e gli squilibri che caratterizzano l’introduzione di innovazioni relazionali, organizzative o tecnologiche, ci si

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sta avviando verso una situazione in cui il rapporto fra medico e pazien­te è basato sulla condivisione dei percorsi, su una forma di alleanza terapeutica in cui il malato non è più identificato con la sua malattia o addirittura colpevolizzato per essere stato colpito da un male.

A ragione si può quindi affermare che la comunicazione e l’informazio­ne vengono a costituire degli impor­tanti determinanti che consentono al pari di altri ed insieme ad essi (patrimonio genetico, ambiente fisico, sistema sanitario, stili di vita e condizioni socio-economiche) di migliorare lo stato di salute e di benessere della popolazione.

La parola “comunicazione” deri­va dal greco koinonéo che vuol dire “partecipare”. Essa rinvia all’idea della comunità cioè ad un luogo di interscambio di relazioni tra perso­ne. nel concetto di “interscambio” è implicita la bidirezionalità, nel senso che ciascun comunicatore è allo stesso tempo emittente e ricevente. Il verbo comunicare trova radici anche nella lingua latina ed in particolare nel verbo communicare che significa “mettere in comune, condividere”.

La comunicazione può essere definita in vari modi, uno dei più interessanti, produttivi e completi è il seguente: “La comunicazione è un processo di partnership e parte­cipazione basato sul dialogo a due vie, in cui c’è uno scambio interatti­vo di informazioni, idee, tecniche e conoscenze fra coloro che emettono e coloro che ricevono le informazioni sulla base di un rapporto paritario

che conduce al miglioramento della comprensione, alla condivisione delle conoscenze, a un maggior consenso e all’individuazione di possibili azioni efficaci”.

nel definire la comunicazione per la salute va tenuto in conside­razione il fatto che gli individui non costituiscono più un “bersaglio”, ma sono i protagonisti fondamentali nel recepimento e nell’accettazione dei messaggi che fanno riferimento alle loro condizioni. Anche alla luce di quanto detto, la comunicazione per la salute può essere definita come “l’arte e la tecnica di informare, influenzare e motivare gli individui, le istituzioni e le comunità sui temi più importanti relativi alla salute. Il suo ambito comprende la preven­zione delle malattie, la promozione della salute, la politica sanitaria e il miglioramento della salute degli indi­vidui all’interno della comunità”.

La comunicazione per la salute è diventata un’area importante e in forte espansione che si fonda in particolare sul fatto che la ricerca continua a validarne e dimostrarne l’efficacia. Inoltre la disponibilità di nuove tecnologie sta estenden­do l’accesso all’informazione sulla salute sollevando, nel contempo, una serie di problemi sull’equità nell’accesso, sull’accuratezza dell’in­formazione stessa e sulle modalità per utilizzare in modo più efficace i nuovi mezzi disponibili.

Per comunicare in modo efficace è indispensabile essere consapevoli di ciò che la comunicazione per la salute, considerata come utile

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strumento per promuovere o migliorare la salute, può o non può fare. La comunicazione può essere utilizzata da sola o in combinazione con altre attività.

Spesso sembra che la comunicazione da sola possa far molto, tuttavia vale la pena tenere distinti gli impatti che può avere quando viene usata autonomamente e quando viene agita in sinergia con altre modalità di informazione e di azione.

Da sola la comunicazione è in grado di: – migliorare la conoscenza e la

consapevolezza sulla salute, sui relativi problemi e sulle possibili soluzioni;

– influenzare la percezione, le convinzioni e gli atteggiamenti che a loro volta possono cambiare le norme sociali, in quanto le norme sociali sono costruite sulla base dei convincimenti della comunità di riferimento;

– suggerire azioni; – dimostrare o illustrare pratiche

orientate alla salute; – rinforzare conoscenze, atteggia

menti o comportamenti; – mostrare i benefici dei cambia

menti comportamentali; – dare sostegno a posizioni su

problemi o strategie di salute; – migliorare la domanda nei con

fronti dei servizi sanitari; non basta, infatti, che i servizi sanitari si strutturino in base alla domanda, ma è importante che anche la domanda interagisca con l’offerta di servizi sanitari;

– respingere miti o idee sbagliate;

­ – rafforzare le relazioni organizzative.

In combinazione con altre straegie la comunicazione per la salute in grado di: provocare un cambiamento pro

lungato in cui gli individui adottano e mantengono nuovi comportamenti in relazione alla salute, ovvero un’organizzazione adotta e mantiene un nuovo indirizzo politico;

superare ostacoli o problemi strutturali come l’insufficiente accesso ai servizi sanitari.

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Anche il medico del lavoro, come gli altri colleghi, fornisce quotidianamente informazioni in tema di salute; parte di queste informazioni sono anche “normate”, nel senso che la legge a tutela dei lavoratori prevede una serie di informazioni che il medico deve fornire agli operatori (ad esempio, il significato degli esami effettuati). Il medico del lavoro ha però la particolarità di rivedere periodicamente gli operatori non solo in ambulatorio, ma anche sul posto di lavoro, negli incontri dedicati alla sicurezza, nell’ambito dei corsi di formazione, nel momento dei pasti quando il medico è in sopralluogo, nella partecipazione a gruppi di lavoro finalizzati a scelte organizzative per la massima riduzione dei rischi (acquisto di macchinari, di dispositivi di protezione, ecc.);

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può costruire con gli operatori un rapporto che definirei particolare, probabilmente diverso da quello che riesce a costruire il collega medico di famiglia nei confronti dei lavoratori sani (di cui spesso vede le mogli). In queste molteplici e diverse occasioni di incontro il medico del lavoro può adottare varie strategie per comunicare la salute: colloquio in visita, confronto su dati specifici (come nel caso del monitoraggio biologico o di quello ambientale), formazione tramite la proiezione di filmati (che riportano, ad esempio, come gli operatori agiscono sul campo), confronto con gli operatori nelle scelte per il massimo contenimento del rischio. È proprio la comunicazione tramite varie strategie che permette di provocare cambiamenti prolungati negli individui, ma a questo aggiungerei un altro fattore determinante che è il coinvolgimento degli operatori. Il coinvolgimento permette una più rapida crescita della cultura della salute, una facilitata condivisione degli obiettivi di salute che ci siamo dati e permette anche di affrontare con più serenità le incertezze. Non nascondo che il coinvolgimento degli operatori richiede anche parecchie energie. [Medico]

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È necessario e utile individuareanche i limiti della comunicazione.non possedendo caratteristiche tau

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maturgiche, non ha la possibilità, né da sola né in combinazione con altre strategie, di: – produrre cambiamenti pro

lungati nei confronti di comportamenti complessi, senza il sostegno di programmi più ampi e articolati che possono anche includere strategie nei confronti dell’offerta dei servizi e delle tecnologie sanitarie, e nemmeno produrrecambiamenti nelle norme e nelle politiche. È infatti logico che situazioni di tipo strutturale non possano essere modificate da semplici interventi di tipo funzionale, quale può essere considerata la comunicazione;

– essere ugualmente efficace nell’affrontare tutti gli aspetti o nel ripetere tutti i messaggi, sia perché il problema affrontato o il comportamento suggerito possono essere complessi, sia perché la popolazione-target può avere dei pregiudizi sul tema o, infine, perché il tema affrontato è controverso.

Le tipologie in cui la comunicazione per la salute si struttura, sono varie e diversificate e talvolta si sovrappongono o si aggregano.

Alcune si basano sulla popolazione e si rivolgono ad intere comunità o a specifici gruppi all’interno delle stesse, altre invece si focalizzano sugli individui. Le attività di comunicazione più diffuse e conosciute sono: – l’educazione alla salute, che cerca

di promuovere comportamenti sani educando ed informando gli

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individui mediante l’uso di materiali e di attività strutturate;

– il marketing sociale, che promuove o sostiene cambiamenticomportamentali positivi applicando le tecniche di marketingagli interventi di comunità, disolito con il coinvolgimento deimass-media;

– l’advocacy, cioè una forma combinata di sostegno e di pressionein cui si utilizzano i mass-mediaper promuovere strategie, normee programmi di miglioramentodella salute;

– la comunicazione del rischio,che coinvolge le comunità indibattiti sui rischi per la salute(ad esempio, di tipo ambientale)e sugli approcci alternativi peraffrontarli;

– la comunicazione al paziente, checomprende l’informazione agliindividui con problemi di salute, con l’obiettivo di facilitarela guarigione o di mantenere iregimi terapeutici (comunicazione professionista-paziente,comunicazione peer-to-peer);

– l’informazione alla popolazione,che aiuta gli individui a comprendere le proprie condizionidi salute e a prendere adeguatedecisioni in merito alla salutepropria, dei propri famigliari odel gruppo di riferimento.

In aggiunta, le nuove tecnologiedella comunicazione, quali Internet, combinando le caratteristichedelle comunicazioni di massa equelle della comunicazione interpersonale, stimolano la crescita diidee di comunicazione per la salute

­ fondate sull’utilizzo delle tecnologie e comprendono: – la telesalute (telehealth), cioè

l’applicazione delle tecnologie delle telecomunicazioni alla sanità pubblica e alla medicina;

– la comunicazione per la salute interattiva, che è l’interazione a livello individuale con tecnologie di comunicazione per ricevere e trasmettere informazioni sulla salute o per avere consigli su temi legati alla salute;

– l’informatica sanitaria, cioè la comunicazione interattiva in tema di salute rivolta agli individui;

– la telemedicina, cioè l’applicazione delle tecnologie delle telecomunicazioni e dell’informatica all’assistenza clinica.

Si è visto come la comunicazione serva a modificare comportamenti considerati e valutati in modo negativo. I soggetti interessati o interessabili al cambiamento sono: – Gli individui - Il livello inter

personale è fondamentale per la comunicazione sulla salute perché il comportamento individuale influisce sullo stato di salute. La comunicazione può avere influenza sulla consapevolezza, sulla conoscenza, sugli atteggiamenti, sull’efficacia, sulle abilità e sull’impegno al cambiamento comportamentale individuale. Anche le iniziative rivolte al pubblico hanno effetti sull’individuo;

– I gruppi – Sono aggregazioni di persone che per ragioni professionali od occasionali si trovano a interagire in modo prolungato.

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I gruppi informali a cui le persone appartengono e i contesti comunitari che frequentano hanno un importante impatto sulla salute. Per esempio, iniziative orientate alla salute in contesti dove si svolgono relazioni fra dipendenti e clienti, fra persone che frequentano la stessa palestra, studenti della stessa scuola, colleghi di lavoro, pazienti e operatori sanitari in un ambulatorio, possono trarre grande beneficio dall’informalità dell’ambiente;

– Le organizzazioni – Sono gruppi strutturalmente definiti (associazioni, club, gruppi, ecc.). Con questo termine si intendono anche le imprese private, gli enti pubblici e la sanità privata. Le organizzazioni possono diffondere messaggi orientati alla salute, offrire sostegno ai programmi di comunicazione per la salute e implementare politiche in grado di incoraggiare i cambiamenti individuali;

– Le comunità - Gli opinion leader e i policymaker possono attivare alleanze efficaci attraverso cambiamenti nelle politiche, nei prodotti e nei servizi che orientano le azioni dei cittadini. Mediante l’impatto sulle comunità, i programmi di comunicazione per la salute possono accrescere la consapevolezza su un certo argomento, cambiare gli atteggiamenti e le credenze nonché il tipo di sostegno informale o istituzionale a favore della salute;

– La società – nel suo complesso, condiziona i comportamenti individuali attraverso norme e valori,

atteggiamenti e opinioni, leggi e politiche nonché la creazione di ambienti fisici, economici, culturali e informativi. I programmi di comunicazione per la salute rivolti alla società, cambiando gli atteggiamenti e/o i comportamenti individuali, modificano le norme sociali.

Sulla base di questa ripartizione, i canali comunicativi che vengono più comunemente utilizzati sono: – I canali interpersonali – Sono

costituiti da medici, amici, membri della famiglia, ecc. e pongono i messaggi sulla salute in un contesto familiare. È probabile che tali canali siano più affidabili e più influenti di altre forme di comunicazione. Sono gli strumenti più efficaci per il fatto che coinvolgono atteggiamenti e comportamenti. Il loro impatto risulta più efficace quando gli individui hanno familiarità con il messaggio che viene trasmesso (essendo già stati, per esempio, esposti a messaggi provenienti da mass-media. Allo stesso modo i messaggi provenienti dai massmedia sono più efficaci quando sono sostenuti da comunicazioni interpersonali);

– I canali di gruppo – Le attività che vengono svolte in gruppo sono in grado di facilitare la trasmissione dei messaggi ai destinatari voluti, mantenendo alcuni degli effetti caratteristici dei canali interpersonali. I messaggi per promuovere la salute possono essere prodotti in funzione delle caratteristiche

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particolari che accomunano imembri del gruppo. Similmenteai canali interpersonali, lavorareutilizzando i canali di grupporichiede uno sforzo notevole.L’efficacia della comunicazioneattraverso i canali di gruppo ènotevolmente maggiore quandoi membri hanno già acquisitofamiliarità con i messaggi, trasmessi con altre modalità.

– I canali organizzativi e di comunità – Gruppi di questo tipopossono disseminare materiali(per esempio, newsletter), organizzare eventi e offrire momentidi discussione e di spiegazionecollegate ai messaggi che siintendono diffondere;

– I canali dei mass-media – Sonocostituiti da radio, TV, riviste,giornali, ecc. e offrono moltepliciopportunità per la disseminazione di messaggi, compresala possibilità di includerli neinotiziari, nei programmi di intrattenimento, nei talk show,nelle trasmissioni dal vivo, neglieditoriali (radiofonici, televisivi,giornalistici), negli articoli dedicati alla politica e alla salute, inposter, brochure e campagne diservizio pubblico. naturalmentesi possono utilizzare strumentie media diversi scegliendoli infunzione della massima efficaciain termini di raggiungimentodei destinatari desiderati. Lericerche hanno dimostrato chel’utilizzo dei mass-media mostraun elevato livello di efficacia: - nell’aumentare la consapevolezza nei confronti di una condizione o di un problema di salute;

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- nello stimolare i destinatari a cercare informazioni e/o servizi; - nell’aumentare la conoscenza; - nel cambiare gli atteggiamenti e perfino nel conseguire il cambiamento di comportamenti. In riferimento a quest’ultimo aspetto, va precisato che i cambiamenti comportamentali sono di norma associati a campagne articolate di lungo periodo più che a programmi comunicativi singoli;

– I canali dei media interattivi digitali – I siti Internet, le bacheche elettroniche, i newsgroup, le chat room, ecc. costituiscono un fenomeno in evoluzione che avrà un impatto sempre maggiore nel tempo. Sono media che consentono a chi comunica di trasmettere messaggi personalizzati ai soggetti target e di ricevere, da questi, utili informazioni di ritorno. Questi canali sono in grado di produrre sia comunicazioni di massa che interazioni interpersonali. Vengono prevalentemente utilizzati per: - inviare messaggi personali tramite posta elettronica; - segnalare indirizzi di siti raggiungibili da un grande numero di utenti; - creare e diffondere messaggi pubblicitari; - raccogliere ed analizzare informazioni inviate dagli utenti; - coinvolgere i destinatari in attività interattive personalizzate; - scambiare idee all’interno di gruppi di pari e di partner.

