psicologia dell'educazione. pontecorvo

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MANUALE DI PSICOLOGIA DELL’EDUCAZIONE-Pontecorvo §§§CAP1. LA PSICOLOGIA DELL’EDUCAZIONE OGGI. UNA NUOVA CONCEZIONE DELL’APPRENDIMENTO E DELL’INSEGNAMENTO. La tematica centrale della psicologia dell’educazione è quella dell’apprendimento-insegnamento. Negli anni ‘40-’50 la psicologia dell’educazione era dominata dal comportamentismo, che considera l’apprendimento come il consolidamento di un risposta che viene rinforzata e quindi appresa attraverso una opportuna somministrazione di contingenze di rinforzo. Tra la fine degli anni ’50 e la fine degli anni ’60 c’è un primo affermarsi del cognitivismo e la progressiva considerazione del contenuto dell’apprendimento e del ruolo del contesto in cui <si elabora e si immagazzina l’informazione>(Neisser). In particolare, nel 1968 Ausubel(considerato un precursore del cognitivismo) pubblica il testo Educational Psychology. A cognitive View, il cui motto iniziale è <valuta che cosa uno studente già sa e agisci di conseguenza>. Secondo Ausubel, le conoscenze precedenti di un soggetto sono un fattore determinante rispetto alle modalità in cui si comprende e si apprende un argomento nuovo. Negli anni ’60 va diffondendosi anche la concezione di Vygotskii elaborata nel 1934 che considera l’apprendimento delle <funzioni psichiche superiori> come frutto dell’interiorizzazione di ciò che in primo luogo si manifesta nell’interazione sociale, cioè nello scambio che ha luogo tra un soggetto meno competente (per lo più un bambino) e un soggetto più competente (un coetaneo o un adulto che può essere anche un insegnante). Quindi l’interazione sociale crea le condizioni per l’interiorizzazione. L’apprendimento non è più al momento attuale riportabile ad una teoria o ad un modello unitario, perché non tutto si apprende nello stesso modo e nelle stesse condizioni. Sono molto importanti i fattori di contenuto, di situazione oltre che la cultura, il contesto relazionale, l’attività. L’apprendimento però è qualcosa che resta: un processo che ha avuto luogo quando qualcosa che un individuo ha ascoltato,letto, fatto, detto, scritto, resta nella sua memoria per essere recuperato in un momento successivo. PROSPETTIVA COGNITIVISTA E SOCIOCULTURALE: RAGIONI DI UNA SCELTA La posizione sostenuta in questo testo è quella di chi ritiene che la psicologia dell’educazione si debba connotare come una psicopedagogia dello sviluppo culturale, come punto d’incontro cioè tra modelli dello sviluppo e modelli della socializzazione e dell’istruzione. Tale prospettiva dà importanza alla cultura e al contesto. Si è venuta dunque sviluppando una impostazione di psicologia culturale, in cui si è verificata la convergenza di vari studiosi, anche per l’influenza delle prospettive della scuola storico-culturale russa che cominciano a far sentire l’influenza sullo sviluppo della psicologia occidentale, a partire dagli anni ’60. uno di questi studiosi e stato Bruner, che fin dagli anni ’60 ha sostenuto che lo sviluppo psicologico di un essere umano non può avvenire al di fuori di una cultura e ha capito come questa influenza non poteva riguardare solo le ricerche interculturali o transculturali, cioè il confronto tra culture diverse, ma tutte le ricerche evolutive-educative. È tuttavia vero che è proprio il recente afflusso di nuove etnie molto varie anche nel nostro paese e l’inserimento di bambini di cultura non italiana nel sistema educativo che ha portato alla luce le molteplici componenti culturali dello sviluppo e dell’apprendimento. Lo scopo essenziale di una psicologia culturale, dice Bruner, è quello di reintrodurre la psiche nella cultura e la cultura nella psicologia. Diventa pertanto centrale attribuire un significato agli eventi, in quanto incontri con il mondo e scambi con gli altri. La

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cultura diventa l’insieme dei significati di sfondo condivisi da un gruppo umano che si manifesta essenzialmente nella conversazione quotidiana. Secondo Cole, gli antefatti della psicologia culturale si trovano al momento stesso della nascita della psicologia con Wundt che sosteneva la necessità di due tipi di ricerca psicologica, una di tipo sperimentale per lo studio delle leggi elementari della psicologia fisiologica ed una seconda di tipo descrittivo per studiare la genesi delle funzioni psichiche superiori, considerando che è la gamma delle esperienze di vita che produce le differenze tra le società umane. SOCIALIZZAZIONE E APPRENDIMENTO La famiglia è considerata la prima sede di socializzazione; gli altri contesti come sedi secondarie di socializzazione ma sempre molto decisive, come è il caso della socializzazione lavorativa. E’ preferibile parlare di socializzazione anziché di apprendimento perché il termine <socializzazione> include una molteplicità interrelata di conoscenze, tecniche, linguaggi, atteggiamenti, relazioni interpersonali: di modi di fare e di essere di un interlocutore (cioè di uno che parla e che ascolta in una conversazione a più partecipanti) in un contesto sociale, definito anche da norme e valori. Quindi non una socializzazione che si risolve nell’adattamento a ciò che preesiste, quanto piuttosto un processo interattivo multidirezionale, in cui chi ancora non sa svolge un ruolo progressivamente più attivo e creativo che produce innovazione nel contesto. In altri termini, si apprende in quanto si produce qualcosa di nuovo, che induce cambiamento anche negli altri partecipanti. VYGOTSKIJ E DINTORNI La teoria vygotskiana ha apportato un notevole contributo alla psicologia culturale. La teoria è interazionista, come del resto quella di Piaget: lo sviluppo nasce dall’interazione tra individuo e ambiente. La differenza tra i due studiosi riguarda la definizione di ambiente: per Piaget è prevalentemente la realtà naturale e artificiale, vista per lo più nei suoi aspetti fisici e matematici; per Vygotskij si tratta invece del mondo sociale e culturale, in cui entrano le relazioni umane e sociali, le mediazioni linguistico-discorsive, gli artefatti culturali. L’apprendimento non è visto come un passaggio di nozioni ma è una costruzione sociale che si produce nei soggetti che apprendono attraverso la mediazione dall’insegnamento in contesti specifici e attraverso sistemi di segni e simboli, di amplificatori culturali diversi, tra i quali oggi è molto importante il computer. Già tempo fa Olson e Bruner contrapponevano l’apprendimento che avviene per esperienza diretta (come nelle attività motorie e manuali) a quello che avviene per esperienza mediata, che include la massima parte degli apprendimenti scolastici. Bruner concepisce la cultura come un sistema di segni che si serve di una serie complessa di amplificatori o di artefatti culturali, a partire dai sistemi di scrittura, dai modi di contare e di quantificare, dalle rappresentazioni geografiche, dalle narrazioni e dalle storie. Uno dei compiti dell’educazione è far entrare bambini e ragazzi nel mondo dei sistemi simbolici, nei modi che sono stati elaborati e valorizzati nella cultura di appartenenza, ed è una componente fondamentale di una prospettiva psicologico-culturale. A Vygotskij si deve il concetto di <zona di sviluppo prossimale>, cioè quell’area che è misurata da un testing che non si limita a misurare solo le capacità attuali –quelle che un soggetto sa fare da solo- ma anche quelle prossime e potenziali misurate in relazione all’entità dell’aiuto fornito da un altro più

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competente. Ad esempio il gioco è un’attività in cui il bambino spesso opera nella sua area di sviluppo prossimo, andando cioè al di là delle sue capacità attuali, perché l’attività di gioco, il materiale che ha a disposizione, la presenza degli altri servono proprio da supporto <esterno>. La zona di sviluppo prossimo è un buon modello della socializzazione e dell’apprendimento che si realizza nei contesti naturali della famiglia, del gruppo dei pari, della scuola. Gli adulti spesso offrono ai bambini quello che è stato definito come scaffolding, cioè come l’impalcatura di sostegno che è offerta al bambino e poi progressivamente smantellata man mano che egli diviene capace di svolgere autonomamente parti dell’attività fino a riuscire a padroneggiare interamente tutta l’attività che è stata inizialmente condivisa e guidata dall’adulto. Le componenti principali dello scaffolding sono:

a) reclutare il bambino al compito; b) mantenere la direzione dell’attività verso il problema da risolvere; c) semplificare le componenti del compito; d) mostrare le possibili soluzioni; e) ridurre i gradi di libertà della soluzione.

APPRENDIMENTO E COLLABORAZIONE: CONFLITTO E CO-COSTRUZIONE Oggi si parla sempre più di apprendimento collaborativi, in cui ciascun partecipante studia un aspetto diverso del problema comune, che viene elaborato a parte o in precedenza, e i contributi vengono poi messi insieme. Nell’apprendere in gruppo si evidenziano forme di <condivisione della conoscenza> in cui il linguaggio-discorso utilizzato dai partecipanti nell’interazione svolge un ruolo sempre più rilevante per la costruzione dei significati e delle nuove conoscenze. Durante la collaborazione tra coetanei può sorgere un conflitto produttivo, in parte regolato dall’insegnante che svolge un ruolo decisivo fino a che la conversazione generale ha bisogno di un sostegno per raccogliere e rilanciare, accettandolo, il discorso dell’altro. Ma quando si innescano le sequenze conflittuali di disputa, il ruolo dell’insegnante non è più rilevante e la contrapposizione tra bambini si alimenta da sola. E’ all’interno della disputa che si elaborano le spiegazioni più raffinate come strumento di risposta alle obiezioni dell’altro che nello stesso tempo fanno procedere, nello scambio sociale, l’apprendimento. APPRENDIMENTO E CONTESTO Ogni apprendimento o conoscenza sono situati, in quanto non esistono indipendentemente dal modo in cui i partecipanti la contestualizzano. Duranti e Goodwin definiscono il contesto come il quadro culturale entro cui ha luogo un particolare evento interattivo e che offre risorse (e vincoli) per la sua realizzazione e interpretazione ed è a sua volta arricchito e cambiato dalle azioni e dalle parole di tutti i partecipanti. Bachtin ad esempio sostiene che ogni discorso allaccia un dialogo con i discorsi già tenuti sullo stesso oggetto nonché con i discorsi futuri. L’apprendimento collaborativi si presenta in una forma sia consensuale sia oppositiva, la modalità oppositiva è quella in cui il ruolo dell’insegnante non è rilevante rispetto all’interazione tra bambini, i quali nelle dispute possono procedere nel ragionamento senza aver bisogno del sostegno adulto. APPRENDIMENTO COME PARTECIPAZIONE La metafora della partecipazione comporta che la situazione di apprendimento sia organizzata in modo tale da consentire ai discenti di partecipare in forma progressivamente sempre più centrale ad un sistema di attività. Si tratta di una concezione che può guidare anche l’organizzazione di ambienti per l’apprendimento

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o comunità di discorso o di discenti, perché oltre ad apprendere conoscenze, tecniche e procedure, si instaurano anche delle reti interpersonali di comunicazione, si apprendono modi e relazioni sociali. I RISULTATI DELL’APPRENDIMENTO: LE COMPETENZE TRASVERSALI L’istruzione obbligatoria deve garantire a tutti le seguenti competenze: § comprendere testi; § comunicare ad altri idee e dati; § elaborare ed interpretare dati quantitativi usando tecniche di tipo matematico; § impostare e risolvere problemi; § lavorare e collaborare con gli altri; § disporre di strumenti e pratiche di fruizione e produzione di arte, musica, teatro, poesia, letteratura… § imparare a imparare. SISTEMI DI ATTIVITA’ E CONOSCENZA SITUATA La teoria utilizzata come riferimento per qualsiasi attività umana all’interno della quale sono possibili modalità di apprendimento è la teoria dell’attività di Leont’ev, secondo la quale un’attività situata è quella in cui sono presenti dispositivi, materiali, forme di conoscenza storicamente costituite e socialmente distribuite, processi di interazione sociale, modi di azione e rappresentazioni mentali. Per questo oggi si considera l’apprendimento come situato, in quanto avviene sempre in una particolare situazione contestuale ed è distribuito perché si distribuisce su di una serie di supporti e di strumenti. Ne deriva che la conoscenza non è più definita come verità assoluta ma come credenza localmente accettata. Oggi si guarda, forse, con maggior interesse, alle forme di apprendimento e conoscenza che hanno luogo al di fuori delle istituzioni formative. E’ quello che Collins ha chiamato <apprendistato cognitivo> per sottolineare che le conoscenze sono apprese in relazione ai loro usi nei diversi contesti e attraverso l’esperienze guidata. N.B.: Principi condivisi di una psicologia culturale: 1. Sottolinea un’azione mediata in un contesto. 2. Insiste sull’importanza di un metodo genetico che include livelli di analisi storici, ontogenetici e microgenetici. 3. Cerca di basare la sua analisi su eventi quotidiani. 4. Assume che l’attività mentale emerge nell’azione mediata e congiunta di più persone. La mente è co-costruita e distribuita. 5. Assume che gli individui sono agenti attivi del loro sviluppo, ma non agiscono in situazioni di loro completa scelta. 6. Respinge spiegazioni scientifiche di tipo causa-effetto o stimolo-risposta a favore di spiegazioni che sottolineano la natura emergente della mente inattività e riconoscono un ruolo centrale all’interpretazione. SIGNIFICATO E PROSPETTIVA DIALOGICA La creazione in una situazione scolastica di una intersoggettività collettiva, nella quale insegnanti e studenti possano condividere l’oggetto del discorso problematico, è la condizione necessaria affinché si possa creare una situazione di reale insegnamento-apprendimento. Pertanto, il significato non risiede nella mente del singolo individuo, ma è il risultato di una negoziazione sociale e culturale. L’attività di conoscenza e di apprendimento ha bisogno di attività sociali concrete in cui svolgersi e comporta sempre il rapporto con gli altri, la negoziazione di significati, l’uso di artefatti,

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strumenti, procedure e quadri concettuali. E’ una concezione che da rilievo all’aprrendimento nei suoi aspetti processuali, esterni, prevalentemente discorsivi e comunque osservabili, piuttosto che ai risultati, mirabili solo con prove ad hoc, in cui invece si assume che l’apprendimento può darsi solo come risultato di un’attività di studio individuale. Quindi, l’apprendimento deve partire e tornare nel suo contesto naturale che è quello scolastico ed accademico, rispetto a cui il lavoro individuale (svolto a casa) può essere solo il complemento e non il fulcro. IDENTICITA’ ED ETICITA’ Si apprende e si ricorda ciò che è funzionale alla costruzione della propria identità personale, ed esiste un rapporto tra apprendimento e crescita psichica. Come è noto il senso che ogni individuo ha di sé è il prodotto dinamico emergente dalle sue relazioni interpersonali. Come ognuno di noi si pone nell’interazione è strettamente connesso alle modalità con cui gli altri ci vedono e al modo in cui noi stessi affrontiamo la relazione. Ne consegue che l’identità personale viene continuamente elaborata, ridefinita, negoziata nello scambio con l’altro. In questa costruzione svolge un ruolo determinante l’identità di genere, cioè il progressivo costruirsi come maschio e come femmine. Anche la scuola svolge un ruolo importante nella costruzione dell’identità, perché gli insegnanti sono figure identitarie importanti per bambini/e e ragazzi/e, i quali trascorrono a scuola la maggior parte del loro tempo in età evolutiva. Gli insegnanti costituiscono non solo dei modelli per l’apprendimento, ma anche delle figure di identificazione, aggiuntive e in qualche caso alternative a quelle genitoriali. Possono infatti rappresentare delle opzioni di vita diverse, dei modi di pensare, che non hanno solo la funzione di trasmettere conoscenze, ma sono anche dei modi di essere e di stare nel mondo. Tutti i rapporti educativi, con le loro asimmetrie, così come i rapporti paritetici di amicizia e di collaborazione, sono strumenti essenziali per la costruzione e la ricostruzione di sé, in quanto tutto ciò consente ai singoli soggetti di costruirsi una immagine di sé come persona, ma anche come allievo che può (o non può) imparare; conseguentemente ci si può costruire anche una stima di sé che è determinante per la motivazione e la riuscita negli apprendimenti. Sono le narrazioni e i discorsi quotidiani il mezzo attraverso il quale gli individui co-costruiscono la conoscenza, l’identità, la realtà stessa. L’identità è oggetto di costruzione e di ricostruzione narrativa, in cui gli scambi con gli altri significativi, e il contesto culturale e relazionale in cui avvengono, giocano un ruolo determinante, in una prospettiva di notevole interdipendenza. Una tale interdipendenza interpersonale è anche quella che sta alla base della costruzione della propria eticità. L’istanza etica si manifesta innanzitutto nel riconoscimento dell’altro e dei suoi bisogni, analoghi ai nostri. Il fatto che i nostri diversi sé abbiano sempre bisogno degli altri per essere ridefiniti è la base per realizzare la collaborazione, lo scambio e la convivenza tra diversi. A tal fine la scuola può creare occasioni per la realizzazione di questi principi e modalità di funzionamento conseguenti. All’inizio dando <diritto>alla parola e all’ascolto attento affinché i bambini possano pensare sulle attività, su se stessi e sugli altri, parlando e interagendo nelle attività educative e ludiche. Bachtin a riguardo dice:<La vita per sua natura è dialogica. Vivere significa partecipare ad un dialogo: interrogare, ascoltare, rispondere, consentire>. E’ su base dialogica che si possono costruire, con bambini e ragazzi, innanzitutto delle modalità di convivenza basate sul rispetto reciproco e sul riconoscimento <dialogico> dell’altro e sui principi etici per divenire adulti, cioè l’autonomia e la responsabilità.

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§§§CAP.2LA PROSPETTIVA PSICOSOCIALE:INTERSOGGETTIVITA’ E CONTRATTO DIDATTICO L’EREDITA’ PIAGETIANA Piaget ha sempre dato molta importanza alla tesi secondo la quale il bambino costruisce da solo le proprie conoscenze. Questa tesi forte ha mostrato, nel corso dei decenni, molte lacune. E tuttavia il grande merito di Piaget è stato quello di sottolineare, in un’epoca di predominante comportamentismo, le necessità della partecipazione attiva del bambino nell’avventura della costruzione e trasmissione delle conoscenze; in particolare, si è sempre più consolidata la tesi secondo la quale non ci può essere apprendimento se il bambino non è l’autore del proprio sviluppo. Un argomento di discussione della teoria piagetiana è se il bambino è l’artefice del proprio pensiero, come costruirà lo stadio più avanzato di esso? Un altro punto importante è il rapporto con l’autorità. Piaget ha sempre considerato l’interazione tra compagni una fonte fondamentale dello sviluppo, mentre il rapporto con l’autorità è descritto come un fattore di fatto ostacolante. Una delle conseguenze pedagogiche di questa posizione è stata che una minoranza di insegnanti ha cercato di utilizzare questa visione come fonte di ispirazione per organizzare una <scuola attiva>. Essi pensavano di dover lasciare che il bambino imparasse da solo, opponendosi all’ideologia dominante dell’epoca (si tratta in particolare degli anni ’60 e ’70), ideologia secondo la quale si dovevano insegnare delle nozioni in modo sistematico, poiché i bambini avrebbero appreso per imitazione di modelli corretti. Osservando cosa accadeva nelle classi ginevrine in quegli anni, si vide un fenomeno specifico: gli insegnanti, desiderosi di essre <piagetiani>, sembravano obbligati a <restare sullo sfondo>. Essi sapevano per esperienza diretta che tutto doveva essere organizzato affinché l’ambiente scolastico fosse interessante per il bambino ma, per formazione intellettuale <piagetiana>, essi credevano che, al contrario, tutto provenisse dai bambini e che l’insegnante dovesse tenersi nell’ombra affinché la sua autorità e il suo sapere non ostacolassero l’alunno. Essi vivevano così una tensione che era anche negli alunni, i quali si chiedevano:<Ma allora, se l’insegnante conosce la risposta, perché non ce lo dice? Perché vuole che noi la scopriamo?>. Al contrario, con gli insegnanti che conducevano le classi in modo tradizionale, si aveva a volte l’impressione che essi fossero onnipresenti, cominciando spesso le frasi che gli alunni dovevano terminare (una modalità ritenuta utile per farli partecipare). Se l’alunno terminava correttamente la frase, poteva ottenere un buon voto. In questa maniera i momenti di valutazione e i momenti di apprendimento erano poco differenziati. ALTRE EREDITA’ TEORICHE: VYGOTSKIJ E G.H. MEAD La teoria di Vygotskij mette in evidenza l’importante ruolo delle interazioni adulto-bambino e della trasmissione inter generazionale. Egli mostra come il bambino apprende se gli si forniscono gli strumenti simbolici che gli permettano di progredire. Nel modello di Vygotskij la cultura occupa un ruolo centrale così come l’insegnante, il quale assume il ruolo di tutore che <getta dei ponti> verso le modalità di pensare del bambino, cercando di operare nella sua zona prossimale di sviluppo e guidando verso forme di sapere più evolute. E’ una teoria dell’apprendimento, ma non è particolarmente soddisfacente come teoria dello sviluppo poiché si limita a spiegare come si diventa come il proprio insegnante. In Vygotskij si ha uno sviluppo socialmente <teleguidato>, mentre in Piaget si ha uno sviluppo del tutto endogeno che sembra

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portare sempre alla sua massima espressione e, cioè, al pensiero logico-formale. Dal punto di vista della sociologia dello sviluppo si resta del tutto delusi. Anche un altro autore, G.H. Mead sostiene ed argomenta la tesi dell’origine sociale delle attività mentali, pur provenendo da un contesto culturale molto differente. Mead parte dalla nozione della conversazione di gesti: prima ancora che la coscienza di sé o il pensiero propriamente detto siano manifesti, le azioni scambievoli fra due individui forniscono una base per la costruzione del pensiero simbolico. Un esempio è quello fornito da due cani. Quando stanno per affrontarsi, essi possono evitare la lotta vera e propria, sospendendo l’azione e <imitando>, ovvero facendo finta di agire, ciascuno a turno, uno scontro di comportamenti effettivi. Facendo dei gesti, che indicano ciascuno all’altro o anticipano l’avvio della lotta, essi si saggiano e <prendono le misure> prima di una eventuale lotta; non hanno sempre bisogno di passare all’azione diretta e completamente agìta per sapere chi è il più forte: essi agiscono una vera e propria conversazione attraverso i gesti. Mead ritiene che lo sviluppo del pensiero inizia proprio in questo momento. Nell’uomo, il quale possiede una capacità di costruire e interpretare simboli ben maggiore rispetto all’animale, è questo l’inizio di una grande avventura psichica. Mead sostiene che la genesi delle attività intellettive sta proprio nell’interiorizzazione della conversazione attraverso i gesti, prima non verbali poi verbali. I gesti interiorizzati costituiscono dei simboli significativi, in quanto essi assumono i medesimi significati per tutti gli individui di una data comunità culturale. La riflessione di Mead ha dato luogo ad un’interessante corrente di studi sia teorici sia empirici che ha assunto la denominazione di interazionismo simbolico. NUOVE RICERCHE EMPIRICHE: INTERAZIONI SOCIALI E SVILUPPO DEL PENSIERO. A partire dagli anni ’70, ricerche empiriche hanno dimostrato la capacità che hanno bambini, ma anche adolescenti e adulti di trarre profitto da situazioni di interazione dove viene loro richiesto di risolvere compiti cognitivi. Inizialmente i bambini coordinano le proprie azioni con quelle di altri soggetti, anche coetanei, anch’essi incapaci di risolvere da soli i compiti loro proposti. In seguito, i bambini che hanno partecipato a certi tipi di interazioni sociali diventano capaci, anche a breve distanza di tempo, di eseguire da soli compiti di difficoltà analoga. Ciò significa che questi bambini hanno effettivamente costruito strumento cognitivi per risolvere compiti e li padroneggiano come strumenti cognitivi personali. Inoltre, questi strumenti che sono impiegati su un materiale dato ed in una situazione specifica hanno un carattere di stabilità e sono spesso utilizzati con successo in altre situazioni e con materiali diversi. Ne deriva che i soggetti non soltanto hanno risolto un certo compito ma hanno costruito una regola più generale di soluzione di compiti. L’ipotesi <forte> che ha guidato queste ricerche è che le interazioni sociali diventano fonti di progresso cognitivo attraverso i conflitti di comunicazione che si stabiliscono fra i partner. Infatti, proprio quando i punti di vista diversi emergono con chiarezza nel corso della discussione, le soluzioni finali costruite insieme sono le più elaborate e spesso addirittura corrette. E’ stato definito conflitto sociocognitivo la dinamica di costruzione in comune delle risposte attraverso la messa in discussione dei rispettivi punti di vista, proprio per sottolineare la funzione cruciale della comunicazione interpersonale e del conflitto fra partner chiamati a fornire una solo risposta al compito. E’ stato però osservato che il conflitto di comunicazione fra partner viene risolto attraverso l’elaborazione di soluzioni cognitivamente migliori soltanto nei casi in cui il

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conflitto non possa essere regolato secondo modalità esclusivamente relazionali: ad esempio la compiacenza, la condiscendenza, il conformismo di un partner verso l’altro, accettandone cioè acriticamente la soluzione, imitandola, rinunciando in pratica a integrare i due punti di vista in un unico schema cognitivo: in tutte queste circostanze, nessuno dei due partner progredisce. IL CONTRATTO DIDATTICO: UNO STRUMENTO PER COMPRENDERSI A SCUOLA A partire dagli anni ’80 sono state studiate le relazioni tra contesto, insegnanti, alunni e contenuti disciplinari, introducendo il concetto di contratto didattico inteso come l’insieme delle regole e dei comportamenti abituali che insegnanti e alunni mettono in atto reciprocamente, a proposito di un sapere definito dai programmi scolastici. Il contratto didattico riassume tutti i comportamenti ritenuti idonei per consentire la prosecuzione dei processi di insegnamento-apprendimento. In questa prospettiva i contenuti disciplinari sono per l’insegnante un sapere da insegnare e per gli alunni un sapere da apprendere; la comunicazione interpersonale è il mezzo principale tramite il quale avviene questa trasformazione. In questo contratto i ruoli sono chiari: c’è l’insegnante, che conosce e può chiedere e c’è l’alunno, che deve rispondere in modo corretto, ponendo eventuali domande solo se pertinenti. DALL’INTERPRETAZIONE DEI COMPITI ALLA LORO NEGOZIAZIONE I bambini di fronte ad un compito utilizzano come prima strategia la costruzione del significato del compito stesso e delle relazioni sociali in gioco e cercano di individuare quale possa essere la risposta che l’adulto si aspetta da loro. Ad esempio, la ripetizione di consegna da parte dell’adulto influenza il tipo di risposta prodotto dai bambini. La strategia in gioco qui sembra essere:<Se l’adulto mi fa due volte la stessa domanda, vuol dire che la prima risposta che ho dato è sbagliata>. E’ questo il caso dei giudizi circa la conservazione della lunghezza oppure del numero: se la domanda è posta una sola volta, soltanto dopo la trasformazione spaziale degli oggetti, allora i bambini più frequentemente forniscono un giudizio di conservazione, mentre se le domande sono due, una prima della trasformazione ed una dopo la trasformazione, i bambini più frequentemente forniscono alla seconda domanda giudizi di non conservazione. Il modo in cui i bambini e gli alunni strutturano i contesti sociali in cui sono posti e l’elaborazione delle risposte è fortemente legata alle rappresentazioni che essi formano per dare un senso alle situazioni stesse. La risposta logica (ovvero il sapere scolastico) che essi forniscono a colui che interroga costituisce così il risultato di una negoziazione della situazione che vede coinvolti attivamente l’adulto (o il partner coetaneo) che propone il compito, il bambino che è chiamato a rispondere e la situazione complessiva in cui entrambi sono collocati. VERSO UNA PSICOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA A SCUOLA -La costruzione dei significati attraverso la conservazione in classe. E’ ben noto il ruolo che la conversazione svolge nella costruzione dei significati scolastici e nei processi di insegnamento-apprendimento. Insegnanti e alunni, pur condividendo la stessa lingua, parlano un linguaggio diverso da quello di situazioni extrascolastiche, poiché quella di classe è una situazione asimmetrica soprattutto in funzione delle conoscenze possedute dagli interlocutori. Le conversazioni tra insegnanti ed alunni si strutturano in modo molto diverso da quelle che avvengono in altri contesti della vita quotidiana; infatti, un presupposto implicito, che regola l’attività di classe, è il seguente: l’insegnante pone le domande e ne conosce le risposte; su questa base egli

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valuterà le risposte date dagli alunni ed in seguito utilizzerà queste informazioni per dare un giudizio sul loro rendimento. -Mediazione simbolica, contratti didattici e apprendimento. Compito della scuola, e quindi dell’insegnante, è di offrire all’alunno modalità di apprendimento che gli consentano di operare un cambiamento nel proprio modo di pensare, integrando ciò che già conosce in nuove forme di conoscenza. Appare qui utile il riferimento a Vygotskij, secondo il quale la funzione dell’insegnante si esplica nella zona prossimale di sviluppo, una nozione che individua la differenza tra il livello di risposta ad un problema che il bambino elabora da solo ed il livello di risposta che il bambino è in grado di elaborare con l’aiuto e la guida dell’adulto. Il linguaggio è lo strumento principale che consente questa interazione asimmetrica. La natura di queste interazioni sociali implica fondamentalmente la diversità tra gli interlocutori, caratteristica che nel caso dell’insegnante ha una funzione intenzionalmente educativa, mentre negli scambi tra coetanei rappresenta l’esistenza di punti di vista alternativi al proprio, favorendo in questo modo la riflessione sulle proprie idee e su quelle degli altri; quindi, discutere significa assumere il punto di vista dell’interlocutore, alternando i turni di conversazione e riprendendo le argomentazioni dell’altro per sostenerle e confutarle. In realtà in classe molte situazioni interattive, soprattutto quelle in cui interviene l’insegnante, non possono essere intese come vere e proprie discussioni, pur presentandosi apparentemente come tali, perché gli alunni possono essere indotti a fornire alcune risposte solo in relazione al comportamento verbale e non verbale dell’adulto. Per esempio, un silenzio dell’insegnante, che fa seguito all’intervento si un bambino, fa intendere un disaccordo, che l’alunno può superare solo modificando quanto detto in precedenza e questo cambiamento può essere dovuto non tanto ad un’ulteriore riflessione, quanto alla necessità di trovare <la risposta giusta>. L’azione educativa centrata sullo sviluppo nei bambini, diretta a produrre un cambiamento concettuale rispetto alle conoscenze di partenza, richiede innanzitutto che l’adulto accetti le idee dei bambini, per trasformarle in oggetto del discorso, costruendo così una conoscenza condivisa tra i partecipanti all’interazione, avvicinandosi al modo di pensare degli alunni non per guidarli su di un percorso già precostituito nella sua mente di adulto, ma per favorire in loro l’elaborazione di un processo cognitivo che li porterà ad appropriarsi di nuove conoscenze. UNA RELAZIONE TRIANGOLARE: INSEGNANTE-OGGETTI DEL SAPERE-ALUNNI Risulta sempre più indispensabile studiare il triangolo concettuale che lega insegnante, alunni e le conoscenze individuate dalla programmazione didattica e come circoli l’informazione fra questi tre attori. E’ del tutto plausibile che a scuola, ad esempio, quando si studiano le proporzioni, gli alunni si aspettino che esse debbano essere utilizzate in un compito successivo. Esiste una specie di contratto implicito: l’insegnante propone dei compiti che corrispondono a ciò che egli suppone sappiano gli alunni. Quindi, sapendo ciò che essi sono tenuti a sapere, gli alunni, diligentemente, si spettano gli esercizi che saranno loro dati, e quindi si prepareranno allo scopo di cercare di superare quella certa prova. Si può a ragione parlare di una vera e propria microcultura della classe, che presenta anche dei risvolti etici; le aspettative, consolidate nel corso delle routine quotidiane diventano regole e norma sanzionate da criteri di giustizia e legittimate sul piano didattico:<si deve fare così per avere una buona valutazione>; <se si fa così, significa che si è capito>; <possono essere proposti dei compiti soltanto su argomenti che sono stati insegnati>. In altri termini, le

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aspettative non sono costruzioni spontanee ed estemporanee, bensì il frutto delle pratiche di insegnamento tipiche degli insegnanti. Il sistema scolastico e la vita di classe sono costituiti da condotte di routine, affinché gli alunni rispondano spesso correttamente, pur senza aver compreso realmente!Diverse ricerche hanno mostrato che gli alunni non credono (almeno in alcune circostanze) che il fine del lavoro intellettuale scolastico sia la comprensione. Molto spesso, il fine , secondo loro, è superare le prove; l’essenziale nel mestiere di alunno è avere un voto sufficiente nei compiti; rispondere correttamente secondo le attese dell’insegnante. Capire è un <optional>! Insegnare ed apprendere appaiono così dei compiti non soltanto cognitivi ma sociali al tempo stesso. Insegnanti ed alunni sono i partner in dinamiche di comunicazione più complesse, in quanto esse interpellano le esperienze dei singoli partner, la loro specifica identità sociale e le attese reciproche. §§§CAP.3 DISCORSO E ISTRUZIONE Flanders ha sviluppato un sistema di categorie dell’interazione in classe, distinguendo tra influenza diretta ed indiretta dell’insegnante, intendendo per influenza indiretta quella che aumenta l’iniziativa e l’indipendenza della studente. Successivamente si sono aggiunti molti altri sistemi elaborati da altri ricercatori, tra cui Amidon e Hunter, che hanno proposto uno sviluppo del sistema di Flanders nello SCIV: un sistema di dodici categorie che distingue tra interventi introduttivi e risposte, rispettivamente dell’insegnante e dell’allievo. L’aspetto interessante di questo sistema è la sua finalizzazione al miglioramento delle pratiche interattive degli insegnanti. IL SISTEMA DI ANALISI DELLE INTERAZIONI IN CLASSE DI N. FLANDERS La prima distinzione è tra discorso dell’insegnante e discorso dell’allievo. Nella prima area si distingue tra categorie di risposta e di inizio. DISCORSO DELL’INSEGNANTE

1) Accetta i sentimenti: accetta o chiarifica un atteggiamento o una modalità emotiva di un allievo in modo non minaccioso.

