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Issn: 2036-3109
Praticheterritoriali diriconquistaagricola
In questo numero:
LA RIVISTA DELLA SEZIONE TRENTINODELL’ISTITUTO NAZIONALE DI URBANISTICA
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Editorialedi Bruno Zanon
Agricoltura. Genio Naturale. Terzo Paesaggio.Un'intervista a Gilles Clémenta cura di Emanuela Schir
PRIMA PARTE: LE TEORIE E LE ESPERIENZE
Cibo e paesaggio agrario sono nel suolo, ma il suolo non è nel pianodi Paolo Pileri
Coltivare la città contemporanea.Le sfide dei “paesaggi agrourbani multifunzionali” di Viviana Ferrario
I contadini di montagna e le murature in pietradei terrazzamenti resistonodi Timmi Tillmann e Maruja Salas
Terrazzamenti e innovazione sociale. Il progetto“Adotta un terrazzamento in Canale di Brenta”di Luca Lodatti
SECONDA PARTE: IL LABORATORIO TRENTINO
I «Richiedenti Terra» e le esperienze degli orti urbani in provincia di Trentodi Valentina Merlo
Smuovere le acquedi Luca Bertoldi
Buone pratiche di ri-uso del territorio.L’esperienza della Val di Cembradi Sergio Paolazzi
La plaga agricola lungo l'asta dell'Adige fra Trento e Roveretodi Renzo Micheletti
Hic sunt leones. Terzi paesaggi a Primierodi Gianfranco Bettega
La riconquista agricola come«agricoltura resistente»: l'esperienza della Val di Nondi Oscar Piazzi
La recensione di Chiara Rizzi
La biblioteca dell’urbanista
LA RIVISTA DELLA SEZIONE TRENTINODELL’ISTITUTO NAZIONALE DI URBANISTICA
Urbani
Sentieri Urbanirivista quadrimestrale della Sezione Trentino
dell'Istituto Nazionale di Urbanistica
rivista scientifica riconosciuta dall'Anvur, l'Agenzia per la Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca
anno VI - numero 15dicembre 2014
registrazione presso il Tribunale di Trenton. 1376 del 10.12.2008
Issn 2036-3109
numero monografico“Pratiche territoriali di riconquista agricola”
a cura di Alessandro Franceschini, Sergio Paolazzi e Bruno Zanon
direttore responsabileAlessandro Franceschini
redazioneElisa Coletti, Pietro Degiampietro, Davide Geneletti,
Giuliana Spagnolo, Giovanna Ulrici, Bruno [email protected]
fotografia e sito webLuca Chistè
hanno collaborato a questo numeroLuca Bertoldi, Gianfranco Bettega, Viviana Ferrario,
Luca Lodatti, Valentina Merlo, Renzo Micheletti, Oscar Piazzi, Paolo Pileri, Chiara Rizzi,
Maruja Salas, Emanuela Schir, Timmi Tillmann
progetto graficoProgetto & Immagine s.r.l. - Trento
concessionaria di pubblicitàPublimedia snc
via Filippo Serafini, 1038122 Trento0461.238913
© Tutti i Diritti sono riservati
prezzo di copertina e abbonamentiUna copia € 10 - Abbonamento a 3 numeri € 25
Per abbonarsi a Sentieri Urbani:[email protected]
I testi e le proposte di pubblicazione che pervengonoalla redazione sono presi in considerazione se coerenti
con la struttura dei numeri e sono sottoposti al giudizio di lettori indipendenti.
contattiwww.sentieri-urbani.eu
328.0198754
editoreBi Quattro Editrice
via F. Serafini, 1038122 Trento
Istituto Nazionale di UrbanisticaSezione Trentino
Via Oss Mazzurana, 5438122 Trento
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La società post-industriale nella quale viviamo è segnata da un distacco crescente dalla fonte primaria del nostro sostentamento: la terra. Ci dimentichiamo troppo spesso che dipendiamo dalla natura, in particolare da quella domesticata e trasformata dalle pratiche agricole. Dobbiamo saper guardare quindi al territorio agricolo cogliendone la fragilità e la complessità: è suolo fertile, spazio organizzato per la produzione di cibo e di materie prime, paesaggio ricco di segni e di valori, ambiente ricco di biodiversità prodotta dall'uomo. E' però uno spazio in rapido cambiamento, soggetto a pressioni e a rischi. Il presente numero di Sentieri Urbani è dedicato alle sfide che tali temi pongono alle pratiche di governo del territorio e del paesaggio e che richiedono di sapere tessere nuove relazioni tra abitanti e territorio fertile, ricomponendo filiere produttive e costruendo relazioni di responsabilità.Il numero si apre con una intervista a Gilles Clément, teorico e progettista del paesaggio che si auto-definisce con un termine - “giardiniere” - che intende sottolineare la necessità di “mettere le mani nella terra” per saper costruire gli spazi della biodiversità e della produzione agricola nei quali si possano fondere, dinamicamente, natura e bellezza.La difesa del suolo è il tema centrale del contributo di Paolo Pileri, studioso che da tempo è impegnato in azioni di sensibilizzazione su quello che a stento viene visto come un problema della pianificazione urbanistica: la rapida distruzione dello spazio agricolo. Il rapporto tra città e campagna, tra abitanti e agricoltura viene affrontato da Viviana Ferrario in una prospettiva di multifunzionalità dell'attività agricola, ripercorrendo alcune delle esperienze recenti più innovative. Coltivare
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E D I T O R I A L E
Occhi sul paesaggio,mani nella terra
può essere una possibilità nuova per molte delle situazioni che caratterizzano la città contemporanea, vale a dire i “vuoti”, le “frange”, i molti spazi per i quali spesso l'unica prospettiva affermata è l'edificazione.La costruzione dei campi, nel corso del tempo, ha richiesto pazienti e impegnative operazioni di ridisegno dell'ambiente originario. Nel caso dei versanti terrazzati il suolo coltivabile è stato ricavato dall'aspra morfologia montana mediante poderose opere di scavo e di costruzione di murature di sostegno, creando dei paesaggi straordinari. L'articolo di Timmi Tillman e Maruja Salas racconta l'impegno dell'Alleanza Internazionale dei Paesaggi Terrazzati per tutelare tali sistemi agrari a rischio di degrado e sparizione. Anche in Italia si sta operando in tale direzione e il contributo di Luca Lodatti racconta l'esperienza di recupero dei terrazzamenti nel Canale del Brenta, dalla quale emerge l'esigenza di una nuova alleanza tra città e campagna fondata su reti di cooperazione e scambio, entro “reti corte”.Infine, alcuni contributi sondano le tendenze e le prospettive per il Trentino, ricostruendo delle vicende e delle esperienze di grande interesse. La domanda crescente di orti urbani è affrontata da Valentina Merlo come una occasione importante di avvicinamento degli abitanti della città all'attività agricola, che sollecita una nuova visione del governo dello spazio urbano basata su nuovi momenti di condivisione e di apprendimento. Dare un senso a strutture urbane ingombranti è la scommessa affrontata da Luca Bertoldi con una proposta progettuale nella quale verifica la possibilità di creare degli orti urbani sulla copertura dell'autosilo di via Petrarca a Trento.La lettura del cambiamento epocale vissuto dal territorio montano viene svolta da Sergio Paolazzi, che descrive le dinamiche della valle di Cembra, e da Gianfranco Bettega, che si occupa del Primiero. Le questioni affrontate sono cruciali, in quanto riguardano il rapporto stesso delle comunità locali con il proprio
spazio di vita, in una fase che vede un distacco crescente con l'ambiente – meglio il suolo - che ha costituito per secoli la fonte di vita e di produzione di materie prime per la popolazione insediata. La scommessa è di stabilire nuovi legami vitali tra abitanti e ambiente montano, attivando pratiche agricole che producano cibo di qualità e sostengano nuove forme di responsabilità. Le dinamiche dei territori agricoli specializzati sono assai diverse dai casi precedenti. La valle di Non è da tempo indirizzata verso l'agricoltura specializzata del melo, che progressivamente si estende verso quote sempre più elevate. Oscar Piazzi analizza il processo di permanenza dell'attività agricola in tale contesto, che vede da un lato i rischi della specializzazione e, dall'altro, la spinta – in particolare nell'alta valle – alla conservazione delle forme agricole tradizionali.Il fondovalle dell'Adige, percepito ora come luogo privilegiato dell'agricoltura e dell'urbanizzazione, è stato costruito in tempi recenti mediante opere impegnative di rettifica e di regimazione dei corsi d'acqua. Nel corso degli ultimi decenni l'orientamento verso alcune produzioni di mercato - in particolare la coltivazione del melo e della vite – ha rafforzato l'agricoltura ma ha evidenziato come si tratti di un territorio fragile e soggetto a pressioni a causa dell'estensione delle aree urbane e della realizzazione di nuove infrastrutture. Renzo Micheletti propone una analisi della “plaga agricola” tra Trento e Rovereto ed espone il percorso in atto per una crescita di consapevolezza dei valori in gioco e dei rischi di degrado costruendo una coalizione di amministrazioni e esponenti dei diversi settori coinvolti. Anche in questo caso, il paesaggio agrario dovrà costituire una sintesi coerente e qualificata di storia, attività umane, legami responsabili degli abitanti con il proprio territorio.
Bruno ZanonVice Presidente dell'Inu del Trentino
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AGRICOLTURAGENIO NATURALETERZO PAESAGGIOI Gilles Clément ntervista a
A cura di Emanuela Schir
Gilles Clément (1943) è docente presso l'Ecole national supérieure du paysage di Versailles.
Tra i suoi scritti si ricordano «Manifesto del terzo paesaggio» (2005) e «Ho costruito una casa da giardiniere» (2014).
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Professore, La definiscono, agronomo, botanico,
paesaggista, ma Lei preferisce essere chiamato
giardiniere e, secondo quanto Lei afferma in
“Sagesse du jardinier”, è forte la differenza fra
progettista ideatore e giardiniere. Vista la Sua
produzione scientifica sui temi del paesaggio, non
è forse una contraddizione? È sempre dello stesso
avviso?
Innanzitutto mi considero giardiniere perché ho un
giardino e spesso ho le mani nella terra. Questo è
molto importante perché è proprio a partire da tale
esperienza che ho maturato certe posizioni in
rapporto alla vita, al futuro e alle azioni da compiere.
Il mio lavoro è molto legato al giardino perché lavoro
con la durata nel tempo ancor più che nel lavoro
tradizionale di paesaggista. A differenza dei
paesaggisti e degli architetti, che concludono la
propria responsabilità di progettisti con la direzione
dei lavori, io lavoro “con” il tempo. La seconda
ragione è che in quanto paesaggista privilegio la
dimensione del vivente. Ci sono dei paesaggisti che
tendono a privilegiare la dimensione architettonica
dello spazio, aspetto che faccio passare in secondo
piano, così come l'estetica. Certamente lo spazio che
realizziamo deve essere gradevole, ci si deve sentire
bene, felici al suo interno; quindi l'estetica e la
costruzione architettonica hanno comunque molta
importanza. Ma antepongo a tutto questo la
dimensione del vivente cioè faccio in modo che la
diversità, la gestione nel corso del tempo sia ben
evidente e regolata dall'équipe di giardinieri. E che si
possa mantenere una qualità del vivente nel tempo.
Ecco perché preferisco definirmi giardiniere.
Come definisce i termini giardino, paesaggio e
“genio naturale”? Quali sono, se ci sono, le
differenze e le connessioni?
Comincio dal concetto di paesaggio. Esso è legato
all'individuo e alla sua soggettività. È tutto ciò che si
trova sotto il nostro sguardo. Per i non vedenti il
paesaggio è tutto ciò che si percepisce attraverso gli
altri sensi. Noi vedenti privilegiamo però la vista. È
comunque ciò che coinvolge i nostri sensi nella loro
interezza e nella loro diversità. È perciò la nostra
sensibilità che viene chiamata in causa e anche la
nostra cultura. Se mostro a venti persone la stessa
immagine di paesaggio, avrò venti risposte
differenti. Ci potranno essere delle risposte concordi,
delle sovrapposizioni, ma questo è raro. In realtà
sulla questione del paesaggio è l'individuo in tutta la
sua percezione che risponde; quindi il paesaggio è un
tema soggettivo. Non è un caso che i primi
paesaggisti fossero dei pittori che rappresentavano
quello che percepivano. Il giardino è altra cosa. Il
giardino è un sogno, è un luogo dove l'uomo è in
totale libertà e in un recinto, in un perimetro. Il
termine stesso giardino vuol dire recinto e paradiso.
È nel cuore stesso di questo giardino che l'uomo
costruisce qualcosa che destina essere migliore, più
importante e che andrà poi a proteggere. In un certo
qual modo lo stile del giardino racconta questo:
esprime l'idea di quel qualcosa di migliore rispetto
all'epoca in cui è stato concepito. Certamente l'idea
di “migliore” cambia nel corso del tempo ed ecco
perché cambiano la forma e il messaggio che il
giardino porta in sé: dal giardino arabo, al giardino
romantico fino a quello dei nostri giorni. È quindi un
luogo molto particolare perché è portatore di un
“Mi considero giardiniere perché ho un giardino e spesso ho le
mani nella terra. Questo è molto importante perché è proprio
a partire da tale esperienza che ho maturato certe posizioni in
rapporto alla vita, al futuro e alle azioni da compiere”
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messaggio, ha una carica culturale che traduce
l'evoluzione del pensiero nel corso della storia. Il
“genio naturale” è indipendente dal paesaggio,
perché questo è soggettivo; è indipendente dal
giardino nella sua valenza culturale, ma è legato ad
esso attraverso la vita e la diversità. Il genio naturale
è tutto ciò che la natura ha realizzato nel corso di
milioni e milioni di anni, molto prima che l'uomo
fosse sulla Terra. Realizzato per vivere, per
sopravvivere, per inventare dei sistemi ogni volta
nuovi per rispondere alle pressioni dell'ambiente e
per potersi adattare ai continui e traumatici
cambiamenti. È qualcosa di dinamico, inscritto nella
fisiologia e nel metabolismo delle piante e degli
animali, con molta precisione e complessità.
È possibile, in questa fase di crisi economica in cui
sostenibilità e decrescita sono le parole d'ordine,
ripristinare nei terreni incolti, nelle frange urbane,
l'agricoltura a piccola scala? Quali sono, in
quest'ottica, i compromessi per mantenere
comunque continuità di “terzo paesaggio”?
Abbiamo sempre interesse a mantenere una parte
importante di “terzo paesaggio”, in particolare sotto
forma di potere biologico per tutte le differenti
specie. Tuttavia dal mio punto di vista i problemi più
gravi sono quelli legati all'espansione delle città,
all'impermeabilizzazione del suolo a scapito dei
terreni coltivabili che oggi vengono abbandonati per
realizzare delle lottizzazioni che occupano
un'enormità di spazio. Si tratta di una obliterazione
del suolo che va a discapito della produzione della
diversità. D'altro canto esiste un movimento opposto
legato alla reintroduzione delle produzioni agricole e
orticole ai margini della città e a volte all'interno delle
città. Sono dei piccoli spazi modesti, ma davvero
importanti dal punto di vista simbolico, dei giardini
suddivisi dove esiste la produzione di diversità. Vi
sono delle vere e proprie liste di attesa per poter
avere questi appezzamenti in cui poter coltivare e
fare giardinaggio. Questo tema oggi è molto
complesso. Il problema demografico è immediato;
solo che è tabù e purtroppo non se ne parla mai.
In questa prospettiva di ritorno alla terra c'è
bisogno di nuove competenze, nuovi strumenti,
nuove tecniche per la coltivazione?
L'evoluzione verso la quale dovremmo mirare dal
punto di vista strettamente pratico, e qui parlo in
quanto giardiniere, sarebbe quella di utilizzare
tecniche e materiali adeguati al luogo, in un contesto
di agricoltura e orticoltura completamente
biologiche.
Per il momento quello a cui assistiamo è che le grandi
lobby di produzione di macchinari e strutture sono
molto potenti e impongono sistematicamente
culture e sfruttamento dei suoli con superfici di
terreno di dimensioni considerevoli a scapito dei
piccoli appezzamenti. Nelle città oggi viene fatto un
nuovo censimento delle superfici di “terzo
paesaggio”, ponendosi il problema se queste
superfici non possano essere utilizzabili per la
produzione frutticola o l'agriturismo o per
l'orticultura. Ci si deve confrontare con una questione
pratica e tecnica che dal mio punto di vista può
essere risolta molto semplicemente ma con
strumenti che non sono così facilmente reperibili sul
mercato.
Convertendo questi piccoli appezzamenti
all'agricoltura, non si rischia di frammentare
ulteriormente o addirittura sopprimere il “terzo
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“Dal mio punto di vista i problemi più gravi sono quelli legati
all'espansione delle città, all'impermeabilizzazione del suolo a
scapito dei terreni coltivabili che oggi vengono abbandonati per
realizzare delle lottizzazioni che occupano un'enormità di spazio”
paesaggio”, così prezioso per la biodiversità?
Non si tratta di sopprimere completamente il “terzo
paesaggio”. In quest'ottica bisogna fare molta
attenzione e sono tre le proposte che facciamo
attraverso i nostri studi. In certi contesti può essere
più pratico, più redditizio fare della produzione
agricola, orticola. In altri invece è meglio fare una
semplice gestione di giardino in movimento, creare
un percorso, una promenade qualcosa che non sia
uno sfruttamento del suolo in modo da
salvaguardare una diversità naturale importante. Vi è
poi infine la terza categoria, per la quale diciamo non
si debba fare assolutamente niente, perché quel
terreno è prezioso per accogliere la diversità. Si tratta
quindi di fare una sorta di perizia sui terreni prima di
decidere di quali parti di terzo paesaggio stiamo
parlando e quali vogliamo utilizzare. La seconda cosa
da considerare è che, se la parte coltivata di “terzo
paesaggio” è sottoposta a coltivazione biologica, i
rischi della distruzione e della devastazione della
diversità sono enormemente diminuiti rispetto alla
coltivazione “tradizionale” per il non utilizzo di veleni
e prodotti chimici che costituiscono il più alto
potenziale di distruzione della diversità. Se si coltiva
con agricoltura biologica o biodinamica riusciamo a
mantenere una diversità anche nello sfruttamento
del terreno.
Vi sono conflitti fra differenti competenze.
Abbiamo appreso che il paesaggio non è un vuoto.
Gli urbanisti e gli architetti vedendo dei terreni
incolti pensano si debba “riempire il vuoto”. È
difficile comunicare che si tratta invece di un pieno,
di “genio naturale”.
Certo, qui stiamo affrontando la questione del
modello culturale. Oggi ci troviamo obbligati a
cambiare il modello culturale e questa è una delle
cose più lunghe e difficili da attuarsi. È molto facile
cambiare le tecniche, utilizzare un nuovo strumento,
una nuova macchina performante, ma è molto
difficile cambiare il modo di pensare. Oggi non esiste
un insegnamento appropriato nelle scuole, a partire
dalle scuole primarie fino liceo. Si dimentica
l'apprendimento delle scienze della natura, che si fa
un po' quando si è piccoli, nelle prime classi, e poi
non si fa altro. Non è immediata la comprensione
della ricchezza e della complessità del “terzo
paesaggio”. Molti non ne hanno alcuna idea e a volte
lo considerano come qualcosa di brutto, da
distruggere, pieno di erbacce. Vi è una strategia della
paura che è molto forte, secondo cui bisogna
combattere la natura perché è pericolosa, veicola
dei virus, delle malattie. E così l'urbanista, che non
ha alcuna formazione su questi temi, avrà la
tendenza, come tanti altri, a dire: “Ecco un terreno
che non serve a nulla: bisogna costruirci sopra”. È
logico. Quindi tutto si gioca sulla questione della
conoscenza. In un governo ideale, se per caso
esisterà un giorno, il mio primo Ministero sarà quello
della conoscenza, con la possibilità per ognuno di
capire dove vive, cioè conoscere le piante, gli
animali, i fiumi, l'acqua, su quale pianeta siamo tutti.
E condividiamo la stessa acqua e abbiamo ogni
interesse a che si mantenga pura. Cos'è l'ecologia,
come viene insegnata: è qui che trovo una grande
contraddizione fra le questioni sviluppate oggi quali
quella del “terzo paesaggio”, della sua ricchezza, e
dall'altro lato le pressioni per la costruzione, per
incremento demografico, per l'espansione delle città
che tende ad intaccare senza alcuna remora quei
luoghi vuoti. Quei luoghi preziosi da salvaguardare.
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“In certi contesti può essere più redditizio fare della produzione
agricola. In altri, la semplice gestione di un ambiente con una
diversità naturale importante. In altri ancora, infine, meglio non
fare assolutamente niente, perché quel terreno è prezioso per
accogliere la diversità”
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LE TEORIE E LE ESPERIENZE
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Cibo e paesaggioagrario sono nel suolo,ma il suolo non ènel piano
di Paolo Pileri*
Antefatto (per non dimenticare che la città
deve la sua nascita all'agricoltura)
Prima di inoltrarci in una riflessione sull'uso e
abuso delle terre agricole e quindi sulle nostre
responsabilità e sul ruolo dell'urbanistica di
oggi, ci pare molto opportuno proporre due
testimonianze di due autori che possono sem-
brare 'laterali' rispetto alla bibliografia urbani-
stica tradizionale, eppur capaci di fissare in
modo efficace due 'fatti' che possiamo pren-
dere come i margini di una possibile cornice
entro la quale proveremo a muovere la rifles-
sione seguente. Due fatti che pongono due
imprescindibili questioni che dobbiamo avere
chiaro perché danno forma e peso a ciò che noi
oggi stiamo facendo o non facendo per la tute-
la del suolo. Se le tralasciamo, il rischio è di
alleggerire di molto la responsabilità che
abbiamo o che dovremo avere. Già perché, lo
dico fin da ora, la tutela del suolo italico, come
lo chiamava Luigi Einaudi, è il massimo compi-
to civile di un popolo¹.
I due autori che si incontrano qui probabilmen-
te per la prima volta, sono Hansjörg Küster,
tedesco, classe 1956, geobotanico e studioso
di paesaggio e Andrea Zanzotto, veneto, clas-
se 1921, poeta e saggista che ha scritto pagine
molto profonde sulla trasformazione del terri-
torio.
Partiamo con Küster. Nella sua Piccola storia
del paesaggio, egli ripercorre passo dopo passo
le tappe cruciali della storia del rapporto tra
paesaggio, uomo e città, sapendo che il primo
è un delicato sovrapporsi e intrecciarsi di azioni
prodotte dal secondo. In particolare è
all'agricoltura che Küster riserva un ruolo deci-
sivo nella formazione dei paesaggi.
«La coltivazione delle piante ad opera dell'uomo
è stata una delle più importanti, se non addirit-
tura la più importante innovazione dell'uman-
ità. In seguito, infatti, grazie ad esssa, l'ali-
mentazione umana ha avuto basi stabili. Non
potendo abbandonare i campi durante il periodo
di crescita dei cereali e delle altre piante coltiva-
te, gli uomini sono diventati sedentari. E così, sot-
to l'influenza dell'agricoltura, si sono formati
paesaggi di un tipo completamente nuovo.²»
Questo paesaggio di tipo completamente nuo-
vo, lo ricordiamo, era (ed è ancora a tratti) fatto
di campi coltivati corredati dai segni
dell'irreggimentazione delle acque irrigue, di
strade e sentieri, di siepi e filari, di nuove archi-
tetture rurali. Ma con questo racconto Küster
mette ordine alla sequenza storica svelandoci
LE TEORIE E LE ESPERIENZE1
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*Paolo Pileri professore associato di pianificazione territoriale ambientale DAStU, Politecnico di Milano
«Dobbiamo derivare i nostri principi dal mondo naturale,incuranti della derisione e riaffermare la sua validità negata»(Vaclav Havel, 1984, trad it. 2014)
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che la nascita della città avviene dopo e grazie a
quella della scoperta dell'addomesti-camento
di semi e animali. Solo allora l'uomo si è ferma-
to, ha interrotto quel peregrinare continuo e fati-
coso tra un paesaggio e l'altro alla ricerca di
cibo. Un peregrinare che lo sradicava di conti-
nuo esponendolo ad altissimi rischi di sopravvi-
venza. Quell'uomo sarebbe probabilmente
estinto. Non sarebbe certo giunto a costituire 'la
società', ad occuparsi di cultura, a pensare a
diritti e doveri, alla legge, all'organizzazione dei
ruoli, alla polis. Solo arrestandosi, ha potuto
dedicarsi all'umanità. Con quell'atto di com-
prensione della natura e di alleanza con essa,
alleanza agricola, egli ha potuto generare la cit-
tà che abbiamo visto nella storia, quella che
ancora vediamo e abitiamo oggi. La città esiste
grazie all'agricoltura. È stata concepita nel cam-
po. Lì la nostra storia umana ha le radici.
Ed è proprio con questa parola, radice, che ora
facciamo un lungo salto storico precipitando, in
compagnia di Andrea Zanzotto, nei giorni
nostri. In una recente raccolta di scritti, Luoghi e
paesaggi, ad un certo punto Zanzotto, indigna-
to per il trattamento che l'uomo riserva al 'suo'
amatissimo Veneto, da lui 'usato' più e più volte
come laboratorio simbolico per riflettere critica-
mente sul rapporto generale tra uomo e pae-
saggio, riflette proprio su quella che lui, illuden-
dosi, credeva fosse un'alleanza infrangibile tra
uomo e natura, un rapporto di muta e amorosa
comprensione che, invece, si schianta sul duro
cemento.
«A conti fatti, posso dire di essermi parzialmente
illuso. Non si è trattato di due realtà in accresci-
mento reciproco, ma di un rapporto unidirezionale
di prevaricazione; tantomeno si può parlare di un
vero e proprio “dialogo”, relativamente al tragico
scempio della natura commesso dall'uomo in
quest'ultimo quarantennio, ma di una monolo-
gante e allucinata sequela di insulti. Il male da cui
ha avuto origine “questo” uomo dipende proprio
dall'essersi volontariamente sradicato dalle pro-
prie origini, dall'essersi gettato in spregiudicata
balìa del dogma capitalistico, inabissato nella mel-
ma di una superfetazione di minime-massime vio-
lenze che trovano un'esclusiva giustificazione nel-
la cruda meschinità di interessi particolaristici.³»
Stando a Zanzotto, l'uomo ha quindi compiuto
volontariamente un atto di rottura con
quell'alleanza (agricola/naturale) strategica che
Küster ci aveva ricordato poco fa, decidendo
di rinnegare se stesso per gettarsi in altre brac-
cia. Affiancare queste due tracce, quella di
Küster e di Zanzotto, ci disvela alcune chiavi
secondo me cruciali per poter capire non solo
cosa oggi non funziona producendo i guasti
che diremo, ma anche che ciò che si compie
continuamente con il consumo di suolo, speci-
ficatamente quello agricolo, non viene 'visto'
come grave dagli occhi della maggioranza dei
cittadini, degli urbanisti e dei governanti per-
ché, tra l'immagine di ciò che vedono e il pen-
siero che quell'immagine forma, vi è un poten-
te filtro percettivo intriso di una sempre più
grande rimozione culturale, originata da quel-
lo sradicamento volontario, che ci continua a
nascondere la comprensione degli effetti di
quanto si sta facendo, che ci alleggerisce la
responsabilità delle nostre azioni e che ci ha
convinto a considerare giusto, buono, neces-
sario e, soprattutto, senza limitazioni, il consu-
mo di suolo ovvero lo svilimento del paesag-
gio e della nostra storia proprio poggiata su
quell'antica alleanza tra noi e la natura che, a
ben sentire le alluvioni, le piogge, le frane, gli
innalzamenti di temperatura, non è affatto
muta. Sordi, siamo noi.
Questo antefatto ci consente di dare densità a
quanto ora diremo, ma soprattutto di farci
comprendere che i numeri del consumo di suo-
lo non sono solo gravi in quanto sono cifre
'grandi', ma in quanto sono indicatori crudeli di
quella rimozione e di una cultura di attenzione
al suolo che manca nella testa dell'urbanista e
che oggi è un'assenza della quale, egli prima di
altri ma insieme ai governanti con cui egli deci-
de dell'uso dei suoli, deve dare conto.
Il suolo che urbanista e politico non cono-
scono è vitale per noi e l'ambiente.
Si parla di consumi di suolo ma non altrettanto
di suolo. Insomma si parla della malattia senza
conoscere chi è il malato. E qui sta un vulnus
non indifferente anche dei tentativi di norma-
zione che si stanno facendo.
Innanzitutto il suolo è una risorsa naturale,
non rinnovabile, capace di erogare servizi e
benefici e base del nostro paesaggio. La legge
italiana non riesce ancora a riconoscere tutto
ciò al suolo nonostante nel marzo 2014 abbia
fatto un passo decisivo in avanti rimuovendo
la definizione errata del testo unico ambienta-
le⁴. Ora il suolo è “lo strato più superficiale della
crosta terrestre situato tra il substrato roccioso e
la superficie. Il suolo è costituito da componenti
minerali, materia organica, acqua, aria e organi-
smi viventi” (D.lgs. 46/2014 art. 1 comma v-
quater). Una definizione formalmente corret-
ta ma 'neutra' e comunque ancora distante dal
riconoscere qualcosa che è ben di più di questo
strato, tutto sommato inerte e morto. Il suolo
è il sistema senza dubbio più complesso della
Terra⁵ ed è vivo. Il tutto è concentrato in una
pellicola sottile, più o meno alta 1-2 metri: è
quello lo strato vitale, non più sotto. È costitui-
to da argilla, sabbie e limo, ma soprattutto da
materia organica ovvero da carbonio,
l'elemento della vita. Nel suolo c'è vita e si chiu-
de/apre il ciclo del carbonio. Milioni di organi-
smi viventi vi lavorano per generare quell'hu-
mus che è la base della alimentazione vegeta-
le ovvero del nostro cibo. Il 30% della biodiver-
sità del pianeta sta sotto i nostri piedi. Migliaia
di eccipienti alla base dei farmaci che ci curano
nascono nel laboratorio biochimico che è il suo-
lo. Il suolo non urbanizzato è un regolare fon-
damentale per bilancio dei gas atmosferici.
Stocca molta più CO della vegetazione e i 2
cambi d'uso del suolo contribuiscono per il
20% circa al bilancio emissivo di CO . Il suolo è 2
una gigantesca spugna che trattiene fino a 3,8
milioni di litri di pioggia per ettaro. Questo spie-
ga facilmente perché continuando a cementi-
ficare la quantità d'acqua esondabile è sempre
maggiore. Ecco tutto questo non è noto né
all'urbanista nè al governante o, comunque,
non lo ritengono così importante da condizio-
nare le scelte urbanistiche in fase di progetto
di piano. Per loro il suolo è una base, un'area
senza alcuna profondità, senza funzioni. Una
superficie da usare, anzi da valorizzare. Soprat-
tutto questo è il termine che trafigge la storia
della pianificazione territoriale attraversando-
la da oltre sessant'anni. Produrre valore è il pri-
mo dei comandamenti, dove il termine valore
è ridotto alla sua sola dimensione monetaria e
per di più circoscritta prevalentemente alla sfe-
ra dell'interesse privato o di pochi privati. Il suo-
lo, con i suoi servizi ecosistemici, produce inve-
ce beni per tutti, anche per coloro che non
sono proprietari di quel suolo⁶. Per questo la
regolazione dell'uso dei suoli privati è vitale in
democrazia e non può non tener conto delle
caratteristiche intrinseche di questa risorsa
ovvero del fatto che essa è un corpo vivo e che
dà vita e non una tavola morta su cui appog-
16
giare di tutto. Per l'urbanistica il valore è stato
sempre la rendita fondiaria, il cosiddetto gua-
dagno immeritato per gli inglesi, il virus più
letale del consumo di suolo.
Ma quanto suolo si consuma?
In Europa. Ogni anno poco meno dell'equiva-
lente di una città come Berlino, 252 ettari, vie-
ne urbanizzata⁷, sigillando suolo che prima
era agricolo o naturale. Si tratta di un valore
elevato eppur inferiore di quello che è real-
mente in quanto la base dati geografica ori-
ginale (Corine Land Cover) non è in grado di
cogliere le trasformazioni più molecolari e
fini che sono parecchie ad esempio in un con-
testo urbanizzato come il nostro.
In Italia. Oggi il dato ufficiale di consumo di
suolo nazionale è quello decretato
dall'agenzia ambientale nazionale – ISPRA: 2circa 8 m /sec ovvero 70 ha/giorno⁸ di cui un
quinto o più probabilmente concentrato in
Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna,
Veneto e Friuli⁹. Si tratta di una cifra rilevante
che peraltro rischia di essere anche sottosti-
mata. Con questa rapidità, il suolo pianeg-
giante italiano non urbanizzato¹⁰, che
assomma tra i 6 e i 6,5 milioni di ettari a
seconda che si escludano o includano le aree
lacuali e fluviali, sparirebbe sotto il cemento
in poco più di 230 anni. Ma la morte soprag-
giungerebbe molto molto prima, venendo a
mancare superficie agricola sufficiente alla
produzione di cibo, i boschi spariti sconvolge-
rebbero il microclima e inquinanti e rifiuti si
impadronirebbero di ciò che è restato del suo-
lo. 100 anni? 150? Lo scenario da qualsiasi par-
te lo si guardi è terribile.
Nelle regioni. Scandalosamente, non esiste
un dato di consumo per ogni regione italiana.
Lo Stato non lo richiede, poche regioni lo cal-
colano. Se non si sa nulla, il problema scom-
pare da sé, avrà pensato qualcuno. Ci si deve
accontentare solo di qualche dato e spesso
vecchio. In Lombardia la cementificazione
dei suoli tra il 1999 e il 2007 si è attestata
attorno a circa 12 ettari al giorno¹¹, oltre il
10% del consumo nazionale. In Veneto, dove
non è disponibile una banca dati efficiente
sugli usi del suolo a più soglie temporali, si
può prendere a riferimento il valore dichiara-
to dalla stessa regione in un disegno di legge
sul suolo¹²: 180.000 ettari agricoli cementifi-
cati negli ultimi 40 anni (il dato è peraltro alli-
neato ai risultati di ricerca di Tiziano Tempe-
sta¹³, secondo il quale tra il 1970 e il 2010, limi-
tatamente al territorio di pianura e di collina
sono stati persi 151.783 ettari di suolo agrario,
pari a 3.794,6 ha/anno ovvero 10,4 etta-
ri/giorno). Tra il 2003 e il 2008, in Emilia Roma-
gna sono stati urbanizzati 15.445 ettari pari a
8,4 ettari al giorno e in Sardegna 11.642 ettari
ovvero 6,3 al giorno¹⁴. Consumi che non sono
spiegabili con il trend di aumento della popo-
lazione in nessun caso. Numeri pesanti che
sono ancor più pesanti in termini di aree agri-
cole perse visto che questa non vengono solo
'mangiate' dall'urbanizzazione ma anche dai
boschi quando le aziende agricole muoiono.
Suolo e cibo. Consumo di suolo, perdita di
sovranità alimentare.
Tra i diversi effetti ambientali del consumo di
suolo, quello del consumo dei suoli agrari è par-
ticolarmente grave e pericoloso. La produzio-
ne di cibo è forse il più importante dei benefici
generati dal suolo in quanto servizio ecosiste-
mico. Produrre cibo è un atto importante per
un popolo. Paolo Maddalena, attraverso le
parole di Giuseppe De Marzo, ricorda che sono
tre le fondamentali sovranità su cui si regge
uno Stato democratico: la sovranità moneta-
ria, la sovranità energetica e la sovranità ali-
mentare¹⁵. La sovranità, ricordiamolo, attiene
alla possibilità per gli Stati come per le comu-
nità locali di decidere autonomamente cosa
produrre, di scegliere metodi di coltivazione
sostenibili e rispettosi dell'ambiente e delle tra-
dizioni locali, di decidere su quali mercati e a
quali destinatari indirizzare gli alimenti. E tutto
ciò a sua volta si basa su un altro principio fon-
damentale che è quello della sicurezza secon-
do il quale tutte le persone, in ogni momento,
devono poter aver garantito l'accesso fisico,
sociale ed economico ad alimenti sufficienti,
sicuri e nutrienti che garantiscano le loro
necessità e preferenze alimentari per condur-
re una vita attiva e sana¹⁶. Ma sovranità e sicu-
rezza alimentare quale posizione occupano
nell'agenda delle politiche territoriali?