L’informazione e l’educazione svolgono un ruolo importantissimo

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nella promozione della salute, nella prevenzione e nella gestione delle malattie e nell’assunzione di decisioni appropriate nel contesto della promozione della salute, dell’educazione e dell’assistenza.

nei confronti degli individui un’efficace comunicazione per la salute può essere di aiuto per accrescere la consapevolezza dei rischi per la salute, per fornire motivazioni e abilità per limitarli e offrire utili collegamenti con coloro che si trovano in condizioni analoghe.

nei confronti della comunità, la comunicazione per la salute può aiutare a stabilire le priorità, dare sostegno a politiche e programmi orientati alla salute, promuovere cambiamenti positivi a livello socio-economico e nel sistema sanitario, nonché proporre norme sociali intese a migliorare la salute e la qualità della vita.

Perché una comunicazione raggiunga l’effetto desiderato deve essere efficace; tale efficacia può essere conseguita grazie alle seguenti caratteristiche: – disponibilità di informazioni: i

contenuti devono essere trasmessi dove i destinatari possono accedere;

– ripetizione: la trasmissione del contenuto deve essere ripetuta nel tempo sia per rinforzare l’impatto nei confronti dei destinatari specifici, sia per raggiungere le fasce di popolazione desiderate;

– accuratezza: il contenuto deve essere valido e presentato accuratamente; anche la forma può contribuire alla trasmissione

efficace del contenuto; – affidabilità: ci deve essere credi

bilità della fonte che diffonde il messaggio;

– penetrazione: il contenuto deve essere disponibile per il maggior numero possibile dei destinatari voluti;

– coerenza: il contenuto deve rimanere coerente rispetto ad altre fonti accreditate;

– tempestività: il contenuto deve essere reso disponibile quando l’audience è maggiormente ricettivo e quando ha la necessità di disporre di informazioni specifiche;

– equilibrio: per essere appropriato, il messaggio deve contenere i benefici e i rischi di azioni potenziali ed esporre le diverse, purché valide, prospettive riguardo all’argomento trattato;

– sensibilità culturale: i processi di progettazione e di implementazione devono affrontare temi specifici per gruppi specifici di popolazione, per livelli culturali e per specifiche caratteristiche;

– multidimensionalità: la ricerca ha dimostrato che il livello di maggiore efficacia si riscontra quando una costellazione di attività comunicative si integrano con attività non comunicative.

Va opportunamente precisato che, da sola, la comunicazione non è in grado di risolvere i problemi strutturali, come, ad esempio, la povertà o la mancanza di assistenza; non è in grado di ridurre la malattia o la morbilità in una popolazione, a meno che non sia sostenuta da

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interventi in grado di modificare i fattori comportamentali, biologici, socio-economici e ambientali.

Per fare in modo che la comunicazione migliori la salute degli individui e delle comunità, è necessario identificare le opportunità che ci offre in relazione a specifici problemi di salute, rafforzare e qualificare l’infrastruttura comunicativa e, infine, promuovere un’analisi critica della sua efficacia.

È altresì necessario individuare e applicare strumenti di valutazione per riconoscere i bisogni e i contesti dei diversi stakeholder e utilizzare le migliori tecnologie disponibili.

Sulla base di quanto detto, i decisori pubblici dovranno affrontare due sfide: garantire la privacy degli interscambi informativi relativi alle tematiche della salute che vedono coinvolti i cittadini e assicurare l’equità nell’accesso all’informazione.

RIfERImENTI bIblIOgRafIcI

[1] R. Brodie, Virus della mente, Ecomind, 2000

[2] U.S. Department of Health & Human Services, CDC - Making Health Communication Programs Work (Pink Book), (http://www. cancer.gov/pinkbook), 1989

[3] V. Curzel, a cura di, Comunicazione pubblica e marketing sociale per la sicurezza e la salute sul lavoro, Provincia Autonoma di Trento, 2005, parte I, (http://www.trentino

salute.net/context_biblioteca. jsp?area=44&ID_LInK=459)

[4] Fondazione CEnSIS, Comunicazione e Informazione per la Salute, 2001, (http://www. censis.it/277/372/4974/511 4/5152/5153/content.ASP)

[5] J. Jacobson, Changing communication strategies for reproductive health and rights: an overview in Working Group on Reproductive Health and Family Planning – Report from the meeting on Changing Communication Strategies for Reproductive Health and Rights (10-11 Dec. 1997, Washington DC), new York: Population Council

[6] S.C. Ratzan, n.S. Stearns, J.G. Payne, P.P. Amato, M.A. Madoff, “Education for the Health Communication Professional: A Collaborative Curricular Partnership”, in American Behavioral Scientist, 32 (2), nov. 1994, p. 368

[7] S.C. Ratzan, “Health Communication”, in Challenges for the 21st Century - Special issue, American Behavioural Scientist 38 (2), 1994

[8] World Health Organization, The Pen Is Mighty As The Surgeon’s Scalpel - The Nuffield Trust, 1999, (www.euro.who.int/document/e68240.pdf)

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Giovanni Martini è dirigente del Servizio Innovazione e formazione per la Salute della Provincia Autonoma di Trento ­

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la morte è inevitabile

Andrea Gianinazzi

La pletora di informazioni indirizzate al paziente ne aumentano l'insicurezza e alimentano una visione mitica dell'efficacia della scienza medica.

Ogni sistema sanitario è caratterizzato da una pluralità di attori: – i pazienti, che sono anche

cittadini, assicurati e clienti aseconda del contesto in cui s’inseriscono e fanno delle scelte;

– i fornitori di prestazioni, che,avendo risorse, vendono beni sulmercato della salute;

– i produttori di tecnologia; – i politici, che devono decidere la

pianificazione sanitaria. Oggi, in ciascun paese, una

quota sempre maggiore di ricchezza è destinata alle spese sanitarie(attualmente quasi il 10 %).

Il paziente diviene destinatariodi un’ampia serie di informazioni cheanziché determinare competenzee certezza generano sempre piùinsicurezza.

ii caso

Sono ormai un medico “maturo”,quindi ho pazienti che seguoormai da più di 20 anni e chenormalmente accedono a uncontrollo presso l’ambulatorio gi

necologico. Sulle schede, oltre che la descrizione della visita, tengo anche brevii appunti del colloquio per superare le difficoltà di memoria che stanno incombendo. È per questo che posso raccontare questo breve episodio pertinente all’argomento.Circa dieci anni fa effettuo il con­trollo annuale a una signora quarantenne, donna in carriera, quindi attiva, fisicamente ben tenuta. Finita la visita, che non metteva in luce assolutamente nulla di irregolare – anche la domanda “Come le vengono le mestruazioni” aveva avuto come risposta “Come un orologio, regolari ogni 28 giorni” – la piacente signora mi dice: “Dottoressa, facciamo qualche esame per vedere se sono in menopausa”. Cerco di spiegarle che non ne vedo la necessità, non c’è nemmeno familiarità per menopausa precoce, non ha sintomi e quindi non è indicato fare nessun accertamento. “No, sa, perché io assolutamente voglio fare la terapia sostitutiva, perché, capisce...”, e mi elenca tutte le lodi che in quegli anni apparivano sulle riviste al riguardo della terapia ormonale sostitutiva. È ritornata poco tempo fa, ormai cinquantenne, con iniziali irregolarità mestruali. Questa volta inizio io a parlarle di possibile perimenopausa, a esporle l’eventuale necessità di utilizzare qualche terapia per ridurre il relativo stato d’iperestrogenismo che la porta ad avere metrorragie e conseguente anemia. Ma la signora sempre “assolutamente”,

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non vuole fare nessuna terapia,né ora né quando sarà in totaleamenorrea; caso mai, si cureràcon l’omeopatia, perché “Mi vuolfar venire un cancro al seno? El’infarto?” In questi ultimi dueanni, infatti, sono apparsi numerosi articoli, anche su quotidianiad alta diffusione, con allarmismiin tal senso. Parlo del problema “informazionee mass media” perché sarebbestato troppo lungo trattare laproblematica “informazione tramedico e paziente”. Inoltre, imass media non fanno altroche amplificare i nostri errori,le nostre incertezze o le nostrecertezze di comunicazione con ilpaziente, creando una cassa di risonanza che può essere oltremodopericolosa perché impedisce allamaggioranza delle persone l’usodel ragionamento o l’utilizzo delleproprie capacità cognitive. Eravamo stati noi ginecologi,dieci anni, fa a elogiare in modoinopportuno (o era opportuno perle proprie entrate economiche?) ibenefici di una terapia ormonale,per altro in precedenza usata, chenon era ancora sicura e ben documentata nei suoi effetti a lungotermine. Ricordo perfettamentecome ai nostri congressi venisseroinvitate la stampa e belle signoredello spettacolo in età appropriata per stimolare le donne adassumere ormoni, facendo capireche tutte sarebbero rimaste comequelle dive se... Ricordo una conferenza di consenso proprio nella nostra provincia,ben ripresa dalla televisione e

dalla stampa, dove si faceva capire e si trasmetteva anche a noi medici prescrittori, che la terapia andava iniziata subito e protratta il più possibile: “negli Stati Uniti si usa anche a settanta anni”. Sono passati pochi anni, hanno iniziato a essere pubblicati i primi studi, si è capito che tutto l’ottimismo dei primi anni doveva essere ridimensionato, che come tutte le terapie anche questa va usata solo se c’è una patologia, un disturbo, ma non in prevenzione di ciò che non c’è. Nei nostri corsi si sono portati questi primi risultati non ottimistici, e la stessa stampa che aveva dato tanto entusiastico rilievo al “boom ormonale”, ha trovato un articolo, pubblicato su una rivista scientifica seria (anche se, purtroppo, lo studio non lo è) di notevole allarmismo; e così sono apparsi su quotidiani e riviste articoli di terrorismo vero e proprio. Articoli che, ovviamente, sono stati pubblicati in estate (i mass media conoscono meglio di noi le caratteristiche di una comunicazione efficace), quando, comodamente spaparanzata su una sdraio, la maggior parte delle donne ha il tempo di dare un’occhiata ai giornali e di far partire il tam tam con la vicina d’ombrellone. Che dire? Dieci anni fa ero uscita dalla sala durante una conferenza di aggiornamento sulla menopausa perché, in modo palese ed inequivocabile, un relatore – stimato professore –, aveva presentato l’argomento come un vantaggio economico per il nostro

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ambulatorio, visto che era in calo il numero delle donne gravide da seguire. Come metodo di lavoro, avevo cercato di smitizzare le meraviglie attribuite alla terapia ormonale sostitutiva, ritenendola, appunto, una “terapia” e quindi da utilizzare, come tutti i farmaci, solo in caso di necessità e non come “elisir di lunga vita”. Perciò, ora che le mie idee sono confermate dai dati della letteratura medica, non mi è difficile continuare su questa strada; ma continuo ad arrabbiarmi per il modo in cui, quotidianamente, i media diffondono le notizie riguardanti la salute. Mi rendo conto che, per forza di cose, questa società consumistica non ci permette di capire che siamo solo degli esseri umani, che vorremmo essere onnipotenti, ma che non sappiamo invece salvaguardare nemmeno ciò che abbiamo in prestito: la natura, l’ambiente che ci circonda, la nostra stessa vita. [Medico]

nel mercato della salute le informazioni sono diffuse soprattutto da coloro che producono beni e servizi medico-sanitari. Questi produttori hanno tutto l’interesse a diffondere informazioni che vadano a massimizzare il profitto della propria attività.

In Svizzera vi sono dei Cantoni in cui vi è stato un forte aumento del PIL dovuto al corrispondente aumento, da parte del sistema sanitario, del proprio volume di affari in ambito sanitario. I profitti che

ruotano attorno alla sanità sono dunque in grado addirittura di modificare il PIL interno di un piccolo Stato come il Cantone Ticino.

Le attese nei confronti della salute sono in continua crescita, soprattutto in società avanzate come la nostra dove la medicina appare sempre più come una scienza esatta e infallibile. Tali attese dovrebbero essere senza dubbio ridimensionate perché spesso superano ogni ragionevole evidenza.

Tuttavia la visione mitica della salute e la convinzione circa l’onnipotenza dei sistemi sanitari sono continuamente rinforzate e avvalorate dalla diffusione di comunicazioni mediatiche finalizzate a tenere desta l’attenzione della popolazione con mezze verità, più che a dare informazioni corrette e veritiere in tema di salute.

Si pensi ai sempre più diffusi tentativi di anticipare la conoscenza circa la possibile insorgenza di una malattia. Oggi sono sempre più pubblicizzati, e di conseguenza richiesti, screening e test genetici in grado di prevedere malattie future, anche qualora esse siano incurabili.

Il sistema sanitario assorbe il 95% delle risorse di uno Stato destinate alla salute, ma costituisce solo il 10% -15% dell’intero problema-salute. L’aspetto riparatorio ha dei costi notevolmente maggiori rispetto a tutti quegli interventi che potrebbero essere attuati per salvaguardare e migliorare la salute di una popolazione.

Da un’indagine fatta in Svizzera, l’80% del campione di popolazione

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intervistato ritiene che la medicinasia una scienza esatta. Tale convinzione diminuisce considerevolmenteper gli internisti e ancor più pergli epidemiologi, che sono lungidal credere nell’infallibbilità dellascienza medica proprio perché laconoscono più da vicino.

Richard Smith, che fino a qualcheanno fa è stato il direttore responsabile del British Medical Journal,definisce il rapporto medico-paziente come una sorta di “follia adue” nella quale il paziente si senteincerto, ma è convinto che il medicosia certo, mentre il medico sa dinon essere certo, ma è sicuro che ilpaziente non sappia di questa suaincertezza.

Ci troviamo di fronte a unaforte e insanabile asimmetria diconoscenze tra medico e pazienteche arriva a generare incertezza inentrambi.

Ecco alcuni esempi molto eloquenti di ciò: – il 50% delle donne americane

a cui è stato asportato il collodell’utero continuano a fare ilpap test;

– il 73% degli adulti americanipreferisce sottoporsi a un totalbody scanner piuttosto che ricevere in regalo 1.000 dollari incontanti;

– il 66% degli adulti americani èdisposto a sottoporsi a un testdi diagnosi precoce anche per untumore per cui non esiste unacura;

– molte donne credono che loscreening mammografico eviti oriduca il rischio di ammalarsi ditumore al seno.

Su un giornale svizzero qualche tempo fa è apparsa una notizia piuttosto curiosa: in Portogallo si è fatto credere alle donne che, se si fossero presentate sul balcone di casa a seno nudo, sarebbe stata fatta loro una mammografia col satellite. E non sono state in poche a dare credito a quest’informazione, convinte di sottoporsi a uno screening satellitare.