2) Loda o incoraggia: loda o incoraggia un’azione, un discorso o un comportamento di un allievo. Scherza per rilasciare la tensione ma non a spese di qualcuno.

3) Accetta o utilizza le idee degli allievi: chiarifica o sviluppa idee suggerite dagli allievi. 4) Formula domande 5) Fa lezione: espone opinioni, dati o fatti su contenuti o procedure; esprime le proprie idee,

dà sue spiegazioni, cita qualche autorità. 6) Dà direttive: impartisce direttive e ordini, a cui gli allievi devono attenersi. 7) Critica o si appella all’autorità: dichiarazioni finalizzate a cambiare il comportamento

dell’allievo in un comportamento accettabile; espelle qualcuno dalla classe; si appella alla propria autorità.

DISCORSO DELL’ALLIEVO

8) Discorso dell’allievo in risposta all’insegnante. L’insegnante inizia il contatto o sollecita l’intervento dell’allievo o struttura la situazione. La libertà di esprimere le proprie idee è limitata.

9) Il discorso è avviato dagli allievi. Essi esprimono le loro idee: iniziano un nuovo argomento; libertà di esprimere opinioni e una linea di pensiero, con la possibilità di porre domande pensate e di andare al di là della struttura esistente.

10) Silenzio o confusione: pause, periodi brevi di silenzio o di confusione.

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IL SISTEMA SCIV DI AMIDON E HUNTER Il sistema è finalizzato alla formazione degli insegnanti INSEGNANTE:INTERVENTI INTRODUTTIVI

1) Dà informazioni o riferisce opinioni: illustra un argomento, spiega, orienta, pone domande retoriche.

2) Dà istruzioni: dice all’allievo di fare una determinata cosa; impartisce ordini 3) Pone domande circoscritte: pone domande che servono a far ripassare un argomento o a

far esercitare gli allievi, che richiedono risposte brevi, si o no. 4) Pone domande aperte, di cui non è possibile prevedere la risposta e che sollecitano

risposte più lunghe rispetto a 3. INSEGNANTE: INTERVENTI DI RISPOSTA

5) Accetta dell’allievo: a. le idee, b. il comportamento, c.i sentimenti 6) Rifiuta dell’allievo: a.le idee, b.il comportamento, c.i sentimenti ALLIEVI: RISPOSTE 7) All’insegnante: a. risposte prevedibili, di solito brevi (seguono categorie 2 o 3); b. risposte

non prevedibili: più elaborate, seguono alla categoria 4. 8) A un compagno: scambio tra allievi. ALLIEVI:INTERVENTI INTRODUTTIVI 9) Rivolge la parola all’insegnante, non sollecitato. 10) Rivolge la parola a un compagno, non sollecitato. VARIE 11) Silenzio 12) Confusione

GLI STUDI DI MATRICE LINGUISTICA E DISCORSIVA La prima teorizzazione, con le sue applicazioni pratiche, aveva cercato delle relazioni tra le modalità del discorso dell’insegnante e i risultati dell’apprendimento degli allievi. Infatti quei primi studi dell’interazione in classe sono stati anche definiti come studi <processo-prodotto>, in quanto si è cercato nelle loro applicazioni di trovare una relazione tra i processi realizzati in classe e gli esiti dell’apprendimento degli allievi. Il grande cambiamento nello studio del discorso in classe è avvenuto attraverso il contributo della sociolinguistica e dell’etnografia della comunicazione che fin dai loro inizi hanno considerato la classe scolastica come una situazione particolarmente utile per lo studio dell’effetto dei fattori socioculturali sulle pratiche e i risultati dell’istruzione. La sociolinguistica considera la scuola come una istituzione sociale significativa, in cui le pratiche discorsive degli insegnanti servono ad assegnare il potere e a costruire (o meno) l’autonomia e l’iniziativa degli allievi. Uno dei contributi più noti che la prospettiva sociolinguistica ha apportato all’interpretazione delle pratiche scolastiche è stato quello di identificare la struttura tipica del discorso in classe, anche se questo ha riguardato per lo più la cultura scolastica inglese e americana. Il primo studio è stato compiuto da Sinclair e Coulthard [1975], due linguisti inglesi che, a partire dalla teoria degli atti linguistici di Austin [1962] e distinguendo tra forma e funzione del linguaggio parlato hanno identificato uno schema ripetuto nel discorso scolastico, che hanno chiamato IRF come acronimo di una tripletta di atti comunicativi: Inizio dell’insegnante, Risposta dell’allievo, Follow up dell’insegnante. Si tratta di quelle situazioni in cui l’insegnante controlla lo sviluppo di un argomento e guida la presa di turno, dando la parola agli allievi. Lezioni italiane di scuola secondaria non

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hanno la sequenza a tre con la stessa frequenza di apparizione delle ricerche inglesi o americane. Successivamente altri ricercatori statunitensi hanno ritrovato lo stesso pattern interattivo. Mehan lo ha chiamato IRE, che sta per: Inizio dell’insegnante, Risposta dello studente, Valutazione dell’insegnante. L’aspetto più interessante dello studio di Mehan è il fatto che la struttura IRE di base è inserita in unità più ampie da lui denominate Topically Related Sets (TRS), a loro volta parte dell’organizzazione gerarchica della lezione. L’analisi della conversazione è un paradigma di ricerca nato in sociologia che ha identificato nelle interazioni verbali il processo fondamentale per la costituzione della realtà sociale. Negli scambi tra due o più persone vige un sistema di presa di turno di parola che consente ad ogni partecipante di intervenire nel discorso. La gestione degli scambi è di tipo locale, ovvero il senso del discorso si stabilisce turno dopo turno, a meno che non ci si trovi in presenza di una sequenza strutturata come una narrazione. L’effetto della sequenza triadica (tripletta) modifica questo sistema perché dopo l’intervento di un alunno la presa di turno non è affidata alla libera iniziativa, ma torna regolarmente all’insegnante, che può ridare la parola allo stesso alunno, o ad un altro, oppure mantenere per sé il turno senza il rischio di interruzioni. Eventuali candidature al discorso devono di solito essere precedute da un turno preliminare (anche non verbale, come l’alzata di mano) di richiesta di parola. In queste condizioni, l’andamento del discorso a livello dei contenuti è fortemente controllato dall’insegnante, che può accettare, correggere o ignorare il contributo di ciascuno. Il senso del discorso non è perciò negoziabile, se non in minima parte, e sta agli alunni cercare di seguire lo sviluppo impresso dall’insegnante all’argomento trattato. LA VARIABILITA’ CULTURALE NELL’INTERAZIONE IN CLASSE Una problematica nuova per il nostro paese è relativa alle grandi differenze di provenienza culturale che si trovano nelle classi scolastiche e che incidono fortemente sulle pratiche discorsive attivate dagli insegnanti e richieste ai bambini. Un classico di questa problematica è la ricerca antropologica di Philips [1972] che ha denominato <struttura di partecipazione> quella struttura implicita che senza bisogno di dichiarazioni formali regola le interazioni quotidiane in classe. In generale, si può dire che il registro, in senso linguistico, del discorso in classe è molto vicino allo stile che gli adulti accudenti usano con i figli piccoli durante le attività di gioco, di soluzione di problemi, di lettura di libri. Tutto ciò è stato definito come curricolo nascosto. APPRENDIMENTO, APPRENDISTATO E SOCIALIZZAZIONE DISCORSIVA Le definizioni usate in psicologia relativamente all’acquisizione di informazioni sono diverse: si parla di <formazione> degli adulti sul luogo di lavoro relativamente a conoscenze concettuali, di <apprendistato> per l’acquisizione di capacità lavorative pratiche, di <memorizzazione> o <persuasione> se si analizza la comunicazione di massa, di socializzazione nei contesti informali in cui crescono i bambini e di <apprendimento> per quanto riguarda l’acquisizione di informazioni offerte dalla scuola. Correlativamente variano i metodi con cui si verificano gli esiti di questi processi. Quale rapporto c’è tra la tripletta IRF/IRE e gli attuali modelli dell’apprendimento? Di recente, mentre alcuni ricercatori hanno ribadito il rischio che la tripletta sia abbinata a modi meccanici di istruzione (in cui feedback o valutazione funzionano da semplice rinforzo della risposta corretta) e alla riduzione della libertà di pensiero e di parola dello studente, altri invece hanno parzialmente rivalutato la sequenza IRF, in quanto il modo di istruzione trifasico può essere combinato a una

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modalità aperta di discorso istruttivo. E’ probabile che tale visione più positiva sia influenzata da una prospettiva vygotskiana che ha sottolineato il ruolo positivo di un adulto competente nell’indirizzare efficacemente l’apprendimento di chi è meno competente attraverso l’appropriazione della prospettiva corretta. Quest’ultima è la tesi sostenuta da Newman per cui la comprensione fra insegnante e allievo passa attraverso l’appropriazione reciproca di ciascuno del punto di vista dell’altro. Un concetto sviluppato a partire da Leont’ev e dalla sua concezione dell’apprendimento all’interno di una teoria dell’attività. Anche se il modello di interazione che sta alla base del <discorso costruttivista> ha premesse teoriche diverse rispetto al modello interattivo del rinforzo sociale di matrice comportamentista (di Flanders, Amidon), essi condividono l’idea di apprendimento come <rinforzo della risposta>, per cui si apprende in quanto si enuncia la risposta corretta. La differenza sta nel fatto che per i comportamentismi la risposta (comunque ottenuta) deve ricevere un rinforzo positivo, per i costruttivisti, invece, basta che la risposta sia <spontaneamente ricavata> dal soggetto. Una combinazione delle due impostazioni è quella messa in atto da Palincsar e Brown nella ricerca sul <reciprocal teaching>: un’organizzazione didattica messa in atto per promuovere la comprensione della lettura in gruppi di studenti di scuola media di bassa abilità. Le strategie per la comprensione della lettura- prevedere il seguito, fare domande, riassumere, chiarificare- sono prima messe in atto dall’insegnante e poi dai singoli studenti, i quali a turno imitano il lavoro di monitoraggio dell’insegnante, mentre questi a sua volta modella e rinforza il comportamento richiesto ai tutori e ai tutorati. Il fatto rilevante è che nelle prove standard finali migliorano le capacità individuali di comprensione dei singoli studenti. DISCORSO E NUOVI MODELLI DI APPRENDIMENTO Il discorso in classe si configura essenzialmente come esercizio di pratica discorsiva di un dominio di conoscenza, ma è necessario cambiare le regole del gioco di questo discorso. L’impostazione di fondo è che il discorso collettivo deve essere funzionale alla pratica e all’apprendimento di strategie di argomentazione e di ragionamento e di procedure epistemiche di ambiti specifici. Per far ciò è necessario che diminuiscano il potere e il controllo dell’insegnante sul pensare e sul parlare degli studenti. In una ricerca è stato dimostrato che cambiando le modalità conversazionali usuali dell’insegnante, attraverso la sostituzione della valutazione con ripetizioni o con riformulazioni o producendo domande contingenti, cioè semanticamente connesse ai turni precedenti dei bambini, si favorisce il discorso esplicativo, conflittuale e argomentativi degli allievi. A parte le strategie interattive dell’insegnante, si ritiene che il cambiamento che sta avvenendo in questi anni rispetto al ruolo del discorso in classe è l’affermarsi di un approccio semiotico, in cui la negoziazione di significati condivisi è considerata come una condizione necessaria per l’apprendimento di nuove forme di discorso. Le modificazioni dell’organizzazione discorsiva in classe possono essere intese come tentativi di restituire all’attività verbale in classe alcune delle caratteristiche del discorso quotidiano che lo rendono interessante per chi vi partecipa e che permettono di distribuirne il controllo fra tutti i partecipanti, pur nel mantenimento di una finalizzazione legata allo scopo istruttivo. Ad esempio, le modificazioni introdotte permettono che il discorso si dipani attraverso interventi collegati degli alunni piuttosto che frammentato in cicli di triplette in cui la persona interpellata può prendere il turno solo una volta; e ancora permettono che le domande siano fatte da tutte e due le parti.

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Sebbene la ricerca centrata sull’interazione discorsiva abbia messo in luce da tempo le potenzialità del lavoro di gruppo a scuola, questo metodo di lavoro stenta ad affermarsi. E’ comune che le insegnanti dichiarino che la situazione sociale ideale per l’apprendimento sarebbe quella diadica, con l’insegnante e l’allievo a tu per tu. Si assume che allieve e allievi debbano essere esposti alla maggior quantità possibile di conoscenze nuove, da cui discende necessariamente l’impossibilità che questi <oggetti> di apprendimento possano scaturire dai discenti stessi. Questa teoria implicita dell’apprendimento dà luogo ad un tipo di discorso scolastico dalla struttura piuttosto rigida, all’interno del quale gli interventi degli alunni sono sospinti verso una forma ideale, in cui gli interventi non adeguati sono corretti o ignorati. Insegnanti e studiosi che promuovono invece il lavoro di piccolo gruppo ritengono che le conoscenze <rifinite> costituiscano solo una parte del processo di apprendimento, e che limitarsi all’attività che le produce significa correre il rischio di creare conoscenze <incapsulate>e statiche, non utilizzabili cioè per risolvere nuovi problemi o per organizzare nuove conoscenze. L’interazione di gruppo costituisce un possibile antidoto all’incapsulamento delle conoscenze. Il carattere paritario dell’interazione e la natura aperta del compito spingono ad esplorare nessi e a immaginare soluzioni alternative. Tra loro, le allieve e gli allievi non si accontentano di non capire, non lasciano passare facilmente asserzioni su cui non sono d’accordo ed espongono più facilmente idee solo parzialmente elaborate e sicure. IL DISCORSO ALL’INTERNO DEL PICCOLO GRUPPO L’aspetto forse più decisivo del lavorare in gruppo è lo stabilirsi di un pubblico significativo per chi parla: L’effetto di un pubblico che ancora non sa e che non ha autorità sul parlante genera un tipo di apprendimento e di ragionamento molto più estesi e articolati che non la prospettiva di riferire ad un pubblico che è già al corrente di ciò che si dirà e che in più ha il potere di giudicarlo. Quest’ultimo caso naturalmente corrisponde al tipico ruolo di insegnante. Il confronto con il gruppo dei pari, costituendo invece un caso del primo tipo, rende possibile il coinvolgimento affettivo e l’attivazione di scopi personali dell’alunno, probabilmente condizioni indispensabili di un reale apprendimento. La situazione paritaria consente una modalità di discorso chiamata da Barnes ipotetica, perché caratterizzata da supposizioni, tentativi di mettere alla prova una certa asserzione, esplorazioni in diverse direzioni. Un ruolo cruciale è stato attribuito all’opposizione discorsiva nel produrre buoni risultati nel gruppo, a partire dalla teoria di Piaget sull’utilità del conflitto sociocognitivo nello stimolare l’evoluzione dei processi di pensiero. Le caratteristiche discorsive delle sequenze di opposizione generano operazioni di riflessione sulle conoscenze per poterle organizzare e presentare in modo convincente. L’opposizione è produttiva solo però quando si basa su scopi condivisi di realizzazione dell’attività. LAVORO DI GRUPPO E DOMINIO DI ATTIVITA’ Il lavoro di gruppo viene considerato il alcuni paesi (ad esempio l’Inghilterra) la situazione ideale per l’apprendimento di concetti scientifici. Questo perché la natura investigativa della conoscenza scientifica troverebbe un terreno ideale nel carattere esplorativo del lavoro di gruppo, che consente meglio di comprendere il ruolo giocato dalle <prove> nella presa di decisione scientifica. Perché i processi e gli apprendimenti sperati si verifichino è necessario che però i ragazzi siano coinvolti in attività scientifica autentica, altrimenti si resta nell’ambito di quelle conoscenze destinate all’incapsulamento all’interno dell’ambito della scuola.

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§§§CAP.4 ACQUISIRE IL LINGUAGGIO: COMPETENZE DI BASE E DIFFERENZE INDIVIDUALI Lo sviluppo è considerato come un continuum, e conoscere il <prima> è fondamentale per interpretare le competenze presenti e per dirigere lo sviluppo futuro. E’ dunque essenziale imparare ad osservare il cambiamento, per intervenire nei tempi e nei modi più opportuni per favorire il realizzarsi delle potenzialità di tutti i bambini. I bambini imparano a comunicare in tempi straordinariamente rapidi, prima con lo sguardo, le azioni, i gesti e poi con il linguaggio, o meglio la lingua parlata nell’ambiente che li circonda. Comunicando, il bambino entra nella comunità di cui fa parte. Esiste una grande variabilità nei tempi e nelle modalità delle acquisizioni. Ci sono bambini molto precoci, altri più lenti, altri che dopo aver fatto rapidamente alcune conquiste, sembrano continuare più lentamente il loro sviluppo. TANTI MODI PER COMUNICARE Già dai primi momenti di vita il bambino è capace di comunicare i suoi bisogni e i suoi stati agli adulti che si prendono cura di lui. E questi divengono via via più esperti nell’interpretare i segnali comunicativi del neonato. Intorno agli 8 mesi il repertorio dei comportamenti comunicativi intenzionalmente prodotti dai bambini si arricchisce attraverso l’uso di gesti: il bambino si tende verso un oggetto, talvolta con un gesto ritmato di apertura e chiusura del palmo della mano (un gesto denominato RICHIESTA RITUALIZZATA); tende l’oggetto verso l’adulto, del quale vuole attirare l’attenzione (MOSTRARE); lascia andare un oggetto nelle mani dell’adulto (DARE). Infine, il bambino INDICA con il braccio teso e/o con l’indice puntato in una certa direzione. Questi gesti sono stati classificati come <deittici> o <performativi> poiché esprimono l’intenzione comunicativa e il referente di tale comunicazione è fornito dal contesto in cui avviene lo scambio. Verso la fine del primo anno di vita, compare nei bambini un secondo tipo di gesti, chiamati <referenziali> o <simbolici>, attraverso i quali il bambino dimostra di poter usare un comportamento non verbale per nominare o raccontare o chiedere qualcosa, ad esempio il bambino porta un bicchiere vuoto alla bocca per chiedere da bere. I bambini inizialmente usano più gesti che parole: a 12 mesi conoscono in media 29 gesti ma producono in media solo 8 parole. Inoltre, il numero di parole prodotte è notevolmente inferiore rispetto a quello delle parole comprese. Le differenze individuali sono però altissime. INSIEME PER PARLARE L’ambiente linguistico in cui i bambini nascono e crescono è determinante per l’acquisizione del linguaggio. Ma non è sufficiente che il bambino sia <ascoltatore> perché impari a parlare: il processo di acquisizione di una lingua, pur avendo le sue basi nel sistema biologico dell’uomo, si realizza pienamente solo attraverso e all’interno di un contesto comunicativo, affettivo e relazionale. Inizialmente i bambini vengono frequentemente sollecitati dall’adulta a parlare: è lui che dirige la conversazione e mantiene attivo l’interesse del bambino verso il linguaggio. Non tutti gli adulti interagiscono allo stesso modo con un bambino: sono stati individuati diversi stili di interazione comunicativa che, insieme alle caratteristiche individuali proprie di ciascun bambino, influenzano il modo e i tempi in cui si realizza lo sviluppo. Questo si modella all’interno di una relazione ed è il risultato di fattori biologici e culturali.Una ricerca ha messo in evidenza la stabilità dell’atteggiamento materno per quanto riguarda l’uso del linguaggio, le modalità di cura del bambino e la capacità di rispondere

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in modo adeguato ai bisogni del bambino. Questi comportamenti sarebbero dunque legati a fattori biologici e cambiamenti nella forma e nei contenuti delle interazioni si verificherebbero con l’aumentare dell’età del bambino in funzione delle caratteristiche culturali in cui la coppia madre-bambino vive. In età precoci sembra maggiore l’influenza della componente biologica, in seguito i fattori culturali diventano estremamente importanti. Ma se questo è vero per le madri di molte culture, per i padri le modalità di interazione con il figlio piccolo appaiono fin dall’inizio fortemente dipendenti dal contesto culturale e familiare di appartenenza, e scarsamente collegati a fattori biologici. Alcuni studi hanno evidenziato che, in diverse culture, uno stile troppo direttivo da parte dell’adulto non favorisce l’acquisizione del linguaggio nel bambino e, al contrario, uno stile centrato sul bambino, promuove nelle primissime fasi, lo sviluppo comunicativo e linguistico. In quest’ultimo tipo di interazione l’adulto riprende spesso ciò che il bambino dice ed esplicitamente interpreta, amplia e arricchisce l’informazione spesso parziale e confusa prodotta dal bambino stesso. SEMPRE PIU’ ESPERTI Attraverso questo processo di co-costruzione del linguaggio i bambini imparano a comunicare in modo sempre più raffinato. Se a 17-18 mesi i bambini producono in media 54 parole, a 19-21 mesi questo numero è più che raddoppiato (circa 130 parole) e, a 2 anni e mezzo, usano un vocabolario di più di 400 parole. Anche a questa età le differenze individuali sono molto vistose. Prima dei 2 anni, il numero di parole prodotte dal bambino ha un incremento così marcato da far parlare di una vera e propria esplosione del vocabolario. Il fenomeno dell’<esplosione> è oggi molto discusso. Nell’ambito di alcuni modelli teorici (quello modulare, ad esempio) si ipotizza fin dalla nascita un’alta specificità del sistema linguistico, un’indipendenza reciproca dei sottosistemi che lo compongono (ad esempio, lessico,morfologia, sintassi) e rigide e universali tappe di sviluppo. In contrapposizione, più recenti modelli sull’acquisizione del linguaggio (di tipo cognitivista e funzionalista) sostengono una continuità nello sviluppo, in cui le fasi e i tempi non sono rigidamente prefissati ma variano da un individuo all’altro; si ipotizza inoltre una stretta connessione fra le abilità linguistiche e quelle cognitive più generali. Questa visione, dunque, è interessata a mostrare la gradualità nello sviluppo e la variabilità fra i soggetti. Nell’ambito dell’approccio cognitivista non si nega la possibilità che si verifichi un fenomeno di <esplosione> del vocabolario e di rapida acquisizione di parole nuove; si sottolinea invece che questo può verificarsi in tempi e fasi di sviluppo anche molto diversi da bambino a bambino. D’altro canto, non è necessario considerare questa una tappa obbligatoria e quindi universale: alcuni sembrano procedere nell’acquisizione di un nuovo lessico in modo molto graduale, senza mai presentare un’accelerazione brusca nello sviluppo del linguaggio. I bambini verso i 2 anni sono particolarmente interessati a imparare vocaboli nuovi e a <giocare con le parole>. L’opportunità di fornire al bambino occasioni e contesti per promuovere l’arricchimento del lessico, sfruttando le sue straordinarie capacità di apprendere con rapidità e facilmente parole nuove, era già stata sostenuta da una grande pedagogista come Maria Montessori. La Montessori aveva suggerito di proporre al bambino fra i 3 ei 6 anni un tipo di nomenclatura specifica, ad esempio quella relativa alle piante o agli animali. TEORIA MODULARE E FUNZIONALISTA

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Riguardo all’acquisizione della lingua sono state formulate due teorie opposte. Secondo la teoria della modularità, il linguaggio viene acquisito e mantenuto grazie ad una capacità specifica indipendente dalle altre facoltà mentali; al contrario, secondo la teoria cognitivista-funzionalista, il linguaggio viene acquisito e mantenuto attraverso processi mentali/neurali che esso condivide con altri domini percettivi, cognitivi ed affettivi. Relativamente all’origine ed evoluzione del linguaggio, secondo i sostenitori del primo punto di vista, il linguaggio sarebbe l’esempio classico di una improvvisa comparsa o mutazione che ha portato ad una nuova abilità complessa. Al contrario, i sostenitori del secondo punto di vista affermano che il linguaggio si è evoluto gradualmente da abilità preesistenti in parte condivise con i primati non umani. La teoria modulare afferma quindi che le abilità linguistiche sono innate e specifiche, mentre la teoria funzionalista sostiene che l’acquisizione del linguaggio si basa su abilità cognitive e percettive più generali. Infine, la teoria modulare ha avuto come obiettivo primario, soprattutto nel passato, l’identificazione di fasi e processi comuni a tutti gli individui e a tutte le lingue, al contrario la teoria funzionalista è stata sempre interessata a studiare le differenze fra le lingue e, all’interno della stessa lingua, le differenze fra gli individui. LA NASCITA DELLA FRASE Poco prima dei 2 anni il bambino comincia a mettere insieme due o più parole formando così le prime frasi. Alcuni bambini, con un numero di parole anche molto limitate –tra le 30 e le 50-, producono enunciati di più parole, si tratta in genere di <frasi congelate> (come <va-via>), che sembrano riproduzioni memorizzate per intero. Si dice che questi bambini imparano a parlare seguendo uno stile solistico. Al contrario, altri bambini iniziano a produrre frasi quando il loro vocabolario è numericamente più ampio –circa 100 parole-; già dall’inizio le loro combinazioni non sono rigide, possiedono una grande ricchezza informativa e comunicativa. Per le loro capacità di scomporre e ricomporre parti, lo stile di acquisizione del linguaggio è di tipo analitico. Il processo di acquisizione del linguaggio è molto graduale. Nelle prime frasi, il bambino tende ad esprimere solo gli elementi maggiormente informativi del messaggio che tende trasmettere ma, malgrado l’omissione di un certo numero di elementi, è quasi possibile interpretare correttamente il significato di queste frasi. Il linguaggio del bambino si appoggia, infatti, ancora molto al contesto situazionale. Le prime frasi sono formate dalla giustapposizione di due nomi (<chiavi papà) o da un predicato con il soggetto e/o un complemento (sono frasi nucleari come <dà brumbrum>) Successivamente gli enunciati, pur restando di due o più elementi, possono complicarsi da un punto di vista sintattico con l’uso di parole (aggettivi o avverbi) che portano informazioni aggiuntive:<dà brumbrum rossa>; si parla allora di frasi ampliate. Infine sono usate frasi complesse (<prendili gioco che mi piace tanto>) o due frasi unite da un rapporto di coordinazione (<il bimbo prende la palla e la butta>) o di subordinazione (<quando torna papà mangiamo la pappa>). L’evoluzione della struttura della frase è strettamente collegata alla sua lunghezza. Questa è considerata una misura affidabile dello sviluppo del linguaggio ed è spesso utilizzata come un indice della maturità linguistica di bambini con problemi. In genere, verso i 3-4 anni i bambini possiedono molte di queste strutture anche se alcune di esse sono usate poco frequentemente. LO SVILUPPO MORFOLOGICO