Il consumo di suolo agrario è un attacco alla
sovranità e alla sicurezza alimentari
Tra il 1990 e il 2006 i 19 paesi membri UE han-
no cementificato terreni agricoli contraendo la
loro produzione interna di un equivalente di
oltre 6,1 milioni di tonnellate di frumento pari
all'1% della produttività annua europea¹⁷. Per
compensare questa perdita interna, sono sta-
te convertite ad agricoltura (soia, cereali, bar-
babietola da zucchero, etc.) centinaia di
migliaia di ettari naturali e seminaturali (bo-
schi, praterie, etc.) in paesi africani, sud ameri-
cani e nord americani. Cosa c'entra questo con
il consumo di suolo nei nostri comuni italiani?
È semplice. Le ripercussioni del consumo di
suolo si manifestano spesso a una scala diver-
sa da quella su cui lavoriamo e che dominia-
mo, arrivando a mettere a rischio persino i già
precari rapporti internazionali tra Paesi.
Abbiamo spesso pensato che l'urbanizzazione
sottraesse terre agricole solo nei cosiddetti
paesi in via di sviluppo, invece è una questio-
ne¹⁸ che riguarda noi e la nostra responsabilità
qui. L'Egitto, nostro fornitore di grano, già nel
luglio 2013 era in forte sofferenza per incapaci-
tà a soddisfare la domanda interna di grano.
Possiamo continuare a permetterci di cemen-
tificare i terreni più agricoli del mondo (la pia-
nura padana) e mettere a repentaglio equilibri
di pace internazionali sottraendo il cibo a popo-
li più affamati di noi? La distanza tra la decisio-
ne urbanistica del sindaco del comune più pic-
colo di Italia e una crisi internazionale è molto
più corta di quella che lui e noi crediamo. Que-
sto orizzonte di responsabilità è nuovo per
l'urbanistica, ed è questa la prospettiva che
oggi deve mettere a soqquadro le scale ammi-
nistrative sulle quali l'urbanistica ha sempre
preso le decisioni d'uso dei suoli. Il modello di
governo che abbiamo ereditato dal passato, e
tenuto stretto, scricchiola sotto i colpi del
cemento. Non possiamo più tenere separate
le questioni agricola e ambientale da quella
urbanistica.
L'introduzione dei concetti di sovranità e sicu-
rezza alimentari esplicitano un nuovo e più
stringente limite alla crescita urbana. L'idea di
progetto deve cambiare e con essa anche le
regolazioni e le politiche urbanistiche. I profili
di legittimità riconosciuti al proprietario priva-
to nel trasformare il proprio suolo sono insuffi-
cienti davanti a un cambio di scala e a una plu-
ralità di questioni di interesse comune connes-
si all'uso del suolo. Pure la piccola dimensione
della decisione locale che non si confronta con
i grandi temi e le vaste geografie a cui è legata
è un limite che produce errori e sottovaluta-
zioni. Non è certo l'illusione di un processo di
piano a metterci al riparo dagli effetti, anzi
17
paradossalmente potrebbe sortire l'effetto
opposto.
L'irreversibilità delle trasformazioni urbanistiche
e il fatto che stiamo vivendo oltre i limiti del pos-
sibile devono essere molto chiari all'urbanista
come al politico locale che hanno la responsabi-
lità del piano. Ogni diminuzione di produttività
agricola locale, per sommatoria, va a diminuire
l'autosos-tenibilità alimentare dell'intero Paese,
minacciando proprio la sicurezza alimentare glo-
bale.
Torniamo quindi alle cifre del consumo che ci
aiutano a comprendere la dimensione dei pro-
blemi che abbiamo introdotto. Analizziamo due
questioni. La prima è attinente la relazione tra
produzione di cibo e consumo di suolo, mentre
la seconda tra dimensione amministrativa e con-
sumo di suolo agrario.
Consumo di suolo e produzione di cibo
Attraverso una semplice equivalenza, pur se
incorpora in sé semplificazioni, si riesce a rap-
presentare criticamente il legame complesso
tra urbanizzazione, suoli agrari, produzione di
cibo e diritto alla alimentazione. Infatti un etta-
ro di campo agricolo italiano mediamente forni-
sce cibo a circa 6 persone all'anno¹⁹ con un equi-
librio di input/output energetico accettabile e
rispettando i valori del suolo per il futuro.
Questo parametro rappresenta bene la delica-
tezza del suolo agrario e, di riflesso, la nostra vul-
nerabilità in quanto destinatari di quel cibo. Per
aumentare la produttività occorrerebbe versare
sul suolo una quantità di energia sotto forma di
prodotti chimici e azioni meccaniche che mette
in crisi l'efficienza del sistema, oltre a degradar-
lo in modo grave compromettendone la sua fun-
zione nel tempo. Visto dal lato della produttivi-
tà, ogni urbanizzazione va a sottrarre per sem-
pre un potenziale di quantità di cibo. Se vedessi-
mo le cose dal lato del cibo e non del cemento,
potremmo dire che, in via teorica, ogni nuova
urbanizzazione che sostituisce un campo agri-
colo, equivale a proporre a un certo numero di
persone di non mangiare più. Non solo, ogni
ettaro di suolo cementificato che smette di for-
nire cibo, inizia a domandare cibo per i nuovi abi-
tanti che lì vi vengono insediati. Questo scena-
rio, pur ipotetico, inizia a divenire seriamente
problematico quando si considera, appunto, la
variabile 'sovranità alimentare' e, ancor più,
quando la capacità di produzione alimentare di
un paese è già inferiore al numero di bocche da
sfamare, che poi è il caso dell'Italia²⁰. Inedite
responsabilità si stagliano davanti agli occhi di
politica e urbanistica e chiedono subito posi-
zioni alte nell'agenda.
In questo momento non siamo già in grado di
rispondere a tutta la domanda alimentare che
è fatta di fabbisogno interno ma anche di
export (che per il 'made in italy' è un settore cru-
ciale) e, purtroppo, anche di sprechi²¹. Le con-
tinue perdite di terre agricole espongono il
nostro paese ad una sempre maggior dipen-
denza dalle risorse alimentari e agricole estere
e quindi a relativi e possibili condizionamenti²²
che limitano la sovranità politica nazionale.
Ricalcolando con questa lente i consumi di suo-
lo di tre grandi regioni del nord Italia, Piemon-
te, Lombardia e Veneto, si nota che
l'urbanizzazione ha sottratto un potenziale
produttivo agrario, in termine di abitanti ali-
mentabili, molto maggiore dell'incremento
demografico per il quale sono state fatte le tra-
sformazioni del suolo (figura 1). Questo tipo di
calcolo, pur teorico quanto si vuol credere, non
è stato mai fatto in sede di piano. Ed è questo
il fattore probabilmente più preoccupante:
l'ignoranza della questione alla fonte del pro-
cesso urbanistico. Se la pianificazione territo-
riale vuole innovarsi nella direzione della
sostenibilità, non può eludere questa dimen-
sione a meno di essere irresponsabile. È altret-
tanto evidente che prendersi carico di questa
dimensione significa per forza decidere di non
consumare suolo e orientare le energie solo
verso la riqualificazione dei patrimoni esisten-
ti.
Dimensione amministrativa e consumo di suolo
agrario
In molte regioni italiane, la locale legge di
governo del territorio dà piena autonomia
decisionale ai comuni per quanto riguarda la
decisione sull'uso dei suoli. Le funzioni di coor-
dinamento inter-comunale sono deboli e spes-
so facoltative²³, quindi inefficaci. Le politiche
fiscali sono tutte disegnate sul comune, per-
tanto ogni accorpamento o cooperazione fini-
rebbe per produrre svantaggi ad uno dei coo-
peranti, quindi meglio fare da soli. Non vi sono
incentivi determinanti per chi coopera ed evita
consumi di suolo, ma semmai solo mancate
entrate.
La dimensione comunale rimane l'unica geo-
grafia ammessa dal governo del territorio e
per di più senza vincoli di coordinamento a sca-
le intercomunali. Questo, se letto in termini di
consumi di suolo, produce delle distorsioni gra-
vi. Dall'analisi dei dati sui consumi dei suoli
agrari nei comuni della Lombardia distinti per
dimensione demografica, si è visto che il con-
sumo marginale di suolo, ovvero il suolo agra-
rio cementificato per insediare un nuovo abi-
tante, è inversamente proporzionale alla
dimensione del comune (figura 2). Più esso è
piccolo e più spreca suolo agrario a parità di
abitanti insiediati. Tra il 1999 e il 2007, un pic-
colo comune tra i 500 e i 1.000 abitanti ha con-2sumato quasi 4.000 m per dare casa ad un
nuovo abitante, mentre lo stesso abitante con-2sumava 400 m se veniva insediato in un comu-
ne di 50.000 abitanti. Rimane il fatto che in ter-
mini assoluti i grandi comuni hanno consuma-
to più dei piccoli, ma questi sono di gran lunga
più inefficienti.
Il risultato sovverte, almeno in Lombardia, il
luogo comune secondo il quale il piccolo comu-
ne è virtuoso di per sé. D'altronde i difetti
strutturali del governo del territorio degli ulti-
mi venti/trent'anni, come fare cassa con i con-
sumi di suolo, soddisfare le attese di rendita
dei proprietari locali, assicurarsi consensi e
favori, non possono che avere la possibilità di
acuirsi di più negli ambiti più piccoli dove la
prossimità tra decisore, progettista e interessi
privati facilmente si cortocircuitano. I piccoli
comuni sono sicuramente più deboli ed espo-
sti alle pressioni locali e altrettanto più distanti
dalla comprensione dei problemi ambientali e
sociali che le scelte di uso del suolo comporta-
no. È difficile che temi sfidanti a livello globale
come i cambiamenti climatici o la sovranità ali-
mentare trovino nella dimensione micro inter-
locutori che hanno consapevolezza di poter
dare un contributo effettivo con le loro 'picco-
le' decisioni. L'interscalarità di alcune decisioni
ancora sfugge e comunque deve essere un pro-
cesso accompagnato e anticipato da un lavoro
culturale adeguato e capillare.
Evidentemente i temi globali mettono a nudo
alcune inadeguatezze strutturali della nostra
architettura amministrativa. Le questioni
ambientali, di cui l'uso del suolo deve essere
una di queste, non si fermano al confine di nes-
sun comune e richiedono campi di visione più
ampi e complessi e anche conoscenze che non
sempre possiamo pretendere di vedere rap-
presentate ancor più in un piccolo comune.
18
Figura 1 - Stima della perdita di produzione di cibo a seguito dei consumi di suolo in Piemonte, Lombardia e Veneto
Continuare a pensare che l'attuale configura-
zione amministrativa dei poteri urbanistici sia
un'invariante rappresenta un vulnus per
l'ambiente e per noi. Bisogna chiedersi se
oggi, in un periodo in cui le responsabilità
ambientali sono palesi, non debba essere
rimessa in discussione la competenza esclusi-
va dei comuni su materie che hanno ripercus-
sioni e ricadute che vanno ben oltre il confine
amministrativo di competenza di chi decide,
come l'uso del suolo. Se l'acuirsi dei danni, con-
seguenti al peggioramento di risposta del ter-
ritorio agli eventi naturali o ai bisogni primari
come il cibo, non viene visto come
l'opportunità anche per rivedere la sostenibili-
tà di alcune funzioni amministrative e alcune
geografie dell'organizzazione delle decisioni
che oggi non reggono né il cambiamento né le
sfide globali, si perderà un'occasione cruciale
per correggere la deriva in cui versa l'attuale
sistema urbanistico, continuamente aggrap-
pato a schemi vecchi e impermeabile ai temi
sfidanti per il futuro e per la crisi attuale.
Se il suolo è una risorsa ambientale come è, il
suo uso non può essere che riportato ad un
decisore con una capacità di visione per siste-
mi ambientali appropriati e per dimensioni
problematiche di vasta scala. La frammenta-
zione amministrativa e la scomposizione oriz-
zontale delle decisioni continueranno a gene-
rare inefficienze, sprechi, brutture, spesa pub-
blica in un territorio che diverrà sempre più
informe e irriconoscibile. L'urbanizzazione sot-
trae suolo all'agricoltura, senza ritorno.
Se teniamo seriamente in conto gli effetti
sociali e ambientali del consumo di suolo,
dobbiamo immaginare totalmente una
nuova urbanistica.
I ragionamenti e le evidenze fin qui portate per
quanto riguarda il rapporto uso/consumo del
suolo agricolo ed effetti sulla produzione del
cibo sono una prova già sufficientemente pre-
occupante dell'eccesso di insostenibilità che
questo modello urbanistico porta con sé, ripe-
tendo se stesso immutabilmente da anni. La
questione del consumo di suolo va inquadrata
in quella più ampia e strutturata del suolo che, a
sua volta, deve essere ricompresa nella que-
stione ambientale visto che, come detto, il
suolo è a tutti gli effetti non solo una risorsa
ambientale il cui consumo produce effetti
ambientali gravi e spesso irreversibili, ma essa
stessa la risorsa più irriproducibile (per generare
10 cm di suolo occorrono 2000 anni). Del suolo
fatto così, il pensiero urbanistico non si è mai o
troppo poco misurato, se non per bocca di una
minoranza di portavoce. Da questo punto di
vista il piano ha fallito trascinando nel pozzo la
qualità della vita, l'integrità della sovranità
nazionale, la volontà di cambiamento, la capa-
cità di vedere altro e oltre. La politica che si è
occupata di urbanistica non è stata capace di
suscitare questi nuovi immaginari, tenendo i
cittadini di fatto lontani dai temi ambientali e
dalle ricadute di tale s-considerazione.
L'urbanista ha una forte responsabilità in tutto
ciò. Davanti a seri problemi ambientali il suo
atteggiamento è stato spesso inconsistente o
velleitario. La mediazione di interessi è stata
spesso intesa come principio preventivo di pro-
gettazione, e per di più positivo in sé, soffocan-
do sul nascere lo spirito critico con cui riuscire a
comprimere le attese e le spinte di forze che
nulla avevano a che fare con l'interesse genera-
le²⁵. Improbabili strade e operazioni 'cementi-
fere' hanno avuto ampi spazi di azione. I tenta-
tivi di alcuni, pur encomiabili, non sono stati in
grado di modificare la rotta generale. Un
atteggiamento notarile ha spesso prevalso
nella coppia progettisti/amministratori indu-
cendoli sempre più a registrare i desideri dei
privati come richieste non rigettabili per defi-
nizione, in maggior misura quelle dei più forti.
Gli atteggiamenti critici sono stati soffocati
con la derisione o con facili slogan inneggianti
la crescita, l'economia, il bilancio finanziario da
sanare. L'obbedienza al vincolo di mandato
(ovvero al potere politico) o la paura anche
solo a sfiorare gli interessi della rendita e della
speculazione immobiliare²⁶ hanno suggerito a
molti progettisti di inventarsi formule che
rilette dopo le alluvioni o dopo la vista di un
capannone che cerca acquirenti da cinque
anni sono ridicole se non più propriamente
offensive. Suolo, boschi, filari, acque, aria, bel-
lezza sono rimaste comparse mute alle orec-
chie sorde di urbanista e amministratore che
non voglion sentire le loro ragioni, anteponen-
dogli sempre altre questioni, altro. Non si spie-
gherebbero altrimenti gli oltre 41.400 ettari
che i piani urbanistici comunali lombardi si
sono messi in pancia in questi ultimissimi anni
incuranti della crisi²⁷ (il dato riguarda la situa-
zione previsionale così come dichiarata dalla
Regione Lombardia nel 2013 su dati aggiornati
al 2012. Ad oggi Legambiente sostiene siano
addirittura 55.000²⁸). Un dato disaccoppiato
da ogni previsione demografica e che andreb-
Aumento della spesa per la gestione delle reti di drenaggio acque(prendiamo il valore tedesco: 6500 €/ha*anno. Non attualizzo per semplificare. Si tratta di valori monetari al 2013)
PIEMONTE 1991 -2005
-20.000 ettari c.a. (§)Pari a
-1.429 ha/anno -3,9 ha/giorno
Spesa annua incrementale pubblica
prodotta:
6-9,3 milioni di euro/anno
(§) Fonte: piemonteagri.it, 2013
LOMBARDIA 1980-2007
-218.837 ettari c.a. (*)Pari a
-8.105 ha/anno -22,2 ha/giorno
Spesa annua incrementale pubblica
prodotta:
35-53 milioni di euro/anno
(*) Fonte: ERSAF, 2011
VENETO 1970-2006
-151.783 ettari c.a. (^)Pari a
-4.216,2 ha/anno -11,6 ha/giorno
Spesa annua incrementale pubblica
prodotta:
15-27,4 milioni di euro/anno
(^) Fonte: Tempesta, 2013
Questi valori non tengono conto delle spese per il tessuto urbano già esistente, dei maggiori costi dovuti allo Sprawl e degli effetti di cumulo.L’intervallo inferiore della spesa indicata si riferisce alla quota impermeabile del suolo calcolata come il 60-75% della artificiale. La seconda è invece l’artificiale
19
Valore 'outlier'e invertito: per ogni abitante persosono stati consumati14396 m2di suolo agrario
-3902 m2/ab
0
-1.000
-2.000
-3.000
-4.000
1.000
2.000
-1382m2/ab
-785m2/ab -478m2/ab -504m2/ab -475m2/ab -398m2/ab -282m2/ab
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19
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ab
x 1
00
]
(ΔmqAGR/Δab)99-07
ΔPop_1999-2007 (x100)
be a togliere ulteriore produzione alimentare, a
produrre più acqua nei fiumi, più spesa pubblica
e più emissioni di CO . Un fuori scala di questo 2
tipo fatica a trovare spiegazioni se non nella mio-
pia e nell'incapacità di generare modelli diversi e
non asserviti alle solite logiche del profitto e della
rendita (figura 3).
Alla fine dobbiamo renderci conto che forse i ten-
tativi di riforma legislativa che da quasi cinque
anni in Italia vengono rimandati e mai approvati
nascondono una chiara intenzione di non dispo-
nibilità a modificare le condizioni di base in cui
spazia la rendita e l'interesse del cemento. Idem
per il (voluto) fallimento della Valutazione
Ambientale Strategica, pressoché ovunque in
Italia. Stessa cosa la riconosciamo nell'incapacità
del legislatore di annullare quello sciagurato pas-
saggio della legge finanziaria 2005 con il quale si
è data la possibilità ai comuni di utilizzare gli
oneri di urbanizzazione per sostenere la spesa
corrente ovvero qualsiasi spesa. Anche la recen-
te (20 novembre 2014) approvazione da parte
del consiglio regionale lombardo della legge con-
tro il consumo di suolo che rimanda però il divie-
to di consumo a fra 30 mesi nasconde, neppur
troppo bene, il messaggio chiaro di invito a con-
sumare tutto quel che si può e al più presto.
Prendersi cura, subito, della grave situazione
culturale
Qual è allora il filo rosso che attraversa tutto ciò?
Sono tanti i fili rossi e moltissimo è il lavoro da
fare in sede legislativa, professionale, accademi-
ca e politica. Ma è forse la dimensione culturale
oggi ad essere quella più urgente. Urbanista, poli-
tico, studente di architettura e di ingegneria,
valutatore ambientale e cittadino non sanno
cosa è il suolo, non sanno cosa accade se lo si
consuma, non sanno a chi vanno vantaggi e a
chi svantaggi, non sanno che occupazione e
lavoro del futuro non possono stare nel
cemento (se non quello per recuperare).
Manca una cultura sul suolo e mancano le sedi
e le occasioni in cui si spiega e se ne parla. Nei
corsi di architettura e ingegneria di suolo non
si parla (un po' di consumi). Non si parla in Par-
lamento come nel più piccolo dei consigli
comunali.
Tutti sanno che non si può vivere senza il cibo
Figura 2 - Lombardia 1999-2007. Andamento del consumo di suolo agrario pro abitante insediato (linea tratteggiata) in funzione della dimensione demografica dei comuni in Lombardia. Il consumo marginale di suolo è maggiore nei comuni più
24piccoli dove peraltro è stato quasi irrilevante la variazione demografica (linea a punti)
Figura 3 - Variante 2014 al PGT di Casalbuttano (CR). Tratteggiata in rosso è rappresentata la proposta di tangenziale esterna. Si tratta di un classico esempio di proposta di piano che va a sfasciare completamente il paesaggio agrario di frangia, generando consumi di suolo ingenti e permanenti. È questa la responsabilità del piano davanti alla crisi? È questa l'interpretazione della questione agricola?
20
che giunge dal suolo, ma sembrano dimenti-
carsene o non curarsene quando si decide di
cementificare anche un solo metroquadrato di
suolo agrario o, forse, non sono messi in grado
di decidere se accettare un certo modello di
sviluppo che al momento gli viene letteral-
mente imposto, al prezzo della sovranità di
quelle genti.
L'opera culturale può divenire l'energia di base
per «riappropriarsi del nostro territorio e dei gran-
di valori che esso contiene»²⁹ sconfiggendo quel-
la grande rimozione culturale del valore della
terra in quanto bene comune.
Se non possiamo permetterci che si vada avan-
ti a consumare suolo e futuro, ancor meno pos-
siamo permetterci di lasciare che le prossime
generazioni crescano nuovamente
ignoranti di ciò che hanno sotto i piedi.
Sarà loro la responsabilità di tutelare il
prossimo suolo libero, ma nostra, e
ora, quella di iniziare a farlo subito, come subi-
to va spiegato loro fin da piccoli.
1. Einaudi L. (1951), Della servitù della gleba in Italia, in Corriere della Sera, 15 dicembre 19512. Küster H. (2010), Piccola storia del paesaggio, Donzelli, Roma, p. 343. Zanzotto A. (2013), Luoghi e paesaggi, Bompiani, Milano, p. 150 (il brano, inserito nella raccolta, è tratto da un testo pubblicato da Zanzotto nel 2006 con il titolo Sarà (stata) natura?)4. D.lvo 152/2006, art. 54.5. Ritz K. (2008), Soil as a paradigm of a complex system, in Ramsden J.J. e Kervalishvili P.J. (eds.), Complexity and security, IOS press6. La definizione che rende piena giustizia al suolo in quanto risorsa e in quanto elemento che ha diritto ad essere tutelato proprio per le sue molteplici, vitali e preziose funzioni è ancora quella contenuta nella strategia per la protezione del suolo della Unione Europea, che troviamo nei documenti europei COM(2006)232 e COM(2006)231 definitivo - Strategia tematica per la protezione del suolo.7. Commissione Europea, Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l'impermeabilizzazione del suolo, Unione Europea, Lussemburgo, p. 12 (SWD(2012) 101 final/2, disponibile all'indirizzo http://ec.europa.eu/environment/soil/sealing_guidelines.htm)8. Ministero delle politiche agricole e forestali (2012), Costruire il futuro: difendere l'agricoltura dalla cementi-ficazione. Munafò M. (2013), La misurazione del consumo di suolo a scala nazionale, in ilProgettosostenibile n. 33/2013, Edicom Edizioni, Gorizia. 9. Arcidiacono A. et alii (2010, a cura di), Rapporto CRCS 2010, INUedizioni, Roma10. In Italia la superficie artificiale, di cui quella urbana è il sottoinsieme di gran lunga prevalente, viene stimata intorno al 7% (Munafò M., 2014, Obiettivi e risultati del sistema di monitoraggio del consumo di suolo, in Arcidiacono A. et alii (a cura di), Politiche, strumenti e proposte legislative per il contenimento del consumo di suolo in Italia – Rapporto CRCS 2014, INUedizioni, Roma, pp. 13-17)11. Arcidiacono A. et alii (2010), op. cit., p. 17012. Disegno di legge n.393/2013, Norme per il recupero di suolo all'uso agricolo e ambientale per lo sviluppo sostenibile del Veneto. 13. Cfr. intervento di Tiziano Tempesta (Università di Padova) alla Scuola di Governo del Territorio Emilio Sereni (16 marzo 2013) presso l'istituto Alcide Cervi di Gattatico (RE), dal titolo: Sprawl urbano, agricoltura moderna e degrado del paesaggio.14. Arcidiacono A. et alii (2010, a cura di), op. cit., p. 19815. Maddalena P. (2014), Il territorio bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico, Donzelli editore. Roma, p. 20016. FAO, 1996, Rome Declaration on World Food Security, http://www.fao.org/wfs/index_en.htm17. Dati tratti dai factsheet della conferenza di Berlino 2013 consultabili in www.globalsoilweek.org18. Tiepolo M. (2002), Urbanizzazione e sicurezza alimentare. A Niamey, Niger, in Storia Urbana n. 98-99/2002, Franco Angeli, Milano.
19. Questo coefficiente, molto delicato e complesso, deriva dal seguente doppio percorso di calcolo che va a convergere proprio sul valore numerico del coefficiente. Partiamo dalla dieta procapite giornaliera che possiamo assumere pari a 2500 kcal, assortita in verdure, carni e latticini, richiede un'estensione di circa 1500 mq per persona. Un ettaro di superficie agricola può quindi sfamare 6,6 persone (Cfr. Mercalli L., Sasso C. (2004), Le mucche non mangiano cemento, SMS, Torino). Secondo altri studiosi il fabbisogno energetico procapite giornaliero potrebbe essere ben maggiore (Pretolani 2012: 3638 kcal/persona*giorno) e ciò andrebbe a peggiorare il bilancio globale (cfr. Pretolani (2012), Agricoltura lombarda e consumo di suolo agricolo, report interno EUPOLIS, presentato in Regione Lombardia il 10 ottobre 2012; www.eupolis.regione.lombardia.it/shared/ccurl/562/658/Pretolani.pdf). Sempre secondo Pretolani in Lombardia gli abitanti mantenibili per ettaro, con l'attuale produzione, ammonterebbe a 5,7 [ecco allora che qui prendiamo un valore intermedio pari a 6] (cfr. anche il rapporto L'agricoltura lombarda conta - 2013, www.inea.it/documents/10179/124894/Lombardia2013_web.pdf, p. 13) e i consumi di suolo dal 1982 al 2010 hanno ridotto la capacità di produzione alimentare in termini di equivalenti energetici del 6,3% (“La riduzione della superficie agricola negli ultimi 30 anni [in Lombardia] ha portato ad una diminuzione della produzione di calorie vegetali del 9,7% e del valore della produzione del 5,9%”). Con tale risultato la Lombardia ha peggiorato la sua auto capacità di soddisfare la domanda interna di cibo (sempre secondo Pretolani il tasso di autoapprovvigionamento globale al 2011 era pari al 79% e quello per consumi umani del 60%), aumentando la propria dipendenza da approv-vigionamenti esterni. Ciò ha prodotto ripercussioni anche a livello nazionale, esponendo l'Italia ad una maggior dipendenza e ad una minor sicurezza di avere sufficiente cibo. Tale ragionamento e quindi l'applicazione di tale metodologia vale anche per tutte le regioni.20. Secondo il documento presentato dal ministro dell'agricoltura del governo Letta, Mario Catania, e allegato alla proposta di legge per contenere i consumi di suolo, l'Italia attualmente produce circa l'80-85% delle risorse alimentari necessarie a coprire il fabbisogno dei propri abitanti. Insomma, non è autosufficiente. (MIPAF, Costruire il futuro: difendere l'agricoltura dalla cementificazione. Rapporto tecnico allegato al Disegno di legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo – Luglio 2012)21. Lo spreco alimentare è una piaga assolutamente non considerata. Bisogna riflettere che a ogni cibo gettato nell'immondizia corrisponde un pezzo di terra coltivato per nulla e/o un trasporto fatto per nulla e/o una spesa energetica fatta per nulla, una spesa pubblica per smaltire quello che diviene rifiuto e, non ultimo, è un cibo sottratto a chi non ha da mangiare. In Italia, Andrea Segrè si occupa da anni con la sua ricerca di dimostrare l'insostenibilità degli sprechi e per la precisione proprio quel cibo che viene gettato via prima di arrivare in tavola. Secondo i suoi studi
l'1,19% del PIL italiano (al 2011) va in pattumiera generando costi sociali e pubblici elevati (Segrè A. (2013), Vivere a spreco zero. Una rivoluzione alla portata di tutti, Marsilio, Venezia, p. 43). Si tratta di un equivalente teorico di 180 kg di cibo che ogni anno ogni cittadino getta via prima di scartare.22. Agnoletti M. (2010), Paesaggio Rurale. Strumenti per la pianificazione strategica, Edagricole, Milano.23. Recentemente la regione Toscana ha approvato una legge (n. 65/2014) introducendo una sostanziale novità nel panorama nazionale in materia di tutela dei suoli agricoli. Questi non possono essere più trasformati se esterni al perimetro edificato a meno che si ottenga autorizzazione da una conferenza di co-pianificazione, composta da Regione, Provincia e Comune interessato. La legge dovrebbe bloccare i nuovi consumi di suolo e comunque eventuali decisioni non sono più nell'autonomia del singolo comune ma prese in carico da un nuovo soggetto che ha una visione territorialista ed è meno prossimo alle pressioni locali. Riferimenti: approvazione del Consiglio Regionale in data 29/10/2014 e pubblicazione sul BURT n. 53 del 12/11/2014.24. Il grafico è stato pubblicato e discusso dallo scrivente in varie sedi. Questa versione è tratta dalla pubblicazione Di Simine D., Pileri P., Ronchi S. (2013), Consumo di suolo e questioni ambientali, in ilProgettosostenibile, 33/2013, pp. 14-2325. La frase in corsivo è tratta da una celebre affermazione di Antonio di Cederna 26. Si legge in un recente piano di governo del territorio lombardo integrato tra diversi comuni (variante adottata nel 2014): «Il documento di piano offre un paniere articolato di occasioni insediative che complessivamente, non provocano distorsioni sulla rendita immobiliare e sull'equilibrio tra domanda o offerta (come altrimenti sarebbe successo adottando politiche che comprimessero eccessivamente le opzioni insediative» (p. 55). «Le percentuali di incremento della popolazione insediabile nel quinquennio di attuazione del PGT-I (riferite al 2014) sono state individuate sulla base delle previsioni demografiche di carattere strutturale di lungo periodo corrette al rialzo sia per tenere conto in parte delle dinamiche più recenti sia per evitare una compressione dell'offerta insediativa che potrebbe provocare distorsioni del mercato immobiliare» (p. 59). Fonte del documento pianificatorio: Terre dei Navigli, Piano di Governo del Territorio Integrato, Documento di Piano Integrato.27. Pileri P. (2014), Volo del calabrone e piano del sindaco sono inconciliabili. Scala ambientale e scala amministrativa alla ricerca di nuove forme di convivenza, in Arcidiacono A. et alii (a cura di), Politiche, strumenti e proposte legislative per il contenimento del consumo di suolo in Italia – Rapporto CRCS 2014, INUedizioni, Roma, (p. 69-75)28. Cfr. il comunicato stampa datato 20.11.2014: http://lombardia.legambiente.it/contenuti/comunicati/legge-ammazzasuolo-apportate-misure-di-limitazione-del-danno-ma-il-cuore-della-29. Maddalena P., op. cit. p. 205
Coltivare la cittàcontemporanea. Le sfide dei “paesaggiagrourbani multifunzionali”
di Viviana Ferrario*
Nella seconda metà del novecento l'agricol-
tura è stata relegata ai margini dell'economia
e della società occidentali: pur essendo stata
fonte primaria di ricchezza e di lavoro per lun-
ghissimo tempo, di fronte alle prestazioni
degli altri settori economici l'agricoltura dà
oggi un contributo quasi trascurabile al pro-
dotto interno lordo ed è quasi irrilevante in ter-
mini di numero di addetti. Le politiche agrico-
le hanno perseguito a lungo il principio della
massima indipendenza rispetto alle condizio-
ni geografiche nelle quali l'agricoltura veniva
praticata, ignorando la sua straordinaria capa-
cità di produrre territorio e di costruire pae-
saggi. Insieme all'agricoltura anche il territo-
rio coltivato ha perso valore economico e
sociale, e il processo di urbanizzazione che ha
portato alla costruzione della cosiddetta città
contemporanea ha potuto travolgere le aree
agricole sostanzialmente senza essere real-
mente governato.
Oggi le cose sembrano improvvisamente
cambiate: le politiche di sostegno all'agri-
coltura sono state riviste nella direzione di
valorizzarne il contributo ambientale e pae-
saggistico, e da alcuni anni, complici forse le
nuove condizioni poste dalla crisi della secon-
da metà degli anni 2000, l'intera società occi-
dentale manifesta verso l'agricoltura un nuo-
vo generale interesse. I giovani cercano lavoro
in agricoltura; nuove pratiche emergenti
come quelle legate agli orti urbani, ai mercati
di prossimità, all'agricoltura sociale, coinvol-
gono i cittadini e attirano l'attenzione degli
studiosi: lo stesso tema “nutrire il pianeta,
energie per la vita”, scelto per il prossimo
Expo 2015, allude ad una nuova sensibilità col-
lettiva non solo per i cicli naturali, ma anche
per quelli produttivi agricoli, che permettono
la vita dell'essere umano sulla terra.
Nel corso del XX secolo il consumo di suolo
agricolo è stato l'argomento più popolare con-
tro la dispersione urbana e in favore di politi-
che di contenimento che hanno però avuto un
grado di efficacia assai limitato (Bruegmann,
2005). Con la crisi alimentare del 2008 nel
dibattito italiano in particolare è riemerso il
concetto di "consumo di suolo", già esplorato
negli anni ottanta del novecento, e la tutela
dei terreni agricoli fertili è divenuta nuova-
mente popolare. Da più parti si chiedono nuo-
ve politiche di contenimento, anche di tipo
radicale: il cosiddetto approccio "ettaro zero"
propone una crescita urbana senza espansio-
ne (cioè senza consumare nemmeno un etta-
ro di terreno agricolo). Le implicazioni di que-*Viviana Ferrario, Università Iuav di Venezia
LE TEORIE E LE ESPERIENZE1
21
sta prospettiva sono molto importanti, in
quanto spostano l'attenzione dalla limitazione
della nuova espansione (il principio che ha gui-
dato le politiche antisprawl fino ad oggi) ad
uno sviluppo senza espansione, che presuppo-
ne un investimento sulla trasformazione del
tessuto urbano esistente. Si tratta di immagi-
nare un diverso progetto per la città contem-
poranea, che si affranca da posizioni consoli-
date e apre a nuovi paradigmi. Quale è oggi il
ruolo dello spazio coltivato in questa impor-
tante partita?
1. Richieste multiple all'agricoltura
Un buon modo per provare a rispondere a
questa domanda è mettere in fila le richieste
che la nostra società urbana esprime nei con-
fronti dell'agricoltura.
In primo luogo certamente l'agricoltura pro-
duce cibo. La crisi alimentare globale che stia-
mo attraversando si manifesta sia in termini
di scarsità e di conseguente aumento dei prez-
zi, sia di declino della qualità degli alimenti.
L'allungamento artificioso delle filiere alimen-
tari comincia ad esser messo in discussione e
il controllo sulla provenienza dei prodotti vie-
ne richiesto con sempre maggior forza. In con-
nessione con il tema della “filiera corta” (una
delle parole d'ordine degli ultimi anni) si collo-
ca la questione dell'approvvigionamento ali-
mentare nelle aree lontane dalla produzione
agricola, delle grandi metropoli, dei food
desert. I casi di Londra (www.capital-
growth.org) e di Rennes “ville vivriere” (Dar-
rot et al. 2010) testimoniano, tra molti altri,
l'importanza che viene oggi attribuita al tema
della sicurezza alimentare (Di Bartolomei et.
al, 2014), che si declina in termini di quantità
di derrate ma anche di qualità e tracciabilità
della produzione.
In secondo luogo l'agricoltura è chiamata ad
erogare particolari servizi ai cittadini, in quan-
to spazio per il tempo libero, o per attività edu-
cativo-terapeutica (fattorie didattiche, agri-
coltura sociale); in questo caso lo spazio
dell'agricoltura si configurerebbe come una
sorta di “standard urbanistico” sui generis,
una forma di welfare spaziale, una sorta di
immenso “parco” coltivato, la cui manuten-
zione sarebbe in un certo senso pagata dai cit-
tadini europei attraverso la Politica Agricola
Comune. C'è poi una visione dello spazio agra-
rio come patrimonio culturale, riconosciuta in
modo crescente anche dalle istituzioni
(Agnoletti, 2011), che sollecita la conservazio-
ne di pratiche tradizionali e di paesaggi agrari
storici. Altre richieste trovano la loro origine
nella questione ambientale: lo spazio agrario
è chiamato a contribuire all'accrescimento
della biodiversità, l'agricoltura ad essere stru-
mento di conservazione di specifici habitat.