Episodi come questo evidenziano il bisogno della popolazione di essere presa in carico da un sistema che promette molto di più di quanto in realtà riesca a realizzare.

Oggi più che mai assistiamo all’esaltazione di una politica sanitaria strutturale, gestita sull’offerta, sul numero degli ospedali, sul management, sul finanziamento, con l’obiettivo di garantire l’accesso equo a cure efficaci basate sull’evidenza scientifica. Personalmente credo che vada invece maggiormente curato un altro aspetto, quello del rafforzamento delle competenze dei cittadini attraverso l’informazione e la comunicazione circa gli aiuti che la medicina può dare nella gestione di un problema di tipo sanitario.

L’obiettivo è quello di riequilibrare l’asimmetria dell’informazione tra medico e paziente e di ridurre il crescente consumismo di prestazioni sanitarie.

Il paziente-consumatore è un soggetto debole, che non possiede informazioni, che non è in grado di esprimere preferenze sul mercato sanitario e che quindi ha bisogno di essere guidato nelle sue scelte.

Solitamente le informazioni che mancano al paziente sono:

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– le informazioni sullo stato di salute;

– i trattamenti disponibili; – le incertezze relative ai tratta

menti disponibili. In Svizzera è stato fatto uno

studio in relazione al tumore al pancreas, ponendo agli intervistati due tipi di quesiti, caratterizzati da due diverse modalità di informazione: – un’informazione standard: “In

occasione dell’abituale visita di controllo, il medico le chiede se è disposto a sottoporsi a un test diagnostico che consiste in un esame del sangue in grado di diagnosticare precocemente l’esistenza di un cancro al pancreas. Quale sarebbe la sua decisione?”

– un’informazione estesa, nella quale alla domanda precedente sono stati aggiunti i seguenti dati: “ Il test non è preciso perché c’è il rischio dei falsi positivi; è necessario fare esami supplementari in ospedale per confermare il risultato del test; in Svizzera ogni anno 11 persone su 100.000 sono colpite da cancro al pancreas; su 100 persone colpite da cancro al pancreas solo 2 sono ancora in vita dopo 5 anni. In questo caso quale sarebbe la sua decisione?” Con la prima informazione accet

ta il test il 60% degli intervistati, con l’informazione estesa accetta il test solo il 13,5%.

Questo caso dimostra come l’informazione possa effettivamente cambiare il comportamento del paziente.

Le principali minacce all’informa

zione evidence based sono: – i mass media; – gli opuscoli informativi, che

molto spesso enfatizzano solo i benefici e omettono gli effetti indesiderati.

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iii caso

È autunno, tempo di primi raffreddori, di prime sindromi parainfluenzali... di vaccino antinfluenzale. L’altro giorno, guardando la televisione, sono incappata in una trasmissione che trattava di salute e nella quale si parlava dei mali di stagione e di vaccino antinfluenzale. Dopo aver elencato le categorie di adulti per le quali la vaccinazione è caldamente consigliata, il presentatore ha spostato l’attenzione sui bambini, affermando che anche per loro è opportuno ricorrere al vaccino, anche quando sono sani e senza particolari patologie (mi sono chiesta se stessi guardando un programma di informazione sulla salute o un messaggio pubblicitario). E perché? Perché così la mamma non è costretta a sopportare il piccolo, magari più noioso del solito, e non deve assentarsi dal posto di lavoro per accudire il pargolo, cosa di non secondaria importanza visto che ciò comporta un costo per la società. Nessuna menzione, però, al diretto interessato. Nessuno che dica se fa bene o se fa male vaccinare contro l’influenza un bimbo piccolo, se sia meglio evitare, per quanto possibile, il

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malessere influenzale ricorrendoal vaccino o se, al contrario, siameglio esporre il giovane organismo al contatto con il virus,affinché il sistema immunitariovenga stimolato. Non si parla dieffetti collaterali, di rischio-beneficio. Si parla solo di costi perla società dovuti all’assenza dallavoro della madre. Oggi, in molti casi, la salute civiene presentata non più come unfine da raggiungere, un bene dagarantire possibilmente a tutti,ma come un mezzo per produrredenaro e ricchezza. [Farmacista]

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Un altro problema è dato dal c.d. “secondo parere” che, se divergente rispetto al primo, disorienta fortemente i pazienti ponendoli in una condizione di ansia e d’insoddisfazione perché vedono infrangersi la speranza di ricevere risposte certe e univoche.

È necessario dunque che l’incertezza in cui si trova a operare il personale medico venga comunicata e trasmessa al paziente. Si deve infatti insegnare a quest’ultimo a dubitare delle proprie scelte e ad affrontare serenamente la condizione di incertezza che caratterizza la scienza medica, in quanto scienza inesatta.

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iv caso

Lavoro da sette anni nell’ambulatorio di diagnosi prenatale dell’ospedale S.Chiara di Trento, a contatto con donne che intrapren

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dono l’impegnativo e affascinante cammino della maternità. In gravidanza tutto è incertezza: dal momento del concepimento fino alla nascita. Sopravvivere all’eterno dubbio dipende dal benessere psicologico della madre e dall’intervento di alcuni fattori, uno dei quali è la comunicazione efficace. Tutti sappiamo che l’ansia è ormai divenuta il sintomo dei nostri tempi, in cui viene richiesto il massimo in tutto e per tutto. L’approccio alla gravidanza, per la maggioranza delle persone, è tendenzialmente in questi termini: “Mi sottopongo a tutti gli accertamenti possibili, voglio un figlio perfetto!” Purtroppo, l’ostetricia non è arrivata a tanto e quello che può dare non sempre è certezza. Il bi-test che si esegue a dodici settimane gestazionali, calcola un rischio, non una certezza. Così come il tri-test alla sedicesima settimana. La diagnosi prenatale invasiva mediante villocentesi (rischio abortivo a parte) non dà sempre sicurezza sulla risposta: a volte è necessario eseguire a sedici settimane l’amniocentesi per avere una diagnosi definitiva sul cariotipo fetale. Per non parlare delle enormi aspettative che si sono create attorno alle indagini ecografiche, soprattutto alimentate dalla pubblicità, ad esempio per le ecografie tridimensionali, e dell’enorme delusione quando si comunica che, allo stato attuale, il 30% dei difetti non possono essere evidenziati con questa metodica.

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Gli operatori che lavorano in tale contesto quindi sono particolarmente esposti ai rischi del comunicare, consapevoli di occuparsi di due pazienti, uno contenuto nell’altro, al confine tra la vita e la morte, tra il presente e il futuro. Durante un esame ecografico tutto assume un valore altissimo: il silenzio, l’atteggiamento dell’operatore, il clima in ambulatorio, le interferenze esterne. Quanto pesa il silenzio, magari prolungato? (qualcosa non va?) Oppure il parlare “troppo” (sarà concentrato a sufficienza?). Parole come “troppo piccolo, troppo grande, troppo liquido amniotico, troppo poco...” sono commenti che toccano punti sensibili nella donna, che tende a sentirsi inadeguata e non all’altezza. La capacità di comunicare dell’operatore e dell’equipe multidisciplinare diviene fondamentale quando c’è una diagnosi ecografica di malformazione. Giuste parole, al momento giusto e nel giusto modo: inizia così un’efficace relazione terapeutica. – Cercare di usare un linguaggio semplice, vale a dire comprensibile, non eccessivamente tecnico, aiutandosi eventualmente con schizzi esemplificativi. – Chiedere alla coppia di ripetere quanto è stato detto, per valutare la comprensione e la completezza dell’informazione recepita (si comunica solo ciò che l’altro ha compreso). – Lasciare il tempo per le do­mande, far silenzio, ripetere il colloquio se necessario (sappiamo

che spesso le donne reagiscono con un black-out emozionale e poco dopo non ricordano quello che è stato detto). – Predisporre un luogo idoneo alla comunicazione, evitare inutili intrusioni di estranei. Non sarebbe maletaccare i telefoni. Creare insomma un luogo protetto dove la donna possa sentire che ci siamo solo per lei. – Lasciare spazio alle emozioni. La donna deve poter piangere liberamente per la delusione, per la caduta delle aspettative, per la preoccupazione. – Stabilire un’alleanza terapeutica con la coppia, favorendo l’autonomia decisionale sulle scelte conseguenti (non desiderare che scelgano come noi sceglieremmo). – Prendere eventuali contatti per ulteriori approfondimenti diagnostici presso altre strutture, dare tutte le indicazioni necessarie (recapiti telefonici, documentazioni da portare, ecc.) Per fare tutto questo occorre tanto tempo... tempo sempre prezioso quando in un ambulatorio esiste un programma giornaliero di lavoro sempre ben nutrito. Avere tempo e continuare a trovare il tempo per il sostegno instaura un circolo virtuoso che promuove la qualità dell’assi­stenza, sia nella relazione con la coppia, che nella relazione fra operatori. [Infermiere]

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Ciò non esclude tuttavia la conseguente necessità di trovare modalità

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comunicative in grado di informareil paziente in modo veritiero, masenza aumentare la sua sensazionedi incertezza fino al punto di trasformarla in ansia e incapacità didecidere.

v caso

La signora S. ha 61 anni e datempo lamenta lesioni infiltratee ulcerate alle gambe, diagnosticate come ulcere varicose etrattate, senza beneficio, con lasafenectomia seguita da successiva revisione chirurgica. Insoddisfatto dei risultati e spinto dalla paziente, ho avviato uncomplesso iter diagnostico, conconsulenza estera che infine haportato una diagnosi certa: linfoma cutaneo CD56+NKT, nasaltype. Accanto alla diagnosi, unabreve comunicazione: per questaforma non si hanno certezze incampo terapeutico. Obbligatorio a questo punto cercare informazioni, naturalmentesulla rete, dove trovo anchel’autore che ha pubblicato di piùsu questo tumore, cioè cinquecasi. Provo a inviargli (in Corea)una mail per informazioni; congrande sollecitudine mi rispondespiegandomi che la malattia ècaratterizzata da un periodo diquiescenza con piccole lesioni cherecedono spontaneamente, e dauna fase successiva e imprevedibile di esplosione leucemica cherapidamente conduce alla morte.Per quanto riguarda la terapia, sisa che la chemioterapia instaurata in fase leucemica è inefficace,

in fase di quiescenza non si sa. Se si decide per la chemioterapia, questa va instaurata quando il paziente è praticamente asintomatico, ma non ci sono certezze di alcun genere, i pochi dati in letteratura sono solo aneddotici. Vedo la paziente con il marito e, in un difficile e lungo colloquio prospetto le due possibilità: intervenire con la chemioterapia con i suoi sicuri effetti collaterali e senza alcuna certezza dei risultati, oppure non fare nulla, sapendo che se la malattia degenera non ci sono possibilità. La decisione è difficilissima: non fare nulla pesa come un macigno, ma gli effetti della chemio, senza alcuna certezza non sono da meno. Timidamente chiedono se possono avere il parere di uno specialista. Ovviamente rispondo di sì, anche se a malincuore, dato che immagino già che la decisione dopo il consulto verrà indirizzata per l’agire, più sulle convinzioni del medico che della paziente. Preparo una relazione sulla malattia e l’iter che ha portato alla diagnosi, e contatto telefonicamente il collega che vedrà la paziente prima della visita, anche per spiegare cosa ho detto alla signora. Dopo circa un mese, in cui il collega oncologo si è consultato con altri specialisti italiani, viene concordato di effettuare la chemioterapia, ma in altra sede, per problemi di tecnica terapeutica. In questo periodo la paziente ha presentato un piccolo focolaio broncopneumonico a lenta riso

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luzione, vista anche i problemi di allergia con l’uso di alcuni antibiotici. Poi ha effettuato tre visite oncologiche: le prime due hanno confermato la chemioterapia, rinviandola in attesa di completa risoluzione radiologica del focolaio, ma nel corso della terza visita un altro oncologo le ha prospettato in modo molto realistico i rischi della chemioterapia, compreso anche la possibilità di morirne, non essendo indifferenti i problemi con l’uso degli antibiotici. Il collega le ha chiesto poi una decisione definitiva, non subito, su due piedi, ma entro otto giorni. La signora S. è tornata da me e abbiamo parlato a lungo, tornando a esaminare vantaggi e svantaggi, in modo più consapevole. Alla fine del colloquio la signora e il marito, anche dopo aver chiesto espressamente il mio parere, decidono di non effettuare più la cura, ma il morale di tutti non è certo allegro. Oggi, sono passati due anni, la signora sta bene e finalmente riesce a dormire serena, essendosi convinta di aver fatto la scelta giusta. Ne sono convinto anch’io, ma spero proprio che duri a lungo. Cosa si ricava da questo caso? Molti dubbi e molte problematiche, e la consapevolezza che scegliere nell’incertezza è difficile. Approfondire sintomi dubbi e difficili a volte porta a dover valutare situazioni ancor più complesse. L’utilizzo della rete può portare aiuti e conoscenze insperate

anche a un medico che opera in una realtà periferica. Vi sono delle situazioni di incertezza e di ignoranza dei risultati delle pratiche mediche, in cui si deve comunque prendere la decisione migliore. La decisione sui trattamenti, soprattutto in condizione di incertezza, deve essere assunta dal paziente, in base alla conoscenza approfondita della situazione. Questa conoscenza è tutt’altro che facile da raggiungere, spesso necessita di tempo e di più pareri per essere acquisita in maniera adeguata a maturare una decisione. È essenziale non pretendere una decisione immediata, ma lasciare al paziente tempo per riflettere. Il paziente ha il diritto di cambiare opinione, anche in funzione di nuove informazioni ricevute (e non va considerato un rompiscatole quando lo fa). Non dobbiamo ragionare per stereotipi. Non tutti i medici sono uguali e, soprattutto, non comunicano tutti allo stesso modo. Sarebbe comunque auspicabile un certo grado di uniformità per i criteri generali della comunicazione tra i vari medici e il paziente. [Medico]

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Di fronte a una pluralità ed eterogeneità di informazioni i pazienti non devono essere lasciati soli, ma devono essere accompagnati, in modo non paternalistico, da un operatore capace di mettere a sua volta a nudo

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dubbi e incertezze. Come sottolinea Richard Smith,

vi sono alcuni aspetti che dovrebbe­ro essere comunicati al paziente: – la morte è inevitabile; – la maggior parte delle malattie

gravi non possono essere curate proprio perché gravi;

– gli antibiotici non servono per l’influenza;

– le protesi delle anche ogni tanto si rompono;

– gli ospedali sono luoghi perico­losi (ad esempio: l’epatite A oggi si prende negli ospedali);

– i prodotti farmaceutici hanno anche effetti secondari;

– la maggior parte dei trattamenti medici danno solo benefici mar­ginali e molti non funzionano affatto;

– gli screening danno anche risul­tati falsi positivi e falsi negati­vi;

– ci sono modi migliori di spendere i soldi che spenderli per acqui­stare tecnologia medica.