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Per ciò che riguarda la morfologia dell’acquisizione della morfologia della lingua, le frasi dei bambini di 2-2anni e mezzo, sono in uno stile <telegrafico>: articoli, preposizioni e copula cominciano ad essere usati a partire dai 3 anni e si consolidano nell’uso alcuni mesi più tardi. In particolare Pizzuto e Caselli hanno esaminato lo sviluppo di alcuni aspetti morfologici nel linguaggio spontaneo di tre bambini seguiti longitudinalmente fra i 18 ei 36 mesi cercando di mettere in evidenza la gradualità del processo di acquisizione. Un risultato rilevante di questo studio è che se è vero che molti morfemi grammaticali sono presenti nel linguaggio dei bambini fin da età molto precoci, è solo in periodi successivi che è possibile parlare di una vera e propria acquisizione. Mettendo a confronto i dati relativi all’acquisizione della morfologia legata (genere e numero, flessioni verbali, regole di accordo), con quelli della morfologia libera (ad esempio uso di articoli, pronomi clitici) emerge che le flessioni e l’accordo sono prodotti prima e con una percentuale più alta rispetto ai morfemi grammaticali liberi. Il padroneggiamento di molti aspetti morfosintattici sembra raggiunto intorno ai 4 anni, e gradualmente gli errori sono sempre molto frequenti. Nel controllo degli elementi <liberi>, come articoli, pronomi e preposizioni, gli errori consistono essenzialmente in omissioni; nell’uso di elementi legati (flessioni verbali, accordi, plurali) i bambini possono invece produrre degli <ipercorrettismi>: è il caso di <piangio> anziché <piango>. In questi casi sarà opportuno non correggere direttamente l’errore, ma proporre al bambino la forma corretta in contesto di frase e di discorso. Particolarmente importante è esporre il bambino, fin da piccolo, al racconto di fiabe. Queste rappresentano infatti degli strumenti comunicativi, linguistici e psicologici fondamentali per la sua crescita. Sul piano comunicativo, rappresentano un momento magico di condivisione fra adulto e bambino; sul piano linguistico è proprio nel racconto di favole che i bambini possono sperimentare forme linguistiche più complesse. OSSERVARE LA VARIABILITA’ Il linguaggio non è una capacità univoca ed omogenea, poiché è possibile riconoscere all’interno di questa competenza diverse componenti. Inoltre, i bambini manifestano una grande variabilità individuale nello sviluppo. Tutte le componenti agiscono insieme e se non funziona qualcosa in una di esse vi sarà un effetto negativo sulle altre. Fondamentale è ricordare sempre che il bambino non è un adulto piccolo: esso non ragiona o non parla di meno o in modo difettoso, ma in un modo che ha una sua logica. Le sue competenze sono organizzate ad un diverso livello. E’ assolutamente necessario dunque elaborare modelli dinamici dello sviluppo dei bambini che siano indipendenti da quelli delle teorie sul funzionamento della mente e del comportamento dell’età adulta. Oggi si ritiene che la capacità di acquisire un linguaggio si basi su predisposizioni biologiche innate, ma che non sia necessariamente specifica e indipendente da altre capacità. Si ritiene, infatti che, almeno inizialmente, sia strettamente collegata a meccanismi percettivi e cognitivi più generali, quali la maturazione del sistema visivo, acustico e articolatorio, lo sviluppo motorio, la memoria, la capacità di rappresentazione, lo sviluppo affettivo-relazionale. Un contributo importante alla comprensione dei processi implicati nell’acquisizione del linguaggio viene soprattutto dai bambini con disturbi di acquisizione rispetto ai bambini <normali>. Ad esempio, i bambini con sindrome di Down hanno spesso delle competenze linguistiche inferiori a quelle che ci si potrebbe aspettare in base alla loro età mentale; inoltre, hanno difficoltà nell’imparare correttamente gli aspetti fonologici e morfologici della lingua. Sono però dei buoni comunicatori e suppliscono alle carenze sul piano dell’espressione

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verbale con l’uso di una ricca gestualità. Al contrario, i bambini con sindrome di Williams (una sindrome genetica più rara rispetto a quella Down, che comporta anch’essa ritardo mentale) sembrano presentare un profilo diverso: Pur avendo un ritardo di linguaggio rispetto ai bambini di pari età cronologica, sembrano, in alcuni aspetti dell’area linguistica, più bravi rispetto alla loro età mentale. Hanno, in genere, una buona fluenza verbale, un’ottima pronuncia e padroneggiano abbastanza bene gli aspetti morfologici. Però, sul piano semantico utilizzano parole inappropriate rispetto al contesto situazionale e linguistico, e sul piano della narrazione appaiono spesso in difficoltà nel raccontare una storia in maniera coerente. Assolutamente diverso è il caso dei sordi. La maggior parte di questi bambini, laddove non siano documentati altri deficit, sono assolutamente normali sul piano cognitivo. Se esposti fin da piccoli ad una lingua dei segni (che utilizza la modalità visivo-gestuale integra) la impareranno in modo naturale e spontaneo. I bambini sordi, e in particolare quelli con una perdita uditiva <grave> o <profonda>, anche se protesizzati precocemente ed avviati ad un lavoro specifico sul linguaggio (logopedia), possonoavere invece molte difficoltà ad apprendere spontaneamente la lingua parlata perché essa viaggia sulla modalità acustica deficitaria. Questi tipi di bambini hanno patologie ben chiare, però ci sono altri casi in cui genitori, pediatri, educatori o insegnanti intuiscono che c’è <qualcosa che non va> senza saper riconoscere di cosa si tratti. In alcuni casi a questi bambini viene diagnosticato un Disturbo Specifico di Linguaggio (o DSL), poiché sembrano mostrare un profilo adeguato su tutti gli aspetti (ad esempio sul piano motorio, cognitivo, affettivo-relazionale) tranne che sul linguaggio. Ma quando e su che basi e a che età è possibile identificare bambini a rischio o con problemi di linguaggio? Lavori recenti sostengono che si possa parlare di <ritardo> se si osservano: prestazioni qualitativamente sovrapponibili a quelle di bambini più piccoli normali; una sequenza nelle tappe di sviluppo ed acquisizione del linguaggio analoga a quella con bambini normali; un ritardo nella prima comparsa del linguaggio e un rallentamento nel ritmo di sviluppo, ma con una certa plasticità nella prestazione e una buona modificabilità. Si parla invece di <devianza> quando si riscontrano un ritmo di acquisizione molto rallentato; un cambiamento molto lento; l’assenza di una chiara sequenza di fasi; una dissociazione tra diverse componenti del sistema linguistico e all’interno delle singole componenti (ad esempio, dissociazioni tra sintassi e morfologia, oppure tra morfologia verbale e nominale). Grazie alla messa a punto di nuovi strumenti di valutazione e alla disponibilità di nuovi riferimenti normativi, oggi è considerata <anomala> ogni condizione di ritardato sviluppo del linguaggio che comporti:

- prestazioni inferiori a quelle della media dei bambini normali di almeno due deviazioni standard;

- una produzione inferiore a 50 parole a 2 anni; - l’assenza di combinazioni a 3 anni; - una lunghezza media degli enunciati inferiore a 3 parole a 3 anni e mezzo (dall’ICD10, cioè

la classificazione internazionale delle sindromi e dei disturbi psichici proposta nel 1992 dalla World Health Organization).

L’età tra i 24 e i 42 mesi è la migliore per identificare i bambini con problemi di sviluppo linguistico-comunicativo e mettere in atto interventi educativi, psicologici e riabilitativi

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in grado di prevenire disturbi futuri. Un intervento educativo o riabilitativo precoce può rappresentare un effettivo miglioramento della qualità di vita per tali bambini. A SCUOLA CON UN BAMBINO <PORTATORE DI HANDICAP> Il problema dell’integrazione dei bambini portatori di handicap fu affrontato per la prima volta in Italia a livello statale nel 1974, periodo in cui il ministero della Pubblica Istruzione iniziò i lavori che portarono poi all’emanazione di leggi, decreti e circolari che avviavano gradualmente il processo integrativo di molti di quei bambini la cui istruzione era affidata fino ad allora a scuole speciali. Nel 1977 fu emanata la legge 517; questa sanciva la possibilità dell’inserimento dei bambini portatori di handicap nella scuola di tutti, regolamentava il numero degli alunni per classe, asseriva che l’attività di sostegno doveva essere svolta da insegnanti specializzati e prevedeva, intorno a ciascun soggetto, l’attività di equipe specialistica dei Servizi Materni Infantili del territorio. Nel 1982 la legge 270 prevedeva l’inserimento scolastico anche nella scuola materna statale. Nel 1992, la legge-quadro 104 sancisce il diritto allo studio e l’integrazione in tutti i gradi di istruzione: asili nido, scuola materna, scuola dell’obbligo, scuola superiore ed università. Questa legge è molto importante perché afferma che il diritto allo studio deve essere garantito senza limiti e che l’integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo di tutte le potenzialità della <persona con handicap>. Ma affinché il progetto educativo e riabilitativo che viene attivato intorno al bambino funzioni, è necessaria la collaborazione dei terapisti della riabilitazione, scuola, genitori e strutture sanitarie. Tale collaborazione molte volte resta sulla carta e non riesce a concretizzarsi nella realtà quotidiana. Finisce così che molto spesso venga demandato esclusivamente alla scuola il compito di realizzare l’integrazione del bambino <portatore di handicap> nei suoi diversi ambiti. Nella pratica, gli insegnanti si sentono soli e impreparati a gestire problematiche che spesso non sono di loro esclusiva competenza. In sintesi, il bambino con deficit è un bambino con le sue potenzialità e i suoi limiti, con i suoi bisogni e i suoi diritti che sono quelli di tutti i bambini. In questo senso è importante distinguere tra deficit e handicap come due facce di una stessa realtà: - il deficit riguarda l’aspetto fisico (disabilità motoria, cecità, sordità ecc); - l’handicap riguarda invece l’aspetto sociale, è l’insieme dei luoghi e delle attività sociali (come l’istruzione, il lavoro, lo sport, il tempo libero) dai quali un individuo o una categoria di individui si trovano esclusi a causa di un deficit fisico. E dunque nella scuola è necessario non assumere un’ottica medica che spesso mira a <normalizzare> il bambino e che si occupa di <riparare> o <ricostruire> le funzioni compromesse, per ridurre il deficit. La scuola dovrà invece, con i mezzi e le competenze che le sono propri, preoccuparsi principalmente di ridurre l’handicap del bambino, considerando prioritario l’apprendimento delle conoscenze e potenziando gli scambi interattivi e comunicativi con coetanei e adulti in contesti naturali. ALTRE LINGUE, ALTRE CULTURE Anche i fattori socioculturali possono influenzare lo sviluppo del linguaggio nella prima infanzia. Attualmente molti bambini che frequentano il nido o la scuola materna provengono da famiglie non italiane con culture e tradizioni molto lontane dalle nostre e sono esposti fin dalla nascita ad un’altra lingua. E’ importante infatti che il o i genitori utilizzino con il proprio figlio/a la lingua con cui si sentono più a loro agio e attraverso la quale sono in grado di trasmettere sentimenti e valori. Purtroppo esiste il pregiudizio che i bambini bilingui siano più lenti nel processo di acquisizione del linguaggio e questo pregiudizio è spesso condiviso da pediatri, educatori e operatori sanitari (logopedisti,

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psicologi, terapisti della riabilitazione). Non c’è alcun motivo a priori per pensare che l’acquisizione simultanea di due lingue possa rallentare lo sviluppo lessicale e/o grammaticale e non vi è alcuna ricerca che supporti questa conclusione. Invece è stato dimostrato che il bambino allevato il un ambiente dove vengono parlate due lingue le impara entrambe negli stessi tempi e seguendo tappe analoghe a quelle dei bambini monolingui, a patto che vengano rispettate alcune condizioni. Soprattutto nelle prime fasi di acquisizione è importante rispettare il principio <una persona, una lingua> ed evitare quindi che l’adulto passi improvvisamente da una lingua ad un’altra nell’interazione con il bambino. Inoltre, mentre fino ai 3 anni può essere sufficiente un solo interlocutore nella lingua straniera, ad esempio una madre che parla inglese, mentre l’ambiente circostante parla italiano, più tardi è fondamentale che il bambino abbia anche altri interlocutori e soprattutto sperimenti l’uso di entrambe le lingue con dei coetanei. Fin dalla scuola materna e per tutto il ciclo dell’obbligo la scuola deve illustrare e far conoscere sia al bambino bilingue che ai suoi compagni di classe il maggior numero possibile di informazioni sulla nazione e cultura di provenienza. §§§CAP.5 SISTEMI SIMBOLICI E NOTAZIONE FIGURATIVA L’INGRESSO NEL MONDO DEI SEGNI Nella nostra cultura l’ingresso dei bambini nel <mondo dei segni> avviene precocemente. Durante il secondo anno di vita, se un bambino ha a disposizione carta e matita, sarà facile vederlo impegnato a scarabocchiare: gli scarabocchi non sono né disegni né scrittura, ma gesti che il bambino compie per il piacere di lasciare una traccia sul foglio. In uno studio basato su 8000 disegni, Rhoda Kellogg [1969] ha identificato venti diversi tipi-base di scarabocchi, come linee,spirali,circoli,croci. Questa sorta di alfabeto del lessico grafico, inizialmente polivalente, è destinato a prendere strade diverse, che conducono alla simbolizzazione iconica da un lato, e ai sistemi rotazionali linguistici e numerici dall’altro. Ma affinché il bambino rappresenti la realtà con figure, parole e numeri, l’attività puramente motoria del tracciare segni dovrà trasformarsi in un’attività che stabilisce una relazione specifica tra segni e mondo, cioè arricchirsi di quella che, seguendo Piaget, si definisce come <funzione simbolica>. Per Piaget la funzione simbolica coincide con la capacità rappresentativa, ossia la possibilità di richiamare alla mente oggetti non percettivamente presenti (i <significati>) grazie a indici, simboli o segni che ne evocano le caratteristiche (i <significanti>). Piaget distingue tra indici, simboli e segni, in base al diverso tipo di referenzialità. Gli indici, i più primitivi dal punto di vista evolutivo, sono concepiti come semplici <indizi> di qualcosa nel mondo esterno, con cui sono uniti in un’esperienza sincretica; nei simboli e nei segni invece significante e significato sono distinti, ma i primi conservano qualche affinità concreta con ciò che rappresentano (ad esempio, una somiglianza visiva come quella tra un cerchio disegnato ed una palla) mentre i segni possono essere anche del tutto convenzionali, come i suoni delle parole che non hanno in genere alcuna affinità con ciò che denotano. La capacità rappresentativa si esprime attraverso svariate condotte: l’imitazione, il gioco simbolico, la produzione di immagini mentali, il linguaggio e il disegno. L’esistenza di affinità visive tra disegno e mondo non implica che il bambino sia da subito capace di leggere e di produrre simboli iconici. Il prerequisito per passare dallo scarabocchio al disegno è acquisire uno specifico sistema di simbolizzazione. Ciò inizia relativamente tardi nel corso dello sviluppo, quando il bambino è già capace di servirsi, anche se non compiutamente, di altri mezzi simbolici come i gesti comunicativi, il gioco di finzione, il linguaggio parlato. Non bisogna in

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effetti dimenticare che, mentre il linguaggio si sviluppa a partire da una base innata, il mondo dei segni scritti è assai più fortemente determinato dalla trasmissione culturale. DISEGNO E SCRITTURA La scoperta infantile dei segni non iconici- numeri e parole scritte- è stata molto meno studiata dagli psicologi dello sviluppo, nell’implicita presupposizione che essa dipenda esclusivamente dall’istruzione formale. Il primo a discostarsi da questa prospettiva è stato Lurija il quale, in un lavoro degli anni ’20 escogitò la procedura di <far scrivere> a bambini prescolari delle frasi per aiutarsi a ricordarle. In una prima fase <prestrumentale> i bambini producono scarabocchi, linee o zig-zag che imitano la scrittura adulta, senza però alcuna relazione con le frasi udite. Successivamente appare una <scrittura pittografica>, in cui i segni si differenziano per forma e numero, ma secondo modalità non alfabetiche. Molti bambini non esplorano le possibilità della scrittura pittografica perché a 5-6 anni vengono già introdotti al principio alfabetico; ma secondo Lurija ciò non dà luogo all’immediata acquisizione delle tecniche di scrittura culturalmente corrette, quelle basate sulla corrispondenza grafema-fonema: vi è una transizione nel corso della quale i bambini tornano all’iniziale scrittura indifferenziata, in cui le lettere apposte sul foglio non hanno alcun legame con il significato delle frasi. Il problema della distinzione tra disegno e scrittura è stato ripreso negli anni ’70 da Emilia Ferreiro che, partendo da una prospettiva piagetiana, ha mostrato come i bambini giungano a distinguere tra il segno pittorico e quello rotazionale (lettere, numeri) tramite un processo attivo di scoperta che precede il larga misura la scolarizzazione. Secondo Ferreiro e Teberosky, i bambini sotto i 4 anni non distinguono pienamente disegno e scrittura. Successivamente la scrittura viene considerata come analoga degli oggetti che designa: così, taluni bambini sono convinti che nella didascalia di una illustrazione ci debba essere scritto il nome di ciò che è raffigurato nell’immagine. Infine il bambino giunge alla progressiva scoperta della funzione puramente simbolica della scrittura convenzionale, della sua natura astratta e svincolata dall’immagine. Il percorso che porta dunque il bambino ad impadronirsi del sistema di denotazione grafica è molto lungo. Il bambino incomincia a esplorare attivamente il mondo dei segni in concomitanza con la sua capacità di tracciare linee, punti, macchie su un foglio; in seguito tali segni acquistano il carattere della rappresentatività. LE TAPPE DELLA RAFFIGURAZIONE PITTORICA Georges-Henry Luquet descrive le tappe attraverso le quali il bambino progredisce dagli scarabocchi all’uso dei segni per rappresentare la realtà. La prima fase, intorno ai 2 anni, è quella del realismo fortuito: il bambino, dopo aver tracciato dei segni, li <interpreta> come rappresentativi di questo o quell’oggetto in base a somiglianze anche fragili (una forma circolare può essere etichettata come <un sole>o anche <un camion>). Successivamente il bambino si pone più chiaramente degli intenti figurativi, ma spesso non riesce a raggiungerli; e la fase del realismo mancato, che va dai 2 anni e mezzo ai 4-5 anni:<volevo fare un topo, ma mi è uscita una pizza>. Una tipica difficoltà di questo periodo è coordinare le diverse parti di un disegno (incapacità di sintesi), cosicché in taluni casi il bambino si limita a giustapporre vari elementi senza rispettarne le relazioni spaziali. Nel periodo che va dai 5 agli 8 anni, chiamato stadio del realismo intellettuale, il bambino diviene molto più abile nel riprodurre l’aspetto di ciò che disegna. Il bambino sembra preoccuparsi solo di rendere riconoscibile ciò che disegna, <seguendo il concetto di esemplarità e non quello di prospettiva>. Il

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predominio dell’esemplarità sulle prospettiva si può cogliere anche nelle trasparenze e nei <ribaltamenti>, per cui alcune figure sembrano stese in un panorama visto dall’alto. Invece, nell’ultima fase (dagli 8 anni all’adolescenza) il cosiddetto realismo visivo si manifesta nel predominante interesse per la raffigurazione prospettica entro e tra gli oggetti disegnati. IL DISEGNO COME TEST DI INTELLIGENZA: LA FIGURA UMANA Il disegno è considerato un indicatore delle capacità intellettive del disegnatore. Negli anni ’20 è comparso il Test della Figura Umana, nel quale la numerosità e l’appropriatezza con cui, età per età, le varie caratteristiche costitutive della figura umana appaiono nel disegno vengono assunte a indici dello sviluppo intellettuale generale. In effetti, il disegno della figura umana è un discreto predittore del successo scolastico.. Nella versione originale il test richiedeva di disegnare la figura di un uomo (Goodenough); nella versione rivisitata da Harris, agli inizi degli anni ’60 si chiede di disegnare una figura maschile e una femminile. L’APPROCCIO STORICO-CULTURALE Per la concezione storico-culturale lo sviluppo delle funzioni psichiche superiori deve essere sempre considerato da un duplice punto di vista: da un lato vanno studiati i processi di acquisizione degli strumenti esteriori del pensiero (lingua scritta e parlata, calcolo, disegno…); dall’altro vanno esaminate le trasformazioni che tali strumenti apportano alle strutture stesse del pensiero, e che consistono sostanzialmente nell’acquisizione di qualità superiori quali l’attenzione volontaria, il pensiero concettuale ecc. Bruner, nello sforzo di integrare l’approccio studiale e strutturalista di Piaget con quello socioculturale di Vygotskij, ha posto l’accento sulla centralità dei mezzi con i quali ci si rappresenta l’esperienza del mondo. Per Bruner il sistema cognitivo si articola in tre sistemi diversi ma collegati tra loro (attivo,iconico,simbolico) grazie ai quali la conoscenza del mondo viene rappresentata in molteplici modi, che vanno dall’azione, alla raffigurazione di eventi e situazioni in forma di immagini, all’uso di sistemi simbolici convenzionali, come il linguaggio, la notazione matematica ed ogni altro tipo di segni. Il processo di crescita consiste nell’interiorizzazione dei modi di conoscenza presenti nella cultura di appartenenza, inclusi i modi di rappresentazione iconica. DAL PRODOTTO PITTORICO AL PROCESSO DEL DISEGNARE Dagli anni ’70 in poi, l’insoddisfazione nei confronti dell’approccio studiale conduce alcuni studiosi a riesaminare il disegno infantile nel quadro dell’approccio HIP (Human Information Processing, o teoria dell’elaborazione dell’informazione), proponendo di considerare il disegno come una forma di problem-solving. Per trasporre su una superficie piatta l’apparenza visiva di oggetti solidi, disposti nello spazio nei modi più vari, i bambini vanno incontro a numerosi problemi: come <rendere> la corrispondenza tra oggetto e raffigurazione? Il bambino deve dunque costruire un sistema di denotazione (il termine <denotazione> designa qui la referenza ad un oggetto, mentre <connotazione> si riferisce a proprietà più specifiche; così una faccia è denotata pittoricamente da un cerchio che contiene dei segni per occhi e bocca, ed è connotata come <felice> se la linea che indica la bocca ha gli angoli all’insù). Possiamo considerare una delle figure che compaiono per prime nel repertorio pittorico infantile: l’omino testone. Per raffigurare l’essere umano il bambino di 3 anni può usare solo due tipi di segni: dei cerchi di diversa misura per denotare sia la testa che gli occhi e delle linee per gli arti e il tronco. Intorno ai 4-5 anni il bambino giunge alla <figura

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convenzionale>, in cui testa, tronco e arti sono denotati da regioni distinte; a questi elementi si aggiungeranno ben presto mani, piedi e dettagli del volto. Fino agli 8-9 anni circa il bambino continua di solito a comporre la figura <a blocchi>: un tondo per la testa, un ovale o un rettangolo per il tronco, delle strisce per gli arti e così via. Solo al termine della fanciullezza diverrà più frequente l’uso di un contorno continuo che delimita più parti. C’è da considerare che i bambini devono fare i conti con numerose difficoltà esecutive e progettuali. L’impegno che un bambino deve porre per guidare una matita sul foglio nel modo voluto può fargli perdere di vista altri aspetti del suo piano di lavoro. Accade così che i bambini piccoli, la cui capacità di memoria è limitata, non sempre tengano a mente le varie componenti da rappresentare per tutto il tempo necessario ad eseguire il disegno. Nel caso di un oggetto complesso come la figura umana, è stato dimostrato che i bambini di 3 anni sanno modellare con il pongo tutte le parti principali del corpo umano e porle nelle relazioni appropriate, mentre quando disegnano omettono il tronco e attaccano gli arti direttamente alla testa. Ciò è dovuto al fatto che, lavorando con il pongo, i pezzi via via costruiti indipendentemente l’uno dall’altro possono essere poi messi insieme alla fine, mentre nel disegno si deve <costruire> la figura in una precisa sequenza, pianificata fin dall’inizio. Dunque sembrerebbe che l’efficacia rappresentativa verrebbe raggiunta in maniera diversa a seconda del mezzo simbolico impiegato, ed in stretto rapporto con la varietà di caratteristiche che ogni compito presenta. Anche qui si riscontra la diversità dell’approccio cognitivista da quello studiale tradizionale: se i modi di disegnare fossero esclusivamente o principalmente espressione di caratteristiche strutturali generali di pensiero, essi dovrebbero essere abbastanza costanti anche al variare delle circostanze in cui il soggetto disegna e degli strumenti di cui dispone. Ma ciò non è vero. Il bambino non disegna ciò che sa (realismo intellettuale) a spese di ciò che vede (realismo visivo): egli piuttosto <disegna ciò che può>. I bambini, durante la fanciullezza, giungono a definire un repertorio di forme canoniche alle quali si attengono di preferenza. Una caratteristica delle figure canoniche è di essere <centrate sull’oggetto>, cioè di rappresentare ciò cui si riferiscono dal punto di vista che meglio ne mostra le caratteristiche: così un pesce sarà raffigurato di profilo, in modo da coglierne più facilmente la forma allungata, mentre un volto sarà di solito frontale, così da evidenziare la disposizione si tutti i tratti facciali. Secondo Luquet [1927] l’attività pittorica infantile sarebbe guidata da un <modello interno> della realtà astratto e universale, più che da un’osservazione del mutevole apparire degli oggetti in relazione al volgersi dello sguardo: ma se fosse così il bambino non potrebbe mai scostarsi dalla canonicità, e ciò non è vero. Infatti, all’inizio della fanciullezza il bambino predilige forme esemplari degli oggetti, che pur essendo relativamente semplici da eseguire e ben padroneggiate grazie al loro uso ripetuto, rivelano le componenti costitutive di ciò che si vuole rappresentare trascurando le caratteristiche individuali e le informazioni prospettiche: ma quando individualità e/o disposizione spaziale divengono salienti, molti bambini già in età prescolare si scostano dalla canonicità. I TEST NEUROPSICOLOGICI Il disegna compare anche in alcune prove neuropsicologiche. Questi test sono nati nel quadro della teoria gestaltista e si basano sulle documentate difficoltà grafiche di pazienti neurologici e psichiatrici, oltre che sul progressivo incremento delle capacità dei bambini. Tra i tanti si possono ricordare i Labirinti, in cui il soggetto deve rintracciare l’uscita; il Test del Disegno Geometrico per bambini dai 3 agli 8 anni, il Test

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di Rey della grande e piccola figura complessa, il Test di Bender, il Test di Benton. Tutti questi test, oltre ad essere ritenuti buone misure di intelligenza generale, sono stati validati rispetto alla capacità di evidenziare differenze tra soggetti cerebrolesi e normali. Si prestano ad un uso prevalentemente clinico. IL DISEGNO COME MEZZO DI COMUNICAZIONE Il disegno ha un carattere comunicativo, in quanto oltre ad un autore ha sempre uno spettatore. I vantaggi offerti dalla rappresentazione grafica vanno dalla maggiore libertà comunicativa che essa consente, nella sua validità interetnica, e nella possibilità intrinseca che ha di far emergere aspetti peculiari del pensiero, difficilmente esprimibili a parole. Il disegno come comunicazione è alla base di almeno due tipi di applicazioni. Una è costituita dai classici strumenti proiettivi, in cui il disegno è visto come una ricca opportunità di espressione di sé e dei propri affetti. L’assunto di base è che il disegnatore riversi inconsapevolmente in ciò che disegna aspetti del suo mondo interiore. Il bambino trasporrà in forma simbolica i suoi vissuti sul tema disegnato (come nel caso del test della famiglia); oppure, rappresentando un oggetto apparentemente neutro e ritenuto invece portatore di una valenza espressiva particolare (ad esempio, l’albero), rivelerà aspetti nascosti di sé e dei propri rapporti con il mondo. Un diverso approccio al disegno come comunicazione ha invece guidato il lavo sulla rappresentazione di relazioni interpersonali. Nella consegna ai bambini si chiede di <disegnare per far sapere> all’interlocutore adulto qualcosa di sé e dei propri rapporti con gli altri (amici, fratelli e altri). La codifica dei disegni di sé con un partner significativo avviene in base alle Scale di Somiglianza, Valore, Coesione e di stanziamento. Grazie ad un manuale di codifica, l’accordo tra i codificatori risulta elevato. E’ utile anche nell’applicazione transculturale, dove il disegno supplisce alle ovvie difficoltà della comunicazione verbale. DISEGNO E CULTURA Negli studi sullo sviluppo del disegno si possono individuare due linee di pensiero, una universalistica e una <situazionistica>. La posizione più tradizionale e diffusa è quella che ascrive un carattere universale alle rappresentazioni pittoriche. Un argomento a favore dell’universalità sarebbe la loro riconoscibilità: un individuo cresciuto senza mai vedere dei disegni può immediatamente identificare il contenuto delle rappresentazioni. All’universalismo si oppongono invece quanti ritengono che vi sia una inevitabile mediazione dell’azione e del giudizio sociale sul grafismo infantile. In effetti, il marchio della cultura è riconoscibile sia nella scelta preferenziale di taluni temi sia negli stili pittorici adottati dai bambini dai diversi paesi. Questo dibattito teorico ha stimolato un certo numero di ricerche transculturali sul disegno, e in particolare sulla figura umana, un tema che ricorre nei disegni infantili. Non si può negare che il disegno della figura umana presenti numerose somiglianze da una cultura all’altra, ma vi sono anche delle differenze, che consistono non solo nella precocità con cui i bambini giungono a rappresentare la figura convenzionale, ma anche nella scelta delle parti componenti e nel modo in cui queste parti sono denotate e connesse le une alle altre. Un caso limite è il modo in cui i bambini Walbiri (aborigeni australiani) disegnano di solito le persone, ossia mediante un semicerchio: un semicerchio grande con uno più piccolo inscritto all’interno rappresenta una madre con un bambino in braccio! IL DISEGNO INFANTILE COME ARTE La scelta che il bambino fa del disegnare dipende in parte dalla scoperta dovuta all’esercizio dell’attività grafica stessa e in parte è effetto di una trasmissione sociale. E’

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verso la metà dell’800 che pedagogisti e letterati cominciano a mostrare interesse per il grafismo dei piccoli, ma soprattutto a partire dagli anni ’30 e sino all’immediato dopoguerra, l’importanza attribuita alla creatività e all’espressione artistica nello sviluppo e nell’educazione del bambino ha portato educatori e psicologi a porre l’accento sulle potenzialità artistiche della pittura infantile. Le valenze artistiche delle prime forme di disegno e il minore appello estetico delle figurazioni successive hanno portato alcuni autori a parlare di una <curva a U> nello sviluppo artistico: ci sarebbe una fase iniziale in cui il talento artistico si manifesta con vigore, seguita da un affievolimento, cui eventualmente fa seguito, dall’adolescenza in poi, il dispiegarsi del talento maturo. Non si deve però credere troppo ingenuamente alla naturalità dell’arte infantile. Il passaggio dallo scarabocchio incontrollato alle forme proto-figurative che tanto ci colpiscono per la loro ingegnosa essenzialità e libertà formale avviene entro un contesto culturale in cui i bambini hanno ampio accesso ad immagini semplificate (si pensi alle figure dei primi libri illustrati o ai cartoni animati), e gli adulti intervengono anche esplicitamente lodando questa o quella attività grafica. Insomma, quello che sembra emergere da una disposizione naturale del bambino è in realtà il frutto dell’interazione tra i vincoli cognitivi, procedurali e motivazionali del bambino e una serie di influenze culturali e pedagogiche, di cui gli adulti sono solo in parte consapevoli. Fondamentale importanza riveste la scelta di intervenire o meno nel processo di costruzione del sistema iconico da parte del bambino proponendo esplicitamente dei modelli e incoraggiando i bambini a copiarli. L’esercizio del copiare è assai poco popolare nella nostra scuola, mentre in Cina, dove il disegno è molto valorizzato anche in vista della destrezza esecutiva necessaria alla scrittura ideografica, gli insegnanti effettuano a tutt’oggi un vero e proprio lavoro di modellamento, facendo riprodurre, parte per parte, una serie di equivalenti pittorici atti a raffigurare animali e oggetti. E’ interessante rilevare come, nonostante ciò, i bambini cinesi non si tirino indietro al momento di abbandonare i modelli e di rappresentare oggetti inusuali. Lo studio delle idee infantili sul disegno è assai recente e purtroppo le opinioni dei bambini sui requisiti che un disegno deve avere per essere ben fatto, o sulle regole da seguire nel disegnare, sono state scarsamente indagate. In una recente ricerca condotta con interviste semi-strutturate a bambini fra i 5 e gli 11 anni si è cercato di appurare le modalità adottate nel disegno, il controllo esercitato sul prodotto, i giudizi sulla propria e altrui abilità grafica e sulle immagini realizzate, le variazioni e modifiche eventualmente apportate. L’analisi delle risposte ottenute mostra che le idee circa le strategie necessarie per disegnare variano con l’età: a 5 anni i bambini credono che per disegnare sia sufficiente farlo <così come viene>, a 7-8 anni riconoscono l’importanza di una pianificazione anticipata, e solo intorno agli 11 anni individuano il concorso di più strategie (progettare, confrontare il disegno con la realtà esterna, correggere ciò che si viene disegnando). E’ però necessario accostarsi allo sviluppo del disegno infantile con più consapevolezza delle influenze sociali esercitate da genitori, educatori e mezzi pittorici sulla scelta di ciò che conta rappresentare e del modo in cui ciò deve preferibilmente avvenire. Questo permetterebbe di programmare più adeguatamente degli interventi formativi mirati a favorire la soluzione dei problemi progettuali, procedurali ed esecutivi che il bambino incontra nella sua acquisizione del sistema di rappresentazione pittorico. §§§CAP.6: IMPARARE A LEGGERE