Crescenti sono le richieste espresse nei con-
fronti dello spazio agrario come luogo di pro-
duzione di energia: sia sotto forma di coltiva-
zioni di biomasse, legnose e non, che sostitui-
scono i combustibili fossili, sia sotto forma di
“spazio a disposizione” per l'installazione di
impianti di energie alternative, per esempio il
fotovoltaico o le centrali a biogas. Non trascu-
rabile è il contributo potenziale dello spazio
coltivato al controllo del cambiamento clima-
tico, sia attraverso la conservazione del patri-
monio arboreo, sia attraverso l'impiego di pra-
tiche agricole che non diminuiscano la fertilità
del suolo (ricordiamo che nel suolo fertile è
contenuta gran parte della CO2 del pianeta).
Nei territori fragili delle pianure alluvionali pos-
siamo aggiungere il contributo dello spazio
coltivato alla sicurezza idraulica, con la sua
capacità di trattenere volumi d'acqua in
eccesso in situazioni di emergenza.
Insomma, entro lo spazio coltivato la città con-
temporanea cerca un modo per aumentare la
sua sostenibilità e la sua resilienza, per chiu-
dere alcuni dei cicli che nelle concentrazioni
urbane restano aperti (Urban Agriculture,
2009).
2. Agriculture through the (contemporary)
city
Ne sono prova gli studi e i progetti che esplo-
rano in modi diversi il mutuo rapporto tra spa-
zio urbano e spazio coltivato, che si sono mol-
tiplicati negli ultimi anni fino a formare un ric-
co filone, entro il quale troviamo noti progetti
di metissage agrourbani quali la “Philippi Hou-
sing” di Noero Wolff architects, (2006), “Hin-
terland” di FKL Architects (2006), “Rethin-
king happiness” di Cibic (2010), la strategia
Agropolis per Monaco (2011) o quella di Manu-
el Gausa per Barcellona, e nuovi strumenti per
il governo del territorio come gli champs urba-
ins dello SCoT du Pays de Rennes (2007) o il
“Patto città-campagna” del PTRC della
Regione Puglia (2009). Proposte di nuovi para-
digmi come i continuos productive landscapes
di Viljoen et al. (2005, 2014), l'agriurbanisme di
Vidal e Vilain (2009), l'agrarian urbanism di
Waldheim (2010) si accostano ad esperienze
come quelle dei parchi agricoli (Magnaghi e
Fanfani 2010). Pur nella diversità delle scale,
degli approcci e degli obiettivi immediati, mi
sembra che da questi progetti emerga un ten-
tativo comune: quello di riflettere sulla
dimensione spaziale delle problematiche di
cui ho parlato nel paragrafo precedente. Mi
sembra infatti che la possibilità che
l'agricoltura possa rappresentare un elemen-
to di resilienza per la città contemporanea, sia
soggetta ad alcune questioni di tipo squisita-
mente spaziale, che pongono delle domande
rilevanti alle discipline del territorio.
In primo luogo infatti esiste un problema di
mutua relazione tra lo spazio urbano e lo spa-
zio coltivato che va a mettere in discussione la
forma stessa della città. La ricerca dello spa-
zio coltivato per rispondere a certi bisogni del-
la città e dei cittadini ha delle “potentially pro-
found implications for the shape and structu-
re of the city itself” (Waldheim, 2010). Sottesa
ad essa infatti c'è un'idea di città-territorio in
cui coltivare e abitare sono azioni vicendevol-
mente compatibili, e che possono avvenire
sul piano della prossimità e della mescolanza
piuttosto che su quello della separazione e del-
la distinzione. Anche le posizioni apparente-
mente più ferme sull'ideale della città com-
patta, nella pratica del progetto si stempera-
no e tendono a lavorare sulla mescolanza (Ma-
gnaghi e Fanfani, 2010, p. 226). Sembra
insomma che anche nelle posizioni più radica-
li una rigida separazione tra spazio urbano e
spazio agrario non sia più l'unico obiettivo pos-
sibile di ogni progetto di territorio. Non si trat-
ta cioè più di inseguire una forma ideale della
città espressione di una società lontana e mol-
to diversa dalla nostra, ma di fare i conti con i
caratteri attuali dei territori che la nostra
società ha prodotto, per migliorarli. La città
contemporanea non ha una forma, ne ha più
di una. La mescolanza tra spazio urbano e spa-
zio dell'agricoltura non è più una colpa, ma
una opportunità.
Ma l'attenzione all'agricoltura nella città con-
temporanea solleva un secondo problema
spaziale: la conservazione della biodiversità,
la produzione di energia, la produzione ali-
mentare, la sicurezza idraulica hanno tutte
bisogno di spazio, e tendenzialmente entrano
22
in competizione per gli stessi spazi. Lo svilup-
po degli agro-carburanti può entrare in com-
petizione con la produzione alimentare, la col-
tivazione delle biomasse riduce tendenzial-
mente la biodiversità, la creazione di aree di
laminazione sottrae terreni alla produzione,
l'uso ricreativo del territorio agricolo o le esi-
genze di conservazione del paesaggio agrario
storico possono scontrarsi con la produzione
alimentare e così via. Questa competizione si
gioca, certo, sul fronte delle pratiche e delle
tecnologie, così come sul fronte delle cono-
scenze biologiche e agronomiche: tuttavia la
dimensione spaziale è rilevante.
Ho proposto queste questioni ai partecipanti
del convegno Agriculture through the city, che
si è svolto presso l'Università Iuav di Venezia
nel maggio 2012 (www.iuav.it/agriculture-
through-the-city). Ne è emerso il carattere di
trasversalità territoriale e di transcalarità del-
lo spazio coltivato, dall'orticoltura urbana alle
grandi monocolture intensive, e la necessità
di considerarlo tutto (non solo quello interno
alla città) nel quadro di un progetto di territo-
rio che integra l'agricoltura tra i suoi materiali.
Tuttavia le conseguenze di queste opportuni-
tà restano ancora in gran parte inesplorate:
una delle frontiere sulle quali pare opportuno
riflettere è quella della multifunzionalità.
3. Paesaggi agrourbani multifunzionali
Per descrivere la capacità dell'agricoltura di
soddisfare le richieste multiple che abbiamo
più sopra individuato, le politiche agricole fan-
no riferimento al suo carattere “multifunzio-
nale” che “refers to the fact that an economic
activity may have multiple outputs and, by
virtue of this, may contribute to several socie-
tal objectives at once. Multifunctionality is
thus an activity oriented concept, that refers
to specific properties of the production pro-
cess and its multiple outputs (si riferisce al fat-
to che una attività economica può avere
diversi output e, grazie a questi, può contri-
buire contemporaneamente a diversi obietti-
vi della società. Multifunzionalità è pertanto
un concetto orientato all'attività, riferendosi
alle specifiche proprietà del processo produt-
tivo e ai suoi molteplici output)” (Maier, Sho-
bayashi, 2001). In questa definizione il signifi-
cato economico del concetto di multifunzio-
nalità è prevalente, ma esso può avere un par-
ticolare interesse anche per le discipline terri-
toriali. Esso infatti permette di interpretare in
modo diverso non solo l'agricoltura europea
in quanto attività economica, ma anche
l'assetto stesso delle aree agricole e il loro ruo-
lo territoriale. Applicata alla pianificazione del
territorio la multifunzionalità ha effetti poten-
zialmente rivoluzionari. L'ultimo decennio
infatti è stato importante per una miglior com-
prensione non solo del carattere multifunzio-
nale dei paesaggi agrari, che combinano fun-
zioni di tipo ecologico-ambientale, economi-
co, sociale, ricreativo, estetico simbolico, ma
anche delle potenzialità insite nel concetto
stesso di “paesaggio multifunzionale”
(Brandt, Vejre, 2004; Selmann, 2009).
Interpretare il territorio come una stratifica-
zione di paesaggi multifunzionali, può avere
ricadute interessanti sulla comprensione e sul
progetto sia di aree in forte competizione per
l'uso del suolo come sono quelle metropolita-
ne, sia in aree marginali che sembrano desti-
nate al declino; costringe a concepire lo spa-
zio urbanizzato e quello coltivato, le aree
dell'abbandono e quelle della pressione inse-
diativa, in un disegno unitario che lavora sulle
relazioni mutue tra le diverse funzioni e com-
ponenti e che esplora le possibilità e le regole
della convivenza; consente di superare la stes-
sa categoria di “uso del suolo”, proponendo
una visione alternativa a quella tradizionale
dello zoning e una dimensione attenta tanto
agli usi stabili e duraturi quanto a quelli tem-
poranei ed effimeri; consente di misurarsi con
il tema dei cicli di vita. Su questi temi vorrei
proporre all'attenzione di chi legge quattro
esplorazioni progettuali che mi hanno coin-
volto a diverso titolo negli ultimi anni.
3.1 Quattro esplorazioni progettuali
È bene chiarire che non si tratta di progetti
con un preciso committente e con un budget:
si tratta piuttosto di occasioni nate da una
riflessione sui territori del nord-est italiano
condotte in un contesto di ricerca e di didatti-
ca. Hanno un contenuto dichiaratamente pro-
vocatorio e non trovano riscontro - anzi con-
traddicono - le indicazioni degli strumenti
urbanistici. Ben sapendo che questo costitui-
sce un limite rilevante, mi pare però che nel
loro insieme queste provocazioni traccino un
possibile programma per ridefinire il ruolo del-
lo spazio coltivato nel futuro del territorio con-
temporaneo.
3.1.1 Orti alti a Padova
Orti alti è un'idea nata nel contesto
dell'iniziativa per il Parco Agro-paesaggistico
Metropolitano di Padova (PaAM). Attorno al
programma del PaAM si è avviato nel 2014 un
percorso di Agenda 21 coordinato dal Comu-
ne di Padova, che ha visto la partecipazione di
associazioni, cittadini, scuole agrarie e azien-
de agricole. Obiettivo è quello di costruire una
strategia per la salvaguardia e la valorizzazio-
ne degli spazi agricoli periurbani, in una pro-
spettiva di rinnovamento e riqualificazione
multifunzionale delle stesse attività agricole.
La strategia si appoggia ad alcune esperienze
già in atto, istituzionali, come gli orti sociali
del Comune e il Parco etnografico di Rubano,
e di resistenza, come il Presidio Sotto il Porti-
co, che da anni si oppone all'espansione della
Zona Industriale. Entro le attività del comita-
to per il PaAM abbiamo immaginato un pro-
getto provocatorio per uno degli spazi urbani
della città più scandalosamente privi di un pro-
getto credibile. L'esplorazione progettuale si
misura con il complesso del macello e foro
boario comunali, progettati negli anni sessan-
ta da Giuseppe Davanzo e mai entrati appie-
no in sevizio. Localizzata lungo la tangenziale
ovest, l'area di 15 ettari è oggi completamen-
te impermeabilizzata, una gara bandita dal
Comune per il suo riuso a fini residenziali e ter-
ziari è andata deserta. La proposta provoca-
toria è quella di rinunciare a valorizzare dal
punto di vista immobiliare l'area, per trasfor-
marla invece in una urban farm. Le superfici
asfaltate verrebbero asportate, il suolo rina-
turalizzato e messo a coltura, gli edifici
dismessi del macello, delle stalle di sosta e del
foro boario verrebbero impiegate per le
necessità dell'azienda agricola, che gestireb-
be anche i 10.000 metri quadri di orti sociali,
da ricavarsi sulle coperture del complesso edi-
lizio (fig. 1).
3.1.2 De-industrial park nella pianura veneta
La proposta nasce nel quadro della ricerca
«Agropolitana» grazie alla quale tra il 2010 e il
2013 ho ragionato sulla costruzione di scenari
progettuali per i paesaggi agrourbani della pia-
nura centrale veneta (Ferrario, 2011; 2012;
2013). La ricerca ha lavorato con i diversi pat-
tern che nel loro insieme costruiscono il terri-
torio contemporanea (Gabellini, 2010). Uno di
questi pattern è quello delle placche indu-
23
striali disperse nel territorio (in media quattro
per ogni comune nel Veneto) e spesso mesco-
late alla campagna coltivata. Come è noto, una
delle sfide che questo territorio dovrà affronta-
re nel prossimo futuro è quello del surplus di
queste zone industriali e artigianali, sovradi-
mensionate, spesso non completamente rea-
lizzate e oggi nettamente sottoutilizzate a cau-
sa della delocalizzazione delle attività produt-
tive e della crisi economica. La proposta prova
a rispondere ad alcune indicazioni provenienti
dai piani territoriali (Regione del Veneto, 2009,
Provincia di Treviso, 2010), radicalizzandole. Si
esplora la possibilità di gestire la dismissione
controllata di alcune di queste aree in una pro-
spettiva temporale di lungo periodo. I terreni
non utilizzati possono ospitare da subito coltu-
re di biomasse legnose; nei capannoni abban-
donati si possono ospitare gli allevamenti che
recano disturbo ai residenti; mano a mano che
nuovi capannoni rimangono vuoti si smontano
e il terreno viene bonificato e messo a coltura.
Gli ampi spazi impermeabili inutilizzati vengo-
no rinaturalizzati. Si tratta dunque di uno sce-
nario in fieri, che sfrutta i tempi spontanei della
dismissione, senza forzarla. Tutti gli stadi inter-
medi sono progettati su un modello che non
teme la commistione tra lo spazio coltivato e
quello urbanizzato e che anzi che ne valorizza
le possibili mutue alleanze (fig. 2). L'esito, tem-
poraneo ma di lungo periodo, si rifà esplicita-
mente all'utopia agrourbana di Agronica
(Branzi, 1996).
3.1.3 «Recycling agricultural space» nel baci-
no del Marzenego
Anche questa proposta nasce entro la ricerca
“Agropolitana” e ne costituisce anzi il cuore: si
tratta infatti di immaginare una diversa confi-
gurazione dell'area centrale veneta come pae-
saggio agrourbano multifunzionale. La parte
che presento qui è stata successivamente
ripresa nel contesto di uno dei workshop orga-
nizzati dall'unità di ricerca dell'Università Iuav
di Venezia entro il Programma di Rilevante
Interesse Nazionale “Recycle Italy” (Tosi et al.,
2014). Nel quadro di una riflessione proget-
tuale sul bacino idrografico del fiume Marze-
nego, propongo di “riciclare” lo spazio coltiva-
to entro un quadro di valori collettivi, quali la
sicurezza alimentare e la qualità degli alimen-
ti, la biodiversità, la sicurezza idraulica, la pro-
duzione di energie rinnovabili, lo spazio per il
tempo libero. Quattro azioni disegnano un
nuovo paesaggio agrario multifunzionale. La
prima risponde al problema della sicurezza
idraulica e all'esigenza di razionalizzare le
filiere alimentari: le colture compatibili con
esondazioni di breve periodo (prati, pascoli,
colture perenni da biomassa) vengono con-
centrate lungo i corsi d'acqua nelle parti meno
elevate del territorio, formando nuove aree
ad alluvionamento programmato ausiliarie
rispetto alle aree di laminazione principali, e
contribuendo alla necessaria estensivizzazio-
ne degli allevamenti bovini. La seconda azio-
ne migliora la sicurezza idraulica lungo le stra-
de, costruisce habitat potenziali e protegge le
colture dagli inquinamenti originati dal traffi-
co veicolare: i bordi dei campi affacciati lungo
le strade vengono risagomati e forestati,
costruendo un filtro tra strada e campo, che
può combinarsi con percorsi ciclopedonali. La
terza azione risponde alla necessità di con-
nessione naturalistica tra i corridoi ecologici
della Rete Ecologica Regionale e contempo-
raneamente a quella di preservare i seminati-
vi a scopo di produzione alimentare e di uso
del territorio agricolo per il tempo libero: si
tratta di agroforestazione su larga scala, arti-
colata in fasce boscate che contengono per-
corsi ciclopedonali, alternate con fasce agro-
forestate, dove i seminativi convivono con la
presenza degli alberi per la produzione di
legno da opera. La quarta azione è volta alla
produzione di energia da biomassa, alla
costruzione di habitat volti a rammendare il
tessuto connettivo arboreo a scala minuta tra
i corridoi ecologici principali, alla fitodepura-
zione degli inquinanti di origine agricola:
24
Orti Alti (2012). Proposta provocatoria per la trasformazione dell'area dismessa del macello e foro boario comunali di Padova in una urban farm, con orti sociali sui tetti del complesso progettato da Giuseppe Davanzo negli anni Sessanta. Nata nell'ambito del comitato promotore del Parco Agropaesaggistico Metropolitano di Padova la proposta è stata presentata nel corso del Salone del Gusto e Terra Madre a Torino del 2012
25
direzioni.
La prima è una sollecitazione a riflettere di
nuovo sulla forma della città: il territorio con-
temporaneo può essere riletto e riprogettato
alla luce del mutuo rapporto tra spazi coltivati
e spazi abitati (Ferrario, 2011; Lanzani, 2012).
Ciò significa da un lato “accettare” come pro-
gettabili certi territori stigmatizzati e implici-
tamente ritenuti non progettabili (ad esempio
quello della città diffusa); dall'altro significa
avere a disposizione un modello nuovo, che in
certe condizioni, può essere proposto anche
per la città consolidata e per le periferie urba-
ne. La seconda direzione che la nuova atten-
zione all'agricoltura ci suggerisce è la possibili-
tà di progettare il territorio contemporaneo
come un paesaggio multifunzionale.
Coltivare la città contemporanea, certo, è uno
slogan, ma si può articolare nell'invito ad alcu-
ne azioni innovative degne di nota:
- Coltivare le aree dismesse. Questa azione
permette di guardare alla dismissione
come ad una opportunità invece che un limi-
te: la messa a coltura di aree dismesse con-
ferisce loro valore, un valore diverso da quel-
lo puramente immobiliare, contraddicendo
implicitamente i meccanismi della rendita;
- Coltivare le aree in attesa: permette di dare
un senso ai “tempi morti” dell'urbanistica,
quelli che intercorrono tra una previsione di
l'azione riempie le smagliature nel sistema del-
le siepi campestri con nuovi impianti diffusi di
fasce tampone boscate lungo fossi e scoline
(fig. 3).
3.1.4 Oltre l'abbandono della montagna : ri-
coltivare i versanti a Pontebba
Si tratta di un progetto sviluppato in una tesi di
laurea magistrale che ha come oggetto il recu-
pero delle aree dismesse di Pontebba, centro
delle Alpi Giulie, in provincia di Udine, situato a
pochi chilometri dalla frontiera con Austria e
Slovenia (Mazzucco, Peroni, 2014). La costru-
zione dell'area doganale ferroviaria più impor-
tante del nord-est italiano e di tre grandi caser-
me militari occupa nella seconda metà del
novecento i terreni fertili del fondovalle, men-
tre l'economia nata attorno allo scalo dogana-
le e alle caserme accelera il processo di declino
delle attività agropastorali e l'abbandono dei
versanti. La chiusura delle caserme e della
dogana seguito alla fine della Guerra Fredda e
agli accordi di Schengen (1995), fa sì che oggi il
25% del suo suolo urbano di Pontebba sia
dismesso. La tesi mette in discussione un pro-
getto di sviluppo del settore turistico invernale
elaborato dalla Regione Friuli Venezia Giulia,
che prevede la realizzazione di un collegamen-
to funiviario tra il centro di Pontebba e
l'importante comprensorio sciistico austriaco
di Pramollo-Nassfeld, con il recupero delle
aree militari dismesse per destinarle alla ricet-
tività turistica. Nel quadro del Progetto Pra-
mollo i 18 ettari dell'area dell'ex dogana ferro-
viaria di Pontebba verrebbero trasformati in
un parcheggio per 2000 posti auto. La propo-
sta alternativa elaborata dalla tesi è quella del-
la trasformazione della dogana ferroviaria
dismessa in una azienda agricola cooperativa,
con l'obiettivo di recuperare alla coltivazione
non solo i terreni dello scalo ferroviario bonifi-
cati, ma anche i prati abbandonati dei versan-
ti vallivi circostanti. Grazie ad un ristorante e
ad uno spazio per la vendita diretta dei pro-
dotti la cooperativa agricola intercetta sia il
mercato potenziale rappresentato dagli scia-
tori che quello legato all'itinerario ciclabile
Alpe Adria (fig.4).
4. Un progetto di territorio che include
l'agricoltura : questioni aperte
La nuova sensibilità per i cicli di produzione
agricola si sposa con una nuova attenzione al
rapporto tra urbanizzazione e spazio coltiva-
to, che sta esplorando forme nuove di convi-
venza tra coltivare, abitare e produrre. Come
può questa stagione di riflessioni contribuire
al progetto della città contemporanea? Come
ho già anticipato e come mostrano gli esempi
sopra riportati, questo contributo va in due
26
piano e la sua realizzazione. La loro durata,
spesso importante, fa venire il sospetto che
non si tratti di incidenti imprevisti ma di un
problema strutturale del governo del territo-
rio così come lo concepiamo ora, che
potrebbe essere rivisto alla luce di una
attenzione specifica per la dimensione del
“temporaneo”;
- Coltivare i territori della dispersione. Que-
sta azione propone di guardare alla disper-
sione insediativa come un confuso labora-
torio dove, sia pure con alterni successi e in
modo assi poco riflessivo, si è sperimentata
una nuova forma di città: lo spazio coltivato
consumato, frammentato, intercluso, può
essere il punto di partenza per un progetto
finalmente adeguato ai suoi caratteri;
- Coltivare paesaggi multifunzionali: invita a
dare diversa sostanza alle critiche alle tecni-
che di zoning, oltre la mixité, verso il ricono-
scimento della multifunzionalità di ogni par-
te del territorio.
- Ri-coltivare i versanti vallivi: nel progetto
del territorio contemporaneo è necessario
After Schengen (2014). In questa tesi di laurea (Mazzucco e Peroni, 2014) la dogana ferroviaria di Pontebba, dismessa dopo i trattati di Schengen, diventa una cooperativa agricola con l'obiettivo di tornare a coltivare i versanti abbandonati del Canal del Ferro e i pascoli alti
De-industrial park (2011). Scenario di dismissione controllata di una zona industriale-artigianale nella città diffusa veneta, progressivamente de-impermabilizzata e ricoltivata, fino a raggiungere un pattern discontinuo infrastrutturato sul modello di Agronica (Branzi, 2005)
Recycling agricultural space (2011-2014). Proposta di “riciclo” del territorio agricolo del veneto centrale come paesaggio agrourbano multifunzionale, per
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includere la montagna, coinvolgendo quelle
parti di territorio che la modernità ha lascia-
to ai margini e che alla luce delle condizioni
attuali acquistano nuovamente valore.
Tutto questo però non possono farlo gli urba-
nisti da soli: coltivare la città contemporanea
obbliga al confronto e alla collaborazione con
altri saperi e con altre discipline, costringe
all'ascolto e alla collaborazione con attori ter-
ritoriali precedentemente non considerati (gli
agricoltori, le associazioni), spinge a immagi-
nare nuovi e diversi strumenti di governo. Un
lavoro ancora tutto da fare.
rispondere alle richieste della città contemporanea nei confronti dell'agricoltura e dei suoi spazi: cibo, energia, biodiversità, tempo libero, sicurezza idraulica
27
I contadini di montagnae le murature in pietradei terrazzamentiresistono
di Timmi Tillmann* e Maruja Salas*
Chi siamo?
Eravamo 50 sognatori, visionari entusiasti che
si sono incontrati nella provincia cinese dello
Yunnan nella Prefettura del Fiume Rosso nel
novembre 2010 in occasione della prima con-
ferenza sui Paesaggi terrazzati, e abbiamo
fondato l'Alleanza Internazionale dei Paesaggi
terrazzati (ITLA) per tutelare, preservare e
promuovere questi paesaggi e le relative cul-
ture.
Ora siamo più di 100 attivisti, agricoltori e
ricercatori provenienti dalle Americhe, Euro-
pa, Africa e Asia, interessati a dar voce ai
custodi dei terrazzamenti e a promuovere
l'importanza dei paesaggi terrazzati per la pro-
duzione di cibo. Siamo impegnati ad organiz-
zare la Terza Conferenza Internazionale sui
Paesaggi Terrazzati e le sue culture che si terrà
in Italia nel 2016. Ci proponiamo di mappare i
terrazzamenti esistenti e mostrare le loro
peculiarità ecologiche, culturali e gastronomi-
che, raccogliere una bibliografia selezionata e
commentata sul mondo dei paesaggi terraz-
zati e le sue culture, intraprendere dei casi di
studio, individuare i più esperti custodi,
costruttori e agricoltori coinvolgendoli nel dia-
logo necessario tra sistemi di conoscenza.
Vogliamo intraprendere azioni volte a preser-
vare, proteggere e promuovere il recupero dei
terrazzamenti e del loro ruolo nella storia
dell'agricoltura del genere umano. Siamo
un'alleanza a favore degli agricoltori emargi-
nati e privi di potere, uomini e donne, per
sostenere il loro inserimento e la loro voce per
una vita dignitosa.
Cosa ci unisce?
La visione di un futuro in cui questi custodi dei
terrazzamenti e le loro biodiversità, continuino
a godere della cultura dei loro territori e tra-
sformarli in paesaggi interiori di identità multi-
ple, dove possano conquistare spazi democra-
tici per difendere i loro raccolti, le loro risorse, i
loro mezzi di sussistenza in modo da poterli
sentire in Asia, Africa, Europa e nelle Americhe.
Perché ci concentriamo su terrazzamenti
Le condizioni ambientali delle zone di monta-
gna sono state la base naturale per domestica-
re piante utili al consumo umano. Vavilov indi-
viduò otto centri di domesticazione in diversi
continenti dove per migliaia di anni una gran-
de varietà di piante domestiche e selvatiche
hanno contribuito a creare questo patrimonio
dell'umanità. Le pratiche e le conoscenze delle
comunità locali sulle condizioni naturali atte a
*Timmi Tillmann e Maruja Salas sono membri della ITLA - Alleanza Internazionale dei Paesaggi Terrazzati.L'articolo è stato tradotto dall'inglese da Elena Faccio e Sergio Paolazzi.
LE TEORIE E LE ESPERIENZE1
28
29
1.
3. 2.
4.
1. Discussioni di gruppo durante la conferenza
2. Vigneti e ciliegi a Goriska Brda (Slovenia)
3. Contadini in costume etnico dallo Yunnan
4. Paesaggio terrazzato nella regione cinese di Yuanyang
Foto
graf
ia d
i L. C
his
té
favorire la crescita delle piante hanno contri-
buito alla sopravvivenza di questo patrimonio
e dell'umanità. I centri Vavilov mantengono
ad oggi il loro significato come spazi di con-
servazione delle piante, e non a caso si trova-
no in zone di montagna prevalentemente tro-
picali e subtropicali, che godono di condizioni
(naturali e culturali) favorevoli alla domestica-
zione delle piante. Si tratta di un prezioso teso-
ro dell'umanità, messo in pericolo dal proces-
so di modernizzazione della produzione agri-
cola e dalla vita rurale messa a dura prova.
Saggezza e pratiche locali
Esistono paesaggi terrazzati in tutte le catene
montuose del mondo, in cui gli esseri umani
hanno coltivato la terra per migliaia di anni e
hanno addomesticato le colture alimentari
dell'umanità. I terrazzamenti sono stati
costruiti sulle montagne, sulle linee di costa e
sulle isole, ognuno dei quali con un proprio
metodo e competenza. Se ne fanno moltepli-
ci usi: uomini e donne, anziani e giovani avva-
lendosi di un patrimonio culturale di compe-
tenze tramandate gestiscono l'acqua, i terre-
ni, i climi e sono in grado di coltivare la biodi-
versità. Costruiscono paesaggi incredibili gra-
zie alle loro particolari modalità di organizza-
zione sociale, alle originali tecnologie traman-
date di generazione in generazione, con valori
culturali locali (riflessi anche nella loro cultura
alimentare). Le loro molteplici conoscenze
integrano osservazione, tradizione e innova-
zione, armonizzando la dialettica del rappor-
to tra esseri umani e natura.
Identità multiple
Il paesaggio interiore dei custodi, la loro iden-
tità, si basa sulla comprensione e sul dialogo
con la natura. Il terreno, le montagne, le roc-
ce, la pioggia, le acque sorgive, le piante e gli
animali fanno parte della comunità degli esse-
ri viventi, e questo è specifico in ogni luogo e
cultura.
La reciprocità sociale e il dialogo con la natura
permettono che l'evoluzione del clima sia tra-
mandata lungo il calendario annuale e nel
corso degli anni di generazione in generazio-
ne. Ogni anno il clima è unico in ogni luogo del
mondo dove esistono terrazzamenti (regioni
aride o umide) – nessun anno è uguale all'altro
- e le popolazioni locali hanno imparato che i
cambiamenti, così come le loro vite, dipendo-
no dalla conoscenza della natura. Ogni siste-
ma di terrazzamenti costituisce un universo di
interazioni dinamiche tra gli elementi naturali,
gli esseri umani e le loro culture. Il tratto comu-
ne è però una gestione verticale che riesce a
trarre il massimo vantaggio, al di là della varia-
bilità dei climi e dei terreni, dall'adattamento
delle piante, domesticate dal popolo in base
alle proprie esigenze, all'interesse e alla creati-
vità. Il futuro di terrazzamenti è quello di pro-
durre una varietà di colture con qualità, anche
in piccole quantità per garantire una vita
decente.
Mezzi di sostentamento e stili di vita
Una vita sana e tranquilla e i paesaggi rurali
terrazzati sono valori associati e riconosciuti
anche dalle persone che vengono da fuori. Per
la gente del luogo l'agrobiodiversità viene al
primo posto, poiché consente di gustare buon
cibo secondo la propria cultura alimentare; al
secondo posto c'è lo scambio e la vendita di
prodotti alimentari nei mercati locali, e ciò con-
sente di rafforzare i legami sociali. La qualità
del cibo proveniente da terrazzamenti è stra-
ordinaria ed è una prerogativa esclusiva dei
consumatori che lottano per la propria soprav-
vivenza.
Le giovani generazioni imparano l'innovazione
Le comunità montane dei paesaggi verticali
(in realtà tutte le comunità rurali hanno a che
fare con la natura, ma questo rapporto è più
estremo nelle zone di montagna a causa della
biodiversità dei luoghi) hanno messo a punto i
propri modi di conoscere e di trasmettere il
sapere (attraverso rituali, cerimonie e attività
sociali) così che le giovani generazioni posso-
no essere introdotte nella cultura e imparare i
segreti tecnici e spirituali di trattare con la natu-
ra (terrazzamenti, acqua, suolo e piante). Le
comunità terrazzate nei diversi continenti
sono creative e solide come i loro muri in pie-
tra. Sebbene forze esterne tendano a reprime-
re queste comunità considerandole antimo-
derne e nemiche dello sviluppo unilineare, i
loro muri resistono. Attualmente molti terraz-
zamenti abbandonati da decenni sono stati
adottati da giovani generazioni che vivono in
armonia con la natura recuperando l'utilità e la
bellezza delle regioni di montagna. Stanno
nascendo nuove comunità e quelle locali si
organizzano per difendere i loro diritti sulla
terra e sull'acqua, contro gli interessi delle indu-
strie estrattive, supportate da sistemi politici e
orientate all'esportazione.
Che cosa ci mobilita?
In primis è il principio della sovranità alimen-
tare, un diritto umano fondamentale, che ini-
zia con il controllo delle proprie sementi e della
propria terra. Significa rispettare le decisioni
delle famiglie e delle comunità a favore delle
loro culture alimentari come le tradizioni
regionali (legate a lingua ed etnia) contro la
minaccia dell'uniformismo dell'industria ali-
mentare globalizzata.
Noi siamo mossi dall'obiettivo di tutelare
un'alternativa allo sviluppo economico con-
venzionale, consentendo l'autonomia e
l'autodeterminazione dei popoli locali a colti-
vare le proprie specifiche culture. Mantenendo
i paesaggi terrazzati nelle zone di montagna le
popolazioni rurali continuano la loro storia di
vita sostenibile e la difesa dei loro diritti.
Le minacce alla cultura dei paesaggi terraz-
zati
Dialogando con le comunità montane del sud
est asiatico, della Cina e sulla base delle testi-
monianze dei custodi dei terrazzamenti del
Perù, Ifugao (Filippine) e Bali abbiamo elenca-
to e raccolto una serie di minacce per i paesag-
gi terrazzati e le loro culture. Queste minacce
valgono per tutte le società tradizionali in
diverse regioni, ma hanno maggiore peso in
questi territori, poiché nelle zone di montagna
le condizioni di sopravvivenza sono più difficili.
I cambiamenti climatici
I popoli di montagna di tutto il mondo sono
stati in grado di domesticare il paesaggio per
la loro sussistenza e il loro benessere. La previ-
sione climatica basata sull'osservazione di
lungo periodo della natura nei microclimi di
montagna è stata la chiave che ha permesso
di sperimentare, allevare, produrre e sopravvi-
vere come esseri umani e come culture etni-
che. Il cambiamento climatico mette a dura
prova la capacità delle comunità rurali e dei
loro esperti per la stagione agricola. In monta-
gna ancora di più: siccità che bruciano i raccol-
ti, piogge torrenziali che producono inonda-
zioni e frane, gelo e grandine che distruggono
30
le giovani piante. Gli effetti del clima sulla natu-
ra percepiti dai contadini e la conoscenza del
calendario agricolo non coincidono più con il
lavoro dei campi. Ma, per fortuna i paesaggi
terrazzati offrono particolari vantaggi nei con-
fronti dei cambiamenti climatici rispetto alla
pianura e alla collina.
Industrie estrattive e compagnie minerarie
L'impatto delle industrie estrattive sulla vita
delle comunità è dannoso, disastroso: i sistemi
agricoli tradizionali sono intaccati dalle miniere
che impiegano le risorse idriche e contamina-
no le colture alimentari locali inquinando
l'acqua di irrigazione e danneggiando la salute
degli abitanti, dei villaggi locali e infine dei con-
sumatori urbani. Spesso le società minerarie si
impossessano dell'acqua in quanto hanno più
potere economico e possono influenzare le
autorità che vedono nell'esportazione di mine-
rali la soluzione alle esigenze di sviluppo nazio-
nale a discapito delle esigenze delle piccole
popolazioni rurali (i cui voti alle elezioni non con-
tano). I terrazzamenti delle comunità montane
richiedono molto lavoro, ma quando vengono
aperte nuove miniere, si assumono persone
(uomini e donne) e soprattutto i giovani abitan-
ti che abbandonano i campi per avere un salario
fisso, anche se basso. Se la comunità si oppone
alle concessioni alle società minerarie, questi
hanno diversi metodi per convincerla: corrom-
pono le autorità, attaccano leader forti fino al
punto di uccidere loro o familiari, stabiliscono
contratti con la popolazione e offrono posti di
lavoro a basso reddito (ma almeno a pagamen-
to), offrono un sostegno economico per le
infrastrutture sociali indirizzate alla moderniz-
zazione delle comunità montane. A volte
ingaggiano degli antropologi per convincere gli
abitanti del villaggio ad accettare l'invasione,
utilizzando i loro stessi termini culturali. In cam-
bio i territori sono indeboliti e le sane produzio-
ni alimentari locali vengono compromesse
dall'introduzione del cibo spazzatura.
Organizzazione sociale e migrazione
Dato che il sistema ufficiale emargina le comu-
nità rurali e promuove lo sviluppo urbano e la
modernizzazione ci sono pochi incentivi a rima-
nere nelle zone rurali, e ancora meno in zone di
montagna terrazzate, che richiedono un rigo-
roso calendario agricolo e molta fatica. Richie-
de tradizionalmente una forza lavoro giovane e
l'intelligenza creativa femminile per la raccol-
ta. I terrazzamenti non possono essere facil-
mente meccanizzati. I giovani delle comunità
specie quelle più remote, emigrano alla ricerca
di lavoro in città o nelle industrie. Chi rimane
con gli anziani, spesso donne e bambini, sono
impossibilitati a mantenere il sistema produt-
tivo e la raccolta nei campi. L'organizzazione
sociale si indebolisce e la saggezza tradiziona-
le svanisce con la rottura delle connessioni tra
generazioni.