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Andrea Gianinazzi è componente del Comitato Etico del Canton Ticino

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Marketing sociale, autoresponsabilizzazionee scelte di salute

Vittorio Curzel

Di che cosa parliamo quando parliamo di marketing sociale? Quali sono le ragioni per utilizzarlo nell’ambito della promozione della salute? Quali sono i meccanismi del suo funzionamento?

1. Il marketing sociale In questi ultimi anni si è parlato molto di marketing sociale e purtroppo non di rado lo si è fatto in modo abbastanza confuso, facendovi rientrare vari campi di attività con obiettivi e finalità eterogenee.

C’è, per esempio, chi pensa che sia marketing sociale l’azione di comunicazione svolta dalle associazioni no-profit quando pubblicizzano il proprio operare oppure chi vi ricomprende le iniziative messe in atto dalle aziende sanitarie pubbliche o dalle strutture sanitarie private quando promuovono i propri servizi o cercano finanziamenti. C’è anche chi, con frettolose generalizzazioni, fa un tutt’uno di marketing sociale, comunicazione sociale e responsabilità sociale d’impresa.

noi preferiamo far riferimento alla definizione data da Philip Kotler, con ned Roberto e nancy Lee : “Il marketing sociale è l’utilizzo dei principi e delle tecniche del marketing per influire sulla decisione di un gruppo target, destinatario della comunicazione, per quanto riguarda

l’accettare, rifiutare, modificare o abbandonare volontariamente un dato comportamento, allo scopo di ottenere un beneficio per i singoli, i gruppi o la società nel suo complesso”.

Dobbiamo peraltro ricordare che il marketing non è l’unico modo per ottenere un cambiamento di comportamento. Sono infatti possibili anche altri approcci: – quello normativo (si pensi ad

esempio alle norme che vietano il fumo negli esercizi e nei locali pubblici);

– quello tecnologico (ad es. il “cerotto” per chi vuole smettere di fumare),

– quello economico (ad es. aumentare il prezzo delle sigarette). Le azioni di marketing sociale

rientrano in un approccio di tipo informativo-educativo, che si esplica per lo più nell’elaborazione e nella diffusione di messaggi sui danni legati ad un dato comportamento nocivo che si consiglia di abbandonare nonché sui benefici conseguenti al cambiamento proposto.

L’esperienza insegna che spesso i risultati migliori si ottengono grazie all’integrazione dei quattro approcci sopra ricordati.

2. Perché utilizzare le tecniche del marketing sociale per la promozione della salute? A fianco di numerosi e fin troppo entusiastici sostenitori non mancano certo i perplessi e coloro che, prima ancora di sapere di che cosa si tratti, non esitano a condannare l’utilizzo delle tecniche del marketing nell’ambito della comunicazio

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ne pubblica e sociale, vedendolo come strumento sempre e comunque asservito a logiche commerciali e ritenendolo quindi inadatto ad attività di pubblica utilità.

Cerchiamo dunque di capire quali siano le ragioni dell’utilizzo delle tecniche del marketing sociale nell’ambito della promozione della salute.

Come è noto la finalità delle azioni di promozione della salute è facilitare l’adozione di stili di vita favorevoli al benessere fisico e psicologico; d’altra parte il marketing sociale è uno strumento utile per modificare atteggiamenti e comportamenti.

ne consegue che le tecniche del marketing sociale possono essere un valido supporto per la promozione della salute.

Tale attività non sarà svolta in sostituzione, ma piuttosto sarà integrata con le tradizionali iniziative di educazione alla salute, con l’obiettivo di consentire ai cittadini di acquisire conoscenze, abilità e competenze utili per scegliere, volontariamente e in modo consapevole, che cosa è bene per la propria salute, coerentemente con quanto indicato dalla Carta di Ottawa (OMS 1986).

Quali sono gli obiettivi di cambiamento che il marketing sociale può cercare di conseguire, nel-l’ambito della promozione della salute? a) Un cambiamento cognitivo:

una maggiore conoscenza del problema e delle sue possibili

soluzioni, in altre parole una corretta percezione dei danni per la salute correlati a un dato comportamento e dei benefici conseguenti all’adozione di abitudini più sane, può favorire l’adozione di un comportamento salubre;

b) Un cambiamento di azione: ad esempio, non basta che i lavoratori sappiano perché è importante indossare i dispositivi di protezione o quali procedure produttive seguire per avere una maggiore sicurezza sul lavoro, è necessario che i lavoratori compiano tali azioni;

c) Un cambiamento di comportamento: l’abbandono di abitudini dannose a favore di altre più salubri;

d) Un cambiamento di valori: è spesso il più difficile e il più lento da attuare. Può essere indispensabile per esempio per creare un atteggiamento favorevole della popolazione verso un disegno legislativo. Ad esempio, imporre il divieto di fumo nei locali pubblici una ventina di anni fa sarebbe stato molto più difficile, dato che la consapevolezza circa i danni derivanti dal fumo e l’orientamento a una vita salubre sono oggi più diffusi.

Il marketing sociale (nel nostro caso il marketing per la salute) condivide alcuni fondamenti teorici e utilizza varie tecniche tipiche del marketing d’impresa e di prodotto.

Come questi basa la propria azione sulla teoria dello scambio e sulla “segmentazione” dell’universo della

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popolazione in gruppi omogenei,individuando benefici ricercati ecosti percepiti in ciascun segmentoe posizionando di conseguenza ilprodotto offerto.

Proprio nella tipologia dell’offerta, così come nelle sue finalità,vanno evidenziate alcune differenzesostanziali fra marketing d’impresae marketing sociale.

L’oggetto dell’offerta non sonoevidentemente beni tangibili oservizi, ma idee, comportamenti,valori. La finalità dell’offerta nonsarà dunque promuovere l’acquistodi un prodotto, ma l’adozione dinuovi comportamenti in grado diprodurre benefici di carattere individuale e collettivo.

Se cambiano oggetto e finalitàdell’offerta, possiamo presupporreche cambino anche i “competitors”.

Infatti i concorrenti non saranno coloro che realizzano prodotticompetitivi rispetto ai nostri, macoloro che propongono opinioni estili di vita antagonisti, che riteniamo dannosi e da modificare. Peresempio, in una campagna controil fumo i produttori di sigarette saranno antagonisti, come potrebberoesserlo associazioni di fumatori ealtri soggetti che sostengono “ildiritto a fumare”.

Saranno invece nostri alleatitutti quei soggetti pubblici e privatiche condividono i nostri intenti eche perseguono obiettivi identicio compatibili, eventualmente anche con motivazioni diverse. Peresempio l’associazione albergatoripotrebbe sostenere una nostra cam

pagna per la raccolta differenziata dei rifiuti, perché la tutela e la promozione del patrimonio ambientale rende un territorio più attrattivo anche per un turismo di qualità.

Allargando la definizione iniziale potremmo allora dire con Kotler che il marketing sociale è la progettazione, la realizzazione e la valutazione di programmi atti ad aumentare l’accettabilità di una causa o di un’idea sociale, presso uno o più gruppi-obiettivo, tramite l’utilizzo dei concetti di “segmentazione”, di facilitazione e di incentivo, nonché della teoria dello scambio, per massimizzare la risposta di tali gruppi.

Perché, parlando di idee e di comportamenti, ci riferiamo alla “teoria dello scambio”, così come farebbe un produttore di automobili?

Partiamo dal presupposto, ovvio per un economista, che il prezzo di un prodotto sia da noi ritenuto giusto quando a questo prodotto annettiamo un valore pari o inferiore al valore di qualcos’altro che potremmo comprare allo stesso costo. Facciamo poi l’ipotesi, che sembra assai plausibile, che accettiamo di adottare un nuovo comportamento, solo quando riteniamo che i benefici che ci vengono prospettati siano pari o maggiori (e i costi pari o minori) di quelli che avremmo nel continuare a seguire quella data abitudine che ci si chiede di cambiare.

Se muoviamo un ulteriore passo avanti nel ragionamento potremmo

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pensare che per ciascun gruppo-obiettivo benefici ricercati e costipercepiti siano differenti (torniamoal bene automobile e si comprenderà immediatamente che un giovaneacquirente presumibilmente cercherà qualità e caratteristiche diverseda quelle desiderate da un anziano)ed ecco allora che la proposta discambio (costi psicologici correlatiall’adozione di un nuovo comportamento in cambio dei beneficiconseguenti) dovrà tener conto diqueste differenze “posizionando”diversamente il prodotto-idea oggetto della nostra campagna (a unaragazza potremmo per esempio direche il fumo di sigaretta rovina lapelle, a un fumatore adulto che ilfumo gli abbrevierà notevolmentela vita).

Questi concetti, derivati dalmarketing di prodotto, sono dunqueutilizzati anche nelle campagne dimarketing sociale per massimizzarela risposta o, in altre parole, perottenere una maggiore efficacia edefficienza dalla nostra azione.

3. Come funziona il marketing sociale per la salute? Quali sono le fasi attraverso cui sirealizza una campagna e quali sonoi meccanismi attraverso cui la campagna raggiunge gli obiettivi che cisiamo proposti?

Abbiamo sopra accennato alconcetto di “posizionamento” delnostro prodotto-idea e al fatto chedobbiamo essere in grado di prospettare al nostro pubblico-targetdei benefici tali da convincerlo adabbandonare un dato comportamento non salubre.

Dunque, prima di tutto, è necessario saperne un po’ di più del pubblico a cui ci rivolgiamo, conoscere più a fondo quali benefici sta cercando, quali conoscenze ha circa i reali danni e i benefici rispetto al comportamento che sta mettendo in atto, se ha consapevolezza circa i rischi che corre o se sottostima questi rischi, qual è l’influenza esercitata dal contesto sociale e dal gruppo dei pari, ...

Per ottenere queste informazioni si dovrà svolgere un’attività di ricerca, sia direttamente, se ci sono le risorse sufficienti per farlo, (tramite questionari, sondaggi, interviste a testimoni privilegiati, focus group, etc.) sia indirettamente, vagliando i risultati di indagini realizzate da altri in contesti simili. L’attività di ricerca costituisce di fatto la prima e indispensabile fase di una campagna di marketing sociale, perché ci fornisce elementi utili per il processo decisionale che metteremo in atto nella progettazione, consentendoci di “segmentare” l’universo della popolazione.

Segmentare vuol dire suddividere la popolazione in gruppi di utenti omogenei per alcune caratteristiche predefinite, sulla base di variabili geografiche, demografiche, psicografiche e comportamentali, il che ci permetterà di posizionare adeguatamente il nostro prodotto-idea.

non sempre (anzi abbastanza raramente) è possibile prospettare a tutti un unico tipo di beneficio, dato che per alcuni lo stesso potrebbe risultare attrattivo, per altri totalmente indifferente. Per

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questo motivo non è infrequenteche campagne “generaliste” sianoinefficaci e i risultati inferiori alleattese, dato che propongono benefici auspicabili solo da alcune fascedi popolazione e non da altre.

Tuttavia, anche se raramente unastrategia di marketing indifferenziato ha efficacia, va anche detto cheè la meno costosa. Quindi, dato chenon sempre si dispone del denarosufficiente per fare tante differenticampagne quanti sono i gruppiomogenei, la segmentazione ci aiuterà a comprendere a quali gruppidobbiamo rivolgerci con maggioreurgenza, esprimendo gli stessi unmaggior bisogno del nostro intervento, in quanto più deboli e/opiù a rischio. Questi diventerannoi “taget groups” (gruppi-obiettivo)della nostra iniziativa.

Tornando brevemente sul concetto di posizionamento del prodottoidea in riferimento a ogni segmento,individuare e comunicare i beneficicorrelati all’adozione del comportamento che intendiamo proporre vorrà dire anche individuare i vantaggicompetitivi in relazione ai bisogni,per poter comunicare al targetgroup il valore della nostra offertain rapporto ai prodotti concorrenti(cioè alle idee/opinioni/comportamenti antagonisti).

Cambia la finalità e il contesto,ma in fin dei conti è esattamenteciò che fa un produttore di automobili. Quando viene prodottauna nuova vettura la pubblicitàdi quel modello viene studiata inmodo tale da coinvolgere un certosegmento di popolazione, perché

si sa che a quel target interessano quei benefici anziché altri. Delle tante qualità presenti in quell’autoveicolo si valorizzeranno quelle che interessano maggiormente quel particolare gruppo di popolazione. La stessa cosa avviene col marketing sociale.

In sintesi il marketing sociale si propone di sostituire un comportamento con un altro più auspicabile. Perciò i benefici del comportamento proposto devono rivelarsi, agli occhi della popolazione o di quel segmento di popolazione, maggiori rispetto a quelli del comportamento che chiediamo di abbandonare.

nel determinare la maggiore o minore attrattività di un prodotto-idea entreranno in gioco diversi elementi, ad esempio la sua compatibilità col sistema di valori prevalente in un dato contesto socio-economico-politico-ambientale. Anche le idee, come i prodotti tangibili, hanno infatti un ciclo di vita (introduzione, crescita, maturità, declino).

Altri elementi in gioco sono il grado di complessità, di comprensibilità e di comunicabilità del nostro prodotto-idea, la sperimentabilità del comportamento che proponiamo, la visibilità dei risultati (naturalmente più i risultati sono visibili in tempi brevi, più è facile che riusciamo ad essere convincenti).

È importante anche riuscire ad associare alla campagna uno o più “marchi” che possano garantire la correttezza, completezza e affidabilità di ciò che stiamo dicendo (il

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“marchio” dell’Assessorato e/o delMinistero per la Salute, dell’Azienda Sanitaria, dell’OrganizzazioneMondiale della Sanità, di un prestigioso istituto di ricerca, di unoo più ordini professionali sanitari,di una autorevole associazione dirappresentanza dei cittadini, ...).Più sarà credibile per altri aspetti(per esempio l’efficienza, l’efficaciae la trasparenza dei servizi erogatida un’azienda sanitaria, la cortesiadel personale, l’accoglienza e lapulizia dei locali, ...) tanto più lacampagna realizzata da quel datoente sarà credibile, guardata conattenzione e memorizzata.

Come per i prodotti commerciali,anche nel marketing sociale quattrosono le leve del “marketing mix” sucui possiamo agire: – il prodotto; – il prezzo; – la distribuzione; – la promozione.

Per quanto riguarda il prodotto sappiamo già che si tratta diun’idea, di un comportamento, maquale sarà il prezzo associato a uncomportamento? Evidentemente sitratterà di costi di carattere noneconomico (cambiare un’abitudinecosta fatica, andare al centro alcologico o anti fumo può costare unacerta quantità di tempo, anche iltimore di effetti spiacevoli conseguenti al cambiamento è di fatto uncosto psicologico,…).

