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P oste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento P ostale 70% N E / TN - anno V I - numero 15 - dicembre 2 014 - € 10,00 Issn: 2036-3109 Pratiche territoriali di riconquista agricola In questo numero: LA RIVISTA DELLA SEZIONE TRENTINO DELL’ISTITUTO NAZIONALE DI URBANISTICA 15

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Issn: 2036-3109

Praticheterritoriali diriconquistaagricola

In questo numero:

LA RIVISTA DELLA SEZIONE TRENTINODELL’ISTITUTO NAZIONALE DI URBANISTICA

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Editorialedi Bruno Zanon

Agricoltura. Genio Naturale. Terzo Paesaggio.Un'intervista a Gilles Clémenta cura di Emanuela Schir

PRIMA PARTE: LE TEORIE E LE ESPERIENZE

Cibo e paesaggio agrario sono nel suolo, ma il suolo non è nel pianodi Paolo Pileri

Coltivare la città contemporanea.Le sfide dei “paesaggi agrourbani multifunzionali” di Viviana Ferrario

I contadini di montagna e le murature in pietradei terrazzamenti resistonodi Timmi Tillmann e Maruja Salas

Terrazzamenti e innovazione sociale. Il progetto“Adotta un terrazzamento in Canale di Brenta”di Luca Lodatti

SECONDA PARTE: IL LABORATORIO TRENTINO

I «Richiedenti Terra» e le esperienze degli orti urbani in provincia di Trentodi Valentina Merlo

Smuovere le acquedi Luca Bertoldi

Buone pratiche di ri-uso del territorio.L’esperienza della Val di Cembradi Sergio Paolazzi

La plaga agricola lungo l'asta dell'Adige fra Trento e Roveretodi Renzo Micheletti

Hic sunt leones. Terzi paesaggi a Primierodi Gianfranco Bettega

La riconquista agricola come«agricoltura resistente»: l'esperienza della Val di Nondi Oscar Piazzi

La recensione di Chiara Rizzi

La biblioteca dell’urbanista

LA RIVISTA DELLA SEZIONE TRENTINODELL’ISTITUTO NAZIONALE DI URBANISTICA

Urbani

Sentieri Urbanirivista quadrimestrale della Sezione Trentino

dell'Istituto Nazionale di Urbanistica

rivista scientifica riconosciuta dall'Anvur, l'Agenzia per la Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca

anno VI - numero 15dicembre 2014

registrazione presso il Tribunale di Trenton. 1376 del 10.12.2008

Issn 2036-3109

numero monografico“Pratiche territoriali di riconquista agricola”

a cura di Alessandro Franceschini, Sergio Paolazzi e Bruno Zanon

direttore responsabileAlessandro Franceschini

[email protected]

redazioneElisa Coletti, Pietro Degiampietro, Davide Geneletti,

Giuliana Spagnolo, Giovanna Ulrici, Bruno [email protected]

fotografia e sito webLuca Chistè

[email protected]

hanno collaborato a questo numeroLuca Bertoldi, Gianfranco Bettega, Viviana Ferrario,

Luca Lodatti, Valentina Merlo, Renzo Micheletti, Oscar Piazzi, Paolo Pileri, Chiara Rizzi,

Maruja Salas, Emanuela Schir, Timmi Tillmann

progetto graficoProgetto & Immagine s.r.l. - Trento

concessionaria di pubblicitàPublimedia snc

via Filippo Serafini, 1038122 Trento0461.238913

© Tutti i Diritti sono riservati

prezzo di copertina e abbonamentiUna copia € 10 - Abbonamento a 3 numeri € 25

Per abbonarsi a Sentieri Urbani:[email protected]

I testi e le proposte di pubblicazione che pervengonoalla redazione sono presi in considerazione se coerenti

con la struttura dei numeri e sono sottoposti al giudizio di lettori indipendenti.

contattiwww.sentieri-urbani.eu

328.0198754

editoreBi Quattro Editrice

via F. Serafini, 1038122 Trento

Istituto Nazionale di UrbanisticaSezione Trentino

Via Oss Mazzurana, 5438122 Trento

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La società post-industriale nella quale viviamo è segnata da un distacco crescente dalla fonte primaria del nostro sostentamento: la terra. Ci dimentichiamo troppo spesso che dipendiamo dalla natura, in particolare da quella domesticata e trasformata dalle pratiche agricole. Dobbiamo saper guardare quindi al territorio agricolo cogliendone la fragilità e la complessità: è suolo fertile, spazio organizzato per la produzione di cibo e di materie prime, paesaggio ricco di segni e di valori, ambiente ricco di biodiversità prodotta dall'uomo. E' però uno spazio in rapido cambiamento, soggetto a pressioni e a rischi. Il presente numero di Sentieri Urbani è dedicato alle sfide che tali temi pongono alle pratiche di governo del territorio e del paesaggio e che richiedono di sapere tessere nuove relazioni tra abitanti e territorio fertile, ricomponendo filiere produttive e costruendo relazioni di responsabilità.Il numero si apre con una intervista a Gilles Clément, teorico e progettista del paesaggio che si auto-definisce con un termine - “giardiniere” - che intende sottolineare la necessità di “mettere le mani nella terra” per saper costruire gli spazi della biodiversità e della produzione agricola nei quali si possano fondere, dinamicamente, natura e bellezza.La difesa del suolo è il tema centrale del contributo di Paolo Pileri, studioso che da tempo è impegnato in azioni di sensibilizzazione su quello che a stento viene visto come un problema della pianificazione urbanistica: la rapida distruzione dello spazio agricolo. Il rapporto tra città e campagna, tra abitanti e agricoltura viene affrontato da Viviana Ferrario in una prospettiva di multifunzionalità dell'attività agricola, ripercorrendo alcune delle esperienze recenti più innovative. Coltivare

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E D I T O R I A L E

Occhi sul paesaggio,mani nella terra

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può essere una possibilità nuova per molte delle situazioni che caratterizzano la città contemporanea, vale a dire i “vuoti”, le “frange”, i molti spazi per i quali spesso l'unica prospettiva affermata è l'edificazione.La costruzione dei campi, nel corso del tempo, ha richiesto pazienti e impegnative operazioni di ridisegno dell'ambiente originario. Nel caso dei versanti terrazzati il suolo coltivabile è stato ricavato dall'aspra morfologia montana mediante poderose opere di scavo e di costruzione di murature di sostegno, creando dei paesaggi straordinari. L'articolo di Timmi Tillman e Maruja Salas racconta l'impegno dell'Alleanza Internazionale dei Paesaggi Terrazzati per tutelare tali sistemi agrari a rischio di degrado e sparizione. Anche in Italia si sta operando in tale direzione e il contributo di Luca Lodatti racconta l'esperienza di recupero dei terrazzamenti nel Canale del Brenta, dalla quale emerge l'esigenza di una nuova alleanza tra città e campagna fondata su reti di cooperazione e scambio, entro “reti corte”.Infine, alcuni contributi sondano le tendenze e le prospettive per il Trentino, ricostruendo delle vicende e delle esperienze di grande interesse. La domanda crescente di orti urbani è affrontata da Valentina Merlo come una occasione importante di avvicinamento degli abitanti della città all'attività agricola, che sollecita una nuova visione del governo dello spazio urbano basata su nuovi momenti di condivisione e di apprendimento. Dare un senso a strutture urbane ingombranti è la scommessa affrontata da Luca Bertoldi con una proposta progettuale nella quale verifica la possibilità di creare degli orti urbani sulla copertura dell'autosilo di via Petrarca a Trento.La lettura del cambiamento epocale vissuto dal territorio montano viene svolta da Sergio Paolazzi, che descrive le dinamiche della valle di Cembra, e da Gianfranco Bettega, che si occupa del Primiero. Le questioni affrontate sono cruciali, in quanto riguardano il rapporto stesso delle comunità locali con il proprio

spazio di vita, in una fase che vede un distacco crescente con l'ambiente – meglio il suolo - che ha costituito per secoli la fonte di vita e di produzione di materie prime per la popolazione insediata. La scommessa è di stabilire nuovi legami vitali tra abitanti e ambiente montano, attivando pratiche agricole che producano cibo di qualità e sostengano nuove forme di responsabilità. Le dinamiche dei territori agricoli specializzati sono assai diverse dai casi precedenti. La valle di Non è da tempo indirizzata verso l'agricoltura specializzata del melo, che progressivamente si estende verso quote sempre più elevate. Oscar Piazzi analizza il processo di permanenza dell'attività agricola in tale contesto, che vede da un lato i rischi della specializzazione e, dall'altro, la spinta – in particolare nell'alta valle – alla conservazione delle forme agricole tradizionali.Il fondovalle dell'Adige, percepito ora come luogo privilegiato dell'agricoltura e dell'urbanizzazione, è stato costruito in tempi recenti mediante opere impegnative di rettifica e di regimazione dei corsi d'acqua. Nel corso degli ultimi decenni l'orientamento verso alcune produzioni di mercato - in particolare la coltivazione del melo e della vite – ha rafforzato l'agricoltura ma ha evidenziato come si tratti di un territorio fragile e soggetto a pressioni a causa dell'estensione delle aree urbane e della realizzazione di nuove infrastrutture. Renzo Micheletti propone una analisi della “plaga agricola” tra Trento e Rovereto ed espone il percorso in atto per una crescita di consapevolezza dei valori in gioco e dei rischi di degrado costruendo una coalizione di amministrazioni e esponenti dei diversi settori coinvolti. Anche in questo caso, il paesaggio agrario dovrà costituire una sintesi coerente e qualificata di storia, attività umane, legami responsabili degli abitanti con il proprio territorio.

Bruno ZanonVice Presidente dell'Inu del Trentino

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AGRICOLTURAGENIO NATURALETERZO PAESAGGIOI Gilles Clément ntervista a

A cura di Emanuela Schir

Gilles Clément (1943) è docente presso l'Ecole national supérieure du paysage di Versailles.

Tra i suoi scritti si ricordano «Manifesto del terzo paesaggio» (2005) e «Ho costruito una casa da giardiniere» (2014).

I N T E R V I S T A

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Professore, La definiscono, agronomo, botanico,

paesaggista, ma Lei preferisce essere chiamato

giardiniere e, secondo quanto Lei afferma in

“Sagesse du jardinier”, è forte la differenza fra

progettista ideatore e giardiniere. Vista la Sua

produzione scientifica sui temi del paesaggio, non

è forse una contraddizione? È sempre dello stesso

avviso?

Innanzitutto mi considero giardiniere perché ho un

giardino e spesso ho le mani nella terra. Questo è

molto importante perché è proprio a partire da tale

esperienza che ho maturato certe posizioni in

rapporto alla vita, al futuro e alle azioni da compiere.

Il mio lavoro è molto legato al giardino perché lavoro

con la durata nel tempo ancor più che nel lavoro

tradizionale di paesaggista. A differenza dei

paesaggisti e degli architetti, che concludono la

propria responsabilità di progettisti con la direzione

dei lavori, io lavoro “con” il tempo. La seconda

ragione è che in quanto paesaggista privilegio la

dimensione del vivente. Ci sono dei paesaggisti che

tendono a privilegiare la dimensione architettonica

dello spazio, aspetto che faccio passare in secondo

piano, così come l'estetica. Certamente lo spazio che

realizziamo deve essere gradevole, ci si deve sentire

bene, felici al suo interno; quindi l'estetica e la

costruzione architettonica hanno comunque molta

importanza. Ma antepongo a tutto questo la

dimensione del vivente cioè faccio in modo che la

diversità, la gestione nel corso del tempo sia ben

evidente e regolata dall'équipe di giardinieri. E che si

possa mantenere una qualità del vivente nel tempo.

Ecco perché preferisco definirmi giardiniere.

Come definisce i termini giardino, paesaggio e

“genio naturale”? Quali sono, se ci sono, le

differenze e le connessioni?

Comincio dal concetto di paesaggio. Esso è legato

all'individuo e alla sua soggettività. È tutto ciò che si

trova sotto il nostro sguardo. Per i non vedenti il

paesaggio è tutto ciò che si percepisce attraverso gli

altri sensi. Noi vedenti privilegiamo però la vista. È

comunque ciò che coinvolge i nostri sensi nella loro

interezza e nella loro diversità. È perciò la nostra

sensibilità che viene chiamata in causa e anche la

nostra cultura. Se mostro a venti persone la stessa

immagine di paesaggio, avrò venti risposte

differenti. Ci potranno essere delle risposte concordi,

delle sovrapposizioni, ma questo è raro. In realtà

sulla questione del paesaggio è l'individuo in tutta la

sua percezione che risponde; quindi il paesaggio è un

tema soggettivo. Non è un caso che i primi

paesaggisti fossero dei pittori che rappresentavano

quello che percepivano. Il giardino è altra cosa. Il

giardino è un sogno, è un luogo dove l'uomo è in

totale libertà e in un recinto, in un perimetro. Il

termine stesso giardino vuol dire recinto e paradiso.

È nel cuore stesso di questo giardino che l'uomo

costruisce qualcosa che destina essere migliore, più

importante e che andrà poi a proteggere. In un certo

qual modo lo stile del giardino racconta questo:

esprime l'idea di quel qualcosa di migliore rispetto

all'epoca in cui è stato concepito. Certamente l'idea

di “migliore” cambia nel corso del tempo ed ecco

perché cambiano la forma e il messaggio che il

giardino porta in sé: dal giardino arabo, al giardino

romantico fino a quello dei nostri giorni. È quindi un

luogo molto particolare perché è portatore di un

“Mi considero giardiniere perché ho un giardino e spesso ho le

mani nella terra. Questo è molto importante perché è proprio

a partire da tale esperienza che ho maturato certe posizioni in

rapporto alla vita, al futuro e alle azioni da compiere”

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messaggio, ha una carica culturale che traduce

l'evoluzione del pensiero nel corso della storia. Il

“genio naturale” è indipendente dal paesaggio,

perché questo è soggettivo; è indipendente dal

giardino nella sua valenza culturale, ma è legato ad

esso attraverso la vita e la diversità. Il genio naturale

è tutto ciò che la natura ha realizzato nel corso di

milioni e milioni di anni, molto prima che l'uomo

fosse sulla Terra. Realizzato per vivere, per

sopravvivere, per inventare dei sistemi ogni volta

nuovi per rispondere alle pressioni dell'ambiente e

per potersi adattare ai continui e traumatici

cambiamenti. È qualcosa di dinamico, inscritto nella

fisiologia e nel metabolismo delle piante e degli

animali, con molta precisione e complessità.

È possibile, in questa fase di crisi economica in cui

sostenibilità e decrescita sono le parole d'ordine,

ripristinare nei terreni incolti, nelle frange urbane,

l'agricoltura a piccola scala? Quali sono, in

quest'ottica, i compromessi per mantenere

comunque continuità di “terzo paesaggio”?

Abbiamo sempre interesse a mantenere una parte

importante di “terzo paesaggio”, in particolare sotto

forma di potere biologico per tutte le differenti

specie. Tuttavia dal mio punto di vista i problemi più

gravi sono quelli legati all'espansione delle città,

all'impermeabilizzazione del suolo a scapito dei

terreni coltivabili che oggi vengono abbandonati per

realizzare delle lottizzazioni che occupano

un'enormità di spazio. Si tratta di una obliterazione

del suolo che va a discapito della produzione della

diversità. D'altro canto esiste un movimento opposto

legato alla reintroduzione delle produzioni agricole e

orticole ai margini della città e a volte all'interno delle

città. Sono dei piccoli spazi modesti, ma davvero

importanti dal punto di vista simbolico, dei giardini

suddivisi dove esiste la produzione di diversità. Vi

sono delle vere e proprie liste di attesa per poter

avere questi appezzamenti in cui poter coltivare e

fare giardinaggio. Questo tema oggi è molto

complesso. Il problema demografico è immediato;

solo che è tabù e purtroppo non se ne parla mai.

In questa prospettiva di ritorno alla terra c'è

bisogno di nuove competenze, nuovi strumenti,

nuove tecniche per la coltivazione?

L'evoluzione verso la quale dovremmo mirare dal

punto di vista strettamente pratico, e qui parlo in

quanto giardiniere, sarebbe quella di utilizzare

tecniche e materiali adeguati al luogo, in un contesto

di agricoltura e orticoltura completamente

biologiche.

Per il momento quello a cui assistiamo è che le grandi

lobby di produzione di macchinari e strutture sono

molto potenti e impongono sistematicamente

culture e sfruttamento dei suoli con superfici di

terreno di dimensioni considerevoli a scapito dei

piccoli appezzamenti. Nelle città oggi viene fatto un

nuovo censimento delle superfici di “terzo

paesaggio”, ponendosi il problema se queste

superfici non possano essere utilizzabili per la

produzione frutticola o l'agriturismo o per

l'orticultura. Ci si deve confrontare con una questione

pratica e tecnica che dal mio punto di vista può

essere risolta molto semplicemente ma con

strumenti che non sono così facilmente reperibili sul

mercato.

Convertendo questi piccoli appezzamenti

all'agricoltura, non si rischia di frammentare

ulteriormente o addirittura sopprimere il “terzo

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“Dal mio punto di vista i problemi più gravi sono quelli legati

all'espansione delle città, all'impermeabilizzazione del suolo a

scapito dei terreni coltivabili che oggi vengono abbandonati per

realizzare delle lottizzazioni che occupano un'enormità di spazio”

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paesaggio”, così prezioso per la biodiversità?

Non si tratta di sopprimere completamente il “terzo

paesaggio”. In quest'ottica bisogna fare molta

attenzione e sono tre le proposte che facciamo

attraverso i nostri studi. In certi contesti può essere

più pratico, più redditizio fare della produzione

agricola, orticola. In altri invece è meglio fare una

semplice gestione di giardino in movimento, creare

un percorso, una promenade qualcosa che non sia

uno sfruttamento del suolo in modo da

salvaguardare una diversità naturale importante. Vi è

poi infine la terza categoria, per la quale diciamo non

si debba fare assolutamente niente, perché quel

terreno è prezioso per accogliere la diversità. Si tratta

quindi di fare una sorta di perizia sui terreni prima di

decidere di quali parti di terzo paesaggio stiamo

parlando e quali vogliamo utilizzare. La seconda cosa

da considerare è che, se la parte coltivata di “terzo

paesaggio” è sottoposta a coltivazione biologica, i

rischi della distruzione e della devastazione della

diversità sono enormemente diminuiti rispetto alla

coltivazione “tradizionale” per il non utilizzo di veleni

e prodotti chimici che costituiscono il più alto

potenziale di distruzione della diversità. Se si coltiva

con agricoltura biologica o biodinamica riusciamo a

mantenere una diversità anche nello sfruttamento

del terreno.

Vi sono conflitti fra differenti competenze.

Abbiamo appreso che il paesaggio non è un vuoto.

Gli urbanisti e gli architetti vedendo dei terreni

incolti pensano si debba “riempire il vuoto”. È

difficile comunicare che si tratta invece di un pieno,

di “genio naturale”.

Certo, qui stiamo affrontando la questione del

modello culturale. Oggi ci troviamo obbligati a

cambiare il modello culturale e questa è una delle

cose più lunghe e difficili da attuarsi. È molto facile

cambiare le tecniche, utilizzare un nuovo strumento,

una nuova macchina performante, ma è molto

difficile cambiare il modo di pensare. Oggi non esiste

un insegnamento appropriato nelle scuole, a partire

dalle scuole primarie fino liceo. Si dimentica

l'apprendimento delle scienze della natura, che si fa

un po' quando si è piccoli, nelle prime classi, e poi

non si fa altro. Non è immediata la comprensione

della ricchezza e della complessità del “terzo

paesaggio”. Molti non ne hanno alcuna idea e a volte

lo considerano come qualcosa di brutto, da

distruggere, pieno di erbacce. Vi è una strategia della

paura che è molto forte, secondo cui bisogna

combattere la natura perché è pericolosa, veicola

dei virus, delle malattie. E così l'urbanista, che non

ha alcuna formazione su questi temi, avrà la

tendenza, come tanti altri, a dire: “Ecco un terreno

che non serve a nulla: bisogna costruirci sopra”. È

logico. Quindi tutto si gioca sulla questione della

conoscenza. In un governo ideale, se per caso

esisterà un giorno, il mio primo Ministero sarà quello

della conoscenza, con la possibilità per ognuno di

capire dove vive, cioè conoscere le piante, gli

animali, i fiumi, l'acqua, su quale pianeta siamo tutti.

E condividiamo la stessa acqua e abbiamo ogni

interesse a che si mantenga pura. Cos'è l'ecologia,

come viene insegnata: è qui che trovo una grande

contraddizione fra le questioni sviluppate oggi quali

quella del “terzo paesaggio”, della sua ricchezza, e

dall'altro lato le pressioni per la costruzione, per

incremento demografico, per l'espansione delle città

che tende ad intaccare senza alcuna remora quei

luoghi vuoti. Quei luoghi preziosi da salvaguardare.

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I N T E R V I S T A

“In certi contesti può essere più redditizio fare della produzione

agricola. In altri, la semplice gestione di un ambiente con una

diversità naturale importante. In altri ancora, infine, meglio non

fare assolutamente niente, perché quel terreno è prezioso per

accogliere la diversità”

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LE TEORIE E LE ESPERIENZE

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Cibo e paesaggioagrario sono nel suolo,ma il suolo non ènel piano

di Paolo Pileri*

Antefatto (per non dimenticare che la città

deve la sua nascita all'agricoltura)

Prima di inoltrarci in una riflessione sull'uso e

abuso delle terre agricole e quindi sulle nostre

responsabilità e sul ruolo dell'urbanistica di

oggi, ci pare molto opportuno proporre due

testimonianze di due autori che possono sem-

brare 'laterali' rispetto alla bibliografia urbani-

stica tradizionale, eppur capaci di fissare in

modo efficace due 'fatti' che possiamo pren-

dere come i margini di una possibile cornice

entro la quale proveremo a muovere la rifles-

sione seguente. Due fatti che pongono due

imprescindibili questioni che dobbiamo avere

chiaro perché danno forma e peso a ciò che noi

oggi stiamo facendo o non facendo per la tute-

la del suolo. Se le tralasciamo, il rischio è di

alleggerire di molto la responsabilità che

abbiamo o che dovremo avere. Già perché, lo

dico fin da ora, la tutela del suolo italico, come

lo chiamava Luigi Einaudi, è il massimo compi-

to civile di un popolo¹.

I due autori che si incontrano qui probabilmen-

te per la prima volta, sono Hansjörg Küster,

tedesco, classe 1956, geobotanico e studioso

di paesaggio e Andrea Zanzotto, veneto, clas-

se 1921, poeta e saggista che ha scritto pagine

molto profonde sulla trasformazione del terri-

torio.

Partiamo con Küster. Nella sua Piccola storia

del paesaggio, egli ripercorre passo dopo passo

le tappe cruciali della storia del rapporto tra

paesaggio, uomo e città, sapendo che il primo

è un delicato sovrapporsi e intrecciarsi di azioni

prodotte dal secondo. In particolare è

all'agricoltura che Küster riserva un ruolo deci-

sivo nella formazione dei paesaggi.

«La coltivazione delle piante ad opera dell'uomo

è stata una delle più importanti, se non addirit-

tura la più importante innovazione dell'uman-

ità. In seguito, infatti, grazie ad esssa, l'ali-

mentazione umana ha avuto basi stabili. Non

potendo abbandonare i campi durante il periodo

di crescita dei cereali e delle altre piante coltiva-

te, gli uomini sono diventati sedentari. E così, sot-

to l'influenza dell'agricoltura, si sono formati

paesaggi di un tipo completamente nuovo.²»

Questo paesaggio di tipo completamente nuo-

vo, lo ricordiamo, era (ed è ancora a tratti) fatto

di campi coltivati corredati dai segni

dell'irreggimentazione delle acque irrigue, di

strade e sentieri, di siepi e filari, di nuove archi-

tetture rurali. Ma con questo racconto Küster

mette ordine alla sequenza storica svelandoci

LE TEORIE E LE ESPERIENZE1

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*Paolo Pileri professore associato di pianificazione territoriale ambientale DAStU, Politecnico di Milano

«Dobbiamo derivare i nostri principi dal mondo naturale,incuranti della derisione e riaffermare la sua validità negata»(Vaclav Havel, 1984, trad it. 2014)

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che la nascita della città avviene dopo e grazie a

quella della scoperta dell'addomesti-camento

di semi e animali. Solo allora l'uomo si è ferma-

to, ha interrotto quel peregrinare continuo e fati-

coso tra un paesaggio e l'altro alla ricerca di

cibo. Un peregrinare che lo sradicava di conti-

nuo esponendolo ad altissimi rischi di sopravvi-

venza. Quell'uomo sarebbe probabilmente

estinto. Non sarebbe certo giunto a costituire 'la

società', ad occuparsi di cultura, a pensare a

diritti e doveri, alla legge, all'organizzazione dei

ruoli, alla polis. Solo arrestandosi, ha potuto

dedicarsi all'umanità. Con quell'atto di com-

prensione della natura e di alleanza con essa,

alleanza agricola, egli ha potuto generare la cit-

tà che abbiamo visto nella storia, quella che

ancora vediamo e abitiamo oggi. La città esiste

grazie all'agricoltura. È stata concepita nel cam-

po. Lì la nostra storia umana ha le radici.

Ed è proprio con questa parola, radice, che ora

facciamo un lungo salto storico precipitando, in

compagnia di Andrea Zanzotto, nei giorni

nostri. In una recente raccolta di scritti, Luoghi e

paesaggi, ad un certo punto Zanzotto, indigna-

to per il trattamento che l'uomo riserva al 'suo'

amatissimo Veneto, da lui 'usato' più e più volte

come laboratorio simbolico per riflettere critica-

mente sul rapporto generale tra uomo e pae-

saggio, riflette proprio su quella che lui, illuden-

dosi, credeva fosse un'alleanza infrangibile tra

uomo e natura, un rapporto di muta e amorosa

comprensione che, invece, si schianta sul duro

cemento.

«A conti fatti, posso dire di essermi parzialmente

illuso. Non si è trattato di due realtà in accresci-

mento reciproco, ma di un rapporto unidirezionale

di prevaricazione; tantomeno si può parlare di un

vero e proprio “dialogo”, relativamente al tragico

scempio della natura commesso dall'uomo in

quest'ultimo quarantennio, ma di una monolo-

gante e allucinata sequela di insulti. Il male da cui

ha avuto origine “questo” uomo dipende proprio

dall'essersi volontariamente sradicato dalle pro-

prie origini, dall'essersi gettato in spregiudicata

balìa del dogma capitalistico, inabissato nella mel-

ma di una superfetazione di minime-massime vio-

lenze che trovano un'esclusiva giustificazione nel-

la cruda meschinità di interessi particolaristici.³»

Stando a Zanzotto, l'uomo ha quindi compiuto

volontariamente un atto di rottura con

quell'alleanza (agricola/naturale) strategica che

Küster ci aveva ricordato poco fa, decidendo

di rinnegare se stesso per gettarsi in altre brac-

cia. Affiancare queste due tracce, quella di

Küster e di Zanzotto, ci disvela alcune chiavi

secondo me cruciali per poter capire non solo

cosa oggi non funziona producendo i guasti

che diremo, ma anche che ciò che si compie

continuamente con il consumo di suolo, speci-

ficatamente quello agricolo, non viene 'visto'

come grave dagli occhi della maggioranza dei

cittadini, degli urbanisti e dei governanti per-

ché, tra l'immagine di ciò che vedono e il pen-

siero che quell'immagine forma, vi è un poten-

te filtro percettivo intriso di una sempre più

grande rimozione culturale, originata da quel-

lo sradicamento volontario, che ci continua a

nascondere la comprensione degli effetti di

quanto si sta facendo, che ci alleggerisce la

responsabilità delle nostre azioni e che ci ha

convinto a considerare giusto, buono, neces-

sario e, soprattutto, senza limitazioni, il consu-

mo di suolo ovvero lo svilimento del paesag-

gio e della nostra storia proprio poggiata su

quell'antica alleanza tra noi e la natura che, a

ben sentire le alluvioni, le piogge, le frane, gli

innalzamenti di temperatura, non è affatto

muta. Sordi, siamo noi.

Questo antefatto ci consente di dare densità a

quanto ora diremo, ma soprattutto di farci

comprendere che i numeri del consumo di suo-

lo non sono solo gravi in quanto sono cifre

'grandi', ma in quanto sono indicatori crudeli di

quella rimozione e di una cultura di attenzione

al suolo che manca nella testa dell'urbanista e

che oggi è un'assenza della quale, egli prima di

altri ma insieme ai governanti con cui egli deci-

de dell'uso dei suoli, deve dare conto.

Il suolo che urbanista e politico non cono-

scono è vitale per noi e l'ambiente.

Si parla di consumi di suolo ma non altrettanto

di suolo. Insomma si parla della malattia senza

conoscere chi è il malato. E qui sta un vulnus

non indifferente anche dei tentativi di norma-

zione che si stanno facendo.

Innanzitutto il suolo è una risorsa naturale,

non rinnovabile, capace di erogare servizi e

benefici e base del nostro paesaggio. La legge

italiana non riesce ancora a riconoscere tutto

ciò al suolo nonostante nel marzo 2014 abbia

fatto un passo decisivo in avanti rimuovendo

la definizione errata del testo unico ambienta-

le⁴. Ora il suolo è “lo strato più superficiale della

crosta terrestre situato tra il substrato roccioso e

la superficie. Il suolo è costituito da componenti

minerali, materia organica, acqua, aria e organi-

smi viventi” (D.lgs. 46/2014 art. 1 comma v-

quater). Una definizione formalmente corret-

ta ma 'neutra' e comunque ancora distante dal

riconoscere qualcosa che è ben di più di questo

strato, tutto sommato inerte e morto. Il suolo

è il sistema senza dubbio più complesso della

Terra⁵ ed è vivo. Il tutto è concentrato in una

pellicola sottile, più o meno alta 1-2 metri: è

quello lo strato vitale, non più sotto. È costitui-

to da argilla, sabbie e limo, ma soprattutto da

materia organica ovvero da carbonio,

l'elemento della vita. Nel suolo c'è vita e si chiu-

de/apre il ciclo del carbonio. Milioni di organi-

smi viventi vi lavorano per generare quell'hu-

mus che è la base della alimentazione vegeta-

le ovvero del nostro cibo. Il 30% della biodiver-

sità del pianeta sta sotto i nostri piedi. Migliaia

di eccipienti alla base dei farmaci che ci curano

nascono nel laboratorio biochimico che è il suo-

lo. Il suolo non urbanizzato è un regolare fon-

damentale per bilancio dei gas atmosferici.

Stocca molta più CO della vegetazione e i 2

cambi d'uso del suolo contribuiscono per il

20% circa al bilancio emissivo di CO . Il suolo è 2

una gigantesca spugna che trattiene fino a 3,8

milioni di litri di pioggia per ettaro. Questo spie-

ga facilmente perché continuando a cementi-

ficare la quantità d'acqua esondabile è sempre

maggiore. Ecco tutto questo non è noto né

all'urbanista nè al governante o, comunque,

non lo ritengono così importante da condizio-

nare le scelte urbanistiche in fase di progetto

di piano. Per loro il suolo è una base, un'area

senza alcuna profondità, senza funzioni. Una

superficie da usare, anzi da valorizzare. Soprat-

tutto questo è il termine che trafigge la storia

della pianificazione territoriale attraversando-

la da oltre sessant'anni. Produrre valore è il pri-

mo dei comandamenti, dove il termine valore

è ridotto alla sua sola dimensione monetaria e

per di più circoscritta prevalentemente alla sfe-

ra dell'interesse privato o di pochi privati. Il suo-

lo, con i suoi servizi ecosistemici, produce inve-

ce beni per tutti, anche per coloro che non

sono proprietari di quel suolo⁶. Per questo la

regolazione dell'uso dei suoli privati è vitale in

democrazia e non può non tener conto delle

caratteristiche intrinseche di questa risorsa

ovvero del fatto che essa è un corpo vivo e che

dà vita e non una tavola morta su cui appog-

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giare di tutto. Per l'urbanistica il valore è stato

sempre la rendita fondiaria, il cosiddetto gua-

dagno immeritato per gli inglesi, il virus più

letale del consumo di suolo.

Ma quanto suolo si consuma?

In Europa. Ogni anno poco meno dell'equiva-

lente di una città come Berlino, 252 ettari, vie-

ne urbanizzata⁷, sigillando suolo che prima

era agricolo o naturale. Si tratta di un valore

elevato eppur inferiore di quello che è real-

mente in quanto la base dati geografica ori-

ginale (Corine Land Cover) non è in grado di

cogliere le trasformazioni più molecolari e

fini che sono parecchie ad esempio in un con-

testo urbanizzato come il nostro.

In Italia. Oggi il dato ufficiale di consumo di

suolo nazionale è quello decretato

dall'agenzia ambientale nazionale – ISPRA: 2circa 8 m /sec ovvero 70 ha/giorno⁸ di cui un

quinto o più probabilmente concentrato in

Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna,

Veneto e Friuli⁹. Si tratta di una cifra rilevante

che peraltro rischia di essere anche sottosti-

mata. Con questa rapidità, il suolo pianeg-

giante italiano non urbanizzato¹⁰, che

assomma tra i 6 e i 6,5 milioni di ettari a

seconda che si escludano o includano le aree

lacuali e fluviali, sparirebbe sotto il cemento

in poco più di 230 anni. Ma la morte soprag-

giungerebbe molto molto prima, venendo a

mancare superficie agricola sufficiente alla

produzione di cibo, i boschi spariti sconvolge-

rebbero il microclima e inquinanti e rifiuti si

impadronirebbero di ciò che è restato del suo-

lo. 100 anni? 150? Lo scenario da qualsiasi par-

te lo si guardi è terribile.

Nelle regioni. Scandalosamente, non esiste

un dato di consumo per ogni regione italiana.

Lo Stato non lo richiede, poche regioni lo cal-

colano. Se non si sa nulla, il problema scom-

pare da sé, avrà pensato qualcuno. Ci si deve

accontentare solo di qualche dato e spesso

vecchio. In Lombardia la cementificazione

dei suoli tra il 1999 e il 2007 si è attestata

attorno a circa 12 ettari al giorno¹¹, oltre il

10% del consumo nazionale. In Veneto, dove

non è disponibile una banca dati efficiente

sugli usi del suolo a più soglie temporali, si

può prendere a riferimento il valore dichiara-

to dalla stessa regione in un disegno di legge

sul suolo¹²: 180.000 ettari agricoli cementifi-

cati negli ultimi 40 anni (il dato è peraltro alli-

neato ai risultati di ricerca di Tiziano Tempe-

sta¹³, secondo il quale tra il 1970 e il 2010, limi-

tatamente al territorio di pianura e di collina

sono stati persi 151.783 ettari di suolo agrario,

pari a 3.794,6 ha/anno ovvero 10,4 etta-

ri/giorno). Tra il 2003 e il 2008, in Emilia Roma-

gna sono stati urbanizzati 15.445 ettari pari a

8,4 ettari al giorno e in Sardegna 11.642 ettari

ovvero 6,3 al giorno¹⁴. Consumi che non sono

spiegabili con il trend di aumento della popo-

lazione in nessun caso. Numeri pesanti che

sono ancor più pesanti in termini di aree agri-

cole perse visto che questa non vengono solo

'mangiate' dall'urbanizzazione ma anche dai

boschi quando le aziende agricole muoiono.

Suolo e cibo. Consumo di suolo, perdita di

sovranità alimentare.

Tra i diversi effetti ambientali del consumo di

suolo, quello del consumo dei suoli agrari è par-

ticolarmente grave e pericoloso. La produzio-

ne di cibo è forse il più importante dei benefici

generati dal suolo in quanto servizio ecosiste-

mico. Produrre cibo è un atto importante per

un popolo. Paolo Maddalena, attraverso le

parole di Giuseppe De Marzo, ricorda che sono

tre le fondamentali sovranità su cui si regge

uno Stato democratico: la sovranità moneta-

ria, la sovranità energetica e la sovranità ali-

mentare¹⁵. La sovranità, ricordiamolo, attiene

alla possibilità per gli Stati come per le comu-

nità locali di decidere autonomamente cosa

produrre, di scegliere metodi di coltivazione

sostenibili e rispettosi dell'ambiente e delle tra-

dizioni locali, di decidere su quali mercati e a

quali destinatari indirizzare gli alimenti. E tutto

ciò a sua volta si basa su un altro principio fon-

damentale che è quello della sicurezza secon-

do il quale tutte le persone, in ogni momento,

devono poter aver garantito l'accesso fisico,

sociale ed economico ad alimenti sufficienti,

sicuri e nutrienti che garantiscano le loro

necessità e preferenze alimentari per condur-

re una vita attiva e sana¹⁶. Ma sovranità e sicu-

rezza alimentare quale posizione occupano

nell'agenda delle politiche territoriali?