Contrazione delle biodiversità
Le tradizioni agricole sono colpite dall'inva-
sione di semi moderni, dalla tecnologia della
rivoluzione verde e da una ecologia indebolita.
La saggezza locale svanisce: il modello urbano
trasforma le culture alimentari locali e indebo-
lisce il sistema nutrizionale delle famiglie rura-
li. Varietà vegetali tradizionali e razze animali
legate alle culture etniche nelle valli montane
vengono a perdersi e l'agrobiodiversità si esau-
risce. L'agricoltura familiare non è una priorità
nelle politiche ufficiali, mentre lo è
l'esportazione di prodotti agricoli.
Agricoltura chimica e meccanizzazione
Agricoltura chimica, fertilizzanti e pesticidi
sono stati inventati dopo la seconda guerra
mondiale quale opzione dell'industria delle
armi: vere armi chimiche per la produzione
alimentare. In particolare il governo degli Stati
Uniti ha istituito sistemi di espansione con ex
membri dell'esercito per promuovere
l'agricoltura chimica come parte di una politica
di sviluppo e di crescita. Questa ha minacciato
la salute di produttori e consumatori, attraver-
so sostanze chimiche nocive trasmesse al cibo
tramite l'aria e l'acqua. I sistemi naturali di pro-
duzione delle famiglie di agricoltori sono stati
indeboliti o anche distrutti, in quanto le
sostanze chimiche distruggono la capacità
naturale del suolo di produrre cibo gustoso e
sano. Inoltre il modello occidentale, imponen-
do la meccanizzazione e l'industrializzazione,
elimina la forza lavoro, creando quartieri pove-
ri e di conseguenza la povertà. Nei paesaggi
terrazzati grazie alla meccanizzazione si
distruggono i campi, i sistemi di irrigazione
ben congegnati e le modalità famigliari di pro-
duzione, colpendo le qualità naturali dei terre-
ni.
Campi bonificati (per esempio terrazzamenti
del vino in Germania) mostrano meno difese
contro gli attacchi di gelo, perché i nuovi ter-
razzamenti sono più larghi rispetto ai sistemi
tradizionali. La manodopera familiare è sosti-
tuita da specialisti dell'agricoltura e le aziende
stesse diventano dipendenti da fattori esterni
come il petrolio. Se i terrazzamenti sono demo-
liti, l'erosione del suolo a sua volta indebolisce
le montagne.
Denaro e mercato
L'economia di mercato influisce negativamen-
te sulle culture tradizionali e sui sistemi produt-
tivi locali. Invece di produrre cibo per l'auto-
consumo e per i mercati locali, le comunità si
trasformano in attrazioni folkloristiche per il
turismo in cambio di soldi, eliminando la pro-
duzione alimentare della famiglia. I mercati
globali richiedono una produzione uniforme e
costante in quantità enormi distruggendo
l'agrobiodiversità. Il denaro favorisce la migra-
zione verso le città e indebolisce la cooperazio-
ne intergenerazionale; corrompe autorità, fa
esplodere interessi e impoverisce le risorse
naturali tradizionalmente nelle mani delle
comunità locali. Il ricco trae guadagno dai pove-
ri che non hanno potere.
Menti colonizzate e controllo da parte di poteri
esterni
I governi istituiscono modelli di sviluppo lonta-
ni dai bisogni delle comunità locali. Gli inter-
venti sono normalmente progettati nelle città
e nei centri mondiali di sviluppo che mirano a
crescita, industrializzazione e modernizzazio-
ne; le società tradizionali sono percepite come
ostacolo al modello di sviluppo occidentale. Le
industrie internazionali producono e controlla-
no le conoscenze, condizionano le agende di
ricerca agricola e gli interessi della scienza, cre-
ando valori e visioni in contrasto con quelli
della popolazione locale. Non c'è dialogo inter-
culturale sullo sviluppo, le idee e le proposte
sono unidirezionali: il sistema dominante colo-
nizza le comunità con il suo metodo, i sistemi
formali di istruzione e infine, l'opinione pubbli-
ca e i media a rifiutare gli stili di vita tradizionali
e le sue culture alimentari. Il razionalismo e il
positivismo scientifico negano la spiritualità
del rispetto per la Madre Terra e per tutti gli
esseri viventi, come piante, animali, paesaggi,
montagne. Il sistema dominante minaccia la
sopravvivenza della vita sul pianeta Terra.
31
La storia delle valli di montagna
La storia delle regioni di montagna è contami-
nata dall'imposizione di valori e comporta-
menti derivanti da una logica esterna. Lo svi-
luppo ed i modelli sociali vengono imposti,
non vi è alcun tentativo di dialogo con la popo-
lazione locale, le opinioni delle comunità indi-
gene e rurali non sono prese in considerazione
nella progettazione del futuro da parte degli
urbanisti. Poteri politici ed economici esterni
occupano la terra, spostano i loro habitat, i
campi e le coltivazioni, distruggono le loro tra-
dizioni producendo povertà e l'indigenza delle
maggioranze. I progetti di sviluppo propongo-
no e spesso impongono, le loro idee di moder-
nizzazione dividendo le comunità locali, cre-
ando organizzazioni parallele e manipolando
la conoscenza.
L'industria alimentare favorisce nei consuma-
tori la dipendenza dai prodotti alimentari tra-
sformati e la dipendenza da parte dei produt-
tori per l'ingresso nel mercato di sementi ibri-
de o di OGM – con conseguenti problemi lega-
ti all'accesso al credito- incentivando le espor-
tazioni e favorendo il predominio dei mercati.
Ma come riconquistare una produzione locale
di alimenti sani per i consumatori locali, in
base al principio del chilometro zero?
Che cosa dobbiamo fare?
Dare visibilità alle diversità dei prodotti autocto-
ni. Fortificare un movimento internazionale
consapevole del valore che non si limiti al prez-
zo. Cercare spazi per una produzione sana,
favorire iniziative locali, il dialogo intergenera-
zionale e la cooperazione che permettono la
realizzazione come esseri umani in armonia
con la natura. Organizzare mostre itineranti,
che evidenziano le minacce e le potenzialità
future di queste regioni, rinforzando le culture
locali e le organizzazioni contadine.
Sostenere la nascita di organizzazioni contadi-
ne per promuovere la solidarietà e la mobilita-
zione della difesa dei diritti dei custodi della
terra contro le minacce esterne, rafforzando
l'identità.
Dialogare con i politici con l'obiettivo di raffor-
zare la voce e le iniziative dei custodi della ter-
ra. Questi luoghi di decisione democratica e la
visibilità data alle conoscenze contadine, con-
durranno verso la nascita di nuove strutture in
difesa dei diritti territoriali.
Stringere alleanze con accademici coscienti e
impegnati. La complessità dei sistemi terraz-
zati richiede un approccio multidisciplinare e
interdisciplinare tra le scienze. Stimola a fare
ricerca in modo diverso tra i contadini esperti
con alle spalle una lunga storia di esperimenti,
in sintonia con la natura e le sfide delle monta-
gne. Questioni come le conseguenze del cam-
biamento climatico dovrebbero coinvolgere
giovani ricercatori, normalmente entusiasti e
creativi, al fine di recuperare le conoscenze
degli agricoltori, maschi e femmine.
Decolonizzare le nostre menti. Rivedere i con-
cetti che orientano le idee e le politiche sulle
aree di montagna nelle sue varietà ecologiche
e sociali, che hanno influenzato i paradigmi
tradizionali. Costruire un nuovo modello di
sviluppo montano sulla base della lunga storia
di domesticazione di piante, animali e paesag-
gi dalle società delle regioni montane.
La Seconda Conferenza Internazionale. Cusco, maggio 2014
Esito del secondo congresso mondiale di Itla, Alleanza Internazionale dei Paesaggi Terrazzati tenutosi a Cusco (Perù) a maggio 2014 e propositi per il terzo congresso che si terrà in Italia nel 2016PresentazionePer 3 anni il gruppo organizzatore composto da Giovanni Conti dell'Università Cattolica, Hilda Araujo, CITPA, Mourik Bueno de Mésquita del centro Bartolomé de las Casas supportato da ITLA, ha riunito un folto gruppo di ricercatori, privati ed enti pubblici per la progettazione e realizzazione della seconda Conferenza Internazionale. In preparazione per l'evento il gruppo ha organizzato diversi workshop con i leader della comunità (maschi e femmine) a Cusco, discutendo le problematiche dei contadini operanti nei terrazzamenti del sud Perù. Le loro testimonianze sono state portate alla Conferenza Internazionale.
RisultatiI risultati della conferenza saranno pubblicati all'inizio del 2015 grazie al supporto finanziario della JICA (Japanese International Cooperation Agency).Il principale risultato della Conferenza è stato il ruolo da protagonisti delle donne e degli agricoltori maschi delle comunità andine di Cusco, Puno, Arequipa, Tacna, Abancay, Ayacucho e Lima.
Hanno organizzato la Mostra sui terrazzamenti, sono intervenuti al Forum, nei tavoli di confronto hanno espresso le loro idee e le preoccupazioni ponendosi sullo stesso livello dei partecipanti professionisti.Infine le conclusioni che hanno tratto, frutto del lavoro di ben due anni, sono state fondamentali per elaborare idee motivate a proteggere e promuovere i paesaggi terrazzati in Perù. Hanno proposto di cominciare a livello individuale e familiare a coinvolgere le giovani generazioni ad imparare le tecniche, i rituali ed i valori dell'agricoltura terrazzata. A livello comunitario hanno espresso l'intenzione di mobilitare le comunità e il loro sistema di istruzione per valorizzare le risorse naturali e la loro cultura alimentare.A livello nazionale i delegati propongono di organizzarsi come una federazione di comunità per fermare le politiche dannose, per difendere i loro diritti con il supporto da parte di terzi (ONG, avvocati, attivisti), di lavorare con gli scienziati per il recupero delle colture tradizionali (sementi). la ricostruzione e il rilancio dei terrazzamenti abbandonati.A livello internazionale vogliono essere collegati ad altri movimenti e agricoltori mondiali, e, se possibile, aderire ad ITLA 2016 per poter scambiare le loro preoccupazioni, interessi ed esperienze con le comunità alleate.
32
33
La vita dei terrazzamenti coltivati a Sandia in Perù
Formazione continua e reciproca - ITLA
2016 in Italia
I paesaggi terrazzati sono una fonte inesauri-
bile di formazione e di ispirazione: si prosegue
verso la Terza Conferenza Internazionale in
Italia ad ottobre 2016.
Inviteremo diverse realtà mondiali per unire
gli sforzi, cercheremo alleati per dare voce ai
custodi della terra e ci impegneremo in azioni
globali di supporto. Senza burocrazie: in
modo agile e flessibile come l'acqua che scor-
re e mostrando solidarietà e forza come le
pietre dei muri a secco.
Durante l'ultimo incontro a Milano all'inizio di
novembre 2014 abbiamo concordato con il
team organizzativo di ITLA Italia come piani-
ficare la conferenza, iniziando il processo di
selezione della sede per la terza conferenza
sulla base di fattori quali, motivazioni, soste-
gno istituzionale e la disponibilità di risorse
finanziarie. Analizzeremo anche i luoghi per le
visite sul campo pre-conferenza nelle aree
della Costa di Amalfi, Liguria (Cinque Terre e
Arnasco), Trentino, Sicilia, Veneto, Lombardia
(Valtellina), Valle d'Aosta, Piemonte, Friuli e
Toscana convogliando il maggior numero di
professionisti e di esperienze in ITLA 2016.
Il tema centrale della prossima conferenza sui
Paesaggi Terrazzati e delle sue culture sarà il
Benessere futuro, i giusti mezzi di sussisten-
za, l'osservazione, l'analisi e la condivisione di
esperienze di cultura agricola. Studieremo dal
punto di vista ecologico, la qualità del paesag-
gio e dei prodotti alimentari, nonché i modelli
sociali ed economici per un futuro sostenibile.
Vogliamo mappare i paesaggi terrazzati evi-
denziando il valore della combinazione di tra-
dizioni tecnologiche e culturali con le innova-
zioni scientifiche, economiche e sociali.
L'obiettivo è il recupero, la protezione, la con-
servazione e la promozione dei terrazzamenti
nelle montagne del mondo.
A Cusco, nel maggio 2014, abbiamo nomina-
to un comitato internazionale a sostegno
dell'organizzazione del congresso italiano
composto dai seguenti membri: Timmi Til-
lmann, Germania, Coordinatore; Donatella
Murtas, Mauro Varotto, Damiano Zanotelli, in
Italia, come organizzatori locali; Maruja Salas,
Perù-Alemania; Mourik Bueno de Mesquita,
Manuel Aguirre, Perù; Lucija Azman, Slove-
nia; Heather Peters, Thailandia, UNESCO;
Noriyuki Baba, Giappone.
La delegazione italiana si è proposta di orga-
nizzare la terza conferenza in occasione della
conferenza di Cusco, con l'approvazione una-
nime dei delegati.
La conferenza si dividerà in tre sezioni:
· Un incontro iniziale di due giorni per i visi-
tatori esteri per conoscere la situazione dei
paesaggi terrazzati in Italia e in Europa.
· Il lavoro sul campo e il dialogo con le comu-
nità locali per 5 giorni in diverse regioni ita-
liane, con l'obiettivo di dare spazio alla
discussione di problemi, potenzialità e pos-
sibili usi dei terrazzamenti.
· Infine, la terza conferenza in un luogo scel-
to vicino ai paesaggi terrazzati per lo scam-
bio di esperienze e la raccolta di proposte di
azione a livello locale, regionale, nazionale,
e globale a favore del futuro dei paesaggi
terrazzati, delle società e delle culture.
Durante la riunione di Milano, per la prepara-
zione della terza conferenza ITLA in Italia
sono state proposte una serie di attività:
· messa in rete
· promozione dei prodotti del paesaggio
· sito web
· bibliografia e Filmografia dei terrazzamen-
ti in Italia (e in tutto il mondo)
· mappatura dei terrazzamenti e delle pre-
ziose esperienze
· iscrizione a Expo 2015 e Slow Food 2016?
· Corsi di costruzione di muretti a secco per
terrazzamenti
· Laboratori tematici italiani ed europei.
34
Terrazzamenti einnovazione sociale. Il progetto“Adotta un terrazzamentoin Canale di Brenta”
di Luca Lodatti*
1. Introduzione
Ai lettori di Sentieri Urbani non sarà ignoto quel
tratto della valle del fiume Brenta che a sud
della Valsugana si stringe fino a assumere la
forma di un canyon e prende il nome di Canale
di Brenta. Questo articolo descrive un progetto
di recupero territoriale sviluppato in quest'area
a partire dall'autunno 2010 e chiamato fami-
liarmente Adotta un terrazzamento, che ha
coinvolto un gruppo di persone non originarie
della valle nella manutenzione e coltivazione
dei versanti, storicamente destinati all'agri-
coltura, ma al momento attuale per la maggior
parte in stato di abbandono.
Il progetto ha preso forma a partire da una
serie di riflessioni fatte presso il Dipartimento
di Geografia dell'Università di Padova sui feno-
meni di ritorno all'abitazione e alla coltivazione
di aree montane nei decenni passati soggette a
spopolamento, a opera non solo di abitanti
locali ma anche di cittadini provenienti
dall'esterno delle valli, sensibili a motivazioni
quali una maggiore qualità della vita e la con-
servazione di un territorio di valore.
Questa tematica negli ultimi anni ha trovato
riscontro a livello internazionale, in particolare
in Francia e in Italia, con libri, documentari e
lungometraggi che hanno cominciato a descri-
vere gli sforzi di recupero degli insediamenti
alpini da parte di nuovi abitanti provenienti
dalla pianura (ad es. Il vento fa il suo giro, di G.Di-
ritti). Nel nostro paese sono state avviate alcu-
ne ricognizioni delle esperienze di ritorno
all'abitare nelle aree montane (ad es. La nuova
vita delle Alpi, di E. Camanni), i cui esiti hanno
offerto al progetto qui descritto spunti di rifles-
sione, per gettare una nuova prospettiva sui
versanti terrazzati, ancora oggi spesso visti uni-
camente come un paesaggio dell'abbandono.
2. L'area di lavoro del progetto
Il Canale di Brenta, come il lettore saprà, è una
stretta valle con orientamento Nord-Sud della
lunghezza di circa 25 km situata nelle Prealpi
Venete, in Provincia di Vicenza. Forse non
altrettanto conosciuta è la storia di questo luo-
go, che nel corso dei secoli ha visto più di un
rivolgimento cambiare in modo radicale la sua
sorte. In epoca romana e poi medievale il Cana-
le di Brenta era utilizzato soprattutto come
passaggio dalla pianura veneta verso l'area tri-
dentina e il Nordeuropa. A partire dal '400 la
valle ospitò attività di commercio del legname
e produzione manifatturiera sotto il dominio
della Repubblica di Venezia.
Lo sviluppo storico della valle ebbe una svolta a
* Luca Lodatti. Regione del Veneto - Sezione Urbanistica, PhD presso il Dipartimento di Geografia dell'Università degli Studi di Padova.
LE TEORIE E LE ESPERIENZE1
35
partire dal XVIII secolo con la concessione da
parte della Serenissima per la coltivazione del
tabacco, che prese piede nella valle e andò
estendendosi intorno ai centri abitati nel corso
dell'Ottocento fino a assumere un ruolo di
monocultura. La tabacchicoltura indusse gli abi-
tanti alla costruzione di estesi terrazzamenti
agricoli sui versanti per ricavarne superficie col-
tivabile, portando nel tempo ad una nuovo
aspetto del territorio, con l'edificazione di 230
Km di terrazzamenti complessivi. L'estensione
delle aree terrazzate andò allargandosi fino agli
inizi del '900, accompagnando la crescita demo-
grafica, improntando anche le abitudini di vita e
il rapporto con il loro ambiente delle comunità
locali.
La coltivazione del tabacco ha continuato a esse-
re l'attività produttiva principale fino al secondo
dopoguerra, quando si è verificato un crollo dif-
fuso della tabacchicoltura sui terrazzamenti,
che non si presta alle forme moderne di coltiva-
zione estensive e meccanizzate. Nell'arco di alcu-
ni decenni (1960-1990) il numero delle aziende
agricole è diminuito fino quasi a scomparire (del
90% in Comune di Valstagna). La popolazione si
è ridotta in misura minore (34% in media), ma
gli abitanti della valle hanno sempre più trovato
impiego nell'industria, dando luogo a una
dipendenza economica della valle dalla pianura
antistante.
Solo agli inizi degli anni 2000 è emerso un nuovo
interesse per le aree terrazzate, da parte ora del
mondo della ricerca scientifica. I terrazzamenti
oramai si presentano in prevalenza ricoperti dal
bosco, con le strutture abitative e produttive
(compresi in terrazzamenti) in rovina e minac-
ciate da crolli. É in questa prospettiva che sono
stati sviluppati alcuni progetti di ricerca promos-
si dal Club Alpino Italiano, dalle Università di
Padova e di Venezia e dalla Regione Veneto, nel
periodo che va dal 2000 fino al 2010.
3. Il progetto di recupero territoriale coinvol-
gendo i 'non valligiani'
L'iniziativa di Adotta un terrazzamento si collega
al lavoro di ricerca di un progetto europeo (Pro-
getto ALPTER, 2005-2008) cui ha partecipato
l'università di Padova: durante l'ultimo anno di
questo progetto è stata registrata una richiesta
pervenuta all'amministrazione comunale di Val-
stagna per l'affidamento di un terreno incolto di
pubblica proprietà da parte di due abitanti del
vicino centro di Bassano del Grappa. Dopo che
la richiesta è stata accolta il riuso produttivo
dei terrazzamenti ha dato un buon esito, por-
tando al recupero e alla nuova coltivazione dei
terreni, così che in seguito sono giunte altre
richieste (da parte di privati e di associazioni)
per prendersi cura di un terrazzamento.
L'università e l'amministrazione comunale
hanno seguito con interesse queste attività
spontanee di riuso dei terrazzamenti, che sono
state considerato come un potenziale punto di
partenza, portando a sviluppare l'idea del pro-
getto Adotta un terrazzamento, volto ad allar-
gare la pratica messa in atto da un caso isolato
a un progetto di recupero territoriale.
Nell'elaborare il sistema di gestione per
l'affidamento dei terreni si è andati a identifica-
re i soggetti necessari allo svolgimento delle
attività, che comprendevano l'amminis-
trazione comunale, le associazioni di volonta-
riato dei centri urbani, la comunità locale, e
l'università con un ruolo di gestione e supervi-
sione. Un gruppo dei rappresentanti di questi
soggetti si sono riuniti nell'agosto 2010 per
costituire un comitato denominato appunto
Adotta un terrazzamento in Canale di Brenta,
con lo scopo di dare forma concreta al proget-
to.
Il comitato ha assunto anzitutto la funzione di
contattare i proprietari locali per acquisire in
affidamento i terreni incolti. A tale scopo è
stato steso un modello di contratto di comoda-
to d'uso modale, che prevede la concessione
gratuita dei terreni per 5 anni, a fronte dei lavo-
ri regolari che garantiscano il loro recupero e
manutenzione. D'altra parte il comitato è anda-
to ad accogliere al suo interno coloro che
hanno chiesto di avviare le attività di nuova
coltivazione dei terrazzamenti. La struttura di
gestione ha così assunto un ruolo di mediazio-
ne fra i proprietari dei terreni in abbandono e i
nuovi coltivatori che andavano a prenderli in
mano e prendersene cura.
I primi terreni sui quali dare inizio ai lavori sono
stati scelti prendendo in considerazione aspet-
ti diversi legati alla salvaguardia e al riuso agri-
colo, quali il valore storico-culturale e paesag-
gistico, il contributo alla stabilità dei versanti, la
vicinanza di una strada carrabile e di un punto
d'acqua, nonché la possibilità di reperire i pro-
prietari. Nell'ottobre 2010 sono state così
avviate le prime attività di recupero, presso la
contrada di Ponte Subiolo e nello stretto imbu-
to della Val Verta, cominciando a tagliare la
vegetazione che aveva invaso i terreni per
riportarli al loro uso agricolo.
4. I risultati del progetto
Nei suoi primi quattro anni di attività, dal 2010
al 2014, il progetto ha condotto al recupero di
123 terrazzamenti, per una superficie totale di
quasi 5 Ha. Le richieste hanno continuato a
pervenire con regolarità al comitato di gestio-
ne, con una media di 30 domande all'anno. Si è
così andata definendo attraverso la pratica
concreta quella che è l'attività per contrastare il
degrado delle aree terrazzate di Adotta un ter-
razzamento, nato inizialmente come un picco-
lo progetto sperimentale.
Alcune cifre possono aiutare a delineare
meglio quella che sono le caratteristiche dei
lavori avviati dai partecipanti alla adozione dei
terreni. L'estensione media degli appezzamen-
ti è di 400 mq, lotti di medie dimensioni, adatti
a una famiglia o a un piccolo gruppo di persone
nella coltivazione per l'autoconsumo. La
distanza media da una strada dei terreni recu-
perati è di 80 m, quella da una presa d'acqua di
30 m, condizioni non ideali per la coltivazione,
ma accettabili per una agricoltura familiare
quale si è andata avviando. Infatti un aspetto
che ha caratterizzato di gran lunga le attività di
adozione è lo sviluppo di una agricoltura per
l'autoconsumo, che caratterizza l'80% degli
affidatari. Seguono nell'utilizzo dei terreni quel-
lo ricreativo (10%, legato alle associazioni),
l'apicoltura (5%) e altri usi (5%, viticoltura e oli-
vicoltura).
I Soci iscritti al comitato sono 111, tra di essi ci
sono 4 associazioni, 2 cooperative sociali, 1
istituto agrario. Il profilo degli affidatari raccol-
to dal comitato restituisce un'età prevalente è
fra i 50 e i 65 anni (45%), seguita da 35-50 anni
(20%) e infine da 18-35 (25%, il restante sono
associazioni). Particolare la provenienza geo-
grafica dei partecipanti, che è solo in piccola
parte dalla valle (13%), per la maggioranza dai
centri urbani limitrofi (50%, ad es. Bassano
d.G., Marostica, Rosà, ecc.) e comprende
anche aree più lontane quali Vicenza e provin-
cia (13%), Padova e provincia (5%), fino a Vene-
zia e provincia (5%), con una distanza anche di
100 km che gli affidatari compiono regolar-
mente per curare i terreni. Infine risulta inte-
ressante considerare il livello di istruzione dei
partecipanti, che vede più del 50% dei parteci-
panti in possesso di un diploma superiore o di
36
37
La stessa vista di Valstagna con i versanti terrazzati in una foto scattata nel 2012(Foto dell'Autore).
Vista di Valstagna con i versanti terrazzati in una foto d'epoca degli inizi del '900 (Collezione Todesco, Valstagna).
una laurea.
Si viene così a delineare nei suoi tratti generali
quello che è il quadro delle attività avviate da
Adotta un terrazzamento. Si tratta di una
forma di utilizzo dei terreni che accanto
all'orticoltura per un uso familiare dà impor-
tanza alla qualità dell'ambiente naturale come
il Canale di Brenta e all'impegno per il mante-
nimento di questi luoghi di valore con un con-
tributo dato in prima persona. La produzione
avviata è nella quasi totalità dei casi per
l'autoconsumo. D'altra parte la cura di un ter-
razzamento, come indicano i dati del profilo
geografico e sociale qui sopra delineato, chia-
ma in causa un impegno per il mantenimento
dell'ambiente naturale a cui molti soci sono
legati, e un riconoscimento del valore territo-
riale e paesaggistico di questi luoghi.
Si può quindi concludere che sia questo il qua-
dro socio-economico, diverso dalla lotta per la
sopravvivenza del tempo della tabacchicoltu-
ra, che si è delineato nell'attività di Adotta un
terrazzamento e l'ha sostenuto in questi 4
anni.
5. Tre questioni in una prospettiva più ampia
Al termine di questa presentazione del proget-
to Adotta un terrazzamento si può accennare a
tre questioni che si sono imposte all'attenzione
in quanto centrali per il riuso produttivo dei
terreni incolti a livello non soltanto locale, ma
per un processo di recupero a scala più ampia,
andando a tratteggiare le soluzioni che il pro-
getto ha provato a mettere in campo.
5.1 Il contatto e il contratto coi proprietari
La questione della proprietà dei terreni in
abbandono risulta basilare per la possibilità di
un recupero produttivo, nel Canale di Brenta
come in altri ambiti montani, aree che sono
caratterizzate da un alto grado di frammenta-
zione fondiaria. Questo problema è oggetto di
una riflessione in corso da anni anche a livello
nazionale, tanto da condurre all'elaborazione
di un progetto di legge presentato alla Camera
(Legge Quartiani, 2008). Il disegno di legge
prevedeva una procedura di pubblico espro-
prio dei terreni rimasti incolti per un lungo
periodo, e forse per questo non ha trovato con-
senso al livello parlamentare.
Questo porta a considerare l'importanza della
forma con cui si vanno a rimettere in uso le pro-
prietà agricole improduttive, che dovrebbe
consentire da una parte il riutilizzo produttivo e
dall'altra una tutela degli interessi dei proprie-
tari. La soluzione messa in campo dal progetto
Adotta un terrazzamento in questo senso ha
corrisposto alle esigenze di mediazione fra
istanze diverse, attraverso la forma del como-
dato d'uso che, seppur provvisoria e voluta-
mente debole, consente una nuova agricoltu-
ra, capace di garantire sia i proprietari che la
cura delle aree terrazzate.
Nel Canale di Brenta si può anche segnalare
come allo stato attuale vi siano terreni che con-
tano un alto numero di eredi, dei quali alcuni
sconosciuti o emigrati altrove. Il progetto quin-
di, dopo aver avviato le attività su terreni dei
quali i proprietari erano noti, ha in seguito
dovuto compiere un lavoro capillare di ricerca
catastale e di contatto con gli interessati, i quali
a volte si sono potuti individuare solo attraver-
so la conoscenza degli abitanti locali.
A fronte della complessità fondiaria in ogni
caso la scelta di un compromesso nella solu-
zione del problema della proprietà della terra si
è rivelato strategico, consentendo una opera-
tività rapida a fronte di una possibile reversibili-
tà della concessione in uso, andando a media-
re fra le istanze dei diversi attori coinvolti.
5.2 Una struttura di gestione “inclusiva”
Fin dall'inizio il progetto Adotta un terrazza-
mento è nato puntando sul coinvolgimento
della società civile, anche esterna alla valle,
piuttosto che sul sostegno pubblico. La parte-
cipazione delle amministrazioni pubbliche è
risultata comunque importante per la sua fun-
zione di garanzia dei lavori attuati (da parte del
Comune) e di gestione delle procedure (da
parte dell'Università). D'altra parte è stato il
coinvolgimento diretto dei cittadini delle aree
urbane a consentire la manutenzione e il
nuovo utilizzo produttivo del patrimonio ter-
razzato.
Una chiave del successo del progetto è stato
quindi il coinvolgimento di tanti attori di estra-
zione diversa, che ha dato modo a ciascuno di
mettere in campo le proprie competenze e le
proprie risorse, facendole convergere
sull'obiettivo del ritorno all'uso dei territorio
terrazzato. Per un'area caratterizzata attual-
mente da marginalità economica, tanto più in
un periodo di crisi come quello odierno, è risul-
tata una strategia attuabile quella di riunire le
esigue forze di un gran numero di soggetti
attorno ad un obiettivo condiviso.
Il progetto è stato allora messo in atto acco-
gliendo nel comitato di gestione soggetti di
estrazione molto diversa, ricomprendendoli
all'interno di una struttura aperta e non vinco-
lante come quella di un'associazione. Si sono
così ritrovati gli uni accanto agli altri ammini-
strazioni locali e associazioni escursionistiche,
enti di ricerca e istituti scolastici, abitanti della
valle e cittadini urbani. Ciascuno è stato chia-
mato a seconda delle situazioni e delle esigen-
ze a contribuire per quelli che erano i suoi ambi-
ti di competenza, suddividendo il carico ammi-
nistrativo e operativo all'interno dell'ampio
gruppo dei soci. In questo senso un approccio
inclusivo ha pagato, rendendo possibile con
l'unione delle forze quello che ciascuno dei sog-
getti coinvolti non sarebbe probabilmente
stato in grado di raggiungere.
5.3 Una coltivazione per l'autoconsumo
Una riflessione merita infine l'uso produttivo
che è stato avviato nei terreni recuperati. Infat-
ti come si è visto la quasi totalità degli affidatari
utilizza i terrazzamenti per l'orticoltura e
l'autoconsumo. I terreni non offrono cioè una
resa annuale monetizzabile e il progetto si è
mantenuto nell'ambito del volontariato, un
argomento più volte discusso fra i soci.
A questo riguardo si possono fare due conside-
razioni di ordine diverso. La prima è che alcuni
membri del comitato hanno dato vita indipen-
dentemente a una piccola cooperativa agricola
che punta a un reddito a partire dai terrazza-
menti; altre due piccole cooperative sono state
fondate nel Canale di Brenta da quando è stato
avviato il progetto e ora cercano una loro posi-
zione sul mercato. Si può in questo senso dire
che Adotta un terrazzamento, mantenendo
un profilo volontaristico, ha avuto un ruolo pro-
pulsivo e propedeutico alla ricerca di una
nuova dimensione produttiva per i terrazza-
menti della valle.
La seconda considerazione, di contro, riguarda
come l'uso dei terreni fatto da Adotta un ter-
razzamento risulti fra quelli meno invasivi per il
territorio terrazzato. Il nuovo utilizzo fatto
degli appezzamenti non giunge a una trasfor-
mazione del paesaggio quali altre coltivazioni
possono richiedere, sia in termini di alterazione
dei terrazzamenti, che di utilizzo di fertilizzanti
o di introduzione di nuove specie colturali. Si
può quindi dire che il progetto ha preso una
38
strada di mediazione fra l'impegno in tutela del
territorio, riconosciuto dai soci come precipuo, e
quello a un riuso non semplicemente conservati-
vo ma produttivo, fondamentale per il progetto
a livello operativo e di sostenibilità nel tempo.
Con queste considerazioni sparse si conclude la
breve carrellata sul lavoro di Adotta un terrazza-
mento. Un progetto nato come una piccola spe-
rimentazione che ha mostrato una capacità
significativa di autoalimentarsi, giungendo fino
a fornire indicazioni sulle potenzialità offerte
dalle forme di collaborazione pubblico-privata
per la conservazione del paesaggio, andando a
offrire un contributo su prospettive ormai
d'interesse in ambito nazionale e internazionale.
39
Fotografia aerea e estratto catastale con evidenziati i terreni recuperati dal
progetto presso la contrada di Ponte Subiolo a Valstagna (Foto: G.Medici).
Giornata di lavoro comune del comitato a Valstagna
presso la contrada di Ponte Subiolo (Foto dell'Autore).
40
Foto
graf
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i L. C
his
tè
IL LABORATORIO TRENTINO
2
41
I «Richiedenti Terra»di Trento e le esperienzedegli orti urbaniin provincia di Trento
di Valentina Merlo*
Orto urbano? Sì, ma comunitario!
La realtà degli orti/giardini urbani è in costante
espansione in buona parte del mondo e anche
in Italia, dove ha conosciuto un notevole
aumento negli ultimi tre anni. E' bene sottoli-
neare che quando si parla di "orti urbani" (non
prendendo in considerazione quelli di proprie-
tà privata) si possono sottendere due catego-
rie alquanto diverse: gli orti sociali e gli orti
comunitari; gli orti sociali urbani, che si sono
diffusi in Italia dagli anni Settanta in poi, sono
parcelle di terreno date in concessione dal
Comune, in genere coltivati da singoli, per lo
più delle classi d'età oltre i 50 anni, e lo scopo
prevalente della coltura è l'autoconsumo fami-
liare. Per giardini e orti comunitari (anche chia-
mati condivisi o collettivi) s'intendono invece
appezzamenti di terreno urbano, anch'essi in
genere di proprietà pubblica, concessi
dall'Amministrazione comunale o occupati dai
cittadini e coltivati collettivamente, prevalen-
temente da persone che vivono nei quartieri
limitrofi. Le due realtà, nate da esigenze in
parte diverse, convivono nelle città italiane, in
aree urbane distinte, e in genere non hanno
grandi rapporti tra loro, anche se sembra esi-
stere un'influenza reciproca. Ad esempio,
l'emergere degli orti comunitari ha posto in
evidenza e segnalato all'attenzione degli Enti
locali bisogni che li hanno orientati a modifica-
re i criteri di affidamento e di gestione degli
orti sociali. In questo momento i community
gardens costituiscono una realtà di nicchia,
minoritaria rispetto agli orti sociali, e molto
meno regolamentata, data anche la recente
origine.
Gli orti urbani si diffondono negli Stati Uniti e
in Europa con l'avvento della rivoluzione indu-
striale e lo spostamento in città di masse di
lavoratori che cercano occupazione nelle fab-
briche e che vivono in condizioni molto preca-
rie. Per loro la coltivazione dell'orto diviene
una risorsa importante, sia come fonte di
nutrimento per le famiglie, in grave stato
d'indigenza, sia perché riallaccia il legame con
la terra, col mondo rurale e con le sue pratiche.
Lavorare nell'orto è un'attività incoraggiata e
sostenuta dalle aziende manifatturiere, dalle
compagnie ferroviarie, dalla Chiesa e dagli
enti governativi, che la ritengono educativa e
salutistica e le attribuiscono funzioni di neutra-
lizzazione della protesta sociale. Negli Stati
Uniti, in particolare, a partire dal 1893 e fino
alla fine della seconda guerra mondiale molte
amministrazione cittadine sviluppano pro-
grammi di assistenza per le fasce più deboli
*L'articolo è tratto dalle ricerche di Leila Ziglio e Daniele Saguto. Contatti: [email protected]
IL LABORATORIO TRENTINO2
«They tried to bury us. They didn't know we are seeds»Proverbio messicano
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della popolazione, mettendo a disposizione
dei terreni comunali abbandonati per la colti-
vazione di ortaggi. Durante la guerra e la gran-
de depressione l'invito a coltivare l'orto viene
farcito di retorica patriottica (un esempio su
tutti la campagna "Sow the seeds of Victory.