È dunque importante lavorarein tal senso, diminuendo i costi eaumentando i benefici percepiti, perquanto possibile (in una iniziativa

contro il fumo, ad esempio, viene data la possibilità a chi smette di fumare di partecipare ad un concorso con in palio viaggi e altri premi).

Per distribuire il nostro prodotto-idea non potremo evidentemente avvalerci degli scaffali di un supermercato o delle vetrine di un negozio in centro. I distributori potranno essere da un lato i mass media e dall’altro i soggetti pubblici, interni ed esterni al servizio sanitario, che condividono i nostri intenti e i nostri obiettivi (ad esempio in una campagna per l’utilizzo corretto dei farmaci oltre ai mass media i distributori saranno i medici di medicina generale e i farmacisti e magari anche i circoli anziani e le biblioteche pubbliche…; in una campagna per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro potrà essere preziosa la collaborazione dei vari enti preposti, ma anche delle associazioni dei datori di lavoro e dei sindacati, dei centri di formazione professionale e delle scuole…).

Tutti questi “intermediari finali” del nostro messaggio dovranno agire in modo integrato e coerente. Ad esempio, l’azione coordinata ed integrata, in una campagna per contrastare il consumo giovanile di alcol, dei servizi di alcologia e delle associazioni degli esercenti, produrrà messaggi coerenti ed univoci, e per questo ancor più forti ed efficaci, nonostante la eterogeneità degli obiettivi primari che ciascun attore persegue (promozione della salute per i primi, produzione di profitto per i secondi).

Parlando del momento della pro

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mozione si potrà constatare che un importante elemento distintivo tra il marketing commerciale e quello sociale è dato dalla maggiore conoscibilità ed accettabilità dei prodotti commerciali rispetto alle idee proposte con il marketing sociale. In quest’ultimo caso infatti: – il target molto spesso è predi

sposto negativamente nei confronti dei nostri messaggi (non è cosa facile dire ad un fumatore accanito di smettere di fumare, molto più facile comunicare a un appassionato di automobili sportive che è uscito un nuovo cabriolet);

– generalmente non c’è possibilità di graduazione dell’offerta (possiamo proporre una intera gamma di televisori, di vari prezzi e caratteristiche, ma non possiamo dire fuma di meno, fuma 10 sigarette invece di 20, o 5 invece di 10, ma solo smetti di fumare…).

4. Problemi aperti e limiti del marketing sociale Potremmo dunque sostenere con buone motivazioni che il marketing sociale è una tecnica più complessa del marketing d’impresa o quantomeno che i buoni risultati sono più difficili da ottenere.

Molti sono infatti i problemi e i limiti da affrontare: – dalla difficoltà nel reperire dati

utili per l’individuazione dei bisogni e per la segmentazione (molte persone tendono a dare risposte vaghe o socialmente accettabili su temi che toccano valori, ma anche ansie indivi

duali) alla necessità di adottare spesso strategie di marketing indifferenziato, pur se meno efficaci (per problemi di costi e per la contemporanea necessità di rivolgersi ad ampie fasce di popolazione in ottemperanza ai principi di equità ed egualitarismo);

– dalla difficoltà di agire sulla leva prezzo, trattandosi di costi percepiti spesso difficili da misurare e da ridurre alla complessità di un sistema distributivo in cui il ruolo del volontariato può essere molto importante (con problemi di integrazione fra soggetti ed enti diversi e di una eventuale formazione ad hoc);

– dalla difficoltà di rappresentare benefici intangibili al costo elevato dell’utilizzo dei mass media.

Vi è poi tutta una serie di problemi nel momento della pianificazione. Accennavamo sopra alle leve del marketing mix. Se produciamo e vendiamo automobili possiamo proporre un nuovo modello, ridurre il prezzo, migliorare la rete distributiva, avviare una grande campagna pubblicitaria, utilizzando in questo modo tutte e quattro le leve che abbiamo a disposizione.

nel caso del marketing sociale queste quattro aree si riducono al momento della produzione e della comunicazione del messaggio.

Infine ci sono i molti e non del tutto risolti problemi legati alla fase della valutazione.

non è semplice individuare indicatori efficaci nel misurare i

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cambiamenti di comportamento, so­prattutto se a lungo termine. È diffi­cile misurare le modifiche cognitive, affettive e comportamentali, anche perché vi può essere l’influenza di altri fattori esterni alla campagna che hanno contribuito al suo suc­cesso o insuccesso.

Una riflessione a parte merita l’aspetto etico: quando si pensa a una campagna di pubblica utilità non sempre si tratta di una campa­gna di “interesse universale”, poi­ché non è detto che i suoi obiettivi siano universalmente condivisi (si pensi per esempio alle campagne per l’utilizzo del preservativo come mezzo di prevenzione dell’AIDS e alle posizioni contrastanti assunte in alcuni ambienti religiosi).

Allo stesso modo dobbiamo tener conto dell’impatto sociale degli obiettivi della nostra campagna.

Tutto ciò richiede consapevo­lezza e senso di responsabilità e ci ricorda che il marketing sociale non è solo questione che riguarda i tec­nici comunicatori, ma prima ancora è campo di scelta e di responsabilità politica. Anche perché la decisione circa la priorità dei temi da affron­tare e le campagne da attuare non può essere demandata ai tecnici.

In conclusione credo vada ri­cordato quanto detto in apertura e cioè che il marketing sociale è uno strumento da utilizzare insieme ad altri all’interno di un sistema di politiche integrate per la pro­mozione della salute, che per tale motivo è bene non avere aspettative esagerate rispetto ai suoi effetti e

che per ottenere qualche risultato è comunque necessario promuo­vere competenze ed esperienze professionali specifiche e specia­listiche adeguate, affinché queste tecniche, così difficili da applicare, siano quantomeno attuate nel modo migliore possibile da personale preparato, senza troppe velleità e senza improvvisazioni.

Vittorio Curzel è Direttore con incarico speciale per l’informazione e la comu­nicazione per la Salute presso l’Asses­sorato alle Politiche per la Salute della Provincia Autonoma di Trento. Insegna “Principi e Tecniche della Comunicazione pubblica e del Marketing sociale” presso l’Università di Trento e “Nuove tecnologie dell’informazione e cittadinanza” presso l’Università di Bologna.

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salute e dintorni... mediatici

Mauro Bertoluzza

Un percorso possibile per la ricerca di un rapporto tra cinema e salute/malattia.

Da sempre il cinema ha narrato la salute, sia nella definizione dell’OMS, secondo la quale la salute è uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, sia nell’accezione comune di “sentirsi bene”: basta pensare a tutti i film d’amore, a lieto fine, d’avventura, comici, di puro intrattenimento.

Ma è soprattutto la rappresentazione della malattia, della sofferenza e della cura che costituisce da sempre l’obiettivo di molti registi e sceneggiatori, con risultati non sempre corrispondenti alle attese (di critica e di gradimento popolare).

Il dolore, la sofferenza, la malattia, lungi dall’essere dei dati di fatto oggettivi (la malattia e la salute non si lasciano ridurre alla loro dimensione biologica), riflettono il contesto culturale (oltre che politico, economico e sociale) della loro rappresentazione cinematografica. Riflettono i diversi modi di porsi di fronte al dolore, alla sofferenza, alla loro espressione e al loro controllo, della nostra società e della moderna bio-medicina.

I titoli che seguono propongono una traccia, indicano un percorso possibile, testimoniano le molte vie praticabili nella ricerca di un rapporto tra cinema e salute/malattia.

Il curante (il medico, ma non solo) è stato (attualmente lo è un po’ meno) protagonista di molti film: Il medico della mutua (film tratto dal romanzo di Giuseppe D’Agata e interpretato da Alberto Sordi), Il posto delle fragole di Ingmar Bergman, Il dottor Zivago con Omar Sharif, Dr. Akagi del giapponese Imamura, Dottor Korczak del polacco Andrzej Wajda, i più recenti Un medico, un uomo con William Hurt, Prendimi l’anima di Roberto Faenza, Il dottor T e le donne di Robert Altman con Richard Gere nella parte di un ginecologo, l’esilarante neurochirurgo Frankenstein junior di Mel Brooks La figura del medico è stata (ed è) anche protagonista di telefilm, soapopere e telenovele, sceneggiati televisivi (La cittadella con Alberto Lupo nei panni del dottor Manson, la lunga serie del dottor Kildare con Richard Chamberlein, gli attuali Un medico in famiglia, E.R. medici in prima linea del medicoregista Michael Crichton).

E.R. (Emergency Room – Pronto Soccorso) è ambientato nel reparto di primo intervento dell’University Chicago Hospital. Attorno a una compagnia di medici e infermieri si intrecciano casi clinici e personali, discreta è la sceneggiatura con un ritmo serrato, buoni sono gli indici di ascolto in Italia, grande successo negli USA. È una medicina che viene “spiattellata” con

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tutti i suoi termini tecnici aglispettatori, gratificandoli con storiedi sofferenza spesso a buon fine edando loro l’impressione di impararequalcosa. Sembra addirittura cheE.R. sia riuscita a rimodellare lasituazione della sanità americana;così almeno sostengono i direttoridel programma di specializzazione in Pronto Soccorso che hannovisto raddoppiare le domande diammissione, e molti studenti dimedicina affermano di essere statiinfluenzati da E.R.

Ma quanto la realtà è vicina allafinzione cinematografica? I ProntoSoccorso americani funzionano proprio come quello di E.R.? In effetti itelefilm sembrano ben documentatiper quanto riguarda i casi clinici, leprocedure impiegate, le attrezzature, i gesti compiuti dagli attori; lescene sono rese credibili da trucchicinematografici (sangue in abbondanza, tagli e suture tecnicamenteineccepibili), e, aspetto molto importante, non mancano frustrazionied errori umani.

Sempre dagli USA è arrivata unanuova serie di telefilm di ambientazione ospedaliera con una mediaaltissima di spettatori a puntata:Grey’s Anatomy, che unisce allestorie di corsie quelle sentimentali.Protagonista è una giovane specializzanda in chirurgia, tirocinantepresso il Grace Hospital di Seattle.Anche in questa serie casi clinici,intrecci amorosi, tradimenti, il tutto condito con l’impredibilità dellavita in un ospedale, dove la competizione è all’ordine del giorno.

Altri professionisti che lavorano

nell’ambito delle relazioni di aiuto e di cura hanno interpretato ottimi film: il paramedico nicolas Cage nel film di Martin Scorsese Al di là della vita, l’infermiere Benigno in Parla con lei di Pedro Almodovar, la governante Anna in Sussurri e grida di Ingmar Bergman.

L’ospedale ha costituito la scenografia principale di molti film: dai dissacranti The Kingdom (Il regno) di Lars von Trier e Monty Python – Il senso della vita dell’omonimo gruppo britannico, al surreale La casa dei matti di Andrei Koncalovskij, alla grottesca satira di Alan Parker in Morti di salute, alla clinica dei trapianti d’organo di Coma profondo di Michael Crichton, all’ottimo film di denuncia sociale Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman con Jack nicholson, ai Risvegli di Robert De niro, al Gesundheit Institute di Patch Adams con Robin Williams, ai già citati Un medico, un uomo e Parla con lei, ai due film sull’eutanasia Di chi è la mia vita e il più recente Le invasioni barbariche del canadese Denys Arcand.

Gli incroci del cinema con il vissuto della sofferenza sono quindi molteplici. Oltre al tradizionale rapporto medico-paziente e alle numerose storie di disagio fisico e psichico, il cinema ci aiuta a evidenziare lo spazio crescente che oggi assume la tecnologia ed è anche uno strumento utilizzato per portare all’attenzione del grande pubblico le problematiche bioetiche (Le invasioni barbariche e il recente Mare dentro di Alejandro Amenábar sull’eutanasia, Il segreto

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di Vera Drake sull’aborto). I concetti di malattia e di

sofferenza, come quello di salute,hanno una storia che li ha portatiad avere oggi, nella nostra società,i significati che collettivamenteattribuiamo loro: osservare il costituirsi di tali significati e dellerappresentazioni (scientifiche epopolari) che li accompagnanopermette dunque di capire meglioil nostro presente.

Prima di entrare nello specificodel tema in esame, vorrei fare alcune puntualizzazioni: non credo dipoter essere definito un esperto dicinema, ma il cinema rappresentaper me un interesse che ha “intaccato” la mia attività professionale.

Da dodici anni organizzo unCineforum per medici e operatorisanitari, dal titolo MediCine (ossia“il cinema... momento di intrattenimento e riflessione... strumento diaggiornamento e di formazione”).Questo perché sono sempre più convinto che il cinema possa svolgereun ruolo importante nella formazione del medico, in un momentoin cui la sola preparazione tecnico-scientifica non è più sufficiente perrispondere a un’assistenza centratasul paziente e attenta alla globalitàdelle sue esigenze.

Di fatto emerge sempre più lanecessità di un approccio multi-dimensionale, in cui siano utilizzatianche nuovi linguaggi come quellocinematografico. L’agire medico vaconcepito sempre più come attointegrato, punto di partenza e diapplicazione di conoscenze non solostrettamente mediche, ma anche

di carattere psicologico, filosofico, etico. Riflettere e far riflettere il medico sul fatto che ogni malato ha prima di tutto una sua storia personale e che questa lo deve interessare ancor più della sua malattia, non è sempre facile in un momento in cui l’evidence based medicine sembra imporre i suoi paradigmi statistici, ancorando la libertà del medico a precise linee guida.

E il cinema, per l’efficacia narrativa e didascalica, può costituire un setting di straordinaria forza espressiva che può attivare nel medico il suo vissuto emotivo, indispensabile per creare quella comprensione empatica così importante nella nostra professione. La narrazione, anche quella cinematografica, è al cuore dell’esperienza di malattia e della relazione di cura, in quanto la sofferenza richiede di essere integrata in un racconto per acquisire un senso, diventare condivisibile.

Per questo il cinema si pone anche come metodologia formativa capace di coinvolgere il soggetto sul piano emotivo, oltre che razionale e valoriale.

Il MediCine (cineforum) consiste in una programma annuale (otto film con frequenza quindicinale): la visione del film è seguita da una discussione/dibattito incentrata sulle tematiche proposte e/o evidenziate dal film stesso e guidata da un “esperto”. La pellicola, pertanto, viene scelta per far confluire le risonanze emotive dei partecipanti nell’ambito di una discussione dalla quale far emergere la possibilità di

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una lettura collettiva.

La scelta dei film è personale,selezionando film d’autore e dirapido (o assente) passaggio nellesale cinematografiche (i film d’essaidi una volta).

Prima di passare ad analizzarei vari moduli/tematiche che hannocaratterizzato questa “esperienzacinematografica”, vorrei accennare brevemente all’altra iniziativaculturale che sto proponendo daalcuni anni all’interno della Scuoladi Formazione specifica in MedicinaGenerale, del cui Laboratorio culturale sono responsabile: il percorsonarrativo cinematografico. Consistenella introduzione, per alcuni moduli dei percorsi didattici del Corsotriennale, di uno o più momenti divisione cinematografica, introdottie seguiti da discussione (v. Cineforum), in modo da poter riviverein forma di fiction narrativa alcunetematiche analizzate nelle sessioniteoriche dei singoli moduli e affrontare temi riguardanti il saperessere e il saper gestire situazionirelazionali complesse. Il cinema,per la straordinaria efficacia narrativa e didascalica e per la forza dirappresentazione, può contribuire aformare altrettanto efficacementedi quanto possano fare, da sole, lelezioni d’aula tradizionali.