Il consumo di suolo agrario è un attacco alla

sovranità e alla sicurezza alimentari

Tra il 1990 e il 2006 i 19 paesi membri UE han-

no cementificato terreni agricoli contraendo la

loro produzione interna di un equivalente di

oltre 6,1 milioni di tonnellate di frumento pari

all'1% della produttività annua europea¹⁷. Per

compensare questa perdita interna, sono sta-

te convertite ad agricoltura (soia, cereali, bar-

babietola da zucchero, etc.) centinaia di

migliaia di ettari naturali e seminaturali (bo-

schi, praterie, etc.) in paesi africani, sud ameri-

cani e nord americani. Cosa c'entra questo con

il consumo di suolo nei nostri comuni italiani?

È semplice. Le ripercussioni del consumo di

suolo si manifestano spesso a una scala diver-

sa da quella su cui lavoriamo e che dominia-

mo, arrivando a mettere a rischio persino i già

precari rapporti internazionali tra Paesi.

Abbiamo spesso pensato che l'urbanizzazione

sottraesse terre agricole solo nei cosiddetti

paesi in via di sviluppo, invece è una questio-

ne¹⁸ che riguarda noi e la nostra responsabilità

qui. L'Egitto, nostro fornitore di grano, già nel

luglio 2013 era in forte sofferenza per incapaci-

tà a soddisfare la domanda interna di grano.

Possiamo continuare a permetterci di cemen-

tificare i terreni più agricoli del mondo (la pia-

nura padana) e mettere a repentaglio equilibri

di pace internazionali sottraendo il cibo a popo-

li più affamati di noi? La distanza tra la decisio-

ne urbanistica del sindaco del comune più pic-

colo di Italia e una crisi internazionale è molto

più corta di quella che lui e noi crediamo. Que-

sto orizzonte di responsabilità è nuovo per

l'urbanistica, ed è questa la prospettiva che

oggi deve mettere a soqquadro le scale ammi-

nistrative sulle quali l'urbanistica ha sempre

preso le decisioni d'uso dei suoli. Il modello di

governo che abbiamo ereditato dal passato, e

tenuto stretto, scricchiola sotto i colpi del

cemento. Non possiamo più tenere separate

le questioni agricola e ambientale da quella

urbanistica.

L'introduzione dei concetti di sovranità e sicu-

rezza alimentari esplicitano un nuovo e più

stringente limite alla crescita urbana. L'idea di

progetto deve cambiare e con essa anche le

regolazioni e le politiche urbanistiche. I profili

di legittimità riconosciuti al proprietario priva-

to nel trasformare il proprio suolo sono insuffi-

cienti davanti a un cambio di scala e a una plu-

ralità di questioni di interesse comune connes-

si all'uso del suolo. Pure la piccola dimensione

della decisione locale che non si confronta con

i grandi temi e le vaste geografie a cui è legata

è un limite che produce errori e sottovaluta-

zioni. Non è certo l'illusione di un processo di

piano a metterci al riparo dagli effetti, anzi

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paradossalmente potrebbe sortire l'effetto

opposto.

L'irreversibilità delle trasformazioni urbanistiche

e il fatto che stiamo vivendo oltre i limiti del pos-

sibile devono essere molto chiari all'urbanista

come al politico locale che hanno la responsabi-

lità del piano. Ogni diminuzione di produttività

agricola locale, per sommatoria, va a diminuire

l'autosos-tenibilità alimentare dell'intero Paese,

minacciando proprio la sicurezza alimentare glo-

bale.

Torniamo quindi alle cifre del consumo che ci

aiutano a comprendere la dimensione dei pro-

blemi che abbiamo introdotto. Analizziamo due

questioni. La prima è attinente la relazione tra

produzione di cibo e consumo di suolo, mentre

la seconda tra dimensione amministrativa e con-

sumo di suolo agrario.

Consumo di suolo e produzione di cibo

Attraverso una semplice equivalenza, pur se

incorpora in sé semplificazioni, si riesce a rap-

presentare criticamente il legame complesso

tra urbanizzazione, suoli agrari, produzione di

cibo e diritto alla alimentazione. Infatti un etta-

ro di campo agricolo italiano mediamente forni-

sce cibo a circa 6 persone all'anno¹⁹ con un equi-

librio di input/output energetico accettabile e

rispettando i valori del suolo per il futuro.

Questo parametro rappresenta bene la delica-

tezza del suolo agrario e, di riflesso, la nostra vul-

nerabilità in quanto destinatari di quel cibo. Per

aumentare la produttività occorrerebbe versare

sul suolo una quantità di energia sotto forma di

prodotti chimici e azioni meccaniche che mette

in crisi l'efficienza del sistema, oltre a degradar-

lo in modo grave compromettendone la sua fun-

zione nel tempo. Visto dal lato della produttivi-

tà, ogni urbanizzazione va a sottrarre per sem-

pre un potenziale di quantità di cibo. Se vedessi-

mo le cose dal lato del cibo e non del cemento,

potremmo dire che, in via teorica, ogni nuova

urbanizzazione che sostituisce un campo agri-

colo, equivale a proporre a un certo numero di

persone di non mangiare più. Non solo, ogni

ettaro di suolo cementificato che smette di for-

nire cibo, inizia a domandare cibo per i nuovi abi-

tanti che lì vi vengono insediati. Questo scena-

rio, pur ipotetico, inizia a divenire seriamente

problematico quando si considera, appunto, la

variabile 'sovranità alimentare' e, ancor più,

quando la capacità di produzione alimentare di

un paese è già inferiore al numero di bocche da

sfamare, che poi è il caso dell'Italia²⁰. Inedite

responsabilità si stagliano davanti agli occhi di

politica e urbanistica e chiedono subito posi-

zioni alte nell'agenda.

In questo momento non siamo già in grado di

rispondere a tutta la domanda alimentare che

è fatta di fabbisogno interno ma anche di

export (che per il 'made in italy' è un settore cru-

ciale) e, purtroppo, anche di sprechi²¹. Le con-

tinue perdite di terre agricole espongono il

nostro paese ad una sempre maggior dipen-

denza dalle risorse alimentari e agricole estere

e quindi a relativi e possibili condizionamenti²²

che limitano la sovranità politica nazionale.

Ricalcolando con questa lente i consumi di suo-

lo di tre grandi regioni del nord Italia, Piemon-

te, Lombardia e Veneto, si nota che

l'urbanizzazione ha sottratto un potenziale

produttivo agrario, in termine di abitanti ali-

mentabili, molto maggiore dell'incremento

demografico per il quale sono state fatte le tra-

sformazioni del suolo (figura 1). Questo tipo di

calcolo, pur teorico quanto si vuol credere, non

è stato mai fatto in sede di piano. Ed è questo

il fattore probabilmente più preoccupante:

l'ignoranza della questione alla fonte del pro-

cesso urbanistico. Se la pianificazione territo-

riale vuole innovarsi nella direzione della

sostenibilità, non può eludere questa dimen-

sione a meno di essere irresponsabile. È altret-

tanto evidente che prendersi carico di questa

dimensione significa per forza decidere di non

consumare suolo e orientare le energie solo

verso la riqualificazione dei patrimoni esisten-

ti.

Dimensione amministrativa e consumo di suolo

agrario

In molte regioni italiane, la locale legge di

governo del territorio dà piena autonomia

decisionale ai comuni per quanto riguarda la

decisione sull'uso dei suoli. Le funzioni di coor-

dinamento inter-comunale sono deboli e spes-

so facoltative²³, quindi inefficaci. Le politiche

fiscali sono tutte disegnate sul comune, per-

tanto ogni accorpamento o cooperazione fini-

rebbe per produrre svantaggi ad uno dei coo-

peranti, quindi meglio fare da soli. Non vi sono

incentivi determinanti per chi coopera ed evita

consumi di suolo, ma semmai solo mancate

entrate.

La dimensione comunale rimane l'unica geo-

grafia ammessa dal governo del territorio e

per di più senza vincoli di coordinamento a sca-

le intercomunali. Questo, se letto in termini di

consumi di suolo, produce delle distorsioni gra-

vi. Dall'analisi dei dati sui consumi dei suoli

agrari nei comuni della Lombardia distinti per

dimensione demografica, si è visto che il con-

sumo marginale di suolo, ovvero il suolo agra-

rio cementificato per insediare un nuovo abi-

tante, è inversamente proporzionale alla

dimensione del comune (figura 2). Più esso è

piccolo e più spreca suolo agrario a parità di

abitanti insiediati. Tra il 1999 e il 2007, un pic-

colo comune tra i 500 e i 1.000 abitanti ha con-2sumato quasi 4.000 m per dare casa ad un

nuovo abitante, mentre lo stesso abitante con-2sumava 400 m se veniva insediato in un comu-

ne di 50.000 abitanti. Rimane il fatto che in ter-

mini assoluti i grandi comuni hanno consuma-

to più dei piccoli, ma questi sono di gran lunga

più inefficienti.

Il risultato sovverte, almeno in Lombardia, il

luogo comune secondo il quale il piccolo comu-

ne è virtuoso di per sé. D'altronde i difetti

strutturali del governo del territorio degli ulti-

mi venti/trent'anni, come fare cassa con i con-

sumi di suolo, soddisfare le attese di rendita

dei proprietari locali, assicurarsi consensi e

favori, non possono che avere la possibilità di

acuirsi di più negli ambiti più piccoli dove la

prossimità tra decisore, progettista e interessi

privati facilmente si cortocircuitano. I piccoli

comuni sono sicuramente più deboli ed espo-

sti alle pressioni locali e altrettanto più distanti

dalla comprensione dei problemi ambientali e

sociali che le scelte di uso del suolo comporta-

no. È difficile che temi sfidanti a livello globale

come i cambiamenti climatici o la sovranità ali-

mentare trovino nella dimensione micro inter-

locutori che hanno consapevolezza di poter

dare un contributo effettivo con le loro 'picco-

le' decisioni. L'interscalarità di alcune decisioni

ancora sfugge e comunque deve essere un pro-

cesso accompagnato e anticipato da un lavoro

culturale adeguato e capillare.

Evidentemente i temi globali mettono a nudo

alcune inadeguatezze strutturali della nostra

architettura amministrativa. Le questioni

ambientali, di cui l'uso del suolo deve essere

una di queste, non si fermano al confine di nes-

sun comune e richiedono campi di visione più

ampi e complessi e anche conoscenze che non

sempre possiamo pretendere di vedere rap-

presentate ancor più in un piccolo comune.

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Figura 1 - Stima della perdita di produzione di cibo a seguito dei consumi di suolo in Piemonte, Lombardia e Veneto

Continuare a pensare che l'attuale configura-

zione amministrativa dei poteri urbanistici sia

un'invariante rappresenta un vulnus per

l'ambiente e per noi. Bisogna chiedersi se

oggi, in un periodo in cui le responsabilità

ambientali sono palesi, non debba essere

rimessa in discussione la competenza esclusi-

va dei comuni su materie che hanno ripercus-

sioni e ricadute che vanno ben oltre il confine

amministrativo di competenza di chi decide,

come l'uso del suolo. Se l'acuirsi dei danni, con-

seguenti al peggioramento di risposta del ter-

ritorio agli eventi naturali o ai bisogni primari

come il cibo, non viene visto come

l'opportunità anche per rivedere la sostenibili-

tà di alcune funzioni amministrative e alcune

geografie dell'organizzazione delle decisioni

che oggi non reggono né il cambiamento né le

sfide globali, si perderà un'occasione cruciale

per correggere la deriva in cui versa l'attuale

sistema urbanistico, continuamente aggrap-

pato a schemi vecchi e impermeabile ai temi

sfidanti per il futuro e per la crisi attuale.

Se il suolo è una risorsa ambientale come è, il

suo uso non può essere che riportato ad un

decisore con una capacità di visione per siste-

mi ambientali appropriati e per dimensioni

problematiche di vasta scala. La frammenta-

zione amministrativa e la scomposizione oriz-

zontale delle decisioni continueranno a gene-

rare inefficienze, sprechi, brutture, spesa pub-

blica in un territorio che diverrà sempre più

informe e irriconoscibile. L'urbanizzazione sot-

trae suolo all'agricoltura, senza ritorno.

Se teniamo seriamente in conto gli effetti

sociali e ambientali del consumo di suolo,

dobbiamo immaginare totalmente una

nuova urbanistica.

I ragionamenti e le evidenze fin qui portate per

quanto riguarda il rapporto uso/consumo del

suolo agricolo ed effetti sulla produzione del

cibo sono una prova già sufficientemente pre-

occupante dell'eccesso di insostenibilità che

questo modello urbanistico porta con sé, ripe-

tendo se stesso immutabilmente da anni. La

questione del consumo di suolo va inquadrata

in quella più ampia e strutturata del suolo che, a

sua volta, deve essere ricompresa nella que-

stione ambientale visto che, come detto, il

suolo è a tutti gli effetti non solo una risorsa

ambientale il cui consumo produce effetti

ambientali gravi e spesso irreversibili, ma essa

stessa la risorsa più irriproducibile (per generare

10 cm di suolo occorrono 2000 anni). Del suolo

fatto così, il pensiero urbanistico non si è mai o

troppo poco misurato, se non per bocca di una

minoranza di portavoce. Da questo punto di

vista il piano ha fallito trascinando nel pozzo la

qualità della vita, l'integrità della sovranità

nazionale, la volontà di cambiamento, la capa-

cità di vedere altro e oltre. La politica che si è

occupata di urbanistica non è stata capace di

suscitare questi nuovi immaginari, tenendo i

cittadini di fatto lontani dai temi ambientali e

dalle ricadute di tale s-considerazione.

L'urbanista ha una forte responsabilità in tutto

ciò. Davanti a seri problemi ambientali il suo

atteggiamento è stato spesso inconsistente o

velleitario. La mediazione di interessi è stata

spesso intesa come principio preventivo di pro-

gettazione, e per di più positivo in sé, soffocan-

do sul nascere lo spirito critico con cui riuscire a

comprimere le attese e le spinte di forze che

nulla avevano a che fare con l'interesse genera-

le²⁵. Improbabili strade e operazioni 'cementi-

fere' hanno avuto ampi spazi di azione. I tenta-

tivi di alcuni, pur encomiabili, non sono stati in

grado di modificare la rotta generale. Un

atteggiamento notarile ha spesso prevalso

nella coppia progettisti/amministratori indu-

cendoli sempre più a registrare i desideri dei

privati come richieste non rigettabili per defi-

nizione, in maggior misura quelle dei più forti.

Gli atteggiamenti critici sono stati soffocati

con la derisione o con facili slogan inneggianti

la crescita, l'economia, il bilancio finanziario da

sanare. L'obbedienza al vincolo di mandato

(ovvero al potere politico) o la paura anche

solo a sfiorare gli interessi della rendita e della

speculazione immobiliare²⁶ hanno suggerito a

molti progettisti di inventarsi formule che

rilette dopo le alluvioni o dopo la vista di un

capannone che cerca acquirenti da cinque

anni sono ridicole se non più propriamente

offensive. Suolo, boschi, filari, acque, aria, bel-

lezza sono rimaste comparse mute alle orec-

chie sorde di urbanista e amministratore che

non voglion sentire le loro ragioni, anteponen-

dogli sempre altre questioni, altro. Non si spie-

gherebbero altrimenti gli oltre 41.400 ettari

che i piani urbanistici comunali lombardi si

sono messi in pancia in questi ultimissimi anni

incuranti della crisi²⁷ (il dato riguarda la situa-

zione previsionale così come dichiarata dalla

Regione Lombardia nel 2013 su dati aggiornati

al 2012. Ad oggi Legambiente sostiene siano

addirittura 55.000²⁸). Un dato disaccoppiato

da ogni previsione demografica e che andreb-

Aumento della spesa per la gestione delle reti di drenaggio acque(prendiamo il valore tedesco: 6500 €/ha*anno. Non attualizzo per semplificare. Si tratta di valori monetari al 2013)

PIEMONTE 1991 -2005

-20.000 ettari c.a. (§)Pari a

-1.429 ha/anno -3,9 ha/giorno

Spesa annua incrementale pubblica

prodotta:

6-9,3 milioni di euro/anno

(§) Fonte: piemonteagri.it, 2013

LOMBARDIA 1980-2007

-218.837 ettari c.a. (*)Pari a

-8.105 ha/anno -22,2 ha/giorno

Spesa annua incrementale pubblica

prodotta:

35-53 milioni di euro/anno

(*) Fonte: ERSAF, 2011

VENETO 1970-2006

-151.783 ettari c.a. (^)Pari a

-4.216,2 ha/anno -11,6 ha/giorno

Spesa annua incrementale pubblica

prodotta:

15-27,4 milioni di euro/anno

(^) Fonte: Tempesta, 2013

Questi valori non tengono conto delle spese per il tessuto urbano già esistente, dei maggiori costi dovuti allo Sprawl e degli effetti di cumulo.L’intervallo inferiore della spesa indicata si riferisce alla quota impermeabile del suolo calcolata come il 60-75% della artificiale. La seconda è invece l’artificiale

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Valore 'outlier'e invertito: per ogni abitante persosono stati consumati14396 m2di suolo agrario

-3902 m2/ab

0

-1.000

-2.000

-3.000

-4.000

1.000

2.000

-1382m2/ab

-785m2/ab -478m2/ab -504m2/ab -475m2/ab -398m2/ab -282m2/ab

pe

rdit

a d

i su

pe

rfic

ie a

gra

ria

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(ΔmqAGR/Δab)99-07

ΔPop_1999-2007 (x100)

be a togliere ulteriore produzione alimentare, a

produrre più acqua nei fiumi, più spesa pubblica

e più emissioni di CO . Un fuori scala di questo 2

tipo fatica a trovare spiegazioni se non nella mio-

pia e nell'incapacità di generare modelli diversi e

non asserviti alle solite logiche del profitto e della

rendita (figura 3).

Alla fine dobbiamo renderci conto che forse i ten-

tativi di riforma legislativa che da quasi cinque

anni in Italia vengono rimandati e mai approvati

nascondono una chiara intenzione di non dispo-

nibilità a modificare le condizioni di base in cui

spazia la rendita e l'interesse del cemento. Idem

per il (voluto) fallimento della Valutazione

Ambientale Strategica, pressoché ovunque in

Italia. Stessa cosa la riconosciamo nell'incapacità

del legislatore di annullare quello sciagurato pas-

saggio della legge finanziaria 2005 con il quale si

è data la possibilità ai comuni di utilizzare gli

oneri di urbanizzazione per sostenere la spesa

corrente ovvero qualsiasi spesa. Anche la recen-

te (20 novembre 2014) approvazione da parte

del consiglio regionale lombardo della legge con-

tro il consumo di suolo che rimanda però il divie-

to di consumo a fra 30 mesi nasconde, neppur

troppo bene, il messaggio chiaro di invito a con-

sumare tutto quel che si può e al più presto.

Prendersi cura, subito, della grave situazione

culturale

Qual è allora il filo rosso che attraversa tutto ciò?

Sono tanti i fili rossi e moltissimo è il lavoro da

fare in sede legislativa, professionale, accademi-

ca e politica. Ma è forse la dimensione culturale

oggi ad essere quella più urgente. Urbanista, poli-

tico, studente di architettura e di ingegneria,

valutatore ambientale e cittadino non sanno

cosa è il suolo, non sanno cosa accade se lo si

consuma, non sanno a chi vanno vantaggi e a

chi svantaggi, non sanno che occupazione e

lavoro del futuro non possono stare nel

cemento (se non quello per recuperare).

Manca una cultura sul suolo e mancano le sedi

e le occasioni in cui si spiega e se ne parla. Nei

corsi di architettura e ingegneria di suolo non

si parla (un po' di consumi). Non si parla in Par-

lamento come nel più piccolo dei consigli

comunali.

Tutti sanno che non si può vivere senza il cibo

Figura 2 - Lombardia 1999-2007. Andamento del consumo di suolo agrario pro abitante insediato (linea tratteggiata) in funzione della dimensione demografica dei comuni in Lombardia. Il consumo marginale di suolo è maggiore nei comuni più

24piccoli dove peraltro è stato quasi irrilevante la variazione demografica (linea a punti)

Figura 3 - Variante 2014 al PGT di Casalbuttano (CR). Tratteggiata in rosso è rappresentata la proposta di tangenziale esterna. Si tratta di un classico esempio di proposta di piano che va a sfasciare completamente il paesaggio agrario di frangia, generando consumi di suolo ingenti e permanenti. È questa la responsabilità del piano davanti alla crisi? È questa l'interpretazione della questione agricola?

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20

che giunge dal suolo, ma sembrano dimenti-

carsene o non curarsene quando si decide di

cementificare anche un solo metroquadrato di

suolo agrario o, forse, non sono messi in grado

di decidere se accettare un certo modello di

sviluppo che al momento gli viene letteral-

mente imposto, al prezzo della sovranità di

quelle genti.

L'opera culturale può divenire l'energia di base

per «riappropriarsi del nostro territorio e dei gran-

di valori che esso contiene»²⁹ sconfiggendo quel-

la grande rimozione culturale del valore della

terra in quanto bene comune.

Se non possiamo permetterci che si vada avan-

ti a consumare suolo e futuro, ancor meno pos-

siamo permetterci di lasciare che le prossime

generazioni crescano nuovamente

ignoranti di ciò che hanno sotto i piedi.

Sarà loro la responsabilità di tutelare il

prossimo suolo libero, ma nostra, e

ora, quella di iniziare a farlo subito, come subi-

to va spiegato loro fin da piccoli.

1. Einaudi L. (1951), Della servitù della gleba in Italia, in Corriere della Sera, 15 dicembre 19512. Küster H. (2010), Piccola storia del paesaggio, Donzelli, Roma, p. 343. Zanzotto A. (2013), Luoghi e paesaggi, Bompiani, Milano, p. 150 (il brano, inserito nella raccolta, è tratto da un testo pubblicato da Zanzotto nel 2006 con il titolo Sarà (stata) natura?)4. D.lvo 152/2006, art. 54.5. Ritz K. (2008), Soil as a paradigm of a complex system, in Ramsden J.J. e Kervalishvili P.J. (eds.), Complexity and security, IOS press6. La definizione che rende piena giustizia al suolo in quanto risorsa e in quanto elemento che ha diritto ad essere tutelato proprio per le sue molteplici, vitali e preziose funzioni è ancora quella contenuta nella strategia per la protezione del suolo della Unione Europea, che troviamo nei documenti europei COM(2006)232 e COM(2006)231 definitivo - Strategia tematica per la protezione del suolo.7. Commissione Europea, Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l'impermeabilizzazione del suolo, Unione Europea, Lussemburgo, p. 12 (SWD(2012) 101 final/2, disponibile all'indirizzo http://ec.europa.eu/environment/soil/sealing_guidelines.htm)8. Ministero delle politiche agricole e forestali (2012), Costruire il futuro: difendere l'agricoltura dalla cementi-ficazione. Munafò M. (2013), La misurazione del consumo di suolo a scala nazionale, in ilProgettosostenibile n. 33/2013, Edicom Edizioni, Gorizia. 9. Arcidiacono A. et alii (2010, a cura di), Rapporto CRCS 2010, INUedizioni, Roma10. In Italia la superficie artificiale, di cui quella urbana è il sottoinsieme di gran lunga prevalente, viene stimata intorno al 7% (Munafò M., 2014, Obiettivi e risultati del sistema di monitoraggio del consumo di suolo, in Arcidiacono A. et alii (a cura di), Politiche, strumenti e proposte legislative per il contenimento del consumo di suolo in Italia – Rapporto CRCS 2014, INUedizioni, Roma, pp. 13-17)11. Arcidiacono A. et alii (2010), op. cit., p. 17012. Disegno di legge n.393/2013, Norme per il recupero di suolo all'uso agricolo e ambientale per lo sviluppo sostenibile del Veneto. 13. Cfr. intervento di Tiziano Tempesta (Università di Padova) alla Scuola di Governo del Territorio Emilio Sereni (16 marzo 2013) presso l'istituto Alcide Cervi di Gattatico (RE), dal titolo: Sprawl urbano, agricoltura moderna e degrado del paesaggio.14. Arcidiacono A. et alii (2010, a cura di), op. cit., p. 19815. Maddalena P. (2014), Il territorio bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico, Donzelli editore. Roma, p. 20016. FAO, 1996, Rome Declaration on World Food Security, http://www.fao.org/wfs/index_en.htm17. Dati tratti dai factsheet della conferenza di Berlino 2013 consultabili in www.globalsoilweek.org18. Tiepolo M. (2002), Urbanizzazione e sicurezza alimentare. A Niamey, Niger, in Storia Urbana n. 98-99/2002, Franco Angeli, Milano.

19. Questo coefficiente, molto delicato e complesso, deriva dal seguente doppio percorso di calcolo che va a convergere proprio sul valore numerico del coefficiente. Partiamo dalla dieta procapite giornaliera che possiamo assumere pari a 2500 kcal, assortita in verdure, carni e latticini, richiede un'estensione di circa 1500 mq per persona. Un ettaro di superficie agricola può quindi sfamare 6,6 persone (Cfr. Mercalli L., Sasso C. (2004), Le mucche non mangiano cemento, SMS, Torino). Secondo altri studiosi il fabbisogno energetico procapite giornaliero potrebbe essere ben maggiore (Pretolani 2012: 3638 kcal/persona*giorno) e ciò andrebbe a peggiorare il bilancio globale (cfr. Pretolani (2012), Agricoltura lombarda e consumo di suolo agricolo, report interno EUPOLIS, presentato in Regione Lombardia il 10 ottobre 2012; www.eupolis.regione.lombardia.it/shared/ccurl/562/658/Pretolani.pdf). Sempre secondo Pretolani in Lombardia gli abitanti mantenibili per ettaro, con l'attuale produzione, ammonterebbe a 5,7 [ecco allora che qui prendiamo un valore intermedio pari a 6] (cfr. anche il rapporto L'agricoltura lombarda conta - 2013, www.inea.it/documents/10179/124894/Lombardia2013_web.pdf, p. 13) e i consumi di suolo dal 1982 al 2010 hanno ridotto la capacità di produzione alimentare in termini di equivalenti energetici del 6,3% (“La riduzione della superficie agricola negli ultimi 30 anni [in Lombardia] ha portato ad una diminuzione della produzione di calorie vegetali del 9,7% e del valore della produzione del 5,9%”). Con tale risultato la Lombardia ha peggiorato la sua auto capacità di soddisfare la domanda interna di cibo (sempre secondo Pretolani il tasso di autoapprovvigionamento globale al 2011 era pari al 79% e quello per consumi umani del 60%), aumentando la propria dipendenza da approv-vigionamenti esterni. Ciò ha prodotto ripercussioni anche a livello nazionale, esponendo l'Italia ad una maggior dipendenza e ad una minor sicurezza di avere sufficiente cibo. Tale ragionamento e quindi l'applicazione di tale metodologia vale anche per tutte le regioni.20. Secondo il documento presentato dal ministro dell'agricoltura del governo Letta, Mario Catania, e allegato alla proposta di legge per contenere i consumi di suolo, l'Italia attualmente produce circa l'80-85% delle risorse alimentari necessarie a coprire il fabbisogno dei propri abitanti. Insomma, non è autosufficiente. (MIPAF, Costruire il futuro: difendere l'agricoltura dalla cementificazione. Rapporto tecnico allegato al Disegno di legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo – Luglio 2012)21. Lo spreco alimentare è una piaga assolutamente non considerata. Bisogna riflettere che a ogni cibo gettato nell'immondizia corrisponde un pezzo di terra coltivato per nulla e/o un trasporto fatto per nulla e/o una spesa energetica fatta per nulla, una spesa pubblica per smaltire quello che diviene rifiuto e, non ultimo, è un cibo sottratto a chi non ha da mangiare. In Italia, Andrea Segrè si occupa da anni con la sua ricerca di dimostrare l'insostenibilità degli sprechi e per la precisione proprio quel cibo che viene gettato via prima di arrivare in tavola. Secondo i suoi studi

l'1,19% del PIL italiano (al 2011) va in pattumiera generando costi sociali e pubblici elevati (Segrè A. (2013), Vivere a spreco zero. Una rivoluzione alla portata di tutti, Marsilio, Venezia, p. 43). Si tratta di un equivalente teorico di 180 kg di cibo che ogni anno ogni cittadino getta via prima di scartare.22. Agnoletti M. (2010), Paesaggio Rurale. Strumenti per la pianificazione strategica, Edagricole, Milano.23. Recentemente la regione Toscana ha approvato una legge (n. 65/2014) introducendo una sostanziale novità nel panorama nazionale in materia di tutela dei suoli agricoli. Questi non possono essere più trasformati se esterni al perimetro edificato a meno che si ottenga autorizzazione da una conferenza di co-pianificazione, composta da Regione, Provincia e Comune interessato. La legge dovrebbe bloccare i nuovi consumi di suolo e comunque eventuali decisioni non sono più nell'autonomia del singolo comune ma prese in carico da un nuovo soggetto che ha una visione territorialista ed è meno prossimo alle pressioni locali. Riferimenti: approvazione del Consiglio Regionale in data 29/10/2014 e pubblicazione sul BURT n. 53 del 12/11/2014.24. Il grafico è stato pubblicato e discusso dallo scrivente in varie sedi. Questa versione è tratta dalla pubblicazione Di Simine D., Pileri P., Ronchi S. (2013), Consumo di suolo e questioni ambientali, in ilProgettosostenibile, 33/2013, pp. 14-2325. La frase in corsivo è tratta da una celebre affermazione di Antonio di Cederna 26. Si legge in un recente piano di governo del territorio lombardo integrato tra diversi comuni (variante adottata nel 2014): «Il documento di piano offre un paniere articolato di occasioni insediative che complessivamente, non provocano distorsioni sulla rendita immobiliare e sull'equilibrio tra domanda o offerta (come altrimenti sarebbe successo adottando politiche che comprimessero eccessivamente le opzioni insediative» (p. 55). «Le percentuali di incremento della popolazione insediabile nel quinquennio di attuazione del PGT-I (riferite al 2014) sono state individuate sulla base delle previsioni demografiche di carattere strutturale di lungo periodo corrette al rialzo sia per tenere conto in parte delle dinamiche più recenti sia per evitare una compressione dell'offerta insediativa che potrebbe provocare distorsioni del mercato immobiliare» (p. 59). Fonte del documento pianificatorio: Terre dei Navigli, Piano di Governo del Territorio Integrato, Documento di Piano Integrato.27. Pileri P. (2014), Volo del calabrone e piano del sindaco sono inconciliabili. Scala ambientale e scala amministrativa alla ricerca di nuove forme di convivenza, in Arcidiacono A. et alii (a cura di), Politiche, strumenti e proposte legislative per il contenimento del consumo di suolo in Italia – Rapporto CRCS 2014, INUedizioni, Roma, (p. 69-75)28. Cfr. il comunicato stampa datato 20.11.2014: http://lombardia.legambiente.it/contenuti/comunicati/legge-ammazzasuolo-apportate-misure-di-limitazione-del-danno-ma-il-cuore-della-29. Maddalena P., op. cit. p. 205

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Coltivare la cittàcontemporanea. Le sfide dei “paesaggiagrourbani multifunzionali”

di Viviana Ferrario*

Nella seconda metà del novecento l'agricol-

tura è stata relegata ai margini dell'economia

e della società occidentali: pur essendo stata

fonte primaria di ricchezza e di lavoro per lun-

ghissimo tempo, di fronte alle prestazioni

degli altri settori economici l'agricoltura dà

oggi un contributo quasi trascurabile al pro-

dotto interno lordo ed è quasi irrilevante in ter-

mini di numero di addetti. Le politiche agrico-

le hanno perseguito a lungo il principio della

massima indipendenza rispetto alle condizio-

ni geografiche nelle quali l'agricoltura veniva

praticata, ignorando la sua straordinaria capa-

cità di produrre territorio e di costruire pae-

saggi. Insieme all'agricoltura anche il territo-

rio coltivato ha perso valore economico e

sociale, e il processo di urbanizzazione che ha

portato alla costruzione della cosiddetta città

contemporanea ha potuto travolgere le aree

agricole sostanzialmente senza essere real-

mente governato.

Oggi le cose sembrano improvvisamente

cambiate: le politiche di sostegno all'agri-

coltura sono state riviste nella direzione di

valorizzarne il contributo ambientale e pae-

saggistico, e da alcuni anni, complici forse le

nuove condizioni poste dalla crisi della secon-

da metà degli anni 2000, l'intera società occi-

dentale manifesta verso l'agricoltura un nuo-

vo generale interesse. I giovani cercano lavoro

in agricoltura; nuove pratiche emergenti

come quelle legate agli orti urbani, ai mercati

di prossimità, all'agricoltura sociale, coinvol-

gono i cittadini e attirano l'attenzione degli

studiosi: lo stesso tema “nutrire il pianeta,

energie per la vita”, scelto per il prossimo

Expo 2015, allude ad una nuova sensibilità col-

lettiva non solo per i cicli naturali, ma anche

per quelli produttivi agricoli, che permettono

la vita dell'essere umano sulla terra.

Nel corso del XX secolo il consumo di suolo

agricolo è stato l'argomento più popolare con-

tro la dispersione urbana e in favore di politi-

che di contenimento che hanno però avuto un

grado di efficacia assai limitato (Bruegmann,

2005). Con la crisi alimentare del 2008 nel

dibattito italiano in particolare è riemerso il

concetto di "consumo di suolo", già esplorato

negli anni ottanta del novecento, e la tutela

dei terreni agricoli fertili è divenuta nuova-

mente popolare. Da più parti si chiedono nuo-

ve politiche di contenimento, anche di tipo

radicale: il cosiddetto approccio "ettaro zero"

propone una crescita urbana senza espansio-

ne (cioè senza consumare nemmeno un etta-

ro di terreno agricolo). Le implicazioni di que-*Viviana Ferrario, Università Iuav di Venezia

LE TEORIE E LE ESPERIENZE1

21

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sta prospettiva sono molto importanti, in

quanto spostano l'attenzione dalla limitazione

della nuova espansione (il principio che ha gui-

dato le politiche antisprawl fino ad oggi) ad

uno sviluppo senza espansione, che presuppo-

ne un investimento sulla trasformazione del

tessuto urbano esistente. Si tratta di immagi-

nare un diverso progetto per la città contem-

poranea, che si affranca da posizioni consoli-

date e apre a nuovi paradigmi. Quale è oggi il

ruolo dello spazio coltivato in questa impor-

tante partita?

1. Richieste multiple all'agricoltura

Un buon modo per provare a rispondere a

questa domanda è mettere in fila le richieste

che la nostra società urbana esprime nei con-

fronti dell'agricoltura.

In primo luogo certamente l'agricoltura pro-

duce cibo. La crisi alimentare globale che stia-

mo attraversando si manifesta sia in termini

di scarsità e di conseguente aumento dei prez-

zi, sia di declino della qualità degli alimenti.

L'allungamento artificioso delle filiere alimen-

tari comincia ad esser messo in discussione e

il controllo sulla provenienza dei prodotti vie-

ne richiesto con sempre maggior forza. In con-

nessione con il tema della “filiera corta” (una

delle parole d'ordine degli ultimi anni) si collo-

ca la questione dell'approvvigionamento ali-

mentare nelle aree lontane dalla produzione

agricola, delle grandi metropoli, dei food

desert. I casi di Londra (www.capital-

growth.org) e di Rennes “ville vivriere” (Dar-

rot et al. 2010) testimoniano, tra molti altri,

l'importanza che viene oggi attribuita al tema

della sicurezza alimentare (Di Bartolomei et.

al, 2014), che si declina in termini di quantità

di derrate ma anche di qualità e tracciabilità

della produzione.