Plant and raise your own vegetables.” - Pianta
il seme della vittoria. Semina e cresci i tuoi
ortaggi, il cui manifesto raffigura una giovane
donna vestita a stelle e strisce, impegnata a
seminare un campo). In Europa la diffusione
degli orti ricalca il modello americano e ha gli
stessi scopi: il miglioramento della dieta delle
classi più povere e il sostentamento delle
popolazioni durante le guerre mondiali. Le
politiche in favore degli orti-giardini cessano
ovunque non appena i devastanti effetti delle
guerre scemano, l'emergenza alimentare è
superata e, con gli anni Cinquanta, si avvia la
ripresa economica. I terreni urbani sono utiliz-
zati per costruire strade, abitazioni, scuole e
industrie, attività che lasciano spazio alla spe-
culazione edilizia e alle rendite, molto più red-
ditizie della produzione di ortaggi. Inoltre agli
orti viene associata, nell'immaginario colletti-
vo, l'etichetta sgradevole degli orti di guerra
come luoghi per la sussistenza.
Il movimento dei community gardens nasce a
New York negli anni '70 del secolo scorso, pren-
dendo spunto dall'attivismo ambientalista ed
ecologista e dall'intensa fase di attività politica
degli anni precedenti, in particolare le rivendi-
cazioni di autogestione e di autodetermina-
zione che riguardano anche l'uso della terra, in
contrapposizione al vorace mercato edilizio.
Le necessità materiali, che erano state decisi-
ve per le generazioni precedenti di orticoltori,
costituiscono in questa fase solo una delle
variabili in gioco, a fianco alla volontà di dare
nuova vita ad aree pubbliche degradate a
seguito della crisi economica e del crollo del
mercato immobiliare, di far crescere comuni-
tà costruendo aggregazione sociale e di
riprendere parte alla filiera del cibo al fine di
recuperare la sovranità alimentare. Il primo
nasce nel 1973 a New York a seguito di
un'azione di guerrilla gardening ad opera di un
gruppo di cittadini organizzati chiamati Green
Guerrillas. Di lì, molti community gardens sono
il risultato di occupazioni di aree pubbliche, e
non tutti vengono successivamente sanati.
Nel giro di un decennio le esperienze di orti
comunitari si moltiplicano in tutte le città sta-
tunitensi e si crea una fitta rete di associazioni
no profit che danno consulenza, assistenza
legale e forniscono aiuto materiale a chi vuole
creare un orto o un giardino e di organi istitu-
zionali, quali Green Thumb, che gestisce e dà
in affitto le aree pubbliche al prezzo simbolico
di 1$ al mese. Questa politica è dovuta al rico-
noscimento dell'amministrazione cittadina
della validità delle esperienze di community
gardening, che oltre a migliorare l'arredo urba-
no, hanno apprezzabili funzioni ambientali,
quali il riequilibrio della temperatura e la dimi-
nuzione del rumore. I giardini conosceranno
alterne vicende, secondo l'andamento del
mercato immobiliare e l'orientamento politi-
co delle amministrazioni cittadine.
Il fenomeno dell'orticoltura urbana si
(ri)diffonde poi in Europa e su scala mondiale,
assumendo forme diverse in contesti diversi,
ma a partire da alcune caratteristiche comuni,
di cui le più importanti sono sintetizzate nella
definizione che segue: “Un orto o un giardino
condiviso è anzitutto uno spazio pubblico con
finalità socioculturali, oltre a essere un'area
verde dentro la città che contribuisce al sistema
ambientale, al microclima, alla biodiversità”.
Per community gardens si intendono per lo più
spazi non suddivisi in parcelle, dove il gruppo
coltiva insieme terreni stabilendo le regole in
modo condiviso, sebbene esistano casi in cui il
campo è diviso e le persone costituiscono un
gruppo perché coltivano terreni disposti gli
uni accanto agli altri in un unico spazio adibito
allo stesso uso, organizzando insieme attività
sociali e pubbliche (questo è ad esempio il
caso del "Semi Rurali Garden" di Bolzano).
Una delle realtà più importanti in Europa è
quella della Germania, dove gli orti sono con-
siderati un'attività urbana, di cui si tiene conto
nella pianificazione cittadina (facendo riferi-
mento ad una legge nazionale che risale al
1919, modificata nel 1983 ed ancora in vigore),
sebbene questo non significhi che esistano
strumenti adeguati per la loro tutela, soprat-
tutto nel caso dei community gardens.
In Italia il fenomeno si è sviluppato con un
certo ritardo rispetto ad altri Paesi europei, in
modo disomogeneo e frammentato sul terri-
torio nazionale. Negli anni Settanta nelle città
di grandi o medie dimensioni aveva ripreso
piede la pratica dell'orticoltura. Si trattava di
orti individuali e per la maggior parte abusivi,
collocati sulle rive dei fiumi, a ridosso delle fer-
rovie o in altre aree urbane residuali. In linea di
massima gli orticoltori erano persone con un
basso reddito, di una certa età o pensionati.
Per loro l'orto poteva rappresentare uno sva-
go, ma più spesso era una fonte di cibo e un
modo per mantenere il legame con il mondo
contadino di provenienza. In Italia, rispetto ad
altri Paesi, mancava quindi la dimensione
sociale e ricreativa. Nel momento in cui le
Amministrazioni comunali riconoscono
l'utilità sociale degli orti e intervengono per
disciplinarli, nascono gli orti sociali (anche
conosciuti come "orti dei pensionati"), parcel-
le di terreno di proprietà pubblica date in con-
cessione a cittadini che ne facciano richiesta e
che abbiano determinati requisiti, per la mag-
gior parte anziani, sempre individuali o a con-
duzione familiare. La prima città che nel 1980
redige un regolamento comunale sui criteri
per l'assegnazione delle parcelle coltivabili è
Modena.
E' solo negli anni 2000 che si assiste alla nasci-
ta dei primi orti comunitari urbani: il movi-
mento è un fenomeno spontaneo, che nasce
dal basso, dal coinvolgimento attivo dei citta-
dini che vogliono assumersi responsabilità
rispetto alla gestione o co-gestione degli spazi
verdi cittadini, che una parte consistente del
movimento considera beni comuni. Anche
una parte di quelli che sono poi diventati orti
sociali autorizzati erano stati in precedenza
occupati dagli orticoltori con azioni spontanee
e ancora oggi esistono orti individuali abusivi
in parecchie città italiane, ma la differenza sta
nella dimensione collettiva, in quella ecologi-
ca e nella volontà di compartecipare alla
gestione della cosa pubblica, in una parola
nella dimensione politica. Gli scopi principali
del movimento degli orti comunitari sono:
- Un contatto più stretto con la natura e
con la terra, finalizzato a un maggior
benessere personale (valvola di sfogo e
possibilità di fuga dai ritmi e dagli impegni
della città);
- Il miglioramento della qualità ambientale
e paesaggistica dei centri urbani;
- Il miglioramento dell'estetica delle città,
talvolta per contrastare una situazione di
degrado urbano;
- La salvaguardia e la riqualificazione del
territorio;
- La tutela dell'ambiente, la diffusione di
pratiche ambientali sostenibili e di prati-
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44
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che agricole eco-compatibili, reagendo ai
sistemi di coltivazione intensivi e all'uso
incontrollato di fitofarmaci e prodotti chi-
mici
- La tutela della salute tramite un migliora-
mento della qualità degli alimenti, unito al
piacere di produrre autonomamente il pro-
prio cibo;
- La promozione e l' esercizio della cittadi-
nanza attiva;
- L'elaborazione di strumenti di gestione
partecipata di spazi urbani e periurbani
marginali;
- La possibilità di incidere maggiormente,
come cittadini, nelle scelte di politica urba-
na;
- La riconquista e lo sviluppo di spazi di
socialità e di relazione;
- La proposta di attività culturali, educati-
ve, di animazione sociale, che favoriscono
l'inclusione sociale delle fasce deboli della
popolazione;
- La rottura delle barriere sociali, economi-
che e razziali, per riuscire a mettere insie-
me persone con età e backgrounds diffe-
renti.
Alla base di queste pratiche vi sono soprattut-
to i movimenti sociali che tendono a conciliare
l'ambientalismo, la rivendicazione di diritti e
l'attivismo politico. Il linguaggio usato, i valori
della solidarietà, cooperazione e inclusione
che traspaiono dai testi, la coltivazione biolo-
gica, l'agricoltura urbana in funzione di
un'economia alimentare sostenibile, le reti
alternative di vendita, il voler reinventare la
città, il considerare i beni pubblici come beni
comuni, tutti questi elementi danno prova di
un impegno verso il cambiamento, che viene
coltivato nello stesso modo in cui vengono
coltivate le piantine negli orti. Caratteristica
interessante del movimento degli orti comu-
nitari è che promuove la cultura del fare (inve-
ce di quella della rivendicazione) e non delega
più ad altri, siano pure lo stato o altre agenzie
pubbliche o private, la soddisfazione dei pro-
pri bisogni, innescando così percorsi di tra-
sformazione sociale gestiti e vissuti in prima
persona. Anche l'ottica non è per nulla sconta-
ta; in un mondo in cui prevale l'individualismo,
i partecipanti al community gardening adotta-
no strategie comunitarie, mettendo in comu-
ne i saperi e puntando sull'elaborazione collet-
tiva.
Numerosi studi e osservazioni hanno rilevato i
vantaggi che i community gardens possono
arrecare ai contesti urbani. In primo luogo van-
taggi climatici, poiché le aree urbane tendono
a trattenere il calore e a essere di alcuni gradi
più calde e le aree coltivate diventano impor-
tanti per abbassare la temperatura e bilancia-
re il clima all'interno della città. Il valore delle
case che si trovano nelle vicinanze di un com-
munity garden aumenta nel tempo, accre-
scendo le rendite immobiliari, e il Trust for
Public Land di New York ha dichiarato che i
giardini condivisi attraggono nuovi residenti e
riducono la criminalità locale, perché promuo-
vono le relazioni sociali e sono un antidoto alla
solitudine che affligge molte persone. Contri-
buiscono anche all'integrazione tra cittadini di
nazionalità, religioni e background culturali
diversi. Gli orti comunitari interculturali sono
stati pensati e progettati con questo specifico
scopo, parecchi altri non esibiscono questa
etichetta, ma sono di fatto interculturali per-
ché fioriscono in quartieri multietnici. Per
quanto riguarda la salute, chi si occupa di orti
in genere la migliora, consumando più vege-
tali freschi e mantenendo in esercizio il fisico.
I Richiedenti Terra
Era dicembre 2011, è bastato un incontro
casuale (ma forse un segno?) fra persone con
tante idee, ma mal strutturate. Alle spalle e
nel presente, da parte di alcuni, la costruzione
di un percorso, uno studio, una lotta sui beni
comuni (si era conclusa da poco la campagna
referendaria "acqua bene comune" e
l'entusiasmo della vittoria era ben presente),
la costituzione di un GAS (gruppo di acquisto
solidale), la ricerca dell'alternativa alle imposi-
zioni dell'industria agroalimentare. A ciò si
innesta un avvenimento particolare, che non
sembrerebbe centrare nulla con l'avvio di un
orto, ma in questo caso è fondante: l'arrivo in
Trentino di 211 richiedenti asilo in fuga dalla
guerra civile libica. Nel cercare di coinvolgere
alcuni di loro in attività ludiche che li potesse
includere e far passare del tempo in maniera
positiva si era sentita la necessità di nuove
forme di socialità e spazi di aggregazione.
Questa terza scintilla ha acceso una lampadi-
na nella testa dei primi incontrati: la terra! La
prima idea, forse troppo idealista, aveva fatto
pensare ad un terreno confiscato alla crimina-
lità organizzata: più grande di noi, dopo le
prime verifiche si è scoperto che sì, ce ne sono
anche in Trentino, ma sono (o erano) ancora
coperti da segreto istruttorio. Si passa allora
all'amico coltivatore biologico per passione
che vuole lasciare un pezzo del suo appezza-
mento: ancora una volta bloccati da impedi-
menti burocratici, in questo caso legati alla
certificazione biologica. Senza arrendersi, si
convoca la prima assemblea del gruppo "sen-
za terra" e, casualmente o meno, vi partecipa-
no le persone giuste: lo studente che l'anno
prima coltivava l'orto allo studentato universi-
tario di San Bartolameo, l'appassionato che
da anni sognava di creare un orto comunita-
rio, il professionista esperto di cibo biologico,
alcuni richiedenti asilo con esperienze di orti-
coltura nei loro paesi d'origine e vari curiosi
senza nessuna conoscenza in campo orticolo,
ma tanta voglia di mettersi in gioco. Da quel
momento il gruppo ha iniziato ad incontrarsi
ogni sabato, a pranzo, per tutto l'inverno, deci-
dendo di denominarsi "Richiedenti Terra".
Difficile dire oggi, a tre anni di distanza, se
l'idea abbia subito l'influenza di altre esperien-
ze di orticoltura comunitaria urbana di fuori
regione. Ad alcuni verrebbe da affermare di
no, forse altri componenti l'hanno indiretta-
mente avuta, sicuramente dopo la fondazio-
ne del gruppo ci si è iniziati ad informare. Il
primo, piccolo, orto comunitario sperimentale
di Trento è proprio nello studentato di San Bar-
tolomeo (180mq), messo a disposizione
dall'Opera Universitaria di Trento che vedeva
positivamente la presenza dei Richiedenti
Terra lì, la cura di uno spazio tendenzialmente
incolto ed il coinvolgimento degli studenti. Da
subito, però, i nuovi ortisti si erano riproposti
di trovare uno spazio più grande, sempre in
città, preferibilmente un terreno abbandona-
to da recuperare e rendere vivo. Dopo un ten-
tativo di contatto con tutte le circoscrizioni
della città di Trento non andato a buon fine
(solo la circoscrizione di Sardagna ha risposto
positivamente, e la si ringrazia), grazie agli
avvistamenti del team "fiuta terreni abbando-
nati" è stato individuato uno spazio a Villazza-
no, adiacente la stazione dei treni. Il progetto
di orto comunitario dei Richiedenti Terra è
stato quindi presentato al Servizio Attività
Sociali (aprile 2012) e giudicato "di alto valore
sociale" dalla Giunta comunale, che ha delibe-
rato di assegnarlo al gruppo, qualora si fosse
costituito in associazione, a novembre 2012.
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Una novità per il Comune, e in particolare per
il Servizio Patrimonio, la richiesta di un asso-
ciazione così variegata, e rappresentata da
molti giovani, di gestire un terreno senza
peraltro volerlo dividere in parcelle. Spiazzato,
ma non per questo restio, l'Ufficio ha assegna-
to il terreno seguendo la procedura standard
che istruisce in tutti i casi di richieste di con-
cessione di una sede "in muratura" da parte
delle associazioni.
Nel verbale di consegna del terreno si parla di
“recupero di un'area comunale incolta, di col-
tivazione biologica di ortaggi e di un orto
comunitario (non diviso in lotti e gestito tra-
mite il metodo del consenso) […] per stimola-
re situazioni ed esperienze di “felice conviven-
za” tra la terra e i suoi abitanti, promuovendo
così l'agricivismo”. Ѐ stato posto un vincolo di
destinazione a orti comunitari, quindi, almeno
per il momento, non esiste il problema della
transitorietà della concessione, anche se nel
contratto è scritto che il Comune può richie-
dere il terreno in qualsiasi momento per moti-
vi d'interesse pubblico. L'area concessa è di
circa 3000 metri quadrati, nascosta da un
boschetto anch'esso incolto di altri 4000 m2
circa, dove è necessario addentrarsi per arri-
vare all'orto. Il la ai lavori lo ha dato un corso,
tenuto a marzo 2013 dall'agrotecnico Mauro
Flora, che ha visto cinquanta persone invade-
re il terreno e porre le basi dei cumuli (utilizzati
in agricoltura sinergica) che tutt'ora utilizzia-
mo.
L'Orto Villano, questo è il nome dato all'orto,
oggi si sta preparando al suo secondo inverno,
dopo una stagione abbondante che vi ha visto
nascere ortaggi di tutti i tipi, grano saraceno,
piccole quantità di cereali (segale, frumento e
miglio), fiori - commestibili e non - ed erbe aro-
matiche, fragole e lamponi, nonchè qualche
frutto dai giovani alberi (mele, pere e albicoc-
che). A tener alta la biodiversità del luogo,
oltre alle colture diversificate e consociate in
modo da aiutarsi a vicenda nella crescita e alle
sementi antiche recuperate dall'associazione
La Pimpinella, la presenza di uno stagno con
la sua vegetazione, dove si sta aspettando
l'arrivo delle ranocchie. In quest'oasi a 10 minu-
ti di autobus dal centro della città di Trento,
dove in estate le temperature sono più soste-
nibili rispetto alla città, i Richiedenti Terra orga-
nizzano, oltre all'ordinaria manutenzione
dell'orto, pic-nic comunitari, laboratori (rico-
noscimento di erbe spontanee, cippatura,
semenzaio diffuso, eccetera), momenti di sva-
go, aperitivi musicati, visite e saltuariamente
incontri con classi delle scuole elementari. Al
di fuori dell'orto, l'associazione gestisce inol-
tre un piccolo gruppo d'acquisto solidale e
organizza eventi legati all'agricoltura e al cibo
genuini.
La partecipazione al progetto è sempre stata
aperta a chiunque. Secondo l'accordo del grup-
po, l'orto non ha una suddivisione in lotti per-
sonali, ma ogni partecipante ragiona, coltiva e
si muova sul progetto nella sua interezza, in
modo da avere il massimo della socialità e spe-
rimentare un vero percorso decisionale parte-
cipato. La semina e la coltura seguono le
modalità stabilite dal gruppo durante le
assemblee, così come la raccolta e la destina-
zione delle verdure prodotte (che fino ad ora
sono state destinate principalmente all'auto-
consumo). L'obiettivo ora è quello di aprirsi
alle arti e a nuove persone di qualsiasi età a
provenienza, per fare capire che un orto comu-
nitario ha bisogno sì di costanza e impegno,
ma si può iniziare da zero e dedicarvici il
tempo che ognuno ritiene opportuno, senza
forzature. Lo spazio c'è, e se un giorno i
Richiedenti Terra diventeranno troppi, si tro-
verà un altro spazio incolto da recuperare!
Anche a Trento, quindi, le due tipologie di orti
- sociali e comunitari - coesistono, la differen-
za principale sta probabilmente nella dimen-
sione collettiva e nel fatto di vedere l'orto
come un'attività politica: una scelta (il biologi-
co, l'autoproduzione delle sementi, il rifiuto
degli OGM e delle monocolture intensive,
ecc.) per la salute e il benessere, contro le spe-
culazioni, dalle grandi opere a quelle agricole
delle multinazionali dell'agroindustria, per
una città interculturale e aperta verso tutte le
diversità.
Orti e giardini comunitari in Provincia di
Trento
Oltre ai Richiedenti Terra (e ai già citati orti
sociali dati in concessione agli anziani), nella
Provincia di Trento esistono una decina di
altre realtà di "contadinanza" urbana o periur-
bana comunitaria. La prima in ordine di fon-
dazione è L'Ortazzo di Caldonazzo, che dal
2009 al 2013 ha gestito un appezzamento di 2terra di 3000 m , concessa dal Comune, come
orto comunitario. Dal 2014 l'esperienza
dell'orto si è (per lo meno temporaneamente)
conclusa per mancanza di partecipazione, ma
l'associazione porta avanti serate di sensibiliz-
zazione molto partecipate e un Gruppo
d'Acquisto Solidale. A Trento esiste anche
l'Orto in Villa, situato nel sobborgo di Meano,
interessante progetto di orto didattico nato
per volontà dell'Ecomuseo dell'Argentario in
collaborazione con la ProLoco locale. Il pro-
getto concentra la sua attenzione sulla coltura
delle erbe officinali e spontanee, ma punta
anche a coinvolgere volontari nella gestione
comunitaria, benché non si fondi su un model-
lo di autogestione tipico degli orti condivisi. A
Rovereto l'Associazione OrtiCorti gestisce due
orti, uno molto piccolo nel cortile di una scuo-2la, l'Orto Brione, e uno di quasi 2000 m alla
confluenza fra il fiume Adige e il torrente Leno
(per questo chiamato Orto Leno), per conce-
dere il quale l'amministrazione comunale ha
chiesto all'associazione una serie di adempi-
menti burocratici, anche piuttosto costosi.
Entrambi gli orti sono coltivati secondo i prin-
cipi dell'agricoltura sinergica. A Pergine Valsu-
gana sono presenti tre orti comunitari: uno di 2circa 100 m all'interno del Parco Tre Castagni,
nato nel 2012 nell'ambito del progetto euro-
peo Together, a cui il Comune aveva aderito,
che prevedeva la sperimentazione di un meto-
do di democrazia partecipativa. L'organiz-
zazione generale ed i rapporti con l'amminis-
trazione sono gestiti da uno dei membri
dell'orto, pagato (per un periodo) come colla-
boratore del Comune; il secondo gestito dalla
Banca del Tempo di Pergine e Sant'Orsola ed il
terzo, in fase di progettazione, dell'Associa-
zione Rastel, sorgerà all'interno del Bioparco
del Rastel. A Levico Terme il comitato Local-
Menti, che fa parte del network per la Decre-
scita Felice, gestisce il C-Orto Corrente secon-
do i principi della coltivazione sinergica. Il
Movimento per la Decrescita Felice Alto-2Garda cura un orto comunitario di 300 m chia-
mato "Se Pòl", su un terreno concesso da un
privato nella località di Linfano, Riva del Gar-
da. L'orto nasce all'interno di un progetto più
ampio finanziato dal Piano Giovani di Zona
Alto-Garda Ledro dal titolo “FarmAzione, brac-
cia ridate all agricoltura”: un corso di agricol-
tura sinergica ed open-source ecology. Infine a
Lavis, sull'altopiano della Paganella e a Dro
sono nate da poco, o sono tuttora in progetta-
zione, altre realtà di orti condivisi.
46
Sebbene non possano essere classificati come
orti comunitari, è importante segnalare la pre-
senza crescente di orti all'interno delle scuole
elementari (soprattutto) e medie, da Trento
alle valli. L'obiettivo dell'orto, in questo caso, è
prettamente educativo e ovviamente sono
insegnanti e/o formatori esperti a coordinarne
i lavori. Negli orti didattici la coltivazione viene
vista come utile strumento per applicare nel
concreto nozioni apprese in classe, ma anche
come attività che facilita più in generale lo svi-
luppo cognitivo e fisico dei bambini. Nel comu-
ne di Mezzolombardo sta nascendo un parti-
colare progetto di orto didattico in collabora-
zione fra la scuola, la casa di riposo e alcune
associazioni di volontariato locali.
Conclusioni
E' impossibile rintracciare una sola causa
all'origine della nascita degli orti comunitari:
alcuni orti sono nati con intenti didattici e
pedagogici o come spazi dove sperimentate
forme di democrazia diretta e partecipata;
altri rappresentano una via innovativa di
socializzazione ed integrazione sociale; altri
ancora anelano a diventare un modello possi-
bile di cambiamento reale nello stile di vita e
di consumo anche al di là dei ristretti confini
del terreno di cui si occupano. I community
gardens trentini non rappresentano ancora
una realtà strutturata, istituzionalizzata e pie-
namente integrata nel territorio. Il fenomeno
di diffusione di queste forme di agricoltura
urbana e periurbana è ancora in una fase di
sperimentazione ed acerbi risultano anche i
rapporti stretti con le amministrazioni pubbli-
che.
A differenza di molte regioni italiane in Trenti-
no non esistono orti comunitari occupati;
sono sorti infatti o su terreni privati o su terre-
ni concessi dai rispettivi Comuni in seguito alla
richiesta formale da parte di associazioni nate
proprio in relazione alla volontà di ottenere
una terra da coltivare collettivamente. Le
amministrazioni comunali hanno di volta in
volta proposto soluzioni legali ad hoc per
affrontare una richiesta nuova e fuori dagli
schemi ordinari di gestione degli spazi verdi
comunali. L'ambito normativo-istituzionale è
stato lasciato in mano alla discrezione dei fun-
zionari pubblici che hanno valutato da caso a
caso le modalità, le forme, le condizioni e la
durata della cessione. Esiste ancora una certa
difficoltà, da parte delle Amministrazioni, a
comprendere il popolo degli ortisti.
La percezione che gli attivisti di un giardino
condiviso hanno di se stessi e che, in qualche
modo, trasmettono anche agli altri, è quella di
costituire un interessante laboratorio di ela-
borazione e sperimentazione. La gestione
comune di un orto porta a esplorare alcuni
campi, quali i processi decisionali per consen-
so e non per maggioranza, i conflitti interni al
gruppo e la loro gestione e l'organizzazione
collettiva delle attività di coltivazione e, nello
stesso tempo, richiede di avere rapporti con
l'Amministrazione pubblica e di trovare solu-
zioni creative nell'ambito della partecipazione
civica. Gli orti/giardini si collocano nel punto
d'incontro di campi cruciali per definire
modelli di vita alternativi a quelli attualmente
dominanti e nel punto d'intersezione tra pub-
blico e privato. Da questo punto di vista pos-
sono essere considerati un movimento politi-
co sui generis che prende in considerazione
temi finora poco valutati dalla politica attiva e
in genere esaminati separatamente. Dal
punto di vista relazionale gli orti costituiscono
la risposta a un bisogno crescente di socialità
che non sia vuota ed effimera, ma che coltivi
significati. Sono forme di aggregazione aper-
te ai quartieri dove sono situati, che dimostra-
no, in genere, grande capacità d'inclusione
anche verso categorie svantaggiate, che
vanno dai migranti ai disabili. I giardini condi-
visi sono per definizione interculturali, a pre-
scindere dalla presenza o meno di migranti,
poiché ospitano persone assolutamente ete-
rogenee per età, condizione sociale, backgro-
und culturale e provenienza nazionale. Quelle
sperimentate nei community garden sono stra-
tegie inclusive, che rafforzano la coesione
sociale tramite la solidarietà e la cooperazione
tra persone e gruppi e per mezzo della condi-
visione e diffusione dei saperi e delle pratiche,
che superano il carattere privatistico della
conoscenza.
Note:1. In Gran Bretagna nel 1939 viene lanciata la campagna “Dig for Victory” (zappa per la vittoria), con incentivi pubblici destinati per creare i cosiddetti “victory gardens”, considerati utili sia per l approvvigionamento che come strategia per tenere alto il morale della popolazione. Negli stessi anni, in Italia, il regime fascista avvia le politiche autarchiche, che si avvalgono anche degli orti, e intraprende la battaglia del grano, arrivando a coltivare a frumento anche piazza Duomo a Milano. In tutto l'Occidente campagne mediatiche (stampa, radio, ecc.) esortano i cittadini a trasformare qualsiasi terreno utile (parchi pubblici, campi sportivi, aree edificabili non utilizzate, ecc.) in orti e giardini per la produzione alimentare.2. Il termine guerrilla gardening è applicato in situazioni differenti per descrivere forme di giardinaggio radicale attraverso atti dimostrativi di forte impatto comunicativo, chiamati “attacchi” verdi, che si oppongono attivamente al degrado urbano agendo contro l'incuria delle aree verdi pubbliche. Sono tutte forme di giardinaggio “politico”, non violente e nella maggior parte dei casi illegali. Azioni tipiche sono la piantumazione di fiori all'interno delle aiuole pubbliche o alla base degli alberi che popolano le strade, il lancio delle bombe di semi, allestimenti temporanei con materiali di riuso o la predisposizione di veri e propri giardini all'interno di aree degradate. 3. Cioli S., Mangoni A., D'Eusebio L., 2012, Come fare un orto o un giardino condiviso, Terre di Mezzo ed., Milano4. I richiedenti asilo non possono lavorare nei primi sei mesi dall'arrivo in Italia.
Bibliografie- Bussolati M., 2012, L'orto diffuso. Dai balconi ai community garden, come cambiare la città coltivandola, Orme Editore, Roma.- Pasquali M., 2008, I giardini di Mahattan. Storie di guerrilla gardening, Bollati Boringhieri, Torino.- Restelli G., 2013, Gli orti comunitari: struttura, multifunzionalità e diffusione. Il caso del comune di Milano, tesi presentata all'Università di Agraria di Milano - a.a. 2012/13 - disponibile alla consultazione su ortodiffuso.noblogs.org - Cioli S., Mangoni A., D'Eusebio L., 2012, Come fare un orto o un giardino condiviso, Terre di Mezzo ed., Milano
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Smuoverele acque
di Luca Bertoldi*
Il cambio di destinazione d'uso della copertura
dell'Autosilo di Trento da posteggi ad orti urba-
ni è una delle proposte nate in seguito allo stu-
dio di ricerca interdisciplinare sulle zone di San
Martino e Centa condotto nell'anno 2012.* Il
progetto di ricerca supporta il fenomeno quar-
tiere nel capoluogo trentino come elemento
terzo nella dialettica serrata tra la diffusione
viabilistica e il formalismo centripeto. Il mito
del fiume che giustificava la nascita del borgo
come dogana ad est e favoriva l'attività agri-
cola ad ovest si perpetua oggi attraverso la
viabilità a senso unico di via Brennero sia in
termini di separazione tra le parti che di occa-
sione economica. Il quartiere si comporta da
giunto di dilatazione nell'assorbire le spinte
alterne in direzione nord-sud del centro stori-
co e della periferia: ad est il borgo di San Marti-
no guarda al centro città e sopperisce alla
penuria di superficie condivisa attraverso pra-
tiche informali di occupazione e adattamento,
ad ovest la zona di Centa si perde nel reticolo
viario moderno e negli specchi degli edifici isti-
tuzionali progettati a tutto lotto e vuoti dopo
le cinque del pomeriggio.
Ai tre lotti rotatoria inscritti nella vecchia ansa
del fiume sono rimandate le relazioni trasver-
sali tra le parti. Si tratta di tre lembi di suolo
adibiti rispettivamente ai servizi di posteggio,
commercio e verde, dove l'incontro informale
tra la città storica e quella moderna ha partico-
lare evidenza: l'assemblaggio di abitazioni di
inizio secolo ad attività commerciali degli anni
Ottanta e Novanta, l'alternanza tra le archeo-
logie del vecchio quartiere ferroviario e i nuovi
servizi per la viabilità contemporanea, gli
interstizi di spazio scartato dalle stratificazioni
che mantengono i lotti porosi e esplorabili. Le
proposte progettuali vogliono mettere in rela-
zione il capitale sociale fervente del borgo sto-
rico con quello spaziale e di sevizio di Centa,
guardando quindi al valore potenziale di que-
sti tre lotti di confine nell'attivazione di dina-
miche di percezione e uso trasversali alle zone.
Nello specifico la proposta che riguarda il lotto
più a sud di confine con il centro storico preve-
de la costruzione di 70 orti di dimensioni varia-
bili tra i 25 e i 35 metri quadrati a 18 metri di
quota. L'Autosilo Buonconsiglio occupa tutta
la metà occidentale del lotto allungato e a que-
sto deve la sua linea curva. Sotto la struttura
scorre interrato l'Adigetto che dà ragione alla
soluzione fuori terra del parcheggio e alla con-
seguente sproporzione in quota pensata per
limitare l'impatto ambientale dell'edificio sul
piano strada del quartiere. Gli sforzi di conteni-
*Luca Bertoldi. Laureato in Ingegneria-Architettura a Trento, ha frequentato la Escuela Superior de Arquitectura di Granada e l'Universität der Künste di Berlino. L'articolo è tratto da “Smuovere le acque. Sui metodi pertecipativo e gentrificatorio nell'approccio alla città contemporanea. Il caso delle zone di Centa e San Martino in Trento.”A-A 2011-2012 ,Università degli studi di Trento, Facoltà di Ingegneria, Corso di studi in Ingegneria Edile Architettura.Tesi di Luca Bertoldi.Relatori: Alessandro Franceschini, Raffaele Mauro. Corelatori: Renato Bocchi, Andrea Mubi Brighenti.
IL LABORATORIO TRENTINO2
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49
mento dell'altezza tra i solai dei quattro piani
sopraelevati ne sacrificano le possibilità di
riuso senza assolvere tuttavia l'Autosilo dal
ruolo di maggior ostacolo percettivo tra San
Martino e Centa. Ogni piano sopraelevato ha
una capienza di 142 posteggi auto, al piano
terra la pianta alterna gli ingressi e le uscite
carrabili e pedonali a servizi commerciali lega-
ti alla viabilità. La lezione progettuale di De
Carlo di prevedere sul confine del quartiere
infrastrutture viarie riconvertibili in spazi abi-
tabili sotto a piazza della Mostra, può qui esse-
re messa in pratica solamente sull'ultimo
piano scoperto.
I parcheggi di copertura risultano pressoché
inutilizzati e dunque di irrisoria incidenza sulle
entrate dell'attività: la sosta a breve termine a
18 metri di quota non è competitiva rispetto ai
parcheggi a livello strada presenti nel quartie-
re, mentre la sosta a lungo termine a parità di
costi è preferibile al coperto dei piani inferiori.
Il quarto piano dell'Autosilo, l'ultimo coperto,
è riservato alle vetture dei dipendenti provin-
ciali che lavorano negli uffici nella zona di Cen-
ta, è quindi in affitto all'istituzione. Queste
sono le osservazioni secondo le quali si propo-
ne l'uso a coltivazione dell'ampia superficie di
3000 metri quadrati attraverso l'affitto della
copertura a carico di enti quali ad esempio
Itea, di importante presenza nel quartiere di
San Martino, le Cooperative attive nel recla-
mare momenti di spazio pubblico oppure le
stesse istituzioni Comune o Provincia familiari
a tale pratica. Va considerato che un affitto
anche agevolato del piano di copertura rap-
presenterebbe un'entrata costante nella
gestione dell'Autosilo. A supporto della con-
versione esistono inoltre incentivi europei alla
pratica dell'orto urbano vincolanti in termini di
estensione minima della coltura a 50 metri
quadrati e di gestione del servizio e che per-
metterebbero all'ente esterno di accedere ad
una terza soglia di finanziamento in termini di
agevolazione sull'affitto, oppure all'ente di
gestione dell'Autosilo di accedere ad una
seconda soglia di finanziamento in termini di
gestione della realizzazione.
Il progetto prevede l'accorpamento di più
moduli coltivabili e la loro disposizione lungo i
lati della pianta, in tal modo gli intervalli tra le
colture possono facilitare l'attività agricola,
ma anche permettere una passeggiata conti-
nuativa centrale con alcuni episodi di affaccio
laterale. Gli orti sono inoltre dotati di una cas-
sapanca che funge da deposito attrezzi oltre
che agevolare i momenti di sosta. Gli spazi
liberi di risulta dai raggruppamenti dei lotti
coltivati permettono la manovra e la condivi-
sione.
Le caratteristiche tipologiche e normative
della copertura semplificano la conversione
da parcheggio ad orto ad esempio in termini
di cantierabilità e di barriere architettoniche.
Oltre alle rampe di accesso carrabile la strut-
tura offre due scalinate posizionate agli estre-
mi della pianta e un'ascensore centrale. La
quota a 18 metri garantisce l'esposizione della
coltura e la capacità portante della copertura
permette il trattamento a verde intensivo di
tutta la superficie.
La pratica dell'orto è interessante per i costi
contenuti di allestimento, ma anche in quanto
la sua manutenzione è connaturata all'attività
stessa. Inoltre le colture sono una risposta in
termini di verde pubblico alle esigenze emer-
se dalle interviste qualitative effettuate ad un
campione di 102 abitanti riguardo al migliora-
mento del quartiere. Tutte riportano com-
menti sulla mancanza di verde e laddove pre-
sente, ad esempio nel parco di piazza Centa,
ne è denunciata la problematica accessibilità.
Oltre ai benefici personali dell'auto-
produzione, il rapporto con la natura, trasver-
sale rispetto a tutte le categorie sociali, può
essere attivatore di dinamiche relazionali in
uno dei quartieri più eterogenei della città. La
luce e il verde raggiungibili in copertura com-
pensano la visione infrastrutturale e fuori
scala che si ha dell'edificio dal piano strada
con effetti sull'immagine di tutto il quartiere,
dalle viste panoramiche della Cervara fino a
quelle di chi lavora negli uffici limitrofi di qual-
che piano più alti dell'Autosilo.