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I più antichi esempi di scrittura sono datati intorno al IV millennio avanti Cristo. Si tratta di sassi o tavolette di argilla con incisioni geometriche che elencano sassi di grano o capi di bestiame. La storia della scrittura e della lettura comincia così con il calculus, parola che originariamente designa il sasso, o pietruzza, e le sue scritte utilizzate per contare. Leggere significa dire alla propria mente le parole di un testo. Ricevendo queste parole la mente di chi legge può ricreare il pensiero di qualcuno che non è presente. Conviene dunque distinguere il <leggere> dal <comprendere il testo>. Il leggere ha a che fare con il riconoscere le parole e i loro significati. La comprensione del testo utilizza queste parole per costruire immagini, pensieri e ragionamenti. Le ricerche psicologiche hanno mostrato che il riconoscimento delle parole scritte e la comprensione del testo utilizzano meccanismi mentali e apparati di conoscenze di natura in parte diversa. Per riconoscere le parole scritte utilizziamo un insieme molto vasto di conoscenze, prevalentemente di natura linguistica: conoscenze ortografiche (la memoria di sequenze di lettere) e fonologiche (la struttura dei suoni delle parole); conoscenze sintattiche (le relazioni che la parola ha con altre categorie di parole) e semantiche (i diversi significati che la parola può avere). Per conoscere un testo utilizziamo sia conoscenze linguistiche (in particolare quelle sintattiche) sia conoscenze <sul mondo>, che ci permettono di costruire un’immagine mentale dei fatti descritti e di ragionare sulle affermazioni contenute nel testo. Anche imparare a leggere è il risultato di meccanismi e processi di apprendimento diverso. Il riconoscimento delle parole scritte si fonda solo in parte sulle conoscenze che il bambino ha già acquisito attraverso la lingua parlata; richiede invece nuovi meccanismi di accesso alle conoscenze linguistiche, e nuove modalità di rappresentazione delle parole. La comprensione del testo si fonda invece su un insieme di processi che il bambino mette in atto anche quando comprende i discorsi e le narrazioni orali. SENTIRE PAROLE Immaginiamo di trovarci in un paese straniero, dove si parla una lingua che conosciamo a malapena. Passeggiando superiamo una coppia di persone e improvvisamente sentiamo parlare la nostra lingua. Non possiamo fare a meno di riconoscere le parole senza prestarvi tuttavia attenzione. Quali meccanismi mentali determinano la facilità della percezione delle parole nella lingua nativa? Gli studi psicolinguistici hanno iniziato a porsi questa domanda negli anni ’80 utilizzando diversi tipi di metodologie sperimentali, come il gating task, che propone al soggetto di ascoltare frammenti di parola di durata via via crescente. Ad esempio, il soggetto ascolta i primi 100 millisecondi (ms) di una parola, poi i primi 150 ms, poi i primi 200, e così via. Dopo ogni frammento ascoltato, lo sperimentatore chiede al soggetto di ipotizzare di quale parola si tratti. Usando questa tecnica si è trovato che le persone riconoscono parole utilizzando un’informazione acustica parziale. I primi 200-300 millisecondi dello spettro acustico (l’onda sonora prodotta dalla pronuncia della parola) sono in genere sufficienti per attivare nella mente dell’ascoltatore un insieme di parole compatibili con l’informazione acustica, e per far emergere una parola come l’unico candidato possibile. L’input acustico è in grado di attivare memorie lessicali di tipo non solo acustico-fonetico ma anche semantico. Nella percezione del linguaggio parlato, l’elaborazione dell’informazione acustica avviene parallelamente all’attivazione delle memorie fonetiche e semantiche nel lessico mentale. Non c’è una fase in cui sentiamo il suono della parola e una fase in cui attribuiamo a questo suono un significato. Nel momento in cui l’input uditivo <mette in risonanza> le memorie lessicali, si attivano sia

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forme fonetiche sia contenuti semantici. Quando una parola viene finalmente riconosciuta, forma fonetica e contenuto semantico sono ambedue attivi nella mente, e utilizzabili per altri processi. La forma fonetica è utilizzabile per processi fonologico-articolatori (quando un soggetto ripete ciò che ha sentito), e il contenuto semantico è utilizzabile per integrare la singola parola nel contesto complessivo del messaggio. L’apparente naturalezza e facilità della percezione delle parole nella lingua nativa è il risultato di due diversi meccanismi. Il primo è un meccanismo di processing del suono linguistico: l’elaborazione fonetica del segnale acustico è molto rapida, non dipende da una segmentazione in unità fonetiche e non richiede un particolare insegnamento. L’abitudine alle caratteristiche acustiche più rilevanti per il riconoscimento delle parole, e l’automaticità con cui la nostra attenzione si concentra su di esse, rende l’elaborazione fonetica un processo estremamente <naturale> e rapido. Il secondo è un meccanismo di accesso alle memorie lessicali: riconoscere una parola del linguaggio parlato non richiede l’ascolto di tutta l’informazione che la caratterizza; le memorie lessicali si attivano anche con informazioni acustiche parziali. VEDERE PAROLE Le linee tracciate dalle lettere non sono in grado di evocare nel lettore alcun’idea sull’oggetto che la parola designa, bensì <disegnano> un sistema di rappresentazione scritta. La ridondanza delle caratteristiche visive, e la probabilità dei loro modi di combinazione, rende il riconoscimento delle lettere un processo per certi versi <probabilistico>. Non è necessario aver visto tutta la lettere per identificarla: la rilevazione di una o più caratteristiche visive può attivare la memoria di una o più lettere. Ma attraverso quale meccanismo le lettere diventano parole? Il modello di McClelland e Rumelhart [1981] simula i processi coinvolti nel riconoscimento delle parole scritte, e ipotizza che questi processi siano di natura parallela, e non sequenziale. La natura parallela dell’elaborazione dell’informazione ha due implicazioni. Primo, tutta l’informazione sensoriale disponibile è elaborata simultaneamente: se lo sguardo del lettore si è brevemente fissato su tre lettere, le caratteristiche visive di queste tre lettere saranno tutte elaborate nello stesso tempo. Secondo, il processo di riconoscimento delle lettere e delle parole è interattivo: se nella mente del lettore si attiva una parola (es. vedendo CAP si attiva CAPITALE), il riconoscimento delle successive lettere di quella parola sarà facilitato. Il modello di McClelland e Rumelhart riproduce un aspetto importante del processo di lettura: il riconoscimento delle parole <passa> attraverso il riconoscimento delle lettere; la preattivazione delle parole nel lessico, d’altra parte, facilita il riconoscimento delle lettere. C’è da dire che svariate ricerche hanno confermato che i lettori, anche quando sono molto esperti, elaborano ogni lettera delle parole che stanno leggendo, indipendentemente dal grado di familiarità o di prevedibilità della parola. Un’altra caratteristica del modello di McClelland e Rumelhart è la connessione diretta tra lettere e lessico: il riconoscimento di singole lettere può attivare in maniera diretta la memoria ortografica delle parole senza che ci sia bisogno di utilizzare un’associazione tra unità ortografiche e unità fonologiche. Però questa ipotesi sembra scontrarsi con un’evidenza piuttosto semplice: anche un lettore esperto ha talvolta occasione di incontrare parole nuove, mai incontrate in precedenza. Pur non avendo una memoria ortografica di queste parole, egli può tuttavia leggerle. Alcune ricerche mostrano che anche le parole nuove, o le non-parole possono essere lette e pronunciate ad alta voce per analogia visiva con parole già note. Tuttavia, un processo di analogia non è sempre facilmente

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applicabile; per leggere parole nuove abbiamo bisogno di <assemblare> la pronuncia. In altri termini, abbiamo bisogno di stabilire un’associazione tra unità ortografiche (singoli grafemi o stringhe di lettere) e unità fonologiche (fonemi e sillabe), e poi di assemblare queste unità fonologiche in un pattern articolatorio. L’ipotesi di una connessione diretta tra lettere e lessico può dunque spiegare il riconoscimento di parole familiari, di cui il lettore ha memoria ortografica, ma non riesce a spiegare come sia possibile la lettura di parole nuove. LETTERE COME <EVOCATORI> DI SUONI E SIGNIFICATI Un modello psicologico noto come <modello a due vie> prevede che nella lettura ad alta voce la pronuncia delle parole possa essere attivata da una via visivo-lessicale oppure da una via fonologica. -Nella via visiva o lessicale il riconoscimento delle lettere attiva una rappresentazione ortografica della parola, che a sua volta permette al lettore di recuperare il significato e la pronuncia della parola. Attraverso la via visivo-lessicale il lettore recupera un pattern articolatorio (la pronuncia della parola nella sua interezza) memorizzato in maniera stabile nel lessico, e che non deve ogni volta essere ricreato convertendo singole lettere in singoli fonemi. La via visivo-lessicale permette la lettura corretta di parole inglesi a pronuncia irregolare (es. HAVE, dove la stringa –AVE si legge [èv] e non [eiv] come in GAVE). In italiano, permette di distinguere il significato di L’AGO e LAGO. -Con la via fonologica o extralessicale il riconoscimento delle lettere attiva un codice fonologico, che può consistere in un fonema o in una sillaba. La pronuncia della parola viene dunque assemblata a partire da queste unità fonologiche. La via <extralessicale> opera nello stesso modo sia per sequenze familiari di lettere, sia per sequenze non familiari. Non è sensibile alla frequenza d’uso della parola, e risente soltanto della regolarità e prevedibilità della conversione ortografia-fonologia. La lettura visivo-lessicale è risultata, in alcuni studi, una <via< molto più veloce di quella fonologica. Solo quando le parole sono poco familiari al soggetto, la via fonologica prevale. I sostenitori del modello a <doppia via> argomentano che l’attivazione di un codice fonologico si verifica nella lettura soltanto in alcuni casi particolari. Viene utilizzato solo quando la stringa ortografica non riesce ad attivare velocemente nessuna memoria lessicale. Solo le parole a frequenza estremamente bassa (e che utilizzano pattern ortografici con pronuncia regolare) sarebbero lette attraverso una via fonologica. Negli altri casi si utilizzerebbe invece un’elaborazione soltanto ortografica, in cui il riconoscimento di lettere conduce direttamente all’attivazione di parole nel lessico. La via ortografica, essendo la più veloce, è quella preferibilmente utilizzata. Questo argomento è tuttavia messo in crisi da alcune evidenze empiriche. Alcuni esperimenti di Van Orden chiedono ai soggetti se lòa parola scritta che compare sullo schermo di un computer è un esemplare di frutta oppure no. Van Orden trova che i soggetti fanno molti errori quando la parola scritta (PAIR, che si pronuncia [pèèr], significa coppia e non è un tipo di frutto) è omofona con il nome di un frutto (pera, in inglese, si dice [pèèr] e si scrive PEAR). Questo risultato indica che il codice fonologico attivato nella lettura contribuisce all’accesso lessicale e interferisce con la decisione semantica richiesta ai soggetti. Ulteriori ricerche confermano questo risultato ma trovano che se la parola target ha una frequenza d’uso molto più bassa della parola omofona, l’effetto interferenza non si verifica: MEET ([miit]) che significa incontrarsi non viene mai

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scambiato per MEAT ([miit]) che significa carne ed è una parola ad alta frequenza d’uso. Le evidenze dunque suggeriscono che lettere e stringhe di lettere possono funzionare come evocatori di significati. SENTIRE E VEDERE PAROLE: DUE DIVERSI PASSAGGI VERSO IL SIGNIFICATO L’esame dei modelli teorici considerati fino a questo punto suggerisce che il riconoscimento delle parole <parlate> e scritte si fonda su meccanismi in parte simili e in parte diversi. Comune alle due modalità (parlato e scritto) è che i processi percettivi si svolgono parallelamente all’attivazione del lessico. Non c’è un momento in cui riconosciamo la forma –fonetica o ortografica- delle parole, e un momento in cui ne comprendiamo il significato. Nell’ascoltare i suoni della lingua nativa, così come nel vedere le lettere di una lingua conosciuta, non possiamo fare a meno di sentire o di vedere <parole>, e dunque di cogliere significati (vi sono tuttavia pazienti con dislessia acquisita che sembrano poter riconoscere e pronunciare ad alta voce le parole scritte senza accedere al contenuto semantico). Il riconoscimento delle parole scritte utilizza tuttavia rappresentazioni intermedie, che collegano la percezione visiva al lessico. Queste rappresentazioni sono costituite da singole lettere, o da stringhe di lettere, probabilmente associate a unità fonologiche. Il riconoscimento delle parole parlate non utilizza invece alcuna unità intermedia; l’elaborazione percettiva del suono non <passa> attraverso l’identificazione di singoli fonemi o di singole sillabe. Insomma, non segmentiamo il segnale acustico quando riconosciamo parole nel parlato. Questa differenza tra parlato e scritto ha importanti implicazioni sul piano dell’apprendimento. Per imparare a riconoscere le parole scritte i bambini non possono utilizzare gli stessi meccanismi di elaborazione linguistica che utilizzano nel parlato. Debbono <accedere> al significato delle parole attraverso un nuovo meccanismo, costituito dal riconoscimento di lettere. APPRENDERE A LEGGERE I primi apprendimenti della lettura sono inseparabili dall’attività dello scrivere. Non solo perché attraverso la scrittura il bambino costruisce le prime idee sul funzionamento della lingua scritta, ma anche perché attraverso la scrittura si stabiliscono le prime conoscenze sulle lettere e sulla loro pronuncia. Alcuni ricercatori ipotizzano che in una fase iniziale di contatto con la lingua scritta i bambini riconoscano parole in base a indizi visivi. La lettera iniziale, un gruppo di lettere, oppure alcune caratteristiche globali della scritta (es. la sua lunghezza) vengono utilizzate per riconoscere la parola e rievocarne il significato. Dopo questa fase, detta <logografica>, seguirebbe una fase di lettura alfabetica, in cui i bambini individuano le singole lettere e la pronuncia-suono ad esse corrispondenti. Infine vi sarebbe una terza fase, definita <ortografica>, in cui i bambini hanno stabilito una memoria per stringhe di lettere. Nella fase ortografica le parole possono essere di nuovo riconosciute <a vista>, utilizzando tuttavia non semplici indizi visivi, ma una dettagliata memoria ortografica della parola e delle sue sottoparti, in particolare di quelle morfologiche (es. riconoscimento di suffissi e prefissi). L’emergenza di una fase <ortografica>, in cui si costituisce e consolida una memoria ortografica per parti delle parole è un aspetto importante nell’apprendimento della lettura. LETTORI <A RISCHIO> L’imparare a leggere per alcuni bambini è più difficile che per altri. Utilizzando test standardizzati, gli psicologi possono verificare che un bambino impiega un tempo

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eccessivamente lungo per leggere liste di parole e di non-parole e se la lentezza nel processo di riconoscimento si accompagna ad errori. Molti ricercatori hanno ipotizzato che i bambini lenti nell’apprendimento della lettura hanno una scarsa consapevolezza fonologica. Un bambino che ha buona consapevolezza fonologica, vedendo D, potrà cominciare ad attivare nella sua mente diverse possibili parole che iniziano tutte con D. Un bambino che ha scarsa consapevolezza fonologica, vedendo D, rievocherà solo le parole che gli sono state insegnate come inizianti con D (es. DADO), e non sarà in grado di generalizzare a parole nuove. I compiti con cui è possibile stabilire il grado di consapevolezza fonologica di un individuo sono compiti che richiedono di compiere qualche operazione (analisi, confronto, giudizio di somiglianza) sulla forma fonetica della parola. Il soggetto deve tenere in memoria questa forma (ad esempio ripetendosi la parola) e deve contemporaneamente compiere l’operazione richiesta; ad esempio deve giudicare se due parole iniziano con lo stesso suono. Molte ricerche hanno trovato che, a parità di livello cognitivo, i <cattivi lettori> hanno anche molte difficoltà nei compiti di consapevolezza fonologica. Inoltre, la prestazione nei compiti di consapevolezza fonologica è il miglior predittore della facilità con cui i bambini impareranno a leggere. Dunque, la consapevolezza fonologica è un <prerequisito> per l’apprendimento della lettura. Però ricerche hanno mostrato che adulti di intelligenza normale,e che tuttavia non hanno familiarità con la lettura e la scrittura, hanno un livello di consapevolezza fonologica simile (o talvolta peggiore) a quello dei bambini che sono cattivi lettori. Questo dato indica che la consapevolezza del fonema non emerge naturalmente nelle persone, ma è una conseguenza dell’imparare a leggere e scrivere. Sembra che allora ci sia un terzo fattore, sottostante sia ad una difficoltà nell’apprendimento di patterns ortografico-fonologici nella lettura, sia a una difficoltà nei compiti di consapevolezza fonologica. Questo fattore è lo stato delle rappresentazioni fonologiche dell’individuo. Alcuni bambini sembrano avere difficoltà a tenere a mente <pezzi< di pronuncia delle parole. Nel momento in cui hanno letto e pronunciato PI, la traccia di memoria di [pi] scompare velocemente quando leggono la stringa successiva NOC, la pronuncia [pinoc] non riesce così a comporsi nella mente, e ad attivare la parola PINOCCHIO. Altri bambini sembrano aver una memoria fonologica a breve termine normale. In questi bambini sembra verificarsi, più semplicemente, una lentezza nel processo di riconoscimento delle parole, e una certa facilità di errore con parole che sono poco frequenti. Le cause di una lentezza nell’apprendimento della lettura sono ancora poco chiare. In conclusione, il rapporto tra consapevolezza fonologica e lettura è meno lineare di ciò che può sembrare. I bambini che riconoscono le parole a fatica e con molti errori, sono in genere anche bambini che hanno difficoltà nell’individuare e categorizzare unità fonologiche interne alle parole. Il rapporto che lega i due tipi di difficoltà non è tuttavia un rapporto di causa-effetto, ma un rapporto di comune dipendenza dal buono stato delle rappresentazioni fonologiche dell’individuo, e forse dall’efficienza dei meccanismi di accesso lessicale. COMPRENSIONE DEL TESTO COME RAPPRESENTAZIONE SEMANTICA E COME COSTRUZIONE DI UN MODELLO MENTALE La lettura è un’attività impegnativa, che richiede esercizio, disciplina, dedizione. La fatica di un lettore adulto non deriva tanto dal riconoscimento delle parole, quanto dal capire. Che cosa significhi <comprendere un testo>, dal punto di vista psicologico, è ancora poco chiaro. In larga misura, gli psicologi si sono limitati a indagare l’aspetto che gli antichi definivano <interpretazione letterale>: capire gli eventi che si sono

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prodotti, quando, dove, e a opera di chi. Anche questo basilare aspetto della comprensione ha dato luogo a diverse ipotesi e modelli, che hanno oscillato tra due punti di vista. § Il primo punto di vista, incentrato sul rapporto tra memoria e comprensione, ha cercato di individuare le operazioni mentali che permettono al lettore di selezionare e ritrovare in memoria le informazioni centrali del testo. § Il secondo punto di vista, interessato al rapporto tra linguaggio e cognizione, ha indagato sulle conoscenze che permettono al lettore di dare un senso alle parole del testo. La lettura di un testo è un’attività di natura sequenziale. L’informazione semantica veicolata dalle parole viene estratta, elaborata, e mantenuta nella memoria a breve termine; la lettura successiva aggiunge nuove informazioni semantiche, che si collegheranno a quelle precedenti con legami più o meno forti. Secondo Kintsch e van Dijk, le proposizioni, una volta <estratte> dalla frase, vengono collegate tra loro nella memoria a breve termine formando una rappresentazione semantica coerente ed integrata. Le proposizioni <centrali> del testo, che hanno numerosi collegamenti con le altre proposizioni, tendono ad essere più a lungo presenti nella memoria a breve termine e sono perciò rievocate con maggiore probabilità. Così la rievocazione delle informazioni del testo è funzione sia dei collegamenti che il lettore stabilisce tra le diverse proposizioni, sia del tempo di permanenza delle proposizioni nella memoria a breve termine. Il modello di Kintsch e van Dijk non coglie però un aspetto importante della comprensione: la continua interazione, nel corso della lettura, tra conoscenze linguistiche e conoscenze sul mondo. Questo aspetto è invece preso in considerazione da altre teorie che ipotizzano una continua e veloce interazione, nel corso della lettura, tra rappresentazioni semantiche e cognitive. Comprendere significa costruirsi un modello mentale della situazione di cui tratta il testo. Immaginare eventi e intenzioni dei personaggi, costruire un ragionamento, pensare a un mondo possibile. Per comprendere ciò che si legge non bastano dunque le conoscenze linguistiche (pronomi, sinonimie, ecc.); la situazione di cui tratta il testo, così come viene immaginata dal lettore, orienta l’interpretazione delle parole e delle frasi, permettendo al lettore di compiere inferenze. Le inferenze sono ragionamenti che partono da alcuni dati del testo e assegnano un particolare senso alle parole del testo. Le inferenze aiutano il lettore ad assegnare referenti alle parole, stabilire relazioni tra concetti, precisare significati ambigui, esplicitare qualcosa che nel testo è solo accennato. LE DIFFICOLTA’ DEI BAMBINI NELLA COMPRENSIONE DEI TESTI I bambini con una bassa comprensione dei testi scritti tendono a ricordare i dettagli linguistici di ciò che hanno letto, piuttosto che a rievocare il senso e le informazioni centrali del testo. I bambini con una bassa comprensione del testo compiono meno inferenze e hanno difficoltà ad integrare informazioni linguistiche e conoscenze sul mondo. Un lettore esperto ha una qualche consapevolezza delle strategie che si possono usare per migliorare la comprensione di un testo. Chiarirsi lo scopo della lettura, identificare i contenuti importanti di ogni paragrafo, porsi alcune domande sul testo possono costituire strategie per rendere più efficace la comprensione. I bambini con una bassa capacità di comprensione del testo sono molto carenti in termini di abilità metacognitive. Spesso questi bambini indicano nella decodifica l’aspetto più importante della lettura, e sono meno consapevoli, durante il processo di lettura, di

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eventuali difficoltà di comprensione. Si è visto ad esempio che quando viene letta una frase il cui senso è incongruente con la parte precedente del testo, i bambini che sono buoni lettori tendono a rallentare notevolmente il tempo di lettura. Evidentemente, l’incongruenza e la conseguente difficoltà di comprensione rallentano il processo di decodifica. I bambini con bassa capacità di comprensione del testo non sono invece rallentati dalla fase incongruente, essendo meno influenzati, nel processo di lettura, dal senso di ciò che leggono. Una scarsa capacità di comprensione del testo viene spesso caratterizzata come un approccio <passivo> al leggere. Il rileggere, il fermarsi, il porsi domande, sono strategie metacognitive che caratterizzano invece un approccio attivo. Non è chiaro se l’assenza di strategie attive di lettura sia la causa di una cattiva comprensione del testo, oppure se, in un certo senso, sia una conseguenza. Strategie attive di lettura possono forse essere acquisite quando il lettore ha familiarità con i testi e ha esperienza del leggere come attività significativa, che non si limita al riconoscimento delle lettere e alla pronuncia delle parole scritte. Ricerche hanno dimostrato che le capacità di comprensione di racconti presentato oralmente sono altamente correlate al livello di comprensione della lettura. Questo può indicare che la comprensione del testo scritto e dei racconti orali utilizzano meccanismi in parte comuni. La comprensione del testo non è una semplice conseguenza dell’imparare a leggere. E’ piuttosto una conseguenza dell’imparare a pensare con le parole dei testi, anche con quelli che ci vengono letti da qualcun altro. §§§CAP.7: APPRENDERE UN SISTEMA DI SCRITTURA, APPRENDERE UNA LINGUA SCRITTA Per scrivere si deve padroneggiare un sistema di scrittura, ma si deve anche conoscere una lingua scritta e una forma testuale. Per anni la discussione sul tema dell’apprendimento della scrittura ha riguardato i metodi d’insegnamento del leggere e scrivere. Si sono così contrapposti metodo fonico e metodo globale, metodo analitico e metodo sintetico. E’ solo da pochi anni, con l’affermarsi dell’approccio cognitivista, che leggere e scrivere, nell’ordine, sono diventati oggetto di studio e di interesse nella ricerca psicologica. Per lungo tempo gli unici contributi costruttivi per un buon insegnamento della scrittura sono stati quelli apportati dal Movimento di Cooperazione Educativa (MCE) che, in Francia prima e poi in Italia, attraverso una diffusione capillare tra maestri, ha insistito sulla necessità di lavorare sulla motivazione infantile a scrivere cose significative per il singolo e per il gruppo e quindi sulla produzione di testi. In tale impostazione pedagogica, l’uso della tipografia scolastica finalizzato alla produzione di un giornalino diffuso anche all’esterno della scuola è un essenziale strumento per lo sviluppo di un atteggiamento analitico nei confronti di quello che si compone per essere stampato e dello sviluppo di una utile capacità metalinguistica quando si effettua la revisione/correzione del testo, proprio e altrui. Tale impostazione ha preso decisamente la distanza da una visione tradizionale dello scrivere come puro trascrivere. Gli inizi dello scrivere sono invece diventati in questi anni un rilevante campo di studio della psicologia. La psicogenesi della scrittura, inaugurata nel 1979 dalla fondamentale ricerca di Ferreiro e Teberosky è una delle più importanti acquisizioni teoriche ed empiriche della psicologia infantile degli ultimi anni. IL BAMBINO DI FRONTE ALLA SCRITTURA Il mondo attuale è marcato da una molteplicità di scritte e i bambini anche piccoli sono motivati a riconoscerle e a interpretarle, senza l’intervento intenzionale degli adulti. C’è poi un effetto socioculturale specifico che è costituito dalle attività di lettura e di

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scrittura che sono presenti, anche se in modo assai differenziato, nella vita familiare, oltre che in quella delle scuole per l’infanzia. Studi evolutivi sull’interazione madre-bambino, inaugurati da Bruner e proseguiti da molti altri autori, hanno considerato la situazione di lettura del libro con la madre o con l’adulto che ha cura del bambino come una situazione tipica in cui l’adulto offre un supporto interattivo (scaffolding) all’attività linguistico-cognitiva del bambino piccolo, preparandolo anche in qualche modo a quello che è il linguaggio dell’istruzione. CARATTERI DEI SISTEMI DI SCRITTURA I più recenti studi di storia, archeologia e antropologia della scrittura hanno totalmente modificato la visione evoluzionistica presente nella storia della scrittura di Gelb[1963], il quale prospettava una evoluzione delle scritture umane nel passaggio da una fase iniziale pittografica e ideografica, seguita da una fase sillabico-consonantica per poi pervenire al sistema alfabetico. Michalovsky, uno studioso di culture mesopotamiche [1994] toglie di mezzo questa visione presuntivamente evoluzionistica. Oggi si ritiene che la scrittura nasca in modo indipendente, anche se in tempi diversi, in quattro regioni del mondo: in Cina, in Egitto, tra il Tigri e l’Eufrate nella cultura numerica, e in Mesoamerica. Avvengono molteplici trasformazioni interne ai quattro sistemi originari e le più importanti sono dovute all’interazione e allo scambio che si verifica quando un sistema di scrittura che è stato inventato per una specifica lingua, viene a contatto e si deve adattare ad una lingua completamente diversa. Un contributo di ricerca assai importante è venuto da quegli studiosi della cultura che hanno insistito sul carattere di sistema di un qualsiasi tipo di scrittura. Ogni sistema di scrittura si distingue da un qualsiasi altro per i suoi principi interni. Ogni sistema di scrittura ha una sua coerenza interna, che corrisponde alle caratteristiche di una lingua, alla sua evoluzione storica e a un punto di equilibrio tra esigenze di corrispondenza tra lingua parlata e lingua scritta. Queste esigenze trovano un limite nel fatto che non tutto quello che c’è in una lingua parlata si può rappresentare per iscritto (l’intonazione, l’enfasi, la variazione di volume, di tono, o di timbro, la velocità del flusso). I SISTEMI DI SCRITTURA NELLO SVILUPPO DEL BAMBINO Partendo da una prospettiva piagetiana, che riconosce al bambino un ruolo attivo nella costruzione delle conoscenze e ai suoi <errori> un valore informativo per l’adulto e costruttivo per il bambino, Ferreiro e Teberosky [1979] hanno individuato le fasi principali del processo di costruzione della lingua scritta nel bambino. La ricerca di Ferreiro e Teberosky, che ha riguardato prevalentemente bambini argentini (ispanofoni) e bambini francofoni di Ginevra, ha notevolmente influenzato la ricerca successiva in altre lingue romanze: italiano, catalano, portoghese. Importante è stata la scoperta della somiglianza nei livelli di sviluppo riscontrati nelle scritture infantili in diversi sistemi di scrittura. Dal punto di vista evolutivo ogni bambino elabora le sue ipotesi di funzionamento della scrittura a partire dal sistema con cui entra in contatto _un contatto che è innanzitutto visivo e grafico- e attraverso il quale elabora delle ipotesi che in parte sono ricorrenti in più sistemi, in parte sono legate alle peculiarità del sistema di scrittura. Ad esempio, è stata ritrovata in modo costante la presenza di una ipotesi sillabica, cioè della scrittura di un segno per ogni sillaba in bambini che vivono in contesti linguistici assai diversi. Un’altra ipotesi infantile riguarda la <quantità minima>. La grande maggioranza dei bambini non usa mai un solo segno per rappresentare una parola, anche se la parola è un monosillabo. La gamma preferenziale per una quantità minima accettabile per i bambini è di tre, quattro o cinque segni; i