In secondo luogo l'agricoltura è chiamata ad

erogare particolari servizi ai cittadini, in quan-

to spazio per il tempo libero, o per attività edu-

cativo-terapeutica (fattorie didattiche, agri-

coltura sociale); in questo caso lo spazio

dell'agricoltura si configurerebbe come una

sorta di “standard urbanistico” sui generis,

una forma di welfare spaziale, una sorta di

immenso “parco” coltivato, la cui manuten-

zione sarebbe in un certo senso pagata dai cit-

tadini europei attraverso la Politica Agricola

Comune. C'è poi una visione dello spazio agra-

rio come patrimonio culturale, riconosciuta in

modo crescente anche dalle istituzioni

(Agnoletti, 2011), che sollecita la conservazio-

ne di pratiche tradizionali e di paesaggi agrari

storici. Altre richieste trovano la loro origine

nella questione ambientale: lo spazio agrario

è chiamato a contribuire all'accrescimento

della biodiversità, l'agricoltura ad essere stru-

mento di conservazione di specifici habitat.

Crescenti sono le richieste espresse nei con-

fronti dello spazio agrario come luogo di pro-

duzione di energia: sia sotto forma di coltiva-

zioni di biomasse, legnose e non, che sostitui-

scono i combustibili fossili, sia sotto forma di

“spazio a disposizione” per l'installazione di

impianti di energie alternative, per esempio il

fotovoltaico o le centrali a biogas. Non trascu-

rabile è il contributo potenziale dello spazio

coltivato al controllo del cambiamento clima-

tico, sia attraverso la conservazione del patri-

monio arboreo, sia attraverso l'impiego di pra-

tiche agricole che non diminuiscano la fertilità

del suolo (ricordiamo che nel suolo fertile è

contenuta gran parte della CO2 del pianeta).

Nei territori fragili delle pianure alluvionali pos-

siamo aggiungere il contributo dello spazio

coltivato alla sicurezza idraulica, con la sua

capacità di trattenere volumi d'acqua in

eccesso in situazioni di emergenza.

Insomma, entro lo spazio coltivato la città con-

temporanea cerca un modo per aumentare la

sua sostenibilità e la sua resilienza, per chiu-

dere alcuni dei cicli che nelle concentrazioni

urbane restano aperti (Urban Agriculture,

2009).

2. Agriculture through the (contemporary)

city

Ne sono prova gli studi e i progetti che esplo-

rano in modi diversi il mutuo rapporto tra spa-

zio urbano e spazio coltivato, che si sono mol-

tiplicati negli ultimi anni fino a formare un ric-

co filone, entro il quale troviamo noti progetti

di metissage agrourbani quali la “Philippi Hou-

sing” di Noero Wolff architects, (2006), “Hin-

terland” di FKL Architects (2006), “Rethin-

king happiness” di Cibic (2010), la strategia

Agropolis per Monaco (2011) o quella di Manu-

el Gausa per Barcellona, e nuovi strumenti per

il governo del territorio come gli champs urba-

ins dello SCoT du Pays de Rennes (2007) o il

“Patto città-campagna” del PTRC della

Regione Puglia (2009). Proposte di nuovi para-

digmi come i continuos productive landscapes

di Viljoen et al. (2005, 2014), l'agriurbanisme di

Vidal e Vilain (2009), l'agrarian urbanism di

Waldheim (2010) si accostano ad esperienze

come quelle dei parchi agricoli (Magnaghi e

Fanfani 2010). Pur nella diversità delle scale,

degli approcci e degli obiettivi immediati, mi

sembra che da questi progetti emerga un ten-

tativo comune: quello di riflettere sulla

dimensione spaziale delle problematiche di

cui ho parlato nel paragrafo precedente. Mi

sembra infatti che la possibilità che

l'agricoltura possa rappresentare un elemen-

to di resilienza per la città contemporanea, sia

soggetta ad alcune questioni di tipo squisita-

mente spaziale, che pongono delle domande

rilevanti alle discipline del territorio.

In primo luogo infatti esiste un problema di

mutua relazione tra lo spazio urbano e lo spa-

zio coltivato che va a mettere in discussione la

forma stessa della città. La ricerca dello spa-

zio coltivato per rispondere a certi bisogni del-

la città e dei cittadini ha delle “potentially pro-

found implications for the shape and structu-

re of the city itself” (Waldheim, 2010). Sottesa

ad essa infatti c'è un'idea di città-territorio in

cui coltivare e abitare sono azioni vicendevol-

mente compatibili, e che possono avvenire

sul piano della prossimità e della mescolanza

piuttosto che su quello della separazione e del-

la distinzione. Anche le posizioni apparente-

mente più ferme sull'ideale della città com-

patta, nella pratica del progetto si stempera-

no e tendono a lavorare sulla mescolanza (Ma-

gnaghi e Fanfani, 2010, p. 226). Sembra

insomma che anche nelle posizioni più radica-

li una rigida separazione tra spazio urbano e

spazio agrario non sia più l'unico obiettivo pos-

sibile di ogni progetto di territorio. Non si trat-

ta cioè più di inseguire una forma ideale della

città espressione di una società lontana e mol-

to diversa dalla nostra, ma di fare i conti con i

caratteri attuali dei territori che la nostra

società ha prodotto, per migliorarli. La città

contemporanea non ha una forma, ne ha più

di una. La mescolanza tra spazio urbano e spa-

zio dell'agricoltura non è più una colpa, ma

una opportunità.

Ma l'attenzione all'agricoltura nella città con-

temporanea solleva un secondo problema

spaziale: la conservazione della biodiversità,

la produzione di energia, la produzione ali-

mentare, la sicurezza idraulica hanno tutte

bisogno di spazio, e tendenzialmente entrano

22

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in competizione per gli stessi spazi. Lo svilup-

po degli agro-carburanti può entrare in com-

petizione con la produzione alimentare, la col-

tivazione delle biomasse riduce tendenzial-

mente la biodiversità, la creazione di aree di

laminazione sottrae terreni alla produzione,

l'uso ricreativo del territorio agricolo o le esi-

genze di conservazione del paesaggio agrario

storico possono scontrarsi con la produzione

alimentare e così via. Questa competizione si

gioca, certo, sul fronte delle pratiche e delle

tecnologie, così come sul fronte delle cono-

scenze biologiche e agronomiche: tuttavia la

dimensione spaziale è rilevante.

Ho proposto queste questioni ai partecipanti

del convegno Agriculture through the city, che

si è svolto presso l'Università Iuav di Venezia

nel maggio 2012 (www.iuav.it/agriculture-

through-the-city). Ne è emerso il carattere di

trasversalità territoriale e di transcalarità del-

lo spazio coltivato, dall'orticoltura urbana alle

grandi monocolture intensive, e la necessità

di considerarlo tutto (non solo quello interno

alla città) nel quadro di un progetto di territo-

rio che integra l'agricoltura tra i suoi materiali.

Tuttavia le conseguenze di queste opportuni-

tà restano ancora in gran parte inesplorate:

una delle frontiere sulle quali pare opportuno

riflettere è quella della multifunzionalità.

3. Paesaggi agrourbani multifunzionali

Per descrivere la capacità dell'agricoltura di

soddisfare le richieste multiple che abbiamo

più sopra individuato, le politiche agricole fan-

no riferimento al suo carattere “multifunzio-

nale” che “refers to the fact that an economic

activity may have multiple outputs and, by

virtue of this, may contribute to several socie-

tal objectives at once. Multifunctionality is

thus an activity oriented concept, that refers

to specific properties of the production pro-

cess and its multiple outputs (si riferisce al fat-

to che una attività economica può avere

diversi output e, grazie a questi, può contri-

buire contemporaneamente a diversi obietti-

vi della società. Multifunzionalità è pertanto

un concetto orientato all'attività, riferendosi

alle specifiche proprietà del processo produt-

tivo e ai suoi molteplici output)” (Maier, Sho-

bayashi, 2001). In questa definizione il signifi-

cato economico del concetto di multifunzio-

nalità è prevalente, ma esso può avere un par-

ticolare interesse anche per le discipline terri-

toriali. Esso infatti permette di interpretare in

modo diverso non solo l'agricoltura europea

in quanto attività economica, ma anche

l'assetto stesso delle aree agricole e il loro ruo-

lo territoriale. Applicata alla pianificazione del

territorio la multifunzionalità ha effetti poten-

zialmente rivoluzionari. L'ultimo decennio

infatti è stato importante per una miglior com-

prensione non solo del carattere multifunzio-

nale dei paesaggi agrari, che combinano fun-

zioni di tipo ecologico-ambientale, economi-

co, sociale, ricreativo, estetico simbolico, ma

anche delle potenzialità insite nel concetto

stesso di “paesaggio multifunzionale”

(Brandt, Vejre, 2004; Selmann, 2009).

Interpretare il territorio come una stratifica-

zione di paesaggi multifunzionali, può avere

ricadute interessanti sulla comprensione e sul

progetto sia di aree in forte competizione per

l'uso del suolo come sono quelle metropolita-

ne, sia in aree marginali che sembrano desti-

nate al declino; costringe a concepire lo spa-

zio urbanizzato e quello coltivato, le aree

dell'abbandono e quelle della pressione inse-

diativa, in un disegno unitario che lavora sulle

relazioni mutue tra le diverse funzioni e com-

ponenti e che esplora le possibilità e le regole

della convivenza; consente di superare la stes-

sa categoria di “uso del suolo”, proponendo

una visione alternativa a quella tradizionale

dello zoning e una dimensione attenta tanto

agli usi stabili e duraturi quanto a quelli tem-

poranei ed effimeri; consente di misurarsi con

il tema dei cicli di vita. Su questi temi vorrei

proporre all'attenzione di chi legge quattro

esplorazioni progettuali che mi hanno coin-

volto a diverso titolo negli ultimi anni.

3.1 Quattro esplorazioni progettuali

È bene chiarire che non si tratta di progetti

con un preciso committente e con un budget:

si tratta piuttosto di occasioni nate da una

riflessione sui territori del nord-est italiano

condotte in un contesto di ricerca e di didatti-

ca. Hanno un contenuto dichiaratamente pro-

vocatorio e non trovano riscontro - anzi con-

traddicono - le indicazioni degli strumenti

urbanistici. Ben sapendo che questo costitui-

sce un limite rilevante, mi pare però che nel

loro insieme queste provocazioni traccino un

possibile programma per ridefinire il ruolo del-

lo spazio coltivato nel futuro del territorio con-

temporaneo.

3.1.1 Orti alti a Padova

Orti alti è un'idea nata nel contesto

dell'iniziativa per il Parco Agro-paesaggistico

Metropolitano di Padova (PaAM). Attorno al

programma del PaAM si è avviato nel 2014 un

percorso di Agenda 21 coordinato dal Comu-

ne di Padova, che ha visto la partecipazione di

associazioni, cittadini, scuole agrarie e azien-

de agricole. Obiettivo è quello di costruire una

strategia per la salvaguardia e la valorizzazio-

ne degli spazi agricoli periurbani, in una pro-

spettiva di rinnovamento e riqualificazione

multifunzionale delle stesse attività agricole.

La strategia si appoggia ad alcune esperienze

già in atto, istituzionali, come gli orti sociali

del Comune e il Parco etnografico di Rubano,

e di resistenza, come il Presidio Sotto il Porti-

co, che da anni si oppone all'espansione della

Zona Industriale. Entro le attività del comita-

to per il PaAM abbiamo immaginato un pro-

getto provocatorio per uno degli spazi urbani

della città più scandalosamente privi di un pro-

getto credibile. L'esplorazione progettuale si

misura con il complesso del macello e foro

boario comunali, progettati negli anni sessan-

ta da Giuseppe Davanzo e mai entrati appie-

no in sevizio. Localizzata lungo la tangenziale

ovest, l'area di 15 ettari è oggi completamen-

te impermeabilizzata, una gara bandita dal

Comune per il suo riuso a fini residenziali e ter-

ziari è andata deserta. La proposta provoca-

toria è quella di rinunciare a valorizzare dal

punto di vista immobiliare l'area, per trasfor-

marla invece in una urban farm. Le superfici

asfaltate verrebbero asportate, il suolo rina-

turalizzato e messo a coltura, gli edifici

dismessi del macello, delle stalle di sosta e del

foro boario verrebbero impiegate per le

necessità dell'azienda agricola, che gestireb-

be anche i 10.000 metri quadri di orti sociali,

da ricavarsi sulle coperture del complesso edi-

lizio (fig. 1).

3.1.2 De-industrial park nella pianura veneta

La proposta nasce nel quadro della ricerca

«Agropolitana» grazie alla quale tra il 2010 e il

2013 ho ragionato sulla costruzione di scenari

progettuali per i paesaggi agrourbani della pia-

nura centrale veneta (Ferrario, 2011; 2012;

2013). La ricerca ha lavorato con i diversi pat-

tern che nel loro insieme costruiscono il terri-

torio contemporanea (Gabellini, 2010). Uno di

questi pattern è quello delle placche indu-

23

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striali disperse nel territorio (in media quattro

per ogni comune nel Veneto) e spesso mesco-

late alla campagna coltivata. Come è noto, una

delle sfide che questo territorio dovrà affronta-

re nel prossimo futuro è quello del surplus di

queste zone industriali e artigianali, sovradi-

mensionate, spesso non completamente rea-

lizzate e oggi nettamente sottoutilizzate a cau-

sa della delocalizzazione delle attività produt-

tive e della crisi economica. La proposta prova

a rispondere ad alcune indicazioni provenienti

dai piani territoriali (Regione del Veneto, 2009,

Provincia di Treviso, 2010), radicalizzandole. Si

esplora la possibilità di gestire la dismissione

controllata di alcune di queste aree in una pro-

spettiva temporale di lungo periodo. I terreni

non utilizzati possono ospitare da subito coltu-

re di biomasse legnose; nei capannoni abban-

donati si possono ospitare gli allevamenti che

recano disturbo ai residenti; mano a mano che

nuovi capannoni rimangono vuoti si smontano

e il terreno viene bonificato e messo a coltura.

Gli ampi spazi impermeabili inutilizzati vengo-

no rinaturalizzati. Si tratta dunque di uno sce-

nario in fieri, che sfrutta i tempi spontanei della

dismissione, senza forzarla. Tutti gli stadi inter-

medi sono progettati su un modello che non

teme la commistione tra lo spazio coltivato e

quello urbanizzato e che anzi che ne valorizza

le possibili mutue alleanze (fig. 2). L'esito, tem-

poraneo ma di lungo periodo, si rifà esplicita-

mente all'utopia agrourbana di Agronica

(Branzi, 1996).

3.1.3 «Recycling agricultural space» nel baci-

no del Marzenego

Anche questa proposta nasce entro la ricerca

“Agropolitana” e ne costituisce anzi il cuore: si

tratta infatti di immaginare una diversa confi-

gurazione dell'area centrale veneta come pae-

saggio agrourbano multifunzionale. La parte

che presento qui è stata successivamente

ripresa nel contesto di uno dei workshop orga-

nizzati dall'unità di ricerca dell'Università Iuav

di Venezia entro il Programma di Rilevante

Interesse Nazionale “Recycle Italy” (Tosi et al.,

2014). Nel quadro di una riflessione proget-

tuale sul bacino idrografico del fiume Marze-

nego, propongo di “riciclare” lo spazio coltiva-

to entro un quadro di valori collettivi, quali la

sicurezza alimentare e la qualità degli alimen-

ti, la biodiversità, la sicurezza idraulica, la pro-

duzione di energie rinnovabili, lo spazio per il

tempo libero. Quattro azioni disegnano un

nuovo paesaggio agrario multifunzionale. La

prima risponde al problema della sicurezza

idraulica e all'esigenza di razionalizzare le

filiere alimentari: le colture compatibili con

esondazioni di breve periodo (prati, pascoli,

colture perenni da biomassa) vengono con-

centrate lungo i corsi d'acqua nelle parti meno

elevate del territorio, formando nuove aree

ad alluvionamento programmato ausiliarie

rispetto alle aree di laminazione principali, e

contribuendo alla necessaria estensivizzazio-

ne degli allevamenti bovini. La seconda azio-

ne migliora la sicurezza idraulica lungo le stra-

de, costruisce habitat potenziali e protegge le

colture dagli inquinamenti originati dal traffi-

co veicolare: i bordi dei campi affacciati lungo

le strade vengono risagomati e forestati,

costruendo un filtro tra strada e campo, che

può combinarsi con percorsi ciclopedonali. La

terza azione risponde alla necessità di con-

nessione naturalistica tra i corridoi ecologici

della Rete Ecologica Regionale e contempo-

raneamente a quella di preservare i seminati-

vi a scopo di produzione alimentare e di uso

del territorio agricolo per il tempo libero: si

tratta di agroforestazione su larga scala, arti-

colata in fasce boscate che contengono per-

corsi ciclopedonali, alternate con fasce agro-

forestate, dove i seminativi convivono con la

presenza degli alberi per la produzione di

legno da opera. La quarta azione è volta alla

produzione di energia da biomassa, alla

costruzione di habitat volti a rammendare il

tessuto connettivo arboreo a scala minuta tra

i corridoi ecologici principali, alla fitodepura-

zione degli inquinanti di origine agricola:

24

Orti Alti (2012). Proposta provocatoria per la trasformazione dell'area dismessa del macello e foro boario comunali di Padova in una urban farm, con orti sociali sui tetti del complesso progettato da Giuseppe Davanzo negli anni Sessanta. Nata nell'ambito del comitato promotore del Parco Agropaesaggistico Metropolitano di Padova la proposta è stata presentata nel corso del Salone del Gusto e Terra Madre a Torino del 2012

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direzioni.

La prima è una sollecitazione a riflettere di

nuovo sulla forma della città: il territorio con-

temporaneo può essere riletto e riprogettato

alla luce del mutuo rapporto tra spazi coltivati

e spazi abitati (Ferrario, 2011; Lanzani, 2012).

Ciò significa da un lato “accettare” come pro-

gettabili certi territori stigmatizzati e implici-

tamente ritenuti non progettabili (ad esempio

quello della città diffusa); dall'altro significa

avere a disposizione un modello nuovo, che in

certe condizioni, può essere proposto anche

per la città consolidata e per le periferie urba-

ne. La seconda direzione che la nuova atten-

zione all'agricoltura ci suggerisce è la possibili-

tà di progettare il territorio contemporaneo

come un paesaggio multifunzionale.

Coltivare la città contemporanea, certo, è uno

slogan, ma si può articolare nell'invito ad alcu-

ne azioni innovative degne di nota:

- Coltivare le aree dismesse. Questa azione

permette di guardare alla dismissione

come ad una opportunità invece che un limi-

te: la messa a coltura di aree dismesse con-

ferisce loro valore, un valore diverso da quel-

lo puramente immobiliare, contraddicendo

implicitamente i meccanismi della rendita;

- Coltivare le aree in attesa: permette di dare

un senso ai “tempi morti” dell'urbanistica,

quelli che intercorrono tra una previsione di

l'azione riempie le smagliature nel sistema del-

le siepi campestri con nuovi impianti diffusi di

fasce tampone boscate lungo fossi e scoline

(fig. 3).

3.1.4 Oltre l'abbandono della montagna : ri-

coltivare i versanti a Pontebba

Si tratta di un progetto sviluppato in una tesi di

laurea magistrale che ha come oggetto il recu-

pero delle aree dismesse di Pontebba, centro

delle Alpi Giulie, in provincia di Udine, situato a

pochi chilometri dalla frontiera con Austria e

Slovenia (Mazzucco, Peroni, 2014). La costru-

zione dell'area doganale ferroviaria più impor-

tante del nord-est italiano e di tre grandi caser-

me militari occupa nella seconda metà del

novecento i terreni fertili del fondovalle, men-

tre l'economia nata attorno allo scalo dogana-

le e alle caserme accelera il processo di declino

delle attività agropastorali e l'abbandono dei

versanti. La chiusura delle caserme e della

dogana seguito alla fine della Guerra Fredda e

agli accordi di Schengen (1995), fa sì che oggi il

25% del suo suolo urbano di Pontebba sia

dismesso. La tesi mette in discussione un pro-

getto di sviluppo del settore turistico invernale

elaborato dalla Regione Friuli Venezia Giulia,

che prevede la realizzazione di un collegamen-

to funiviario tra il centro di Pontebba e

l'importante comprensorio sciistico austriaco

di Pramollo-Nassfeld, con il recupero delle

aree militari dismesse per destinarle alla ricet-

tività turistica. Nel quadro del Progetto Pra-

mollo i 18 ettari dell'area dell'ex dogana ferro-

viaria di Pontebba verrebbero trasformati in

un parcheggio per 2000 posti auto. La propo-

sta alternativa elaborata dalla tesi è quella del-

la trasformazione della dogana ferroviaria

dismessa in una azienda agricola cooperativa,

con l'obiettivo di recuperare alla coltivazione

non solo i terreni dello scalo ferroviario bonifi-

cati, ma anche i prati abbandonati dei versan-

ti vallivi circostanti. Grazie ad un ristorante e

ad uno spazio per la vendita diretta dei pro-

dotti la cooperativa agricola intercetta sia il

mercato potenziale rappresentato dagli scia-

tori che quello legato all'itinerario ciclabile

Alpe Adria (fig.4).

4. Un progetto di territorio che include

l'agricoltura : questioni aperte

La nuova sensibilità per i cicli di produzione

agricola si sposa con una nuova attenzione al

rapporto tra urbanizzazione e spazio coltiva-

to, che sta esplorando forme nuove di convi-

venza tra coltivare, abitare e produrre. Come

può questa stagione di riflessioni contribuire

al progetto della città contemporanea? Come

ho già anticipato e come mostrano gli esempi

sopra riportati, questo contributo va in due

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piano e la sua realizzazione. La loro durata,

spesso importante, fa venire il sospetto che

non si tratti di incidenti imprevisti ma di un

problema strutturale del governo del territo-

rio così come lo concepiamo ora, che

potrebbe essere rivisto alla luce di una

attenzione specifica per la dimensione del

“temporaneo”;

- Coltivare i territori della dispersione. Que-

sta azione propone di guardare alla disper-

sione insediativa come un confuso labora-

torio dove, sia pure con alterni successi e in

modo assi poco riflessivo, si è sperimentata

una nuova forma di città: lo spazio coltivato

consumato, frammentato, intercluso, può

essere il punto di partenza per un progetto

finalmente adeguato ai suoi caratteri;

- Coltivare paesaggi multifunzionali: invita a

dare diversa sostanza alle critiche alle tecni-

che di zoning, oltre la mixité, verso il ricono-

scimento della multifunzionalità di ogni par-

te del territorio.

- Ri-coltivare i versanti vallivi: nel progetto

del territorio contemporaneo è necessario

After Schengen (2014). In questa tesi di laurea (Mazzucco e Peroni, 2014) la dogana ferroviaria di Pontebba, dismessa dopo i trattati di Schengen, diventa una cooperativa agricola con l'obiettivo di tornare a coltivare i versanti abbandonati del Canal del Ferro e i pascoli alti

De-industrial park (2011). Scenario di dismissione controllata di una zona industriale-artigianale nella città diffusa veneta, progressivamente de-impermabilizzata e ricoltivata, fino a raggiungere un pattern discontinuo infrastrutturato sul modello di Agronica (Branzi, 2005)

Recycling agricultural space (2011-2014). Proposta di “riciclo” del territorio agricolo del veneto centrale come paesaggio agrourbano multifunzionale, per

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includere la montagna, coinvolgendo quelle

parti di territorio che la modernità ha lascia-

to ai margini e che alla luce delle condizioni

attuali acquistano nuovamente valore.

Tutto questo però non possono farlo gli urba-

nisti da soli: coltivare la città contemporanea

obbliga al confronto e alla collaborazione con

altri saperi e con altre discipline, costringe

all'ascolto e alla collaborazione con attori ter-

ritoriali precedentemente non considerati (gli

agricoltori, le associazioni), spinge a immagi-

nare nuovi e diversi strumenti di governo. Un

lavoro ancora tutto da fare.

rispondere alle richieste della città contemporanea nei confronti dell'agricoltura e dei suoi spazi: cibo, energia, biodiversità, tempo libero, sicurezza idraulica

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I contadini di montagnae le murature in pietradei terrazzamentiresistono

di Timmi Tillmann* e Maruja Salas*

Chi siamo?

Eravamo 50 sognatori, visionari entusiasti che

si sono incontrati nella provincia cinese dello

Yunnan nella Prefettura del Fiume Rosso nel

novembre 2010 in occasione della prima con-

ferenza sui Paesaggi terrazzati, e abbiamo

fondato l'Alleanza Internazionale dei Paesaggi

terrazzati (ITLA) per tutelare, preservare e

promuovere questi paesaggi e le relative cul-

ture.

Ora siamo più di 100 attivisti, agricoltori e

ricercatori provenienti dalle Americhe, Euro-

pa, Africa e Asia, interessati a dar voce ai

custodi dei terrazzamenti e a promuovere

l'importanza dei paesaggi terrazzati per la pro-

duzione di cibo. Siamo impegnati ad organiz-

zare la Terza Conferenza Internazionale sui

Paesaggi Terrazzati e le sue culture che si terrà

in Italia nel 2016. Ci proponiamo di mappare i

terrazzamenti esistenti e mostrare le loro

peculiarità ecologiche, culturali e gastronomi-

che, raccogliere una bibliografia selezionata e

commentata sul mondo dei paesaggi terraz-

zati e le sue culture, intraprendere dei casi di

studio, individuare i più esperti custodi,

costruttori e agricoltori coinvolgendoli nel dia-

logo necessario tra sistemi di conoscenza.

Vogliamo intraprendere azioni volte a preser-

vare, proteggere e promuovere il recupero dei

terrazzamenti e del loro ruolo nella storia

dell'agricoltura del genere umano. Siamo

un'alleanza a favore degli agricoltori emargi-

nati e privi di potere, uomini e donne, per

sostenere il loro inserimento e la loro voce per

una vita dignitosa.

Cosa ci unisce?

La visione di un futuro in cui questi custodi dei

terrazzamenti e le loro biodiversità, continuino

a godere della cultura dei loro territori e tra-

sformarli in paesaggi interiori di identità multi-

ple, dove possano conquistare spazi democra-

tici per difendere i loro raccolti, le loro risorse, i

loro mezzi di sussistenza in modo da poterli

sentire in Asia, Africa, Europa e nelle Americhe.

Perché ci concentriamo su terrazzamenti

Le condizioni ambientali delle zone di monta-

gna sono state la base naturale per domestica-

re piante utili al consumo umano. Vavilov indi-

viduò otto centri di domesticazione in diversi

continenti dove per migliaia di anni una gran-

de varietà di piante domestiche e selvatiche

hanno contribuito a creare questo patrimonio

dell'umanità. Le pratiche e le conoscenze delle

comunità locali sulle condizioni naturali atte a

*Timmi Tillmann e Maruja Salas sono membri della ITLA - Alleanza Internazionale dei Paesaggi Terrazzati.L'articolo è stato tradotto dall'inglese da Elena Faccio e Sergio Paolazzi.

LE TEORIE E LE ESPERIENZE1

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29

1.

3. 2.

4.

1. Discussioni di gruppo durante la conferenza

2. Vigneti e ciliegi a Goriska Brda (Slovenia)

3. Contadini in costume etnico dallo Yunnan

4. Paesaggio terrazzato nella regione cinese di Yuanyang

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Foto

graf

ia d

i L. C

his

favorire la crescita delle piante hanno contri-

buito alla sopravvivenza di questo patrimonio

e dell'umanità. I centri Vavilov mantengono

ad oggi il loro significato come spazi di con-

servazione delle piante, e non a caso si trova-

no in zone di montagna prevalentemente tro-

picali e subtropicali, che godono di condizioni

(naturali e culturali) favorevoli alla domestica-

zione delle piante. Si tratta di un prezioso teso-

ro dell'umanità, messo in pericolo dal proces-

so di modernizzazione della produzione agri-

cola e dalla vita rurale messa a dura prova.

Saggezza e pratiche locali

Esistono paesaggi terrazzati in tutte le catene

montuose del mondo, in cui gli esseri umani

hanno coltivato la terra per migliaia di anni e

hanno addomesticato le colture alimentari

dell'umanità. I terrazzamenti sono stati

costruiti sulle montagne, sulle linee di costa e

sulle isole, ognuno dei quali con un proprio

metodo e competenza. Se ne fanno moltepli-

ci usi: uomini e donne, anziani e giovani avva-

lendosi di un patrimonio culturale di compe-

tenze tramandate gestiscono l'acqua, i terre-

ni, i climi e sono in grado di coltivare la biodi-

versità. Costruiscono paesaggi incredibili gra-

zie alle loro particolari modalità di organizza-

zione sociale, alle originali tecnologie traman-

date di generazione in generazione, con valori

culturali locali (riflessi anche nella loro cultura

alimentare). Le loro molteplici conoscenze

integrano osservazione, tradizione e innova-

zione, armonizzando la dialettica del rappor-

to tra esseri umani e natura.

Identità multiple

Il paesaggio interiore dei custodi, la loro iden-

tità, si basa sulla comprensione e sul dialogo

con la natura. Il terreno, le montagne, le roc-

ce, la pioggia, le acque sorgive, le piante e gli

animali fanno parte della comunità degli esse-

ri viventi, e questo è specifico in ogni luogo e

cultura.

La reciprocità sociale e il dialogo con la natura

permettono che l'evoluzione del clima sia tra-

mandata lungo il calendario annuale e nel

corso degli anni di generazione in generazio-

ne. Ogni anno il clima è unico in ogni luogo del

mondo dove esistono terrazzamenti (regioni

aride o umide) – nessun anno è uguale all'altro

- e le popolazioni locali hanno imparato che i

cambiamenti, così come le loro vite, dipendo-

no dalla conoscenza della natura. Ogni siste-

ma di terrazzamenti costituisce un universo di

interazioni dinamiche tra gli elementi naturali,

gli esseri umani e le loro culture. Il tratto comu-

ne è però una gestione verticale che riesce a

trarre il massimo vantaggio, al di là della varia-

bilità dei climi e dei terreni, dall'adattamento

delle piante, domesticate dal popolo in base

alle proprie esigenze, all'interesse e alla creati-

vità. Il futuro di terrazzamenti è quello di pro-

durre una varietà di colture con qualità, anche

in piccole quantità per garantire una vita

decente.

Mezzi di sostentamento e stili di vita

Una vita sana e tranquilla e i paesaggi rurali

terrazzati sono valori associati e riconosciuti

anche dalle persone che vengono da fuori. Per

la gente del luogo l'agrobiodiversità viene al

primo posto, poiché consente di gustare buon

cibo secondo la propria cultura alimentare; al

secondo posto c'è lo scambio e la vendita di

prodotti alimentari nei mercati locali, e ciò con-

sente di rafforzare i legami sociali. La qualità

del cibo proveniente da terrazzamenti è stra-

ordinaria ed è una prerogativa esclusiva dei

consumatori che lottano per la propria soprav-

vivenza.

Le giovani generazioni imparano l'innovazione

Le comunità montane dei paesaggi verticali

(in realtà tutte le comunità rurali hanno a che

fare con la natura, ma questo rapporto è più

estremo nelle zone di montagna a causa della

biodiversità dei luoghi) hanno messo a punto i

propri modi di conoscere e di trasmettere il

sapere (attraverso rituali, cerimonie e attività

sociali) così che le giovani generazioni posso-

no essere introdotte nella cultura e imparare i

segreti tecnici e spirituali di trattare con la natu-

ra (terrazzamenti, acqua, suolo e piante). Le

comunità terrazzate nei diversi continenti

sono creative e solide come i loro muri in pie-

tra. Sebbene forze esterne tendano a reprime-

re queste comunità considerandole antimo-

derne e nemiche dello sviluppo unilineare, i

loro muri resistono. Attualmente molti terraz-

zamenti abbandonati da decenni sono stati

adottati da giovani generazioni che vivono in

armonia con la natura recuperando l'utilità e la

bellezza delle regioni di montagna. Stanno

nascendo nuove comunità e quelle locali si

organizzano per difendere i loro diritti sulla

terra e sull'acqua, contro gli interessi delle indu-

strie estrattive, supportate da sistemi politici e

orientate all'esportazione.

Che cosa ci mobilita?

In primis è il principio della sovranità alimen-

tare, un diritto umano fondamentale, che ini-

zia con il controllo delle proprie sementi e della

propria terra. Significa rispettare le decisioni

delle famiglie e delle comunità a favore delle

loro culture alimentari come le tradizioni

regionali (legate a lingua ed etnia) contro la

minaccia dell'uniformismo dell'industria ali-

mentare globalizzata.

Noi siamo mossi dall'obiettivo di tutelare

un'alternativa allo sviluppo economico con-

venzionale, consentendo l'autonomia e

l'autodeterminazione dei popoli locali a colti-

vare le proprie specifiche culture. Mantenendo

i paesaggi terrazzati nelle zone di montagna le

popolazioni rurali continuano la loro storia di

vita sostenibile e la difesa dei loro diritti.

Le minacce alla cultura dei paesaggi terraz-

zati

Dialogando con le comunità montane del sud

est asiatico, della Cina e sulla base delle testi-

monianze dei custodi dei terrazzamenti del

Perù, Ifugao (Filippine) e Bali abbiamo elenca-

to e raccolto una serie di minacce per i paesag-

gi terrazzati e le loro culture. Queste minacce

valgono per tutte le società tradizionali in

diverse regioni, ma hanno maggiore peso in

questi territori, poiché nelle zone di montagna

le condizioni di sopravvivenza sono più difficili.

I cambiamenti climatici

I popoli di montagna di tutto il mondo sono

stati in grado di domesticare il paesaggio per

la loro sussistenza e il loro benessere. La previ-

sione climatica basata sull'osservazione di

lungo periodo della natura nei microclimi di

montagna è stata la chiave che ha permesso

di sperimentare, allevare, produrre e sopravvi-

vere come esseri umani e come culture etni-

che. Il cambiamento climatico mette a dura

prova la capacità delle comunità rurali e dei

loro esperti per la stagione agricola. In monta-

gna ancora di più: siccità che bruciano i raccol-

ti, piogge torrenziali che producono inonda-

zioni e frane, gelo e grandine che distruggono

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le giovani piante. Gli effetti del clima sulla natu-

ra percepiti dai contadini e la conoscenza del

calendario agricolo non coincidono più con il

lavoro dei campi. Ma, per fortuna i paesaggi

terrazzati offrono particolari vantaggi nei con-

fronti dei cambiamenti climatici rispetto alla

pianura e alla collina.

Industrie estrattive e compagnie minerarie

L'impatto delle industrie estrattive sulla vita

delle comunità è dannoso, disastroso: i sistemi

agricoli tradizionali sono intaccati dalle miniere

che impiegano le risorse idriche e contamina-

no le colture alimentari locali inquinando

l'acqua di irrigazione e danneggiando la salute

degli abitanti, dei villaggi locali e infine dei con-

sumatori urbani. Spesso le società minerarie si

impossessano dell'acqua in quanto hanno più

potere economico e possono influenzare le

autorità che vedono nell'esportazione di mine-

rali la soluzione alle esigenze di sviluppo nazio-

nale a discapito delle esigenze delle piccole

popolazioni rurali (i cui voti alle elezioni non con-

tano). I terrazzamenti delle comunità montane

richiedono molto lavoro, ma quando vengono

aperte nuove miniere, si assumono persone

(uomini e donne) e soprattutto i giovani abitan-

ti che abbandonano i campi per avere un salario

fisso, anche se basso. Se la comunità si oppone

alle concessioni alle società minerarie, questi

hanno diversi metodi per convincerla: corrom-

pono le autorità, attaccano leader forti fino al

punto di uccidere loro o familiari, stabiliscono

contratti con la popolazione e offrono posti di

lavoro a basso reddito (ma almeno a pagamen-

to), offrono un sostegno economico per le

infrastrutture sociali indirizzate alla moderniz-

zazione delle comunità montane. A volte

ingaggiano degli antropologi per convincere gli

abitanti del villaggio ad accettare l'invasione,

utilizzando i loro stessi termini culturali. In cam-

bio i territori sono indeboliti e le sane produzio-

ni alimentari locali vengono compromesse

dall'introduzione del cibo spazzatura.

Organizzazione sociale e migrazione

Dato che il sistema ufficiale emargina le comu-

nità rurali e promuove lo sviluppo urbano e la

modernizzazione ci sono pochi incentivi a rima-

nere nelle zone rurali, e ancora meno in zone di

montagna terrazzate, che richiedono un rigo-

roso calendario agricolo e molta fatica. Richie-

de tradizionalmente una forza lavoro giovane e

l'intelligenza creativa femminile per la raccol-

ta. I terrazzamenti non possono essere facil-

mente meccanizzati. I giovani delle comunità

specie quelle più remote, emigrano alla ricerca

di lavoro in città o nelle industrie. Chi rimane

con gli anziani, spesso donne e bambini, sono

impossibilitati a mantenere il sistema produt-

tivo e la raccolta nei campi. L'organizzazione

sociale si indebolisce e la saggezza tradiziona-

le svanisce con la rottura delle connessioni tra

generazioni.