Il progetto prevede anche la possibilità di una
soluzione di collegamento verticale sul lato
est così da favorire l'eventuale indipendenza
dell'attività di copertura da quella sottostante,
ma anche la frequentazione da parte degli
abitanti di San Martino dando senso
all'innesto trasversale tra il lotto e una delle vie
del borgo storico. Anche gli interstizi tra
l'Autosilo e gli altri edifici possono favorire la
circolazione interna al lotto con effetti sulle
strutture abbandonate come ad esempio il
vecchio asilo del quartiere ora murato. Nello
specifico l'interstizio a sud del lotto assume il
ruolo di entrata al quartiere supportato for-
malmente della forma cilindrica in facciata
dell'Autosilo mutuata dai torrioni del castello,
da Torre Verde e già riproposta nella soluzione
d'angolo di Libera per le scuole Raffaello San-
zio. Ricucendo la cinta muraria si nobilita la
parte moderna del quartiere di un'entrata
pedonale con l 'effetto di attenuare
l'eccentricità delle zone.
Da un punto di vista macroscopico in un
momento in cui Trento si trova a sostenere
l'immagine di città fluviale ha senso interveni-
re in maniera ecologica e informale laddove
questo fiume è ora assente a seguito della più
ingente deviazione di un corso d'acqua avve-
nuta sul continente. L'intervento di riciclo di
spazio infrastrutturale sancirebbe poi un
gemellaggio con quello delle Gallerie di Piedi-
castello con conseguente affiliazione tra quar-
tieri rispetto al loro ruolo nella città. La terraz-
za verde ricuce inoltre l'antica passeggiata
romantica che collegava il parco di piazza
Dante con quello di Centa sollecitando così il
recupero di tutta la mezza luna di dialogo tra
la città storica e quella moderna.
La proposta è pensata intrinsecamente soste-
nibile per gli enti a cui è stata presentata
secondo una linea progettuale cosiddetta
debole, ovvero di basso costo, breve realizza-
zione, di riconversione funzionale e riciclo di
spazi, quindi ecologica a priori, in fieri perché
partecipata e con effetti sull'intorno a lungo
termine. Ciò può avvenire innescando sistemi
con le risorse spaziali, storiche e sociali già pre-
senti nel quartiere.
50
51
Una ipotesi di riorganizzazione
della copertura del manufatto da posti
auto (142) a lotti coltivabili (70).
L’autosilo di Trento nel suo contesto urbano. I lotti coltivabili
Buone pratichedi ri-uso del territorioL’esperienzadella Val di Cembra
diSergio Paolazzi*
Questo articolo sulla Valle di Cembra è ricava-
to in parte da una guida di prossima pubblica-
zione¹: partendo da un'ampia e necessaria ana-
lisi storica e sociale, verranno evidenziate le
nuove forme di sviluppo agricolo. Una relazio-
ne forse più della cultura, degli studi e delle
esperienze come metodo necessario per
ripensare un territorio, che dei sistemi di colti-
vazione. Dopo una descrizione geografica del
paesaggio agricolo, si parlerà delle antiche
Regole e del ruolo del sacro: due elementi fon-
danti e sedimentati nella cultura locale. Quindi
verranno esposti gli interventi che hanno inte-
ressato la collettività in ambito agricolo ed i
progetti in corso.
Solcata dal torrente Avisio che dalla Marmola-
da confluisce nell'Adige all'altezza dell'abitato
di Lavis, a nord di Trento, occupa una superfi-
cie di circa 135 kmq comprese tra la quota mini-
ma di 240 metri alla forra di Lavis e i 2452
metri del Lagorai.
È caratterizzata da piccoli centri abitati, ada-
giati su pendii o al limite di pianori di origine
glaciale.
Le prime testimonianze di insediamenti risal-
gono all'età del bronzo: tra i reperti anche una
serie di falcetti utilizzati nella lavorazione dei
campi. Le aree abitate erano sicuramente quel-
le climaticamente ben esposte e con facilità di
vita stanziale, necessarie all'agricoltura.
La particolare conformazione e la discreta
distanza dal fondovalle hanno garantito nel
corso dei secoli un isolamento sociale e cultu-
rale dei centri abitati, collegati fino a metà
Ottocento da mulattiere o sentieri poco prati-
cabili.* Sergio Paolazzi, architetto libero professionista. Originario della Val di Cembra, vive e lavora a Riva del Garda
IL LABORATORIO TRENTINO2
I posti determinano i materiali, i posti determinano il tipo dicoltivazione e di viabilità. Poi diventa un circolo che si auto-alimenta e se tutte queste cose determinano il carattere ormaisedimentato di una popolazione, è anche vero il contrario. E. G. Cecchi
52
La Valle di Cembra è una valle orizzontale
La Valle di Cembra è caratterizzata dalla pre-
senza di elementi paesaggistici specifici, che
la rendono in tal modo suggestiva ed unica. Se
pensiamo alla Valle in termini puramente geo-
metrici, si potrebbe dire che è definita preva-
lentemente da tre tipi di linee: orizzontali, obli-
que e verticali.
Le linee orizzontali sono quelle prevalenti,
determinate dalle centinaia di chilometri for-
manti le murature a secco. Costituiscono, di
fatto, la volontà secolare degli abitanti, di age-
volare il lavoro dei campi, con il fine di rendere
omogenea la lavorazione. La coltivazione
della vite con il sistema “orizzontale” della per-
gola trentina è rimasto tale per centinaia di
anni: l'introduzione di filari verticali e coltiva-
zioni tipo Guyot² è relativamente recente.
L'orizzontalità del paesaggio è quindi definita
dalle murature a secco che, in ragione della
loro posizione geografica, cambiano “trama e
ordito”. La pietra prevalentemente utilizzata è
il porfido, da sempre la matrice di tutte le
costruzioni, di cui possiamo notare, partico-
larmente in sponda sinistra, lo sfruttamento
delle cave. Nella tessitura generale, le mura-
ture a secco sono definibili in due categorie
prevalenti, distinte per tipologia di pietra uti-
lizzata: a spacco da materiale reperito in cava
e quindi lavorato; naturale, se la pietra è recu-
perata in loco nel corso della bonifica dei depo-
siti glaciali o se raccolta direttamente nel
greto del torrente Avisio. Questa diversa tessi-
tura è quindi collegata alla distanza dall'Avisio
o dai suoi affluenti che, oltre a garantire la
materia prima per la realizzazione delle mura-
ture a secco, fornivano i sassi per la produzio-
ne della calce, utilizzata poi nelle costruzioni
civili. La realizzazione con le pietre raccolte dal
torrente, arrotondate dai millenari processi di
levigatura, prima dai ghiacciai e successiva-
mente dall'impeto dell'acqua, necessitava
certamente di maggiore abilità e competenze
costruttive, un'arte che ormai è quasi scom-
parsa. Nelle murature realizzate con pietra a
spacco di cava, distanti talvolta anche diversi
chilometri, è possibile notare la diversa com-
posizione geologica della pietra che è diversa
zona per zona.
Le linee oblique sono rappresentate dalle
numerose strade che dai centri abitati si dira-
mano sinuosamente nell'orizzontalità dei
campi. Prendono ognuna un proprio nome in
un rapporto di convivenza e familiarità, forse
un modo non solo per distinguerle o catalo-
garle, ma anche di rispettarle e di farle “pro-
prie”. Le linee oblique disegnate dalle Cavade,
ora divenute strade interpoderali, immettono
principalmente nei fondi agricoli³. Le località
di campagna a loro volta rivelano una topono-
mastica molto articolata, spesso una chiave di
lettura per comprenderne la storia: tra i nomi
con radice che rammenta l'attività agricola
ritroviamo Ceole⁴; località che prendono il
nome dall'antica viabilità sono Camin e Sora-
pont; nomi che rivelano la presenza di acqua
sono invece Ischia e, secondo la lettura sinora
proposta, Saosent; molto diffusi i nomi colle-
gati alla produzione o situazione agricola,
quali Nogarè, Nogarìo (con il significato di “bo-
sco di noce”), Ronch, (che rammenta la messa
a coltura di nuovi terreni, i “ronchi”) e Casele o
derivanti dalla presenza di antiche chiese
come San Giorgio, Floriano, Leonardo, Rocco.
I “collegamenti obliqui” conducono talvolta a
masi tuttora esistenti, documentati a partire
dal XIII secolo in diversi urbari, tra cui quello
dei Conti di Tirolo⁵. I masi possiamo conside-
rarli come un prototipo dell'abitato tradizio-
nale cembrano. Costruire, significa collabora-
re con la terra, imprimere il segno dell'uomo
su un paesaggio che ne resterà modificato per
sempre⁶.
I centri abitati si sono sviluppati in totale sim-
biosi con il territorio circostante: quello che
inizialmente poteva essere un insediamento
famigliare si è di volta in volta esteso privile-
giando le costruzioni lungo le vie / strade/ sen-
tieri costruiti nel corso del tempo, o edificando
insediamenti autonomi e staccati -masi- con
un contorno delineato e preciso. Il maso si
costruisce per elementi fondanti unici e
necessari: la stalla, la cantina, la cucina e la
stanza. Il sottotetto o un edificio adiacente
serviva da fienile. I figli maschi tradizional-
mente continuavano a vivere nel maso
costruendosi per loro una cucina ed una stan-
za in aderenza a quella del padre o spesso
vivendo tutti negli stessi spazi. Le baite sparse
nella campagna invece, erano costruite come
deposito e stalla per l'animale che i contadini
si portavano appresso: due livelli, due porte,
due destinazioni diverse ma fortemente lega-
te.
Se la casa è intesa come il luogo di coabitazio-
ne tra uomo e animali, è necessario prevedere
nei suoi spazi limitrofi quanto necessario alla
vita di entrambi. Spazi coltivati, fasce, la cui
distanza è proporzionale alle necessità prima-
rie. La prima fascia a ridosso delle abitazioni è
occupata quindi dagli orti, risorsa alimentare
che necessita per cure e gestione di una pre-
senza pressoché quotidiana. Quando è possi-
bile, sono esposti verso sud e riparati dai venti
freddi che giungono da nord.
La seconda fascia è costituita dalla campagna
coltivata, con precedenza ai terreni da arare e
seminare per garantirsi quelle risorse essen-
ziali da conservare e consumare nella stagio-
ne fredda.
La terza fascia, fino a quote idonee, è occupa-
ta dai vigneti, disposti orizzontalmente sui
campi terrazzati e più raramente da frutteti.
La quarta fascia è invece uno spazio destinato
alla fornitura di legna, legname e foraggio per
gli animali: comprende il bosco e i pascoli.
La terra e le sue Regole
Nel Medio Evo, la maggior parte delle Alpi
erano abitate da contadini liberi, fatto questo
abbastanza insolito in un'Europa in cui era dif-
fuso l'istituto della servitù della gleba⁷. Le
popolazioni residenti hanno quindi beneficia-
to nel corso dei secoli di particolari privilegi
che garantivano una sorta di autogestione del
territorio, dove in cambio del diritto di coltiva-
zione -raggiunto grazie al dissodamento di
territori boscati e spesso impervi- veniva ver-
sata la Decima al signore a capo della giurisdi-
zione. Esistevano delle leggi molto severe per
la gestione e coltivazione del territorio: un
sistema di controllo pubblico che prendeva il
nome di Regola/e.
L'Istituto delle Regole era una consociazione
delle famiglie originarie⁸ del luogo che aveva-
no proprietà e diritti in comune di boschi e
pascoli rigorosamente indivisi. I primi docu-
menti scritti a partire dall'inizio del millecin-
quecento ci confermano questa particolare
forma di libertà ed autonomia. Forniscono
informazioni utili alla comprensione di alcuni
aspetti della vita sociale ed economica delle
comunità rurali di un tempo.
Nelle regole dei vari comuni della Valle possia-
mo ritrovare ad esempio l'obbligo di recintare
i campi, il divieto di portare i cani nei campi
durante la vendemmia, la data di inizio della
stessa e tutta una serie di risarcimenti per
eventuali danni provocati da terzi o da animali
53
altrui al pascolo. Tra i divieti più curiosi, quello
di “vagare per la campagna, ovvero nelle val-
li”, al mattino o alla sera, rispettivamente
prima e dopo i rintocchi dell'Ave Maria. Impor-
tanti poi le figure di sorveglianza dei boschi e
delle campagne (saltàri) che duravano in cari-
ca un anno. Sia i campi, sia i boschi erano colti-
vati: vigevano regole severe per il taglio delle
piante con particolare attenzione a quelle
destinate alla costruzione delle pergole. Era
anche prevista una riserva pubblica di legna-
me: ecco allora che ogni paese aveva il suo
bosco protetto, dove il taglio era concesso
solo per opere pubbliche o in seguito a gravi
calamità. Il toponimo di questo bosco è anco-
ra presente in molti comuni e varia da Gaggio,
a Gazzi, a Ga-ch.
La terra e il sacro
Il simbolismo religioso è un'impronta presen-
te e distinguibile su tutto il territorio sotto
forma di edifici per il culto ma anche in forma
di simboli “minori”: lapidi o croci a ricordo di
morti tragiche, crocefissi o capitelli che
segnano l'incrocio di strade, o posti a prote-
zione di un passaggio sull'acqua; qualche gran-
de croce, a ricordo della sepoltura sempre
fuori dall'abitato, dei morti per colera o peste.
I capitelli -già presenti in epoca romana- sono
collocati presso le diramazioni delle strade o
crocevia, luoghi ritenuti d'incontro tra sacro e
profano. Luoghi che quindi dovevano essere
protetti.
Tra i riti religiosi c'erano le rogazioni, dal latino
rogatio, preghiera: pubbliche processioni di
supplica, accompagnate dalla recita delle lita-
nie dei santi, compiute per propiziare un buon
raccolto. Era una pratica già presente prima
del cristianesimo che, intollerante verso que-
sto culto pagano legato visceralmente alla
madre terra, tentò di abolirlo introducendo al
suo posto analoghe devozioni.
Questo antico rituale è ancora in auge in pochi
paesi e si celebra con processioni primaverili in
direzione dei luoghi della fede esterni
all'abitato, o che almeno lo erano prima
dell'urbanizzazione diffusa; questi luoghi rap-
presentavano una sorta di finisterrae del pae-
se. Era una specie di benedizione del territo-
rio: un rituale per tener fuori dal sacro recinto,
marcato con il passaggio della processione, il
male; una sorta di esorcismo. Non a caso,
tutte le leggende e racconti delle Gua-
ne/Uane, Cavezai, Om selvadek, trovavano
ambientazione oltre questo confine, dove il
terreno non era sacralizzato. La processione
ha lo scopo di battezzare la terra, rendendola
immune dagli attacchi malevoli; in questo
modo entra a far parte della comunità.
L'abbandono
Come la maggior parte degli abitati di monta-
gna, un notevole calo demografico si è mani-
festato in corrispondenza dei grandi flussi
migratori in particolare verso l'America tra
fine Ottocento ed inizi Novecento e verso il
fondovalle, con la richiesta di manodopera nel
settore industriale in pieno boom economico
post bellico. L'alluvione del novembre1966
con le esondazioni dell'Avisio e le numerose
frane, ha decretato la fine dei pochi masi anco-
ra abitati non solo della parte alta della Valle,
ma anche dei vicini comuni di Capriana e Val-
floriana.
All'abbandono delle case nelle piccole frazioni
legate ad economie agricole di sussistenza, è
conseguito l'abbandono della terra, innescan-
do un processo di rinselvatichimento del terri-
torio. Hanno resistito a questi fenomeni solo i
centri della bassa e media valle mantenendo
la loro forte vocazione agricola. Poi, paesi
Come Albiano, Lona, Lases nel secondo dopo-
guerra si convertono alla coltivazione delle
cave di porfido soppiantando completamente
l'agricoltura.
Tutte queste premesse ci aiutano a compren-
dere il forte legame con la terra e il profondo
rispetto maturato nel corso del tempo.
Buone pratiche di ri-uso del territorio
L'agricoltura ed in particolare la monocultura
della vite, dopo un calo sensibile durato diversi
decenni, ha visto un recupero di terreni
abbandonati grazie anche a sistemi di mecca-
nizzazione e all'introduzione, oltre che a
nuove metodologie di coltivazione, di vitigni
adatti al clima ed ai terreni cembrani.
E' dei primi anni Ottanta del secolo scorso la
prima Carta Viticola ad opera della locale Can-
tina Sociale, documento che modificherà il
modo di coltivare ed intendere il vigneto.
Alla Carta fece seguito alcuni anni dopo il “Pro-
getto Qualità”, necessario per differenziarsi e
farsi conoscere in un mercato sempre più esi-
gente ed attento alle specificità territoriali. Da
questo momento la produzione della Cantina
“fu orientata verso forme di conduzione inte-
grate con limitazione della concimazione chi-
mica a favore dell'utilizzo di concimi organici,
all'adozione di tecniche di difesa meno gene-
riche e più mirate al patogeno ed alla sua fase
di sviluppo, all'introduzione di pratiche agro-
nomiche di gestione a verde del vigneto,
moderne ed efficienti, per il controllo
dell'equilibrio vegeto-produttivo, quali il dira-
damento e la defogliazione”⁹. Si ottengono
con queste modalità vendemmie selezionate
e differenziate, dove tutto il ciclo vegetativo è
assistito e seguito dai produttori grazie anche
alla formazione teorica dispensata dalla Can-
tina stessa.
Segue quindi la Zonazione, un progetto inter-
disciplinare teso a individuare l'ambiente idea-
le al raggiungimento della massima espres-
sione qualitativa dei propri vini. A questo pro-
getto appartiene l'elaborazione della Carta dei
suoli, una vera e propria mappatura dei terreni
ad uso vitivinicolo. Ne individua le varie tipolo-
gie allo scopo di acquisire precise e più vaste
conoscenze scientifiche da tradurre poi in
conoscenze per il miglioramento complessivo
del prodotto, dell'immagine e della commer-
cializzazione. La zonazione tiene conto inoltre
di fattori come il clima, le condizioni geo-
pedologiche, la pratica agronomica, l'altitu-
dine, l'esposizione, la giacitura, tutti presup-
posti per determinare la qualità dei vini. Il pro-
getto ha interessato circa 2000 ettari ubicati
tra Trento e Salorno e fra Lavis e Grumes.
Recitano un ruolo importante anche le canti-
ne private e si osservano a partire dagli anni
Novanta il recupero di terreni abbandonati o
non più redditizi; talvolta sono delle vere e pro-
prie sfide per reinvestire a quote quasi proibi-
tive (800/900 mslm) in vigneti sperimentali
che aprono nuovi orizzonti colturali. Viticoltori
che diventano precursori delle tendenze più
recenti, indirizzate alla riscoperta di territori e
prodotti autoctoni, abbandonando sempre
più spesso la coltivazione dei vitigni interna-
zionali.
In questo processo di ripensamento viticolo, le
pergole a filari orizzontali iniziano a sparire,
lasciando il posto ai filari a parete verticale:
forse l'unico neo di questa rivoluzione coltura-
le.
Se da una parte i comuni ad alta vocazione
viticola hanno visto recuperate ormai tutte le
54
55
Foto
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ia d
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tèFo
togr
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di L
. Ch
istè
zone agricole abbandonate a quote inferiori ai
650 metri grazie anche alla sistemazione della
viabilità interpoderale, dall'altra rimangono i
comuni dell'alta Valle e quelli soggetti alla mas-
siccia coltivazione delle cave di porfido con la
quasi totalità di terreni ancora incolti ed
abbandonati. Le principali difficoltà di recupe-
ro di questi terreni sono dovute all'alta parcel-
lizzazione agricola e molto spesso alla carenza
di strade idonee alle moderne lavorazioni.
Solo in parte il completo abbandono è stato
bloccato grazie all'introduzione a partire dalla
fine degli anni settanta, della coltivazione dei
piccoli frutti e sporadicamente di fiori ed erbe
officinali, consentendo così l'insediamento di
nuove aziende agricole, bloccando in parte la
continua emorragia demografica.
Un territorio che dialoga: socialità econo-
mia cultura
Uno dei punti di forza del mantenimento, e
quindi anche del recupero, dei terreni agricoli
è dato dalla capacità di lavorare in gruppo,
stabilendo al proprio interno metodi, criteri e
regole. Che sia qualcosa di insito nella cultura
locale pare scontato: forse le Regole centena-
rie hanno sedimentato nella popolazione un
senso civico e di collaborazione altrimenti
inspiegabile. Ma vi è anche una voglia di cono-
scere e scandagliare il territorio da parte dei
suoi abitanti, riscoprendo quei luoghi abban-
donati o fino ad oggi semi-sconosciuti. Tra
camminate promosse da associazioni locali,
festival teatrali, incontri e proposte didattiche,
nel corso dell'ultimo decennio è nata la consa-
pevolezza del patrimonio agricolo presente.
Poi i corsi di formazione, seminari e dibattiti
proposti direttamente dalle cooperative per
formare i propri soci o da enti che scommet-
tono sul territorio come risorsa per le genera-
zioni future.
Tra i ruoli primari quello dei Consorzi di miglio-
ramento Fondiario, presenti pressoché in tutti
i paesi, che garantiscono e gestiscono tutta
una serie di servizi necessari all'agricoltura
quali la viabilità, l'irrigazione o il riordino fon-
diario come nel caso di Grumes. Qui un terre-
no completamente abbandonato di circa 20
ettari, suddiviso tra un elevato numero di pro-
prietari è stato completamente bonificato
all'interno di un progetto che ne prevede poi
l'assegnazione preferibilmente a nuove e gio-
vani imprese agricole.
Grumes è un caso a sé: da alcuni anni è in
corso una radicale trasformazione legata al
territorio ed avviata grazie alle politiche di for-
m a z i o n e e d i n f o r m a z i o n e a v v i a t e
dall'Amministrazione comunale, dalla società
di Sviluppo Turistico Grumes e dalla Rete delle
Riserve Alta Valle di Cembra-Avisio. Si è insta-
urata cosi “una rete di coesione locale molto
dinamica, che in un progetto di lungo periodo
ha portato una comunità di poco più di 400
abitanti ad avere un fermento in termini di
progettualità ed associazionismo piuttosto
evidente”¹⁰.
Non è un caso se il lavoro in sinergia proposto
in questo piccolo Comune, abbia portato il
paese ad essere la più piccola città slow del
mondo¹¹. L'importante riconoscimento gli è
stato assegnato per le iniziative, i progetti
intrapresi per qualificare la vita del paese,
dotandolo di strutture e servizi per consentire
e sviluppare la comunità nella cultura,
nell'economia sostenibile, nella responsabilità
sociale, nella coscienza di vivere e rispettare il
proprio ambiente e territorio, rispettoso ed
orgoglioso delle proprie identità, storia e tra-
dizione, ma allo stesso tempo aperto a nuovi
incontri, nuove culture, al mondo. Valori fon-
damentali premiati da Cittaslow sono
l'attenzione al tempo ritrovato, dove l'uomo è
ancora protagonista del lento, benefico suc-
cedersi delle stagioni, il rispetto per la salute
dei cittadini, la genuinità dei prodotti e della
buona cucina e l'accoglienza dell'altro¹².
Ruolo fondamentale anche quello della Comu-
nità di Valle, in particolare per le politiche
intraprese e seguite dall'Assessorato alla valo-
rizzazione del territorio, ambiente, agricoltu-
ra, turismo e foreste.
Grazie al Progetto di Sviluppo Sostenibile
finanziato dalla Provincia Autonoma di Tren-
to, la Comunità di Valle ha potuto intrapren-
dere delle azioni di analisi e promozione del
proprio territorio, dalle produzioni agricole al
suo paesaggio includendo il patrimonio cultu-
rale ad esso correlato, con l´obiettivo di
aumentare la consapevolezza circa la sua
valenza e migliorare le sinergie tra agricoltura
e turismo. Con l'Accademia della Montagna e
l'Associazione Artigiani è stato proposto un
corso per rimpossessarsi della tecnica di
costruzione dei muretti a secco, che sono con-
siderati come un biglietto da visita ormai a
livello internazionale. La collaborazione con
l'Alleanza Internazionale per il Paesaggio Ter-
razzato(ITLA)¹³ ha portato la Valle ad essere
di fatto considerata in un network nazionale
ed internazionale di territori terrazzati come
uno dei rari esempi in cui tuttora l´agricoltura
di versante viene mantenuta in modo attivo e
produttivo. Tra le ultime e più significative atti-
vità collaterali nate da questa collaborazione
c´è il documentario dal titolo “Contadini di
montagna” a cura del regista Michele Trentini,
che fotografa con il realismo di alcuni colloqui
padre-figlio il passaggio dal passato al presen-
te dello sviluppo agricolo della Valle. Oltre
all'agricoltura il Progetto Sviluppo Sostenibile
ha previsto delle azioni mirate anche per il
recupero della biodiversità agricola e
l´individuazione di soluzioni fattibili in termini
sia di coltivazione che di mercato legate alle
produzioni agricole di montagna. All'interno
del progetto su biodiversità agricola ed agri-
coltura biologica affidato al Dr. Giorgio Perini,
sono state promosse, a cavallo tra febbraio e
marzo 2014, le serate di approfondimento
“Pillole di agricoltura Biologica” in cui, con
esperti della Fondazione Mach accompagnati
di produttori privati, si è cercato di capire
quale tipo di agricoltura possa garantire una
congrua integrazione al reddito in quelle zone
della Valle dove maggiore è stato l'abbandono
dei terreni agricoli. L'auspicio degli organizza-
tori è che si arrivi alla costituzione di
un'associazione dedicata, la formula più indi-
cata per continuare a perseguire nella pratica
questi obiettivi anche alla luce delle indicazio-
ni contenute nelle premesse della prossima
Pianificazione di Sviluppo Rurale (PSR 2014-
2020)¹⁴. Alla luce dell'interesse riscontrato, per
agevolare coloro che intendono veramente
recuperare vecchi terreni abbandonati o sem-
plicemente ripristinare i terrazzamenti esi-
stenti, è stato promosso un bando ad hoc.
la Rete delle Riserve Alta Valle di Cembra-
Avisio è un ente recente, costituito solo da
una parte di amministrazioni comunali. Si trat-
ta di un nuovo strumento per gestire e valoriz-
zare le aree protette in modo più efficace e
con un approccio dal basso, attivato su base
volontaria dai Comuni in cui ricadono sistemi
territoriali di particolare interesse naturale,
scientifico, storico-culturale e paesaggistico. È
questo in sintesi, il senso delle reti di riserve,
introdotti con la L.P. 11/07 "Governo del terri-
torio forestale e montano, dei corsi d'acqua e
56
ciazioni, consorzi, formano quel tessuto dal
basso necessario per la crescita delle comuni-
tà.
Il 2014 è stato proclamato dall'ONU “Anno
internazionale dell'agricoltura famigliare”
segno che anche le più grandi istituzioni inter-
nazionali hanno riconosciuto il ruolo che la
“piccola agricoltura” ha e potrà avere per il
mantenimento della sovranità alimentare, la
biodiversità agricola, il paesaggio e la stabilità
idrogeologica dei versanti, nonché come fun-
zione di coesione sociale. Investire in agricol-
tura non va inteso come un ritorno al passato,
ma come uno stimolo alla nascita di attività
rivolte alla produzione di qualità -eccellenze-
per soddisfare un numero sempre crescente
di consumatori consapevoli, settore in cui la
Valle può ritagliarsi un ruolo competitivo.
1. M. Amoroso, R. Gottardi, S. Paolazzi, G. Piffer, La Via dell'uva In Valle di Cembra, Comunità della Valle di Cembra (in attesa di stampa)2. Sistema di allevamento a parete verticale.3. La fitta rete di strade interpoderali ci rivela indirettamente uno degli aspetti che più contraddistinguono lo spazio agrario cembrano: la sua estrema frammentazione e parcellizzazione.4. Il termine Ceole / Ceola. Il termine, in uso in alcuni paesi, deriva dal medievale zeulla o zeola e indicherebbe uno spazio agricolo disposto a pianoro con annesse delle abitazioni. 5. In Trentino, all'insediamento di matrice romanza a nucleo si sovrappose in periodi storici differenti la tipologia di colonizzazione del territorio a maso, di derivazione germanica. Dopo l'anno Mille, con la fondazione dei Principati Vescovili di Trento e Bressanone, e successivamente con il controllo dei Conti di Tirolo, si incentivò questo sistema di popolamento, anche richiamando coloni “tedeschi” a dissodare nuove zone. Alcuni masi, forme primarie di colonizzazione, con il tempo vennero suddivisi tra più proprietari e crebbero acquisendo carattere di piccola frazione o abitato, come numerosi abitati dell'alta valle o del Comune di Giovo. Dal XVII secolo invece, la tipologia di colonizzazione a maso venne usata come risposta all'esponenziale crescita demografica, con la messa a coltura di alcuni nuovi fondi -novali- tra i più distanti dai centri abitati.6. M. Yourcenar, Memorie di Adriano, Torino, Einaudi, 19637. F. Bartaletti, Geografia e cultura delle Alpi, Milano, Franco Angeli, 20048. Non erano ammessi i forestieri: come tali potevano essere indicati anche chi originario dal
paese vicino9. M. Falcetti, Atlante viticolo della Valle di Cembra: il contributo del progetto di zonazione alla conoscenza, gestione e valorizzazione del vigneto della Cantina La Vis e Valle di Cembra, 200710. F. Corrado, G. Dematteis, A. Di Gioia (a cura di) Nuovi montanari. Abitare le Alpi nel XXI secolo, Franco Angeli, 201411. Cittaslow è un movimento nato nel 1999 con l'obiettivo di allargare la filosofia di Slow Food alle comunità locali e al governo delle città. Nel Novembre 2011a Friburgo, Grumes è diventata ufficialmente socia di Città Slow International: la rete delle città del buon vivere.12. Sito internet: http://www.lostellodigrumes.it13. Si veda a tal proposito l'articolo firmato da Timmi Tillmann14. Il principale quadro normativo di riferimento del PSR è il Regolamento (CE) 1698/2005 che disciplina il sostegno allo sviluppo rurale da parte del Feasr (Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale). Fonte: www.europarlamento24.eu15. È la Direttiva del Consiglio Europeo del 21 maggio 1992 “Conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche”. Lo scopo è "salvaguardare la biodiversità mediante la conservazione degli habitat naturali, nonché della flora e della fauna selvatiche nel territorio europeo degli Stati membri al quale si applica il trattato" (art 2). Per il raggiungimento di questo obiettivo la Direttiva stabilisce misure volte ad assicurare il mantenimento o il ripristino, in uno stato di conservazione soddisfacente, degli habitat e delle specie di interesse comunitario elencati nei suoi allegati.
delle aree protette" che ha convertito in termini
istituzionali il concetto di rete ecologica e di coe-
renza di cui parla la Direttiva Habitat¹⁵.
Infine, fondamentali per la valorizzazione e
conoscenza del territorio, la pubblicazione di
alcune guide che portano ad esplorare il territo-
rio cembrano. In particolare la guida al “Sentiero
dei vecchi mestieri“ interessa tre dei comuni con
il maggior territorio agricolo recuperabile:
Sover, Grumes e Grauno. La guida “La via
dell'uva” di prossima pubblicazione, è invece un
lungo percorso nel paesaggio orizzontale dei
vigneti da Lavis a Segonzano, percorrendo solo
strade interpoderali.
Conclusioni
L'orizzontalità è quindi insita nel territorio e nel
tessuto sociale della Valle: concertazione, asso-
57
La plaga agricolalungo l'asta dell'Adigefra Trento e Rovereto
di Renzo Micheletti*
I promotori dell'iniziativa
L'iniziativa di aprire una riflessione sul signifi-
cato e sul valore della plaga agricola collocata
tra Trento e Rovereto è stata avviata dal grup-
po di maggioranza dell'Amministrazione
comunale di Aldeno nel 2011. L'esigenza
nasceva dalla presa d'atto della continua ero-
sione della campagna, sia per la progressiva
espansione degli aggregati urbani, sia per
l'edificazione di manufatti legati all'agri-
coltura lungo le strade che solcano il fondo
valle o disseminati nella campagna senza
alcun criterio se non quello del titolo di pro-
prietà del fondo.
I primi contatti
A seguito di un primo approfondimento fu
elaborata la bozza di un documento, sulla scor-
ta del quale fu aperto un confronto con le cir-
coscrizioni di Mattarello e di Ravina-
Romagnano (che fanno capo al Comune di
Trento). Il dibattito che ne seguì evidenziò
quanti potevano essere i punti in comune, cer-
tamente condivisibili, seppure all'interno di
istanze e di esigenze che nascevano da condi-
zioni specifiche differenziate.
Il documento integrato con i temi, che in virtù
del dibattito che ne scaturì, fu rielaborato in
modo più ampio ed esaustivo coinvolgendo il
sindaco di Trento Alessandro Andreatta, e fu
portato all'attenzione dei rispettivi Consigli e
fatto proprio dal Comune di Aldeno e per
l'appunto dalle due Circoscrizioni di Mattarello
e di Ravina-Romagnano.
Il testo fu inviato al dirigente del servizio Urba-
nistica e Pianificazione della Mobilità del
Comune di Trento, arch. Giuliano Stelzer, e
consegnato al presidente della commissione
urbanistica consiliare del capoluogo, ing.
Alberto Salizzoni, i quali ne condivisero piena-
mente i contenuti.
In fase di impostazione della proposta del
documento preliminare propedeutico del
piano urbanistico del “Territorio del Comune
di Trento e dei comuni contermini” di Aldeno,
Cimone e Garniga, ampie parti del testo furo-
no introdotte nei passaggi più salienti della
proposta stessa.
La presa di coscienza
Gli argomenti, sui quali si verificò un'ampia
convergenza e dai quali nacque la convinzione
che la situazione stesse velocemente evolven-
do in maniera negativa, tanto da richiedere
un'azione congiunta ed incisiva, furono molti.
Fra di essi la presa d'atto che la città di Trento si Renzo Micheletti, Architetto libero professionista in Trento
IL LABORATORIO TRENTINO2
58
59
stava estendendo, verso sud lungo la statale
del Brennero con l'area ormai compromessa
dedicata alla realizzazione della cittadella mili-
tare, poi abbandonata; al centro del fondo
valle con la spina rappresentata dall'aeroporto,
dal museo Caproni, dalla Protezione civile,
ecc.; in fianco alla zona industriale di Ravina
con l'espansione di un'area con la medesima
destinazione d'uso.
Via delle Ischie, la strada che collega diretta-
mente Mattarello a Romagnano e la Gotarda,
la strada che collega Mattarello ad Aldeno, con-
nettendosi con la S.P. nr. 90 Destra d'Adige in
corrispondenza del nuovo magazzino della
frutta, sono profondamente trasformate nel
loro ruolo da un'edificazione in alcuni tratti con-
tinua. È risaputo che la viabilità in situazioni di
pregio e di facile sfruttamento diventa, per le
forti pressioni che si generano ed in assenza di
una regolamentazione rigorosa, una testa di
ponte che produce la cosiddetta “edificazione
di strada”. Di fatto è quanto già avvenuto
lungo via delle Ischie con gli insediamenti dei
floricoltori e dell'agriturismo e lungo la Gotar-
da con i numerosi depositi agricoli.
Vista dall'alto, la plaga appare punteggiata dif-
fusamente da molti manufatti agricoli caratte-
rizzati da volumetrie consistenti, da altezze
eccessive e da tipologie formali incongrue e
non omogenee. Questi episodi edilizi sparsi,
privi di un preciso rapporto funzionale con il
territorio, sono elementi di forte discontinuità
nella percezione del paesaggio agricolo del
fondo valle e di criticità sotto il profilo ambien-
tale.
Alcuni principi, ormai patrimonio di una larga
parte della cultura ambientale, incardinano in
maniera chiara queste considerazioni.