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bambini non scrivono e non accettano scritte più brevi, composte solo da una o due lettere, perché dicono che <non si possono leggere>. Un’altra ipotesi infantile è quella della <varietà interna>. Agli inizi della scrittura, quando le marche infantili sono ancora non convenzionali, si è osservato il rifiuto per sequenze contigue di lettere uguali, se queste vengono sottoposte loro chiedendo se si possono leggere. La distinzione tra sistema grafico e sistema ortografico è stata introdotta per la prima volta da Gak [1976] per il francese. Nel primo caso ci si riferisce ai mezzi con cui una lingua stabilisce le relazioni astratte fra suoni e lettere, mentre, nel secondo caso, ci si riferisce alle regole che governano <l’uso delle lettere a seconda delle circostanze>. Assai raramente i bambini violano i principi che sono alla base del sistema grafico della scrittura della loro lingua, anche quando non padroneggiano del tutto il sistema ortografico. FASI DI CONCETTUALIZZAZIONE DELLA LINGUA SCRITTA In base al modello teorico di Ferreiro e Teberosky [1979] i bambini sono precocemente impegnati in un processo di concettualizzazione della lingua scritta. I temi e le modalità di tale processo variano da bambino a bambino, ma è stato possibile individuare alcuni livelli uguali per tutti. Dopo una prima fase di differenziazione fra il disegno e la scrittura, che in genere si completa non prima dei 4 anni, si possono distinguere i seguenti livelli di concettualizzazione. Livello presillabico. Questo livello è caratterizzato dalla preoccupazione di distinguere, sul piano grafico, il disegno dalla scrittura. Parallelamente i bambini elaborano e applicano alle loro scritture i criteri della quantità minima e della varietà interna dei segni utilizzati. Livello sillabico. I bambini stabiliscono una corrispondenza importante: i segni sulla carta stanno al posto delle parole dette! I segni scritti rappresentano sillabe , e segni in eccesso possono venire interpretati e giustificati (ad es. i segni eccedenti del proprio nome possono essere interpretati come il cognome). Livello sillabico-alfabetico. Si tratta di un livello intermedio fra il livello sillabico e il livello alfabetico. I bambini producono esempi di scrittura mista in cui spesso il valore sonoro assegnato a ciascun segno non è stabile. Livello alfabetico. A questo livello i bambini stabiliscono una corrispondenza biunivoca fra le lettere e i suoni della lingua parlata. Le scritture non sono ortografiche ma comprensibili. APPRENDERE UNA LINGUA SCRITTA: ORALITA’ E SCRITTURA La lingua scritta non è una semplice trascrizione di quella orale, ma ha sue specifiche caratteristiche di elaborazione mentale, di struttura, di comunicazione. E’ ormai disponibile una vastissima letteratura storica e antropologica relativa al passaggio dall’oralità all’alfabetismo, da una cultura orale ad una cultura scritta. Due autori soprattutto hanno segnato l’inizio per un interesse diffuso a questa problematica: uno è Havelock, storico della cultura, il quale ha ritrovato nella <scoperta> dell’alfabeto e nella conseguente diffusione dell’alfabetismo l’elemento motore che avrebbe fatto nascere filosofia e scienza nella Grecia del IV secolo. L’altro autore è Goody, un antropologo culturale, che ha attribuito alla literacy, alla cultura scritta, <l’addomesticamento del pensiero selvaggio>. Tali acquisizioni storiche e antropologiche hanno costituito la base per riflessioni e ricerche di carattere psicologico. Olson ne è stato uno dei più illustri rappresentanti, sottolineando le differenze fra rappresentazioni del mondo <orali> e <scritte>. Gli

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studiosi del campo non considerano più l’alfabeto come il massimo punto di sviluppo dei sistemi di scrittura. Lo stesso Olson ha profondamente modificato la sua concezione iniziale e in un’opera più recente [1994] sostiene che scrivere (e imparare a scrivere) ha la funzione di focalizzare diversi aspetti del linguaggio che viene scritto e di svilupparne una consapevolezza metalinguistica. Il contrasto tra oralità e scrittura in termini di differenza di mezzo o di canale ha ormai perso molta della sua importanza, oggi si considera la realtà linguistica come un continuum che si sviluppa su varie e diverse dimensioni. LITERACY: ALFABETISMO E ALFABETIZZAZIONE Uno dei termini ricorrenti nella letteratura anglosassone sulla scrittura è il termine literacy. Il termine literacy, utilizzato a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e derivato dal più antico illiteracy (1660), si riferisce ad una molteplicità di significati che difficilmente possono essere resi nella traduzione italiana. Infatti, con tale termine ci si riferisce sia al fatto di possedere una certa familiarità con la lingua scritta, sia ai modi con cui si stabilisce tale familiarità. Esso fa anche riferimento alla padronanza di diverse pratiche di scrittura nei contesti culturali evidenziandone anche gli aspetti funzionali. I corrispettivi termini italiani di alfabetismo (per la condizione di diffusione sociale della scrittura e della lettura) e di alfabetizzazione (per il processo di acquisizione individuale) sembrano fare riferimento a una visione più tradizionale dei rapporti con la lingua scritta. Si riferiscono cioè alla padronanza del codice implicato nei processi di codifica (dei suoni in lettere) e di decodifica (delle lettere nei suoni corrispondenti). LA PAROLA <TESTO> In un senso molto generale, con il termine testo ci si riferisce ad una <tessitura> di significati. Nell’ambito dell’analisi letteraria il testo è coincidente con il testo scritto, ma se guardiamo al testo come ad una forma di discordo fissa, ripetibile e citabile, allora possiamo parlare di testi anche nelle culture orali. La coesione e la coerenza sono i principi costitutivi che devono essere soddisfatti perché un testo possa essere definito tale. APPRENDERE UNA LINGUA SCRITTA: LE FORME DEL DISCORSO SCRITTO Numerose ricerche in varie lingue e culture hanno esplorato <lo scritto nell’orale>. I bambini sono precocemente sensibili –già a 4 anni- ai modi in cui si deve dire una storia che viene scritta. E’ stato mostrato come i bambini cerchino di introdurre, nella loro dettatura, formule standard, tipiche delle favole lette o raccontate dagli adulti, anche se poi il racconto è spesso costruito sulla base di coordinazioni paratattiche (<e poi>, >e allora>). In seguito, avvengono dei cambiamenti nei bambini a 5 e a 8 anni. A distanza di tempo, infatti, i bambini usano un registro più formale, sono maggiormente in grado di adeguarsi ai ritmi di chi scrive e usano diversi tipi di strategie coesive. I bambini poi usano la punteggiatura, spesso in modi non convenzionali, per delimitare chi dice da ciò che viene detto e talvolta per distinguere i diversi interlocutori. Alcuni tipi di ripetizioni lessicali, poco amate in generale dagli insegnanti nei testi infantili, svolgono invece un’importante funzione testuale: delimitare porzioni di testo, e in particolare di discorso diretto, prima di aver scoperto le funzioni della punteggiatura. Le ripetizioni costituirebbero così un indizio dell’intenzione del bambino di produrre un testo scritto, anziché un’intrusione dell’oralità nella scrittura. LA STRUTTURA DEI TESTI NARRATIVI ED ESPOSITIVI La prima forma di testo, orale e scritto, con cui viene a contatto il bambino è la narrazione. La narrazione è stata posta al centro dell’attenzione degli psicologi a partire

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dalla distinzione proposta da Bruner tra pensiero narrativo e pensiero scientifico e dal rilievo che un tale pensiero narrativo risulta avere come fondamentale strumento per la costruzione e la trasmissione di quella psicologia del senso comune, con la quale gli esseri umani costruiscono e mantengono le relazioni con gli altri. Ultimamente è stato preso in esame anche il testo espositivo vero e proprio, che è quello che riporta conoscenze di tipo scientifico. Analogamente è stata dedicata attenzione al testo argomentativi. Infatti, dato che anche i bambini piccoli iniziano ad argomentare sia a scuola che in famiglia, è possibile indirizzare la loro produzione scritta verso testi in cui debbono prendere posizione rispetto a una questione problematica che li riguarda e di cui possono capire le ragioni pro e contro. §§§CAP.8: SCRIVERE TESTI La scrittura è diventata oggetto di ricerca psicologica e psicoeducativa solo in tempi recenti. Gli studi su questo tema, infatti, iniziano nella seconda metà degli anni ’70. <Psicologia della scrittura> è un’espressione generica in cui si compendiano due modi di intendere la scrittura, con relativa strumentazione teorica e metodologica e implicazioni per la scrittura. Da un lato, il cognitivismo, cui si deve la <scoperta> dello scrivere come attività cognitiva complessa; dall’altro un approccio socioculturale, o di costruttivismo sociale, che dà rilievo agli aspetti comunicativi e partecipativi dello scrivere. La prospettiva cognitivista si è affermata negli Stati Uniti alla fine degli anni ’70, mentre lo sviluppo di quella socioculturale si colloca nel decennio successivo. In Europa l’approccio cognitivista alla scrittura sembra essere ancora dominante, ma in America esso è fortemente criticato e contrastato dalla prospettiva socioculturale.

LA SCRITTURA COME ATTIVITA’ COGNITIVA

Quando si parla di approccio cognitivista alla scrittura viene immediato il riferimento al modello di Hayes e Flower [1980]e cioè a quel felice risultato della collaborazione tra uno psicologo cognitivista (J.R. Hayes) e una linguista (L.S. Flower) che ha grandemente influenzato la ricerca e la concettualizzazione di questi ultimi vent’anni, almeno in Europa. Va precisato che sotto l’espressione <approccio cognitivista alla scrittura> si raccolgono alcuni tratti o caratteristiche della prospettiva dell’information processing e del costruttivismo cognitivo: - la processualità, cioè l’attenzione ai processi cognitivi implicati nelle operazioni dello scrivere, che riguardano sia ciò che viene prima (ad esempio la ricerca delle informazioni, la produzione di idee) sia quello che viene dopo ( la revisione del prodotto scritto); - il carattere costruttivo della composizione scritta, secondo cui ciò che si scrive è una elaborazione di conoscenza e mediante la conoscenza (concetti, regole, schemi);

- la scrittura intesa come soluzione di un problema. Col modello di Hayes e Flower inizia un nuovo modo di considerare la produzione scritta: non in termini di qualità del prodotto scritto, bensì dei processi della sua produzione. Il modello si articola in tre blocchi: l’ambiente del compito, la memoria a lungo termine di chi scrive e il processo di scrittura. La memoria a lungo termine è indipendente dall’ambiente del compito, ma entrambi influenzano i processi di scrittura. Infatti, per scrivere l’individuo deve accedere alle informazioni contenute nella memoria; e, d’altra parte, ciò che scrive è condizionato dai vincoli posti dall’ambiente del compito.

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L’ambiente del compito comprende tutti gli elementi esterni allo scrittore che possono influenzare la sua prestazione di scrittura. La memoria a lungo termine contiene sia conoscenze dichiarative che procedurali. Le prime sono i concetti e le informazioni che l’individuo possiede circa l’argomento e circa il tipo di testo da scrivere. Le seconde riguardano il <come> si scrive un determinato testo. Infine, il blocco fondamentale- il processo dello scrivere- che si articola in tre processi più specifici: pianificazione, traduzione e revisione. Pianificare un testo significa considerare l’obiettivo, cioè il testo che si vuole o deve scrivere per un certo scopo e a un certo destinatario, ma prevedere anche i mezzi per raggiungere tale obiettivo. Nella fase di pianificazione vanno considerati tre sottoprocessi:

- il recupero dalla memoria di informazione ed eventi pertinenti all’argomento della prova scritta;

- la disposizione o sequenza di questo materiale secondo un criterio logico o cronologico o d’importanza;

- gli obiettivi dello scrittore. Nella fase di traduzione lo scrittore trasforma il piano in un testo scritto. La revisione, infine, serve a migliorare la qualità del testo scritto e consiste di due momenti: lettura e correzione. In un nuovo modello della revisione acquista importanza la valutazione: lo scrittore, quando rilegge il proprio testo, mira all’individuazione di problemi specifici (lacune, scorrettezze, errori). La complessità dello scrivere comporta problemi ai soggetti in età evolutiva che spesso non dispongono di strategie adeguate per affrontare con successo le difficoltà che la composizione di un testo comporta. Bereiter e Scardamalia muovono da una teoria neopiagetiana che considera lo sviluppo cognitivo in termini del progressivo aumento della capacità di coordinare simultaneamente idee, concetti, schemi. Mentre il modello di Hayes e Flower riguarda la scrittura adulta, esperta o meno, in cui pianificare e rivedere sono processi basilari e ineliminabili dello scrivere; Bereiter e Scardamalia ne sottolineano la funzione regolativi, che è presente nello scrittore esperto e che l’inesperto deve imparare. I nome di Bereiter e Scardamalia restano indissolubilmente legati alla distinzione da essi introdotta tra due strategie, o modelli, di scrittura: quella di chi si limita a <dire tutto quello che sa> sull’argomento della composizione scritta (knowledge telling), e quella di chi sa trasformare la propria conoscenza per raggiungere un obiettivo comunicativo complesso (knowledge trasforming ). La strategia del knowledge telling viene utilizzata da molti studenti di tutti i gradi di scolarità perché, se da un lato non può offrire che risultati modesti, dall’altro presenta il vantaggio di richiedere scarso impegno cognitivo. Lo scrittore esperto, invece, adatta le sue conoscenze su un argomento all’obiettivo comunicativo soggiacente al tipo di testo richiesto (knowledgetrasforming) . E’ da notare che il modello di knowledgetrasforming non esclude l’uso del knowledge telling. Lo scrittore competente non è quello che usa sempre la strategia di trasformazione della conoscenza, ma quello che la sa alternare o abbinare ad altre meno impegnative e più economiche, in relazione agli obiettivi e al contesto della comunicazione scritta. Nonostante il successo indiscutibile del modello di Hayes e Flower, vi sono state molte critiche che hanno portato Hayes a modificare il modello senza la collaborazione di

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Flower, ormai passato al campo avversario, e cioè a quell’approccio socioculturale che non risparmia strali al cognitivismo. Vi sono alcune fondamentali differenze tra le due versioni, e precisamente:

1) il ruolo attribuito alla memoria di lavoro in aggiunta a quella a lungo termine, l’unica considerata nel modello del 1980. La memoria di lavoro consiste in un esecutivo centrale con due memorie specializzate: un loop fonologico, che immagazzina l’informazione codificata a livello fonologico, e un <taccuino> che immagazzina quella visuo-spaziale. L’esecutivo centrale svolge compiti cognitivi quali il calcolo aritmetico e il ragionamento logico, ma anche funzioni di controllo, che comprendono il recupero dell’informazione dalla memoria a lungo termine e la gestione di compiti non pienamente automatizzati. Secondo Kellogg, il ruolo della memoria di lavoro nella scrittura riguarda tre sistemi: la formulazione, l’esecuzione e il monitoraggio. L’azione di questi tre sistemi richiama le fasi (pianificazione, trascrizione, revisione) del modello di Hayes e Flower [1980]: infatti, la formulazione consiste nel pianificare le idee e tradurle in frasi, l’esecuzione comprende i processi grafo-motori, mentre il monitoraggio riguarda la lettura del testo scritto e la correzione. Tutti e tre i sistemi utilizzano la memoria di lavoro, e in particolare il sistema della formulazione. Infatti, la pianificazione richiede la visualizzazione di idee e schemi, che riguarda il taccuino visuo-spaziale, mentre i processi di pensieroche accompagnano la composizione riguardano direttamente l’esecutivo centrale. La traduzione di un’idea in un periodo accettabile coinvolge il loop fonologico: ciò avviene quando lo scrittore <parla a sé stesso> nel momento in cui produce i periodi. In aggiunta al loop, la traduzione chiama in campo anche l’esecutivo centrale, quando chi scrive cerca di individuare le parole e la struttura del periodo adeguate. L’esecuzione coinvolge poco la memoria di lavoro, se lo scrittore è abbastanza esperto, mentre gli schemi motori usati da un principiante richiedono un maggior controllo da parte dell’esecutivo centrale. Infine, il monitoraggio coinvolge sia l’esecutivo centrale che il loop fonologico: è in particolare la correzione (editing) che grava sull’esecutivo centrale.

2) La diversa concettualizzazione dei processi cognitivi implicati nello scrivere, rispetto alla tripartizione del 980. Nella nuova versione Hayes [1996] ipotizza tre funzioni primarie:

- l’interpretazione del testo che crea rappresentazioni interne. I processi cognitivi connessi a questa funzione comprendono la lettura, l’ascolto e la percezione di grafici;

- la riflessione, che opera sulle rappresentazioni interne per produrne altre; - la produzione del testo, che, in base alle rappresentazioni interne, produce un output

linguistico orale, scritto o grafico. Le novità di questa formulazione rispetto alla precedente sta nel deciso nesso tra scrittura e altre attività di produzione, quali il disegno e il linguaggio orale, ma anche tra processi di comprensione del materiale orale/scritto e la scrittura. In questo senso, Hayes afferma la centralità del processo di lettura nello scrivere, in particolare per quanto riguarda la revisione del testo. Va rilevato che lo stretto legame tra le attività discorsive (parlare, leggere, scrivere) è sottolineato dall’approccio socioculturale, che vede in esse la possibilità dell’individuo di partecipare a una <comunità di discorso>. Questa dimensione partecipativa, però, sembra sostanzialmente assente in Hayes. 3) Nel nuovo modello Hayes tiene conto di numerosi studi sugli aspetti motivazionali condotti

a partire dagli anni ’80: ad esempio, le convinzioni (beliefs) sulle caratteristiche di un buon testo, il grado di consapevolezza (self-efficacy) di riuscire o meno a superare le difficoltà di un testo scritto, l’ansia connessa a un compito cognitivamente complesso e soggetto a valutazione, il grado di interesse connesso all’argomento del compito di scrittura.

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INSEGNARE A SCRIVERE. 1) L’insegnamento fondamentale dell’approccio cognitivista è che la scrittura comincia ben

prima di quando si tracciano le parole sul foglio, e si conclude più tardi, con un atto di lettura e di correzione. Se la produzione di un testo è un processo complesso, che si articola in sottoprocessi, l’allievo va aiutato nella gestione di tali processi: per esempio, a fare un piano mettendo in ordine le idee raccolte.

2) L’aiuto da dare agli allievi più giovani e inesperti si esplica in due modi strettamente connessi: riducendo la complessità del compito e dotando gli allievi di strumenti cognitivi (strategie) per affrontarlo adeguatamente.

3) Lo scrittore esperto è uno scrittore strategico, che sa far uso di strategie per risolvere il problema rappresentato dal testo da scrivere. Insegnare la composizione scritta vuol dire aiutare l’allievo a padroneggiare strategie efficaci.

N.B.: L’elemento che caratterizza maggiormente l’approccio cognitivista è la considerazione della scrittura come abilità: che si apprende, si sviluppa, si affina e specializza in relazioni a situazioni e media diversi. Altra ottica è, invece, quella socioculturale, secondo cui scrivere è una pratica di discorso, un’attività di interazione sociale.

L’APPROCCIO DEL COSTRUTTIVISMO SOCIALE

L’approccio socioculturale si presenta assai articolato perché in essi convergono filoni di ricerca e settori disciplinari diversi. Il cognitivismo assimila la composizione scritta a un processo di soluzione di problemi, processo che l’individuo tanto meglio esegue in quanto riesce a gestirne autonomamente la complessità cognitiva e comunicativa. Nell’approccio socioculturale l’attenzione agli aspetti cognitivi muove da una prospettiva: i processi cognitivi non sono ignorati, a vengono considerati nelle loro interazioni con i contesti culturali, storici e istituzionali in cui gli individui agiscono, studiano e lavorano. Anche se il costruttivismo è una reazione innegabile al cognitivismo, esso ha origini lontane, riconducibili all’importanza che, dopo Chomsky, assume nei primi anni ’70 la dimensione sociale del linguaggio. Sul piano psicologico, il pensiero di Vygotskij e della scuola sovietica si rivela ricco di implicazioni per una nuova concezione della scrittura. Vygotskij rivendica il carattere profondamente <culturale> della lingua scritta e sottolinea la complessità del suo sviluppo nel bambino. In seguito, uno studio di due psicologi particolarmente influenzati da Vygotskij, M.Cole e S.Scribner, presso la popolazione dei Vai della Liberia, dimostra che le conseguenze cognitive dell’alfabetizzazione passano attraverso gli specifici usi e situazioni in cui si scrive e che la scrittura è dunque un’attività fortemente contestualizzata: l’alfabetizzazione è un sistema di abilità e significati culturalmente organizzato e appreso in contesti specifici. Vi è dunque una concezione <situata> dello scrivere. I caratteri fondamentali dell’approccio socioculturale alla produzione scritta: lo stretto legame di questa con la lettura e, in generale, con le attività che utilizzano la lingua scritta; l’accentuazione della dimensione sociale dello scrivere.

Fish parla a riguardo di <comunità di discorso>. Una comunità è un gruppo di persone tenute insieme da un comune interesse per certi argomenti e vincolate da certe convinzioni. Col tempo l’individuo impara ad adottare i tipo di discorso, orale e scritto, della comunità e a partecipare alle sue pratiche. Questa partecipazione può essere paragonata a una conversazione, che si estende nel tempo e nello spazio, in cui

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i testi rappresentano risposte ad altri testi. Per il costruttivismo sociale, scrivere è un’attività sociale perché è strettamente dipendente da un contesto socioculturale. Chi scrive non lo fa in isolamento, ma come membro di una comunità di cui condivide le <pratiche> alfabetizzate, e cioè le modalità, funzioni, condizioni e limiti dei tipi di testi, o generi, e dei significati che questi assumono nei contesti in cui vengono scritti, letti ed interpretati. Si parla dunque di costruttivismo sociale perché la conoscenza viene organizzata, elaborata e negoziata attraverso un’interazione sociale della cui ampiezza l’individuo può non essere consapevole.

La dimensione sociale dello scrivere riguarda fondamentalmente 3 aspetti: il rapporto autore-destinatario, l’intertestualità e la co-costruzione.

§ Per quanto riguarda il primo aspetto, numerose ricerche hanno mostrato che col progredire della scolarità che scrive diventa capace di rispettare le convenzioni della comunicazione scritta necessarie alla comprensibilità di un testo, così come di adeguare il livello di complessità lessicale e sintattica e di informatività del testo alle esigenze del destinatario. Il significato viene dunque a configurarsi come un costrutto sociale negoziato da lettore e scrittore attraverso il medium del testo.

§ La seconda dimensione riguarda l’intertestualità. Questo termine è stato introdotto dalla semiologia francese Julia Kristeva a proposito dello studioso sovietico che ha grandemente influenzato l’approccio socioculturale, Michail Bachtin. Secondo Bachtin [1986], un testo non è un prodotto statico, ma un punto di incontro, un <dialogo> tra diverse scritture. Molto di quello che un lettore ricava dalla lettura di un testo si integra con le conoscenze ricavate da altri testi: nel leggere si fanno confronti, si rilevano analogie, si colgono riferimenti espliciti o semplici allusioni ad autori e libri. L’intertestualità non riguarda solo la lettura ma anche lo scrivere, perché l’autore spesso richiama altri testi.

§ Infine, la co-costruzione di un testo può avvenire sia in forma collaborativa, sia attraverso il lavoro di correzione, commento e revisione di un testo. Nel primo caso i componenti di un piccolo gruppo collaborano alla stesura di un testo: si tratta di un’attività complessa, che può avere un carattere gerarchico o dialogico. La collaborazione gerarchica si caratterizza per una forte ristrutturazione e scarso dialogo: nel gruppo qualcuno pianifica e sostanzialmente stabilisce le cose da dire, che altri scrivono. La modalità dialogica è caratterizzata dalla mancanza di una struttura rigida e da un alto grado di interazione tra i membri.

I GENERI DI DISCORSO

Nell’approccio socioculturale il concetto di tipologia testuale – meglio, di genere- perde il carattere astratto e <ideale> e ne assume uno fortemente contestualizzato.Il genere non è una struttura o schema, ma è il modo o insieme organizzato dei modi in cui una comunità linguistica risponde a tipi di situazioni che sono costruiti culturalmente o socialmente come ricorrenti. In questa prospettiva la scrittura assume un carattere contestualizzato, o situato. Scrivere è dunque una pratica specializzata in genere diversi, ciascuno dei quali esprime e rappresenta un determinato contesto, inteso come interazione di persone. Per Bachtin il genere è una modalità socialmente costruita che

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consente al parlante/scrittore così come all’ascoltatore/lettore di comprendere e interpretare, e dunque di contribuire a una specifica interazione comunicativa. Chapman, attraverso uno studio sullo sviluppo dei generi in età evolutiva effettuato osservando una classe di prima elementare, è arrivata ad una classificazione divisa in due categorie fondamentali: tipi di scrittura orientati all’azione e tipi di scrittura orientati agli oggetti.

§ Nei primi i bambini scrivono di azioni o eventi veri o immaginari: questi generi hanno riferimenti temporali e contengono verbi di azione.

§ Nei generi orientati agli oggetti i bambini si riferiscono a cose del loro mondo e della loro fantasia. La categoria comprende due sottocategorie: le descrizioni e i giochi di parole. Le descrizioni riguardano persone, animali e cose vere o immaginarie. I giochi di parole comprendono elenchi di parole, numeri o lettere, e anche brevi filastrocche.

E’ emersa, inoltre, una sottocategoria comune sia alla categoria orientata agli eventi che a quella orientata agli oggetti: le interazioni, così chiamate perché il linguaggio vi è usato per interagire. Ne sono esempi il dialogo scritto e le <dediche>, brevi espressioni di saluto e di affetto. Il carattere misto delle interazioni è dovuto al fatto che esse contengono spesso verbi di azione, come le cronologie, e tuttavia non presentano nessi di tipo cronologico tra le frasi.

LE IMPLICAZIONI DELL’APPROCCIO SOCIOCULTURALE PER L’INSEGNAMENTO DELLA COMPOSIZIONE SCRITTA

Le implicazioni dell’approccio socioculturale riguardano essenzialmente la costruzione nell’allievo di un diverso modo di intendere la scrittura: non dunque il miglioramento dei processi e delle strategie suggerito e sostenuto dal cognitivismo, ma l’enfasi sul significato della scrittura come attività legata a un contesto sociale e culturale.

1) La prima implicazione è che se scrivere è un’attività situata, essa non va limitata a una disciplina, l’italiano, ma dovrebbe permeare tutto il curricolo.

2) La seconda implicazione riguarda gli aspetti collaborativi della scrittura. La scrittura non deve essere solo un momento di elaborazione individuale, ma che gli allievi vanno resi consapevoli che scrivere è un’attività sociale, sia nel senso della comunicazione che della co-costruzione.

3) La terza implicazione riguarda la tradizionale separatezza della scrittura nei confronti di altre attività alfabetizzate, in particolare la lettura. I testi prodotti non sono attribuibili soltanto ai singoli autori, ma alle strutture di interazione e ai modi di comunicare nella classe. Intertestualità è anche quando ciò che un ragazzo scrive viene letto a scuola ed entra a far parte del materiale di riflessione e discussione comune.

4) Infine, l’insegnare a scrivere come avvio a una comunità di discorso. IL COGNITIVO E IL SOCIALE: CONSIDERAZIONE CONCLUSIVA

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La scrittura come attività situata richiede pur sempre processi cognitivi per realizzarsi; e il prendere atto della vacuità dei generi scolastici in favore di una scrittura che abbia senso non significa dimenticare i processi e le difficoltà cognitive che lo scrivere individuale e collaborativi comporta.

§§§CAP.9: LE CONOSCENZE MATEMATICHE

In passato, le conoscenze matematiche sono state sempre indagate come sviluppo di abilità di calcolo aritmetico, piuttosto che concetti utili per individuare, comprendere e risolvere problemi. Gli stessi metodi di insegnamento si sono ispirati, spesso inconsapevolmente, a principi psicologici che valorizzavano eccessivamente la riproduzione meccanica di procedimenti e formule, dando spesso luogo ad abilità automatiche prive di adeguati riferimenti concettuali. Oggi si è riconosciuto che il cuore del pensiero matematico sta nella capacità di attribuire significato a formule e procedimenti, nel saper cogliere e comprendere situazioni problematiche e nell’impostare strategie di soluzioni valide e feconde per i problemi identificati. A partire dalla fine degli anni ’70, si è accentuata l’attenzione anche per i processi psicologici connessi con la sfera affettiva, sia emozionale che motivazionale. La constatazione che gli atteggiamenti positivi verso la matematica e il suo apprendimento decrescevano con lo svilupparsi dell’esperienza scolastica, aveva sollecitato una presa di coscienza più puntuale sul ruolo delle emozioni e delle motivazioni in tale contesto.

Anche se la natura del processo matematico è costituita soprattutto da processi di soluzioni di problemi, tuttavia la ricerca psicologica ha evidenziato il ruolo centrale che in tali processi giocano le conoscenze di natura concettuale e la qualità della loro organizzazione interna. Queste infatti permettono a chi deve affrontare un problema di poterlo comprendere e inquadrare in un contesto concettuale specifico.

LA SOLUZIONE DI PROBLEMI

Il primo passo nella soluzione di problemi matematici consiste nella codificazione delle informazioni da parte della memoria di lavoro del soggetto.

- Il processo di traduzione si riferisce alla lettura e comprensione del testo del problema. - Il secondo processo, quello di integrazione, è diretto a mettere insieme le informazioni così

raccolte in una struttura o schema coerente che permette di individuare con chiarezza la natura del problema e l’obiettivo che si deve raggiungere. Si costruisce così quello che è stato definito lo spazio del problema.

- Poi c’è la pianificazione, cioè il recupero nella propria memoria o della elaborazione originale di una strategia che consenta di raggiungere l’obiettivo risolutivo individuato.

- Il quarto processo è quello esecutivo, che consiste nell’individuare la successione delle operazioni matematiche per raggiungere la soluzione cercata, e nell’eseguirle correttamente, cosa che implica una conoscenza significativa degli algoritmi di calcolo necessari e una valida abilità operativa nell’eseguirli.

Complessivamente entrano in gioco vari fattori di natura sia cognitiva, sia affettiva, che, se non adeguatamente sviluppati, possono costituire fonti di difficoltà.

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LA BASE CONOSCITIVA. Nella soluzione di problemi giocano un ruolo essenziale sia il possesso significativo, stabile e fruibile di concetti, principi, regole e procedure ben organizzati e facilmente accessibili, sia l’insieme delle strategie sviluppate sulla base dell’esperienza e strutturate secondo categorie e schemi generali.

LA QUESTIONE DEL TRANSFER. Una delle questioni più dibattute nel corso dei decenni del XX secolo è stata quella relativa ai processi di transfer, cioè l’attivazione e applicazione delle conoscenze già possedute a nuove situazioni, in particolare delle strategie risolutive di problemi già familiari a nuovi problemi. Poiché un ragionamento per analogia si attivi occorre che il soggetto possieda una buona padronanza concettuale e risolutiva in un ambito specifico di problemi e che riesca a collegare gli elementi fondamentali di una nuova situazione problematica a quelli caratterizzanti gli schemi concettuale e risolutivo già familiari.

LE STRATEGIE EURISTICHE DI SOLUZIONE. Esse sono: scomporre il problema in questioni più semplici; specializzare il problema studiandone un caso particolare, per poi cercare di generalizzare la soluzione trovata; riformulare il problema stesso. E’ stato però constatato che si ottengono risultati abbastanza modesti. La strada maestra sembra essere quella di sviluppare nella classe un vero e proprio laboratorio dove si attivano forme di apprendistato cognitivo; dove, cioè, l’insegnante, o qualche allievo più sveglio, funge da esperto che si impegna a risolvere problemi che non ha mai risolto e spiega ad alta voce come fa; quindi guida gli altri ad esercitarsi in problemi che presentino un moderato livello di sfida alla loro competenza, seguendoli inizialmente più da vicino, poi a poco a poco lasciandoli più autonomi e stimolandoli a discutere della qualità delle soluzioni trovate tra di loro. Tutto questo in un contesto laborioso, ma sereno, non minaccioso.

GLI ASPETTI METACOGNITIVI. In generale si accenna oggi a quattro componenti metacognitive fondamentali del pensiero, incluso quello matematico: la conoscenza dei propri processi cognitivi; le competenze strategiche riferibili al controllo e alla gestione dei pocessi cognitivi in vista del conseguimento di obiettivi prefissati; la conoscenza dei propri processi affettivi; le competenze strategiche riferibili al controllo e alla gestione dei propri processi affettivi per favorire il raggiungimento degli obiettivi intesi.