Contrazione delle biodiversità

Le tradizioni agricole sono colpite dall'inva-

sione di semi moderni, dalla tecnologia della

rivoluzione verde e da una ecologia indebolita.

La saggezza locale svanisce: il modello urbano

trasforma le culture alimentari locali e indebo-

lisce il sistema nutrizionale delle famiglie rura-

li. Varietà vegetali tradizionali e razze animali

legate alle culture etniche nelle valli montane

vengono a perdersi e l'agrobiodiversità si esau-

risce. L'agricoltura familiare non è una priorità

nelle politiche ufficiali, mentre lo è

l'esportazione di prodotti agricoli.

Agricoltura chimica e meccanizzazione

Agricoltura chimica, fertilizzanti e pesticidi

sono stati inventati dopo la seconda guerra

mondiale quale opzione dell'industria delle

armi: vere armi chimiche per la produzione

alimentare. In particolare il governo degli Stati

Uniti ha istituito sistemi di espansione con ex

membri dell'esercito per promuovere

l'agricoltura chimica come parte di una politica

di sviluppo e di crescita. Questa ha minacciato

la salute di produttori e consumatori, attraver-

so sostanze chimiche nocive trasmesse al cibo

tramite l'aria e l'acqua. I sistemi naturali di pro-

duzione delle famiglie di agricoltori sono stati

indeboliti o anche distrutti, in quanto le

sostanze chimiche distruggono la capacità

naturale del suolo di produrre cibo gustoso e

sano. Inoltre il modello occidentale, imponen-

do la meccanizzazione e l'industrializzazione,

elimina la forza lavoro, creando quartieri pove-

ri e di conseguenza la povertà. Nei paesaggi

terrazzati grazie alla meccanizzazione si

distruggono i campi, i sistemi di irrigazione

ben congegnati e le modalità famigliari di pro-

duzione, colpendo le qualità naturali dei terre-

ni.

Campi bonificati (per esempio terrazzamenti

del vino in Germania) mostrano meno difese

contro gli attacchi di gelo, perché i nuovi ter-

razzamenti sono più larghi rispetto ai sistemi

tradizionali. La manodopera familiare è sosti-

tuita da specialisti dell'agricoltura e le aziende

stesse diventano dipendenti da fattori esterni

come il petrolio. Se i terrazzamenti sono demo-

liti, l'erosione del suolo a sua volta indebolisce

le montagne.

Denaro e mercato

L'economia di mercato influisce negativamen-

te sulle culture tradizionali e sui sistemi produt-

tivi locali. Invece di produrre cibo per l'auto-

consumo e per i mercati locali, le comunità si

trasformano in attrazioni folkloristiche per il

turismo in cambio di soldi, eliminando la pro-

duzione alimentare della famiglia. I mercati

globali richiedono una produzione uniforme e

costante in quantità enormi distruggendo

l'agrobiodiversità. Il denaro favorisce la migra-

zione verso le città e indebolisce la cooperazio-

ne intergenerazionale; corrompe autorità, fa

esplodere interessi e impoverisce le risorse

naturali tradizionalmente nelle mani delle

comunità locali. Il ricco trae guadagno dai pove-

ri che non hanno potere.

Menti colonizzate e controllo da parte di poteri

esterni

I governi istituiscono modelli di sviluppo lonta-

ni dai bisogni delle comunità locali. Gli inter-

venti sono normalmente progettati nelle città

e nei centri mondiali di sviluppo che mirano a

crescita, industrializzazione e modernizzazio-

ne; le società tradizionali sono percepite come

ostacolo al modello di sviluppo occidentale. Le

industrie internazionali producono e controlla-

no le conoscenze, condizionano le agende di

ricerca agricola e gli interessi della scienza, cre-

ando valori e visioni in contrasto con quelli

della popolazione locale. Non c'è dialogo inter-

culturale sullo sviluppo, le idee e le proposte

sono unidirezionali: il sistema dominante colo-

nizza le comunità con il suo metodo, i sistemi

formali di istruzione e infine, l'opinione pubbli-

ca e i media a rifiutare gli stili di vita tradizionali

e le sue culture alimentari. Il razionalismo e il

positivismo scientifico negano la spiritualità

del rispetto per la Madre Terra e per tutti gli

esseri viventi, come piante, animali, paesaggi,

montagne. Il sistema dominante minaccia la

sopravvivenza della vita sul pianeta Terra.

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La storia delle valli di montagna

La storia delle regioni di montagna è contami-

nata dall'imposizione di valori e comporta-

menti derivanti da una logica esterna. Lo svi-

luppo ed i modelli sociali vengono imposti,

non vi è alcun tentativo di dialogo con la popo-

lazione locale, le opinioni delle comunità indi-

gene e rurali non sono prese in considerazione

nella progettazione del futuro da parte degli

urbanisti. Poteri politici ed economici esterni

occupano la terra, spostano i loro habitat, i

campi e le coltivazioni, distruggono le loro tra-

dizioni producendo povertà e l'indigenza delle

maggioranze. I progetti di sviluppo propongo-

no e spesso impongono, le loro idee di moder-

nizzazione dividendo le comunità locali, cre-

ando organizzazioni parallele e manipolando

la conoscenza.

L'industria alimentare favorisce nei consuma-

tori la dipendenza dai prodotti alimentari tra-

sformati e la dipendenza da parte dei produt-

tori per l'ingresso nel mercato di sementi ibri-

de o di OGM – con conseguenti problemi lega-

ti all'accesso al credito- incentivando le espor-

tazioni e favorendo il predominio dei mercati.

Ma come riconquistare una produzione locale

di alimenti sani per i consumatori locali, in

base al principio del chilometro zero?

Che cosa dobbiamo fare?

Dare visibilità alle diversità dei prodotti autocto-

ni. Fortificare un movimento internazionale

consapevole del valore che non si limiti al prez-

zo. Cercare spazi per una produzione sana,

favorire iniziative locali, il dialogo intergenera-

zionale e la cooperazione che permettono la

realizzazione come esseri umani in armonia

con la natura. Organizzare mostre itineranti,

che evidenziano le minacce e le potenzialità

future di queste regioni, rinforzando le culture

locali e le organizzazioni contadine.

Sostenere la nascita di organizzazioni contadi-

ne per promuovere la solidarietà e la mobilita-

zione della difesa dei diritti dei custodi della

terra contro le minacce esterne, rafforzando

l'identità.

Dialogare con i politici con l'obiettivo di raffor-

zare la voce e le iniziative dei custodi della ter-

ra. Questi luoghi di decisione democratica e la

visibilità data alle conoscenze contadine, con-

durranno verso la nascita di nuove strutture in

difesa dei diritti territoriali.

Stringere alleanze con accademici coscienti e

impegnati. La complessità dei sistemi terraz-

zati richiede un approccio multidisciplinare e

interdisciplinare tra le scienze. Stimola a fare

ricerca in modo diverso tra i contadini esperti

con alle spalle una lunga storia di esperimenti,

in sintonia con la natura e le sfide delle monta-

gne. Questioni come le conseguenze del cam-

biamento climatico dovrebbero coinvolgere

giovani ricercatori, normalmente entusiasti e

creativi, al fine di recuperare le conoscenze

degli agricoltori, maschi e femmine.

Decolonizzare le nostre menti. Rivedere i con-

cetti che orientano le idee e le politiche sulle

aree di montagna nelle sue varietà ecologiche

e sociali, che hanno influenzato i paradigmi

tradizionali. Costruire un nuovo modello di

sviluppo montano sulla base della lunga storia

di domesticazione di piante, animali e paesag-

gi dalle società delle regioni montane.

La Seconda Conferenza Internazionale. Cusco, maggio 2014

Esito del secondo congresso mondiale di Itla, Alleanza Internazionale dei Paesaggi Terrazzati tenutosi a Cusco (Perù) a maggio 2014 e propositi per il terzo congresso che si terrà in Italia nel 2016PresentazionePer 3 anni il gruppo organizzatore composto da Giovanni Conti dell'Università Cattolica, Hilda Araujo, CITPA, Mourik Bueno de Mésquita del centro Bartolomé de las Casas supportato da ITLA, ha riunito un folto gruppo di ricercatori, privati ed enti pubblici per la progettazione e realizzazione della seconda Conferenza Internazionale. In preparazione per l'evento il gruppo ha organizzato diversi workshop con i leader della comunità (maschi e femmine) a Cusco, discutendo le problematiche dei contadini operanti nei terrazzamenti del sud Perù. Le loro testimonianze sono state portate alla Conferenza Internazionale.

RisultatiI risultati della conferenza saranno pubblicati all'inizio del 2015 grazie al supporto finanziario della JICA (Japanese International Cooperation Agency).Il principale risultato della Conferenza è stato il ruolo da protagonisti delle donne e degli agricoltori maschi delle comunità andine di Cusco, Puno, Arequipa, Tacna, Abancay, Ayacucho e Lima.

Hanno organizzato la Mostra sui terrazzamenti, sono intervenuti al Forum, nei tavoli di confronto hanno espresso le loro idee e le preoccupazioni ponendosi sullo stesso livello dei partecipanti professionisti.Infine le conclusioni che hanno tratto, frutto del lavoro di ben due anni, sono state fondamentali per elaborare idee motivate a proteggere e promuovere i paesaggi terrazzati in Perù. Hanno proposto di cominciare a livello individuale e familiare a coinvolgere le giovani generazioni ad imparare le tecniche, i rituali ed i valori dell'agricoltura terrazzata. A livello comunitario hanno espresso l'intenzione di mobilitare le comunità e il loro sistema di istruzione per valorizzare le risorse naturali e la loro cultura alimentare.A livello nazionale i delegati propongono di organizzarsi come una federazione di comunità per fermare le politiche dannose, per difendere i loro diritti con il supporto da parte di terzi (ONG, avvocati, attivisti), di lavorare con gli scienziati per il recupero delle colture tradizionali (sementi). la ricostruzione e il rilancio dei terrazzamenti abbandonati.A livello internazionale vogliono essere collegati ad altri movimenti e agricoltori mondiali, e, se possibile, aderire ad ITLA 2016 per poter scambiare le loro preoccupazioni, interessi ed esperienze con le comunità alleate.

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La vita dei terrazzamenti coltivati a Sandia in Perù

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Formazione continua e reciproca - ITLA

2016 in Italia

I paesaggi terrazzati sono una fonte inesauri-

bile di formazione e di ispirazione: si prosegue

verso la Terza Conferenza Internazionale in

Italia ad ottobre 2016.

Inviteremo diverse realtà mondiali per unire

gli sforzi, cercheremo alleati per dare voce ai

custodi della terra e ci impegneremo in azioni

globali di supporto. Senza burocrazie: in

modo agile e flessibile come l'acqua che scor-

re e mostrando solidarietà e forza come le

pietre dei muri a secco.

Durante l'ultimo incontro a Milano all'inizio di

novembre 2014 abbiamo concordato con il

team organizzativo di ITLA Italia come piani-

ficare la conferenza, iniziando il processo di

selezione della sede per la terza conferenza

sulla base di fattori quali, motivazioni, soste-

gno istituzionale e la disponibilità di risorse

finanziarie. Analizzeremo anche i luoghi per le

visite sul campo pre-conferenza nelle aree

della Costa di Amalfi, Liguria (Cinque Terre e

Arnasco), Trentino, Sicilia, Veneto, Lombardia

(Valtellina), Valle d'Aosta, Piemonte, Friuli e

Toscana convogliando il maggior numero di

professionisti e di esperienze in ITLA 2016.

Il tema centrale della prossima conferenza sui

Paesaggi Terrazzati e delle sue culture sarà il

Benessere futuro, i giusti mezzi di sussisten-

za, l'osservazione, l'analisi e la condivisione di

esperienze di cultura agricola. Studieremo dal

punto di vista ecologico, la qualità del paesag-

gio e dei prodotti alimentari, nonché i modelli

sociali ed economici per un futuro sostenibile.

Vogliamo mappare i paesaggi terrazzati evi-

denziando il valore della combinazione di tra-

dizioni tecnologiche e culturali con le innova-

zioni scientifiche, economiche e sociali.

L'obiettivo è il recupero, la protezione, la con-

servazione e la promozione dei terrazzamenti

nelle montagne del mondo.

A Cusco, nel maggio 2014, abbiamo nomina-

to un comitato internazionale a sostegno

dell'organizzazione del congresso italiano

composto dai seguenti membri: Timmi Til-

lmann, Germania, Coordinatore; Donatella

Murtas, Mauro Varotto, Damiano Zanotelli, in

Italia, come organizzatori locali; Maruja Salas,

Perù-Alemania; Mourik Bueno de Mesquita,

Manuel Aguirre, Perù; Lucija Azman, Slove-

nia; Heather Peters, Thailandia, UNESCO;

Noriyuki Baba, Giappone.

La delegazione italiana si è proposta di orga-

nizzare la terza conferenza in occasione della

conferenza di Cusco, con l'approvazione una-

nime dei delegati.

La conferenza si dividerà in tre sezioni:

· Un incontro iniziale di due giorni per i visi-

tatori esteri per conoscere la situazione dei

paesaggi terrazzati in Italia e in Europa.

· Il lavoro sul campo e il dialogo con le comu-

nità locali per 5 giorni in diverse regioni ita-

liane, con l'obiettivo di dare spazio alla

discussione di problemi, potenzialità e pos-

sibili usi dei terrazzamenti.

· Infine, la terza conferenza in un luogo scel-

to vicino ai paesaggi terrazzati per lo scam-

bio di esperienze e la raccolta di proposte di

azione a livello locale, regionale, nazionale,

e globale a favore del futuro dei paesaggi

terrazzati, delle società e delle culture.

Durante la riunione di Milano, per la prepara-

zione della terza conferenza ITLA in Italia

sono state proposte una serie di attività:

· messa in rete

· promozione dei prodotti del paesaggio

· sito web

· bibliografia e Filmografia dei terrazzamen-

ti in Italia (e in tutto il mondo)

· mappatura dei terrazzamenti e delle pre-

ziose esperienze

· iscrizione a Expo 2015 e Slow Food 2016?

· Corsi di costruzione di muretti a secco per

terrazzamenti

· Laboratori tematici italiani ed europei.

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Terrazzamenti einnovazione sociale. Il progetto“Adotta un terrazzamentoin Canale di Brenta”

di Luca Lodatti*

1. Introduzione

Ai lettori di Sentieri Urbani non sarà ignoto quel

tratto della valle del fiume Brenta che a sud

della Valsugana si stringe fino a assumere la

forma di un canyon e prende il nome di Canale

di Brenta. Questo articolo descrive un progetto

di recupero territoriale sviluppato in quest'area

a partire dall'autunno 2010 e chiamato fami-

liarmente Adotta un terrazzamento, che ha

coinvolto un gruppo di persone non originarie

della valle nella manutenzione e coltivazione

dei versanti, storicamente destinati all'agri-

coltura, ma al momento attuale per la maggior

parte in stato di abbandono.

Il progetto ha preso forma a partire da una

serie di riflessioni fatte presso il Dipartimento

di Geografia dell'Università di Padova sui feno-

meni di ritorno all'abitazione e alla coltivazione

di aree montane nei decenni passati soggette a

spopolamento, a opera non solo di abitanti

locali ma anche di cittadini provenienti

dall'esterno delle valli, sensibili a motivazioni

quali una maggiore qualità della vita e la con-

servazione di un territorio di valore.

Questa tematica negli ultimi anni ha trovato

riscontro a livello internazionale, in particolare

in Francia e in Italia, con libri, documentari e

lungometraggi che hanno cominciato a descri-

vere gli sforzi di recupero degli insediamenti

alpini da parte di nuovi abitanti provenienti

dalla pianura (ad es. Il vento fa il suo giro, di G.Di-

ritti). Nel nostro paese sono state avviate alcu-

ne ricognizioni delle esperienze di ritorno

all'abitare nelle aree montane (ad es. La nuova

vita delle Alpi, di E. Camanni), i cui esiti hanno

offerto al progetto qui descritto spunti di rifles-

sione, per gettare una nuova prospettiva sui

versanti terrazzati, ancora oggi spesso visti uni-

camente come un paesaggio dell'abbandono.

2. L'area di lavoro del progetto

Il Canale di Brenta, come il lettore saprà, è una

stretta valle con orientamento Nord-Sud della

lunghezza di circa 25 km situata nelle Prealpi

Venete, in Provincia di Vicenza. Forse non

altrettanto conosciuta è la storia di questo luo-

go, che nel corso dei secoli ha visto più di un

rivolgimento cambiare in modo radicale la sua

sorte. In epoca romana e poi medievale il Cana-

le di Brenta era utilizzato soprattutto come

passaggio dalla pianura veneta verso l'area tri-

dentina e il Nordeuropa. A partire dal '400 la

valle ospitò attività di commercio del legname

e produzione manifatturiera sotto il dominio

della Repubblica di Venezia.

Lo sviluppo storico della valle ebbe una svolta a

* Luca Lodatti. Regione del Veneto - Sezione Urbanistica, PhD presso il Dipartimento di Geografia dell'Università degli Studi di Padova.

LE TEORIE E LE ESPERIENZE1

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partire dal XVIII secolo con la concessione da

parte della Serenissima per la coltivazione del

tabacco, che prese piede nella valle e andò

estendendosi intorno ai centri abitati nel corso

dell'Ottocento fino a assumere un ruolo di

monocultura. La tabacchicoltura indusse gli abi-

tanti alla costruzione di estesi terrazzamenti

agricoli sui versanti per ricavarne superficie col-

tivabile, portando nel tempo ad una nuovo

aspetto del territorio, con l'edificazione di 230

Km di terrazzamenti complessivi. L'estensione

delle aree terrazzate andò allargandosi fino agli

inizi del '900, accompagnando la crescita demo-

grafica, improntando anche le abitudini di vita e

il rapporto con il loro ambiente delle comunità

locali.

La coltivazione del tabacco ha continuato a esse-

re l'attività produttiva principale fino al secondo

dopoguerra, quando si è verificato un crollo dif-

fuso della tabacchicoltura sui terrazzamenti,

che non si presta alle forme moderne di coltiva-

zione estensive e meccanizzate. Nell'arco di alcu-

ni decenni (1960-1990) il numero delle aziende

agricole è diminuito fino quasi a scomparire (del

90% in Comune di Valstagna). La popolazione si

è ridotta in misura minore (34% in media), ma

gli abitanti della valle hanno sempre più trovato

impiego nell'industria, dando luogo a una

dipendenza economica della valle dalla pianura

antistante.

Solo agli inizi degli anni 2000 è emerso un nuovo

interesse per le aree terrazzate, da parte ora del

mondo della ricerca scientifica. I terrazzamenti

oramai si presentano in prevalenza ricoperti dal

bosco, con le strutture abitative e produttive

(compresi in terrazzamenti) in rovina e minac-

ciate da crolli. É in questa prospettiva che sono

stati sviluppati alcuni progetti di ricerca promos-

si dal Club Alpino Italiano, dalle Università di

Padova e di Venezia e dalla Regione Veneto, nel

periodo che va dal 2000 fino al 2010.

3. Il progetto di recupero territoriale coinvol-

gendo i 'non valligiani'

L'iniziativa di Adotta un terrazzamento si collega

al lavoro di ricerca di un progetto europeo (Pro-

getto ALPTER, 2005-2008) cui ha partecipato

l'università di Padova: durante l'ultimo anno di

questo progetto è stata registrata una richiesta

pervenuta all'amministrazione comunale di Val-

stagna per l'affidamento di un terreno incolto di

pubblica proprietà da parte di due abitanti del

vicino centro di Bassano del Grappa. Dopo che

la richiesta è stata accolta il riuso produttivo

dei terrazzamenti ha dato un buon esito, por-

tando al recupero e alla nuova coltivazione dei

terreni, così che in seguito sono giunte altre

richieste (da parte di privati e di associazioni)

per prendersi cura di un terrazzamento.

L'università e l'amministrazione comunale

hanno seguito con interesse queste attività

spontanee di riuso dei terrazzamenti, che sono

state considerato come un potenziale punto di

partenza, portando a sviluppare l'idea del pro-

getto Adotta un terrazzamento, volto ad allar-

gare la pratica messa in atto da un caso isolato

a un progetto di recupero territoriale.

Nell'elaborare il sistema di gestione per

l'affidamento dei terreni si è andati a identifica-

re i soggetti necessari allo svolgimento delle

attività, che comprendevano l'amminis-

trazione comunale, le associazioni di volonta-

riato dei centri urbani, la comunità locale, e

l'università con un ruolo di gestione e supervi-

sione. Un gruppo dei rappresentanti di questi

soggetti si sono riuniti nell'agosto 2010 per

costituire un comitato denominato appunto

Adotta un terrazzamento in Canale di Brenta,

con lo scopo di dare forma concreta al proget-

to.

Il comitato ha assunto anzitutto la funzione di

contattare i proprietari locali per acquisire in

affidamento i terreni incolti. A tale scopo è

stato steso un modello di contratto di comoda-

to d'uso modale, che prevede la concessione

gratuita dei terreni per 5 anni, a fronte dei lavo-

ri regolari che garantiscano il loro recupero e

manutenzione. D'altra parte il comitato è anda-

to ad accogliere al suo interno coloro che

hanno chiesto di avviare le attività di nuova

coltivazione dei terrazzamenti. La struttura di

gestione ha così assunto un ruolo di mediazio-

ne fra i proprietari dei terreni in abbandono e i

nuovi coltivatori che andavano a prenderli in

mano e prendersene cura.

I primi terreni sui quali dare inizio ai lavori sono

stati scelti prendendo in considerazione aspet-

ti diversi legati alla salvaguardia e al riuso agri-

colo, quali il valore storico-culturale e paesag-

gistico, il contributo alla stabilità dei versanti, la

vicinanza di una strada carrabile e di un punto

d'acqua, nonché la possibilità di reperire i pro-

prietari. Nell'ottobre 2010 sono state così

avviate le prime attività di recupero, presso la

contrada di Ponte Subiolo e nello stretto imbu-

to della Val Verta, cominciando a tagliare la

vegetazione che aveva invaso i terreni per

riportarli al loro uso agricolo.

4. I risultati del progetto

Nei suoi primi quattro anni di attività, dal 2010

al 2014, il progetto ha condotto al recupero di

123 terrazzamenti, per una superficie totale di

quasi 5 Ha. Le richieste hanno continuato a

pervenire con regolarità al comitato di gestio-

ne, con una media di 30 domande all'anno. Si è

così andata definendo attraverso la pratica

concreta quella che è l'attività per contrastare il

degrado delle aree terrazzate di Adotta un ter-

razzamento, nato inizialmente come un picco-

lo progetto sperimentale.

Alcune cifre possono aiutare a delineare

meglio quella che sono le caratteristiche dei

lavori avviati dai partecipanti alla adozione dei

terreni. L'estensione media degli appezzamen-

ti è di 400 mq, lotti di medie dimensioni, adatti

a una famiglia o a un piccolo gruppo di persone

nella coltivazione per l'autoconsumo. La

distanza media da una strada dei terreni recu-

perati è di 80 m, quella da una presa d'acqua di

30 m, condizioni non ideali per la coltivazione,

ma accettabili per una agricoltura familiare

quale si è andata avviando. Infatti un aspetto

che ha caratterizzato di gran lunga le attività di

adozione è lo sviluppo di una agricoltura per

l'autoconsumo, che caratterizza l'80% degli

affidatari. Seguono nell'utilizzo dei terreni quel-

lo ricreativo (10%, legato alle associazioni),

l'apicoltura (5%) e altri usi (5%, viticoltura e oli-

vicoltura).

I Soci iscritti al comitato sono 111, tra di essi ci

sono 4 associazioni, 2 cooperative sociali, 1

istituto agrario. Il profilo degli affidatari raccol-

to dal comitato restituisce un'età prevalente è

fra i 50 e i 65 anni (45%), seguita da 35-50 anni

(20%) e infine da 18-35 (25%, il restante sono

associazioni). Particolare la provenienza geo-

grafica dei partecipanti, che è solo in piccola

parte dalla valle (13%), per la maggioranza dai

centri urbani limitrofi (50%, ad es. Bassano

d.G., Marostica, Rosà, ecc.) e comprende

anche aree più lontane quali Vicenza e provin-

cia (13%), Padova e provincia (5%), fino a Vene-

zia e provincia (5%), con una distanza anche di

100 km che gli affidatari compiono regolar-

mente per curare i terreni. Infine risulta inte-

ressante considerare il livello di istruzione dei

partecipanti, che vede più del 50% dei parteci-

panti in possesso di un diploma superiore o di

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La stessa vista di Valstagna con i versanti terrazzati in una foto scattata nel 2012(Foto dell'Autore).

Vista di Valstagna con i versanti terrazzati in una foto d'epoca degli inizi del '900 (Collezione Todesco, Valstagna).

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una laurea.

Si viene così a delineare nei suoi tratti generali

quello che è il quadro delle attività avviate da

Adotta un terrazzamento. Si tratta di una

forma di utilizzo dei terreni che accanto

all'orticoltura per un uso familiare dà impor-

tanza alla qualità dell'ambiente naturale come

il Canale di Brenta e all'impegno per il mante-

nimento di questi luoghi di valore con un con-

tributo dato in prima persona. La produzione

avviata è nella quasi totalità dei casi per

l'autoconsumo. D'altra parte la cura di un ter-

razzamento, come indicano i dati del profilo

geografico e sociale qui sopra delineato, chia-

ma in causa un impegno per il mantenimento

dell'ambiente naturale a cui molti soci sono

legati, e un riconoscimento del valore territo-

riale e paesaggistico di questi luoghi.

Si può quindi concludere che sia questo il qua-

dro socio-economico, diverso dalla lotta per la

sopravvivenza del tempo della tabacchicoltu-

ra, che si è delineato nell'attività di Adotta un

terrazzamento e l'ha sostenuto in questi 4

anni.

5. Tre questioni in una prospettiva più ampia

Al termine di questa presentazione del proget-

to Adotta un terrazzamento si può accennare a

tre questioni che si sono imposte all'attenzione

in quanto centrali per il riuso produttivo dei

terreni incolti a livello non soltanto locale, ma

per un processo di recupero a scala più ampia,

andando a tratteggiare le soluzioni che il pro-

getto ha provato a mettere in campo.

5.1 Il contatto e il contratto coi proprietari

La questione della proprietà dei terreni in

abbandono risulta basilare per la possibilità di

un recupero produttivo, nel Canale di Brenta

come in altri ambiti montani, aree che sono

caratterizzate da un alto grado di frammenta-

zione fondiaria. Questo problema è oggetto di

una riflessione in corso da anni anche a livello

nazionale, tanto da condurre all'elaborazione

di un progetto di legge presentato alla Camera

(Legge Quartiani, 2008). Il disegno di legge

prevedeva una procedura di pubblico espro-

prio dei terreni rimasti incolti per un lungo

periodo, e forse per questo non ha trovato con-

senso al livello parlamentare.

Questo porta a considerare l'importanza della

forma con cui si vanno a rimettere in uso le pro-

prietà agricole improduttive, che dovrebbe

consentire da una parte il riutilizzo produttivo e

dall'altra una tutela degli interessi dei proprie-

tari. La soluzione messa in campo dal progetto

Adotta un terrazzamento in questo senso ha

corrisposto alle esigenze di mediazione fra

istanze diverse, attraverso la forma del como-

dato d'uso che, seppur provvisoria e voluta-

mente debole, consente una nuova agricoltu-

ra, capace di garantire sia i proprietari che la

cura delle aree terrazzate.

Nel Canale di Brenta si può anche segnalare

come allo stato attuale vi siano terreni che con-

tano un alto numero di eredi, dei quali alcuni

sconosciuti o emigrati altrove. Il progetto quin-

di, dopo aver avviato le attività su terreni dei

quali i proprietari erano noti, ha in seguito

dovuto compiere un lavoro capillare di ricerca

catastale e di contatto con gli interessati, i quali

a volte si sono potuti individuare solo attraver-

so la conoscenza degli abitanti locali.

A fronte della complessità fondiaria in ogni

caso la scelta di un compromesso nella solu-

zione del problema della proprietà della terra si

è rivelato strategico, consentendo una opera-

tività rapida a fronte di una possibile reversibili-

tà della concessione in uso, andando a media-

re fra le istanze dei diversi attori coinvolti.

5.2 Una struttura di gestione “inclusiva”

Fin dall'inizio il progetto Adotta un terrazza-

mento è nato puntando sul coinvolgimento

della società civile, anche esterna alla valle,

piuttosto che sul sostegno pubblico. La parte-

cipazione delle amministrazioni pubbliche è

risultata comunque importante per la sua fun-

zione di garanzia dei lavori attuati (da parte del

Comune) e di gestione delle procedure (da

parte dell'Università). D'altra parte è stato il

coinvolgimento diretto dei cittadini delle aree

urbane a consentire la manutenzione e il

nuovo utilizzo produttivo del patrimonio ter-

razzato.

Una chiave del successo del progetto è stato

quindi il coinvolgimento di tanti attori di estra-

zione diversa, che ha dato modo a ciascuno di

mettere in campo le proprie competenze e le

proprie risorse, facendole convergere

sull'obiettivo del ritorno all'uso dei territorio

terrazzato. Per un'area caratterizzata attual-

mente da marginalità economica, tanto più in

un periodo di crisi come quello odierno, è risul-

tata una strategia attuabile quella di riunire le

esigue forze di un gran numero di soggetti

attorno ad un obiettivo condiviso.

Il progetto è stato allora messo in atto acco-

gliendo nel comitato di gestione soggetti di

estrazione molto diversa, ricomprendendoli

all'interno di una struttura aperta e non vinco-

lante come quella di un'associazione. Si sono

così ritrovati gli uni accanto agli altri ammini-

strazioni locali e associazioni escursionistiche,

enti di ricerca e istituti scolastici, abitanti della

valle e cittadini urbani. Ciascuno è stato chia-

mato a seconda delle situazioni e delle esigen-

ze a contribuire per quelli che erano i suoi ambi-

ti di competenza, suddividendo il carico ammi-

nistrativo e operativo all'interno dell'ampio

gruppo dei soci. In questo senso un approccio

inclusivo ha pagato, rendendo possibile con

l'unione delle forze quello che ciascuno dei sog-

getti coinvolti non sarebbe probabilmente

stato in grado di raggiungere.

5.3 Una coltivazione per l'autoconsumo

Una riflessione merita infine l'uso produttivo

che è stato avviato nei terreni recuperati. Infat-

ti come si è visto la quasi totalità degli affidatari

utilizza i terrazzamenti per l'orticoltura e

l'autoconsumo. I terreni non offrono cioè una

resa annuale monetizzabile e il progetto si è

mantenuto nell'ambito del volontariato, un

argomento più volte discusso fra i soci.

A questo riguardo si possono fare due conside-

razioni di ordine diverso. La prima è che alcuni

membri del comitato hanno dato vita indipen-

dentemente a una piccola cooperativa agricola

che punta a un reddito a partire dai terrazza-

menti; altre due piccole cooperative sono state

fondate nel Canale di Brenta da quando è stato

avviato il progetto e ora cercano una loro posi-

zione sul mercato. Si può in questo senso dire

che Adotta un terrazzamento, mantenendo

un profilo volontaristico, ha avuto un ruolo pro-

pulsivo e propedeutico alla ricerca di una

nuova dimensione produttiva per i terrazza-

menti della valle.

La seconda considerazione, di contro, riguarda

come l'uso dei terreni fatto da Adotta un ter-

razzamento risulti fra quelli meno invasivi per il

territorio terrazzato. Il nuovo utilizzo fatto

degli appezzamenti non giunge a una trasfor-

mazione del paesaggio quali altre coltivazioni

possono richiedere, sia in termini di alterazione

dei terrazzamenti, che di utilizzo di fertilizzanti

o di introduzione di nuove specie colturali. Si

può quindi dire che il progetto ha preso una

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strada di mediazione fra l'impegno in tutela del

territorio, riconosciuto dai soci come precipuo, e

quello a un riuso non semplicemente conservati-

vo ma produttivo, fondamentale per il progetto

a livello operativo e di sostenibilità nel tempo.

Con queste considerazioni sparse si conclude la

breve carrellata sul lavoro di Adotta un terrazza-

mento. Un progetto nato come una piccola spe-

rimentazione che ha mostrato una capacità

significativa di autoalimentarsi, giungendo fino

a fornire indicazioni sulle potenzialità offerte

dalle forme di collaborazione pubblico-privata

per la conservazione del paesaggio, andando a

offrire un contributo su prospettive ormai

d'interesse in ambito nazionale e internazionale.

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Fotografia aerea e estratto catastale con evidenziati i terreni recuperati dal

progetto presso la contrada di Ponte Subiolo a Valstagna (Foto: G.Medici).

Giornata di lavoro comune del comitato a Valstagna

presso la contrada di Ponte Subiolo (Foto dell'Autore).

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IL LABORATORIO TRENTINO

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I «Richiedenti Terra»di Trento e le esperienzedegli orti urbaniin provincia di Trento

di Valentina Merlo*

Orto urbano? Sì, ma comunitario!

La realtà degli orti/giardini urbani è in costante

espansione in buona parte del mondo e anche

in Italia, dove ha conosciuto un notevole

aumento negli ultimi tre anni. E' bene sottoli-

neare che quando si parla di "orti urbani" (non

prendendo in considerazione quelli di proprie-

tà privata) si possono sottendere due catego-

rie alquanto diverse: gli orti sociali e gli orti

comunitari; gli orti sociali urbani, che si sono

diffusi in Italia dagli anni Settanta in poi, sono

parcelle di terreno date in concessione dal

Comune, in genere coltivati da singoli, per lo

più delle classi d'età oltre i 50 anni, e lo scopo

prevalente della coltura è l'autoconsumo fami-

liare. Per giardini e orti comunitari (anche chia-

mati condivisi o collettivi) s'intendono invece

appezzamenti di terreno urbano, anch'essi in

genere di proprietà pubblica, concessi

dall'Amministrazione comunale o occupati dai

cittadini e coltivati collettivamente, prevalen-

temente da persone che vivono nei quartieri

limitrofi. Le due realtà, nate da esigenze in

parte diverse, convivono nelle città italiane, in

aree urbane distinte, e in genere non hanno

grandi rapporti tra loro, anche se sembra esi-

stere un'influenza reciproca. Ad esempio,

l'emergere degli orti comunitari ha posto in

evidenza e segnalato all'attenzione degli Enti

locali bisogni che li hanno orientati a modifica-

re i criteri di affidamento e di gestione degli

orti sociali. In questo momento i community

gardens costituiscono una realtà di nicchia,

minoritaria rispetto agli orti sociali, e molto

meno regolamentata, data anche la recente

origine.

Gli orti urbani si diffondono negli Stati Uniti e

in Europa con l'avvento della rivoluzione indu-

striale e lo spostamento in città di masse di

lavoratori che cercano occupazione nelle fab-

briche e che vivono in condizioni molto preca-

rie. Per loro la coltivazione dell'orto diviene

una risorsa importante, sia come fonte di

nutrimento per le famiglie, in grave stato

d'indigenza, sia perché riallaccia il legame con

la terra, col mondo rurale e con le sue pratiche.

Lavorare nell'orto è un'attività incoraggiata e

sostenuta dalle aziende manifatturiere, dalle

compagnie ferroviarie, dalla Chiesa e dagli

enti governativi, che la ritengono educativa e

salutistica e le attribuiscono funzioni di neutra-

lizzazione della protesta sociale. Negli Stati

Uniti, in particolare, a partire dal 1893 e fino

alla fine della seconda guerra mondiale molte

amministrazione cittadine sviluppano pro-

grammi di assistenza per le fasce più deboli

*L'articolo è tratto dalle ricerche di Leila Ziglio e Daniele Saguto. Contatti: [email protected]

IL LABORATORIO TRENTINO2

«They tried to bury us. They didn't know we are seeds»Proverbio messicano

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della popolazione, mettendo a disposizione

dei terreni comunali abbandonati per la colti-

vazione di ortaggi. Durante la guerra e la gran-

de depressione l'invito a coltivare l'orto viene

farcito di retorica patriottica (un esempio su

tutti la campagna "Sow the seeds of Victory.