Ci si riferisce, in particolare alla consapevolez-
za profonda che il territorio è un bene comune,
limitato e non riproducibile; che esso rappre-
senta il capitale più importante che una comu-
nità possiede; che la trasformazione di una
zona - da naturale, o agricola, ad area con
destinazione edificabile - rappresenta un pro-
cesso semplice, rapido ed irreversibile mentre
il contrario - il recupero a verde di un'area inse-
diata - è un fatto che fino ad ora non si è mai
verificato. E anche alla convinzione che all'oggi
ha un senso preciso porsi il tema del “limite”
degli aggregati urbani, poiché lo sviluppo non
può più essere inteso ineluttabilmente e in
modo superficiale come fase espansiva. Le
città, gli abitati possiedono ormai al proprio
interno enormi risorse per aumentare le pro-
prie dotazioni in termini di servizi e per trovare
(qualora ve ne fosse ancora bisogno) risposte
esaustive al fabbisogno di nuovi alloggi. Basti
pensare, alle aree lasciate libere dalla dismis-
sione delle industrie ma anche alle potenziali-
tà derivanti dai processi di sostituzione edilizia
delle parti più deboli delle città, rappresentate
dagli ampi tessuti residenziali realizzati a par-
tire dal secondo dopoguerra fino agli anni
Novanta, in molti casi incongrue, obsolete dal
punto di vista economico, quasi sempre assai
modeste sotto il profilo costruttivo ed in parti-
colare energetico. E ancora che la plaga che si
estende fra la città capoluogo e Rovereto,
oltre evidentemente a rivestire un ruolo eco-
nomico assai importante per chi la coltiva,
assume un'importanza sempre più marcata
sotto altri profili, quali quello urbanistico ed in
particolare paesaggistico e ambientale. Infine
che bisogna opporsi con grande determina-
zione al rischio, tutt'altro che remoto, di veder
trasformata anche questa parte della Val
d'Adige in ciò che è ormai irrimediabilmente
accaduto a nord di Trento: una conurbazione
continua, tipica del Veneto, che salda indistin-
tamente in un continuum edilizio tutti i paesi
dall'espansione a nord della città fino a San
Michele.
La plaga
Partendo da queste convinzioni, è del tutto
evidente che il forte grado di antropizzazione
e trasformazione ormai raggiunto dal com-
pendio territoriale in questione, richiede una
rigorosa salvaguardia degli spazi ancora liberi.
L'ulteriore occupazione di tali spazi significhe-
rebbe la perdita delle identità e delle peculiari-
tà che trasformano un territorio generico in un
“luogo” che può essere riconosciuto e ricorda-
to: senza retorica, significherebbe la perdita
per noi tutti del nostro senso di appartenenza
ad una comunità che non è fatto soltanto di
relazioni umane ma anche primariamente di
orizzonti, di sguardi, di confini geografici ed
ambientali.
Se si sale un po' in alto, la plaga agricola appa-
re come un quadro di Paul Klee ove, fra trasla-
zioni e rotazioni, spiccano in una combinazio-
ne di grande suggestione, le campiture dei
vigneti e dei meleti, contraddistinte da textu-
re e colorazioni molto variate, in funzione
dell'alternarsi delle colture e delle essenze.
Si leggono ancora in maniera molto netta i
grandi segni territoriali, quali i paleoalvei e le
trasformazioni che via via si sono sedimenta-
te. Non solo, ma nel rapporto stringente tra lo
spazio libero e lo spazio insediato si può leg-
gere con chiarezza la sequenza degli abitati ed
essi si possono ancora “discernere” e “nomi-
nare”.
Non vi è dubbio che un ambito paesaggistico
connotato in maniera così ricca e precisa va
conservato, perché rappresenta l'elemento
ordinatore e la vera struttura del tratto della
valle a partire, come già detto, da Rovereto
fino a Trento.
Scrive, a questo proposito, Christian Norberg
Schulz: «L'uomo abita quando riesce ad orien-
tarsi in un ambiente e ad identificarsi con esso
o, più semplicemente, quando ne esperisce il
significato. Abitazione quindi vuol dire qualco-
sa di più di “rifugio”: essa implica che gli spazi
dove la vita si svolge siano luoghi nel vero
senso della parola. Un luogo è uno spazio dota-
to di un carattere distintivo. Fin dall'antichità il
genius loci, lo spirito dei luoghi, è stato consi-
derato come una realtà concreta che l'uomo
affronta nella vita quotidiana».
Vi sono altre ragioni per cui le aree libere fra
Trento e Rovereto vanno salvaguardate.
Sotto il profilo ambientale la plaga agricola è
un polmone di grande importanza, senza il
quale la qualità della vita muta profondamen-
te. L'azione di erosione di questi spazi, che
spesso si esplica in una forma subdola, non
immediatamente percepibile e valutabile,
perché costituita da episodi limitati la cui som-
matoria genera tuttavia quasi sempre un esito
eclatante di pesante degrado, va arrestata
poiché è ormai essenziale giungere ad un
miglior uso della risorsa suolo e altrettanto
importante ottenere una maggior efficienza
nell'uso delle superfici già insediate.
È evidente che, nel caso di un territorio a
bassa densità edilizia ed abitativa, l'incidenza
degli oneri dell'infrastrutturazione è assai gra-
voso in termini economici e di dispendio di
suolo, ma anche per quanto attiene al profilo
della qualità e dell'efficienza.
In questo senso, va ricordato che il suolo agri-
colo ha una sua forza economica e che le por-
zioni che vengono urbanizzate rappresentano
un suolo consumato/perso per sempre. Cor-
rendo il rischio di banalizzare è possibile affer-
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mare che senza spazi agricoli una società non
può esistere. Ed ancora che senza gli spazi
aperti l'uomo non può vivere e nel momento
in cui tale risorsa diventa scarsa egli è costret-
to ad andare a cercarla altrove - con costi più
elevati in rapporto al crescere della distanza -
per garantire il perpetuarsi delle proprie attivi-
tà e della propria sopravvivenza. Questo è un
fenomeno inconfutabile e sotto gli occhi di
tutti: basti pensare all'esodo che nei fine setti-
mana si verifica nelle grandi città.
È paradossale trovarsi nella condizione di
poter raggiungere a piedi vasti spazi aperti di
notevole qualità e non difenderne l'integrità
perché manca la consapevolezza del loro valo-
re. Perderli significherebbe che, per fruire
delle stesse condizioni, bisognerebbe spostar-
si altrove con dispendio di mezzi e tempi.
I cambiamenti di copertura e di uso del suolo
rompono complessi equilibri e generano
sull'ambiente effetti quali la riduzione della
permeabilità, una limitata capacità di imma-
gazzinare carbonio e un cambio della tempe-
ratura.
Non è retorico ricordare che il suolo produce
la prima e fondamentale forma di energia: il
cibo. Non è altresì fuori luogo sottolineare che
il nostro è un ambito agricolo di grande pregio
e che in generale l'erosione della campagna
aumenta la dipendenza alimentare da altri
territori.
L'allargamento dell'iniziativa
La plaga è suddivisa da una maglia complessa
e immateriale che costituisce i limiti di diversa
competenza amministrativa. Si tratta di linee
impercettibili ma quanto mai importanti per-
ché costituiscono un vincolo. Sono i confini
che delimitano gestioni del territorio che
fanno capo ad una pluralità di amministrazio-
ni non aventi inevitabilmente e per molteplici
ragioni tutte la medesima visione del territo-
rio.
Si è quindi preso atto della necessità di coin-
volgere le Amministrazioni di tutti i comuni fra
Trento e Rovereto, per condividere le riflessio-
ni esposte sopra e conseguentemente pro-
muovere un forte coordinamento volto a
modificare i singoli strumenti urbanistici nella
direzione della salvaguardia.
Una mozione in merito è stata approvata in
ordine di tempo dai Consigli circoscrizionali di
Mattarello, Ravina e Romagnano (Comune di
Trento) e dai Consigli comunali di Calliano,
Villa Lagarina, Nomi; Aldeno, Volano e Bese-
nello nel corso del 2013 e dal Comune di Poma-
rolo nel 2014 che impegna il sindaco e la giun-
ta a dare attuazione alle idee guida di cui ai
punti citati in premessa, attraverso la loro tra-
duzione in una pianificazione concreta, da svi-
luppare in accordo con gli operatori agricoli
presenti sul territorio, che si ponga l'obiettivo
di:
- razionalizzare il sistema della mobilità
esistente in una visione d'insieme estesa
all'intero ambito territoriale, individuando
gerarchie e ruoli differenziati in funzione
della compatibilità della viabilità con le
caratteristiche intrinseche (sezione, effi-
cienza, ecc.) e con l'incidenza e il rapporto
della stessa con le aree territoriali attraver-
sate;
- incentivare i percorsi ciclopedonali che
connettono i nodi di maggiore potenzialità
attrattiva in termini di aggregazione,
offerta di servizi, inserendoli armoniosa-
mente ed in reciproca sicurezza nel territo-
rio;
- disincentivare il traffico pesante nei tratti
critici di attraversamento delle zone urba-
ne trovando un ragionevole equilibrio fra
le singole componenti;
- razionalizzare il traffico agricolo disso-
ciandolo ovunque sia possibile dal traffico
veicolare di scorrimento al fine di ottenere
maggior condizioni di sicurezza e di effi-
cienza;
- governare e regolamentare la regimazio-
ne e l'utilizzo delle acque, salvaguardando
sia l'edificato, sia il territorio agricolo per
garantirne un efficiente, sicuro controllo al
fine di assicurare una proficua coltivazione
delle campagne;
- riconoscere le invarianti quale garanzia
della conservazione del sistema ed il suo
adattamento ai cambiamenti esterni e
porle come caratteri fondativi delle identi-
tà dei luoghi che ne consentono il mante-
nimento e la crescita nei processi di tra-
sformazione in quello che possiamo defini-
re patrimonio territoriale, con particolare
riguardo alle aree agricole di pregio;
- regolamentare l'edificazione di ulteriori
manufatti nell'ambito della plaga di cui
stiamo trattando, affinché la stessa non sia
ulteriormente punteggiata da episodi edi-
lizi sparsi che ne indeboliscano ulterior-
mente l'integrità, frammentando e
togliendo forza all'immagine, compro-
mettendo il profilo ambientale a volte in
modo assai pesante;
- individuare, attraverso il coinvolgimento
degli operatori economici interessati (in
primis gli operatori agricoli), un percorso
che preveda la costituzione di un vero e
proprio distretto agricolo, nell'ottica di uno
sviluppo economico sostenibile del territo-
rio con valorizzazione anche dal punto di
vista turistico ed ambientale;
- recuperare alla coltivazione le aree prive
di destinazione d'uso od occupate da strut-
ture dismesse, obsolete sotto il profilo eco-
nomico, quali relitti stradali, slarghi resi-
duali, tettoie, ecc., per ricomporle entro la
trama colturale.
Il gruppo di lavoro
Al fine di avviare un'analisi approfondita degli
aspetti più importanti e di individuare le stra-
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tegie più opportune per giungere alla defini-
zione di un progetto di grande respiro che indi-
chi le soluzioni più appropriate per conseguire
la salvaguardia del territorio in questione, fu
nominato un gruppo di lavoro composto da
esperti di differente formazione culturale, pro-
venienti da ambiti professionali e da campi
d'interesse diversificati (agronomia, urbanisti-
ca, controllo degli insediamento rurali, giorna-
lismo di settore) proprio per poter contare su
un approccio il più completo ed ampio possi-
bile. L'obiettivo posto fu di giungere a definire,
attraverso un percorso gradualmente sempre
più affinato, una pianificazione condivisa del
compendio in questione che superasse i nume-
rosi nodi irrisolti e che conseguisse un riequili-
brio apprezzabile fra le singole componenti.
Due questioni incombenti
Sul futuro del progetto incombono due que-
stioni di grande rilievo che periodicamente e
instancabilmente si riaffacciano nel dibattito
politico e nel quadro delle strategie di sviluppo
e trasformazione del territorio lagarino: lo
sbocco del progettato collegamento auto-
stradale fra la Valdastico e l'A22 Modena Bren-
nero – la cosiddetta PIRUBI - e le dighe per lo
sfruttamento idroelettrico dell'Adige. È ovvio
che qualora i due progetti trovassero una con-
creta realizzazione, ogni intervento di tutela
di un'area già di per sé residuale e fortemente
antropizzata e trasformata, diventerebbe risi-
bile. Anche per questo, un intervento di tutela
della plaga potrebbe dare ulteriore energia
alle ragioni di chi si oppone allo sfruttamento
indiscriminato e miope del territorio.
Conclusioni
Questi sono i dati evidenti con i quali ci si deve
responsabilmente misurare per trovare un
orizzonte di senso più profondo, proiettato
oltre le semplici istanze dell'oggi.
Bisogna pertanto essere capaci di formulare
una visione nuova, che vada oltre il consueto e
la cultura sedimentata, secondo la quale lo
sviluppo e la crescita sono semplicisticamente
intesi quali sinonimi di espansione e
secondo cui lo spazio libero è lì pronto
e disponibile ad essere occupato.
È una responsabilità di tutti. Di coloro
che si trovano nella delicata condizione di
dover decidere (i politici), di coloro che in que-
sto ambito svolgono il loro lavoro (i contadini),
di chi lo deve percorrere in automobile, dei
cittadini che lo attraversano in bicicletta e di
coloro che in questo spazio aperto vanno a
passeggiare, a correre, in definitiva a ritrovare
uno stato di equilibrio e rigenerazione.
Questo “vuoto” pieno di senso deve essere
letto e interpretato attraverso un progetto
complessivo che attribuisca ad ogni singolo
elemento il proprio ruolo specifico, nella con-
sapevolezza che la sostenibilità della pianifi-
cazione passa in prima istanza attraverso il
contenimento dei consumi di suolo.
63
Hic sunt leones. Terzi paesaggi a Primiero
di Gianfranco Bettega*
1. La formazione del territorio
Fin dalle testimonianze più antiche, il territorio
di Primiero appare caratterizzato dalla presen-
za e dalla contesa di prati, pascoli e boschi. La
lunga durata di legname ed erba marcherà, pur
con fluttuazioni e interazioni con altre impor-
tanti risorse, la storia delle valli del Cismon,
Vanoi e Mis, fino a metà XX secolo.
In particolare, entro un crescendo di riduzioni a
coltura e antropizzazioni, l'impiego della risor-
sa erba segnerà un passaggio economico cru-
ciale attraverso il lento mutare dei sistemi di
allevamento. Se nel XV secolo i primierotti si
dividevano ancora tra habentes e non habentes
pecudes¹, almeno a partire dal XVII secolo e
fino al XX inoltrato, lo status economico più
invidiabile diverrà quello del bacàn, ossia del
possidente di prati e bovini. Questo cambio
della guardia tra pecore e vacche sarà uno dei
fattori strutturanti il territorio primierotto.
L'introduzione sempre più massiccia di bovini
stanziali motiverà la produzione di sempre più
consistenti scorte di fieno per i lunghi mesi
invernali e spingerà all'invenzione (o, meglio,
all'innesto e al peculiare sviluppo) dei masi: le
stazioni familiari di pre e post-alpeggio dove si
produceva la maggior parte del foraggio di
scorta e sulle quali sorgerà quel vasto patrimo-
nio edilizio dallo spiccato carattere corale che
oggi chiamiamo baite. Circa 4000 edifici carat-
terizzati da grandi coerenza tipologica e varie-
tà strutturale e formale che permeano il terri-
torio al punto da poterli considerare una vera e
propria invariante culturale.
Un secondo determinante periodo di transizio-
ne sarà il secolo nero che va dal 1866 al 1966.
Con il passaggio del Veneto all'Italia e
l'ermetica chiusura della frontiera verso il loro
naturale bacino economico, si aprirà per le
nostre valli un'epoca scandita da regresso eco-
nomico e della disponibilità di generi di vita,
emigrazione, dissesti naturali e bellici. La popo-
lazione raggiungerà i suoi massimi storici sullo
scorcio dell'Ottocento e la pressione antropica
passerà ogni limite sostenibile, mettendo a
coltura ogni suolo raggiungibile, senza con ciò
rimediare alle sempre più vaste sacche di
povertà. Anche dopo il 1918 e l'annessione
all'Italia, la ripresa economica tarderà a giunge-
re: il Ventennio e la Seconda guerra mondiale
posporranno di un altro cinquantennio
l'ingresso in valle della modernità e del mercato.
Solo dopo l'alluvione del 1966 prenderà quota
una serie di cambiamenti socioeconomici che
porteranno in valle il sospirato boom economi-
co, ma quel dissesto idrogeologico accelererà
*Gianfranco Bettega vive e lavora a Primiero. Si occupa di storia del territorio e dell'alimentazione
IL LABORATORIO TRENTINO2
Anche se noi non predichiamo la dottrina spontaneamentei fiori sbocciano a primaveraIkkyu Sojun (1394-1481)
64
65
Raffronto fotografico dello stato del versante destro della valle del Cismon all'altezza dell'abitato di Siror 1935-2014.
66
l'abbandono dell'agricoltura e dei suoli agricoli
già in atto. Tra il 1951 ed il 1971 più di 1800 per-
sone lasceranno il settore. Così si descrive la
situazione nel 1977: “Ma l'aspetto certamente
più negativo, a livello di uso delle risorse territo-
riali rimane quello che riguarda i terreni adibiti ad
uso agricolo o a pascolo. I danni provocati dal
forzato abbandono di queste attività sono estre-
mamente gravi, non solo in quanto ciò ha costi-
tuito la distruzione di quella che era sempre la
base economica di Primiero, ma anche perché
tale abbandono ha avuto effetti profondamente
negativi sulla conservazione e sulla protezione
dei terreni.”²
Numerose le cause di questo fenomeno, comu-
ne a gran parte delle Alpi. A Primiero incide
senz'altro l'attrazione dei comparti turistico ed
edilizio, alla ricerca di manodopera a basso
costo. Tra le cause interne, potremmo oggi
segnalare l'adozione di un modello produttivo
inadeguato alla montagna, fondato sulla mec-
canizzazione spinta, l'accentramento delle stal-
le e della trasformazione del latte, la specializ-
zazione estrema dell'allevamento e la svaluta-
zione delle piccole coltivazioni di autoconsu-
mo.³ Tutto ciò ha causato una selezione natu-
rale da meccanizzazione con radicali muta-
menti degli usi del suolo che vedono i prati e
pascoli più ripidi progressivamente abbando-
nati all'avanzare del bosco e i coltivi più pia-
neggianti trasformati in prati.
2. La situazione attuale
Oggi, a quasi cinquant'anni dal fatidico 1966 e
dopo quasi altrettanti di programmazione
urbanistica trentina, possiamo misurare la
dimensione di questo mutamento epocale:
una vera e propria frattura rispetto alla lunga
durata dei secoli precedenti. Due gli effetti più
evidenti del fenomeno.
La dimensione dello spreco di suolo,
nell'ultimo mezzo secolo, ha visto quasi tripli-
carsi gli spazi urbanizzati, passati dai 144 ha del
1960 ai 429 del 2011, proprio mentre la popo-
lazione diminuiva quasi del 7% (dai 10.897 abi-
tanti del 1961 agli attuali 10.147). Pur in tutta la
sua gravità, questo dato riguarda comunque
poco più dell'1% della superficie del territorio di
Primiero che complessivamente ammonta a
413 kmq.
Di vastità ben maggiore il fenomeno ad esso
speculare: l'abbandono di circa 26 Kmq di suoli
coltivati, persi all'agricoltura tra il 1977 ed oggi:
il 29% del totale delle aree a quel tempo utiliz-
zate e ormai ridotte a 65 kmq.⁵
Più che approfondire la dimensione quantitati-
va di questa deriva, importa qui tratteggiarne
la progressione, ancora in atto su larghe fasce
di suolo sia di fondovalle che di mezza o alta
quota.⁶ È una scala di cui si possono indicare
almeno quattro gradini.
Ha inizio con la dismissione delle attività agri-
cole: dapprima le coltivazioni di campi ed orti
e, in seguito, la fienagione o anche il semplice
pascolo. Le ragioni di queste dismissioni sono
legate sia al ricambio generazionale nel setto-
re che ad una complessiva perdita di dignità
del ruolo dell'agricoltore e della produzione
locale di cibo nella nostra società.
Il cambio d'uso del suolo, o il suo abbandono,
porta con sé un'inevitabile perdita di fertilità e
di biodiversità coltivata. Scompaiono specie
allevate e varietà coltivate ma, soprattutto,
regredisce la fertilità faticosamente costruita
dalle generazioni passate. Né è il caso di bearci
Espansione degli insediamenti dell'Alto Primiero dal 1859 al 2011.
di questa nuova naturalità dei suoli:
“un'evoluzione lasciata all'insieme degli esseri
biologici che compongono il territorio, in assenza
di ogni decisione umana.”⁷ Poiché, anche se mol-
ti, tra non residenti e nuove generazioni, leggo-
no oggi questi terzi paesaggi come un idilliaco
ritorno alla natura, in realtà si tratta di suoli per i
quali la nostra comunità ha rinunciato ad imma-
ginare un futuro. E che, dati i costi che compor-
terebbe, sarà quasi impossibile riportare ad uso
agricolo.
Svalutazione culturale (della centralità della pro-
duzione del cibo) e materiale (di fertilità e biodi-
versità) si rivelano ben presto premesse per
altri usi e valorizzazioni. Dapprima quelle più
leggere ma già irreversibili (spesso legittimate,
quando non addirittura incentivate o imposte
dalle istituzioni locali), come la frammentazio-
ne dei suoli per creare infrastrutture o la loro
impermeabilizzazione per ricavare spazi urbani
di pubblico interesse come piazze, parcheggi e
posti macchina. A seguire, quelle classiche di
cementificazione ed edificazione. Abbandono
e cementificazione sono legati e complemen-
tari ma, a Primiero, la loro percezione sociale
corre su binari separati. In particolare,
sull'abbandono emergono indizi frammentari e
qualitativi (piuttosto che non conoscenze quan-
titative) che stentano a raccordarsi in un quadro
organico ed unitario.
Soprattutto, ben di rado si giunge alla consta-
tazione, di per sé lapalissiana, che Gilles Clé-
ment ha da tempo enunciato: là dove l'uomo fa
un passo indietro, la natura avanza e riguadagna
terreno, materialmente e metaforicamente.
Materialmente, avvalendosi di tutti i viventi (cer-
vi, cinghiali, aironi, limacce, orsi, robinie, bud-
dleiae, verghe d'oro e chissà quanti altri alieni)⁸
che trovano, nei nuovi spazi lasciati al Terzo pae-
saggio, il proprio naturale ambito d'insedia-
mento e di vita. Metaforicamente, infiltrandosi
tra saperi territoriali tradizionali e ormai desueti
paradigmi di modernità ed urbanesimo per ali-
mentare una nuova immagine della montagna
selvaggia, distante e sconosciuta ai più.
Selvaggia come la foresta che invase l'Europa
dopo la caduta dell'Impero romano d'occidente
e che solo il Medioevo seppe ri-leggere come
risorsa per nuovi usi da parte di uomini nuovi.⁹
Distante soprattutto dalla visione mainstream
che del Trentino è stata proposta in questi ulti-
mi decenni. Ed è tutt'oggi ribadita dalle letture
ufficiali dell'agricoltura come, ad esempio, la
recente mostra Terre coltivate. Una narrazione
che, non a caso, dimentica Primiero e le sue
agricolture, così come quelle di altre aree, peri-
feriche all'oliato sistema unico delle DOP e
delle DOC (imperniato su tre produzioni ban-
diera, vitivinicola, frutticoltura e casearia, e
poco altro).¹⁰ Quasi che, nella carta ufficiale
dell'agroalimentare trentino, Primiero fosse
una sorta di terra lontana e ignota, simile a
quelle che individuava, nelle mappe antiche e
medievali, la scritta hic sunt leones, testimo-
niando innanzitutto lo sguardo distratto e
l'ignoranza dell'estensore.
Sconosciuta a gran parte di noi abitanti del
luogo che pure discendiamo da gente che
conosceva il territorio palmo a palmo perché lo
percorreva, quando muoversi era un modo
condiviso di imparare. Gente che sapeva leg-
gere i segni della terra, “un alfabeto che oggi noi
non capiamo, che non conosciamo quasi più,
analfabeti di territorio come siamo.”¹¹ Ma anche
sconosciuta ai più, a causa delle distorsioni
antropocentriche che hanno guidato il nostro
rapporto con gli altri viventi, convinti come
siamo di essere centro e sovrani del creato.¹²
In altre parole, l'attuale abbandono del territo-
rio certifica come noi “siamo le prime genera-
zioni nella storia che non stanno più tramandan-
do i saperi specifici legati al territorio”¹³ e, di con-
seguenza, non hanno saputo sviluppare uno
sguardo condiviso sul proprio territorio.
3. Tentativi, successi (pochi) e fallimenti
(troppi)
Non sono stati pochi, nell'ultimo decennio a
Primiero, i tentativi di segnalare il tema
dell'abbandono dei suoli agricoli e delle multi-
ple agricolture ad essi collegate, di immagina-
re nuovi futuri per questi suoli e per le risorse
che essi ancora ci propongono.
Alcuni di questi tentativi portano il marchio
istituzionale, provinciale o europeo. Pensiamo,
ad esempio, a quella nuova categoria di pastori
che, sospinti da incentivi economici, mettono
insieme piccoli greggi di ovini che fanno pasco-
lare allo stato brado e incustoditi in vecchi
masi, su malghe troppo inaccessibili per inte-
ressare il comparto latterio-caseario (da
tempo divenuto, nel sentire comune,
l'Allevamento con l'A maiuscola di Primiero),
oppure su sgrémeni all'estremo limite altitudi-
nale della vegetazione. Niente latte o lana da
questa pastorizia primitiva, alla mercé del vitu-
perato orso: solo agnelli da carne da smerciare
nel periodo pasquale.
Con questo allevamento europeo fanno il paio i
ripristini di prati e pascoli di mezza o alta quo-
ta: suoli rimboschiti e talora recuperati dalle
stesse persone che, solo qualche decennio fa, li
avevano abbandonati. A costi che si aggirano
tra i 15.000 ed i 30.000 Euro/ha¹⁴, a secondo
delle condizioni di partenza e con la consueta
logica di selezione e intervento, quella della
loro lavorabilità meccanizzata. In entrambi i
casi, più che nuovi progetti di utilizzo delle
risorse territoriali, si tratta di un saltare sul
treno europeo dei finanziamenti: ben difficil-
mente si attiverebbero interventi in assenza di
fondi pubblici.
A Primiero non mancano tuttavia altre iniziati-
ve che, a cavallo tra associazionismo e settore
pubblico, hanno cercato di analizzare agricol-
ture minori, produzioni locali di cibo, abbando-
ni di coltivi e prati, avanzando anche qualche
ipotesi d'intervento. Una semplice elencazione
di quelle imperniate su orti e coltivi di fondo-
valle sarà sufficiente per lasciar intuire la loro
multiforme natura: vanno dal recupero di colti-
vi e dell'antica varietà di mais Dorotèa¹⁵ all'orto
scolastico della Scuola elementare di Tonadi-
co¹⁶; dal Bilancio degli orti¹⁷ alla proposta di
un'Aula in Campagna per i futuri cuochi di Pri-
miero¹⁸; dal progetto della birra 100% Primie-
ro¹⁹ alla mostra Tutto il mondo è un orto²⁰; da
un'Alleanza per la Campagna²¹ fino al censi-
mento generale degli orti della valle²².
Elenchi simili si potrebbero stilare, oltre che
per i coltivi, anche per altre risorse, come erba
e legno. Senza dimenticare quella peculiare
risorsa territoriale che è il paesaggio, nella con-
servazione del quale la sproporzione tra avan-
zare della natura e resistenza dell'uomo appare
oggi particolarmente evidente. Poche centina-
ia di uomini – boscaioli, allevatori, operatori
ecologici e siegadóri della domenica - tentano
invano di arginare il terzo paesaggio interve-
nendo a valle del fenomeno poiché nessuno si
preoccupa di considerarlo da monte, partendo
dalle sue motivazioni, peraltro evidenti, a guar-
darle nel lungo periodo.
A bilancio, pur provvisorio e parziale, di queste
iniziative, ci sembra di poter indicare un carat-
tere che connota gran parte di esse: una gran
vitalità di soggetti e proposte, caratterizzata
da estrema frammentazione, quando non di
divisione e contrapposizione²³. Uno stato di
67
cose che trova emblematica rappresentazione
nella divisione amministrativa di Primiero (ben
otto Comuni, senza contare le altre istituzioni
sovraordinate, per neanche 10.000 abitanti)
che determina l'incapacità locale ad esprimere
una visione territoriale strategica condivisa.
È come se una grandissima biodiversità di
sementi, radici, pollini e stoloni cercasse inva-
no di attecchire in un terreno reso sterile, asfit-
tico e poi abbandonato a sé stesso dall'aggres-
siva monocoltura/monocultura che domina il
campo. Senza lasciarsi trasportare oltre dalla
metafora, non si può comunque far a meno di
constatare come costruire una visione condivi-
sa del territorio, al di là della ricorsiva liturgia di
dichiarazioni d'intenti e tavoli di partecipazio-
ne, non sia un tema prioritario nell'agenda
della politica locale.
4. Nuove prospettive?
Quali siano le strategie possibili per instaurare
un rapporto nuovo, coerente e sostenibile con
il territorio e, in particolare, con il terzo paesag-
gio locale, non è cosa immediata da definire.
Ma alcuni spunti e temi si possono intravvede-
re.
Innanzitutto, il terzo paesaggio allarga i margini
tra antropizzato e naturale. Quei confini che, in
epoca di massimo popolamento, si erano
ridotti a sottili fronti di lotta quotidiana tra
uomo e natura, si espandono oggi in profonde
terre di nessuno dove tutto ridiviene possibile,
per tutti i viventi. Animali e piante lo hanno già
capito, anche se noi umani stentiamo a pren-
derne atto. Sono spazi, fisici ma anche menta-
li, indeterminati: luoghi di possibile fertilità di
pensiero e cambiamento.
Spazi che chiedono di essere esplorati da nuovi
sguardi, che vengano da intelligenze e da corpi
differenti: umani ma anche animali e vegeta-
li.²⁴ Da umani che, consapevoli di non stare
sopra ma tra i viventi, sviluppino atteggiamenti
simbiotici e non di contrapposizione o, peggio,
di dominio.²⁵
In questa prospettiva occorre affinare una capa-
cità fondamentale che è quella di ri-conoscere
le scale, spaziali e temporali, dei temi e dei pro-
blemi, compreso quello dell'abbandono del
territorio che qui ci interessa. Si tratta di risalire
la china della desertificazione, cartografica e di
pensiero, che in questi ultimi decenni ha carat-
terizzato il nostro rapporto col territorio, ma
anche di riconoscere e incorporare le differenti
scale con cui gli altri viventi vi si rapportano.²⁶
Strettamente legato a quello delle scale
appropriate è anche necessario un aggiorna-
mento di pensiero sul tema della frammenta-
zione, sia territoriale che amministrativa.
Occorre andare oltre i luoghi comuni indotti
dai modelli esogeni della frammentazione
come criticità e della grande dimensione come
economia di scala. Se del caso, anche recupe-
rando una visione della frammentazione
anche come strategia di distribuzione del
rischio, così come è esistita in passato
nell'agricoltura locale e come, peraltro, si profi-
la in Internet o nelle reti della biodiversità. Ma
anche prendendo atto dei casi in cui essa è inve-
ce elemento di stasi ed incapacità operativa.
Prima tra tutte l'attuale architettura istituzio-
nale locale.
Con nuovi strumenti, messi a disposizione
anche dagli altri viventi, occorre ri-vedere risor-
se sulle quali aprire ventagli di possibili nuovi
impieghi. A partire dal terzo paesaggio si pos-
sono contemplare destini diversi per i suoli, tal-
volta complementari, talaltra esclusivi: dalla
conservazione della funzione originaria di pra-
to-pascolo all'inserimento di nuove attività e
nuovi modelli d'agricoltura di versante; dalla
conservazione dei prati-pascoli come elementi
di varietà e qualità paesaggistica, ambientale e
di vita, anche come componenti dell'offerta
turistica, alla conversione dei suoli a produzio-
ne legnosa da opera o da fuoco, sia in forma di
legna da ardere che di cippato da teleriscalda-
mento; da assetti idonei a garantire la sicurez-
za del territorio sino all'abbandono controllato
per contribuire al rafforzamento delle rete
delle aree protette e naturali, alla ricomposi-
zione di situazioni di frammentazione delle
biocenosi che favorisca il vagabondaggio delle
specie viventi.
Per far ciò servono forse dei nuovi barbari, per
reimparare il maiale? Serve cioè un nuovo
Medioevo con nuovi montanari che individui-
no, per le risorse di sempre, nuovi impieghi? E
fa differenza se questi nuovi montanari sono
dei locali o vengono da fuori?
Certo, una componente innovativa va ricerca-
ta, ma forse non basta. Per superare l'impasse
in cui ci siamo cacciati e di cui il terzo paesaggio
è espressione, serve anche riprendere dalla
storia locale alcune soluzioni di successo,
tenendo ben a mente che la tradizione è tale
proprio perché si tratta di un'innovazione ben
68
riuscita.²⁷
Serve innanzitutto reimparare a chiudere i cicli
produttivi a partire da quelli agro-forestali, ridi-
segnando filiere insostenibili che producono
esternalità pesantissime. Occorre far in modo
che gli output di un ciclo non diventino rifiuto
ma risorsa per qualche altro ciclo. Ma occorre
anche riprogettare le produzioni prevenendo a
monte talune esternalità, anziché risolverle con
investimenti di denaro pubblico a valle.²⁸
Occorre tornare a camminare il territorio come
vecchio/nuovo metodo di conoscenza, control-
lo e progettualità. Sviluppando letture appro-
priate, avvalendosi di tutte le porte di percezio-
ne disponibili ed evitando di sostituire alle cose
la loro immagine.²⁹ Solo così si potrà ricomin-
ciare a trasmettere l'alfabeto del territorio, ade-
guandolo alle nuove situazioni e recuperando
l'analfabetismo di ritorno che oggi ci distanzia
sempre più da questa larga parte di realtà.
Naturalmente non è affatto questione di
nostalgia. Si tratta piuttosto di tenere le cose
buone del passato.³⁰ Detto in altri termini, si
tratta di passare dal localismo vandalico³¹ che ci
ha portato allo sperpero e al simultaneo
abbandono dei suoli, a un'idea di territorio con-
divisa da nuovi montanari, resistenti e simbiotici
con il proprio ambiente e con l'insieme dei
viventi.³²
Tenendo comunque ben a mente che, lo
vogliamo o meno, spontaneamente i fiori sboc-
ciano a primavera.