CONVINZIONI, MOTIVAZIONI ED EMOZIONI. Nell’attività matematica scolastica le emozioni negative in genere costituiscono circa il doppio di quelle positive e crescono visibilmente nel tempo. Si arriva dopo alcuni anni a consolidati atteggiamenti negativi verso la matematica, quando non veri e propri sentimenti stabili di odio e di rifiuto.

LE PRIME FORME DI MATEMATIZZAZIONE

I primi concetti matematici si fondano su due intuizioni fondamentali: quella di numero e quella di spazio. L’interazione culturale guida il bambino a interiorizzare lo strumento linguistico che consente di realizzare tale valutazione: il contare. Si possono distinguere 4 livelli iniziali di sviluppo del contare:

1) la sequenza numerica come cantilena indifferenziata (unoduetrequattro…);

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2) la sequenza numerica come successione di parole staccate tra di loro (uno-due-tre-quattro…)

3) l’associazione corretta tra passi successivi del contare e oggetti che vengono contati (numero ordinale);

4) il numero associato all’ultimo oggetto da contare indica la quantità totale degli oggetti (numero cardinale).

La ricerca conferma il ruolo del contesto socioculturale e delle attività strutturate che in esso si svolgono anche nel caso della costruzione delle conoscenze e delle competenze matematiche.

L’ACQUISIZIONE DELLE CONOSCENZE DI NATURA DICHIARATIVA

I processi e le strategie di acquisizione delle conoscenze matematiche di natura concettuale, dette anche dichiarative, implicano che queste siano costruite in maniera significativa, stabile e fruibile. Per queste sono necessarie:

1) un’adeguata comprensione dei concetti e degli schemi concettuali proposti; 2) una loro valida strutturazione interna, sviluppata personalmente anche se sotto la guida

dell’insegnante; 3) una loro stabilizzazione consistente nel tempo; 4) una loro significativa fruibilità nell’apprendimento di altri concetti e procedimenti

matematici e nella soluzione di problemi. In questo lavoro sono coinvolti i seguenti processi cognitivi: processi di natura elaborativa per ciò che riguarda la comprensione; nella prospettiva di una valida strutturazione interna, i processi organizzativi; per la stabilizzazione delle conoscenze nel tempo, l’utilizzazione di adeguate teniche di memorizzazione; la capacità di inquadrare correttamente i problemi nel contesto delle conoscenze personalmente organizzate e una certa pratica operativa da acquisire sotto la guida di persone più esperte.

a) I processi elaborativi più impegnativi riguardano la costruzione di nuove relazioni e collegamenti a partire dagli schemi concettuali già posseduti. Si possono verificare due situazioni assai diverse tra loro. Nel primo caso le conoscenze di appoggio, cioè quelle già possedute, costituiscono una buona base per capire e acquisire le nuove conoscenze proposte. E’ la prospettiva presa in causa da Piaget quando parlava di assimilazione. Nel secondo caso emerge invece una situazione conflittuale tra quanto già posseduto e quanto viene proposto, nel senso che le nuove informazioni tendono a contrastare le elaborazioni precedentemente sviluppate. E’ quanto nella prospettiva piagetiana viene denominato accomodamento. In questo secondo caso emerge una situazione che implica, per procedere in maniera valida e feconda, la necessità di una valida ristrutturazione interna. E in questa situazione possono emergere tensioni a livello emotivo.

b) I processi di natura organizzativa tendono a strutturare le diverse parti o i differenti elementi informativi in unità più comprensive o in totalità più vaste ed integrate. Ai processi organizzativi appartengono anche quelli di selezione e cancellazione, che

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portano a distinguere tra le informazioni e gli elementi conoscitivi più importanti e quelli meno importanti.

c) Nel memorizzare una definizione, una formula, un procedimento, che siano già stati compresi in maniera significativa, possono essere messi in azione processi di stabilizzazione di vario tipo. Le più conosciute sono quelle che suggeriscono di collegare i vari elementi da ricordare a una successione di oggetti presenti nella proprio memoria iconica o a passi di un percorso già familiare.

d) Dal punto di vista dello sviluppo di competenze strategiche non basta conoscere questi processi, ma occorre anche saperli riconoscere nella propria attività intellettuale ed essere capaci di gestirli in maniera da favorire l’acquisizione significativa, stabile e fruibile di concetti e procedimenti e la loro utilizzazione feconda nella soluzione di problemi. La competenza strategica implica la capacità di discernere un problema e di come procedere nell’affrontarlo tenendo conto dei processi cognitivi che sono coinvolti in tale impresa.

L’ACQUISIZIONE DI TIPO PROCEDURALE

L’acquisizione delle conoscenze di natura procedurale è legata a due processi interconnessi: la costruzione o, almeno, la comprensione di algoritmi matematici; lo sviluppo di abilità nell’utilizzarli correttamente e velocemente. Secondo Anderson, a livello elementare stanno le procedure di classificazione degli enti matematici, soprattutto di tipo geometrico. Tali procedure da un punto di vista psicologico non implicano solo le operazioni da compiere, ma anche quando e perché essi possono o debbono essere eseguite. Una volta costruita e compresa una procedura e individuate le condizioni di utilizzazione è possibile sviluppare l’abilità necessaria per eseguirla correttamente e rapidamente. Per giungere a questo è necessario trasformare le singole istruzioni in operazioni eseguite effettivamente. Ad esempio, con i bambini si usano procedure di tipo audioverbale: si fa memorizzare un procedimento oralmente e si fa associare a ogni passaggio verbale la relativa operazione. Una volta automatizzati gli algoritmi più semplici, è possibile comporli tra di loro, giungendo alla capacità di eseguire automaticamente algoritmi assai più lunghi e complessi. I pericoli insiti i questo percorso formativo stanno nella possibilità di costruire, ma soprattutto di automatizzare procedure errate. Queste, una volta rese automatiche, rimangono saldamente nella memoria a lungo termine e, una volta attivate, vengono eseguite come tali, senza riuscire ad accorgersi della loro erroneità. E’ necessario, dunque, da un lato automatizzare procedure corrette, dall’altra sviluppare indicatori specifici, che permettano di riconoscere situazioni a rischio, per evitare di mettere in moto procedure errate e affidarsi invece a procedure corrette.

LO SVILUPPO DI COMPETENZE STRATEGICHE E AUTOREGOLATIVE

Per promuovere lo sviluppo di competenze strategiche negli alunni occorre in primo luogo renderli coscienti della natura e del valore di tali processi; in secondo luogo, occorre guidarli nello sviluppo della capacità di saper gestire in maniera produttiva i processi disponibili, selezionando quelli che nello specifico contesto appaiono come i più opportuni e necessari. Si tratta di un passaggio formativo essenziale per promuovere un livello adeguato di autonomie e autoregolazione nello studio. Le competenze di natura strategica e autoregolative sono intimamente collegate con un livello di funzionamento cognitivo che è stato denominato da Flavell negli anni ’70 come

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metacognizione, cioè sapere quali conoscenze e strategie intellettuali attivare nei diversi compiti, come, quando e perché. Oggi vengono esplicitati due ambiti specifici connessi con il livello di funzionamento metacognitivo: a) la consapevolezza delle conoscenze e capacità possedute; b) la capacità di autoregolazione o di controllo dei processi e delle strategie cognitive implicate nel compito da affrontare. I processi metacognitivi risentono di componenti di natura motivazionale e volitiva. Infatti, non basta conseguire buoni livelli di competenza strategica, occorre anche: a) percepire ed essre convinti che quelli che possediamo sono adatti e sufficienti per conseguire buoni risultati sul piano dell’apprendimento e della soluzione di problemi in situazioni specifiche; b)utilizzare opportune strategie di natura volitiva, che consentano di superare stati emozionali negativi, interessi obiettivi contrastanti, difficoltà e disturbi di varia natura.

LA DIMENSIONE AFFETTIVA

Lo sviluppo di un atteggiamento negativo verso la matematica è stato studiato a lungo perché esso trova le sue radici abbastanza presto nell’esperienza scolastica egli allievi. Sono stati individuati due momenti cruciali: l’introduzione dei numeri decimali e l’inizio dell’algebra. Si tratta della mancanza di comprensione di ciò che si studia, di disorientamento e confusione, associati a emozioni negative. Tutte le ricerche concordano nel constatare la diminuzione di interesse e di coinvolgimento personale nel corso dell’esperienza matematica scolastica e la crescita di uno stato di disagio, quando non di indifferenza o di avversione profonda. La base fondamentale dello sviluppo degli atteggiamenti sono le emozioni provate nel contesto dell’esperienza scolastica. Uno stesso stimolo però può dare origine a ben differenti reazioni emozionali, a seconda della valutazione che a livello personale ne viene fatta. Infatti, la percezione della difficoltà di un problema matematico può costituire una sfida che stimola l’interesse, mentre per un altro può essere fonte di panico. Si è riscontrato da più parti come le reazioni emozionali siano presenti in maniera incisiva e svolgano un ruolo essenziale nel corso delle varie attività matematiche. Quanto alle ragioni di tali reazioni emozionali, confusione e mancanza di comprensione sono quelle più diffusamente citate, seguite dalla percezione di non avere tempo a sufficienza e ansietà per l’accuratezza dei calcoli e del modo di scrivere. Lo sviluppo di stati di ansia relativi allo studio e all’esperienza scolastica della matematica è notevolmente correlato al procedere nei diversi gradi della carriera scolastica. Studi sistematici sono stati condotti negli Stati Uniti [Carpenter 1981] in base ai quali è stato evidenziato come alunni di 9 anni mettessero la matematica al primo posto come materia preferita, a 14 anni questa materia era già al secondo posto, ma a 16 anni essa era collocata all’ultimo posto. Per Lazarus [1975] la ragione principale di questo declino sta nella mancanza di comprensione, nel sentirsi incapace, nell’attribuire gli insuccessi alla mancanza di capacità e a cause esterne incontrollabili, all’ansietà e ad altre emozioni negative. L’ansietà si sviluppa particolarmente durante l’adolescenza.

CONVINZIONI E MOTIVAZIONI

Un ruolo non indifferente nei processi di apprendimento e di attività matematica viene svolto dalle convinzioni possedute e dagli stati motivazionali presenti. In particolare svolge un ruolo importante la concezione della matematica intesa come disciplina

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scolastica e il concetto di sé in relazione alla matematica e al suo apprendimento. Infatti le convinzioni personali circa la capacità di affrontare la soluzione di problemi è il risultato di una interazione tra precedenti esperienze, concezioni di sé nei riguardi della matematica, percezioni dell’utilità della matematica e prestazioni ottenute. Strettamente collegato con il sistema di convinzioni personali è il sistema di valori soggettivamente elaborato. Questi possono essere definiti come disposizioni interne di natura generale che fanno da fondamento agli stati motivazionali che emergono in contesti specifici. Per attribuire valore a un tipo particolare di impresa matematica, come risolvere problemi non di routine, lo studente deve riuscire a comporre esperienze emozionali positive in tale attività. Il valore attribuito alla matematica, al suo apprendimento e alla riuscita personale in specifici compiti a questi connessi costituiscono un costante riferimento interiore che influisce sugli stati motivazionali, sulle scelte personali e sulle esperienze emozionali provate. La motivazione, in questo contesto, è definita come uno stato interno, nato dall’impatto del proprio sistema di valori e di convinzioni che li esplicitano e la situazione come essa è percepita, che attiva, dirige e sostiene l’azione di apprendimento.

Le convinzioni personali relative alle cause del proprio successo e fallimento sono particolarmente sottolineate nella teoria attributiva di Weiner, che distingue tra cause interne (come capacità e impegno) ed esterne (come difficoltà del compito e fortuna), stabili e instabili, controllabili e incontrollabili. Un risultato scolastico può essere così attribuito a una causa interna come la capacità e questa essere considerata come stabile e non controllabile. Ciò avviene abbastanza frequentemente nel contesto matematico. Uno studente, per esempio, può essere convinto di non essere capace di comprendere e risolvere problemi matematici la cui strategia di soluzione non sia stata ben spiegata prima dall’insegnante. Bandura insiste invece sull’importanza delle convinzioni personali relative alla propria efficacia nell’assolvere ad un compito.

La motivazione è anche fortemente influenzata dagli obiettivi che gli studenti si pongono mentre svolgono le loro attività scolastiche. C’è infatti differenza tra il voler soltanto superare un’inerrogazione e il padroneggiare un certo argomento o specifica competenza. Nel primo caso si cerca spesso solo di apparire bravi e di superare i compagni, nel secondo caso interessa soprattutto apprendere e si fa fronte in maniera più agevole e persistente alle difficoltà incontrate.

Gli insuccessi sono spesso, soprattutto se ripetuti, attribuiti a una debole capacità nel settore e a doti intellettuali modeste. Questo non solo da parte degli allievi, ma anche degli insegnanti. Ciò porta non solo a frustrazioni e tristezza, ma anche allo sviluppo di atteggiamenti negativi e alla rinuncia ad impegnarsi in maniera adeguata. Tutto questo favorisce inoltre una percezione di sé negativa quanto a capacità e competenza nel settore. Diventa così essenziale promuovere attribuzioni causali riferite a fattori modificabili e controllabili, incoraggiare una concezione dell’intelligenza matematica flessibile e migliorabile, impostare programmi didattici che permettano un aumento della percezione della propria competenza nel portare a termine gli impegni scolastici.

CONCLUSIONI

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Dal punto di vista educativo è necessario che gli insegnanti promuovano non solo lo sviluppo dei processi che stanno alla base della comprensione, come quelli elaborativi e organizzativi, bensì anche le competenze strategiche che consentono di utilizzare le conoscenze già acquisite poter apprendere in maniera significativa e stabile altre conoscenze concettuali e procedurali e per risolvere in maniera feconda i vari problemi. A tal fine occorre che essi per primi conoscano e siano capaci di gestire i processi e le strategie di natura cognitiva e affettiva utili o necessari. Per promuovere le competenze strategiche fondamentali richieste non basta, però, descriverle solo a parole, occorre anche farle sperimentare.

§§§CAP.10: CONCETTUALIZZAZIONE E INSEGNAMENTO.

Lo studio delle concettualizzazioni scientifiche si pone come studio del cambiamento delle rappresentazioni in campi specifici dell’esperienza a vari livelli di età e per effetto dei processi di insegnamento. Sono necessarie 2 precisazioni: a) la ricerca sul cambiamento concettuale ha sempre riguardato quasi esclusivamente le scienze naturali e fisiche; b) la ricerca in questione è stata condotta nell’ambito della prospettiva costruttivista, partendo dall’assunzione che un individuo, nel tentativo di dare significato al mondo naturale e sociale, costruisce la propria conoscenza connettendola ai dati già presenti nella memoria a lungo termine.

Secondo poi l’approccio socioculturale di matrice vygotskijana, la cognizione si manifesta sempre in contesti di attività e pratiche in cui gli individui interagiscono tra loro e con gli strumenti della propria cultura per conseguire i propri obiettivi. Si tratta dunque di processi di carattere intersoggettivo, organizzati socialmente e propri di un contesto.

IL PARADIGMA DELLA SPECIFICITA’ DI DOMINIO

Secondo il paradigma del domain-specificity (anni ’80), lo sviluppo cognitivo va considerato come ristrutturazione delle conoscenze in un’area caratterizzata da una specifica organizzazione concettuale. L’enfasi su questo nuovo paradigma trova riscontro coerente in tre risultati della ricerca attuale sullo sviluppo e l’apprendimento, ossia:

1) la mente umana funziona come un sistema modulare [Fodor] piuttosto che come un elaboratore generale di informazioni. Nel corso dell’evoluzione tale sistema ha sviluppato dei meccanismi cognitivi specializzati a <trattare> tipi differenti di informazioni.

2) Le prestazioni degli esperti in un determinato campo- che sia quello del gioco degli scacchi oppure quello della fisica, della chimica o delle scienze sociali- si diversificano non tanto per l’impiego di strategie generali quanto per l’organizzazione e il contenuto delle informazioni presenti nella loro base di conoscenza.

LA RICERCA SULLO SVILUPPO DELLE STRUTTURE DI CONOSCENZA

La ricerca sul cambiamento concettuale rappresenta il tentativo di combinare la visione costruttivista piagetiana con il fatto che i bambini piccoli, di età prescolare, sono ben più capaci cognitivamente di quanto sostenuto da Piaget, e che le strutture concettuali iniziali sono sottoposte a ristrutturazione radicale nel corso dello sviluppo. E’ vero che

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l’acquisizione di conoscenze inizia molto presto ed è regolata da alcuni principi o vincoli di natura generale. Ma è anche vero che le strutture concettuali iniziali possono facilitare ma allo stesso tempo ostacolare la costruzione di conoscenza successiva. Nei vari domini possono verificarsi 3 tipi di cambiamento: l’accrescimento, la ristrutturazione debole e la ristrutturazione radicale. L’accrescimento consiste nell’aggiunta di nuove informazioni nelle strutture concettuali già esistenti senza alcun loro mutamento. E’ pertanto paragonabile al meccanismo dell’assimilazione piagetiana. La ristrutturazione, sia debole che radicale, corrisponde invece al meccanismo dell’accomodamento piagetiano in quanto implica una riorganizzazione delle strutture concettuali di un determinato dominio. Nel caso di uno scienziato, la ristrutturazione riguarda la scoperta di un paradigma nuovo e coerente. Nel caso di un bambino, diversamente dallo scienziato, il problema non consiste nella scoperta di un diverso paradigma, bensì nell’integrare le visioni scientifiche accreditate con le teorie intuitive che ha elaborato sulla base dell’esperienza.

Esempio: le concezioni biologiche. Carey, attraverso più metodi di indagine, ha studiato lo sviluppo di concezioni riguardanti gli esseri viventi. Il concetto di animale è rappresentato nei bambini piccoli con la stessa estensione di quello adulto, intendendo per estensione l’insieme dei <soggetti> a cui il concetto si può attribuire. A 3-4 anni, infatti, essi distinguono tra animali, come categoria, e non animali, attribuendo solo ai primi, e non a oggetti come le bambole e i giocattoli di peluche, determinate proprietà e organi. Tuttavia, l’intensione del concetto di animale, ossia il particolare e preciso contenuto determinato dalle proprietà specifiche del concetto, risulta diversa da quella di un adulto. Prima dei 10 anni, i bambini non concepiscono che tutti gli animali si nutrano, respirino e si riproducano. Secondo Carey, il bambino piccolo vede gli animali come esseri che hanno un comportamento, ossia in termini essenzialmente psicologici, mentre l’adulto li concettualizza come esseri biologici. Per quanto riguarda il concetto di essere umano, gli studi hanno messo in luce che i bambini più piccoli si rappresentano la morte, la crescita, la riprdduzione e la nutrizione in termini di comportamento delle persone (quindi psicologici), non del funzionamento delle parti interne del corpo. A 10 anni viene invece costruito un modello del funzionamento integrato degli organi interni. In sintesi, secondo Carey, una teoria biologica intuitiva emerge da una teoria psicologica intuitiva nell’età che va dai 4 ai 10 anni. La ricerca ha spesso trascurato le variabili culturali e contestuali legata alle trasmissioni delle conoscenze. Laddove è stato indagato il ruolo di determinate esperienze domestiche sull’acquisizione di conoscenze biologiche a scuola, è emerso che bambini coinvolti direttamente in attività di allevamento di piccoli animali domestici, ad esempio di pesci rossi, per un certo periodo di tempo, mostravano di possedere conoscenza concettuale più ricca dei coetanei che non avevano avuto la possibilità di contatto con gli animali.

IL CAMBIAMENTO CONCETTUALE NELLA RICERCA SULL’INSEGNAMENTO DI CONCETTI SCIENTIFICI

Fin dagli inizi degli anni ’70, coloro che erano interessati all’insegnamento-apprendimento di concetti scientifici in classe hanno compiuto studi volti ad individuare le misconceptions degli studenti. Le misconceptions sono quelle conoscenze

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alternative (ingenue, difettose, deformate, distorte, ecc) elaborate dall’individuo per effetto della sua esperienza con la realtà e degli stessi interventi di istruzione formale, che appaiono molto spesso in forte contrasto con le conoscenze accreditate. A tutte le età, anche se in misura differente, gli individui possiedono in genere concezioni divergenti da quell accreditate scientificamente; concezioni definite di <senso comune>, o anche <ingenue>, che possono essere il frutto dell’esperienza personale diretta con la realtà, di idee e convinzioni elaborate in famiglia o di cui si è sentito parlare casualmente.

Agli inizi degli anni ’80 sono stati proposti dei modelli che intendevano precisare i componenti el cambiamento concettuale e prospettare linee adeguate di intervento finalizzate a far superare le concezioni alternative alquanto resistenti alla ristrutturazione. Poster ha elaborato uno dei modelli più rilevanti per l’esplicitazione delle condizioni necessarie alla revisione delle conoscenze:

1) bisogna essere insoddisfatti delle proprie idee, dei propri modi di interpretare la realtà e percepirne i limiti;

2) una concezione nuova deve risultare intelligibile, cioè lo studente deve poterne comprendere il significato e farsene una rappresentazione coerente;

3) la concezione nuova deve risultare anche plausibile, non deve apparire in netto contrasto con le altre sue concezioni;

4) la concezione nuova deve infine essere vantaggiosa, dimostrandosi utile a risolvere i problemi rimasti sospesi.

Altri studiosi hanno indicato che bisogna:

- far esplicitare innanzitutto agli studenti le proprie concezioni sollecitando interpretazioni di un determinato fenomeno;

- affinare la loro consapevolezza delle proprie concezioni e di quelle altrui attraverso discussioni;

- creare conflitto concettuale chiedendo loro di spiegare un evento discrepante, cioè non interpretabile attraverso le concezioni possedute;

- incoraggiare l’accomodamento cognitivo e l’elaborazione di un nuovo modello concettuale coerente con la concezione scientifica accreditata.

La strategia del conflitto concettuale si è però mostrata non sempre efficace in quanto non risulta automatico il riconoscimento di un conflitto tra le proprie concezioni e un’evidenza empirica anche palesemente contraria.

INTERPRETAZIONI RECENTI DEL CAMBIAMENTO CONCETTUALE

Il processo di cambiamento concettuale è stato oggetto di teorizzazioni diverse. I primi due approcci sono essenzialmente centrati sulla descrizione e spiegazione del tipo di rappresentazioni mentali che vengono elaborate nelle menti dei singoli soggetti in base a processi cognitivi interni. Il terzo approccio, invece, sottolineando come il cambiamento non sia da vedere in termini di abbandono, il più rapido possibile, di concezioni alternative, porta a considerare il rapporto tra conoscenze e contesti concettuali e di discorso al fine di capire l’origine delle difficoltà di comprensione disciplinare da parte degli studenti. In prospettiva socioculturale, il quarto approccio sposta l’oggetto di indagine dalle rappresentazioni individuali alle azioni sociali.

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TEORIE SPECIFICHE E TEORIE CORNICE

Vosniadou ha proposto un’interpretazione dei meccanismi sottostanti al cambiamento di conoscenze in domini delle scienze fisiche. La studiosa concepisce la conoscenza intuitiva costituita da teorie che distingue in 2 tipi: teorie specifiche e teorie cornice. Le teorie specifiche, che descrivono le proprietà e il funzionamento di oggetti e fenomeni, sono vincolate dalle teorie cornice, in quanto queste ultime sono formate da presupposizioni ontologiche ed epistemologiche sulle quali vengono elaborate le teorie specifiche che portano alla costruzione di modelli mentali.

In studi transculturali, le teorie cornice sono risultate presenti anche in bambini appartenenti in culture diverse da quella euro-americana, proprio perché le presupposizioni radicate che le costituiscono sono le stesse, ossia aspetti <universali>, in quanto interpretazioni da parte dei bambini della loro esperienza del mondo fisico, esperienza trasversale alle differenti culture. Ciò che varia è invece il tipo specifico di <modello sintetico> (misconception) che i bambini si costruiscono anche rispetto a miti, storie e racconti cosmologici che vengono tramandati nel loro particolare contesto culturale. Il cambiamento di una teoria cornice, proprio perché implica che mutino presupposizioni e credenze radicate da tempo, basate su innumerevoli osservazioni ed esperienze, si presenta quindi particolarmente lungo e difficile. Come può essere stimolato e sostenuto? Nel nostro paese sono state sostenute delle ricerche sulle teorie cornice riguardanti il dominio economico. Berti ha messo in evidenza come a determinate condizioni si possano manifestare ristrutturazioni (anche radicali) stabili in un arco di tempo piuttosto limitato. Secondo Berti, se i bambini possiedono le conoscenze di sfondo e le loro condizioni non sono particolarmente radicate- ossia non hanno teorie cornice che fanno da ostacolo- e vengono loro presentati concetti riguardanti sottodomini specifici, ad esempio il funzionamento di un negozio o di una banca e i loro profitti, possono giungere a concettualizzazioni altrimenti raggiungibili solo ad età più avanzate. Una possibile fonte di teorie cornice deriva dalla concezione che hanno i bambini che il principio di uguaglianza e <reciprocità stretta> che si applicano nei rapporti interpersonale varrebbero anche per la banca, per cui pensano che si debba restituire esattamente quello che si è ricevuto. Realizzando in classi di terza, quarta e quinta elementare degli appositi curricoli di diversa durata per l’insegnamento-apprendimento di concetti legati alla comprensione del funzionamento della banca, Berti e collaboratrici hanno rilevato che in presenza delle condizioni sopra menzionate, i bambini potevano produrre cambiamenti stabili, almeno nel senso di una ristrutturazione debole.

A partire dagli 8-9 anni i bambini non possiedono teorie cornice sul comportamento umano che possono impedire la concettualizzazione corretta delle operazioni svolte dalla banca. Se a questo si aggiunge il fatto che dispongono della conoscenza di sfondo necessaria, si spiega come si possano conquistare livelli progrediti di comprensione in un arco di tempo piuttosto limitato. Berti ha pertanto concluso che le teorie cornice possono ostacolare la comprensione di concetti riguardanti il mondo fisico ma non quello economico. Ciò di cui hanno bisogno i bambini per comprendere concetti fondamentali di quest’ultimo dominio è la conoscenza di alcune nozioni, quali produzione di beni, lavoro come attività retribuita ecc.

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CATEGORIE ONTOLOGICHE E CAMBIAMENTO CONCETTUALE

Chi e collaboratori [1992] hanno proposto un’interpretazione del cambiamento concettuale basata sulla mozione di categoria ontologica. Le categorie ontologiche sono intese da questi studiosi come poche basilari categorie della realtà, ontologicamente distinte a livello fisico e a livello psicologico adulto. Tre categorie ontologiche essenziali sono quelle delle sostanze materiali, dei processi e degli stati mentali. Il cambiamento concettuale può essere di due tipi: all’interno (within) di una categoria ontologica e tra (across) categorie ontologiche. Il cambiamento all’interno di una categoria avviene per mezzo dei meccanismi di discriminazione, aggiunta o eliminazione di caratteristiche, generalizzazione, strutturazione, individuazione di analogie.

Il cambiamento tra categorie consiste nella rassegnazione di un concetto ad una categoria diversa da quella a cui era stato già attribuito. Secondo Chi e collaboratori, molte delle misconceptions sono dovute al fatto che si attribuiscono i concetti alle categorie ontologiche errate.

Vosniadou e Duit hanno sottolineato l’arbitrarietà della distinzione tra categorie, chiedendosi perché i <processi> siano considerati una categoria ontologica, e considerando inadeguata la spiegazione del cambiamento concettuale fatta solo in termini di rassegnazioni concettuali. Vosniadou ha proposto una spiegazione di sintesi tra la sua interpretazione e quella di Chi e collaboratori: la difficoltà di concettualizzazione in campo scientifico e la creazione di misconceptions va rapportata alle incongruenze che esistono tra i sistemi di presupposizioni e credenze fondamentalmente contraddittorie che sottostanno alle diverse categorie ontologiche.

CAMBIAMENTO CONCETTUALE COME CONTESTUALIZZAZIONE

Secondo Halldèn, le difficoltà incontrate nella comprensione di concetti scientifici sono da mettere in rapporto a un problema di contestualizzazione, visto da tre piani diversi:

1) la contestualizzazione di un concetto nell’ambito di un più ampio quadro concettuale; 2) la contestualizzazione di spiegazioni che possono risultare più o meno rilevanti in situazioni

differenti; 3) la contestualizzazione di descrizioni o spiegazioni all’interno di un determinato genere di

discorso. Riguardo al primo tipo di contestualizzazione, Halldèn ha fatto riferimento alla nozione di contesto cognitivo. Si tratta di un paradosso dell’apprendimento: per comprendere concetti subordinati è necessario possedere già il concetto superordinato che forma il contesto di riferimento, ma una condizione per possedere quel concetto superordinato richiede che i concetti subordinati siano già compresi.

Riguardo al secondo tipo, Halldèn parla di contesto situazionale. Quando nello spiegare fenomeni di vita quotidiana i concetti scientifici competono con quelli di senso comune, non è affatto scontato che i primi prevalgano sui secondi. Può essere una libera scelta degli studenti quella di non usare il ragionamento <accademico>, in quanto situano un

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problema specifico in un contesto quotidiano, giudicando inappropriato quello della spiegazione scientifica.

Per quanto riguarda il terzo tipo di contestualizzazione, Halldèn parla di contesto culturale, precisando come sia essenziale, per diventare esperti in un campo, essere socializzati a un modo particolare di vedere il mondo, proprio di un contesto disciplinare, con le sue modalità di pensare e di parlare.

CAMBIAMENTO CONCETTUALE COME PRATICA SOCIALE

Nell’ambito della prospettiva socioculturale, così è intesa la ristrutturazione concettuale:

- le pratiche discorsive sono strumenti culturali utilizzati da un gruppo per costruire conoscenza;

- attraverso pratiche e processi di discorso, i membri costruiscono gli eventi della vita quotidiana con ruoli e relazioni, norme e aspettative, doveri e obblighi che definiscono l’appartenenza ad un gruppo;

- la produzione di significati è di gruppo, non individuale, in quanto sono i suoi membri ad assegnare significato a processi, artefatti, pratiche, ecc. nel corso della loro attività quotidiana;

- le azioni e interazioni all’interno di un gruppo sono lette e interpretate dai membri al fine di partecipare in modi socialmente appropriati;

- le modalità di conoscere, fare, interpretare e comunicare il sapere da parte di membri di un determinato gruppo possono essere in contrasto con quelle di altri gruppi.

Da questa prospettiva il cambiamento concettuale è un processo di gruppo. Il gruppo viene considerato come un’ecologia concettuale locale, che si costituisce attraverso le interazioni tra i membri ed è un’entità dinamica. Di conseguenza, la questione educativa riguarda il mutamento delle pratiche della vita di una classe scolastica.

Ne derivano 2 importanti implicazioni. La prima è che ciò che si apprende è situato,ossia strettamente legato ai contesti in cui si manifestano le azioni sociali e le pratiche culturali di un gruppo. La seconda implicazione è che ciò che si apprende è anche distribuito tra i membri del gruppo, ossia non esiste- o non esiste solo- <nella testa> dei singoli individui ma anche nella rete di interazioni e di strumenti attraverso cui la conoscenza è situata e condivisa.