Plant and raise your own vegetables.” - Pianta

il seme della vittoria. Semina e cresci i tuoi

ortaggi, il cui manifesto raffigura una giovane

donna vestita a stelle e strisce, impegnata a

seminare un campo). In Europa la diffusione

degli orti ricalca il modello americano e ha gli

stessi scopi: il miglioramento della dieta delle

classi più povere e il sostentamento delle

popolazioni durante le guerre mondiali. Le

politiche in favore degli orti-giardini cessano

ovunque non appena i devastanti effetti delle

guerre scemano, l'emergenza alimentare è

superata e, con gli anni Cinquanta, si avvia la

ripresa economica. I terreni urbani sono utiliz-

zati per costruire strade, abitazioni, scuole e

industrie, attività che lasciano spazio alla spe-

culazione edilizia e alle rendite, molto più red-

ditizie della produzione di ortaggi. Inoltre agli

orti viene associata, nell'immaginario colletti-

vo, l'etichetta sgradevole degli orti di guerra

come luoghi per la sussistenza.

Il movimento dei community gardens nasce a

New York negli anni '70 del secolo scorso, pren-

dendo spunto dall'attivismo ambientalista ed

ecologista e dall'intensa fase di attività politica

degli anni precedenti, in particolare le rivendi-

cazioni di autogestione e di autodetermina-

zione che riguardano anche l'uso della terra, in

contrapposizione al vorace mercato edilizio.

Le necessità materiali, che erano state decisi-

ve per le generazioni precedenti di orticoltori,

costituiscono in questa fase solo una delle

variabili in gioco, a fianco alla volontà di dare

nuova vita ad aree pubbliche degradate a

seguito della crisi economica e del crollo del

mercato immobiliare, di far crescere comuni-

tà costruendo aggregazione sociale e di

riprendere parte alla filiera del cibo al fine di

recuperare la sovranità alimentare. Il primo

nasce nel 1973 a New York a seguito di

un'azione di guerrilla gardening ad opera di un

gruppo di cittadini organizzati chiamati Green

Guerrillas. Di lì, molti community gardens sono

il risultato di occupazioni di aree pubbliche, e

non tutti vengono successivamente sanati.

Nel giro di un decennio le esperienze di orti

comunitari si moltiplicano in tutte le città sta-

tunitensi e si crea una fitta rete di associazioni

no profit che danno consulenza, assistenza

legale e forniscono aiuto materiale a chi vuole

creare un orto o un giardino e di organi istitu-

zionali, quali Green Thumb, che gestisce e dà

in affitto le aree pubbliche al prezzo simbolico

di 1$ al mese. Questa politica è dovuta al rico-

noscimento dell'amministrazione cittadina

della validità delle esperienze di community

gardening, che oltre a migliorare l'arredo urba-

no, hanno apprezzabili funzioni ambientali,

quali il riequilibrio della temperatura e la dimi-

nuzione del rumore. I giardini conosceranno

alterne vicende, secondo l'andamento del

mercato immobiliare e l'orientamento politi-

co delle amministrazioni cittadine.

Il fenomeno dell'orticoltura urbana si

(ri)diffonde poi in Europa e su scala mondiale,

assumendo forme diverse in contesti diversi,

ma a partire da alcune caratteristiche comuni,

di cui le più importanti sono sintetizzate nella

definizione che segue: “Un orto o un giardino

condiviso è anzitutto uno spazio pubblico con

finalità socioculturali, oltre a essere un'area

verde dentro la città che contribuisce al sistema

ambientale, al microclima, alla biodiversità”.

Per community gardens si intendono per lo più

spazi non suddivisi in parcelle, dove il gruppo

coltiva insieme terreni stabilendo le regole in

modo condiviso, sebbene esistano casi in cui il

campo è diviso e le persone costituiscono un

gruppo perché coltivano terreni disposti gli

uni accanto agli altri in un unico spazio adibito

allo stesso uso, organizzando insieme attività

sociali e pubbliche (questo è ad esempio il

caso del "Semi Rurali Garden" di Bolzano).

Una delle realtà più importanti in Europa è

quella della Germania, dove gli orti sono con-

siderati un'attività urbana, di cui si tiene conto

nella pianificazione cittadina (facendo riferi-

mento ad una legge nazionale che risale al

1919, modificata nel 1983 ed ancora in vigore),

sebbene questo non significhi che esistano

strumenti adeguati per la loro tutela, soprat-

tutto nel caso dei community gardens.

In Italia il fenomeno si è sviluppato con un

certo ritardo rispetto ad altri Paesi europei, in

modo disomogeneo e frammentato sul terri-

torio nazionale. Negli anni Settanta nelle città

di grandi o medie dimensioni aveva ripreso

piede la pratica dell'orticoltura. Si trattava di

orti individuali e per la maggior parte abusivi,

collocati sulle rive dei fiumi, a ridosso delle fer-

rovie o in altre aree urbane residuali. In linea di

massima gli orticoltori erano persone con un

basso reddito, di una certa età o pensionati.

Per loro l'orto poteva rappresentare uno sva-

go, ma più spesso era una fonte di cibo e un

modo per mantenere il legame con il mondo

contadino di provenienza. In Italia, rispetto ad

altri Paesi, mancava quindi la dimensione

sociale e ricreativa. Nel momento in cui le

Amministrazioni comunali riconoscono

l'utilità sociale degli orti e intervengono per

disciplinarli, nascono gli orti sociali (anche

conosciuti come "orti dei pensionati"), parcel-

le di terreno di proprietà pubblica date in con-

cessione a cittadini che ne facciano richiesta e

che abbiano determinati requisiti, per la mag-

gior parte anziani, sempre individuali o a con-

duzione familiare. La prima città che nel 1980

redige un regolamento comunale sui criteri

per l'assegnazione delle parcelle coltivabili è

Modena.

E' solo negli anni 2000 che si assiste alla nasci-

ta dei primi orti comunitari urbani: il movi-

mento è un fenomeno spontaneo, che nasce

dal basso, dal coinvolgimento attivo dei citta-

dini che vogliono assumersi responsabilità

rispetto alla gestione o co-gestione degli spazi

verdi cittadini, che una parte consistente del

movimento considera beni comuni. Anche

una parte di quelli che sono poi diventati orti

sociali autorizzati erano stati in precedenza

occupati dagli orticoltori con azioni spontanee

e ancora oggi esistono orti individuali abusivi

in parecchie città italiane, ma la differenza sta

nella dimensione collettiva, in quella ecologi-

ca e nella volontà di compartecipare alla

gestione della cosa pubblica, in una parola

nella dimensione politica. Gli scopi principali

del movimento degli orti comunitari sono:

- Un contatto più stretto con la natura e

con la terra, finalizzato a un maggior

benessere personale (valvola di sfogo e

possibilità di fuga dai ritmi e dagli impegni

della città);

- Il miglioramento della qualità ambientale

e paesaggistica dei centri urbani;

- Il miglioramento dell'estetica delle città,

talvolta per contrastare una situazione di

degrado urbano;

- La salvaguardia e la riqualificazione del

territorio;

- La tutela dell'ambiente, la diffusione di

pratiche ambientali sostenibili e di prati-

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che agricole eco-compatibili, reagendo ai

sistemi di coltivazione intensivi e all'uso

incontrollato di fitofarmaci e prodotti chi-

mici

- La tutela della salute tramite un migliora-

mento della qualità degli alimenti, unito al

piacere di produrre autonomamente il pro-

prio cibo;

- La promozione e l' esercizio della cittadi-

nanza attiva;

- L'elaborazione di strumenti di gestione

partecipata di spazi urbani e periurbani

marginali;

- La possibilità di incidere maggiormente,

come cittadini, nelle scelte di politica urba-

na;

- La riconquista e lo sviluppo di spazi di

socialità e di relazione;

- La proposta di attività culturali, educati-

ve, di animazione sociale, che favoriscono

l'inclusione sociale delle fasce deboli della

popolazione;

- La rottura delle barriere sociali, economi-

che e razziali, per riuscire a mettere insie-

me persone con età e backgrounds diffe-

renti.

Alla base di queste pratiche vi sono soprattut-

to i movimenti sociali che tendono a conciliare

l'ambientalismo, la rivendicazione di diritti e

l'attivismo politico. Il linguaggio usato, i valori

della solidarietà, cooperazione e inclusione

che traspaiono dai testi, la coltivazione biolo-

gica, l'agricoltura urbana in funzione di

un'economia alimentare sostenibile, le reti

alternative di vendita, il voler reinventare la

città, il considerare i beni pubblici come beni

comuni, tutti questi elementi danno prova di

un impegno verso il cambiamento, che viene

coltivato nello stesso modo in cui vengono

coltivate le piantine negli orti. Caratteristica

interessante del movimento degli orti comu-

nitari è che promuove la cultura del fare (inve-

ce di quella della rivendicazione) e non delega

più ad altri, siano pure lo stato o altre agenzie

pubbliche o private, la soddisfazione dei pro-

pri bisogni, innescando così percorsi di tra-

sformazione sociale gestiti e vissuti in prima

persona. Anche l'ottica non è per nulla sconta-

ta; in un mondo in cui prevale l'individualismo,

i partecipanti al community gardening adotta-

no strategie comunitarie, mettendo in comu-

ne i saperi e puntando sull'elaborazione collet-

tiva.

Numerosi studi e osservazioni hanno rilevato i

vantaggi che i community gardens possono

arrecare ai contesti urbani. In primo luogo van-

taggi climatici, poiché le aree urbane tendono

a trattenere il calore e a essere di alcuni gradi

più calde e le aree coltivate diventano impor-

tanti per abbassare la temperatura e bilancia-

re il clima all'interno della città. Il valore delle

case che si trovano nelle vicinanze di un com-

munity garden aumenta nel tempo, accre-

scendo le rendite immobiliari, e il Trust for

Public Land di New York ha dichiarato che i

giardini condivisi attraggono nuovi residenti e

riducono la criminalità locale, perché promuo-

vono le relazioni sociali e sono un antidoto alla

solitudine che affligge molte persone. Contri-

buiscono anche all'integrazione tra cittadini di

nazionalità, religioni e background culturali

diversi. Gli orti comunitari interculturali sono

stati pensati e progettati con questo specifico

scopo, parecchi altri non esibiscono questa

etichetta, ma sono di fatto interculturali per-

ché fioriscono in quartieri multietnici. Per

quanto riguarda la salute, chi si occupa di orti

in genere la migliora, consumando più vege-

tali freschi e mantenendo in esercizio il fisico.

I Richiedenti Terra

Era dicembre 2011, è bastato un incontro

casuale (ma forse un segno?) fra persone con

tante idee, ma mal strutturate. Alle spalle e

nel presente, da parte di alcuni, la costruzione

di un percorso, uno studio, una lotta sui beni

comuni (si era conclusa da poco la campagna

referendaria "acqua bene comune" e

l'entusiasmo della vittoria era ben presente),

la costituzione di un GAS (gruppo di acquisto

solidale), la ricerca dell'alternativa alle imposi-

zioni dell'industria agroalimentare. A ciò si

innesta un avvenimento particolare, che non

sembrerebbe centrare nulla con l'avvio di un

orto, ma in questo caso è fondante: l'arrivo in

Trentino di 211 richiedenti asilo in fuga dalla

guerra civile libica. Nel cercare di coinvolgere

alcuni di loro in attività ludiche che li potesse

includere e far passare del tempo in maniera

positiva si era sentita la necessità di nuove

forme di socialità e spazi di aggregazione.

Questa terza scintilla ha acceso una lampadi-

na nella testa dei primi incontrati: la terra! La

prima idea, forse troppo idealista, aveva fatto

pensare ad un terreno confiscato alla crimina-

lità organizzata: più grande di noi, dopo le

prime verifiche si è scoperto che sì, ce ne sono

anche in Trentino, ma sono (o erano) ancora

coperti da segreto istruttorio. Si passa allora

all'amico coltivatore biologico per passione

che vuole lasciare un pezzo del suo appezza-

mento: ancora una volta bloccati da impedi-

menti burocratici, in questo caso legati alla

certificazione biologica. Senza arrendersi, si

convoca la prima assemblea del gruppo "sen-

za terra" e, casualmente o meno, vi partecipa-

no le persone giuste: lo studente che l'anno

prima coltivava l'orto allo studentato universi-

tario di San Bartolameo, l'appassionato che

da anni sognava di creare un orto comunita-

rio, il professionista esperto di cibo biologico,

alcuni richiedenti asilo con esperienze di orti-

coltura nei loro paesi d'origine e vari curiosi

senza nessuna conoscenza in campo orticolo,

ma tanta voglia di mettersi in gioco. Da quel

momento il gruppo ha iniziato ad incontrarsi

ogni sabato, a pranzo, per tutto l'inverno, deci-

dendo di denominarsi "Richiedenti Terra".

Difficile dire oggi, a tre anni di distanza, se

l'idea abbia subito l'influenza di altre esperien-

ze di orticoltura comunitaria urbana di fuori

regione. Ad alcuni verrebbe da affermare di

no, forse altri componenti l'hanno indiretta-

mente avuta, sicuramente dopo la fondazio-

ne del gruppo ci si è iniziati ad informare. Il

primo, piccolo, orto comunitario sperimentale

di Trento è proprio nello studentato di San Bar-

tolomeo (180mq), messo a disposizione

dall'Opera Universitaria di Trento che vedeva

positivamente la presenza dei Richiedenti

Terra lì, la cura di uno spazio tendenzialmente

incolto ed il coinvolgimento degli studenti. Da

subito, però, i nuovi ortisti si erano riproposti

di trovare uno spazio più grande, sempre in

città, preferibilmente un terreno abbandona-

to da recuperare e rendere vivo. Dopo un ten-

tativo di contatto con tutte le circoscrizioni

della città di Trento non andato a buon fine

(solo la circoscrizione di Sardagna ha risposto

positivamente, e la si ringrazia), grazie agli

avvistamenti del team "fiuta terreni abbando-

nati" è stato individuato uno spazio a Villazza-

no, adiacente la stazione dei treni. Il progetto

di orto comunitario dei Richiedenti Terra è

stato quindi presentato al Servizio Attività

Sociali (aprile 2012) e giudicato "di alto valore

sociale" dalla Giunta comunale, che ha delibe-

rato di assegnarlo al gruppo, qualora si fosse

costituito in associazione, a novembre 2012.

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Una novità per il Comune, e in particolare per

il Servizio Patrimonio, la richiesta di un asso-

ciazione così variegata, e rappresentata da

molti giovani, di gestire un terreno senza

peraltro volerlo dividere in parcelle. Spiazzato,

ma non per questo restio, l'Ufficio ha assegna-

to il terreno seguendo la procedura standard

che istruisce in tutti i casi di richieste di con-

cessione di una sede "in muratura" da parte

delle associazioni.

Nel verbale di consegna del terreno si parla di

“recupero di un'area comunale incolta, di col-

tivazione biologica di ortaggi e di un orto

comunitario (non diviso in lotti e gestito tra-

mite il metodo del consenso) […] per stimola-

re situazioni ed esperienze di “felice conviven-

za” tra la terra e i suoi abitanti, promuovendo

così l'agricivismo”. Ѐ stato posto un vincolo di

destinazione a orti comunitari, quindi, almeno

per il momento, non esiste il problema della

transitorietà della concessione, anche se nel

contratto è scritto che il Comune può richie-

dere il terreno in qualsiasi momento per moti-

vi d'interesse pubblico. L'area concessa è di

circa 3000 metri quadrati, nascosta da un

boschetto anch'esso incolto di altri 4000 m2

circa, dove è necessario addentrarsi per arri-

vare all'orto. Il la ai lavori lo ha dato un corso,

tenuto a marzo 2013 dall'agrotecnico Mauro

Flora, che ha visto cinquanta persone invade-

re il terreno e porre le basi dei cumuli (utilizzati

in agricoltura sinergica) che tutt'ora utilizzia-

mo.

L'Orto Villano, questo è il nome dato all'orto,

oggi si sta preparando al suo secondo inverno,

dopo una stagione abbondante che vi ha visto

nascere ortaggi di tutti i tipi, grano saraceno,

piccole quantità di cereali (segale, frumento e

miglio), fiori - commestibili e non - ed erbe aro-

matiche, fragole e lamponi, nonchè qualche

frutto dai giovani alberi (mele, pere e albicoc-

che). A tener alta la biodiversità del luogo,

oltre alle colture diversificate e consociate in

modo da aiutarsi a vicenda nella crescita e alle

sementi antiche recuperate dall'associazione

La Pimpinella, la presenza di uno stagno con

la sua vegetazione, dove si sta aspettando

l'arrivo delle ranocchie. In quest'oasi a 10 minu-

ti di autobus dal centro della città di Trento,

dove in estate le temperature sono più soste-

nibili rispetto alla città, i Richiedenti Terra orga-

nizzano, oltre all'ordinaria manutenzione

dell'orto, pic-nic comunitari, laboratori (rico-

noscimento di erbe spontanee, cippatura,

semenzaio diffuso, eccetera), momenti di sva-

go, aperitivi musicati, visite e saltuariamente

incontri con classi delle scuole elementari. Al

di fuori dell'orto, l'associazione gestisce inol-

tre un piccolo gruppo d'acquisto solidale e

organizza eventi legati all'agricoltura e al cibo

genuini.

La partecipazione al progetto è sempre stata

aperta a chiunque. Secondo l'accordo del grup-

po, l'orto non ha una suddivisione in lotti per-

sonali, ma ogni partecipante ragiona, coltiva e

si muova sul progetto nella sua interezza, in

modo da avere il massimo della socialità e spe-

rimentare un vero percorso decisionale parte-

cipato. La semina e la coltura seguono le

modalità stabilite dal gruppo durante le

assemblee, così come la raccolta e la destina-

zione delle verdure prodotte (che fino ad ora

sono state destinate principalmente all'auto-

consumo). L'obiettivo ora è quello di aprirsi

alle arti e a nuove persone di qualsiasi età a

provenienza, per fare capire che un orto comu-

nitario ha bisogno sì di costanza e impegno,

ma si può iniziare da zero e dedicarvici il

tempo che ognuno ritiene opportuno, senza

forzature. Lo spazio c'è, e se un giorno i

Richiedenti Terra diventeranno troppi, si tro-

verà un altro spazio incolto da recuperare!

Anche a Trento, quindi, le due tipologie di orti

- sociali e comunitari - coesistono, la differen-

za principale sta probabilmente nella dimen-

sione collettiva e nel fatto di vedere l'orto

come un'attività politica: una scelta (il biologi-

co, l'autoproduzione delle sementi, il rifiuto

degli OGM e delle monocolture intensive,

ecc.) per la salute e il benessere, contro le spe-

culazioni, dalle grandi opere a quelle agricole

delle multinazionali dell'agroindustria, per

una città interculturale e aperta verso tutte le

diversità.

Orti e giardini comunitari in Provincia di

Trento

Oltre ai Richiedenti Terra (e ai già citati orti

sociali dati in concessione agli anziani), nella

Provincia di Trento esistono una decina di

altre realtà di "contadinanza" urbana o periur-

bana comunitaria. La prima in ordine di fon-

dazione è L'Ortazzo di Caldonazzo, che dal

2009 al 2013 ha gestito un appezzamento di 2terra di 3000 m , concessa dal Comune, come

orto comunitario. Dal 2014 l'esperienza

dell'orto si è (per lo meno temporaneamente)

conclusa per mancanza di partecipazione, ma

l'associazione porta avanti serate di sensibiliz-

zazione molto partecipate e un Gruppo

d'Acquisto Solidale. A Trento esiste anche

l'Orto in Villa, situato nel sobborgo di Meano,

interessante progetto di orto didattico nato

per volontà dell'Ecomuseo dell'Argentario in

collaborazione con la ProLoco locale. Il pro-

getto concentra la sua attenzione sulla coltura

delle erbe officinali e spontanee, ma punta

anche a coinvolgere volontari nella gestione

comunitaria, benché non si fondi su un model-

lo di autogestione tipico degli orti condivisi. A

Rovereto l'Associazione OrtiCorti gestisce due

orti, uno molto piccolo nel cortile di una scuo-2la, l'Orto Brione, e uno di quasi 2000 m alla

confluenza fra il fiume Adige e il torrente Leno

(per questo chiamato Orto Leno), per conce-

dere il quale l'amministrazione comunale ha

chiesto all'associazione una serie di adempi-

menti burocratici, anche piuttosto costosi.

Entrambi gli orti sono coltivati secondo i prin-

cipi dell'agricoltura sinergica. A Pergine Valsu-

gana sono presenti tre orti comunitari: uno di 2circa 100 m all'interno del Parco Tre Castagni,

nato nel 2012 nell'ambito del progetto euro-

peo Together, a cui il Comune aveva aderito,

che prevedeva la sperimentazione di un meto-

do di democrazia partecipativa. L'organiz-

zazione generale ed i rapporti con l'amminis-

trazione sono gestiti da uno dei membri

dell'orto, pagato (per un periodo) come colla-

boratore del Comune; il secondo gestito dalla

Banca del Tempo di Pergine e Sant'Orsola ed il

terzo, in fase di progettazione, dell'Associa-

zione Rastel, sorgerà all'interno del Bioparco

del Rastel. A Levico Terme il comitato Local-

Menti, che fa parte del network per la Decre-

scita Felice, gestisce il C-Orto Corrente secon-

do i principi della coltivazione sinergica. Il

Movimento per la Decrescita Felice Alto-2Garda cura un orto comunitario di 300 m chia-

mato "Se Pòl", su un terreno concesso da un

privato nella località di Linfano, Riva del Gar-

da. L'orto nasce all'interno di un progetto più

ampio finanziato dal Piano Giovani di Zona

Alto-Garda Ledro dal titolo “FarmAzione, brac-

cia ridate all agricoltura”: un corso di agricol-

tura sinergica ed open-source ecology. Infine a

Lavis, sull'altopiano della Paganella e a Dro

sono nate da poco, o sono tuttora in progetta-

zione, altre realtà di orti condivisi.

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Sebbene non possano essere classificati come

orti comunitari, è importante segnalare la pre-

senza crescente di orti all'interno delle scuole

elementari (soprattutto) e medie, da Trento

alle valli. L'obiettivo dell'orto, in questo caso, è

prettamente educativo e ovviamente sono

insegnanti e/o formatori esperti a coordinarne

i lavori. Negli orti didattici la coltivazione viene

vista come utile strumento per applicare nel

concreto nozioni apprese in classe, ma anche

come attività che facilita più in generale lo svi-

luppo cognitivo e fisico dei bambini. Nel comu-

ne di Mezzolombardo sta nascendo un parti-

colare progetto di orto didattico in collabora-

zione fra la scuola, la casa di riposo e alcune

associazioni di volontariato locali.

Conclusioni

E' impossibile rintracciare una sola causa

all'origine della nascita degli orti comunitari:

alcuni orti sono nati con intenti didattici e

pedagogici o come spazi dove sperimentate

forme di democrazia diretta e partecipata;

altri rappresentano una via innovativa di

socializzazione ed integrazione sociale; altri

ancora anelano a diventare un modello possi-

bile di cambiamento reale nello stile di vita e

di consumo anche al di là dei ristretti confini

del terreno di cui si occupano. I community

gardens trentini non rappresentano ancora

una realtà strutturata, istituzionalizzata e pie-

namente integrata nel territorio. Il fenomeno

di diffusione di queste forme di agricoltura

urbana e periurbana è ancora in una fase di

sperimentazione ed acerbi risultano anche i

rapporti stretti con le amministrazioni pubbli-

che.

A differenza di molte regioni italiane in Trenti-

no non esistono orti comunitari occupati;

sono sorti infatti o su terreni privati o su terre-

ni concessi dai rispettivi Comuni in seguito alla

richiesta formale da parte di associazioni nate

proprio in relazione alla volontà di ottenere

una terra da coltivare collettivamente. Le

amministrazioni comunali hanno di volta in

volta proposto soluzioni legali ad hoc per

affrontare una richiesta nuova e fuori dagli

schemi ordinari di gestione degli spazi verdi

comunali. L'ambito normativo-istituzionale è

stato lasciato in mano alla discrezione dei fun-

zionari pubblici che hanno valutato da caso a

caso le modalità, le forme, le condizioni e la

durata della cessione. Esiste ancora una certa

difficoltà, da parte delle Amministrazioni, a

comprendere il popolo degli ortisti.

La percezione che gli attivisti di un giardino

condiviso hanno di se stessi e che, in qualche

modo, trasmettono anche agli altri, è quella di

costituire un interessante laboratorio di ela-

borazione e sperimentazione. La gestione

comune di un orto porta a esplorare alcuni

campi, quali i processi decisionali per consen-

so e non per maggioranza, i conflitti interni al

gruppo e la loro gestione e l'organizzazione

collettiva delle attività di coltivazione e, nello

stesso tempo, richiede di avere rapporti con

l'Amministrazione pubblica e di trovare solu-

zioni creative nell'ambito della partecipazione

civica. Gli orti/giardini si collocano nel punto

d'incontro di campi cruciali per definire

modelli di vita alternativi a quelli attualmente

dominanti e nel punto d'intersezione tra pub-

blico e privato. Da questo punto di vista pos-

sono essere considerati un movimento politi-

co sui generis che prende in considerazione

temi finora poco valutati dalla politica attiva e

in genere esaminati separatamente. Dal

punto di vista relazionale gli orti costituiscono

la risposta a un bisogno crescente di socialità

che non sia vuota ed effimera, ma che coltivi

significati. Sono forme di aggregazione aper-

te ai quartieri dove sono situati, che dimostra-

no, in genere, grande capacità d'inclusione

anche verso categorie svantaggiate, che

vanno dai migranti ai disabili. I giardini condi-

visi sono per definizione interculturali, a pre-

scindere dalla presenza o meno di migranti,

poiché ospitano persone assolutamente ete-

rogenee per età, condizione sociale, backgro-

und culturale e provenienza nazionale. Quelle

sperimentate nei community garden sono stra-

tegie inclusive, che rafforzano la coesione

sociale tramite la solidarietà e la cooperazione

tra persone e gruppi e per mezzo della condi-

visione e diffusione dei saperi e delle pratiche,

che superano il carattere privatistico della

conoscenza.

Note:1. In Gran Bretagna nel 1939 viene lanciata la campagna “Dig for Victory” (zappa per la vittoria), con incentivi pubblici destinati per creare i cosiddetti “victory gardens”, considerati utili sia per l approvvigionamento che come strategia per tenere alto il morale della popolazione. Negli stessi anni, in Italia, il regime fascista avvia le politiche autarchiche, che si avvalgono anche degli orti, e intraprende la battaglia del grano, arrivando a coltivare a frumento anche piazza Duomo a Milano. In tutto l'Occidente campagne mediatiche (stampa, radio, ecc.) esortano i cittadini a trasformare qualsiasi terreno utile (parchi pubblici, campi sportivi, aree edificabili non utilizzate, ecc.) in orti e giardini per la produzione alimentare.2. Il termine guerrilla gardening è applicato in situazioni differenti per descrivere forme di giardinaggio radicale attraverso atti dimostrativi di forte impatto comunicativo, chiamati “attacchi” verdi, che si oppongono attivamente al degrado urbano agendo contro l'incuria delle aree verdi pubbliche. Sono tutte forme di giardinaggio “politico”, non violente e nella maggior parte dei casi illegali. Azioni tipiche sono la piantumazione di fiori all'interno delle aiuole pubbliche o alla base degli alberi che popolano le strade, il lancio delle bombe di semi, allestimenti temporanei con materiali di riuso o la predisposizione di veri e propri giardini all'interno di aree degradate. 3. Cioli S., Mangoni A., D'Eusebio L., 2012, Come fare un orto o un giardino condiviso, Terre di Mezzo ed., Milano4. I richiedenti asilo non possono lavorare nei primi sei mesi dall'arrivo in Italia.

Bibliografie- Bussolati M., 2012, L'orto diffuso. Dai balconi ai community garden, come cambiare la città coltivandola, Orme Editore, Roma.- Pasquali M., 2008, I giardini di Mahattan. Storie di guerrilla gardening, Bollati Boringhieri, Torino.- Restelli G., 2013, Gli orti comunitari: struttura, multifunzionalità e diffusione. Il caso del comune di Milano, tesi presentata all'Università di Agraria di Milano - a.a. 2012/13 - disponibile alla consultazione su ortodiffuso.noblogs.org - Cioli S., Mangoni A., D'Eusebio L., 2012, Come fare un orto o un giardino condiviso, Terre di Mezzo ed., Milano

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Smuoverele acque

di Luca Bertoldi*

Il cambio di destinazione d'uso della copertura

dell'Autosilo di Trento da posteggi ad orti urba-

ni è una delle proposte nate in seguito allo stu-

dio di ricerca interdisciplinare sulle zone di San

Martino e Centa condotto nell'anno 2012.* Il

progetto di ricerca supporta il fenomeno quar-

tiere nel capoluogo trentino come elemento

terzo nella dialettica serrata tra la diffusione

viabilistica e il formalismo centripeto. Il mito

del fiume che giustificava la nascita del borgo

come dogana ad est e favoriva l'attività agri-

cola ad ovest si perpetua oggi attraverso la

viabilità a senso unico di via Brennero sia in

termini di separazione tra le parti che di occa-

sione economica. Il quartiere si comporta da

giunto di dilatazione nell'assorbire le spinte

alterne in direzione nord-sud del centro stori-

co e della periferia: ad est il borgo di San Marti-

no guarda al centro città e sopperisce alla

penuria di superficie condivisa attraverso pra-

tiche informali di occupazione e adattamento,

ad ovest la zona di Centa si perde nel reticolo

viario moderno e negli specchi degli edifici isti-

tuzionali progettati a tutto lotto e vuoti dopo

le cinque del pomeriggio.

Ai tre lotti rotatoria inscritti nella vecchia ansa

del fiume sono rimandate le relazioni trasver-

sali tra le parti. Si tratta di tre lembi di suolo

adibiti rispettivamente ai servizi di posteggio,

commercio e verde, dove l'incontro informale

tra la città storica e quella moderna ha partico-

lare evidenza: l'assemblaggio di abitazioni di

inizio secolo ad attività commerciali degli anni

Ottanta e Novanta, l'alternanza tra le archeo-

logie del vecchio quartiere ferroviario e i nuovi

servizi per la viabilità contemporanea, gli

interstizi di spazio scartato dalle stratificazioni

che mantengono i lotti porosi e esplorabili. Le

proposte progettuali vogliono mettere in rela-

zione il capitale sociale fervente del borgo sto-

rico con quello spaziale e di sevizio di Centa,

guardando quindi al valore potenziale di que-

sti tre lotti di confine nell'attivazione di dina-

miche di percezione e uso trasversali alle zone.

Nello specifico la proposta che riguarda il lotto

più a sud di confine con il centro storico preve-

de la costruzione di 70 orti di dimensioni varia-

bili tra i 25 e i 35 metri quadrati a 18 metri di

quota. L'Autosilo Buonconsiglio occupa tutta

la metà occidentale del lotto allungato e a que-

sto deve la sua linea curva. Sotto la struttura

scorre interrato l'Adigetto che dà ragione alla

soluzione fuori terra del parcheggio e alla con-

seguente sproporzione in quota pensata per

limitare l'impatto ambientale dell'edificio sul

piano strada del quartiere. Gli sforzi di conteni-

*Luca Bertoldi. Laureato in Ingegneria-Architettura a Trento, ha frequentato la Escuela Superior de Arquitectura di Granada e l'Universität der Künste di Berlino. L'articolo è tratto da “Smuovere le acque. Sui metodi pertecipativo e gentrificatorio nell'approccio alla città contemporanea. Il caso delle zone di Centa e San Martino in Trento.”A-A 2011-2012 ,Università degli studi di Trento, Facoltà di Ingegneria, Corso di studi in Ingegneria Edile Architettura.Tesi di Luca Bertoldi.Relatori: Alessandro Franceschini, Raffaele Mauro. Corelatori: Renato Bocchi, Andrea Mubi Brighenti.

IL LABORATORIO TRENTINO2

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mento dell'altezza tra i solai dei quattro piani

sopraelevati ne sacrificano le possibilità di

riuso senza assolvere tuttavia l'Autosilo dal

ruolo di maggior ostacolo percettivo tra San

Martino e Centa. Ogni piano sopraelevato ha

una capienza di 142 posteggi auto, al piano

terra la pianta alterna gli ingressi e le uscite

carrabili e pedonali a servizi commerciali lega-

ti alla viabilità. La lezione progettuale di De

Carlo di prevedere sul confine del quartiere

infrastrutture viarie riconvertibili in spazi abi-

tabili sotto a piazza della Mostra, può qui esse-

re messa in pratica solamente sull'ultimo

piano scoperto.

I parcheggi di copertura risultano pressoché

inutilizzati e dunque di irrisoria incidenza sulle

entrate dell'attività: la sosta a breve termine a

18 metri di quota non è competitiva rispetto ai

parcheggi a livello strada presenti nel quartie-

re, mentre la sosta a lungo termine a parità di

costi è preferibile al coperto dei piani inferiori.

Il quarto piano dell'Autosilo, l'ultimo coperto,

è riservato alle vetture dei dipendenti provin-

ciali che lavorano negli uffici nella zona di Cen-

ta, è quindi in affitto all'istituzione. Queste

sono le osservazioni secondo le quali si propo-

ne l'uso a coltivazione dell'ampia superficie di

3000 metri quadrati attraverso l'affitto della

copertura a carico di enti quali ad esempio

Itea, di importante presenza nel quartiere di

San Martino, le Cooperative attive nel recla-

mare momenti di spazio pubblico oppure le

stesse istituzioni Comune o Provincia familiari

a tale pratica. Va considerato che un affitto

anche agevolato del piano di copertura rap-

presenterebbe un'entrata costante nella

gestione dell'Autosilo. A supporto della con-

versione esistono inoltre incentivi europei alla

pratica dell'orto urbano vincolanti in termini di

estensione minima della coltura a 50 metri

quadrati e di gestione del servizio e che per-

metterebbero all'ente esterno di accedere ad

una terza soglia di finanziamento in termini di

agevolazione sull'affitto, oppure all'ente di

gestione dell'Autosilo di accedere ad una

seconda soglia di finanziamento in termini di

gestione della realizzazione.

Il progetto prevede l'accorpamento di più

moduli coltivabili e la loro disposizione lungo i

lati della pianta, in tal modo gli intervalli tra le

colture possono facilitare l'attività agricola,

ma anche permettere una passeggiata conti-

nuativa centrale con alcuni episodi di affaccio

laterale. Gli orti sono inoltre dotati di una cas-

sapanca che funge da deposito attrezzi oltre

che agevolare i momenti di sosta. Gli spazi

liberi di risulta dai raggruppamenti dei lotti

coltivati permettono la manovra e la condivi-

sione.

Le caratteristiche tipologiche e normative

della copertura semplificano la conversione

da parcheggio ad orto ad esempio in termini

di cantierabilità e di barriere architettoniche.

Oltre alle rampe di accesso carrabile la strut-

tura offre due scalinate posizionate agli estre-

mi della pianta e un'ascensore centrale. La

quota a 18 metri garantisce l'esposizione della

coltura e la capacità portante della copertura

permette il trattamento a verde intensivo di

tutta la superficie.

La pratica dell'orto è interessante per i costi

contenuti di allestimento, ma anche in quanto

la sua manutenzione è connaturata all'attività

stessa. Inoltre le colture sono una risposta in

termini di verde pubblico alle esigenze emer-

se dalle interviste qualitative effettuate ad un

campione di 102 abitanti riguardo al migliora-

mento del quartiere. Tutte riportano com-

menti sulla mancanza di verde e laddove pre-

sente, ad esempio nel parco di piazza Centa,

ne è denunciata la problematica accessibilità.

Oltre ai benefici personali dell'auto-

produzione, il rapporto con la natura, trasver-

sale rispetto a tutte le categorie sociali, può

essere attivatore di dinamiche relazionali in

uno dei quartieri più eterogenei della città. La

luce e il verde raggiungibili in copertura com-

pensano la visione infrastrutturale e fuori

scala che si ha dell'edificio dal piano strada

con effetti sull'immagine di tutto il quartiere,

dalle viste panoramiche della Cervara fino a

quelle di chi lavora negli uffici limitrofi di qual-

che piano più alti dell'Autosilo.