Inoltre è un dato ormai acquisitoche la trasmissione delle conoscenze debba far ricorso, oltre allarazionalità, anche all’affettivitàdel discente, stimolando emozionie sentimenti; e in questo senso illinguaggio cinematografico risultamolto efficace nel suggerire in

terpretazioni profonde dell’agito umano. E proprio questa capacità di interpretazione potrà consentire al medico di colmare la distanza che si è venuta a creare tra la medicina tecnologica e il vissuto dei pazienti, facilitandone il compito quando si troverà a decidere in situazioni complesse.

Il cinema può quindi affiancarsi agli strumenti più tradizionali dell’apprendimento, quelli che attraverso l’analisi introspettiva, interpretativa e clinica possono far comprendere meglio vissuti e sofferenze legate all’esperienza di malattia.

Il cinema inoltre ha il merito di condensare in un lasso di tempo limitato il dipanarsi di storie lunghe una vita, di delineare (con pochi tratti) episodi, personaggi e azioni che difficilmente si possono incontrare nel percorso formativo tradizionale e che diventano, grazie alla forza di suggestione che crea il film, oggetto concreto di discussione, di riflessione e di valutazione critica fondata su basi scientifiche, etiche, filosofiche, emotive.

Si potrebbe obiettare che questa metodologia didattica centrata sulla visione/discussione di un film sarebbe perfettamente assimilabile a quelle iniziative didattiche orientate all’arricchimento culturale e personale del discente, che non hanno quindi un’immediata ricaduta nella prassi; in realtà sono sempre più convinto che, incidendo sulla sensibilità e l’abito mentale dei discenti, avranno in tempi lunghi un’utilità altrettanto rilevante.

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A proposito di arricchimento culturale riporto una breve riflessione dello scrittore sudafricano André Brink sulla cultura:

“[…] in un mondo minacciato da carestia e malattia, violenza e guerra, rifugiati, tiranni e moltitudini oppresse, la parola cultura può rischiare di assumere una valenza oscena. Questo è vero solo se insistiamo a considerare la cultura come la riserva di pochi oziosi privilegiati, non considerandola invece come l’indispensabile generatrice di significato in una società nella sua totalità. La fame esiste e la si può placare solo con del pane, non con la musica. Il riconoscimento della piena umanità di una donna non dipende da un dipinto. Ma ciò non implica nemmeno per un istante che l’umanità non abbia bisogno di musica, o di letteratura, di teatro o di pittura.

Riconoscere il nostro bisogno di cultura non significa sottovalutare la necessità basilare degli esseri umani di sopravvivere, essere liberi, poter lavorare, migliorare la proprio condizione: è solo riconoscere che l’umanità richiede anche significato, o almeno la possibilità di cercare un significato[…]”.

Altri obiettivi didattici: – Sensibilizzare gli specializzandi

alla complessità della relazione di aiuto e di cura nelle sue dimensioni etiche, psicologiche, sociologiche, antropologiche, ambientali;

– Migliorare la relazione di cura e di aiuto, contestualizzando il processo grazie alla conoscen

­ za dell’ambiente e della storia personale dei soggetti, delle loro culture specifiche, comunicando di conseguenza con stili relazionali adeguati e modalità eticamente rispettose;

– Accrescere le competenze necessarie alla comunicazione fra gli attori della scena della cura e dell’aiuto, fra le istituzioni sociali e sanitarie e i cittadini;

– Restituire al soggetto che soffre e cerca aiuto la sua soggettività e la sua parola, aiutandolo, in modo eticamente adeguato, a riguadagnare una centralità;

– Superare la logica del riduzionismo e del causalismo meccanico nell’interpretazione dei fatti sociali e degli eventi di malattia;

– Sviluppare una dialettica tra discipline diverse che interagiscono sulla scena dell’aiuto e della cura.

Ritornando al programma del MediCine ho diviso i vari cicli di proposte cinematografiche in moduli/ tema, con presentazione, visione e discussione di più film tematici, dei quali vorrei dare una breve traccia esemplificativa.

Modulo/tema I: la rappresentazione del disagio psichico e della malattia mentale È stato ed è uno dei temi di salute più “toccati” dalla rappresentazione cinematografica, a volte in modo leggero e comico, spesso in maniera profonda e analitica, a volte documentaristica. – Don Juan de Marco maestro

d’amore, del medico-regista Je

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remy Leven, con Marlon Brandonella parte dello psichiatra, chesi prende cura del delirio di ungiovano schizofrenico che sicrede il più grande amante delmondo.

– Senza pelle, di Alessandro D’Alatri: racconta realisticamente,senza esasperazioni, l’impattodella sofferenza mentale sullaquotidianità di “persone qualunque” con un indovinato tonominimale, sfuggendo ai possibiliclichè ideologici e sociologici.

– Family Life, uno dei primi filmdi denuncia di Ken Loach, è l’illustrazione di un caso clinico. Èil racconto-inchiesta della fuganella schizofrenia di una ragazzadella piccola borghesia inglese.Direttamente ispirato alle teoriesull’io diviso di Ronald Laing (la“normalità” e il rispetto delleconvenzioni come causa di di-sagio psichico), pur risentendomolto dell’atmosfera libertariadi quegli anni, si fa ancora apprezzare per la forza polemicae per la straordinaria prova direcitazione della protagonista(Sandy Ratcliff).

– La casa dei matti, del regista ex–URSS Andrei Koncalovskij, GranPremio della giuria a Venezia2002. nel 1996, durante la primarivolta antirussa in Cecenia, unpiccolo ospedale psichiatricopreso a cannonate e abbandona-to dallo staff medico, è occupatodai guerriglieri ceceni e poi daisoldati russi. L’ospedale psichiatrico si presenta come unasorta di universo privilegiato,un’isola in qualche modo felice,

dove la quieta follia dei suoi ospiti, affidandosi alla potenza trasfiguratrice del sogno, riesce a ritagliarsi un piccolo spazio di evasione e di riscatto. Un asilo isolato e ovattato entro il quale, improvvisamente, irrompe la follia ben altrimenti pervasiva della guerra.

– Elling, del norvegese Setter naess. È il racconto del reinserimento in società di Elling, dopo due anni di ricovero in istituto psichiatrico. È un film fuori dai luoghi comuni della cinematografia sulle malattie mentali, nulla a che vedere con la pazzia “all’americana” e le modalità del suo racconto, dove si presenta spesso come occasione pedago-gica, e spesso demagogica, per ritualizzare la diversità, accettare la malattia (Forrest Gump di Robert zemeckis con Tom Hanks, Rain Man con l’autistico Dustin Hoffman).

– Un’ora sola ti vorrei, film-documentario di Alina Marazzi, emozionante e coinvolgente, in cui la regista costruisce un ritratto della madre suicida attraverso i filmini familiari realizzati dal nonno, l’editore Ulrico Hoepli. Tra quelle vecchie pellicole amatoriali girate fin dal 1926 è nascosta la vita breve e tragica di Liseli, madre della regista, morta suicida nel 1972 gettandosi dal terrazzo della sua abitazione, quando la figlia aveva solo sette anni. Un’ora sola ti vorrei (il titolo è tratta dalla famosa canzone) intreccia spezzoni filmati con

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la lettura dei diari di Liseli,di lettere, dei referti mediciche segnano il lungo travaglionelle case di cura, e ricostruiscel’infanzia, l’adolescenza, l’amore, la maternità, la malattia, ilmalessere esistenziale di unadonna fragile. È la storia di unadepressione considerata nel suoambiente familiare alla streguadi un capriccio e curata, male,negli ospedali psichiatrici.

– La pazzia di re Giorgio, del britannico nicholas Hytner. Dopoaver regnato per oltre trent’anniGiorgio III d’Inghilterra comincia a comportarsi in manierabizzarra; viene affidato ai metodi vagamente psicoanaliticidel dottor Willis, che insegneràal sovrano a convivere con lapropria malattia (porfiria).

– Zelig, di Woody Allen. È la storiadi Leonard zelig, americano ecamaleonte umano, che nellasmodata smania di essere accettato e amato, ha sviluppatola capacità di assumere le caratteristiche somatiche, psichiche,e lessicali di chiunque incontri.

Modulo/tema II: handicap e cronicità, accompagnamento e qualità di vita La cronicità della relazione d’accompagnamento e di aiuto nei confronti di persone portatrici di gravehandicap impone la riflessione sullaqualità di vita che tale condizionecomporta. Rapporto tra diversitàe qualità di vita, fra oggettivitàe soggettività: fra le necessitàoggettive della relazione di aiutonell’accompagnamento di persone

disabili e la soggettività dei criteri di giudizio della qualità (indice di soddisfazione) dei vari interlocutori coinvolti in tale relazione (progettualità personale e istituzionale). – Le chiavi di casa, di Gianni

Amelio. Tratto dal romanzo autobiografico di Giuseppe Pontiggia Nati due volte è la storia dell’incontro di un adolescente handicappato con il padre fino a quel momento assente, che lo accompagna in un ospedale specializzato per un programma di riabilitazione. Ma la vera riabilitazione avviene al di fuori della clinica, non è fisica, bensì affettiva.

– Oasis, del regista coreano Lee Chang-Dong, premio speciale per la regia a Venezia 2002. È il racconto visivo di un amore impossibile tra due persone con handicap (grave quello della ragazza, che riesce a pronunciare solo poche sillabe). Il regista ha evitato qualsiasi eccesso di retorica e sbilanciamento nella caratterizzazione psicologica, il suo è uno sguardo necessario, scevro da giudizi precostituiti, non spinge mai il tasto sulla diversità dei due, ma li tratta come due corpi che si desiderano.

– Buon compleanno Mr. Grape, dello svedese Lasse Hallstrom. Piccolo grande film, tenero e misurato. nucleo centrale della storia è il complesso rapporto tra due fratelli, uno introverso e problematico (Johnny Deep), l’altro handicappato (un bravissimo Leonardo Di Caprio).

– Go Now, del britannico Michael

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Winterbottom. Film d’autore sull’handicap, rigoroso, attento aiproblemi e alla vita della gentecomune, senza mai cadere inquel patetismo o depressioneesistenziale di molte cinematografie (come la nostra). Il filmaffronta un tema drammaticocome la sclerosi multipla con untocco di rara levità.

– Le onde del destino, di Lars vonTrier. Amore, morte e miracoli inun villaggio scozzese, dove unuomo rimane paralizzato a causadi un incidente. Film inquietantee misterioso, iperrealistico nellarappresentazione del dolore e delmale, Gran Premio della giuria alFestival di Cannes (1996).

Modulo/tema III: cura, cultura e rappresentazioni dellamalattia La medicina sempre più tecnicamente efficiente, capace di proporresoluzioni di problemi e vie di guarigione in molte evenienze cliniche,si trova oggi paradossalmenteconfrontata con l’emergere di unapresenza sempre maggiore dellemedicine complementari.

Riflettere sui diversi modellidella pratica medica e sulle soggiacenti condizioni culturali, permettedi approfondire la comprensionedella propria modalità di curare edi prendersi cura della sofferenzanelle sue variegate forme, comepure di percepire i punti di forzae i limiti. – L’olio di Lorenzo, del regista, ex

medico, Gorge Miller. È la storiavera dei coniugi Odone e dellaloro lotta accanita per salvare

­ il figlio Lorenzo, colpito da una rara forma di distrofia incurabile. Fede nella scienza, ma nessuna medicalizzazione arbitraria e anzi cura ostinata degli aspetti psicologici della relazione e dedizione senza risparmio alla ricerca di un via sperimentale alternativa di cura (l’olio di Lorenzo, estratto dai semi di colza).

– Gostanza da Libbiano, mirabile film in bianco e nero (ricorda Bergman) di Paolo Benvenuti racconta il processo per stregoneria nei confronti di un’anziana levatrice che cura con erbe medicinali (Granducato di Toscana – 1594).

– Verso il sole, di Michael Cimino. Un medico in carriera, oncologo, viene sequestrato da un giovane indiano navajo detenuto per omicidio e malato terminale di tumore, che lo trascina in un viaggio iniziatico nelle terre navajo alla ricerca di un lago sacro di montagna dalle acque miracolose e guaritrici.

Modulo/tema IV: etica clinica 1 Le trasformazioni dello scenario in cui si svolgono le pratiche della cura e del prendersi cura, determinate in particolare dal progressivo imporsi dell’orizzonte tecnologico in medicina, comportano modifiche nell’interazione tra curante e curato, che in tale scena si svolge.

Obbligano a ripensare la posizione del curante di fronte alla fragilità della persona malata e sofferente e costringono a considerare nella

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loro complessità i nuovi problemi che emergono di fronte alle singole situazioni e scelte cliniche. – Un medico, un uomo, di Randa

Heines. Per capire il valore dell’umanità un chirurgo di fama, mano ferma e precisa (“entro, aggiusto ed esco” è il suo motto), che invita i suoi allievi a non provare alcun sentimento verso i pazienti, dovrà trasformarsi, suo malgrado, da medico in malato, subendo a sua volta le noie della burocrazia e il male dell’insensibilità.

Modulo/tema V: etica clinica 2 (eutanasia) – La vita come malattia sessual

mente trasmessa, di Krzysztof zanussi. Un medico affronta la scoperta di avere un male incurabile e decide di farla finita (suicidio assistito).

– Quando morire, di Paul Wendkos. TV movie. Affetta da sclerosi laterale amiotrofica Emilj non può più vivere e chiede ripetutamente l’eutanasia, quando non riesce più a parlare la supplica tramite il computer. Il marito conduce una battaglia legale dall’esito incerto, e alla fine riesce nel suo intento. Assente la figura del medico.

– Le invasioni barbariche, del canadese Denys Arcand. Professore cinquantenne sta morendo di cancro. Il figlio, corrompe e spende soldi per garantire al padre le migliori condizioni di degenza e di fine vita. Medici assenti, ospedali corrotti.

– Mare dentro, di Alejandro Amená

bar, Gran Premio della giuria a Venezia 2004. “Vivere è un diritto, non un obbligo”: questa affermazione del protagonista Javier Bardem potrebbe essere la chiave di lettura di Mare dentro. Il film prende le mosse dalla cronaca, per raccontare l’atto finale del calvario fisico e giuridico di Ramon Sampedro, meccanico di navi, galiziano, che nel 1968, all’età di 25 anni, rimase tetraplegico a causa di un incidente (un tuffo maldestro). Il 12 gennaio 1998, dopo un’ultima disfatta giudiziaria, al termine di una lunga battaglia personale, si fece somministrare, fuori dei confini della stretta legalità, la “dolce morte” che invano aveva rivendicato come un proprio diritto. Undici persone presero parte all’eutanasia, ognuno con una propria piccola azione.