OLTRE LA CONCETTUALIZZAZIONE <FREDDA>: L’INFLUENZA DELLE CREDENZE EPISTEMOLOGICHE

In un articolo, Pintrich ha usato la metafora del <freddo> per riferirsi agli studi condotti sul cambiamento concettuale senza tener conto delle variabili di tipo epistemologico, motivazionale e situazionale come risorse e vincoli della ristrutturazione di conoscenze. Interessarsi alla concettualizzazione <calda> significa invece considerare il ruolo che nella comprensione della realtà giocano le idee elaborate dallo studente sulla natura e sull’acquisizione della conoscenza, il suo orientamento motivazionale e i fattori contestuali della classe. Con l’espressione credenze epistemologiche ci si riferisce alle assunzioni sulla conoscenza e sul conoscere. Per valutare più adeguatamente cosa e quanto uno studente acquisisce, bisogna anche domandarsi quali siano le convinzioni

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che egli ha elaborato nei confronti del sapere e di comici si appropria di esso, in quanto proprio queste convinzioni possono influire, più o meno direttamente, sui risultati dell’apprendimento. Schommer propone 5 fattori indipendenti o dimensioni epistemologiche:

1) la certezza della conoscenza: dall’idea che la conoscenza è certa e assoluta a quella che la conoscenza è in costante evoluzione;

2) l’organizzazione della conoscenza: dall’idea che la conoscenza è compartimentalizzata all’idea che la conoscenza è integrata e interconnessa;

3) la fonte della conoscenza: dall’idea che il sapere è posseduto e trasmesso da autorità onniscienti all’idea che la conoscenza è elaborata sia oggettivamente che soggettivamente;

4) il controllo dell’apprendimento: dall’idea che l’abilità ad apprendere è geneticamente predeterminata e perciò piuttosto stabile all’idea che l’abilità ad apprendere è acquisita attraverso l’esperienza e quindi modificabile;

5) la velocità dell’apprendimento: dall’idea che l’apprendimento avviene velocemente o non avviene affatto all’idea che l’apprendimento è un processo graduale.

La ricerca sistematica di Schommer ha messo in luce che le convinzioni epistemologiche influenzano vari aspetti dell’apprendimento. Il credere che la conoscenza sia semplice e certa è correlato negativamente con la ristrutturazione di conoscenze: in uno studio, più gli studenti di scuola superiore erano convinti del carattere semplice, assoluto e definitivo del sapere, meno erano portati a ristrutturare le proprie concezioni in fisica.

Si può sostenere che lo studente convinto che la conoscenza venga trasmessa da autorità indiscutibili, quali insegnanti, libri, tenda ad accettare una data risposta senza riflessione, e che uela informazione, molto probabilmente, sarà destinata a rimanere inerte in quanto non oggetto di elaborazione e integrazione. Al contrario, si può sostenere ce lo studente che adotta una visione più costruttivista secondo cui il sapere può essere generato e costruito, tenda a interrogarsi sulle proprie concezioni e convinzioni, sperimentando maggiormente il bisogno di rivederle.

Gli studi sullo sviluppo delle credenze epistemologiche hanno sottolineato che quelle più sofisticate, implicanti una visione costruttivista, si sviluppano piuttosto tardi, cioè durante l’adolescenza e l’età adulta. Si pone dunque il problema di come aiutare lo sviluppo del pensiero epistemologico in soggetti giovani. Studi recenti hanno evidenziato che si possono portare studenti di scuola media a progressi significativi per quanto riguarda l’epistemologia scientifica, ossia la visione della scienza e dell’attività scientifica. Anche per quanto riguarda l’epistemologia storica, la ricerca nel nostro paese ha messo in luce come bambini di scuola elementare in contesti di apprendimento significativi possono comprendere e imparare a padroneggiare le procedure metodologiche, metacognitive e di spiegazione necessarie all’interpretazione di eventi storici.

AMBIENTE DI APPRENDIMENTO PER FAVORIRE LA CONCETTUALIZZAZIONE

L’ambiente di apprendimento è la situazione in cui si situano e distribuiscono i processi cognitivi (e non solo) coinvolti nelle varie attività, e intreccio di relazioni sociali che sostiene il mutamento <caldo> di rappresentazioni e credenze a scuola. Tale concetto fa riferimento alla prospettiva socioculturale secondo cui la cognizione si

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manifesta sempre in contesti di attività e pratiche in cui gli individui interagiscono tra loro e con gli strumenti propri della cultura, senza negare importanza agli aspetti individuali dell’apprendimento. Gli approcci allo studio del cambiamento concettuale centrati sul cambiamento di rappresentazioni a livello individuale, e i due approcci che evidenziano rispettivamente il ruolo dei contesti e delle pratiche sociali nella costruzione di conoscenza, possono essere considerati complementari. Bisogna infatti tenere conto che le acquisizioni concettuali dello studente non possono essere considerate in assoluto, bensì in relazione a una situazione costituita da processi di discorso, azioni sociali e pratiche culturali, ma, d’altra parte, considerare il contesto e ciò che si manifesta in esso, non significa trascurare cosa uno studente apprende in termini di concetti, credenze, abilità, da rendere il più possibile flessibili e generalizzabili ad altri contesti. E’ la relazione individuo-cultura-contesto che costituisce quindi l’oggetto di interesse e analisi.

L’ambiente che a scuola può meglio contribuire a produrre cambiamento concettuale potrebbe essere definito <metacognitivo> in quanto caratterizzato dal concetto di riflessione al secondo ordine: tutte le attività svolte diventano per gli studenti occasioni di monitorare la propria comprensione e quella degli altri in un processo si apprendimento autoregolato.

ESPLICITAZIONE DI CONOSCENZE. Una prima condizione imprescindibile riguarda l’esplicitazione delle proprie conoscenze da parte degli studenti che devono sentirsi liberi di poter rendere manifesto ciò che pensano, senza timore di venire giudicati negativamente.

CONSAPEVOLEZZA METACONCETTUALE. La consapevolezza metaconcettuale consente di rendersi conto di quello che si sa (e non si sa) e della necessità di mutare idee e convinzioni, condizione fondamentale per poter riuscire a rivederle davvero.

IL DISCORSO COLLABORATIVO. La consapevolezza metaconcettuale può essere stimolata mediante la discussione tra pari su un oggetto specifico di conoscenza. Il discorso collaborativi, attraverso lo scambio e la reciprocità del dialogo, diventa infatti essenziale in quanto favorendo l’esplicitazione, l’approfondimento, la critica razionale di concezioni e punti di vista, costituisce un contesto fertile per la ristrutturazione concettuale, dal momento che <costringe> gli interlocutori ad andare alla ricerca di ciò che è alla base delle proprie concezioni. La pratica del discorso-ragionamento collaborativi sollecita sia momenti di co-costruzione che di contrapposizione, in cui i partecipanti attivano, intervenendo nella dinamica argomentativi, procedure epistemiche proprie del dominio in cui stanno discutendo, procedure essenziali per la costruzione di conoscenza condivisa e condivisibile.

LA VALUTAZIONE. Le modalità di valutazione possono costituire una condizione di sostegno alla revisione di conoscenze nella misura in cui si presta attenzione non solo al prodotto, bensì anche al processo di apprendimento, consentendo agli studenti di <mostrare> i diversi aspetti della loro comprensione e di riflettere sui progressi compiuti.

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LA CLASSE COME COMUNITA’. Ciò che si fa a scuola deve essere finalizzato alla produzione di intentional learning, in quanto l’obiettivo fondamentale perseguito dagli studenti è vissuto in termini di comprensione intenzionale d conoscenze e metodi. L’idea base dei più avanzati progetti educativi è quella di comunità in una classe scolastica intesa come sistema socioculturale. Ciò che caratterizza una comunità di apprendimento è innanzitutto la consapevolezza delle mete da raggiungere intenzionalmente tramite le attività scolastiche, che deve mettere in moto un comportamento motivato, strategico, riflessivo, autocontrollato e autoregolato, costantemente orientato a quelle mete. Gli studenti vengono socializzati ad essere attivi, metacognitivamente consapevoli mediante la partecipazione ad una comunità che richiede loro di pensare e riflettere, di considerare se stessi come impegnati in analisi critiche e risoluzione di problemi per trasformare la conoscenza, a partire dalla revisione delle proprie idee e credenze.

§§§CAP.11: LA MOTIVAZIONE AD APPRENDERE

LE PROSPETTIVE DI STUDIO DELLA MOTIVAZIONE

L’APPRENDIMENTO SOCIALE. L’approccio comportamentistico allo studio della motivazione muove dalla constatazione che sin da piccoli i comportamenti degli esseri umani che producono la soddisfazione di un bisogno, come ad esempio quello del cibo, tendono a stabilizzarsi e a ripetersi; si sottolinea così la funzione di rinforzo esterno che la soddisfazione del bisogno produce. Questa interpretazione rigidamente comportamentista ha lungamente dominato anche lo studio della motivazione scolastica [Stipek 1993] evidenziando la funzione dei premi e delle punizioni nella prospettiva del rinforzo, ma si presenta attenuata in 2 ricercatori- Rotter e Bandura- che in diverso modo introducono elementi di tipo cognitivo e sociale nell’analisi dei comportamenti motivati degli individui.

Rotter [1966] sostiene che il comportamento motivato è frutto delle attese di rinforzo e del valore che si attribuisce al rinforzo stesso: in tal modo sono le convinzioni dell’individuo su ciò che produce rinforzo a fungere da motivazione, piuttosto che il semplice fatto che un comportamento sia o no rinforzato. Oltre a ciò Rotter introduce il costrutto di locus of control che ha concettualizzato <come una differenza individuale stabile nella tendenza a vedere gli eventi sotto il proprio controllo personale (locus of control interno) o sotto il controllo dell’ambiente (locus of control esterno). Ciò significa che la motivazione degli individui è direttamente influenzata dalle loro convinzioni rispetto al potere che hanno di incidere sugli esiti degli avvenimenti in cui sono coinvolti.

Il costrutto di <locus of control> è stato ripreso nella teoria dell’aspettativa di efficacia di Bandura [1977], nella teoria dell’attribuzione di Weiner [1985], e nelle indagini sulle differenze di genere in relazione alla stima di sé [Eccles 1989].

# Secondo la teoria dell’apprendimento sociale di Bandura, vi sono 2 fonti di motivazione: la prima costituita dai risultati previsti, nel senso che sulla base di eventi passati già vissuti gli individui tendono a prevedere l’esito delle situazioni attuali; la seconda invece è il fissarsi degli obiettivi che rappresentano per ciascuno la meta verso

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cui convogliare tutti gli sforzi. Le aspettative di efficacia pertanto concorrono a determinare quanto sforzo l’individuo è disposto a spendere per raggiungere un certo esito e quanto a lungo è disposto ad impegnarsi per farlo.

L’aspettativa di efficacia di ciascun individuo è per Bandura determinata da 4 elementi che sono

a) le prestazioni precedenti; b) l’apprendimento vicario (cioè l’osservazione di modelli positivi o negativi); c) gli incoraggiamenti verbali degli altri; d) le proprie reazioni fisiologiche (per esempio l’ansia o una trepidazione eccessiva). Le aspettative di efficacia rispetto al fissarsi degli obiettivi educativi risultano più valide se gli obiettivi sono: a) prossimi e non distanti nel tempo; b) specifici e non globali; c) abbastanza impegnativi (challenging), vale a dire non troppo difficili, né troppo facili.

La motivazione dunque focalizza la sedimentazione di eventi ripetuti nel formarsi di convinzioni e aspettative che influenzeranno gli esiti delle azioni successive degli individui stessi.

LA MOTIVAZIONE ALLA COMPETENZA. Le teorie cognitive sulla motivazione sottolineano che ciò che gli individui pensano in merito a quello che può accadere è altrettanto importante nel determinare ciò che effettivamente accade. Le convinzioni, le credenze, l’opinione di sé e delle proprie abilità determinano il tipo e la durata dell’impegno che i soggetti assumono e quindi il risultato delle loro azioni.

# Un interessante contributo è offerto dagli studi sui primati e sui neonati che hanno focalizzato il ruolo della curiosità nell’orientare l’attività degli individui e nello spingerli a continuarle. In particolare le ricerche di Berline [1960] hanno messo in luce che, quando un individuo è posto in una situazione che può prevedere risposte conflittuali, si attua un impulso di curiosità (motivazione esplorativa) per il quale l’individuo si impegna nella ricerca di ulteriori informazioni per soddisfare tale impulso.

# Un altro costrutto è quello della motivazione alla competenza, con la quale White intende un bisogno fondamentale negli essere umani di controllare il proprio ambiente. Questo tipo di bisogno è diverso dagli impulsi che, ad esempio, spingono l’essere umano alla ricerca del cibo e di un riparo, ma il comportamento esplorativo, che è alla base della motivazione alla competenza si attiva anche quando sono soddisfatte le necessità di sopravvivenza. Per tale ragione White sostiene che la motivazione vada piuttosto ridefinita in termini di motivazione di effectance (produrre effetti), perché così si può tener conto di tutti quei comportamenti esplorativi, di bisogno di controllo, di padronanza e di manipolazione che caratterizzano gli esseri umani quando sono motivati.

Harter ha condotto studi in cui, prendendo le mosse dal costrutto di motivazione alla competenza, è stato messo a punto un modello di effectance. La studiosa sostiene che le esperienze di successo che sono seguite da rinforzi producono l’interiorizzazione di un sistema di ricompense, aumentano la percezione di competenza del soggetto e di controllo sugli esiti delle proprie azioni, producono soddisfazione e accrescono la

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motivazione di competenza. Quando invece le azioni del soggetto sono seguite da insuccessi, rimane il bisogno di riconoscimento da parte degli altri, ma aumenta la sensazione di non riuscire a incidere sugli eventi, quasi fossero gli altri a controllarli, aumenta l’ansia per le prestazioni e diminuisce la stima di sé per cui si decrementa anche la motivazione complessivamente.

# Nella letteratura sulla motivazione vi è una distinzione tra motivazione intrinseca e motivazione estrinseca. Con la prima ci si riferisce alla situazione in cui i soggetti si impegnano in attività di apprendimento per il gusto di farlo, indipendentemente dal raggiungimento di un riconoscimento. La motivazione estrinseca si riferisce alla situazione in cui gli individui si coinvolgono in attività a fini strumentali, o per altri scopi esterni all’attività stessa, come potrebbe essere l’ottenere un premio. La motivazione alla competenza rientra nel primo tipo di motivazione, ma la stessa distinzione fra i due tipi di motivazione così rigidamente separati è stata messa in questione.

La teoria dell’autodeterminazione di Decy e Ryan propone l’integrazione di questi due punti di vista sulla motivazione. Il bisogno di competenza è la ragione principale per cui gli individui ricercano il livello ottimale di stimolazione e di attività: la motivazione intrinseca infatti si riduce se si ha la sensazione di un controllo esterno e/o rinforzi negativi sulla propria competenza. Decy e Ryan superano la distinzione dicotomica tra motivazione intrinseca e motivazione estrinseca ed indicano diversi livelli attraverso cui si realizza il processo di <interiorizzazione>, che va dalla regolazione esterna, che proviene cioè da contingenze esterne, alla regolazione introiettata, che si fonda sull’utilità del comportamento autoregolato, alla regolazione per identificazione che è basata sull’autonomo riconoscimento da parte dell’individuo di ciò che ha valore e importanza. Il concetto di interiorizzazione progressiva supera la distinzione fra intrinseco ed estrinseco.

LA TEORIA DELL’ATTRIBUZIONE

Le attribuzioni causali sono le cause a cui i soggetti attribuiscono i loro personali risultati. Gli esiti sono stati distinti in 4 tipi- abilità,sforzo, difficoltà del compito, fortuna- che si possono articolare su 2 dimensioni: il locus of control e la stabilità. Il locus of control si distingue in interno ed esterno, mentre la stabilità indica se questi criteri cambiano nel tempo. A queste due dimensioni Weiner ne ha aggiunta un’altra, la controllabilità in base alla quale si identificano le cause controllabili appunto dal soggetto, come ad esempio la propria abilità, o quelle al di fuori del proprio controllo, come le azioni delle altre persone. Gli individui hanno proprie idee riguardo alla natura delle loro abilità, dello sforzo, della difficoltà del compito e della fortuna e una volta che un certo esito è stato spiegato con certe ragioni (attribuzioni causali), queste tenderanno ad influenzare le aspettative future di successo o di fallimento; il tal senso sono esse stesse la motivazione fondamentale nelle situazioni in cui si devono conseguire dei risultati. La combinazione di convinzioni particolari, esiti raggiunti e attribuzioni causali può avere importanti conseguenze sulla carriera scolastica degli alunni; sono noti infatti casi di <incapacità appresa> in base alla quale uno studente considera i suoi ripetuti insuccessi dovuti all’assenza di abilità intesa come causa interna stabile e incontrollabile da parte sua.

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Delle tre dimensioni identificate da Weiner, il locus of control mostra più direttamente legami con le reazioni emotive degli individui. Se i successi ad esempio sono attribuiti a cause interne, aumenterà la stima di sé e l’orgoglio, se saranno attribuite a cause esterne si avvertirà gratitudine; analogamente se gli insuccessi saranno attribuiti a cause interne si potrà provare vergogna, se si ascriveranno a cause esterne, si potrà provare risentimento e rabbia. Conseguentemente questi sentimenti contribuiranno a determinare le reazioni e gli esiti nelle situazioni di impegno successive.

LE TEORIE RIFERITE AGLI OBIETTIVI

Il comportamento motivato si caratterizza anche dal fatto di essere teso al raggiungimento di obiettivi. Alcuni ricercatori[Nicholls] hanno focalizzato tre grandi tipi di obiettivi motivazionali che sono gli obiettivi centrati sull’io, gli obiettivi centrati sul compito e gli obiettivi volti ad evitare fatica; altri ricercatori [Dweck], invece hanno distinto fra obiettivi di performance (analoghi a quelli centrati sull’io) e obiettivi di apprendimento (analoghi a quelli centrati sul compito); altri ricercatori [Ames], infine, hanno mostrato che studenti con obiettivi centrati sul sé si comportano in modo competitivo con gli altri e tendono ad impegnarsi in compiti che riescono a fare, mentre gli studenti che perseguono obiettivi centrati sul compito scelgono compiti impegnativi e sono più orientati al loro personale progresso di apprendimento piuttosto che a superare le prestazioni degli altri.

DIFFERENZE DI GENERE E MOTIVAZIONE

In generale le donne risultano sotto rappresentate nel campo della matematica applicata, della fisica, della tecnologia e negli alti livelli di qualsiasi ambito. La considerazione delle ragioni di questa situazione ha dato luogo ad una varietà di ricerche che in diverso modo tentano di spiegarne i motivi e soprattutto di indicare i possibili fattori su cui si possa intervenire per modificarla.

Studi [Eccles] hanno dimostrato che le convinzioni circa la propria competenza soprattutto nei campi a forte stereotipia di genere, sono a favore dei maschi: costoro tendono infatti a sovrastimare la propria competenza per prestazioni future, mentre le donne sottostimano invece le loro capacità anche quando raggiungono esiti scolastici eccellenti. Per esempio, ciò accade particolarmente per gli uomini nell’ambito della matematica e dello sport, mentre nel caso della lettura o di attività sociali le donne ritengono di avere più competenza dei maschi; l’ampiezza di tali differenze, inoltre, si incrementa nella fase pre-adolescenziale e adolescenziale.

Sul piano delle attribuzioni causali, le ragazze tendono meno ad attribuire i successi alle proprie abilità, mentre più facilmente riconducono gli insuccessi alle proprie incapacità.

Dal punto di vista del locus of control, inoltre, le ragazze tendono ad avere un alto livello di locus of control interno per la responsabilità sia di eventi positivi che negativi e tale senso aumenta con il crescere dell’età. Al contrario, nei ragazzi il senso di responsabilità interno diminuisce con l’aumentare dell’età; così essi tendono ad attribuire gli esiti delle proprie azioni al potere degli altri o a cause esterne sconosciute, sia per gli ambiti cognitivi che per quelli sociali. La tendenza delle ragazze ad assumersi

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la diretta responsabilità per gli insuccessi si salda con l’attribuzione frequente di assenza di abilità: questa caratteristica è stata interpretata come un caso di <incapacità appresa>.

In sintesi, tutte le volte che si rilevano differenze di genere nelle misure di valutazione della motivazione, queste si riconducono a stereotipie di ruoli di genere.

La valutazione delle diverse attività scolastiche, quali la musica, la letteratura, lo sport, ecc., risente di una stereotipia connotazione di genere. Tuttavia, è interessante notare che per la matematica tali differenze emergono a partire dalla scuola secondaria, dove le ragazze da un lato pensano di non avere capacità matematiche e dall’altro non stimano abbastanza la matematica come disciplina: entrambi i fattori sono ritenuti cause all’origine delle minore frequenza di scelta di facoltà scientifiche e tecnologiche da parte delle ragazze. Sono molte le ricerche che sulla base delle attese di ruolo di genere mostrano l’orientamento diverso di maschi e femmine sia in ambito scolastico che nelle scelte occupazionali.

CARATTERISTICHE DELL’INSEGNANTE E MOTIVAZIONE DEGLI STUDENTI

La relazione che lega le caratteristiche personali dell’insegnante, il suo stile di insegnamento, la sua dimensione di calore/freddezza nel promuovere l’apprendimento con la motivazione, il rendimento e l’autostima degli alunni è stata individuata ben presto come un fattore concorrente fondamentale nel determinare gli esiti scolastici. Un ruolo importante è costituito anche dal clima della classe: è stato rilevato che la soddisfazione degli studenti, la loro crescita personale e il loro rendimento scolastico sono ottimizzati solo se il calore e il sostegno dell’insegnante si accompagnano ad una organizzazione efficiente e all’organizzazione di lezioni ben focalizzate e chiare negli obiettivi.

Varie ricerche hanno però trovato che il clima delle diverse scuole varia in relazione alla sensazione di efficacia degli insegnanti e alle aspettative che essi hanno rispetto alle potenzialità degli studenti; le variazioni rilevate rispetto a queste due dimensioni in realtà incidono radicalmente sulla motivazione sia degli studenti che degli insegnanti.

LA STRUTTURAZIONE DEGLI OBIETTIVI E L’APPRENDIMENTO COOPERATIVO

Sono state identificate tre diverse strutturazioni del lavoro in classe corrispondenti a tre diversi obiettivi generali che incidono sull’affettività degli studenti, sull’autostima e sulla motivazione:

1) la struttura individualizzata in cui ciascun allievo è valutato in base alle sue singole prestazioni, senza paragone con quelle degli altri e il successo di ciascuno è collegato all’impegno personale;

2) la struttura competitiva che corrisponde alla situazione in cui se uno vince l’altro perde e si persegue costantemente il confronto con gli altri rispetto a cui si è anche valutati;

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3) la struttura cooperativa in cui il gruppo condivide premi e punizioni e si valuta la prestazione del gruppo, indipendentemente da quella di ciascun membro.

Un particolare sviluppo della struttura cooperativa è rappresentato dal cooperative learning, dizione sotto la quale rientrano una serie di strategie didattiche che si fondano tutte sulla composizione di gruppi e su specifiche richieste cognitive alle quali gli alunni devono rispondere come un insieme unico: una vasta letteratura documenta l’influenza positiva dell’apprendimento cooperativa sulla motivazione e l’apprendimento degli alunni. In particolare, è stato accertato un incremento del piacere di andare a scuola o di studiare certi argomenti se l’insegnante adotta come strategia didattica l’apprendimento cooperativo; gli allievi inoltre hanno una maggiore fiducia nelle proprie personali capacità di imparare diversi contenuti.

E’ stato messo in questione se l’apprendimento cooperativo abbia effetti positivi perché incrementa la motivazione o perché induce una maggiore coesione sociale o perché favorisce l’elaborazione insieme o perché l’interazione fra pari è particolarmente adeguata ai soggetti in età evolutiva. Queste diverse prospettive sono state integrate nel modello proposto da Slavin [1996], in base al quale il gruppo promuove complessivamente una motivazione ad imparare così come tale motivazione sostiene ed aiuta ciascun componente del gruppo stesso ad imparare; la motivazione inoltre, fa sì che si svolgano ruoli reciproci di tutoring, e si condividano specifiche elaborazioni cognitive: tutto questo provoca infine una notevole coesione sociale nel gruppo. In tal senso, nel modello di Slavin la motivazione costituisce il meccanismo fondamentale per produrre esiti sociali, cognitivi e scolastici.

IL RAPPORTO FRA PARI E LA MOTIVAZIONE A SCUOLA

Le relazioni fra pari sono un’altra componente fondamentale nel determinare la motivazione degli studenti che a sua volta determina effetti scolastici positivi sia sul piano dell’apprendimento sia sul piano più generale dello stare bene a scuola. Per quanto riguarda i rapporti di amicizia, la sensazione di essere sostenuti socialmente e ben voluti dai pari e dagli adulti è alla base di un maggior coinvolgimento nell’apprendimento e di un generale senso di appartenenza alla scuola.

E’ atato analizzata anche l’influenza dell’imparare insieme come <comunità di apprendimento> e la capacità di chiedere aiuto ai pari. Con la locuzione <comunità di apprendimento> si prevede un’organizzazione della classe in gruppi, ciascuno dei quali è responsabile di un settore o di un ambito di competenza e fa da tutor agli altri compagni di classe. L’insegnante svolge un ruolo di facilitatore guidando il processo di conoscenza; pur nella differenziazione dei ruoli c’è una responsabilità condivisa da parte di insegnanti e alunni del processo di acquisizione che si realizza in classe. Un coinvolgimento più profondo e diretto degli allievi rappresenta un fattore che incentiva la motivazione.

L’APPRENDERE INSIEME COME FONTE DI MOTIVAZIONE: LA CONCORRENZA DI PARADIGMI DIVERSI

Gli elementi cognitivi e relazionali hanno attratto in modo crescente l’interesse dei ricercatori e sotto diversi punti di vista: come fattori che orientano le scelte delle donne

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e delle ragazze sulla base di stereotipie, come necessità di relazioni fra pari che sostengono la crescita dei soggetti in età evolutiva, come situazioni che favoriscono il maggior coinvolgimento e l’elaborazione più elevata nelle diverse dimensioni dell’apprendimento cooperativo o della classe intesa come comunità di apprendisti. Si può sostenere perciò che la dimensione sociale risulta essere un elemento fondamentale della motivazione. I ricercatori ad orientamento vygotskiano sostengono che <l’apprendimento e lo sviluppo cognitivo sono essenzialmente una questione di assorbimento appropriato di cultura pratica mediante una partecipazione sostenuta (scaffolded) in attività importanti nella società>. L’attività sociale dunque non è l’espediente per coinvolgere gli allievi, o il settino per facilitare le loro relazioni reciproche affinché stiano bene a scuola e sviluppino un senso di appartenenza, quanto piuttosto costituisce la trama che sostiene l’intero impianto educativo, dalle relazioni con gli altri ai tipi di attività che si svolgono, alle responsabilità rispettive, ai rapporti di autorità e alle progressioni che possono individuarsi in essi.

SOCIALIZZARE L’INTELLIGENZA: UN PUNTO DI VISTA SU INTELLIGENZA E MOTIVAZIONE

Socializzare l’intelligenza è il titolo di un articolo di Resnick e Nelson-LeGall [1997] in cui le autrici propongono una nozione di <intelligenza come pratica sociale> di derivazione vygotskiana e neo-vygotskiana. Secondo le autrici:

a) la definizione di intelligenza come pratica sociale richiede l’allargamento di tale definizione passando dalla tradizionale indicazione di abilità cognitive e di forma di conoscenza, all’identificazione di un insieme di prestazioni sociali come il far domande, lo sforzarsi di padroneggiare nuovi problemi e il saper chiedere aiuto nel risolverli come atti legittimi e positivi per tutti i soggetti.

b) Tali convinzioni sono acquisite attraverso un processo analogo a quello che gli psicologi evolutivi studiano come socializzazione e che in una prospettiva vygotskiana si considera <processo di interiorizzazione di azioni socialmente condivise>.

c) La scuola e le altre istituzioni educative possono avere un ruolo nel promuovere la socializzazione dell’intelligenza; ciò vuol dire creare ambienti di apprendimento in cui i soggetti possono porsi obiettivi di apprendimento che si fondano sulla concezione dell’intelligenza come fattore che si incrementa; significa inoltre indurre negli studenti le convinzioni necessarie a farli sentire attivi nel determinare il proprio successo scolastico; vuol sire infine che tali aspetti sono fattori motivazionali che mediano il rendimento scolastico degli studenti.

MOTIVAZIONE E IDENTITA’

Bambini e bambine nella scuola elementare, ragazzi e ragazze nella scuola media, adolescenti nella scuola secondaria attraversano fasi della crescita molto diverse che non possono non avere riflessi sul piano della motivazione ad imparare a scuola. Se si riflette perciò sulle caratteristiche della motivazione per i bambini della scuola primaria, si noterà che l’apprendere dall’adulto può fondarsi su una motivazione affiliativi di piena adesione ai modelli proposti dagli adulti, genitori ed insegnanti. In quest’epoca della vita, infatti, il <sentirsi grandi> perché si è imparato qualcosa- si pensi al saper leggere

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rispetto a chi non lo sa fare ancora- è ragione di soddisfazione e costituisce una spinta a continuare ad apprendere.

Una fase diversa è quella che attraversano i ragazzi e le ragazze nella scuola media, ove dal punto di vista della motivazione si passa dalla fase di motivazione affiliativi appena descritta a quella di orientamento alla realizzazione del sé, collegata alle profonde trasformazioni legate all’identità di genere che si realizzano in questa fase. Ciò vuol dire che l’interesse prevalente dei ragazzi e delle ragazze sarà rivolto a tutte quelle manifestazioni che rendono possibili la scoperta di parti di sé, la riflessione sulle proprie emozioni e complessivamente aiutano questi soggetti a guardarsi come in uno specchio per meglio comprendersi e costruire la propria identità in trasformazione. In questa fase la scuola potrebbe favorire l’assunzione di responsabilità rispetto alle regole della vita in classe. Dal punto di vista dell’apprendimento, si potrebbero avviare forme di corresponsabilizzazione rispetto al proprio imparare che andrebbe considerato nella prospettiva di diritto-dovere di apprendere a scuola; in tal senso, inoltre, anche le modalità di valutazione dovrebbero muovere dal riconoscimento dei cambiamenti in corso nei soggetti di questa età e avviare, per esempio, forme di autovalutazione monitorate dall’insegnante.

Una fase ancora diversa sul piano della motivazione collegata ai processi di sviluppo dell’identità è quella attraversata dai ragazzi e dalle ragazze intorno ai 13-15 anni, in cui la progressione verso l’età giovanile e poi adulta si dovrebbe caratterizzare per una crescita di autonomia e di responsabilità, sapendo bene che in questa epoca della vita, per i maschi in particolare, si verifica una modalità fortemente conflittuale di rapportarsi all’adulto di cui si percepisce spesso in maniera esasperata la dimensione di potere, come autoritarismo senza autorevolezza. Ciò vuol dire che in questa fase il rifiuto della scuola e l’assenza di motivazione ad imparare e ad impegnarsi rientra nelle modalità ben note di costruzione di identità nell’adolescente maschio.