Il progetto prevede anche la possibilità di una

soluzione di collegamento verticale sul lato

est così da favorire l'eventuale indipendenza

dell'attività di copertura da quella sottostante,

ma anche la frequentazione da parte degli

abitanti di San Martino dando senso

all'innesto trasversale tra il lotto e una delle vie

del borgo storico. Anche gli interstizi tra

l'Autosilo e gli altri edifici possono favorire la

circolazione interna al lotto con effetti sulle

strutture abbandonate come ad esempio il

vecchio asilo del quartiere ora murato. Nello

specifico l'interstizio a sud del lotto assume il

ruolo di entrata al quartiere supportato for-

malmente della forma cilindrica in facciata

dell'Autosilo mutuata dai torrioni del castello,

da Torre Verde e già riproposta nella soluzione

d'angolo di Libera per le scuole Raffaello San-

zio. Ricucendo la cinta muraria si nobilita la

parte moderna del quartiere di un'entrata

pedonale con l 'effetto di attenuare

l'eccentricità delle zone.

Da un punto di vista macroscopico in un

momento in cui Trento si trova a sostenere

l'immagine di città fluviale ha senso interveni-

re in maniera ecologica e informale laddove

questo fiume è ora assente a seguito della più

ingente deviazione di un corso d'acqua avve-

nuta sul continente. L'intervento di riciclo di

spazio infrastrutturale sancirebbe poi un

gemellaggio con quello delle Gallerie di Piedi-

castello con conseguente affiliazione tra quar-

tieri rispetto al loro ruolo nella città. La terraz-

za verde ricuce inoltre l'antica passeggiata

romantica che collegava il parco di piazza

Dante con quello di Centa sollecitando così il

recupero di tutta la mezza luna di dialogo tra

la città storica e quella moderna.

La proposta è pensata intrinsecamente soste-

nibile per gli enti a cui è stata presentata

secondo una linea progettuale cosiddetta

debole, ovvero di basso costo, breve realizza-

zione, di riconversione funzionale e riciclo di

spazi, quindi ecologica a priori, in fieri perché

partecipata e con effetti sull'intorno a lungo

termine. Ciò può avvenire innescando sistemi

con le risorse spaziali, storiche e sociali già pre-

senti nel quartiere.

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Una ipotesi di riorganizzazione

della copertura del manufatto da posti

auto (142) a lotti coltivabili (70).

L’autosilo di Trento nel suo contesto urbano. I lotti coltivabili

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Buone pratichedi ri-uso del territorioL’esperienzadella Val di Cembra

diSergio Paolazzi*

Questo articolo sulla Valle di Cembra è ricava-

to in parte da una guida di prossima pubblica-

zione¹: partendo da un'ampia e necessaria ana-

lisi storica e sociale, verranno evidenziate le

nuove forme di sviluppo agricolo. Una relazio-

ne forse più della cultura, degli studi e delle

esperienze come metodo necessario per

ripensare un territorio, che dei sistemi di colti-

vazione. Dopo una descrizione geografica del

paesaggio agricolo, si parlerà delle antiche

Regole e del ruolo del sacro: due elementi fon-

danti e sedimentati nella cultura locale. Quindi

verranno esposti gli interventi che hanno inte-

ressato la collettività in ambito agricolo ed i

progetti in corso.

Solcata dal torrente Avisio che dalla Marmola-

da confluisce nell'Adige all'altezza dell'abitato

di Lavis, a nord di Trento, occupa una superfi-

cie di circa 135 kmq comprese tra la quota mini-

ma di 240 metri alla forra di Lavis e i 2452

metri del Lagorai.

È caratterizzata da piccoli centri abitati, ada-

giati su pendii o al limite di pianori di origine

glaciale.

Le prime testimonianze di insediamenti risal-

gono all'età del bronzo: tra i reperti anche una

serie di falcetti utilizzati nella lavorazione dei

campi. Le aree abitate erano sicuramente quel-

le climaticamente ben esposte e con facilità di

vita stanziale, necessarie all'agricoltura.

La particolare conformazione e la discreta

distanza dal fondovalle hanno garantito nel

corso dei secoli un isolamento sociale e cultu-

rale dei centri abitati, collegati fino a metà

Ottocento da mulattiere o sentieri poco prati-

cabili.* Sergio Paolazzi, architetto libero professionista. Originario della Val di Cembra, vive e lavora a Riva del Garda

IL LABORATORIO TRENTINO2

I posti determinano i materiali, i posti determinano il tipo dicoltivazione e di viabilità. Poi diventa un circolo che si auto-alimenta e se tutte queste cose determinano il carattere ormaisedimentato di una popolazione, è anche vero il contrario. E. G. Cecchi

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La Valle di Cembra è una valle orizzontale

La Valle di Cembra è caratterizzata dalla pre-

senza di elementi paesaggistici specifici, che

la rendono in tal modo suggestiva ed unica. Se

pensiamo alla Valle in termini puramente geo-

metrici, si potrebbe dire che è definita preva-

lentemente da tre tipi di linee: orizzontali, obli-

que e verticali.

Le linee orizzontali sono quelle prevalenti,

determinate dalle centinaia di chilometri for-

manti le murature a secco. Costituiscono, di

fatto, la volontà secolare degli abitanti, di age-

volare il lavoro dei campi, con il fine di rendere

omogenea la lavorazione. La coltivazione

della vite con il sistema “orizzontale” della per-

gola trentina è rimasto tale per centinaia di

anni: l'introduzione di filari verticali e coltiva-

zioni tipo Guyot² è relativamente recente.

L'orizzontalità del paesaggio è quindi definita

dalle murature a secco che, in ragione della

loro posizione geografica, cambiano “trama e

ordito”. La pietra prevalentemente utilizzata è

il porfido, da sempre la matrice di tutte le

costruzioni, di cui possiamo notare, partico-

larmente in sponda sinistra, lo sfruttamento

delle cave. Nella tessitura generale, le mura-

ture a secco sono definibili in due categorie

prevalenti, distinte per tipologia di pietra uti-

lizzata: a spacco da materiale reperito in cava

e quindi lavorato; naturale, se la pietra è recu-

perata in loco nel corso della bonifica dei depo-

siti glaciali o se raccolta direttamente nel

greto del torrente Avisio. Questa diversa tessi-

tura è quindi collegata alla distanza dall'Avisio

o dai suoi affluenti che, oltre a garantire la

materia prima per la realizzazione delle mura-

ture a secco, fornivano i sassi per la produzio-

ne della calce, utilizzata poi nelle costruzioni

civili. La realizzazione con le pietre raccolte dal

torrente, arrotondate dai millenari processi di

levigatura, prima dai ghiacciai e successiva-

mente dall'impeto dell'acqua, necessitava

certamente di maggiore abilità e competenze

costruttive, un'arte che ormai è quasi scom-

parsa. Nelle murature realizzate con pietra a

spacco di cava, distanti talvolta anche diversi

chilometri, è possibile notare la diversa com-

posizione geologica della pietra che è diversa

zona per zona.

Le linee oblique sono rappresentate dalle

numerose strade che dai centri abitati si dira-

mano sinuosamente nell'orizzontalità dei

campi. Prendono ognuna un proprio nome in

un rapporto di convivenza e familiarità, forse

un modo non solo per distinguerle o catalo-

garle, ma anche di rispettarle e di farle “pro-

prie”. Le linee oblique disegnate dalle Cavade,

ora divenute strade interpoderali, immettono

principalmente nei fondi agricoli³. Le località

di campagna a loro volta rivelano una topono-

mastica molto articolata, spesso una chiave di

lettura per comprenderne la storia: tra i nomi

con radice che rammenta l'attività agricola

ritroviamo Ceole⁴; località che prendono il

nome dall'antica viabilità sono Camin e Sora-

pont; nomi che rivelano la presenza di acqua

sono invece Ischia e, secondo la lettura sinora

proposta, Saosent; molto diffusi i nomi colle-

gati alla produzione o situazione agricola,

quali Nogarè, Nogarìo (con il significato di “bo-

sco di noce”), Ronch, (che rammenta la messa

a coltura di nuovi terreni, i “ronchi”) e Casele o

derivanti dalla presenza di antiche chiese

come San Giorgio, Floriano, Leonardo, Rocco.

I “collegamenti obliqui” conducono talvolta a

masi tuttora esistenti, documentati a partire

dal XIII secolo in diversi urbari, tra cui quello

dei Conti di Tirolo⁵. I masi possiamo conside-

rarli come un prototipo dell'abitato tradizio-

nale cembrano. Costruire, significa collabora-

re con la terra, imprimere il segno dell'uomo

su un paesaggio che ne resterà modificato per

sempre⁶.

I centri abitati si sono sviluppati in totale sim-

biosi con il territorio circostante: quello che

inizialmente poteva essere un insediamento

famigliare si è di volta in volta esteso privile-

giando le costruzioni lungo le vie / strade/ sen-

tieri costruiti nel corso del tempo, o edificando

insediamenti autonomi e staccati -masi- con

un contorno delineato e preciso. Il maso si

costruisce per elementi fondanti unici e

necessari: la stalla, la cantina, la cucina e la

stanza. Il sottotetto o un edificio adiacente

serviva da fienile. I figli maschi tradizional-

mente continuavano a vivere nel maso

costruendosi per loro una cucina ed una stan-

za in aderenza a quella del padre o spesso

vivendo tutti negli stessi spazi. Le baite sparse

nella campagna invece, erano costruite come

deposito e stalla per l'animale che i contadini

si portavano appresso: due livelli, due porte,

due destinazioni diverse ma fortemente lega-

te.

Se la casa è intesa come il luogo di coabitazio-

ne tra uomo e animali, è necessario prevedere

nei suoi spazi limitrofi quanto necessario alla

vita di entrambi. Spazi coltivati, fasce, la cui

distanza è proporzionale alle necessità prima-

rie. La prima fascia a ridosso delle abitazioni è

occupata quindi dagli orti, risorsa alimentare

che necessita per cure e gestione di una pre-

senza pressoché quotidiana. Quando è possi-

bile, sono esposti verso sud e riparati dai venti

freddi che giungono da nord.

La seconda fascia è costituita dalla campagna

coltivata, con precedenza ai terreni da arare e

seminare per garantirsi quelle risorse essen-

ziali da conservare e consumare nella stagio-

ne fredda.

La terza fascia, fino a quote idonee, è occupa-

ta dai vigneti, disposti orizzontalmente sui

campi terrazzati e più raramente da frutteti.

La quarta fascia è invece uno spazio destinato

alla fornitura di legna, legname e foraggio per

gli animali: comprende il bosco e i pascoli.

La terra e le sue Regole

Nel Medio Evo, la maggior parte delle Alpi

erano abitate da contadini liberi, fatto questo

abbastanza insolito in un'Europa in cui era dif-

fuso l'istituto della servitù della gleba⁷. Le

popolazioni residenti hanno quindi beneficia-

to nel corso dei secoli di particolari privilegi

che garantivano una sorta di autogestione del

territorio, dove in cambio del diritto di coltiva-

zione -raggiunto grazie al dissodamento di

territori boscati e spesso impervi- veniva ver-

sata la Decima al signore a capo della giurisdi-

zione. Esistevano delle leggi molto severe per

la gestione e coltivazione del territorio: un

sistema di controllo pubblico che prendeva il

nome di Regola/e.

L'Istituto delle Regole era una consociazione

delle famiglie originarie⁸ del luogo che aveva-

no proprietà e diritti in comune di boschi e

pascoli rigorosamente indivisi. I primi docu-

menti scritti a partire dall'inizio del millecin-

quecento ci confermano questa particolare

forma di libertà ed autonomia. Forniscono

informazioni utili alla comprensione di alcuni

aspetti della vita sociale ed economica delle

comunità rurali di un tempo.

Nelle regole dei vari comuni della Valle possia-

mo ritrovare ad esempio l'obbligo di recintare

i campi, il divieto di portare i cani nei campi

durante la vendemmia, la data di inizio della

stessa e tutta una serie di risarcimenti per

eventuali danni provocati da terzi o da animali

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altrui al pascolo. Tra i divieti più curiosi, quello

di “vagare per la campagna, ovvero nelle val-

li”, al mattino o alla sera, rispettivamente

prima e dopo i rintocchi dell'Ave Maria. Impor-

tanti poi le figure di sorveglianza dei boschi e

delle campagne (saltàri) che duravano in cari-

ca un anno. Sia i campi, sia i boschi erano colti-

vati: vigevano regole severe per il taglio delle

piante con particolare attenzione a quelle

destinate alla costruzione delle pergole. Era

anche prevista una riserva pubblica di legna-

me: ecco allora che ogni paese aveva il suo

bosco protetto, dove il taglio era concesso

solo per opere pubbliche o in seguito a gravi

calamità. Il toponimo di questo bosco è anco-

ra presente in molti comuni e varia da Gaggio,

a Gazzi, a Ga-ch.

La terra e il sacro

Il simbolismo religioso è un'impronta presen-

te e distinguibile su tutto il territorio sotto

forma di edifici per il culto ma anche in forma

di simboli “minori”: lapidi o croci a ricordo di

morti tragiche, crocefissi o capitelli che

segnano l'incrocio di strade, o posti a prote-

zione di un passaggio sull'acqua; qualche gran-

de croce, a ricordo della sepoltura sempre

fuori dall'abitato, dei morti per colera o peste.

I capitelli -già presenti in epoca romana- sono

collocati presso le diramazioni delle strade o

crocevia, luoghi ritenuti d'incontro tra sacro e

profano. Luoghi che quindi dovevano essere

protetti.

Tra i riti religiosi c'erano le rogazioni, dal latino

rogatio, preghiera: pubbliche processioni di

supplica, accompagnate dalla recita delle lita-

nie dei santi, compiute per propiziare un buon

raccolto. Era una pratica già presente prima

del cristianesimo che, intollerante verso que-

sto culto pagano legato visceralmente alla

madre terra, tentò di abolirlo introducendo al

suo posto analoghe devozioni.

Questo antico rituale è ancora in auge in pochi

paesi e si celebra con processioni primaverili in

direzione dei luoghi della fede esterni

all'abitato, o che almeno lo erano prima

dell'urbanizzazione diffusa; questi luoghi rap-

presentavano una sorta di finisterrae del pae-

se. Era una specie di benedizione del territo-

rio: un rituale per tener fuori dal sacro recinto,

marcato con il passaggio della processione, il

male; una sorta di esorcismo. Non a caso,

tutte le leggende e racconti delle Gua-

ne/Uane, Cavezai, Om selvadek, trovavano

ambientazione oltre questo confine, dove il

terreno non era sacralizzato. La processione

ha lo scopo di battezzare la terra, rendendola

immune dagli attacchi malevoli; in questo

modo entra a far parte della comunità.

L'abbandono

Come la maggior parte degli abitati di monta-

gna, un notevole calo demografico si è mani-

festato in corrispondenza dei grandi flussi

migratori in particolare verso l'America tra

fine Ottocento ed inizi Novecento e verso il

fondovalle, con la richiesta di manodopera nel

settore industriale in pieno boom economico

post bellico. L'alluvione del novembre1966

con le esondazioni dell'Avisio e le numerose

frane, ha decretato la fine dei pochi masi anco-

ra abitati non solo della parte alta della Valle,

ma anche dei vicini comuni di Capriana e Val-

floriana.

All'abbandono delle case nelle piccole frazioni

legate ad economie agricole di sussistenza, è

conseguito l'abbandono della terra, innescan-

do un processo di rinselvatichimento del terri-

torio. Hanno resistito a questi fenomeni solo i

centri della bassa e media valle mantenendo

la loro forte vocazione agricola. Poi, paesi

Come Albiano, Lona, Lases nel secondo dopo-

guerra si convertono alla coltivazione delle

cave di porfido soppiantando completamente

l'agricoltura.

Tutte queste premesse ci aiutano a compren-

dere il forte legame con la terra e il profondo

rispetto maturato nel corso del tempo.

Buone pratiche di ri-uso del territorio

L'agricoltura ed in particolare la monocultura

della vite, dopo un calo sensibile durato diversi

decenni, ha visto un recupero di terreni

abbandonati grazie anche a sistemi di mecca-

nizzazione e all'introduzione, oltre che a

nuove metodologie di coltivazione, di vitigni

adatti al clima ed ai terreni cembrani.

E' dei primi anni Ottanta del secolo scorso la

prima Carta Viticola ad opera della locale Can-

tina Sociale, documento che modificherà il

modo di coltivare ed intendere il vigneto.

Alla Carta fece seguito alcuni anni dopo il “Pro-

getto Qualità”, necessario per differenziarsi e

farsi conoscere in un mercato sempre più esi-

gente ed attento alle specificità territoriali. Da

questo momento la produzione della Cantina

“fu orientata verso forme di conduzione inte-

grate con limitazione della concimazione chi-

mica a favore dell'utilizzo di concimi organici,

all'adozione di tecniche di difesa meno gene-

riche e più mirate al patogeno ed alla sua fase

di sviluppo, all'introduzione di pratiche agro-

nomiche di gestione a verde del vigneto,

moderne ed efficienti, per il controllo

dell'equilibrio vegeto-produttivo, quali il dira-

damento e la defogliazione”⁹. Si ottengono

con queste modalità vendemmie selezionate

e differenziate, dove tutto il ciclo vegetativo è

assistito e seguito dai produttori grazie anche

alla formazione teorica dispensata dalla Can-

tina stessa.

Segue quindi la Zonazione, un progetto inter-

disciplinare teso a individuare l'ambiente idea-

le al raggiungimento della massima espres-

sione qualitativa dei propri vini. A questo pro-

getto appartiene l'elaborazione della Carta dei

suoli, una vera e propria mappatura dei terreni

ad uso vitivinicolo. Ne individua le varie tipolo-

gie allo scopo di acquisire precise e più vaste

conoscenze scientifiche da tradurre poi in

conoscenze per il miglioramento complessivo

del prodotto, dell'immagine e della commer-

cializzazione. La zonazione tiene conto inoltre

di fattori come il clima, le condizioni geo-

pedologiche, la pratica agronomica, l'altitu-

dine, l'esposizione, la giacitura, tutti presup-

posti per determinare la qualità dei vini. Il pro-

getto ha interessato circa 2000 ettari ubicati

tra Trento e Salorno e fra Lavis e Grumes.

Recitano un ruolo importante anche le canti-

ne private e si osservano a partire dagli anni

Novanta il recupero di terreni abbandonati o

non più redditizi; talvolta sono delle vere e pro-

prie sfide per reinvestire a quote quasi proibi-

tive (800/900 mslm) in vigneti sperimentali

che aprono nuovi orizzonti colturali. Viticoltori

che diventano precursori delle tendenze più

recenti, indirizzate alla riscoperta di territori e

prodotti autoctoni, abbandonando sempre

più spesso la coltivazione dei vitigni interna-

zionali.

In questo processo di ripensamento viticolo, le

pergole a filari orizzontali iniziano a sparire,

lasciando il posto ai filari a parete verticale:

forse l'unico neo di questa rivoluzione coltura-

le.

Se da una parte i comuni ad alta vocazione

viticola hanno visto recuperate ormai tutte le

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zone agricole abbandonate a quote inferiori ai

650 metri grazie anche alla sistemazione della

viabilità interpoderale, dall'altra rimangono i

comuni dell'alta Valle e quelli soggetti alla mas-

siccia coltivazione delle cave di porfido con la

quasi totalità di terreni ancora incolti ed

abbandonati. Le principali difficoltà di recupe-

ro di questi terreni sono dovute all'alta parcel-

lizzazione agricola e molto spesso alla carenza

di strade idonee alle moderne lavorazioni.

Solo in parte il completo abbandono è stato

bloccato grazie all'introduzione a partire dalla

fine degli anni settanta, della coltivazione dei

piccoli frutti e sporadicamente di fiori ed erbe

officinali, consentendo così l'insediamento di

nuove aziende agricole, bloccando in parte la

continua emorragia demografica.

Un territorio che dialoga: socialità econo-

mia cultura

Uno dei punti di forza del mantenimento, e

quindi anche del recupero, dei terreni agricoli

è dato dalla capacità di lavorare in gruppo,

stabilendo al proprio interno metodi, criteri e

regole. Che sia qualcosa di insito nella cultura

locale pare scontato: forse le Regole centena-

rie hanno sedimentato nella popolazione un

senso civico e di collaborazione altrimenti

inspiegabile. Ma vi è anche una voglia di cono-

scere e scandagliare il territorio da parte dei

suoi abitanti, riscoprendo quei luoghi abban-

donati o fino ad oggi semi-sconosciuti. Tra

camminate promosse da associazioni locali,

festival teatrali, incontri e proposte didattiche,

nel corso dell'ultimo decennio è nata la consa-

pevolezza del patrimonio agricolo presente.

Poi i corsi di formazione, seminari e dibattiti

proposti direttamente dalle cooperative per

formare i propri soci o da enti che scommet-

tono sul territorio come risorsa per le genera-

zioni future.

Tra i ruoli primari quello dei Consorzi di miglio-

ramento Fondiario, presenti pressoché in tutti

i paesi, che garantiscono e gestiscono tutta

una serie di servizi necessari all'agricoltura

quali la viabilità, l'irrigazione o il riordino fon-

diario come nel caso di Grumes. Qui un terre-

no completamente abbandonato di circa 20

ettari, suddiviso tra un elevato numero di pro-

prietari è stato completamente bonificato

all'interno di un progetto che ne prevede poi

l'assegnazione preferibilmente a nuove e gio-

vani imprese agricole.

Grumes è un caso a sé: da alcuni anni è in

corso una radicale trasformazione legata al

territorio ed avviata grazie alle politiche di for-

m a z i o n e e d i n f o r m a z i o n e a v v i a t e

dall'Amministrazione comunale, dalla società

di Sviluppo Turistico Grumes e dalla Rete delle

Riserve Alta Valle di Cembra-Avisio. Si è insta-

urata cosi “una rete di coesione locale molto

dinamica, che in un progetto di lungo periodo

ha portato una comunità di poco più di 400

abitanti ad avere un fermento in termini di

progettualità ed associazionismo piuttosto

evidente”¹⁰.

Non è un caso se il lavoro in sinergia proposto

in questo piccolo Comune, abbia portato il

paese ad essere la più piccola città slow del

mondo¹¹. L'importante riconoscimento gli è

stato assegnato per le iniziative, i progetti

intrapresi per qualificare la vita del paese,

dotandolo di strutture e servizi per consentire

e sviluppare la comunità nella cultura,

nell'economia sostenibile, nella responsabilità

sociale, nella coscienza di vivere e rispettare il

proprio ambiente e territorio, rispettoso ed

orgoglioso delle proprie identità, storia e tra-

dizione, ma allo stesso tempo aperto a nuovi

incontri, nuove culture, al mondo. Valori fon-

damentali premiati da Cittaslow sono

l'attenzione al tempo ritrovato, dove l'uomo è

ancora protagonista del lento, benefico suc-

cedersi delle stagioni, il rispetto per la salute

dei cittadini, la genuinità dei prodotti e della

buona cucina e l'accoglienza dell'altro¹².

Ruolo fondamentale anche quello della Comu-

nità di Valle, in particolare per le politiche

intraprese e seguite dall'Assessorato alla valo-

rizzazione del territorio, ambiente, agricoltu-

ra, turismo e foreste.

Grazie al Progetto di Sviluppo Sostenibile

finanziato dalla Provincia Autonoma di Tren-

to, la Comunità di Valle ha potuto intrapren-

dere delle azioni di analisi e promozione del

proprio territorio, dalle produzioni agricole al

suo paesaggio includendo il patrimonio cultu-

rale ad esso correlato, con l´obiettivo di

aumentare la consapevolezza circa la sua

valenza e migliorare le sinergie tra agricoltura

e turismo. Con l'Accademia della Montagna e

l'Associazione Artigiani è stato proposto un

corso per rimpossessarsi della tecnica di

costruzione dei muretti a secco, che sono con-

siderati come un biglietto da visita ormai a

livello internazionale. La collaborazione con

l'Alleanza Internazionale per il Paesaggio Ter-

razzato(ITLA)¹³ ha portato la Valle ad essere

di fatto considerata in un network nazionale

ed internazionale di territori terrazzati come

uno dei rari esempi in cui tuttora l´agricoltura

di versante viene mantenuta in modo attivo e

produttivo. Tra le ultime e più significative atti-

vità collaterali nate da questa collaborazione

c´è il documentario dal titolo “Contadini di

montagna” a cura del regista Michele Trentini,

che fotografa con il realismo di alcuni colloqui

padre-figlio il passaggio dal passato al presen-

te dello sviluppo agricolo della Valle. Oltre

all'agricoltura il Progetto Sviluppo Sostenibile

ha previsto delle azioni mirate anche per il

recupero della biodiversità agricola e

l´individuazione di soluzioni fattibili in termini

sia di coltivazione che di mercato legate alle

produzioni agricole di montagna. All'interno

del progetto su biodiversità agricola ed agri-

coltura biologica affidato al Dr. Giorgio Perini,

sono state promosse, a cavallo tra febbraio e

marzo 2014, le serate di approfondimento

“Pillole di agricoltura Biologica” in cui, con

esperti della Fondazione Mach accompagnati

di produttori privati, si è cercato di capire

quale tipo di agricoltura possa garantire una

congrua integrazione al reddito in quelle zone

della Valle dove maggiore è stato l'abbandono

dei terreni agricoli. L'auspicio degli organizza-

tori è che si arrivi alla costituzione di

un'associazione dedicata, la formula più indi-

cata per continuare a perseguire nella pratica

questi obiettivi anche alla luce delle indicazio-

ni contenute nelle premesse della prossima

Pianificazione di Sviluppo Rurale (PSR 2014-

2020)¹⁴. Alla luce dell'interesse riscontrato, per

agevolare coloro che intendono veramente

recuperare vecchi terreni abbandonati o sem-

plicemente ripristinare i terrazzamenti esi-

stenti, è stato promosso un bando ad hoc.

la Rete delle Riserve Alta Valle di Cembra-

Avisio è un ente recente, costituito solo da

una parte di amministrazioni comunali. Si trat-

ta di un nuovo strumento per gestire e valoriz-

zare le aree protette in modo più efficace e

con un approccio dal basso, attivato su base

volontaria dai Comuni in cui ricadono sistemi

territoriali di particolare interesse naturale,

scientifico, storico-culturale e paesaggistico. È

questo in sintesi, il senso delle reti di riserve,

introdotti con la L.P. 11/07 "Governo del terri-

torio forestale e montano, dei corsi d'acqua e

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ciazioni, consorzi, formano quel tessuto dal

basso necessario per la crescita delle comuni-

tà.

Il 2014 è stato proclamato dall'ONU “Anno

internazionale dell'agricoltura famigliare”

segno che anche le più grandi istituzioni inter-

nazionali hanno riconosciuto il ruolo che la

“piccola agricoltura” ha e potrà avere per il

mantenimento della sovranità alimentare, la

biodiversità agricola, il paesaggio e la stabilità

idrogeologica dei versanti, nonché come fun-

zione di coesione sociale. Investire in agricol-

tura non va inteso come un ritorno al passato,

ma come uno stimolo alla nascita di attività

rivolte alla produzione di qualità -eccellenze-

per soddisfare un numero sempre crescente

di consumatori consapevoli, settore in cui la

Valle può ritagliarsi un ruolo competitivo.

1. M. Amoroso, R. Gottardi, S. Paolazzi, G. Piffer, La Via dell'uva In Valle di Cembra, Comunità della Valle di Cembra (in attesa di stampa)2. Sistema di allevamento a parete verticale.3. La fitta rete di strade interpoderali ci rivela indirettamente uno degli aspetti che più contraddistinguono lo spazio agrario cembrano: la sua estrema frammentazione e parcellizzazione.4. Il termine Ceole / Ceola. Il termine, in uso in alcuni paesi, deriva dal medievale zeulla o zeola e indicherebbe uno spazio agricolo disposto a pianoro con annesse delle abitazioni. 5. In Trentino, all'insediamento di matrice romanza a nucleo si sovrappose in periodi storici differenti la tipologia di colonizzazione del territorio a maso, di derivazione germanica. Dopo l'anno Mille, con la fondazione dei Principati Vescovili di Trento e Bressanone, e successivamente con il controllo dei Conti di Tirolo, si incentivò questo sistema di popolamento, anche richiamando coloni “tedeschi” a dissodare nuove zone. Alcuni masi, forme primarie di colonizzazione, con il tempo vennero suddivisi tra più proprietari e crebbero acquisendo carattere di piccola frazione o abitato, come numerosi abitati dell'alta valle o del Comune di Giovo. Dal XVII secolo invece, la tipologia di colonizzazione a maso venne usata come risposta all'esponenziale crescita demografica, con la messa a coltura di alcuni nuovi fondi -novali- tra i più distanti dai centri abitati.6. M. Yourcenar, Memorie di Adriano, Torino, Einaudi, 19637. F. Bartaletti, Geografia e cultura delle Alpi, Milano, Franco Angeli, 20048. Non erano ammessi i forestieri: come tali potevano essere indicati anche chi originario dal

paese vicino9. M. Falcetti, Atlante viticolo della Valle di Cembra: il contributo del progetto di zonazione alla conoscenza, gestione e valorizzazione del vigneto della Cantina La Vis e Valle di Cembra, 200710. F. Corrado, G. Dematteis, A. Di Gioia (a cura di) Nuovi montanari. Abitare le Alpi nel XXI secolo, Franco Angeli, 201411. Cittaslow è un movimento nato nel 1999 con l'obiettivo di allargare la filosofia di Slow Food alle comunità locali e al governo delle città. Nel Novembre 2011a Friburgo, Grumes è diventata ufficialmente socia di Città Slow International: la rete delle città del buon vivere.12. Sito internet: http://www.lostellodigrumes.it13. Si veda a tal proposito l'articolo firmato da Timmi Tillmann14. Il principale quadro normativo di riferimento del PSR è il Regolamento (CE) 1698/2005 che disciplina il sostegno allo sviluppo rurale da parte del Feasr (Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale). Fonte: www.europarlamento24.eu15. È la Direttiva del Consiglio Europeo del 21 maggio 1992 “Conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche”. Lo scopo è "salvaguardare la biodiversità mediante la conservazione degli habitat naturali, nonché della flora e della fauna selvatiche nel territorio europeo degli Stati membri al quale si applica il trattato" (art 2). Per il raggiungimento di questo obiettivo la Direttiva stabilisce misure volte ad assicurare il mantenimento o il ripristino, in uno stato di conservazione soddisfacente, degli habitat e delle specie di interesse comunitario elencati nei suoi allegati.

delle aree protette" che ha convertito in termini

istituzionali il concetto di rete ecologica e di coe-

renza di cui parla la Direttiva Habitat¹⁵.

Infine, fondamentali per la valorizzazione e

conoscenza del territorio, la pubblicazione di

alcune guide che portano ad esplorare il territo-

rio cembrano. In particolare la guida al “Sentiero

dei vecchi mestieri“ interessa tre dei comuni con

il maggior territorio agricolo recuperabile:

Sover, Grumes e Grauno. La guida “La via

dell'uva” di prossima pubblicazione, è invece un

lungo percorso nel paesaggio orizzontale dei

vigneti da Lavis a Segonzano, percorrendo solo

strade interpoderali.

Conclusioni

L'orizzontalità è quindi insita nel territorio e nel

tessuto sociale della Valle: concertazione, asso-

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La plaga agricolalungo l'asta dell'Adigefra Trento e Rovereto

di Renzo Micheletti*

I promotori dell'iniziativa

L'iniziativa di aprire una riflessione sul signifi-

cato e sul valore della plaga agricola collocata

tra Trento e Rovereto è stata avviata dal grup-

po di maggioranza dell'Amministrazione

comunale di Aldeno nel 2011. L'esigenza

nasceva dalla presa d'atto della continua ero-

sione della campagna, sia per la progressiva

espansione degli aggregati urbani, sia per

l'edificazione di manufatti legati all'agri-

coltura lungo le strade che solcano il fondo

valle o disseminati nella campagna senza

alcun criterio se non quello del titolo di pro-

prietà del fondo.

I primi contatti

A seguito di un primo approfondimento fu

elaborata la bozza di un documento, sulla scor-

ta del quale fu aperto un confronto con le cir-

coscrizioni di Mattarello e di Ravina-

Romagnano (che fanno capo al Comune di

Trento). Il dibattito che ne seguì evidenziò

quanti potevano essere i punti in comune, cer-

tamente condivisibili, seppure all'interno di

istanze e di esigenze che nascevano da condi-

zioni specifiche differenziate.

Il documento integrato con i temi, che in virtù

del dibattito che ne scaturì, fu rielaborato in

modo più ampio ed esaustivo coinvolgendo il

sindaco di Trento Alessandro Andreatta, e fu

portato all'attenzione dei rispettivi Consigli e

fatto proprio dal Comune di Aldeno e per

l'appunto dalle due Circoscrizioni di Mattarello

e di Ravina-Romagnano.

Il testo fu inviato al dirigente del servizio Urba-

nistica e Pianificazione della Mobilità del

Comune di Trento, arch. Giuliano Stelzer, e

consegnato al presidente della commissione

urbanistica consiliare del capoluogo, ing.

Alberto Salizzoni, i quali ne condivisero piena-

mente i contenuti.

In fase di impostazione della proposta del

documento preliminare propedeutico del

piano urbanistico del “Territorio del Comune

di Trento e dei comuni contermini” di Aldeno,

Cimone e Garniga, ampie parti del testo furo-

no introdotte nei passaggi più salienti della

proposta stessa.

La presa di coscienza

Gli argomenti, sui quali si verificò un'ampia

convergenza e dai quali nacque la convinzione

che la situazione stesse velocemente evolven-

do in maniera negativa, tanto da richiedere

un'azione congiunta ed incisiva, furono molti.

Fra di essi la presa d'atto che la città di Trento si Renzo Micheletti, Architetto libero professionista in Trento

IL LABORATORIO TRENTINO2

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stava estendendo, verso sud lungo la statale

del Brennero con l'area ormai compromessa

dedicata alla realizzazione della cittadella mili-

tare, poi abbandonata; al centro del fondo

valle con la spina rappresentata dall'aeroporto,

dal museo Caproni, dalla Protezione civile,

ecc.; in fianco alla zona industriale di Ravina

con l'espansione di un'area con la medesima

destinazione d'uso.

Via delle Ischie, la strada che collega diretta-

mente Mattarello a Romagnano e la Gotarda,

la strada che collega Mattarello ad Aldeno, con-

nettendosi con la S.P. nr. 90 Destra d'Adige in

corrispondenza del nuovo magazzino della

frutta, sono profondamente trasformate nel

loro ruolo da un'edificazione in alcuni tratti con-

tinua. È risaputo che la viabilità in situazioni di

pregio e di facile sfruttamento diventa, per le

forti pressioni che si generano ed in assenza di

una regolamentazione rigorosa, una testa di

ponte che produce la cosiddetta “edificazione

di strada”. Di fatto è quanto già avvenuto

lungo via delle Ischie con gli insediamenti dei

floricoltori e dell'agriturismo e lungo la Gotar-

da con i numerosi depositi agricoli.

Vista dall'alto, la plaga appare punteggiata dif-

fusamente da molti manufatti agricoli caratte-

rizzati da volumetrie consistenti, da altezze

eccessive e da tipologie formali incongrue e

non omogenee. Questi episodi edilizi sparsi,

privi di un preciso rapporto funzionale con il

territorio, sono elementi di forte discontinuità

nella percezione del paesaggio agricolo del

fondo valle e di criticità sotto il profilo ambien-

tale.

Alcuni principi, ormai patrimonio di una larga

parte della cultura ambientale, incardinano in

maniera chiara queste considerazioni.