Modulo/tema V: etica clinica 3 (aborto) – Il segreto di Vera Drake, di Mike

Leigh. Leone d’oro per il miglior film a Venezia 2004. Londra 1950: Vera Drake fa la donna delle pulizie, ma ha anche un’altra disinteressata occupazione, che tiene segreta a tutti coloro che le stanno attorno: senza accettare denaro aiuta giovani donne a interrompere gravidanze indesiderate. Quando una di queste ragazze viene ricoverata d’urgenza in ospedale in seguito a un aborto, le indagini della polizia arrivano a Vera, e tutto il mondo le crolla addosso.

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Modulo/tema VI: cinema e terza età – Il posto delle fragole, il capola

voro di Ingmar Bergman. È il racconto del viaggio fisico e nellamemoria del vecchio medico IsakBorg.

– Una storia vera – Straight Story,di David Lynch. La storia vera delviaggio su un tosaerbe del vecchio Alvin Straight per visitareil fratello infartuato.

– Iris un amore vero, di RichardEyre. La storia vera della scrittrice Iris Murdoch e del suoinesorabile precipitare nellamalattia di Alzheimer.

Modulo/tema VII: cinema e paziente terminale – Sussurr i e gr ida, di Ingmar

Bergman. In una villa del primonovecento Agnese sta morendodi cancro assistita dalle due sorelle in perenne conflitto tra loroe dalla premurosa governante.Memorabile riflessione sul doloree la pietà.

– La forza della mente, di Mike nichols. Il vissuto di una studiosadi letteratura inglese, alla qualeviene diagnosticato il cancro eproposta una pesante chemioterapia.

Modulo/tema VII: cinema e terapia del sorriso – Patch Adams, di Tom Shadyac,

con Robin Williams. La storiavera e romanzata del clown-dottore Hunter Patch Adams e dellasua terapia del sorriso. Presentein sala uno straordinario PatchAdams.

– Clown in Kabul, di Enzo Balestrieri e Stefano Moser. Filmdocumentario della spedizione internazionale di ventuno medici-clown, guidati da Patch Adams, negli ospedali pediatrici di Kabul. Presente in sala Leonardo Spina, uno dei protagonisti del film e uno dei massimi esponenti dei clown-dottori.

Modulo/tema VIII: cinema ed elaborazione del lutto – Sotto la sabbia, di Francois Ozon.

Film sulla (non) elaborazione del lutto, sull’incapacità di rispondere al dolore della scomparsa della persona amata, e conseguente fuga dalla realtà.

– Film blu, di Krzysztof Kieslowski. Film sulla difficoltà di elaborare un lutto (perdita della famiglia in un incidente d’auto).

Modulo/tema IX: cinema e il senso della vita – Monty Python – Il senso della

vita, di Terry Jones. Film grottesco e dissacrante sulla morte, sulla vita dopo la morte, sulla follia e l’ipocrisia del nostro tempo, sul controllo delle nascite, l’educazione sessuale nelle scuole, la gestione della salute negli ospedali...

– Big Fish, di Tim Burton. “La storia di una vita incredibile”: il film è una storia sull’importanza delle storie.

– L’albero di Antonia, di Marleen Gorris. È un racconto sulla vita, attraverso più generazioni, con le sue luci e le sue ombre, le trasgressioni, le piccole vendette, le

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grandi gioie, ed è tutto vissutoal femminile.

Modulo/tema X: cinema – malattia – genio – produzione artistica – Un angelo alla mia tavola, di

Jane Campion. Film sull’autobiografia della scrittrice neozelandese Janet Frame, introversae solitaria che dopo otto anni dimanicomio, perché considerataschizofrenica, si salva dalla lobotomia solo grazie a un premioletterario ottenuto con una suapubblicazione.

– Shine, di Scott Hicks. Film-biografia del pianista DavidHelfgoot, che schiacciato da unpadre-padrone oppressivo, chelo vuole musicista di successo,sprofonda per un decennio nellaschizofrenia, che lo fa entrare euscire da cliniche psichiatriche.Ritroverà salute mentale e talento artistico grazie all’amoredi una astrologa.

– Pollock, di Ed Harris. Film sullabreve e tormentata vita (inclinazione all’alcool e all’autodistruzione) del pittore JacksonPollock, il principale esponentedell’action painting, caratterizzata dalla tecnica del dripping(sgocciolamento dei colori sullatela). Il film riesce a evitare letrappole delle biografie celebri(binomio genio/sregolatezza,vita privata) per privilegiare ilrapporto dell’artista con la suapittura.

– Basquiat, del regista-pittoreJulian Schnabel. È il raccontodella breve vita (morì di overdose

all’età di 27 anni) di Jean Michel Basquiat e la sua folgorante ascesa da sconosciuto graffittista ad affermato esponente del neo espressionismo astratto americano, con la benedizione e l’amicizia di Andy Warhol. Esordio alla regia del pittore Julian Schnabel.

– A Beautiful Mind, di Ron Howard. Film noto (ha vinto diversi premi Oscar) sugli studi, imprese, malattia (schizofrenia) e trionfo del matematico americano John nash, premio nobel 1994 per l’economia.

Modulo/tema XI: cinema e sessualità (disturbi) – La pianista, dell’austriaco Mi

chael Haneke. Il racconto di un’insegnante di piano, masochista e ossessiva, che vive con una madre possessiva e sfoga la sua sessualità frustrata nel voyeurismo.

– Belle al bar, di Alessandro Benvenuti. Film-commedia sensibile, libero e divertente sul difficile tema della diversità (transessualità), che sottolinea con ironia lo scarto tra la propria mancanza di pregiudizi (“la normalità è una malattia da cui si può guarire”) e la volgarità con cui di solito vengono trattati argomenti del genere, soprattutto in chiave comica.

Modulo/tema XII: cinema e impegno sociale – Insider, di Michael Mann. I fatti

sono veri. Un ricercatore alle dipendenze di una multinazionale

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del tabacco decide di rivelare a un giornalista che i suoi datori di lavoro aggiungono additivi chimici alle sigarette per rafforzare l’assuefazione al fumo. Questa denuncia portò a una indagine che costò alle multinazionali del tabacco sanzioni miliardarie da parte di cinquanta Stati.

– 11 settembre 2001, di undici registi. Undici riflessioni da parte di undici registi di nazionalità diversa all’indomani dell’attentato alle Twin Towers.

– Viaggio a Kandahar, del regista iraniano Mohsen Makhmalbaf. In bilico tra finzione e realtà, mostra e racconta come il fondamentalismo islamico abbia umiliato la dignità delle donne e cercato di livellare la diversità degli uomini.

– Jung (Giang) – Nella terra dei mujaheddin, di Vendemmiati e Lazzaretti. Film-documentario che racconta l’avventura umanitaria e professionale di Gino Strada (chirurgo di Emergency) e dei suoi collaboratori nella costruzione di un ospedale nel nord dell’Afghanistan.

– Arancia meccanica, di Stanley Kubrick. Per rieducare Alex, amante dello stupro e di Beethoven, lo si sottopone al trattamento “Lodovico”, che lo condiziona alla non violenza; finirà vittima di chi la violenza continua a farla. Diventato così un caso nazionale, si trasforma in un eroe e potrà usare la sua aggressività in maniera funzionale al potere. nel ’71 Arancia meccanica fu uno

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shock, oggi è ancora un salutare pugno nello stomaco.

Modulo/tema XIII: cinema e mass media – The Truman Show, di Peter Weir.

Truman è il protagonista, a sua insaputa, di un documentario/soap opera che dura da trent’anni, in onda 24 ore su 24, sette giorni alla settimana. Una biografia in studio, davanti a 5.000 telecamere di cui non conosce l’esistenza. Ricorda molto da vicino i nostri programmi televisivi Il grande fratello e L’isola dei famosi, che quasi tutti conoscono, ma pochi dicono di guardarli.

Propongo ora una breve riflessione su due film recenti, che esemplificano due modi di rappresentazione cinematografica della malattia. Sono stati proiettati alla LXI Mostra di Venezia (edizione 2004): Mare dentro del cileno Alejandro Amenábar e Le chiavi di casa di Gianni Amelio.

Mare dentro Javier Bardem è Ramon Sampedro, tetraplegico che chiede disperatamente e con dignità di poter morire. Bardem per questa sua interpretazione ha vinto la Coppa Volpi come miglior attore, come l’ha vinta nel 2000 per Prima che sia notte di Julian Schnabel, interpretando il ruolo del poeta omosessuale cubano Reinaldo Arenas, morto di AIDS.

nel ruolo di Ramon, Javier Bardem compie una prova attoriale impressionante. Costretto a lavo

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rare solo sulle parti del corpo chela malattia gli consente ancora dimuovere (il volto), priva la sua importante fisicità ed espressività diqualsiasi contributo, se non quellodi rendere realistica anche l’immobilità. E probabilmente la grandezza diJavier Bardem attore non è nel visoe negli occhi, ma nelle mani congelate dalla fissità della paresi. InPrima che sia notte l’AIDS, che minae indebolisce tutto il corpo, ma lolascia libero di muoversi, è una malattia più facile da interpretare dellatetraplegia, probabilmente perchéconsente un’emersione esterna delmale sotto forma di mutazione, digraduale deperimento (vedi anchePhiladelphia, con Tom Hanks affettoda AIDS).

La malattia ha bisogno di sintomi per essere riconosciuta e,nello stesso modo, rappresentata.Allo spettatore si chiede quasi dimettersi nei panni di un medico,riconoscere i sintomi della malattiae concentrarsi su di essi per sviluppare emozioni.

La malattia, che colpisce eintacca il corpo e la mente, è uncampo di prova d’attore e spesso dicinema d’autore: Ron Howard e Russell Crowe in A Beautiful Mind, JaneCampion in Sweetie, Un angelo allamia tavola e Lezioni di piano, Larsvon Trier in Kingdom, Le onde deldestino, Idioti, Dancer in the Dark,Patrice Chereau in Son frere.

Sono solo alcuni esempi, l’elencosarebbe molto più lungo, la cinematografia della malattia è sterminata,qui ho accennato solo ai film, neiquali il tema narrativo condizionain un certo modo la messa in scena

e non è ridotto a semplice oggetto di racconto.

Riflessione: è possibile pensare alla malattia nel cinema semplicemente come a un oggetto/genere, al pari dell’orrore o dell’amore o del sesso? Se sì, quali sono i limiti del mostrabile? Esiste un limite nella rappresentazione della malattia, così come esiste un’insostenibilità dell’orrore?

La scelta di Amenábar del come rappresentare la malattia (è una storia vera) è quella più classica e sicuramente la meno disturbante: affidarsi a un ottimo attore e alle sue capacità di non-malato per rendere ragione della malattia. La distanza dello schermo dalla vita reale è mantenuta: da spettatori guardiamo una storia, che è una storia vera, ma solo fuori dallo schermo. Altri linguaggi della rappresentazione mantengono le distanze dal realismo: quello pittorico (le frequenti carrellate sul corpo nudo di Ramon Sampedro sdraiato immobile nel suo letto ci ricordano il Cristo morto di Andrea Mantenga), e quello simbolico, metaforico nella scena della carrellata sul paesaggio verso una spiaggia di sogno, in cui Ramon può camminare.

Sugli accordi pucciniani di Nessun dorma le sue gambe ritrovano la forza di scivolare dal letto, prendere la rincorsa e lanciare il corpo fuori dalla finestra. I suoi occhi, sovrapponendosi ai nostri, planano ad alta velocità su colline e distese verdi; alla deriva del sogno c’è il mare, c’è un corpo capace di amare. In questo modo Amenábar raffigura una ragione, da ascoltare e rispettare, nella

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sua scelta dell’eutanasia.

Altro aspetto interessante diquesto film è l’assoluta mancanza diuna figura medica. Chi accompagnaRamon Sampedro nella sua decisione è la rete di amici e di parenti(il vecchio padre, il fratello che harinunciato al mare per provvederealle sue necessità, la cognata, il nipote), che collaborano tutti all’attoconcreto finale.

La giustizia rifiuta l’istanza diRamon evidenziando contraddizionie ipocrisia dell’ordinamento giuridico rispetto al tabù del suicidioassistito, la Corte di La Coruñaviene dipinta come una congregadi ciechi custodi di una legge disumana e bigotta.

non passa sotto silenzio neppure la demagogia oscurantistadella Chiesa (vedi la figura di PadreFrancisco, anche lui tetraplegico,durante una diatriba in cui il gesuita tenta di dissuaderlo dal farlafinita).

Ritornando alla bravura attorialedi Bardem, la fatica con cui diventaRamon e armeggia con la boccaper scrivere e per raggiungere gliappigli che gli consentono di comunicare con il mondo emozionamolto alla visione di Mare dentro,ma svanisce di fronte alla faticareale di Andrea Rossi (il Paolo di Lechiavi di casa) per aprire la porta,vestirsi, vivere.

Le chiavi di casa Andrea Rossi, il giovane protagonista, è Paolo, il bambino malato rifiutato dal padre e poi accompagnatoin un viaggio di riscoperta.

Ma Andrea Rossi è anche se stes

so. Fuori dal set non può smettere di essere quello che è sullo schermo, come il protagonista, affetto da nanismo, del bellissimo Il tempo dei cavalli ubriachi, dell’iraniano Ghobadi, o quello, affetto da sindrome di Down, de L’ottavo giorno, del regista Van Dormael.

Il film è la storia di Paolo, tratta da uno scritto di Pontiggia ispirato alla realtà, o due ore di vita privata di Andrea Rossi? Effettivamente è un film: lo dimostrano il mestiere di Amelio, la sua capacità di mantenersi misurato, e la bravura di Kim Rossi Stuart, la sua straordinaria prova d’attore. Il film di Amelio è un film sulla malattia, una malattia vera: Andrea Rossi non è un fenomeno da baraccone (come The Elephant Man di David Lynch), ma non è nemmeno un attore, non lo è perché non può non recitare il suo ruolo, è un ragazzo malato.

È questo il vero modo di mettere in scena la malattia? La malattia degli attori non professionisti: come lo spaventapasseri del film di Vito Pandolfi Gli ultimi, o i veri bambini handicappati del film di Cassavetes Gli esclusi, o i disabili della Comunità Ismaele di Piovono mucche di Luca Vendruscolo, o i sordo-ciechi del film di Werner Herzog Il paese del silenzio e dell’oscurità, con scelta documentaristica, come l’interessante Un’ora sola ti vorrei, della regista Alina Marazzi, che mette in scena la triste storia della madre morta suicida.