69
1 Così in un documento sui pascoli del 1477 conservato nell'Archivio parrocchiale di Tonadico, Pergamene e documen-ti antichi, C. 23.2. Comprensorio di Primiero, Piano urbanistico comprensoria-le, Feltre, Castaldi, 1981, pp. 81-82.3. Questa prospettiva ben esemplificata da: Giorgio Scalet, Agricoltura in Primiero, storia e attualità, Zero Branco (Tv), Unigrafica, 1984, pp. 225-242,4.Il tema dell'occupazione dei suoli, esemplificato anche dalla fig. 2, è descritto e quantificato in: Comunità do Primie-ro, Documento preliminare per la formazione del Piano Territo-riale di Comunità. Allegato I – Ambiente, territorio e società di Primiero, marzo 2014, pp. 54-70; una sintesi della vicenda urbanistica di Primiero si trova invece in: Comunità di Primie-ro, La pianificazione urbanistica a Primiero. Un bilancio, marzo 2014. Entrambi i documenti sono disponibili all'indirizzo web: http://www.primiero.tn.it/Aree-Tematiche/Ambiente-e-Territorio/Urbanistica/Piano-Territoriale-di-Comunita5. L'entità e la natura di questo abbandono sono approfondi-te in Silvio Grisotto, Analisi sui boschi di neoformazione nella Comunità di Primiero-Vanoi e Mis: proposta per un loro utilizzo a scopi energetici, turistico- paesaggistici e di recupero ambien-tale, maggio 2012, (inedito, consultabile presso la Comunità di Primiero).6. Riprendiamo qui considerazioni già sviluppate in: Gian-franco Bettega, Dal Giardino in Movimento al Giardino Plane-tario, via Primiero, in Antropologia del «Terzo Paesaggio», a cura di Franco Lai e Nadia Breda, Roma, CISU, 2011, pp. 51-74. Per l'ambito di Primiero, il tema è stato anche di recente affrontato nel volume: Un luogo in cui resistere. Atlante dei paesaggi di Sagron Mis (secoli XVI-XXI), a cura della Cooperati-va di ricerca TeSto, Sagron Mis, Comune di Sagron Mis, 2013.7. È la definizione di terzo paesaggio data da Gilles Clément nel suo Manifesto del Terzo paesaggio, Macerata, Quodlibet, 2005.8. Analisi aggiornate sulla diffusione delle specie aliene a Primiero si trovano in: Alessio Bertolli – Filippo Prosser, Attivi-tà botaniche nella Comunità di valle del Primiero. Triennio 2011-2013, Rovereto, Fondazione Museo Civico Rovereto, 2013 (inedito, consultabile presso la Comunità di Primiero); una posizione estrema sul tema è stata espressa in Invasioni alie-ne? E cambiamenti climatici a Primiero, da Erwin Filippi Gilli, disponibile all'indirizzo web: http://www.lavocedelnordest.it//articoli/2011/08/19/4810/ambienteinvasioni-aliene-e-cambiamenti-climatici-a-primiero9. Un esempio di nuova lettura del bosco come risorsa è descritto in: Massimo Montanari, Il maiale nell'economia e nell'alimentazione medievali in Tra Maghe, Santi e Maiali. L'avventura del porco nelle lettere e nei colori, a cura di Paolo Scarpi, Milano, Claudio Gallone Editore, 1998, p. 96. L'Autore evidenzia come all'abbandono seguito alla caduta dell'Impero romano d'occidente succedette, lungo l'alto Medioevo, una ri-lettura del bosco come risorsa (evidente-mente operata da una nuova cultura, per lungo tempo defi-nita barbara dalla storiografia ufficiale) che portò alla ricon-versione produttiva della foresta grazie all'introduzione del pascolo brado dei maiali.10. Si veda il catalogo: Terre coltivate. Storia dei paesaggi agra-ri del Trentino, a cura di Alessandro De Bertolini, Trento, Fon-dazione Museo Storico del Trentino, 2014. Primiero vi com-pare per tre volte, più con riferimenti storici generici che nel merito della sua agricoltura, alle pp. 15, 90 e174. Val la pena di rammentare che, proprio dal sistema delle DOC e delle DOP, muove il Piano Urbanistico Provinciale per definire il valore dei terreni agricoli. Si veda: Provincia autonoma di Trento, Piano Urbanistico Provinciale. Allegato A Relazione illustrativa, Trento, 2008, pp. 62-66. Abbiamo già segnalato l'inadeguatezza dello sguardo ufficiale sul tema delle risorse locali, dell'agricoltura e dell'abbandono del territorio in: Dal Giardino in Movimento, cit. alle pp. 59-61.11. Nicola Sordo, Un mondo dove tutto torna. La memoria
locale come strumento per la cura e la riprogettazione dei terri-tori, Milano, Raccolto edizioni, 2014, p. 12.12. Una prospettiva, utilmente dissonante rispetto a quella antropocentrica è proposta da: Stefano Mancuso e Alessan-dra Viola, Verde brillante. Sensibilità e intelligenza del mondo vegetale, Firenze, Giunti, 2013. Secondo gli Autori, “convinti per millenni di essere i più eccelsi fra gli esseri viventi e di occu-pare il centro dell'universo”, abbiamo rimosso la constatazio-ne della nostra dipendenza assoluta dai vegetali, del loro successo planetario nell'adattamento ambientale (i vegetali rappresentano il 99,5% dei viventi, gli animali costituiscono lo 0,3%, compresa la percentuale ancora più ridotta degli umani), cosicché “le piante ci appaiono distanti, aliene, al punto che a volte facciamo persino fatica a ricordare che sono vive” (p. 107).13. Sordo, Un mondo dove tutto torna, cit. p. 10.14. I costi sono desunti da: Grisotto, Analisi sui boschi di neo-formazione, cit. Allegato II. Casi studio delle diverse tipologie di intervento e macroaree omogenee.15. Il progetto Custodiamo il sórc, di recupero del mais Doro-tèa è promosso a partire dal 2007 dall'Ecomuseo del Vanoi. Si basa su un disciplinare partecipato disponibile all'indirizzo web: http://www.ecomuseo.vanoi.it/mulini-dei-caineri/.16. L'orto in Condotta è stato promosso, a partire dal 2007, dalla Scuola Primaria di Tonadico in collaborazione con la Condotta Slow Food di Primiero. L'esperienza, tuttora atti-va, è descritta all'indirizzo web: http://www.scuoleprimiero.it/index.php/primaria/progprim/620-orto-in-condotta.17. Proposto nel contesto di Agenda 21 Locale di Primiero, il Bilancio degli orti è stato commissionato dal Comune di Mez-zano. Ha portato nel settembre 2008 ad una proposta arti-colata: uno Schedario di censimento, Indagini e analisi accompagnate da un piano di azioni d'intervento ed un Pron-tuario delle componenti tradizionali degli orti del centro storico finalizzato all'erogazione di finanziamenti a sostegno della conservazione degli orti. Non sono purtroppo seguite azioni concrete da parte del Comune.18. La proposta, avanzata dalla Condotta Slow Food di Pri-miero con il sostegno dei Comuni di Siror e Tonadico e dell'Ente Parco Naturale Paneveggio Pale di San Martino, assieme al locale Centro di formazione professionale profes-sionale alberghiero ENAIP, prevedeva di istituire un orto scolastico che portasse i futuri cuochi a mettere le mani nella terra per aumentarne la consapevolezza in materia di pro-duzioni agroalimentari. Il progetto L'aula in campagna, for-mulato nel settembre 2012, non è stato approvato dalla dirigenza provinciale dell'Istituto.19. La birra 100% Primiero è l'esito di un percorso avviato nel 2011 da un gruppo di giovani soci della Condotta Slow Food di Primiero col sostegno del locale birrificio BioNoc. Ha pro-mosso, a partire dall'abilità del birraio, la ripresa della coltiva-zione dell'orzo in valle. L'esperienza, tuttora in corso, è descritta all'indirizzo web:http://feltrinoeprimiero.wordpress.com/2013/06/27/e-nata-la-100-primiero/.20. La mostra, curata dalla Condotta Slow Food di Primiero nel 2012, ha fatto un primo punto sulla rilevanza degli orti per i territorio di Primiero (almeno 1500 piccoli appezzamen-ti coinvolgono più del 10% della popolazione) e su alcune esperienze in corso. La mostra è scaricabile all'indirizzo web: http://feltrinoeprimiero.wordpress.com/2012/08/19/tutto-il-mondo-e-un-orto/.21. L'Alleanza per la Campagna è un accordo sottoscritto nel 2013 dai Comuni di Siror e Tonadico, al quale hanno aderito varie associazioni e singoli cittadini. Propone sette obiettivi di salvaguardia e valorizzazione di una delle poche aree di Primiero che, per morfologia, pedologia e fertilità dei suoli, si presta alla coltivazione di specie alimentari di qualità. Il documento è disponibile al sito web: http://www.tonadico.eu/news/items/alleanza-per-la-
campagna.html.22. Promosso dalla Condotta Slow Food di Primiero e attua-to grazie al volontariato di soci e cittadini, ContaOrti, il censi-mento di Primiero, è stato avviato nel 2013 ed è tuttora in corso.23. Questa caratteristica della struttura socio-culturale di Primiero è ben nota e sottolineata anche in: Comunità di Primiero, Documento preliminare per la formazione del Piano Territoriale della Comunità di Primiero. Visioni, strategie e azioni per un futuro sostenibile, marzo 2014, pp. 17-18; il tema è approfondito nell'Allegato I, cit. pp. 112-116. I documenti sono entrambi disponibili all'indirizzo web: http://www.primiero.tn.it/Aree-Tematiche/Ambiente-e-Territorio/Urbanistica/Piano-Territoriale-di-Comunita.24. Quanto possa essere fruttuoso partecipare di sguardi altri che vengano da intelligenze altre, è ben esemplificato da Mancuso e Viola in Verde brillante, cit. laddove rammentano che ogni perdita di specie vegetali è anche una perdita di soluzioni inesplorate (p. 68) e suggeriscono di “considerare il modo in cui esse risolvono i problemi una fonte di preziose informazioni anche per noi umani.” (p. 110)25. L'approccio simbiotico è enunciato da Gilles Clément nel suo testo L'alternative ambiante del 2009, disponibile al sito web: http://www.gillesclement.com/cat-copylefttextes-tit-Textes-en-copyleft.26. Il tema della desertificazione cartografica, sintomo di una più profonda desertificazione di pensiero (o anafalbetismo di ritorno) sul territorio, è affrontato in M. Varotto, Una propo-sta di metodo: l'esperienza d'indagine nell'area prealpina vene-ta in «Terre alte» e geografia. Prospettive di ricerca verso il 2002 «Anno internazionale delle montagne», a cura di Ugo Mattana e Mauro Varotto, Padova, Università di Padova, 2001, pp. 55-63 e ripreso in Geografie dell'abbandono. Valsta-gna e la fine della civiltà del tabacco in «Uomini e paesaggi del Canale di Brenta», a cura di Daniela Perco e Mauro Varotto, Caselle di Sommacampagna (Vr), Cierre Edizioni, 2004, pp. 213-261.27. La definizione di tradizione è in: Massimo Montanari, Il cibo come cultura, Roma-Bari, Laterza, 2001, p 10.28. Si pensi, ad esempio, alla filiera dell'allevamento bovino che crea esternalità come liquami, deperimento precoce delle bovine e riduzione della biodiversità prativa, alle quali localmente si cerca di ovviare con costose tecnologie fuori scala come biodigestore centralizzato e nuovo macello sovradimensionati e con costosi smaltimenti di rifiuti speciali, che un tempo erano risorse, come siero, letame e carne. Senza dimenticare gli input poco o per nulla sostenibili come mangimi, insilati e persino (come a Primiero non esistesse erba...) fieno che si importano da fuori valle.29. Si veda: Sordo, Un mondo dove tutto torna, cit. pp. 31-34.30. Ibidem, p. 15.31. Il localismo vandalico come “consumo scriteriato e autodi-struttivo delle proprie risorse patrimonialie” “praticato proprio da popolazioni locali colonizzate da modelli culturali di moder-nizzazione che provengono dalla metropoli” è definito in Alberto Magnaghi, Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Torino, Bollati Boringhieri, 2010, pp. 104 e 134-135.
32. Gilles Clément, ad esempio, ha di recente enunciato il concetto di Giardini di resistenza come “metodo che si espri-me in un luogo e che apre nuove possibilità di partecipazione e nuove ipotesi di economia, soprattutto in questa fase di crollo economico e di necessità di cercare un futuro realmente diver-so.” Il documento Les jardins de résistence. Rêve en sept points pour une généralisatione dels jardins de résistence è scaricabile all'indirizzo web:
http://www.gillesclement.com/cat-jardinresistance-tit-Les-Jardins-de-resistance. Le citazioni qui riportate sono tratte da un'intervista che si può leggere all'indirizzo web: http://www.architetto.info/gilles-clement-a-mi-arch-2014-intervista-al-giardiniere-planetario-_news_x_24927...
La riconquista agricola come«agricoltura resistente»:l'esperienza della Val di Non
di Oscar Piazzi*
L'agricoltura resistente come agricoltura di
sussistenza
Il tema di questo numero di Sentieri Urbani,
ovvero quello delle pratiche territoriali di
riconquista agricola, rappresenta in questo
ultimo periodo, uno dei temi di trasformazio-
ne urbanistica all'ordine del giorno. È questo il
caso anche della Val di Non, in provincia di
Trento, il cui sviluppo del sistema agricolo,
anche grazie al lavoro di pianificazione del ter-
ritorio che le Comunità (di Valle) devono con-
durre, è diventato in tempi recenti un elemen-
to di forte confronto tra amministratori, tecni-
ci, operatori del settore e semplici cittadini.
Come è noto, la pianificazione delle Comunità
è una delle competenze delegate per legge a
questo ente intermedio. Ed il tema assume
particolare importanza in sede di redazione
dello strumento urbanistico (il Piano territoria-
le della Comunità) proprio perché esso è chia-
mato a definire i perimetri delle aree agricole
di pregio che rappresentano l'ultimo baluardo
normativo pensato dal legislatore a difesa del
suolo. Le aree agricole di pregio, infatti, sono il
“vero” vincolo di tutela ambientale previsto
dalla seconda revisione del Piano urbanistico
provinciale, approvata del 2008: previste per
legge, incomprimibili e non declassabili le aree
agricole di pregio sono la matrice del territo-
rio, capace di essere un elemento di conteni-
mento della dispersione insediativa.
C'è anche un'altra questione che può essere
utile premetter in questa sede. A ben guarda-
re, la stessa definizione di «agricoltura resi-
stente», ancillare al tema in argomento, può
essere d'interesse per leggere il tema
dell'agricoltura: estremamente mutevole essa
risente in maniera sostanziale della sensibilità
delle epoche storiche in cui viene concepita e
praticata. Se ogni tempo è caratterizzato dalla
propria forma di agricoltura resistente, allora
può essere interessante capire in questo breve
scritto, la storia di questa modalità di sfrutta-
mento agricolo del territorio e quello che
intendiamo per questo fenomeno nel tempo
che stiamo attraversando, con particolare
attenzione a quello che è accaduto e che sta
avvenendo in Val di Non. Caratterizzato per
secoli da una poverissima economia di sussi-
stenza questo territorio collocato nella parte
nord-occidentale del Trentino, ha vissuto a
partire dal secondo Novecento una vera e pro-
pria rivoluzione agricola, passando da uno
sfruttamento capillare e “familiare” del territo-
rio, ad uno sfruttamento intensivo caratteriz-
zato dalla monocoltura della mela.*Oscar Piazzi. Architetto, risiede ed opera in Trentino, nell'Alta Val di Non
IL LABORATORIO TRENTINO2
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Oggi siamo lontani da una concezione tradi-
zione di agricoltura resistente, intesa come
quell'agricoltura capace di creare una econo-
mia di sussistenza in grado di fornire quei pro-
dotti base per garantire il “sostentamento”
delle famiglie. Eppure quella tradizionale ha
condizionato il territorio per molti secoli: era
una agricoltura caratterizzata dal grande lavo-
ro di donne e di uomini e dalla inevitabile
incertezza del risultato stagionale. Dagli orti
del primo millennio dopo Cristo ad oggi, tanta
fatica è stata profusa nella terra per fede e per
necessità. Ancora alla fine del 1400 la Val di
Non, come il resto del contesto prealpino, era
caratterizzata da un paesaggio molto coltiva-
to, frutto delle fatiche fisiche e culturali degli
abitanti in essa insediati. In queste terre diffici-
li, l'agricoltura si manifestava nella scelta di
quei terreni capaci di minimizzare gli sforzi
fisici e di massimizzare la resa delle colture. A
questo va aggiunta l'attività di miglioramento
costante effettuata nel corso dei secoli dai
contadini, orientata alla selezione di sementi
capaci di migliorare, anno dopo anno, la quali-
tà dei prodotti coltivati.
Si trattava, quindi, di un'agricoltura resistente
intimamente legata al contesto ambientale,
orientata alla sopravvivenza e limitata nella
varietà. Nella pratica l'agricoltura si articolava
in piccole porzioni di territorio, ben dislocati
nella morfologia e posizionati con logiche
strettamente legate al tipo di esposizione sola-
re, al tipo di terreno, alla presenza di acqua.
Elementi, questi, che hanno condizionato, di
conseguenza, la nascita dei primi centri abita-
ti. Anche gli insediamenti erano pensati asse-
condando queste logiche ed erano disposti in
simbiosi totale con il contesto ambientale
naturale ed agricolo artificiale in via di sedi-
mentazione. Edifici sulla “roccia”, posti in siti
sicuri dal punto di vista geologico e idrogeolo-
gico, “guardavano” su colture e pascoli in terre
fruttuose, controllabili e protette. Si trattava,
ancora, di una agricoltura resistente capace di
dettare i ritmi al contadino, i tempi delle gior-
nate, i cicli delle stagioni, in maniera stabile
rispetto a quello che accade oggi, con garan-
zie anche climatiche maggiori. Un equilibrio
stagionale che dava comunque un contributo
notevole alle avanguardie agricole che salvo
eventi eccezionali potevano contare su una
ritmica che dava garanzia alla loro agricoltura.
L'agricoltura resistente come agricoltura
intensiva
I secoli sono passati. Le colture si sono alter-
nate, la tecnica ha fatto i molti passi in avanti, i
mezzi e le condizioni ambientali sono cambia-
ti. Oggi la realtà della Val di Non da una acce-
zione diversa di agricoltura resistente.
L'epifenomeno di questa sensibilità è stato
l'affermarsi, negli ultimi decenni, della meli-
coltura intensiva, che dai suoi albori, ormai più
di un secolo fa, ad oggi, ha avuto un processo
evolutivo affascinate ed inarrestabile. Si è pas-
sati dall'originaria mela «nonesa», premiata a
Vienna e contenuta in cassette bombate di
paglia e stoffa, alla pluridecennale selezione
della specie più consona al mercato (tra l'altro
ancora in corso), fino alla intensa e sofisticata
ricerca di metodi e prodotti capaci di portare
ad un risultato qualitativo e quantitativo il
migliore possibile. Nel corso del Novecento, la
Val di Non si è trasformata, in molte zone, da
una realtà frammista di frutteti non strutturati
di varie specie, campi e pascoli, ad una maglia
omogenea di meleti. E, conseguentemente,
anche il paesaggio è mutato radicalmente, si è
“semplificato”, perdendo biodiversità e quali-
tà. Emblematiche, in questo senso, alcune
condizioni “estreme” dal punto di vista ecolo-
gico, laddove biodiversità puntuale è garanti-
ta dai soli giardini di competenza alle residen-
ze.
Tale nuovo processo è stato permesso anche
da una modificazione climatica avvenuta in
valle nel corso del Novecento: in tale epoca,
infatti, è stato costruito il grande invaso artifi-
ciale della diga di Santa Giustina che non solo
ha riempito un tratto di valle, ma ha dato ori-
gine da un ampio lago capace di dare al terri-
torio una nuova connotazione climatica, più
idonea all'agricoltura, e che ha probabilmente
agevolato coltivazione della mela.
In questo contesto, il concetto di resistenza è
diverso da quello più antico citato poc'anzi. La
resistenza è diventata quel processo legato ad
un modello economico e di redditività impor-
tante che si è spinto oltre, arrivando alla colti-
vazione ed alla commercializzazione di un pro-
dotto DOC che ha portato notevoli benefici
all'economia locale. Si pensi che nel 2014 il
raccolto ha raggiunto la quantità di 42.000
“vagoni” (ovvero “camionate” di frutta), il che
significa 420.000 tonnellate di mele. Una real-
tà economica ed imprenditoriale di rilievo frut-
to di un processo di trasformazione da attività
di resistenza per la sussistenza ad attività eco-
nomia agricola globalizzata. Il tutto ha sicura-
mente cambiato l'approccio all'agricoltura.
Questa è progressivamente diventata di “si-
stema”, strutturata, economicamente rile-
vante e politicamente influente. Anche il pae-
saggio ha subìto mutamenti e si è adattato ad
essere un grande scenario monocolturale,
costituito da una agricoltura intensiva ovun-
que distribuita sul territorio. È evidente che
questo modello agricolo, definibile anche per
la sua affermazione ed estensione di appiatti-
mento colturale una mono-agricoltura, ha
sollevato numerosi interrogativi e anche pole-
miche.
Gli “interrogativi” guardano principalmente la
presa di coscienza che un sistema siffatto ha
le sue debolezze, fragilità anche economiche,
ovvero potrebbe non essere, alla lunga, com-
petitivo. Le “polemiche” – parola molto forte
ma esplicita – fanno invece riferimento alla
metodologia che questa frutticoltura applica
sul territorio, con riferimento in particolare ai
trattamenti antiparassitari invasivi. Se poi
viene preso in argomento il paesaggio, che nel
caso della monocultura diventa più povero e
banalizzato, ecco che i temi di discussione si
ampliano ulteriormente.
Nuovi scenari di resistenza agricola
Recentemente, anche in Val di Non si stanno
delineando nuove sensibilità. Correnti alter-
native alla melicoltura intensiva si stanno
affermando sulla base di nuovi principi, legati
alla tutela della biodiversità del paesaggio, ad
un’ economia agricola della tradizione o anco-
ra ad una pluralità di soluzioni produttive
estensive. Queste nuove sensibilità hanno
recentemente influito anche le scelte della
pianificazione territoriale in atto. Come è
stato già anticipato, infatti, la Comunità della
Valle di Non ha in corso di redazione il proprio
strumento urbanistico, il Piano Territoriale
della Comunità. Ed in seno alla definitiva
approvazione del “Documento preliminare”
(un documento propedeutico alla redazione
del piano, discusso da un tavolo di stakeholder
ed rappresentanti politici e finalizzato ad indi-
viduare la “vision” del piano) non si è potuto
non considerare la determinata presa di
coscienza da parte dei Comuni dell'Alta Valle
di Non (territori che raccolgono una fetta non
72
rilevante si tutto il territorio della Comunità)
verso una diversa gestione agricola del pro-
prio territorio, emancipata dal sistema concla-
mato dell'agricoltura strutturata intensiva.
L'Alta Valle di Non inizia a riconoscere la pro-
pria diversità. Per la prima volta sono stati indi-
viduati dentro uno strumento urbanistico
degli ambiti territoriali diversi, i quali iniziano
ad emergere dopo una dura resistenza stori-
co, culturale e politica che intendeva la Val di
Non un unico ed omogeneo ambito territoria-
le. L'originalità del territorio dell'Alta Valle è
legata ad una continuità con il proprio passato
e alla consapevolezza che la diversità di pae-
saggio corrisponde ad una ricchezza del terri-
torio. Una ricchezza che è ben rappresentata
da quelle piccole realtà agricole che si occupa-
no della produzione di prodotti tipici da desti-
nare ad un mercato per il consumo locale,
rispettando il fatidico chilometro zero. In que-
sto solco si inserisce la volontà di riprendere la
tradizione anche con prodotti del tipo biologi-
co, di recuperare e preservare il paesaggio tra-
dizionale, di guardare alla zootecnia in modo
differente, di pensare al pascolo come un ele-
mento da tutelare. Di tendere, insomma, alla
identità, alla sostenibilità, al distretto agricolo,
ad un architettura agricola a basso impatto,
come elementi capaci di portare ad un agri-
coltura della resistenza oggi più che mai “resi-
stente”. La resistenza ad una deriva che stava
rischiando di “azzerare” un contesto ambien-
tale e paesaggistico, indebolendolo anche
probabilmente dal punto di vista economico.
Con gradualità, dopo una prima difficoltà di
imposizione e scetticismo culturale, questa
nuova tendenza si sta radicando nella comu-
nità locale. Concetti come quello di Parco agri-
colo, temi legati alla vocazionalità agricola
montana, argomenti legati al paesaggio rap-
presentativo, non sono solo diventate delle
opinioni correnti, ma si sono trasformati in
norme espresse nei Piani regolatori generali
dei Comuni d'alta valle e sono alla base della
loro progettazione urbanistica. Queste nuove
tendenze sono sostenute da movimenti di
pensiero e linee strategiche di forte condivi-
sione sociale. Non è un caso che unità ammi-
nistrative comunali coese propongano una
realtà parallela e non alternativa o concorren-
ziale, alla melicoltura intensiva con l'obiettivo
di rafforzare il sistema di Valle. Nuovi mercati,
una coltura della diversità e nuovi interessi
economici, stanno dando sprono alla “varie-
gazione” del territorio, sostenuta da filiere
corte di nuovi e diversi operatori del settore
agricolo.
Per concludere, è possibile affermare che esi-
stono molti modelli di agricoltura resistente,
ognuno dei quali è figlio di un particolare
momento storico. Ma è possibile individuare
alcune regole generali che valgono oltre i
modelli particolari: sempre ed in ogni caso un
agricoltura è resistente perché deve soddisfa-
re un fabbisogno alimentare e sempre ed in
ogni caso viene perseguito un legittimo ritor-
no economico. Ecco quindi che la gestione del
territorio ed il fare paesaggio tramite
l'agricoltura, diventa progressivamente una
delle componenti vitali per la tutela e la quali-
tà dei territorio di montagna. Invitati, oggi più
che mai, ad una nuova fase di “resistenza”.
73
Cr(eat)ing City è un libro che parla di un rinno-vato rapporto tra cibo e città attraverso gli effetti che esso genera, non solo in termini di produzione e distribuzione di alimenti, ma anche e soprattutto per la sua capacità di modi-ficare i nostri stili di vita, di creare, nuove forme di socialità. Il libro, di Emanuele Som-mariva e edito da ListLab, è il risultato di un lavoro di ricerca dell'autore da cui il libro mutua la struttura e la rigorosità del ragiona-mento.
L'agricoltura urbana non è utopia. L'agricoltura urbana esige la dimensione progettuale. L'agricoltura urbana è realtà aumentata. L'agricoltura urbana suggerisce un approccio debole. L'agricoltura urbana suggerisce aggre-gazione. L'agricoltura urbana interpreta la comunità. L'agricoltura urbana ricicla. L'agricoltura urbana cresce. Emanuele Sommariva affida a questi otto punti la sintesi di un discorso che, interpretan-do la storia – passata e recente – del complesso rapporto tra città e campagna, prova a fare luce sui diversi significati che l'agricoltura urba-na assume nella cultura contemporanea.Si tratta di una sorta di Manifesto programma-tico che l'autore consegna al lettore, allo stu-dioso, al progettista, e che, nonostante la sua forma assertiva, può essere inteso più come un canovaccio, che come un copione già scritto.Il progetto come dispositivo, l'incertezza come principio e il riciclo come strategia, sono questi gli strumenti individuati per definire una nuova comunità che trova in uno scenario agro urba-no innestato sui paesaggi di scarto della modernità una visione condivisa di futuro.
L'ipotesi della tesi qui sostenuta si articola intorno ad almeno 3 considerazioni prelimina-ri; la prima riguarda il riconoscimento dell'esistenza di paesaggi “in un costante stato di prossimità non risolta, che si dispongono tra e dentro le pieghe del costruito, lasciando zone d'ombra e di mancata definizione rispetto alle categorie interpretativo-descrittive”. La secon-da considerazione deriva dalla presa d'atto di un fenomeno sociale, sempre più evidente che riguarda quelle “classi sociali che senza venir estromesse dalle varie logiche urbane, hanno volontariamente scelto di abitare in contesti differenti, in cerca di migliori qualità dell'abitare e di maggiore contatto con la natura”. Tutto ciò, insieme al “crescente interesse rispetto modelli economici alternativi, nuove forme di produzio-
LA RECENSIONE
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di Chiara Rizzi
Emanuele Sommariva, 2014,Cr(eat)ing City.Strategie per la città resiliente.List/Laboratorio Internazionale Editoriale
ne e diffusione che coinvolgano questi luoghi e le comunità in essi insediate” determina la neces-sità immaginare nuove strategie per nuovi pae-saggi.
Strategie per la città resilienteDalla rivoluzione industriale fino alla crisi attuale, “la centralità del processo industriale, i modelli di sviluppo urbano e di organizzazione sociale legat i ad esso hanno condotto l'agricoltura e i territori rurali ad un ruolo sempre più marginale”. Ciò ha prodotto una cultura che potremmo definire della separazione, soprat-tutto per ciò che riguarda la percezione dell'interdipendenza dei fenomeni tra le tra-sformazioni in campo agricolo e l'urbaniz-zazione. La crisi globale ha riportato il rapporto d'interdipendenza del paesaggio agricolo e di quello urbanizzato al centro della riflessione. Si tratta infatti di una crisi che è soprattutto di natura ecologica, prima ancora che economica e sociale. Essa riguarda in toto i rapporti degli esseri viventi con l'ambiente si confronta diret-tamente con la disponibilità delle risorse e la loro accessibilità. Poiché agricoltura e urbaniz-zazione utilizzano le “medesime risorse, tra l'altro sempre più rare: terra, acqua ed energia”, non possono che essere pensate come due aspetti della stessa questione, anche e soprat-tutto alla luce di uno scenario di crescita costante dell'urbanizzazione. Nel 1800, solo il 2% della popolazione mondia-le abitava nelle città, nel 1950 tale percentuale era passata al 30%, mentre nel 2008, per la prima volta nella storia dell'umanità, la percen-tuale della popolazione urbana ha superato la soglia del 50%. Si stima che ogni giorno circa 180.000 persone si aggiungono alla popolazio-ne urbana e si prevede che entro la metà di que-sto secolo tale quota arriverà a oltre i due terzi (UNICEF, 2012).Se si considera che entro il 2050 la popolazione mondiale supererà i 9 miliardi di individui, si può prevedere un aumento della domanda di cibo del 70%, di cui oltre il 42% di prodotti deri-vati da coltivazioni risicole, cerealicole e del 35% di allevamenti bovini e suini.Lo sviluppo dello sprawl, la fine della produzio-ne in serie, i sistemi di comunicazione globale, come internet, le recenti crisi finanziarie, le emergenze ambientali e la sensibilizzazione collettiva sui temi di risparmio energetico e uso di fonti rinnovabili, sono le trasformazioni cul-turali che, secondo la tesi del libro, hanno con-tribuito a trasformare i presupposti del proget-
to contemporaneo, assegnando allo spazio pubblico e a interventi sul paesaggio un ruolo predominante. L'esito di questo cambiamento ha prodotto una convergenza di numerose pra-tiche di trasformazione del paesaggio, tali da anticipare e ridefinire nuovi orizzonti discipli-nari. A questo proposito l'autore fa propria la teoria di Charles Waldheim, il quale definisce due filoni ben distinti all'interno del Landscape Urbanism: il primo, sviluppatosi nel nord Ame-rica, concentra l'attività sul riciclo di quei terri-tori post-urbani (centri commerciali, aree indu-s t r i a l i d i s m e s s e , v u o t i u r b a n i , l u o g h i dell'integrazione e del conflitto sociale, grandi infrastrutture...) nella dimensione del paesag-gio; il secondo, di matrice europea, adotta una posizione più regionalista per la conservazione del genius loci, in cui il paesaggio si configura come sistema di riferimento entro cui ricono-scersi, contro l'appiattimento della visione imposto dalla globalizzazione. In entrambi i casi, l'agricoltura urbana, definita come “quell'attività agricola le cui risorse sono o posso-no essere oggetto di un'utilizzazione diretta da parte dei cittadini, siano esse localizzate all'interno o ai confini di un'area abitata” (Paul Moustier, Centre International de Recherche Agronomique pour le Développement), gioca un ruolo fondamentale. Negli ultimi anni, infat-ti, sta emergendo con chiarezza la possibilità dell'agricoltura urbana di occupare qualsiasi tipo di spazio generato dalla città moderna e post-moderna, al di là delle classificazioni pro-prie dell'urbanistica tradizionale e, di conse-guenza, la capacità di questo tipo di trasforma-zioni di creare una nuove identità, strettamen-te correlata al tema emergente della resilienza urbana. Gli spazi urbani coltivati, infatti, posso-no essere considerati spazi di transizione, in cui le caratteristiche proprie degli ecosistemi urba-ni e rurali si mescolano generando spazi inediti, potenziati nella loro capacità di rispondere in maniera efficace alle perturbazioni, siano esse di natura endogena o esogena. Per orientarsi nella vasta letteratura esistente, l'autore utilizza la suddivisione in capitoli piut-tosto come un espediente narrativo che come una vera e propria struttura statica di ragiona-mento; ogni capitolo appare concluso in sé anche se, a ben vedere, fortemente connesso con gli altri. E così che questo libro può essere fruito seguendo la traiettoria tracciata dall'autore, oppure scomposto e ricomposto, quasi come fosse un cofanetto di fascicoli a se stanti. Questo tipo di struttura appare con mag-
giore evidenza nel quarto capitolo (nuove stra-tegie), il cui obiettivo dichiarato è quello di costruire una tassonomia comparata di pro-getti. Metropoli, riciclo, eco-distretti e parchi sono i 4 concetti intorno ai quali tale tassonomia viene articolata. Nello specifico s'indagano i contesti legati allo sviluppo urbano (AU + Metropoli), e al suo sottoprodotto (AU + Riciclo), indagando le forme ed i ruoli che le pratiche agricole pos-sono assumere nei processi di gestione dei ter-ritori, in relazione alle grandi realtà metropoli-tane e come strategia per attribuire un nuovo valore e un nuovo senso alle aree in disuso o sottoutilizzate. Le altre due categorie indivi-duate si riferiscono al ruolo che le aree agricole urbane possono svolgere nell'ambito delle sal-vaguardia e della mitigazione ambientale (AU+Eco-distretti) e nella strutturazione della matrice paesaggistica dei territori periurbani (AU+Parchi).Ognuna di queste unità tassonomiche si con-clude con un caso studio. Ai quattro casi studio è affidato il compito di sintetizzare gli aspetti emergenti di ciascuna unità. Lo sviluppo di azio-ni locali auto-organizzate, spesso dal carattere temporaneo, per incentivare l'inclusione socia-le e definire modelli di filiera corta anche nel contesto urbano newyorkese che caratterizza-no il progetto Coltivare nei Five Boroughs diven-tano esemplificative del rapporto tra agricoltu-ra urbana e aree metropolitane. Attraverso la narrazione delle strategie di riuso degli spazi aperti abbandonati o sottoutilizzati dovuti alla cr is i del settore industr ia le cubano e all'isolamento dai grandi mercati internaziona-li del progetto Havana especial il libro ci raccon-ta le potenzialità insite nell'attivazione di stra-tegie di riciclo attraverso la trasformazione di aree di scarto in aree coltivate. Il progetto Agro-polis München, al contrario, mette in luce la pos-sibilità dell'agricoltura urbana di agire come incubatore di spazi in transizione. Infine, l'agricoltura urbana diventa anticipatrice di cambiamento, strumento d'innovazione del concetto di tutela passiva dei paesaggi nel pro-getto Campagna Salentina, sviluppato in occa-sione del nuovo Piano Urbanistico del Comune di Lecce.
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«Agricoltura e urbanizzazione utilizzano le medesime risorse,tra l'altro sempre più rare: terra, acqua ed energia».
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LIBRI
La biblioteca dell’Urbanista
L'ipotesi di rimettere al centro del progetto urbanistico le “Terre comuni” nasce dal disagio che la perdita progressiva di identità dello spazio pubblico ha creato nella città contemporanea. Questo libro sposta l'attenzione dall'oggetto allo spazio tra gli oggetti, fissa il proprio fuoco sui residui: i vuoti inutilizzati, le aree dismesse, i frammenti agricoli e naturali, le spianate tra i contenitori specializzati e le piazze dei quartieri moderni. Spazi che presentano potenzialità di trasformazione e caratteristiche tali da configurare un nuovo tessuto connettivo tra i frammenti della contemporaneità. Le terre comuni sono dunque gli spazi dove è possibile ricostruire una dimensione sociale e simbolica dell'abitare nella città contemporanea.
L'Italia è ricca di agricoltura tradizionale che si manifesta con una miriade di paesaggi, autentici spazi di agricoltura multifunzionale. Ad oggi manca una condivisa strategia di salvaguardia dei paesaggi agrari tradizionali nonostante l'alto valore ecologico-ambientale, storico-culturale e socio-economico, questo anche a causa della scarsa conoscenza della loro effettiva numerosità, distribuzione, funzione e stato di conservazione. Il volume riporta un percorso di ricerca per la formulazione e validazione di un modello metodologico interdisciplinare e integrato, sviluppato in due diverse aree studio (Sicilia e Lazio), per una mappatura e catalogazione dei paesaggi agrari tradizionali dell'albero.
Nel 1961 Emilio Sereni pubblica "Storia del paesaggio agrario italiano", un libro che rimane ancora un caposaldo per indagare le trasformazioni agricole, politiche e sociali del territorio italiano. Le ricerche di Sereni non sono oggi meno attuali di ieri. Nuovi percorsi, nuove letture, nuove indagini danno fresca linfa al testo sereniano, e sono tutti raccolti in questo ricco volume. Centocinquanta saggi di più di centossessanta studiosi, per la maggior parte italiani, provenienti da settori disciplinari e di ricerca anche molto diversi tra loro, legati a stretto filo dalla figura e dall'opera di Emilio Sereni, la cui eredità scientifica è pienamente presente.
Enrico Formato“Terre comuni”
Clean edizioni, Napoli 2014, 15 euro
Giuseppe Barbera, Rita Biasi,Davide Marino (a cura di), “I paesaggi agrari tradizionali.Un percorso per la conoscenza”
FrancoAngeli, Milano 2014, 39 euro
Gabriella Bonini, Chiara Visentin (a cura di),“Paesaggi in trasformazione.Teorie e pratiche della ricercaa cinquant'anni dalla storia del paesaggioagrario italiano di Emilio Sereni”
Compositori editore, Bologna 2014, 20 euro
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