Ci si riferisce, in particolare alla consapevolez-

za profonda che il territorio è un bene comune,

limitato e non riproducibile; che esso rappre-

senta il capitale più importante che una comu-

nità possiede; che la trasformazione di una

zona - da naturale, o agricola, ad area con

destinazione edificabile - rappresenta un pro-

cesso semplice, rapido ed irreversibile mentre

il contrario - il recupero a verde di un'area inse-

diata - è un fatto che fino ad ora non si è mai

verificato. E anche alla convinzione che all'oggi

ha un senso preciso porsi il tema del “limite”

degli aggregati urbani, poiché lo sviluppo non

può più essere inteso ineluttabilmente e in

modo superficiale come fase espansiva. Le

città, gli abitati possiedono ormai al proprio

interno enormi risorse per aumentare le pro-

prie dotazioni in termini di servizi e per trovare

(qualora ve ne fosse ancora bisogno) risposte

esaustive al fabbisogno di nuovi alloggi. Basti

pensare, alle aree lasciate libere dalla dismis-

sione delle industrie ma anche alle potenziali-

tà derivanti dai processi di sostituzione edilizia

delle parti più deboli delle città, rappresentate

dagli ampi tessuti residenziali realizzati a par-

tire dal secondo dopoguerra fino agli anni

Novanta, in molti casi incongrue, obsolete dal

punto di vista economico, quasi sempre assai

modeste sotto il profilo costruttivo ed in parti-

colare energetico. E ancora che la plaga che si

estende fra la città capoluogo e Rovereto,

oltre evidentemente a rivestire un ruolo eco-

nomico assai importante per chi la coltiva,

assume un'importanza sempre più marcata

sotto altri profili, quali quello urbanistico ed in

particolare paesaggistico e ambientale. Infine

che bisogna opporsi con grande determina-

zione al rischio, tutt'altro che remoto, di veder

trasformata anche questa parte della Val

d'Adige in ciò che è ormai irrimediabilmente

accaduto a nord di Trento: una conurbazione

continua, tipica del Veneto, che salda indistin-

tamente in un continuum edilizio tutti i paesi

dall'espansione a nord della città fino a San

Michele.

La plaga

Partendo da queste convinzioni, è del tutto

evidente che il forte grado di antropizzazione

e trasformazione ormai raggiunto dal com-

pendio territoriale in questione, richiede una

rigorosa salvaguardia degli spazi ancora liberi.

L'ulteriore occupazione di tali spazi significhe-

rebbe la perdita delle identità e delle peculiari-

tà che trasformano un territorio generico in un

“luogo” che può essere riconosciuto e ricorda-

to: senza retorica, significherebbe la perdita

per noi tutti del nostro senso di appartenenza

ad una comunità che non è fatto soltanto di

relazioni umane ma anche primariamente di

orizzonti, di sguardi, di confini geografici ed

ambientali.

Se si sale un po' in alto, la plaga agricola appa-

re come un quadro di Paul Klee ove, fra trasla-

zioni e rotazioni, spiccano in una combinazio-

ne di grande suggestione, le campiture dei

vigneti e dei meleti, contraddistinte da textu-

re e colorazioni molto variate, in funzione

dell'alternarsi delle colture e delle essenze.

Si leggono ancora in maniera molto netta i

grandi segni territoriali, quali i paleoalvei e le

trasformazioni che via via si sono sedimenta-

te. Non solo, ma nel rapporto stringente tra lo

spazio libero e lo spazio insediato si può leg-

gere con chiarezza la sequenza degli abitati ed

essi si possono ancora “discernere” e “nomi-

nare”.

Non vi è dubbio che un ambito paesaggistico

connotato in maniera così ricca e precisa va

conservato, perché rappresenta l'elemento

ordinatore e la vera struttura del tratto della

valle a partire, come già detto, da Rovereto

fino a Trento.

Scrive, a questo proposito, Christian Norberg

Schulz: «L'uomo abita quando riesce ad orien-

tarsi in un ambiente e ad identificarsi con esso

o, più semplicemente, quando ne esperisce il

significato. Abitazione quindi vuol dire qualco-

sa di più di “rifugio”: essa implica che gli spazi

dove la vita si svolge siano luoghi nel vero

senso della parola. Un luogo è uno spazio dota-

to di un carattere distintivo. Fin dall'antichità il

genius loci, lo spirito dei luoghi, è stato consi-

derato come una realtà concreta che l'uomo

affronta nella vita quotidiana».

Vi sono altre ragioni per cui le aree libere fra

Trento e Rovereto vanno salvaguardate.

Sotto il profilo ambientale la plaga agricola è

un polmone di grande importanza, senza il

quale la qualità della vita muta profondamen-

te. L'azione di erosione di questi spazi, che

spesso si esplica in una forma subdola, non

immediatamente percepibile e valutabile,

perché costituita da episodi limitati la cui som-

matoria genera tuttavia quasi sempre un esito

eclatante di pesante degrado, va arrestata

poiché è ormai essenziale giungere ad un

miglior uso della risorsa suolo e altrettanto

importante ottenere una maggior efficienza

nell'uso delle superfici già insediate.

È evidente che, nel caso di un territorio a

bassa densità edilizia ed abitativa, l'incidenza

degli oneri dell'infrastrutturazione è assai gra-

voso in termini economici e di dispendio di

suolo, ma anche per quanto attiene al profilo

della qualità e dell'efficienza.

In questo senso, va ricordato che il suolo agri-

colo ha una sua forza economica e che le por-

zioni che vengono urbanizzate rappresentano

un suolo consumato/perso per sempre. Cor-

rendo il rischio di banalizzare è possibile affer-

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mare che senza spazi agricoli una società non

può esistere. Ed ancora che senza gli spazi

aperti l'uomo non può vivere e nel momento

in cui tale risorsa diventa scarsa egli è costret-

to ad andare a cercarla altrove - con costi più

elevati in rapporto al crescere della distanza -

per garantire il perpetuarsi delle proprie attivi-

tà e della propria sopravvivenza. Questo è un

fenomeno inconfutabile e sotto gli occhi di

tutti: basti pensare all'esodo che nei fine setti-

mana si verifica nelle grandi città.

È paradossale trovarsi nella condizione di

poter raggiungere a piedi vasti spazi aperti di

notevole qualità e non difenderne l'integrità

perché manca la consapevolezza del loro valo-

re. Perderli significherebbe che, per fruire

delle stesse condizioni, bisognerebbe spostar-

si altrove con dispendio di mezzi e tempi.

I cambiamenti di copertura e di uso del suolo

rompono complessi equilibri e generano

sull'ambiente effetti quali la riduzione della

permeabilità, una limitata capacità di imma-

gazzinare carbonio e un cambio della tempe-

ratura.

Non è retorico ricordare che il suolo produce

la prima e fondamentale forma di energia: il

cibo. Non è altresì fuori luogo sottolineare che

il nostro è un ambito agricolo di grande pregio

e che in generale l'erosione della campagna

aumenta la dipendenza alimentare da altri

territori.

L'allargamento dell'iniziativa

La plaga è suddivisa da una maglia complessa

e immateriale che costituisce i limiti di diversa

competenza amministrativa. Si tratta di linee

impercettibili ma quanto mai importanti per-

ché costituiscono un vincolo. Sono i confini

che delimitano gestioni del territorio che

fanno capo ad una pluralità di amministrazio-

ni non aventi inevitabilmente e per molteplici

ragioni tutte la medesima visione del territo-

rio.

Si è quindi preso atto della necessità di coin-

volgere le Amministrazioni di tutti i comuni fra

Trento e Rovereto, per condividere le riflessio-

ni esposte sopra e conseguentemente pro-

muovere un forte coordinamento volto a

modificare i singoli strumenti urbanistici nella

direzione della salvaguardia.

Una mozione in merito è stata approvata in

ordine di tempo dai Consigli circoscrizionali di

Mattarello, Ravina e Romagnano (Comune di

Trento) e dai Consigli comunali di Calliano,

Villa Lagarina, Nomi; Aldeno, Volano e Bese-

nello nel corso del 2013 e dal Comune di Poma-

rolo nel 2014 che impegna il sindaco e la giun-

ta a dare attuazione alle idee guida di cui ai

punti citati in premessa, attraverso la loro tra-

duzione in una pianificazione concreta, da svi-

luppare in accordo con gli operatori agricoli

presenti sul territorio, che si ponga l'obiettivo

di:

- razionalizzare il sistema della mobilità

esistente in una visione d'insieme estesa

all'intero ambito territoriale, individuando

gerarchie e ruoli differenziati in funzione

della compatibilità della viabilità con le

caratteristiche intrinseche (sezione, effi-

cienza, ecc.) e con l'incidenza e il rapporto

della stessa con le aree territoriali attraver-

sate;

- incentivare i percorsi ciclopedonali che

connettono i nodi di maggiore potenzialità

attrattiva in termini di aggregazione,

offerta di servizi, inserendoli armoniosa-

mente ed in reciproca sicurezza nel territo-

rio;

- disincentivare il traffico pesante nei tratti

critici di attraversamento delle zone urba-

ne trovando un ragionevole equilibrio fra

le singole componenti;

- razionalizzare il traffico agricolo disso-

ciandolo ovunque sia possibile dal traffico

veicolare di scorrimento al fine di ottenere

maggior condizioni di sicurezza e di effi-

cienza;

- governare e regolamentare la regimazio-

ne e l'utilizzo delle acque, salvaguardando

sia l'edificato, sia il territorio agricolo per

garantirne un efficiente, sicuro controllo al

fine di assicurare una proficua coltivazione

delle campagne;

- riconoscere le invarianti quale garanzia

della conservazione del sistema ed il suo

adattamento ai cambiamenti esterni e

porle come caratteri fondativi delle identi-

tà dei luoghi che ne consentono il mante-

nimento e la crescita nei processi di tra-

sformazione in quello che possiamo defini-

re patrimonio territoriale, con particolare

riguardo alle aree agricole di pregio;

- regolamentare l'edificazione di ulteriori

manufatti nell'ambito della plaga di cui

stiamo trattando, affinché la stessa non sia

ulteriormente punteggiata da episodi edi-

lizi sparsi che ne indeboliscano ulterior-

mente l'integrità, frammentando e

togliendo forza all'immagine, compro-

mettendo il profilo ambientale a volte in

modo assai pesante;

- individuare, attraverso il coinvolgimento

degli operatori economici interessati (in

primis gli operatori agricoli), un percorso

che preveda la costituzione di un vero e

proprio distretto agricolo, nell'ottica di uno

sviluppo economico sostenibile del territo-

rio con valorizzazione anche dal punto di

vista turistico ed ambientale;

- recuperare alla coltivazione le aree prive

di destinazione d'uso od occupate da strut-

ture dismesse, obsolete sotto il profilo eco-

nomico, quali relitti stradali, slarghi resi-

duali, tettoie, ecc., per ricomporle entro la

trama colturale.

Il gruppo di lavoro

Al fine di avviare un'analisi approfondita degli

aspetti più importanti e di individuare le stra-

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tegie più opportune per giungere alla defini-

zione di un progetto di grande respiro che indi-

chi le soluzioni più appropriate per conseguire

la salvaguardia del territorio in questione, fu

nominato un gruppo di lavoro composto da

esperti di differente formazione culturale, pro-

venienti da ambiti professionali e da campi

d'interesse diversificati (agronomia, urbanisti-

ca, controllo degli insediamento rurali, giorna-

lismo di settore) proprio per poter contare su

un approccio il più completo ed ampio possi-

bile. L'obiettivo posto fu di giungere a definire,

attraverso un percorso gradualmente sempre

più affinato, una pianificazione condivisa del

compendio in questione che superasse i nume-

rosi nodi irrisolti e che conseguisse un riequili-

brio apprezzabile fra le singole componenti.

Due questioni incombenti

Sul futuro del progetto incombono due que-

stioni di grande rilievo che periodicamente e

instancabilmente si riaffacciano nel dibattito

politico e nel quadro delle strategie di sviluppo

e trasformazione del territorio lagarino: lo

sbocco del progettato collegamento auto-

stradale fra la Valdastico e l'A22 Modena Bren-

nero – la cosiddetta PIRUBI - e le dighe per lo

sfruttamento idroelettrico dell'Adige. È ovvio

che qualora i due progetti trovassero una con-

creta realizzazione, ogni intervento di tutela

di un'area già di per sé residuale e fortemente

antropizzata e trasformata, diventerebbe risi-

bile. Anche per questo, un intervento di tutela

della plaga potrebbe dare ulteriore energia

alle ragioni di chi si oppone allo sfruttamento

indiscriminato e miope del territorio.

Conclusioni

Questi sono i dati evidenti con i quali ci si deve

responsabilmente misurare per trovare un

orizzonte di senso più profondo, proiettato

oltre le semplici istanze dell'oggi.

Bisogna pertanto essere capaci di formulare

una visione nuova, che vada oltre il consueto e

la cultura sedimentata, secondo la quale lo

sviluppo e la crescita sono semplicisticamente

intesi quali sinonimi di espansione e

secondo cui lo spazio libero è lì pronto

e disponibile ad essere occupato.

È una responsabilità di tutti. Di coloro

che si trovano nella delicata condizione di

dover decidere (i politici), di coloro che in que-

sto ambito svolgono il loro lavoro (i contadini),

di chi lo deve percorrere in automobile, dei

cittadini che lo attraversano in bicicletta e di

coloro che in questo spazio aperto vanno a

passeggiare, a correre, in definitiva a ritrovare

uno stato di equilibrio e rigenerazione.

Questo “vuoto” pieno di senso deve essere

letto e interpretato attraverso un progetto

complessivo che attribuisca ad ogni singolo

elemento il proprio ruolo specifico, nella con-

sapevolezza che la sostenibilità della pianifi-

cazione passa in prima istanza attraverso il

contenimento dei consumi di suolo.

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Hic sunt leones. Terzi paesaggi a Primiero

di Gianfranco Bettega*

1. La formazione del territorio

Fin dalle testimonianze più antiche, il territorio

di Primiero appare caratterizzato dalla presen-

za e dalla contesa di prati, pascoli e boschi. La

lunga durata di legname ed erba marcherà, pur

con fluttuazioni e interazioni con altre impor-

tanti risorse, la storia delle valli del Cismon,

Vanoi e Mis, fino a metà XX secolo.

In particolare, entro un crescendo di riduzioni a

coltura e antropizzazioni, l'impiego della risor-

sa erba segnerà un passaggio economico cru-

ciale attraverso il lento mutare dei sistemi di

allevamento. Se nel XV secolo i primierotti si

dividevano ancora tra habentes e non habentes

pecudes¹, almeno a partire dal XVII secolo e

fino al XX inoltrato, lo status economico più

invidiabile diverrà quello del bacàn, ossia del

possidente di prati e bovini. Questo cambio

della guardia tra pecore e vacche sarà uno dei

fattori strutturanti il territorio primierotto.

L'introduzione sempre più massiccia di bovini

stanziali motiverà la produzione di sempre più

consistenti scorte di fieno per i lunghi mesi

invernali e spingerà all'invenzione (o, meglio,

all'innesto e al peculiare sviluppo) dei masi: le

stazioni familiari di pre e post-alpeggio dove si

produceva la maggior parte del foraggio di

scorta e sulle quali sorgerà quel vasto patrimo-

nio edilizio dallo spiccato carattere corale che

oggi chiamiamo baite. Circa 4000 edifici carat-

terizzati da grandi coerenza tipologica e varie-

tà strutturale e formale che permeano il terri-

torio al punto da poterli considerare una vera e

propria invariante culturale.

Un secondo determinante periodo di transizio-

ne sarà il secolo nero che va dal 1866 al 1966.

Con il passaggio del Veneto all'Italia e

l'ermetica chiusura della frontiera verso il loro

naturale bacino economico, si aprirà per le

nostre valli un'epoca scandita da regresso eco-

nomico e della disponibilità di generi di vita,

emigrazione, dissesti naturali e bellici. La popo-

lazione raggiungerà i suoi massimi storici sullo

scorcio dell'Ottocento e la pressione antropica

passerà ogni limite sostenibile, mettendo a

coltura ogni suolo raggiungibile, senza con ciò

rimediare alle sempre più vaste sacche di

povertà. Anche dopo il 1918 e l'annessione

all'Italia, la ripresa economica tarderà a giunge-

re: il Ventennio e la Seconda guerra mondiale

posporranno di un altro cinquantennio

l'ingresso in valle della modernità e del mercato.

Solo dopo l'alluvione del 1966 prenderà quota

una serie di cambiamenti socioeconomici che

porteranno in valle il sospirato boom economi-

co, ma quel dissesto idrogeologico accelererà

*Gianfranco Bettega vive e lavora a Primiero. Si occupa di storia del territorio e dell'alimentazione

IL LABORATORIO TRENTINO2

Anche se noi non predichiamo la dottrina spontaneamentei fiori sbocciano a primaveraIkkyu Sojun (1394-1481)

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Raffronto fotografico dello stato del versante destro della valle del Cismon all'altezza dell'abitato di Siror 1935-2014.

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l'abbandono dell'agricoltura e dei suoli agricoli

già in atto. Tra il 1951 ed il 1971 più di 1800 per-

sone lasceranno il settore. Così si descrive la

situazione nel 1977: “Ma l'aspetto certamente

più negativo, a livello di uso delle risorse territo-

riali rimane quello che riguarda i terreni adibiti ad

uso agricolo o a pascolo. I danni provocati dal

forzato abbandono di queste attività sono estre-

mamente gravi, non solo in quanto ciò ha costi-

tuito la distruzione di quella che era sempre la

base economica di Primiero, ma anche perché

tale abbandono ha avuto effetti profondamente

negativi sulla conservazione e sulla protezione

dei terreni.”²

Numerose le cause di questo fenomeno, comu-

ne a gran parte delle Alpi. A Primiero incide

senz'altro l'attrazione dei comparti turistico ed

edilizio, alla ricerca di manodopera a basso

costo. Tra le cause interne, potremmo oggi

segnalare l'adozione di un modello produttivo

inadeguato alla montagna, fondato sulla mec-

canizzazione spinta, l'accentramento delle stal-

le e della trasformazione del latte, la specializ-

zazione estrema dell'allevamento e la svaluta-

zione delle piccole coltivazioni di autoconsu-

mo.³ Tutto ciò ha causato una selezione natu-

rale da meccanizzazione con radicali muta-

menti degli usi del suolo che vedono i prati e

pascoli più ripidi progressivamente abbando-

nati all'avanzare del bosco e i coltivi più pia-

neggianti trasformati in prati.

2. La situazione attuale

Oggi, a quasi cinquant'anni dal fatidico 1966 e

dopo quasi altrettanti di programmazione

urbanistica trentina, possiamo misurare la

dimensione di questo mutamento epocale:

una vera e propria frattura rispetto alla lunga

durata dei secoli precedenti. Due gli effetti più

evidenti del fenomeno.

La dimensione dello spreco di suolo,

nell'ultimo mezzo secolo, ha visto quasi tripli-

carsi gli spazi urbanizzati, passati dai 144 ha del

1960 ai 429 del 2011, proprio mentre la popo-

lazione diminuiva quasi del 7% (dai 10.897 abi-

tanti del 1961 agli attuali 10.147). Pur in tutta la

sua gravità, questo dato riguarda comunque

poco più dell'1% della superficie del territorio di

Primiero che complessivamente ammonta a

413 kmq.

Di vastità ben maggiore il fenomeno ad esso

speculare: l'abbandono di circa 26 Kmq di suoli

coltivati, persi all'agricoltura tra il 1977 ed oggi:

il 29% del totale delle aree a quel tempo utiliz-

zate e ormai ridotte a 65 kmq.⁵

Più che approfondire la dimensione quantitati-

va di questa deriva, importa qui tratteggiarne

la progressione, ancora in atto su larghe fasce

di suolo sia di fondovalle che di mezza o alta

quota.⁶ È una scala di cui si possono indicare

almeno quattro gradini.

Ha inizio con la dismissione delle attività agri-

cole: dapprima le coltivazioni di campi ed orti

e, in seguito, la fienagione o anche il semplice

pascolo. Le ragioni di queste dismissioni sono

legate sia al ricambio generazionale nel setto-

re che ad una complessiva perdita di dignità

del ruolo dell'agricoltore e della produzione

locale di cibo nella nostra società.

Il cambio d'uso del suolo, o il suo abbandono,

porta con sé un'inevitabile perdita di fertilità e

di biodiversità coltivata. Scompaiono specie

allevate e varietà coltivate ma, soprattutto,

regredisce la fertilità faticosamente costruita

dalle generazioni passate. Né è il caso di bearci

Espansione degli insediamenti dell'Alto Primiero dal 1859 al 2011.

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di questa nuova naturalità dei suoli:

“un'evoluzione lasciata all'insieme degli esseri

biologici che compongono il territorio, in assenza

di ogni decisione umana.”⁷ Poiché, anche se mol-

ti, tra non residenti e nuove generazioni, leggo-

no oggi questi terzi paesaggi come un idilliaco

ritorno alla natura, in realtà si tratta di suoli per i

quali la nostra comunità ha rinunciato ad imma-

ginare un futuro. E che, dati i costi che compor-

terebbe, sarà quasi impossibile riportare ad uso

agricolo.

Svalutazione culturale (della centralità della pro-

duzione del cibo) e materiale (di fertilità e biodi-

versità) si rivelano ben presto premesse per

altri usi e valorizzazioni. Dapprima quelle più

leggere ma già irreversibili (spesso legittimate,

quando non addirittura incentivate o imposte

dalle istituzioni locali), come la frammentazio-

ne dei suoli per creare infrastrutture o la loro

impermeabilizzazione per ricavare spazi urbani

di pubblico interesse come piazze, parcheggi e

posti macchina. A seguire, quelle classiche di

cementificazione ed edificazione. Abbandono

e cementificazione sono legati e complemen-

tari ma, a Primiero, la loro percezione sociale

corre su binari separati. In particolare,

sull'abbandono emergono indizi frammentari e

qualitativi (piuttosto che non conoscenze quan-

titative) che stentano a raccordarsi in un quadro

organico ed unitario.

Soprattutto, ben di rado si giunge alla consta-

tazione, di per sé lapalissiana, che Gilles Clé-

ment ha da tempo enunciato: là dove l'uomo fa

un passo indietro, la natura avanza e riguadagna

terreno, materialmente e metaforicamente.

Materialmente, avvalendosi di tutti i viventi (cer-

vi, cinghiali, aironi, limacce, orsi, robinie, bud-

dleiae, verghe d'oro e chissà quanti altri alieni)⁸

che trovano, nei nuovi spazi lasciati al Terzo pae-

saggio, il proprio naturale ambito d'insedia-

mento e di vita. Metaforicamente, infiltrandosi

tra saperi territoriali tradizionali e ormai desueti

paradigmi di modernità ed urbanesimo per ali-

mentare una nuova immagine della montagna

selvaggia, distante e sconosciuta ai più.

Selvaggia come la foresta che invase l'Europa

dopo la caduta dell'Impero romano d'occidente

e che solo il Medioevo seppe ri-leggere come

risorsa per nuovi usi da parte di uomini nuovi.⁹

Distante soprattutto dalla visione mainstream

che del Trentino è stata proposta in questi ulti-

mi decenni. Ed è tutt'oggi ribadita dalle letture

ufficiali dell'agricoltura come, ad esempio, la

recente mostra Terre coltivate. Una narrazione

che, non a caso, dimentica Primiero e le sue

agricolture, così come quelle di altre aree, peri-

feriche all'oliato sistema unico delle DOP e

delle DOC (imperniato su tre produzioni ban-

diera, vitivinicola, frutticoltura e casearia, e

poco altro).¹⁰ Quasi che, nella carta ufficiale

dell'agroalimentare trentino, Primiero fosse

una sorta di terra lontana e ignota, simile a

quelle che individuava, nelle mappe antiche e

medievali, la scritta hic sunt leones, testimo-

niando innanzitutto lo sguardo distratto e

l'ignoranza dell'estensore.

Sconosciuta a gran parte di noi abitanti del

luogo che pure discendiamo da gente che

conosceva il territorio palmo a palmo perché lo

percorreva, quando muoversi era un modo

condiviso di imparare. Gente che sapeva leg-

gere i segni della terra, “un alfabeto che oggi noi

non capiamo, che non conosciamo quasi più,

analfabeti di territorio come siamo.”¹¹ Ma anche

sconosciuta ai più, a causa delle distorsioni

antropocentriche che hanno guidato il nostro

rapporto con gli altri viventi, convinti come

siamo di essere centro e sovrani del creato.¹²

In altre parole, l'attuale abbandono del territo-

rio certifica come noi “siamo le prime genera-

zioni nella storia che non stanno più tramandan-

do i saperi specifici legati al territorio”¹³ e, di con-

seguenza, non hanno saputo sviluppare uno

sguardo condiviso sul proprio territorio.

3. Tentativi, successi (pochi) e fallimenti

(troppi)

Non sono stati pochi, nell'ultimo decennio a

Primiero, i tentativi di segnalare il tema

dell'abbandono dei suoli agricoli e delle multi-

ple agricolture ad essi collegate, di immagina-

re nuovi futuri per questi suoli e per le risorse

che essi ancora ci propongono.

Alcuni di questi tentativi portano il marchio

istituzionale, provinciale o europeo. Pensiamo,

ad esempio, a quella nuova categoria di pastori

che, sospinti da incentivi economici, mettono

insieme piccoli greggi di ovini che fanno pasco-

lare allo stato brado e incustoditi in vecchi

masi, su malghe troppo inaccessibili per inte-

ressare il comparto latterio-caseario (da

tempo divenuto, nel sentire comune,

l'Allevamento con l'A maiuscola di Primiero),

oppure su sgrémeni all'estremo limite altitudi-

nale della vegetazione. Niente latte o lana da

questa pastorizia primitiva, alla mercé del vitu-

perato orso: solo agnelli da carne da smerciare

nel periodo pasquale.

Con questo allevamento europeo fanno il paio i

ripristini di prati e pascoli di mezza o alta quo-

ta: suoli rimboschiti e talora recuperati dalle

stesse persone che, solo qualche decennio fa, li

avevano abbandonati. A costi che si aggirano

tra i 15.000 ed i 30.000 Euro/ha¹⁴, a secondo

delle condizioni di partenza e con la consueta

logica di selezione e intervento, quella della

loro lavorabilità meccanizzata. In entrambi i

casi, più che nuovi progetti di utilizzo delle

risorse territoriali, si tratta di un saltare sul

treno europeo dei finanziamenti: ben difficil-

mente si attiverebbero interventi in assenza di

fondi pubblici.

A Primiero non mancano tuttavia altre iniziati-

ve che, a cavallo tra associazionismo e settore

pubblico, hanno cercato di analizzare agricol-

ture minori, produzioni locali di cibo, abbando-

ni di coltivi e prati, avanzando anche qualche

ipotesi d'intervento. Una semplice elencazione

di quelle imperniate su orti e coltivi di fondo-

valle sarà sufficiente per lasciar intuire la loro

multiforme natura: vanno dal recupero di colti-

vi e dell'antica varietà di mais Dorotèa¹⁵ all'orto

scolastico della Scuola elementare di Tonadi-

co¹⁶; dal Bilancio degli orti¹⁷ alla proposta di

un'Aula in Campagna per i futuri cuochi di Pri-

miero¹⁸; dal progetto della birra 100% Primie-

ro¹⁹ alla mostra Tutto il mondo è un orto²⁰; da

un'Alleanza per la Campagna²¹ fino al censi-

mento generale degli orti della valle²².

Elenchi simili si potrebbero stilare, oltre che

per i coltivi, anche per altre risorse, come erba

e legno. Senza dimenticare quella peculiare

risorsa territoriale che è il paesaggio, nella con-

servazione del quale la sproporzione tra avan-

zare della natura e resistenza dell'uomo appare

oggi particolarmente evidente. Poche centina-

ia di uomini – boscaioli, allevatori, operatori

ecologici e siegadóri della domenica - tentano

invano di arginare il terzo paesaggio interve-

nendo a valle del fenomeno poiché nessuno si

preoccupa di considerarlo da monte, partendo

dalle sue motivazioni, peraltro evidenti, a guar-

darle nel lungo periodo.

A bilancio, pur provvisorio e parziale, di queste

iniziative, ci sembra di poter indicare un carat-

tere che connota gran parte di esse: una gran

vitalità di soggetti e proposte, caratterizzata

da estrema frammentazione, quando non di

divisione e contrapposizione²³. Uno stato di

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cose che trova emblematica rappresentazione

nella divisione amministrativa di Primiero (ben

otto Comuni, senza contare le altre istituzioni

sovraordinate, per neanche 10.000 abitanti)

che determina l'incapacità locale ad esprimere

una visione territoriale strategica condivisa.

È come se una grandissima biodiversità di

sementi, radici, pollini e stoloni cercasse inva-

no di attecchire in un terreno reso sterile, asfit-

tico e poi abbandonato a sé stesso dall'aggres-

siva monocoltura/monocultura che domina il

campo. Senza lasciarsi trasportare oltre dalla

metafora, non si può comunque far a meno di

constatare come costruire una visione condivi-

sa del territorio, al di là della ricorsiva liturgia di

dichiarazioni d'intenti e tavoli di partecipazio-

ne, non sia un tema prioritario nell'agenda

della politica locale.

4. Nuove prospettive?

Quali siano le strategie possibili per instaurare

un rapporto nuovo, coerente e sostenibile con

il territorio e, in particolare, con il terzo paesag-

gio locale, non è cosa immediata da definire.

Ma alcuni spunti e temi si possono intravvede-

re.

Innanzitutto, il terzo paesaggio allarga i margini

tra antropizzato e naturale. Quei confini che, in

epoca di massimo popolamento, si erano

ridotti a sottili fronti di lotta quotidiana tra

uomo e natura, si espandono oggi in profonde

terre di nessuno dove tutto ridiviene possibile,

per tutti i viventi. Animali e piante lo hanno già

capito, anche se noi umani stentiamo a pren-

derne atto. Sono spazi, fisici ma anche menta-

li, indeterminati: luoghi di possibile fertilità di

pensiero e cambiamento.

Spazi che chiedono di essere esplorati da nuovi

sguardi, che vengano da intelligenze e da corpi

differenti: umani ma anche animali e vegeta-

li.²⁴ Da umani che, consapevoli di non stare

sopra ma tra i viventi, sviluppino atteggiamenti

simbiotici e non di contrapposizione o, peggio,

di dominio.²⁵

In questa prospettiva occorre affinare una capa-

cità fondamentale che è quella di ri-conoscere

le scale, spaziali e temporali, dei temi e dei pro-

blemi, compreso quello dell'abbandono del

territorio che qui ci interessa. Si tratta di risalire

la china della desertificazione, cartografica e di

pensiero, che in questi ultimi decenni ha carat-

terizzato il nostro rapporto col territorio, ma

anche di riconoscere e incorporare le differenti

scale con cui gli altri viventi vi si rapportano.²⁶

Strettamente legato a quello delle scale

appropriate è anche necessario un aggiorna-

mento di pensiero sul tema della frammenta-

zione, sia territoriale che amministrativa.

Occorre andare oltre i luoghi comuni indotti

dai modelli esogeni della frammentazione

come criticità e della grande dimensione come

economia di scala. Se del caso, anche recupe-

rando una visione della frammentazione

anche come strategia di distribuzione del

rischio, così come è esistita in passato

nell'agricoltura locale e come, peraltro, si profi-

la in Internet o nelle reti della biodiversità. Ma

anche prendendo atto dei casi in cui essa è inve-

ce elemento di stasi ed incapacità operativa.

Prima tra tutte l'attuale architettura istituzio-

nale locale.

Con nuovi strumenti, messi a disposizione

anche dagli altri viventi, occorre ri-vedere risor-

se sulle quali aprire ventagli di possibili nuovi

impieghi. A partire dal terzo paesaggio si pos-

sono contemplare destini diversi per i suoli, tal-

volta complementari, talaltra esclusivi: dalla

conservazione della funzione originaria di pra-

to-pascolo all'inserimento di nuove attività e

nuovi modelli d'agricoltura di versante; dalla

conservazione dei prati-pascoli come elementi

di varietà e qualità paesaggistica, ambientale e

di vita, anche come componenti dell'offerta

turistica, alla conversione dei suoli a produzio-

ne legnosa da opera o da fuoco, sia in forma di

legna da ardere che di cippato da teleriscalda-

mento; da assetti idonei a garantire la sicurez-

za del territorio sino all'abbandono controllato

per contribuire al rafforzamento delle rete

delle aree protette e naturali, alla ricomposi-

zione di situazioni di frammentazione delle

biocenosi che favorisca il vagabondaggio delle

specie viventi.

Per far ciò servono forse dei nuovi barbari, per

reimparare il maiale? Serve cioè un nuovo

Medioevo con nuovi montanari che individui-

no, per le risorse di sempre, nuovi impieghi? E

fa differenza se questi nuovi montanari sono

dei locali o vengono da fuori?

Certo, una componente innovativa va ricerca-

ta, ma forse non basta. Per superare l'impasse

in cui ci siamo cacciati e di cui il terzo paesaggio

è espressione, serve anche riprendere dalla

storia locale alcune soluzioni di successo,

tenendo ben a mente che la tradizione è tale

proprio perché si tratta di un'innovazione ben

68

riuscita.²⁷

Serve innanzitutto reimparare a chiudere i cicli

produttivi a partire da quelli agro-forestali, ridi-

segnando filiere insostenibili che producono

esternalità pesantissime. Occorre far in modo

che gli output di un ciclo non diventino rifiuto

ma risorsa per qualche altro ciclo. Ma occorre

anche riprogettare le produzioni prevenendo a

monte talune esternalità, anziché risolverle con

investimenti di denaro pubblico a valle.²⁸

Occorre tornare a camminare il territorio come

vecchio/nuovo metodo di conoscenza, control-

lo e progettualità. Sviluppando letture appro-

priate, avvalendosi di tutte le porte di percezio-

ne disponibili ed evitando di sostituire alle cose

la loro immagine.²⁹ Solo così si potrà ricomin-

ciare a trasmettere l'alfabeto del territorio, ade-

guandolo alle nuove situazioni e recuperando

l'analfabetismo di ritorno che oggi ci distanzia

sempre più da questa larga parte di realtà.

Naturalmente non è affatto questione di

nostalgia. Si tratta piuttosto di tenere le cose

buone del passato.³⁰ Detto in altri termini, si

tratta di passare dal localismo vandalico³¹ che ci

ha portato allo sperpero e al simultaneo

abbandono dei suoli, a un'idea di territorio con-

divisa da nuovi montanari, resistenti e simbiotici

con il proprio ambiente e con l'insieme dei

viventi.³²

Tenendo comunque ben a mente che, lo

vogliamo o meno, spontaneamente i fiori sboc-

ciano a primavera.