Quando Andrea Rossi, e con lui i suoi compagni di malattia, è in scena, lo schermo è completamente in suo ostaggio, risucchiato in quel

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buco nero che è la sua malattia: un buco nero che ingoia tutto, la sto­ria, l’attenzione per gli altri perso­naggi, ma anche l’inquadratura, che il regista sceglie di consegnargliela, e lui la satura completamente, la riempie con i suoi primi piani e con i dettagli del suo corpo.

Un’osservazione sulla presenza medica nel film: è evidente la pe­santezza, la durezza delle figure sanitarie incaricate della riabilita­zione fisica. La riabilitazione più importante, emotiva, la compie il padre, che lo prende in braccio e lo allontana dalle torture che stava subendo.

Mauro Bertoluzza è medico di Medicina generale ed esperto di cinema

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Dal dialogo alle ipotesi di ricerca sul campo

Marco Clerici, Greta Sona

Considerazioni conclusive del Gruppo di lavoro

I Dialoghi di Bioetica e Biodiritto 2005 hanno voluto offrire un’occasione di riflessione multidisciplinare sul diritto alla salute e sugli innumerevoli “dintorni” territoriali, culturali e mediatici che concorrono a condizionarne il significato.

Quest’anno l’esplorazione del diritto alla salute e dei suoi dintorni è stata realizzata in modo particolarmente completo e approfondito, grazie all’attuazione di un progetto di ricerca sul campo che ha affiancato i Dialoghi per tutto il corso della loro durata.

Il progetto è consistito nella creazione di un Gruppo di lavoro che si è occupato di approfondire le tematiche di volta in volta trattate e dibattute nei Dialoghi, mediante l’analisi di alcuni casi clinici concreti, forniti dai professionisti partecipanti ai Dialoghi stessi e facenti parte della loro personale e diretta esperienza sul campo.

Il Gruppo, composto da 11 operatori di diversa estrazione

professionale (3 medici, 3 infermieri, 1 farmacista, 1 ostetrica, 1 funzionario dell’Ordine dei Medici e 2 giuristi), è stato ideato con l’obiettivo di comprendere in che termini si possa realisticamente parlare di diritto alla salute, all’interno di un contesto sanitario in grado di offrire sempre maggiori possibilità terapeutiche, ma costretto a confrontarsi e scontrarsi quotidianamente con gli innumerevoli limiti di carattere spaziale, culturale, economico e mediatico che lo caratterizzano.

In particolare il Gruppo è stato pensato al fine di verificare l’esistenza di un’effettiva corrispondenza tra il dato giuridico formale in tema di salute e la pratica quotidiana. Molte sono le difficoltà concrete con cui l’operatore sanitario da un lato, e il paziente dall’altro, si trovano a doversi confrontare ogni giorno. All’interno del Gruppo di lavoro si è cercato dunque di mettere in luce tali criticità, approfondendo le problematiche di natura etica, deontologica e giuridica che emergono più frequentemente nell’esercizio delle professioni sanitarie.

Il carattere volutamente composito del Gruppo di lavoro ha garantito la possibilità di operare una riflessione interdisciplinare su temi che richiedono, oggi più che mai, conoscenze, competenze e capacità notevolmente eterogenee.

Un ruolo di primaria importanza è stato ricoperto dallo strumento di lavoro utilizzato dal Gruppo: la casistica raccolta dagli operatori sanitari partecipanti ai Dialoghi ha infatti rappresentato un’importante

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occasione per riscoprire e rivalutarela dimensione dialogico-narrativadella medicina, spesso sacrificatain nome di un approccio sempre piùorganicistico e frammentario neiconfronti dell’individuo. Il ritornoa una medicina più sobria, in gradodi avvicinarsi al paziente con lostrumento della parola, costituiscela via privilegiata per il recuperodella centralità della persona nelprogetto di cura.

La richiesta agli operatori, diripercorrere alcuni episodi del lorovissuto personale e professionaleha dato a molti la possibilità dirivisitare in modo critico e consapevole importanti scelte compiutenell’esercizio dell’attività sanitaria.Si è trattato di un lavoro collettivopiuttosto ampio, che è riuscito acoinvolgere un numero consistentedi operatori sanitari nell’elaborazione di un database attualmente composto da più di 400 casi clinici.

La notevole quantità e qualitàdi materiale prodotto dalla collaborazione di diverse competenzeprofessionali ha consentito di ottenere uno spaccato rappresentativodella sanità trentina.

nelle “storie cliniche” narratedagli operatori si è fatto riferimento non tanto al concetto di “salute”quanto invece, più pragmaticamente, a quello di “sistema sanitario”come strumento privilegiato diintervento sulla salute.

La concezione del sistema sanitario come parte integrante deidiritti sociali, economici, culturali edi cittadinanza ha fatto da corniceal percorso compiuto quest’anno,

racchiudendo i contenuti più alti di tutti i casi raccolti.

È stato inoltre possibile individuare una sorta di filo rosso che ha caratterizzato sia i casi riportati dagli operatori che gli interventi dei relatori: il tentativo di andare oltre la manipolazione del linguaggio a cui così spesso si ricorre in ambito medico-sanitario.

Gli esempi citati sono stati molti, uno fra tutti quello della “guerra al cancro”: una simile espressione implica l’accettazione dei danni collaterali che una guerra comporta; implica la gerarchia militare, cioè un contesto che non prevede una definizione condivisa degli obiettivi, ma una mera imposizione e quindi obbedienza agli stessi.

Molto diverso sarebbe parlare di “terapia del cancro”: solo entrando in quest’ottica è possibile arrivare a chiedersi se sia sempre possibile una terapia, oppure in che modo sia possibile affrontare una terapia assieme al paziente o, ancora, chi abbia il compito di decidere quale sia la strategia terapeutica da adottare. Tutte domande che non troverebbero spazio in una dimensione “bellica” di guerra al cancro, dove è scontato che la malattia possa essere combattuta e vinta con qualsiasi mezzo perché sul campo di battaglia (che in questo caso è il corpo individuale) tutto è concesso. Gli stessi termini “reclutamento” o “arruolamento”, spesso usati in riferimento ai protocolli di sperimentazione, pongono il paziente in una condizione di soggezione, trasformandolo da soggetto a oggetto del trattamento.

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Si è constatato inoltre come la manipolazione del linguaggio possa far percepire alcune normali fasi della vita (gravidanza, menopausa) o semplici fattori di rischio come vere e proprie malattie.

Una simile trasformazione del significato delle parole induce la popolazione a una visione distorta, in senso peggiorativo, del proprio stato di salute.

Questi meccanismi manipolativi, unitamente alla rincorsa di un’utopica salute perfetta e immediatamente raggiungibile, comportano, da parte del paziente, una sempre maggior insoddisfazione di fronte ai percorsi terapeutici propostigli e un frequente rifiuto dei limiti oggettivi della propria salute.

È molto diffusa l’immagine di una medicina onnipotente dalla quale è lecito pretendere tutto e subito. non viene ammesso alcun margine di errore e di incertezza perché, oggi più che mai, la medicina viene intesa come scienza esatta anziché come scienza probabilistica.

Si aprono a questo punto due ordini di problemi, emersi con frequenza dagli elaborati analizzati.

Il primo attiene a questa presunta infallibilità della medicina: qualsiasi incertezza dell’operatore, anziché essere percepita come fisiologica della professione sanitaria, viene vista con sospetto e disapprovazione. Il paziente si aspetta di ricevere risposte certe e rassicuranti, all’interno di una visione della medicina tipicamente shamanica (lo shamano è colui che accoglie su di

sé le incertezze, le trasforma in un rito, per poi comunicare ai propri “assistiti” solo certezze). Tuttavia, solo attraverso un’autentica condivisione dell’incertezza tra medico e paziente è possibile approdare a una medicina sostenibile, in grado di ridimensionare le aspettative del paziente, reintegrandole con il concetto di “limite”.

I limiti possono essere di natura economica: data la limitatezza delle risorse disponibili è necessario, compiere delle scelte di allocazione. In questo è chiaramente ravvisabile la ratio stessa dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), sulla cui definizione ed equità tuttavia esistono ancora molti dubbi.

Ma vi sono anche limiti di conoscenza: la medicina infatti si trova in una condizione di impotenza di fronte a molte malattie per le quali non è ancora riuscita (ci riuscirà mai?) a trovare terapie risolutive.

Sarebbe inoltre auspicabile un riconoscimento e una conseguente condivisione dell’incertezza anche da parte del diritto.

nel nostro ordinamento la possibilità di esiti incerti potrebbe essere raccolta solo da un diritto disposto a fare un passo indietro e ad ammettere la possibilità di zone d’ombra sottratte al proprio controllo. Da sempre i rigidi schemi giuridici, massimi esempi della certezza, cercano di ricomprendere interamente la sfera etica, dominata invece dall’incerto, con risultati raramente soddisfacenti.

In questo modo si profilerebbe un diritto capace di rinunciare ad alcune delle proprie prerogative,

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come quella di essere onnicomprensivo della realtà esistente, perlasciare spazio ad altre componenti(la coscienza?), più adatte a relazionarsi con la categoria dell’incertezza.

Il secondo ordine di questioniattiene invece al problema deltempo. Si sta diffondendo infatti,soprattutto negli ultimi anni, latendenza ad applicare all’assistenzasanitaria la stessa concezione deltempo che caratterizza le nuovetecnologie.

L’introduzione di “oggetti” tecnologici nella vita quotidiana hacomportato una progressiva accelerazione dei tempi, soprattuttonelle comunicazioni. La possibilitàdi utilizzare un telefono cellulare,ad esempio, garantisce l’immediata soddisfazione di ogni bisognocomunicativo, anche di scarsaimportanza.

La tecnologia sviluppa progressivamente nelle persone una percezione di istantaneità, che tendead annullare il tempo intercorrentetra la nascita di un bisogno e la suarealizzazione.

Il problema sorge nel momentoin cui un simile processo viene applicato anche alla medicina. Infattila possibilità di comunicare sempree ovunque induce l’individuo apretendere la medesima contemporaneità anche dall’assistenza sanitaria, senza considerare tuttavia chei tempi biologici sono per naturadiversi da quelli tecnologici.

Difficilmente un paziente accetta di buon grado che il proprio medico, di fronte al suo malessere, gli

­ risponda: “Aspetti e vediamo”. Con una simile affermazione si chiede infatti all’individuo di operare un rinvio, una dilazione del bisogno, attività che raramente è costretto a fare nella propria vita quotidiana, nella quale domina la filosofia del “tutto e subito”. La visione del tempo come opzione diagnostica è rigettata perché contrasta con quel carattere di istantaneità che si richiede anche al mondo sanitario.

Troppo spesso davanti a simili pretese, che snaturano l’attività medica, l’operatore risponde con atteggiamento remissivo, applicando la “velocità di trattamento” richiestagli. Ma la fretta, in questi casi, è sintomo di un atteggiamento difensivististico più che di una medicina esercitata secondo scienza e coscienza.

All’interno di questa cornice si inserisce la sanità trentina. Dal materiale analizzato affiora con insistenza l’immagine di una realtà di piccole dimensioni, caratterizzata però da consistenti risorse e da buoni indicatori di salute. nonostante il sostanziale benessere di un servizio sanitario come quello trentino, le nuove marginalità, i nuovi bisogni e le nuove opportunità che quotidianamente emergono in ambito medico pongono non pochi problemi di equità nella salute e nell’accesso ai servizi sanitari.

Ci si chiede dunque se e come sia possibile mantenere elevata la qualità dell’assistenza in un contesto solidaristico e universalistico.

Per poter rispondere a questa domanda è necessario innanzitutto

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che le parti in causa condividano il significato delle parole. Si è potuto rilevare infatti che diverse categorie professionali conferiscono a termini come quello di “assistenza” accezioni semantiche estremamente differenti. Per poter dialogare attorno a uno stesso tema è indispensabile invece partire da categorie di base comuni, in grado di garantire una piena ed efficace comunicazione.

Su questa base si potrebbe ipotizzare l’avvio di un filone di ricerca proprio sul significato trasversale delle parole. Partendo dal tentativo di descrivere il valore semantico attribuito dalle diverse categorie di operatori sanitari ad alcuni termini fondamentali come “assistenza” e “continuità”, si potrebbe arrivare a un’omogeneizzazione del significato delle parole, al fine di costruire un vocabolario comune su cui i professionisti della salute si possano basare per formulare proposte di miglioramento della sanità.

Allo stesso modo sarebbe interessante attuare progetti di ricerca che coinvolgano le nuove marginalità presenti sul territorio: la produzione di un’epidemiologia della marginalità e la conseguente indagine sugli esiti assistenziali nelle persone poste al margine (dall’immigrato al paziente neoplasico terminale) potrebbero costituire un’importante occasione di raccolta di informazioni utili a dare risposte concrete ai nuovi bisogni che la società pone.

Infine sarebbe auspicabile l’attuazione di protocolli di ricerca sul tema dell’informazione e del

consenso. Si potrebbe partire dall’individuazione di alcuni pazienti appartenenti a categorie particolarmente “delicate” (ad esempio, i pazienti che entrano in una sperimentazione), procedere poi con una loro randomizzazione in gruppi, e infine proporre a ciascuno una diversa modalità di consenso, per verificare quale di queste sia più efficace. È possibile infatti che operatori con diverse competenze professionali (ad esempio, un chirurgo e un anestesista) informino il paziente in modo differente; oppure che un’informazione data da un medico assistito da un infermiere sia qualitativamente diversa da quella comunicata dal solo medico; o ancora, che il fatto di concedere o meno del tempo al paziente per riflettere sulle proprie scelte modifichi la sua decisione finale.

Progetti di questo tipo potrebbero contribuire a individuare gli strumenti migliori per raggiungere una dimensione di consenso effettivamente condivisa e informata, evitando che esso si riduca a un mero atto di garanzia legale per l’operatore sanitario.

Tra le proposte formulate dagli operatori sanitari in merito ai possibili temi da trattare nel prossimo ciclo di Dialoghi, vi è in primo luogo l’aspetto della comunicazione tra operatore sanitario e paziente (dal bambino all’anziano), nell’ottica del raggiungimento di una piena condivisione dell’incertezza; in secondo luogo è stata segnalata con frequenza la necessità di approfondire le problematiche relative al pluralismo culturale, con particolare

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attenzione al concetto di malattia e di morte nelle diverse culture e religioni con cui l’operatore viene a contatto.

Segue poi una richiesta di ri­flessione: – sulle medicine alternative e sul

loro rapporto con la medicina ufficiale;

– sul significato dei LEA; – sull’ambiente quale determinante

di salute (ambiente come qualità dell’aria, come posto di lavoro, come qualità della vita...)

– sulle principali fasi della vita del paziente (neonatologia, eutanasia, direttive anticipate), in particolare quelle riguardanti la salute della donna (gravi­danza, interruzione volontaria di gravidanza, procreazione medicalmente assistita, contrac­cezione d’emergenza, RU 486, menopausa...) di cui in parte si è già parlato nei Dialoghi del 2004.

Marco Clerici è medico di Medicina generale Greta Sona è laureata in Scienze Giu­ridiche

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