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1 Così in un documento sui pascoli del 1477 conservato nell'Archivio parrocchiale di Tonadico, Pergamene e documen-ti antichi, C. 23.2. Comprensorio di Primiero, Piano urbanistico comprensoria-le, Feltre, Castaldi, 1981, pp. 81-82.3. Questa prospettiva ben esemplificata da: Giorgio Scalet, Agricoltura in Primiero, storia e attualità, Zero Branco (Tv), Unigrafica, 1984, pp. 225-242,4.Il tema dell'occupazione dei suoli, esemplificato anche dalla fig. 2, è descritto e quantificato in: Comunità do Primie-ro, Documento preliminare per la formazione del Piano Territo-riale di Comunità. Allegato I – Ambiente, territorio e società di Primiero, marzo 2014, pp. 54-70; una sintesi della vicenda urbanistica di Primiero si trova invece in: Comunità di Primie-ro, La pianificazione urbanistica a Primiero. Un bilancio, marzo 2014. Entrambi i documenti sono disponibili all'indirizzo web: http://www.primiero.tn.it/Aree-Tematiche/Ambiente-e-Territorio/Urbanistica/Piano-Territoriale-di-Comunita5. L'entità e la natura di questo abbandono sono approfondi-te in Silvio Grisotto, Analisi sui boschi di neoformazione nella Comunità di Primiero-Vanoi e Mis: proposta per un loro utilizzo a scopi energetici, turistico- paesaggistici e di recupero ambien-tale, maggio 2012, (inedito, consultabile presso la Comunità di Primiero).6. Riprendiamo qui considerazioni già sviluppate in: Gian-franco Bettega, Dal Giardino in Movimento al Giardino Plane-tario, via Primiero, in Antropologia del «Terzo Paesaggio», a cura di Franco Lai e Nadia Breda, Roma, CISU, 2011, pp. 51-74. Per l'ambito di Primiero, il tema è stato anche di recente affrontato nel volume: Un luogo in cui resistere. Atlante dei paesaggi di Sagron Mis (secoli XVI-XXI), a cura della Cooperati-va di ricerca TeSto, Sagron Mis, Comune di Sagron Mis, 2013.7. È la definizione di terzo paesaggio data da Gilles Clément nel suo Manifesto del Terzo paesaggio, Macerata, Quodlibet, 2005.8. Analisi aggiornate sulla diffusione delle specie aliene a Primiero si trovano in: Alessio Bertolli – Filippo Prosser, Attivi-tà botaniche nella Comunità di valle del Primiero. Triennio 2011-2013, Rovereto, Fondazione Museo Civico Rovereto, 2013 (inedito, consultabile presso la Comunità di Primiero); una posizione estrema sul tema è stata espressa in Invasioni alie-ne? E cambiamenti climatici a Primiero, da Erwin Filippi Gilli, disponibile all'indirizzo web: http://www.lavocedelnordest.it//articoli/2011/08/19/4810/ambienteinvasioni-aliene-e-cambiamenti-climatici-a-primiero9. Un esempio di nuova lettura del bosco come risorsa è descritto in: Massimo Montanari, Il maiale nell'economia e nell'alimentazione medievali in Tra Maghe, Santi e Maiali. L'avventura del porco nelle lettere e nei colori, a cura di Paolo Scarpi, Milano, Claudio Gallone Editore, 1998, p. 96. L'Autore evidenzia come all'abbandono seguito alla caduta dell'Impero romano d'occidente succedette, lungo l'alto Medioevo, una ri-lettura del bosco come risorsa (evidente-mente operata da una nuova cultura, per lungo tempo defi-nita barbara dalla storiografia ufficiale) che portò alla ricon-versione produttiva della foresta grazie all'introduzione del pascolo brado dei maiali.10. Si veda il catalogo: Terre coltivate. Storia dei paesaggi agra-ri del Trentino, a cura di Alessandro De Bertolini, Trento, Fon-dazione Museo Storico del Trentino, 2014. Primiero vi com-pare per tre volte, più con riferimenti storici generici che nel merito della sua agricoltura, alle pp. 15, 90 e174. Val la pena di rammentare che, proprio dal sistema delle DOC e delle DOP, muove il Piano Urbanistico Provinciale per definire il valore dei terreni agricoli. Si veda: Provincia autonoma di Trento, Piano Urbanistico Provinciale. Allegato A Relazione illustrativa, Trento, 2008, pp. 62-66. Abbiamo già segnalato l'inadeguatezza dello sguardo ufficiale sul tema delle risorse locali, dell'agricoltura e dell'abbandono del territorio in: Dal Giardino in Movimento, cit. alle pp. 59-61.11. Nicola Sordo, Un mondo dove tutto torna. La memoria

locale come strumento per la cura e la riprogettazione dei terri-tori, Milano, Raccolto edizioni, 2014, p. 12.12. Una prospettiva, utilmente dissonante rispetto a quella antropocentrica è proposta da: Stefano Mancuso e Alessan-dra Viola, Verde brillante. Sensibilità e intelligenza del mondo vegetale, Firenze, Giunti, 2013. Secondo gli Autori, “convinti per millenni di essere i più eccelsi fra gli esseri viventi e di occu-pare il centro dell'universo”, abbiamo rimosso la constatazio-ne della nostra dipendenza assoluta dai vegetali, del loro successo planetario nell'adattamento ambientale (i vegetali rappresentano il 99,5% dei viventi, gli animali costituiscono lo 0,3%, compresa la percentuale ancora più ridotta degli umani), cosicché “le piante ci appaiono distanti, aliene, al punto che a volte facciamo persino fatica a ricordare che sono vive” (p. 107).13. Sordo, Un mondo dove tutto torna, cit. p. 10.14. I costi sono desunti da: Grisotto, Analisi sui boschi di neo-formazione, cit. Allegato II. Casi studio delle diverse tipologie di intervento e macroaree omogenee.15. Il progetto Custodiamo il sórc, di recupero del mais Doro-tèa è promosso a partire dal 2007 dall'Ecomuseo del Vanoi. Si basa su un disciplinare partecipato disponibile all'indirizzo web: http://www.ecomuseo.vanoi.it/mulini-dei-caineri/.16. L'orto in Condotta è stato promosso, a partire dal 2007, dalla Scuola Primaria di Tonadico in collaborazione con la Condotta Slow Food di Primiero. L'esperienza, tuttora atti-va, è descritta all'indirizzo web: http://www.scuoleprimiero.it/index.php/primaria/progprim/620-orto-in-condotta.17. Proposto nel contesto di Agenda 21 Locale di Primiero, il Bilancio degli orti è stato commissionato dal Comune di Mez-zano. Ha portato nel settembre 2008 ad una proposta arti-colata: uno Schedario di censimento, Indagini e analisi accompagnate da un piano di azioni d'intervento ed un Pron-tuario delle componenti tradizionali degli orti del centro storico finalizzato all'erogazione di finanziamenti a sostegno della conservazione degli orti. Non sono purtroppo seguite azioni concrete da parte del Comune.18. La proposta, avanzata dalla Condotta Slow Food di Pri-miero con il sostegno dei Comuni di Siror e Tonadico e dell'Ente Parco Naturale Paneveggio Pale di San Martino, assieme al locale Centro di formazione professionale profes-sionale alberghiero ENAIP, prevedeva di istituire un orto scolastico che portasse i futuri cuochi a mettere le mani nella terra per aumentarne la consapevolezza in materia di pro-duzioni agroalimentari. Il progetto L'aula in campagna, for-mulato nel settembre 2012, non è stato approvato dalla dirigenza provinciale dell'Istituto.19. La birra 100% Primiero è l'esito di un percorso avviato nel 2011 da un gruppo di giovani soci della Condotta Slow Food di Primiero col sostegno del locale birrificio BioNoc. Ha pro-mosso, a partire dall'abilità del birraio, la ripresa della coltiva-zione dell'orzo in valle. L'esperienza, tuttora in corso, è descritta all'indirizzo web:http://feltrinoeprimiero.wordpress.com/2013/06/27/e-nata-la-100-primiero/.20. La mostra, curata dalla Condotta Slow Food di Primiero nel 2012, ha fatto un primo punto sulla rilevanza degli orti per i territorio di Primiero (almeno 1500 piccoli appezzamen-ti coinvolgono più del 10% della popolazione) e su alcune esperienze in corso. La mostra è scaricabile all'indirizzo web: http://feltrinoeprimiero.wordpress.com/2012/08/19/tutto-il-mondo-e-un-orto/.21. L'Alleanza per la Campagna è un accordo sottoscritto nel 2013 dai Comuni di Siror e Tonadico, al quale hanno aderito varie associazioni e singoli cittadini. Propone sette obiettivi di salvaguardia e valorizzazione di una delle poche aree di Primiero che, per morfologia, pedologia e fertilità dei suoli, si presta alla coltivazione di specie alimentari di qualità. Il documento è disponibile al sito web: http://www.tonadico.eu/news/items/alleanza-per-la-

campagna.html.22. Promosso dalla Condotta Slow Food di Primiero e attua-to grazie al volontariato di soci e cittadini, ContaOrti, il censi-mento di Primiero, è stato avviato nel 2013 ed è tuttora in corso.23. Questa caratteristica della struttura socio-culturale di Primiero è ben nota e sottolineata anche in: Comunità di Primiero, Documento preliminare per la formazione del Piano Territoriale della Comunità di Primiero. Visioni, strategie e azioni per un futuro sostenibile, marzo 2014, pp. 17-18; il tema è approfondito nell'Allegato I, cit. pp. 112-116. I documenti sono entrambi disponibili all'indirizzo web: http://www.primiero.tn.it/Aree-Tematiche/Ambiente-e-Territorio/Urbanistica/Piano-Territoriale-di-Comunita.24. Quanto possa essere fruttuoso partecipare di sguardi altri che vengano da intelligenze altre, è ben esemplificato da Mancuso e Viola in Verde brillante, cit. laddove rammentano che ogni perdita di specie vegetali è anche una perdita di soluzioni inesplorate (p. 68) e suggeriscono di “considerare il modo in cui esse risolvono i problemi una fonte di preziose informazioni anche per noi umani.” (p. 110)25. L'approccio simbiotico è enunciato da Gilles Clément nel suo testo L'alternative ambiante del 2009, disponibile al sito web: http://www.gillesclement.com/cat-copylefttextes-tit-Textes-en-copyleft.26. Il tema della desertificazione cartografica, sintomo di una più profonda desertificazione di pensiero (o anafalbetismo di ritorno) sul territorio, è affrontato in M. Varotto, Una propo-sta di metodo: l'esperienza d'indagine nell'area prealpina vene-ta in «Terre alte» e geografia. Prospettive di ricerca verso il 2002 «Anno internazionale delle montagne», a cura di Ugo Mattana e Mauro Varotto, Padova, Università di Padova, 2001, pp. 55-63 e ripreso in Geografie dell'abbandono. Valsta-gna e la fine della civiltà del tabacco in «Uomini e paesaggi del Canale di Brenta», a cura di Daniela Perco e Mauro Varotto, Caselle di Sommacampagna (Vr), Cierre Edizioni, 2004, pp. 213-261.27. La definizione di tradizione è in: Massimo Montanari, Il cibo come cultura, Roma-Bari, Laterza, 2001, p 10.28. Si pensi, ad esempio, alla filiera dell'allevamento bovino che crea esternalità come liquami, deperimento precoce delle bovine e riduzione della biodiversità prativa, alle quali localmente si cerca di ovviare con costose tecnologie fuori scala come biodigestore centralizzato e nuovo macello sovradimensionati e con costosi smaltimenti di rifiuti speciali, che un tempo erano risorse, come siero, letame e carne. Senza dimenticare gli input poco o per nulla sostenibili come mangimi, insilati e persino (come a Primiero non esistesse erba...) fieno che si importano da fuori valle.29. Si veda: Sordo, Un mondo dove tutto torna, cit. pp. 31-34.30. Ibidem, p. 15.31. Il localismo vandalico come “consumo scriteriato e autodi-struttivo delle proprie risorse patrimonialie” “praticato proprio da popolazioni locali colonizzate da modelli culturali di moder-nizzazione che provengono dalla metropoli” è definito in Alberto Magnaghi, Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Torino, Bollati Boringhieri, 2010, pp. 104 e 134-135.

32. Gilles Clément, ad esempio, ha di recente enunciato il concetto di Giardini di resistenza come “metodo che si espri-me in un luogo e che apre nuove possibilità di partecipazione e nuove ipotesi di economia, soprattutto in questa fase di crollo economico e di necessità di cercare un futuro realmente diver-so.” Il documento Les jardins de résistence. Rêve en sept points pour une généralisatione dels jardins de résistence è scaricabile all'indirizzo web:

http://www.gillesclement.com/cat-jardinresistance-tit-Les-Jardins-de-resistance. Le citazioni qui riportate sono tratte da un'intervista che si può leggere all'indirizzo web: http://www.architetto.info/gilles-clement-a-mi-arch-2014-intervista-al-giardiniere-planetario-_news_x_24927...

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La riconquista agricola come«agricoltura resistente»:l'esperienza della Val di Non

di Oscar Piazzi*

L'agricoltura resistente come agricoltura di

sussistenza

Il tema di questo numero di Sentieri Urbani,

ovvero quello delle pratiche territoriali di

riconquista agricola, rappresenta in questo

ultimo periodo, uno dei temi di trasformazio-

ne urbanistica all'ordine del giorno. È questo il

caso anche della Val di Non, in provincia di

Trento, il cui sviluppo del sistema agricolo,

anche grazie al lavoro di pianificazione del ter-

ritorio che le Comunità (di Valle) devono con-

durre, è diventato in tempi recenti un elemen-

to di forte confronto tra amministratori, tecni-

ci, operatori del settore e semplici cittadini.

Come è noto, la pianificazione delle Comunità

è una delle competenze delegate per legge a

questo ente intermedio. Ed il tema assume

particolare importanza in sede di redazione

dello strumento urbanistico (il Piano territoria-

le della Comunità) proprio perché esso è chia-

mato a definire i perimetri delle aree agricole

di pregio che rappresentano l'ultimo baluardo

normativo pensato dal legislatore a difesa del

suolo. Le aree agricole di pregio, infatti, sono il

“vero” vincolo di tutela ambientale previsto

dalla seconda revisione del Piano urbanistico

provinciale, approvata del 2008: previste per

legge, incomprimibili e non declassabili le aree

agricole di pregio sono la matrice del territo-

rio, capace di essere un elemento di conteni-

mento della dispersione insediativa.

C'è anche un'altra questione che può essere

utile premetter in questa sede. A ben guarda-

re, la stessa definizione di «agricoltura resi-

stente», ancillare al tema in argomento, può

essere d'interesse per leggere il tema

dell'agricoltura: estremamente mutevole essa

risente in maniera sostanziale della sensibilità

delle epoche storiche in cui viene concepita e

praticata. Se ogni tempo è caratterizzato dalla

propria forma di agricoltura resistente, allora

può essere interessante capire in questo breve

scritto, la storia di questa modalità di sfrutta-

mento agricolo del territorio e quello che

intendiamo per questo fenomeno nel tempo

che stiamo attraversando, con particolare

attenzione a quello che è accaduto e che sta

avvenendo in Val di Non. Caratterizzato per

secoli da una poverissima economia di sussi-

stenza questo territorio collocato nella parte

nord-occidentale del Trentino, ha vissuto a

partire dal secondo Novecento una vera e pro-

pria rivoluzione agricola, passando da uno

sfruttamento capillare e “familiare” del territo-

rio, ad uno sfruttamento intensivo caratteriz-

zato dalla monocoltura della mela.*Oscar Piazzi. Architetto, risiede ed opera in Trentino, nell'Alta Val di Non

IL LABORATORIO TRENTINO2

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Oggi siamo lontani da una concezione tradi-

zione di agricoltura resistente, intesa come

quell'agricoltura capace di creare una econo-

mia di sussistenza in grado di fornire quei pro-

dotti base per garantire il “sostentamento”

delle famiglie. Eppure quella tradizionale ha

condizionato il territorio per molti secoli: era

una agricoltura caratterizzata dal grande lavo-

ro di donne e di uomini e dalla inevitabile

incertezza del risultato stagionale. Dagli orti

del primo millennio dopo Cristo ad oggi, tanta

fatica è stata profusa nella terra per fede e per

necessità. Ancora alla fine del 1400 la Val di

Non, come il resto del contesto prealpino, era

caratterizzata da un paesaggio molto coltiva-

to, frutto delle fatiche fisiche e culturali degli

abitanti in essa insediati. In queste terre diffici-

li, l'agricoltura si manifestava nella scelta di

quei terreni capaci di minimizzare gli sforzi

fisici e di massimizzare la resa delle colture. A

questo va aggiunta l'attività di miglioramento

costante effettuata nel corso dei secoli dai

contadini, orientata alla selezione di sementi

capaci di migliorare, anno dopo anno, la quali-

tà dei prodotti coltivati.

Si trattava, quindi, di un'agricoltura resistente

intimamente legata al contesto ambientale,

orientata alla sopravvivenza e limitata nella

varietà. Nella pratica l'agricoltura si articolava

in piccole porzioni di territorio, ben dislocati

nella morfologia e posizionati con logiche

strettamente legate al tipo di esposizione sola-

re, al tipo di terreno, alla presenza di acqua.

Elementi, questi, che hanno condizionato, di

conseguenza, la nascita dei primi centri abita-

ti. Anche gli insediamenti erano pensati asse-

condando queste logiche ed erano disposti in

simbiosi totale con il contesto ambientale

naturale ed agricolo artificiale in via di sedi-

mentazione. Edifici sulla “roccia”, posti in siti

sicuri dal punto di vista geologico e idrogeolo-

gico, “guardavano” su colture e pascoli in terre

fruttuose, controllabili e protette. Si trattava,

ancora, di una agricoltura resistente capace di

dettare i ritmi al contadino, i tempi delle gior-

nate, i cicli delle stagioni, in maniera stabile

rispetto a quello che accade oggi, con garan-

zie anche climatiche maggiori. Un equilibrio

stagionale che dava comunque un contributo

notevole alle avanguardie agricole che salvo

eventi eccezionali potevano contare su una

ritmica che dava garanzia alla loro agricoltura.

L'agricoltura resistente come agricoltura

intensiva

I secoli sono passati. Le colture si sono alter-

nate, la tecnica ha fatto i molti passi in avanti, i

mezzi e le condizioni ambientali sono cambia-

ti. Oggi la realtà della Val di Non da una acce-

zione diversa di agricoltura resistente.

L'epifenomeno di questa sensibilità è stato

l'affermarsi, negli ultimi decenni, della meli-

coltura intensiva, che dai suoi albori, ormai più

di un secolo fa, ad oggi, ha avuto un processo

evolutivo affascinate ed inarrestabile. Si è pas-

sati dall'originaria mela «nonesa», premiata a

Vienna e contenuta in cassette bombate di

paglia e stoffa, alla pluridecennale selezione

della specie più consona al mercato (tra l'altro

ancora in corso), fino alla intensa e sofisticata

ricerca di metodi e prodotti capaci di portare

ad un risultato qualitativo e quantitativo il

migliore possibile. Nel corso del Novecento, la

Val di Non si è trasformata, in molte zone, da

una realtà frammista di frutteti non strutturati

di varie specie, campi e pascoli, ad una maglia

omogenea di meleti. E, conseguentemente,

anche il paesaggio è mutato radicalmente, si è

“semplificato”, perdendo biodiversità e quali-

tà. Emblematiche, in questo senso, alcune

condizioni “estreme” dal punto di vista ecolo-

gico, laddove biodiversità puntuale è garanti-

ta dai soli giardini di competenza alle residen-

ze.

Tale nuovo processo è stato permesso anche

da una modificazione climatica avvenuta in

valle nel corso del Novecento: in tale epoca,

infatti, è stato costruito il grande invaso artifi-

ciale della diga di Santa Giustina che non solo

ha riempito un tratto di valle, ma ha dato ori-

gine da un ampio lago capace di dare al terri-

torio una nuova connotazione climatica, più

idonea all'agricoltura, e che ha probabilmente

agevolato coltivazione della mela.

In questo contesto, il concetto di resistenza è

diverso da quello più antico citato poc'anzi. La

resistenza è diventata quel processo legato ad

un modello economico e di redditività impor-

tante che si è spinto oltre, arrivando alla colti-

vazione ed alla commercializzazione di un pro-

dotto DOC che ha portato notevoli benefici

all'economia locale. Si pensi che nel 2014 il

raccolto ha raggiunto la quantità di 42.000

“vagoni” (ovvero “camionate” di frutta), il che

significa 420.000 tonnellate di mele. Una real-

tà economica ed imprenditoriale di rilievo frut-

to di un processo di trasformazione da attività

di resistenza per la sussistenza ad attività eco-

nomia agricola globalizzata. Il tutto ha sicura-

mente cambiato l'approccio all'agricoltura.

Questa è progressivamente diventata di “si-

stema”, strutturata, economicamente rile-

vante e politicamente influente. Anche il pae-

saggio ha subìto mutamenti e si è adattato ad

essere un grande scenario monocolturale,

costituito da una agricoltura intensiva ovun-

que distribuita sul territorio. È evidente che

questo modello agricolo, definibile anche per

la sua affermazione ed estensione di appiatti-

mento colturale una mono-agricoltura, ha

sollevato numerosi interrogativi e anche pole-

miche.

Gli “interrogativi” guardano principalmente la

presa di coscienza che un sistema siffatto ha

le sue debolezze, fragilità anche economiche,

ovvero potrebbe non essere, alla lunga, com-

petitivo. Le “polemiche” – parola molto forte

ma esplicita – fanno invece riferimento alla

metodologia che questa frutticoltura applica

sul territorio, con riferimento in particolare ai

trattamenti antiparassitari invasivi. Se poi

viene preso in argomento il paesaggio, che nel

caso della monocultura diventa più povero e

banalizzato, ecco che i temi di discussione si

ampliano ulteriormente.

Nuovi scenari di resistenza agricola

Recentemente, anche in Val di Non si stanno

delineando nuove sensibilità. Correnti alter-

native alla melicoltura intensiva si stanno

affermando sulla base di nuovi principi, legati

alla tutela della biodiversità del paesaggio, ad

un’ economia agricola della tradizione o anco-

ra ad una pluralità di soluzioni produttive

estensive. Queste nuove sensibilità hanno

recentemente influito anche le scelte della

pianificazione territoriale in atto. Come è

stato già anticipato, infatti, la Comunità della

Valle di Non ha in corso di redazione il proprio

strumento urbanistico, il Piano Territoriale

della Comunità. Ed in seno alla definitiva

approvazione del “Documento preliminare”

(un documento propedeutico alla redazione

del piano, discusso da un tavolo di stakeholder

ed rappresentanti politici e finalizzato ad indi-

viduare la “vision” del piano) non si è potuto

non considerare la determinata presa di

coscienza da parte dei Comuni dell'Alta Valle

di Non (territori che raccolgono una fetta non

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rilevante si tutto il territorio della Comunità)

verso una diversa gestione agricola del pro-

prio territorio, emancipata dal sistema concla-

mato dell'agricoltura strutturata intensiva.

L'Alta Valle di Non inizia a riconoscere la pro-

pria diversità. Per la prima volta sono stati indi-

viduati dentro uno strumento urbanistico

degli ambiti territoriali diversi, i quali iniziano

ad emergere dopo una dura resistenza stori-

co, culturale e politica che intendeva la Val di

Non un unico ed omogeneo ambito territoria-

le. L'originalità del territorio dell'Alta Valle è

legata ad una continuità con il proprio passato

e alla consapevolezza che la diversità di pae-

saggio corrisponde ad una ricchezza del terri-

torio. Una ricchezza che è ben rappresentata

da quelle piccole realtà agricole che si occupa-

no della produzione di prodotti tipici da desti-

nare ad un mercato per il consumo locale,

rispettando il fatidico chilometro zero. In que-

sto solco si inserisce la volontà di riprendere la

tradizione anche con prodotti del tipo biologi-

co, di recuperare e preservare il paesaggio tra-

dizionale, di guardare alla zootecnia in modo

differente, di pensare al pascolo come un ele-

mento da tutelare. Di tendere, insomma, alla

identità, alla sostenibilità, al distretto agricolo,

ad un architettura agricola a basso impatto,

come elementi capaci di portare ad un agri-

coltura della resistenza oggi più che mai “resi-

stente”. La resistenza ad una deriva che stava

rischiando di “azzerare” un contesto ambien-

tale e paesaggistico, indebolendolo anche

probabilmente dal punto di vista economico.

Con gradualità, dopo una prima difficoltà di

imposizione e scetticismo culturale, questa

nuova tendenza si sta radicando nella comu-

nità locale. Concetti come quello di Parco agri-

colo, temi legati alla vocazionalità agricola

montana, argomenti legati al paesaggio rap-

presentativo, non sono solo diventate delle

opinioni correnti, ma si sono trasformati in

norme espresse nei Piani regolatori generali

dei Comuni d'alta valle e sono alla base della

loro progettazione urbanistica. Queste nuove

tendenze sono sostenute da movimenti di

pensiero e linee strategiche di forte condivi-

sione sociale. Non è un caso che unità ammi-

nistrative comunali coese propongano una

realtà parallela e non alternativa o concorren-

ziale, alla melicoltura intensiva con l'obiettivo

di rafforzare il sistema di Valle. Nuovi mercati,

una coltura della diversità e nuovi interessi

economici, stanno dando sprono alla “varie-

gazione” del territorio, sostenuta da filiere

corte di nuovi e diversi operatori del settore

agricolo.

Per concludere, è possibile affermare che esi-

stono molti modelli di agricoltura resistente,

ognuno dei quali è figlio di un particolare

momento storico. Ma è possibile individuare

alcune regole generali che valgono oltre i

modelli particolari: sempre ed in ogni caso un

agricoltura è resistente perché deve soddisfa-

re un fabbisogno alimentare e sempre ed in

ogni caso viene perseguito un legittimo ritor-

no economico. Ecco quindi che la gestione del

territorio ed il fare paesaggio tramite

l'agricoltura, diventa progressivamente una

delle componenti vitali per la tutela e la quali-

tà dei territorio di montagna. Invitati, oggi più

che mai, ad una nuova fase di “resistenza”.

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Cr(eat)ing City è un libro che parla di un rinno-vato rapporto tra cibo e città attraverso gli effetti che esso genera, non solo in termini di produzione e distribuzione di alimenti, ma anche e soprattutto per la sua capacità di modi-ficare i nostri stili di vita, di creare, nuove forme di socialità. Il libro, di Emanuele Som-mariva e edito da ListLab, è il risultato di un lavoro di ricerca dell'autore da cui il libro mutua la struttura e la rigorosità del ragiona-mento.

L'agricoltura urbana non è utopia. L'agricoltura urbana esige la dimensione progettuale. L'agricoltura urbana è realtà aumentata. L'agricoltura urbana suggerisce un approccio debole. L'agricoltura urbana suggerisce aggre-gazione. L'agricoltura urbana interpreta la comunità. L'agricoltura urbana ricicla. L'agricoltura urbana cresce. Emanuele Sommariva affida a questi otto punti la sintesi di un discorso che, interpretan-do la storia – passata e recente – del complesso rapporto tra città e campagna, prova a fare luce sui diversi significati che l'agricoltura urba-na assume nella cultura contemporanea.Si tratta di una sorta di Manifesto programma-tico che l'autore consegna al lettore, allo stu-dioso, al progettista, e che, nonostante la sua forma assertiva, può essere inteso più come un canovaccio, che come un copione già scritto.Il progetto come dispositivo, l'incertezza come principio e il riciclo come strategia, sono questi gli strumenti individuati per definire una nuova comunità che trova in uno scenario agro urba-no innestato sui paesaggi di scarto della modernità una visione condivisa di futuro.

L'ipotesi della tesi qui sostenuta si articola intorno ad almeno 3 considerazioni prelimina-ri; la prima riguarda il riconoscimento dell'esistenza di paesaggi “in un costante stato di prossimità non risolta, che si dispongono tra e dentro le pieghe del costruito, lasciando zone d'ombra e di mancata definizione rispetto alle categorie interpretativo-descrittive”. La secon-da considerazione deriva dalla presa d'atto di un fenomeno sociale, sempre più evidente che riguarda quelle “classi sociali che senza venir estromesse dalle varie logiche urbane, hanno volontariamente scelto di abitare in contesti differenti, in cerca di migliori qualità dell'abitare e di maggiore contatto con la natura”. Tutto ciò, insieme al “crescente interesse rispetto modelli economici alternativi, nuove forme di produzio-

LA RECENSIONE

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di Chiara Rizzi

Emanuele Sommariva, 2014,Cr(eat)ing City.Strategie per la città resiliente.List/Laboratorio Internazionale Editoriale

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ne e diffusione che coinvolgano questi luoghi e le comunità in essi insediate” determina la neces-sità immaginare nuove strategie per nuovi pae-saggi.

Strategie per la città resilienteDalla rivoluzione industriale fino alla crisi attuale, “la centralità del processo industriale, i modelli di sviluppo urbano e di organizzazione sociale legat i ad esso hanno condotto l'agricoltura e i territori rurali ad un ruolo sempre più marginale”. Ciò ha prodotto una cultura che potremmo definire della separazione, soprat-tutto per ciò che riguarda la percezione dell'interdipendenza dei fenomeni tra le tra-sformazioni in campo agricolo e l'urbaniz-zazione. La crisi globale ha riportato il rapporto d'interdipendenza del paesaggio agricolo e di quello urbanizzato al centro della riflessione. Si tratta infatti di una crisi che è soprattutto di natura ecologica, prima ancora che economica e sociale. Essa riguarda in toto i rapporti degli esseri viventi con l'ambiente si confronta diret-tamente con la disponibilità delle risorse e la loro accessibilità. Poiché agricoltura e urbaniz-zazione utilizzano le “medesime risorse, tra l'altro sempre più rare: terra, acqua ed energia”, non possono che essere pensate come due aspetti della stessa questione, anche e soprat-tutto alla luce di uno scenario di crescita costante dell'urbanizzazione. Nel 1800, solo il 2% della popolazione mondia-le abitava nelle città, nel 1950 tale percentuale era passata al 30%, mentre nel 2008, per la prima volta nella storia dell'umanità, la percen-tuale della popolazione urbana ha superato la soglia del 50%. Si stima che ogni giorno circa 180.000 persone si aggiungono alla popolazio-ne urbana e si prevede che entro la metà di que-sto secolo tale quota arriverà a oltre i due terzi (UNICEF, 2012).Se si considera che entro il 2050 la popolazione mondiale supererà i 9 miliardi di individui, si può prevedere un aumento della domanda di cibo del 70%, di cui oltre il 42% di prodotti deri-vati da coltivazioni risicole, cerealicole e del 35% di allevamenti bovini e suini.Lo sviluppo dello sprawl, la fine della produzio-ne in serie, i sistemi di comunicazione globale, come internet, le recenti crisi finanziarie, le emergenze ambientali e la sensibilizzazione collettiva sui temi di risparmio energetico e uso di fonti rinnovabili, sono le trasformazioni cul-turali che, secondo la tesi del libro, hanno con-tribuito a trasformare i presupposti del proget-

to contemporaneo, assegnando allo spazio pubblico e a interventi sul paesaggio un ruolo predominante. L'esito di questo cambiamento ha prodotto una convergenza di numerose pra-tiche di trasformazione del paesaggio, tali da anticipare e ridefinire nuovi orizzonti discipli-nari. A questo proposito l'autore fa propria la teoria di Charles Waldheim, il quale definisce due filoni ben distinti all'interno del Landscape Urbanism: il primo, sviluppatosi nel nord Ame-rica, concentra l'attività sul riciclo di quei terri-tori post-urbani (centri commerciali, aree indu-s t r i a l i d i s m e s s e , v u o t i u r b a n i , l u o g h i dell'integrazione e del conflitto sociale, grandi infrastrutture...) nella dimensione del paesag-gio; il secondo, di matrice europea, adotta una posizione più regionalista per la conservazione del genius loci, in cui il paesaggio si configura come sistema di riferimento entro cui ricono-scersi, contro l'appiattimento della visione imposto dalla globalizzazione. In entrambi i casi, l'agricoltura urbana, definita come “quell'attività agricola le cui risorse sono o posso-no essere oggetto di un'utilizzazione diretta da parte dei cittadini, siano esse localizzate all'interno o ai confini di un'area abitata” (Paul Moustier, Centre International de Recherche Agronomique pour le Développement), gioca un ruolo fondamentale. Negli ultimi anni, infat-ti, sta emergendo con chiarezza la possibilità dell'agricoltura urbana di occupare qualsiasi tipo di spazio generato dalla città moderna e post-moderna, al di là delle classificazioni pro-prie dell'urbanistica tradizionale e, di conse-guenza, la capacità di questo tipo di trasforma-zioni di creare una nuove identità, strettamen-te correlata al tema emergente della resilienza urbana. Gli spazi urbani coltivati, infatti, posso-no essere considerati spazi di transizione, in cui le caratteristiche proprie degli ecosistemi urba-ni e rurali si mescolano generando spazi inediti, potenziati nella loro capacità di rispondere in maniera efficace alle perturbazioni, siano esse di natura endogena o esogena. Per orientarsi nella vasta letteratura esistente, l'autore utilizza la suddivisione in capitoli piut-tosto come un espediente narrativo che come una vera e propria struttura statica di ragiona-mento; ogni capitolo appare concluso in sé anche se, a ben vedere, fortemente connesso con gli altri. E così che questo libro può essere fruito seguendo la traiettoria tracciata dall'autore, oppure scomposto e ricomposto, quasi come fosse un cofanetto di fascicoli a se stanti. Questo tipo di struttura appare con mag-

giore evidenza nel quarto capitolo (nuove stra-tegie), il cui obiettivo dichiarato è quello di costruire una tassonomia comparata di pro-getti. Metropoli, riciclo, eco-distretti e parchi sono i 4 concetti intorno ai quali tale tassonomia viene articolata. Nello specifico s'indagano i contesti legati allo sviluppo urbano (AU + Metropoli), e al suo sottoprodotto (AU + Riciclo), indagando le forme ed i ruoli che le pratiche agricole pos-sono assumere nei processi di gestione dei ter-ritori, in relazione alle grandi realtà metropoli-tane e come strategia per attribuire un nuovo valore e un nuovo senso alle aree in disuso o sottoutilizzate. Le altre due categorie indivi-duate si riferiscono al ruolo che le aree agricole urbane possono svolgere nell'ambito delle sal-vaguardia e della mitigazione ambientale (AU+Eco-distretti) e nella strutturazione della matrice paesaggistica dei territori periurbani (AU+Parchi).Ognuna di queste unità tassonomiche si con-clude con un caso studio. Ai quattro casi studio è affidato il compito di sintetizzare gli aspetti emergenti di ciascuna unità. Lo sviluppo di azio-ni locali auto-organizzate, spesso dal carattere temporaneo, per incentivare l'inclusione socia-le e definire modelli di filiera corta anche nel contesto urbano newyorkese che caratterizza-no il progetto Coltivare nei Five Boroughs diven-tano esemplificative del rapporto tra agricoltu-ra urbana e aree metropolitane. Attraverso la narrazione delle strategie di riuso degli spazi aperti abbandonati o sottoutilizzati dovuti alla cr is i del settore industr ia le cubano e all'isolamento dai grandi mercati internaziona-li del progetto Havana especial il libro ci raccon-ta le potenzialità insite nell'attivazione di stra-tegie di riciclo attraverso la trasformazione di aree di scarto in aree coltivate. Il progetto Agro-polis München, al contrario, mette in luce la pos-sibilità dell'agricoltura urbana di agire come incubatore di spazi in transizione. Infine, l'agricoltura urbana diventa anticipatrice di cambiamento, strumento d'innovazione del concetto di tutela passiva dei paesaggi nel pro-getto Campagna Salentina, sviluppato in occa-sione del nuovo Piano Urbanistico del Comune di Lecce.

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«Agricoltura e urbanizzazione utilizzano le medesime risorse,tra l'altro sempre più rare: terra, acqua ed energia».

Emanuele Sommariva

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LIBRI

La biblioteca dell’Urbanista

L'ipotesi di rimettere al centro del progetto urbanistico le “Terre comuni” nasce dal disagio che la perdita progressiva di identità dello spazio pubblico ha creato nella città contemporanea. Questo libro sposta l'attenzione dall'oggetto allo spazio tra gli oggetti, fissa il proprio fuoco sui residui: i vuoti inutilizzati, le aree dismesse, i frammenti agricoli e naturali, le spianate tra i contenitori specializzati e le piazze dei quartieri moderni. Spazi che presentano potenzialità di trasformazione e caratteristiche tali da configurare un nuovo tessuto connettivo tra i frammenti della contemporaneità. Le terre comuni sono dunque gli spazi dove è possibile ricostruire una dimensione sociale e simbolica dell'abitare nella città contemporanea.

L'Italia è ricca di agricoltura tradizionale che si manifesta con una miriade di paesaggi, autentici spazi di agricoltura multifunzionale. Ad oggi manca una condivisa strategia di salvaguardia dei paesaggi agrari tradizionali nonostante l'alto valore ecologico-ambientale, storico-culturale e socio-economico, questo anche a causa della scarsa conoscenza della loro effettiva numerosità, distribuzione, funzione e stato di conservazione. Il volume riporta un percorso di ricerca per la formulazione e validazione di un modello metodologico interdisciplinare e integrato, sviluppato in due diverse aree studio (Sicilia e Lazio), per una mappatura e catalogazione dei paesaggi agrari tradizionali dell'albero.

Nel 1961 Emilio Sereni pubblica "Storia del paesaggio agrario italiano", un libro che rimane ancora un caposaldo per indagare le trasformazioni agricole, politiche e sociali del territorio italiano. Le ricerche di Sereni non sono oggi meno attuali di ieri. Nuovi percorsi, nuove letture, nuove indagini danno fresca linfa al testo sereniano, e sono tutti raccolti in questo ricco volume. Centocinquanta saggi di più di centossessanta studiosi, per la maggior parte italiani, provenienti da settori disciplinari e di ricerca anche molto diversi tra loro, legati a stretto filo dalla figura e dall'opera di Emilio Sereni, la cui eredità scientifica è pienamente presente.

Enrico Formato“Terre comuni”

Clean edizioni, Napoli 2014, 15 euro

Giuseppe Barbera, Rita Biasi,Davide Marino (a cura di), “I paesaggi agrari tradizionali.Un percorso per la conoscenza”

FrancoAngeli, Milano 2014, 39 euro

Gabriella Bonini, Chiara Visentin (a cura di),“Paesaggi in trasformazione.Teorie e pratiche della ricercaa cinquant'anni dalla storia del paesaggioagrario italiano di Emilio Sereni”

Compositori editore, Bologna 2014, 20 euro

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