Si tratterà allora di avviare con gli studenti e con le studentesse forme condivise nell’organizzare e pianificare il lavoro, criteri per stabilire rapporti con l’esterno della scuola, insegnando loro a valutare pro e contro delle scelte e a prendere coerentemente decisioni in tal senso.

§§§CAP.12: LA RELAZIONE INSEGNANTE-ALLIEVO

I docenti più diffusi nella nostra scuola sono di due tipi: vi è colui che è incapace di occuparsi realmente dei suoi allievi, dai quali teme di lasciarsi occupare, e colui che li strumentalizza per i propri fini narcisistici, mascherando con una disponibilità apparente la sostanziale assenza di disponibilità. In entrambi i casi l’insegnante tende a fornire spiegazioni preconcette e semplicistiche di atteggiamenti e comportamenti dei suoi alunni. Purtroppo gli insegnanti fanno spesso uso di attribuzioni arbitrarie, che sono quasi sempre alla base di meccanismi di scoraggiamento.

In realtà, le deformazioni nel rapporto con l’Altro sono inevitabili, ma l’insegnante può averne più o meno coscienza liberandosi così, almeno in parte, dal <gioco della captazione immaginaria>. Esistono due dimensioni lungo le quali può variare la qualità del controllo del docente sulle deformazioni del suo rapporto con l’Altro. Una, in un

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certo senso <primaria>, è data dalla maturità della personalità dell’individuo comunicante e dalla qualità del suo rapporto con il proprio inconscio a prescindere da qualsiasi capacità professionale indotta. L’altra è data da conoscenze specialistiche opportunamente assimilate ed operativamente disponibili.

Il grave deficit della capacità di comprensione del docente nei confronti dell’allievo dipende in gran parte dal contesto istituzionale in cui l’insegnamento si svolge. La particolare divisione prefissata e vincolante del tempo e dello spazio, ha ben poco a che fare con le autentiche esigenze degli alunni.

La possibilità che gli educatori siano resi più saggi, soprattutto mediante una migliore conoscenza di se stessi e delle proprie capacità di interazione con gli altri, sembra una condizione la cui realizzazione su vasta scala appare utopica, ma ciò non deve esentarci dal considerare comunque la sua opportunità. Secondo Dilani, non bisogna preoccuparsi di <come fare scuola>, bensì di <come essere per poter fare scuola>. L’opportunità che gli educatori possiedano una sensibilità relazionale adeguata ha a che fare con la capacità di riuscire a non nuocere favorendo al contempo la crescita relazionale. Si tratta di porsi opportunamente in sintonia con le parti più autentiche della personalità degli allievi, manifestando rispetto per la loro individualità e lasciando il loro desiderio libero di esprimersi in un clima di comunicazione costruttiva. Sono capacità possedute solo da pochissimi insegnanti. La maggioranza <nuoce>. Se dovessimo riassumere in un aforisma l’atteggiamento mentale dell’insegnante ideale nei confronti del suo allievo, diremmo: Tensione verso la comprensione ed il rispetto, guardandosi tanto dall’intrusività quanto dall’astrazione e con il senso critico dei propri limiti, nel contesto della situazione pedagogica data e del sistema micropolitico ed ideologico-istituzionale in cui è inserita.

LA STRUTTURA VERTICALE DELLA SCUOLA TRADIZIONALE: RELAZIONE DIADICA E TRANSFERT NON CONTROLLABILE

Un questionario somministrato ad insegnanti per indagare la loro rappresentazione dei fattori che influenzano l’apprendimento fa emergere un modello che si riduce ad <una diade- insegnante/alunno- > all’interno della quale avviene un passaggio unidirezionale dall’adulto al bambino. Il grande assente è il gruppo, nel senso che gli insegnanti sembrano avere di esso una visione riduttiva: per quanto concerne l’apprendimento, è visto come un fattore di disturbo o servo tutt’al più a permettere una <conversazione>. Il concetto di <conversazione>, nella risposta di un insegnante intervistato, suona anch’esso riduttivo, ben lontano da uno scambio creativo in grado di strutturare la personalità in senso dinamico e psicosociale. Vi è nella scuola un malinteso assai diffuso: si tende a credere che l’insegnante sia tanto più al servizio del singolo alunno quanto più si interessa a lui personalmente instaurando con lui una relazione diadica. L’errore è grossolano. In realtà, anche quando l’insegnante reputa che un alunno meriti un’attenzione specifica, egli dovrebbe sapere che è fuor di luogo manifestare troppo apertamente quest’attenzione in un rapporto a due. E’ opportuno evitare qualsiasi forma di attenzione troppo personale che nel contesto della classe non potrà essere che inappropriata ed intrusiva.

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Per transfert si intende il passaggio o trasferimento di un’attitudine affettiva, che un soggetto ha nei confronti di una persona o di un gruppo, ad un’altra persona o gruppo. Si tratta di un fenomeno universale, praticamente sempre presente nelle interazioni umane di ogni tipo ed ampiamente soggetto al dominio dell’inconscio. Il fenomeno in sé non appartiene unicamente alla situazione analitica: esso si produce ogni qual volta l’alunno rivive, nel rapporto con il suo professore, i sentimenti o parte dei sentimenti (positivi o negativi) che lo legano ad un genitore o ad un’altra persona significativa della sua vita. Nella situazione scolastica tradizionale il transfert è ulteriormente complicato dalla presenza costante di un gruppo di pari costantemente sottoposto all’autorità, istituzionalmente enfatizzata, del docente. Il professore, che si trova in una posizione asimmetrica di autorità, e soprattutto quando aderisce a questo suo ruolo in modo essenzialmente rigido, devia su di sé i numerosi altri transfert che sorgono durante le interazioni all’interno del gruppo-classe:

Tutti i sentimenti positivi negativi sono concentrati sul leader e questi sentimenti comprendono anche i sentimenti che ogni membro vive verso l’altro membro. Avviene così che se un allievo si sente non accettato dal gruppo classe, o da una parte della classe, si sente anche non accettato dall’insegnante [Pontecorvo]

La trappola più comune in cui l’insegnante cade è di rispondere al transfert dell’alunno con un contro transfert che spesso si rivela non appropriato. L’educatore accorto trova spontaneamente la via giusta che più si adatta al singolo caso, ed il modo di percorrerla. I presupposti essenziali per comportarsi al meglio mi sembrano essere i seguenti: a) l’orientamento alla persona, affinata dalla formazione ricevuta; b) l’esperienza e la possibilità di condividerla nel corso di scambi di opinioni e confronti con i colleghi; c) l’efficacia <alleggerente> di una struttura istituzionale appropriata.

Le situazioni di scambio diadico e fortemente asimmetrico tra insegnante ed allievo, che sono la norma nella scuola tradizionale, con i suoi ruoli rigidi e prestabiliti, rendono assai difficile la gestione del transfert. A parte qualche indispensabile momento di dialogo, è opportuno che ogni azione, anche a beneficio del singolo, passi attraverso il gruppo (<Non è l’educatore che educa- diceva Makarenko[1983]- è l’ambiente>). La capacità del docente di gestire le dinamiche della classe è quindi centrale. La struttura verticale tradizionale della nostra scuola scoraggia lo stabilirsi di contratti mobili e condivisi all’interno di gruppi di parola. La sola parola che conti in questo contesto seriale è sempre asimmetrica e non è mai destinata a divenire un patrimonio condiviso, gestibile pariteticamente dal gruppo. La conseguenza grave di ciò è che il dialogo, nelle sue implicazioni dinamiche profonde, non è effettivamente gestibile.

IL RISPETTO DEL DESIDERIO DELL’ALUNNO E LA SUA DISCONFERMA ORGANIZZATA

Un segno visibile dell’assenza di una concezione della scuola come comunità democratica effettivamente in grado di realizzare cambiamenti al proprio interno,

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tenendo conto dell’apporto propositivo degli alunni, è la non adattabilità dello spazio. Nasce dunque l’idea di <una scuola nuova, razionale, che si adatta ai bambini>[Lodi 1995], in cui l’organizzazione dello spazio sia abbastanza flessibile, affinché ne sia rispettata la dimensione socioemotiva. Ciò fa pensare al concetto di spazio in quella che Bernstein chiama <pedagogia invisibile> e che egli oppone alla <pedagogia visibile>. In quest’ultima, gli spazi e il loro controllo sono nettamente classificati ed esistono frontiere molto forti tra uno spazio ed un altro. Nella prima, avviene il contrario e lo spazio potenzialmente a disposizione del bambino è molto più vasto. Il controllo, che ovviamente esiste anche nella pedagogia invisibile, è messo in atto tramite i processi della comunicazione interpersonale.

La socialità si costruisce mediante una relazione comunicativa basata sull’accettazione dell’altro e della sua intenzionalità. Questa relazione è per sua natura aperta. L’ampliamento della coscienza, intesa come piena espansione della capacità di linguaggio per se stessi, nasce e si sviluppa da un uso pienamente sociale del linguaggio. Ora, l’individuo più cosciente di se stesso, più consapevole delle relazioni tra se stesso e il mondo, è certo meno plagiabile, meno immediatamente sottomesso ed obbediente. La coscienza del singolo è tenuta sotto controllo dal potere oppressivo. E’ pur vero che l’istruzione scolastica pubblica nella sua forma attuale contribuisce alla crescita dell’autocoscienza e dei metalinguaggi negli alunni, ma lo fa in una forma politicamente controllata, cioè nei modi e con i limiti che permettevano di poter contare su cittadini tecnicamente abili ma non <eccessivamente> consapevoli della loro fondamentale libertà di pensiero. Clotilde Pontecorvo evoca l’opportunità che gli alunni, sin dalle scuole materne ed elementari, siano resi mentalmente più attivi e critici, educati insomma a pensare in modo autonomo, e prevede che ciò permetterà loro di fronteggiare con maggiore successo gli eventuali professori plagianti che potranno incontrare in seguito. Alcune esperienze pilota offrono la prova che la scuola può essere, in questo senso specifico, profondamente diversa; che vi si può stimolare la conversazione, la discussione e la cooperazione.

SCALA <<PERSONALE>> DEI VOTI, GIUDIZI PRECONCETTI ED ETICHETTATURE

Il comportamento didatticamente inaccettabile che consiste nello scartare a priori alcuni voti possibili scegliendosi una propria <<scala dei voti>> è universalmente ritenuto legittimo nella scuola italiana, al punto tale da poter essere esplicitato e registrato nei documenti ufficiali. Il restringimento della scala dei voti rispetto a quella ufficialmente prevista dalla normativa è un’operazione sottilmente perversa da un punto di vista psicopedagogico. Il docente che lo adotta dichiara spesso che un otto per lui vale dieci. Ora, il voto è un simbolo socialmente condiviso, il cui scopo è quello di esprimere un giudizio che sia universalmente interpretabile: appare insensato soggettivizzarne ulteriormente l’uso, attribuendo ai gradi della scala significati personali ed eliminando a priori alcuni gradi. Ciò significa fare del voto un uso personale anziché un uso pubblico. Ma da un punto di vista pedagogico-politico questo comportamento ha una sua coerenza occulta. L’insegnante lega a sé l’alunno in una relazione diadica asimmetrica. Egli si arroga il diritto di erigersi a giudice unico del <valore> dell’alunno, impedendo perfino che i suoi giudizi su di lui siano leggibili all’esterno. In un tale contesto vige, più o meno occulta, l’attribuzione di etichette, cioè l’abitudine di dare un giudizio di valore

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piuttosto rigido su ciascun alunno. E’ interessante notare che, nell’etichettatura, le cause instabili, come lo scarso impegno nel compito- che è tecnicamente da considerare, di volta in volta, come un fenomeno momentaneo-, tendono a trasformarsi in cause stabili: l’insegnante etichettante parlerà volentieri di alunno <svogliato>, <scansafatiche> e così via. Ma le etichette negative non solo le sole ad essere pregiudizievoli per l’autostima dell’allievo. Un’attribuzione di causa positiva stabile è altrettanto nociva, seppure in modo parzialmente diverso, quanto un’attribuzione di causa negativa stabile. Uno dei possibili nocumenti riguarda il senso di ingiustizia che l’alunno favorito può provare, e che può tramutarsi in senso di colpa. Un’ulteriore conseguenza può essere l’isolamento nei confronti del gruppo di compagni.

Se si vuole analizzare il rapporto insegnante-allievo, è necessario tenere presente la dimensione latente e sommersa del fare scuola. La scuola è una struttura di controllo prima ancora di favorire la crescita degli individui. Anche per il docente consapevole, d’altronde esiste un paradosso da affrontare:un insegnamento psicopedagogicamente sano deve guardarsi dall’attribuzione di etichette, eppure è necessario- a meno di non rivoluzionare assolutamente il funzionamento della scuola- che i professori valutino mediante voti, i quali sono (lo si voglia o no) una sorta di etichetta. Una soluzione possibile è lasciare di volta in volta disponibile ex novo, per qualsiasi individuo considerato, una valutazione ad ampio spettro ed indipendente dai voti già ricevuti. E’necessario altresì che il voto si limiti a definire una prestazione e non sia mai usato per definire un individuo.

LA COMUNICAZIONE A SCUOLA: SPAZIO E QUALITA’ DELLA PAROLA E DEL SILENZIO

Durante l’attività di classe, a volte rumorosa e caotica, fa parte dell’abilità tecnica dell’insegnante tenere a mente quali alunni gli fanno le domande o richiedono il suo aiuto ed in che ordine. È importante non lasciare nessuna richiesta senza risposta, non trascurare nessun alunno. Accade però assai spesso, soprattutto al primo anno delle scuole superiori, che gli alunni moltiplichino all’inverosimile i segnali di attenzione nei confronti del docente. E quando quest’ultimo cura di rispondere tutti nell’ordine, si accorge che molti alunni, dopo pochissimi minuti che hanno alzato la mano o posto una domanda, cascano dalle nuvole, o guardano da un’altra parte.

È un segno nefasto di disfunzione psicopedagogia della scuola. Il comportamento di questi alunni, infatti, è un vero e proprio segno clinico. Questo sintomo ci dice tre cose:

1) Nel momento stesso in cui gli alunni si agitano troppo per porre domande o attirare l’attenzione, noi leggiamo in questo comportamento una frustrazione pregressa di attenzione e contatto umano, che li porta a domandare troppa attenzione ed in modo compulsivo ed incontrollabile- anche al di là dell’effettiva curiosità e desiderio di apprendere.

2) Anche supponendo in essi un reale desiderio di sapere, noi cogliamo la lunga abitudine a non ricevere risposte adeguate dagli insegnanti. L’abitudine, quindi, ad utilizzare immediatamente dopo aver posto le domande, un meccanismo di difesa, di chiusura parziale alle eventuali risposte. Poiché esse si sono rivelate troppo spesso aggressive, ironiche, persino offensive.

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3) Non è stata messa in atto, mediante adeguate iniziative istituzionali all’interno della classe una strategia di creazione di specifici spazi di parola, in grado di assicurare ad ognuno il diritto effettivo all’espressione e all’esercizio, tramite l’espressione istituzionalizzata, di un’adeguata porzione di potere riconosciuto in seno al gruppo.

Poiché per il passato le risposte dell’insegnante sono spesso state dolorose per l’integrità dell’io e il rispetto di sé dell’alunno, o anche per il fatto, altrettanto doloroso, che queste risposte si sono fatte attendere invano per disattenzione dell’insegnante ma comunque non assunta da lui e non <riparata>; per tutti questi motivi, il ragazzo adotta, a sua stessa insaputa, un meccanismo paradossale di difesa. Siamo pertanto in presenza di un condizionamento negativo variamente orchestrato dalla scuola e dalla maggioranza degli insegnanti. Bisogna che l’insegnante sia sufficientemente cosciente dei suoi ruoli possibili nell’interazione con la classe, li gestisca con equilibrio e senso dell’opportunità ed aiuti gli alunni a situare a loro volta se stessi, assumendo il proprio discorso e vivendo appieno l’alterità dell’interlocutore.

§§§CAP.13: LE PRATICHE DELL’INSEGNARE E L’APPRENDIMENTO DEGLI INSEGNANTI

La peculiarità del loro lavoro- quella cioè di far imparare gli altri- tende a far dimenticare che anche gli insegnanti hanno bisogno di imparare, e di rinnovare costantemente le loro competenze professionali.

Nel senso comune e nella rappresentazione ingenua del <mestiere> dell’insegnante sono prevalenti almeno tre aspetti, strettamente interconnessi.

1) L’insegnamento è un’attività lavorativa squisitamente individuale: l’insegnante svolge il suo lavoro da solo ed è responsabile e artefice delle scelte e delle modalità con cui decide di strutturare le sue attività d’insegnamento.

2) Il luogo dell’attività lavorativa è essenzialmente l’aula. 3) L’insegnamento è un <mestiere> fatto di competenze dichiarative (conoscenza dei

contenuti, delle metodologie, della psicologia, della pedagogia, ecc) più che di competenze procedurali (come si programma, come si gestisce l’aula, come si entra in rapporto con gli studenti, ecc.). Inoltre, per fare l’insegnante esiste un quid fatto di capacità innate, doti individuali, passione e gusto difficilmente esplicitabili e soprattutto non soggetti ad apprendimento. Sono fattori disposizionali, tratti di personalità: uno o li ha o non li ha.

In realtà questa rappresentazione del mestiere dell’insegnante risulta parziale. L’insegnamento infatti non dovrebbe essere in alcun modo un mestiere che si riduce solo al momento della relazione di insegnamento-apprendimento. Esistono infatti tutta una serie di pratiche lavorative che pur avendo luogo <fuori>, <prima>, <dopo> e <attorno> all’aula, sono altrettanto essenziali per la realizzazione di una pratica professionale esperta: si pensi, ad esempio, alle attività di progettazione formativa, alle capacità cioè di costruzione di percorsi formativi alternativi e diversificati, alle capacità di usare efficacemente le risorse e i tempi scolastici per ottimizzare il lavoro in aula. Tutte queste competenze diverranno ancora più essenziali e centrali con l’attuazione della cosiddetta autonomia scolastica, che assegna appunto alle singole scuole compiti di indirizzi, gestione e realizzazione che sempre più allontaneranno la figura dell’insegnante da quella di un individuo il cui compito principale si limiti all’esecuzione, più o meno rigida, di programma stabilito nella dimensione del suo rapporto con gli

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allievi. Sarà sempre più necessario avere un’interazione, non superficiale e saltuaria, con gli altri operatori e con le altre funzioni organizzative-amministrative e diventerà centrale avere capacità sociali.

INSEGNANTI ESPERTI E INSEGNANTI NOVIZI

Nell’ambito degli studi sulle pratiche di acquisizione delle competenze un settore particolarmente ricco è quello che studia le differenze tra gli esperti e i novizi in diversi contesti professionali e lavorativi. Tale settore si può articolare in due linee di ricerca principali:

§ la prima –centrata sulla nozione di expertise- comprende gli studi condotti per lo più in contesti non naturali (laboratorio) e centrati sulla descrizione della competenza esperta di un singolo individuo;

§ la seconda – che ha come nucleo la conoscenza situata [Resnick]- comprende gli studi che hanno analizzato la competenza esperta <in azione> nei contesti lavorativi reali, considerando anche il peso dei fattori sociali e discorsivi nella costruzione e uso di tale competenza.

Mentre per la prima linea di ricerca, l’unità di analisi è l’individuo e l’oggetto delle analisi sono le sue attività e competenze cognitive, nella seconda l’unità di analisi è il sistema di attività situata e l’oggetto dell’analisi sono le pratiche sociali e discorsive di uso delle competenze.

La linea di ricerca che muove dall’expertise ha evidenziato alcune importanti differenze tra insegnanti esperti e insegnanti novizi:

1) la differenza non risiede tanto nel numero o nella qualità delle conoscenze possedute, ma piuttosto nella loro organizzazione; ad esempio Berliner ha descritto come gli insegnanti esperti abbiano una rappresentazione della situazione educativa più complessa e nella quale gli aspetti rilevanti sono interconnessi e organizzati;

2) le competenze degli esperti sono più contestualizzate di quelle dei novizi, ad esempio in termini di alternative di istruzione;

3) le competenze e le pratiche degli esperti sono più flessibili di quelle dei novizi. La linea di ricerca <situata> ha ulteriormente arricchito questo quadro, confermando tali risultati ma aggiungendo ad essi una caratterizzazione dell’uso di tali pratiche cognitive esperte. Le specificità cognitive delle pratiche di pensiero esperto sono:

a) Impostazione di problemi. Le pratiche di pensiero esperto non sanno solo contribuire alla soluzione di problemi, ma sono in grado soprattutto si permettere di <vedere> nuovi problemi. Una caratteristica essenziale della prestazione esperta è infatti quella di <definire> o <ridefinire> in modo innovativo e flessibile lo spazio problematico nel quale operare.

b) Soluzioni flessibili. Le pratiche di pensiero esperto sono caratterizzate da un alto grado di flessibilità cognitiva: lo <stesso> problema viene risolto ora in un modo ora in un altro, tenendo cono delle specificità (temporali, spaziali, di importanza, ecc.) del contesto di soluzione.

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c) Integrazione del contesto nel sistema di soluzione di problemi. Le pratiche di pensiero esperto incorporano e utilizzano gli elementi caratteristici del contesto in cui il compito si svolge (e cioè le altre persone, i vincoli, gli strumenti, gli artefatti, ecc.) all’interno del processo di definizione/soluzione di problemi. Gli esperti sono coloro che fanno più riferimento e utilizzano in modo più rilevante, oltre che flessibile, le risorse fisiche e sociali del contesto, mentre uno dei tratti caratteristici dei novizi è proprio un uso meno efficace e più limitato di tali risorse. I novizi fanno più riferimento alle competenze <nella loro testa> di quanto non facciano gli esperti ed è questa una delle ragioni della qualità peggiore delle loro prestazioni.

d) Ottimizzazione dell’energia. Le pratiche di pensiero esperto privilegiano modalità economiche di soluzione dei problemi, che permettono di risparmiare energia cognitiva e/o fisica. Questa costanza nel ricercare la modalità più economica può essere considerata una metastrategia che permette di spiegare l’adozione di diversi e flessibili modi di soluzione di uno stesso problema.

e) Dipendenza da conoscenze specifiche e particolari. L’abilità di discriminare tra informazioni rilevanti e “rumore di sfondo”all’interno di un campo di attività, invocando a sostegno di ciò sia precetti che pratiche, è una parte fondamentale di ciò che definiamo come “esseri esperti”

Le competenze professionali che caratterizzano gli insegnanti esperti e che sono situate nei contesti dell’insegnare si legano al concetto di curriculum script. Il curriculum script è un insieme di obiettivi e di possibili azioni ordinate allo scopo di insegnare un determinato contenuto. È quindi una importante competenza pedagogica e include, tra le altre cose, rappresentazioni da utilizzare per presentare diversi concetti e una conoscenza delle preconfezioni (giuste e sbagliate) degli studenti. Il curriculum script è flessibile e situato. Può essere inteso come una sorta di preprogrammazione che indichi un percorso di massima che, per essere efficace e utilizzabile, dovrà necessariamente essere modificato, tagliato o arricchito proprio in base alla valutazione continua e dinamica degli esiti della sua realizzazione in un contesto educativo reale. Si può distinguere tra micro e macroaggiustamenti del curriculum script, potendo questi riguardare aspetti strutturali e generali del piano di istruzione o piuttosto dettagli specifici della sua esecuzione. E sono proprio questi aggiustamenti progressivi che rendono conto della flessibilità e della situatezza della competenza dell’insegnante esperto.

Riassumendo i risultati ottenuti nell’analisi delle competenze esperte sia dalle prospettive più <individuali> che soprattutto da quelle più <sociali>, è possibile evidenziare alcuni punti centrali.

1) Luogo della competenza esperta: la competenza esperta non sta solo dentro la testa del singolo individuo, ma è piuttosto distribuita nel contesto sociale, fisico e materiale nel quale l’individuo opera.

2) Costruzione della competenza esperta: questa avviene principalmente attraverso le trattative empiriche con gli altri individui in un ambiente organizzato cioè in contesti sociali caratterizzati da pratiche comunicative di costruzione e diffusione della competenza esperta, le interazioni decisionali.

3) Le caratteristiche della competenza esperta: questa è flessibile, situata, specifica ed efficiente.

DALLA FORMAZIONE INIZIALE ALLE PRATICHE DI LAVORO ESPERTE

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Esistono in letteratura numerosi studi che hanno analizzato il rapporto che esiste, in diversi contesti professionali e lavorativi, nella costruzione di una competenza professionale esperta tra momenti di formazione istituzionale (di solito iniziale) e momenti successivi di apprendimento situato al lavoro. È stato evidenziato come l’uso e l’applicazione negli specifici contesti professionali delle conoscenze generali, formali ed esplicite apprese durante la formazione iniziale ed accademica degli insegnanti costituisca un processo assai problematico: le competenze accademiche rimangono per lo più inerti, separate e non vengono integrate con quanto viene costruito in termini di competenza professionale nel corso del lavoro stesso. In questa prospettiva, per lo studio dell’acquisizione della competenza professionale degli insegnanti, un costrutto centrale per l’analisi dei cambiamenti delle forme di partecipazione alle pratiche lavorative è quello delle comunità di pratiche, definite come <un insieme di relazioni durature tra persone, attività e mondo, in connessione e parziale sovrapposizione con altre comunità di pratiche> e come <aggregazioni informali definite non solo dai loro membri, ma dal condividere i modi con cui si fanno le cose e si interpretano gli eventi>. È dunque evidente il legame tra comunità di pratiche e apprendimento: la comunità di pratiche è il contesto sociale in cui hanno luogo l’apprendimento e il lavoro; le specifiche competenze e conoscenze della comunità non stanno separatamente nella testa di ognuno di suoi membri, ma distribuite nella sua organizzazione e struttura sociale. Tale prospettiva evidenzia quindi il carattere non individuale della competenza esperta e delle modalità con cui si diventa esperti: anche l’insegnante non lavora in un vuoto sociale e anche se la caratterizzazione attuale della professione tende a sottostimarne gli aspetti sociali, è anch’esso inserito in una comunità di pratiche professionali più o meno ampia, quale quella costituita dagli altri insegnanti della scuola, dalla comunità degli insegnanti di una certa materia, dalla comunità di insegnanti che si riconoscono in una certa associazione, e così via. Ad esempio un insegnante che entri per la prima volta a lavorare in una scuola, trova al suo interno una comunità di pratiche lavorative, organizzative, gestionali e comunicative che caratterizzano quel contesto in modi peculiari rispetto ad altri. Il suo ingresso lavorativo non può che essere caratterizzato da una socializzazione a tali pratiche sociali, più o meno, condivise. Ed è solo a partire da una socializzazione a tali pratiche che è possibile innescare processi di superamento di tali vincoli e una loro innovazione anche creativa.

Il costrutto della Partecipazione Periferica Legittimata viene proposto proprio come un descrittore del coinvolgimento delle persone in pratiche sociali che hanno l’apprendimento come loro aspetto integrante. L’apprendimento è quindi visto come una progressione nelle forme di partecipazione alle attività sociali delle comunità di pratiche cominciando da una partecipazione <periferica> alle attività e muovendosi poi progressivamente, all’aumentare delle capacità, verso una piena e <centrale> partecipazione all’attività stessa. È quindi attraverso la partecipazione a specifiche comunità di pratiche che anche l’insegnante può apprendere gran parte della sua competenza professionale, in una sorta di apprendistato. L’immersione nelle pratiche lavorative non è quindi solo un momento di applicazione di conoscenze acquisite in una fase precedente e <formale>, ma si configura chiaramente come un momento specifico di apprendimento situato di competenze nuove e strategiche. Per diventare insegnanti esperti è quindi necessario un periodo più o meno lungo di apprendistato all’interno del contesto sociale e organizzativo della scuola, che nella situazione italiana è ancora tutto

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da definire e disegnare come momento formativo specifico ed essenziale del percorso per diventare insegnanti. Non tutte le comunità lavorative sono buoni contesti di socializzazione lavorativa, per questo è stata introdotta la nozione di <orizzonte di osservazione> per intendere la porzione di contesto lavorativo che è disponibile come contesto di apprendimento per ogni partecipante all’attività. Però nelle scuole l’insegnante novizio è lasciato solo e il suo orizzonte di osservazione è l’aula, non la scuola con le sue pratiche, i suoi strumenti e soprattutto gli altri insegnanti: in questi casi il processo di costruzione di una competenza professionale esperta è lungo, difficoltoso e sostanzialmente inefficiente.

LA COSTRUZIONE SOCIALE DELL’INNOVAZIONE LAVORATIVA E ORGANIZZATIVA NELLA SCUOLA

Il mestiere dell’insegnante è dunque una pratica lavorativa sociale: l’insegnamento si realizza in contesti organizzativi definiti, gli insegnanti formano comunità di pratiche, composte di membri più o meno periferici, e più o meno centrali che assicurano il mantenimento, la costruzione e l’innovazione delle proprie competenze professionali. Per impostare qualsivoglia progetto di formazione/aggiornamento/innovazione è quindi necessario considerare come unità di analisi privilegiata la comunità di pratiche degli insegnanti, piuttosto che il singolo insegnante. È infatti solo attraverso la costruzione di un patrimonio di conoscenze e competenze comuni alla comunità di pratiche degli operatori scolastici che possono nascere progetti di innovazione organizzativa ed educativa. I modi di eseguire in modo competente le pratiche lavorative dimostrano una notevole creatività e capacità di apprendimento situato da parte di coloro che li mettono in atto; si potrebbe infatti dire che una misura dell’intelligenza individuale è proprio il grado di creatività delle strategie con cui ognuno svolge e affronta il proprio lavoro. Ed è allora necessario trovare modalità efficaci di far circolare queste <intelligenze>, di far diventare queste forme di competenza individuale delle competenze organizzative patrimonio comune delle comunità di pratiche, e non solo delle biografie individuali. È necessario perciò creare spazi e momenti di lavoro comune, quali ad esempio le tante vituperate riunioni: queste ultime da momenti formali e superficiali, quali sono quasi sempre, possono infatti diventare, adottando particolari vincoli organizzativi, temporali e gestionali, luoghi specifici di definizione e realizzazione di progetti comuni, di costruzione sociale di decisioni in merito agli aspetti organizzativi, educativi e gestionali del sistema <scuola>. L’organizzazione scuola ha assoluto bisogno del contributo che i suoi principali operatori possono dare ai processi di innovazione. Solo attraverso l’esplicitazione, la messa in comune e in circolazione del patrimonio già esistente di competenze ed incompetenze è possibile innestare processi di apprendimento organizzativo. Il problema di molte competenze professionali infatti è quello di integrare conoscenze accademiche e conoscenze situate, cioè di sapere <teorizzare sulla pratica e particolarizzare sulla teoria>. Il novizio va dunque aiutato a costruirsi l’idea che l’insegnamento si configuri sempre come scelta all’interno di un repertorio di azioni educative. Anche i corsi di aggiornamento, che costituiscono la pratica normativamente prevista per la formazione continua degli insegnanti, possono essere utilizzati come momenti di costruzione di nuove modalità di insegnamento-apprendimento. A patto però che siano finalizzati, più che alla trasmissione di conoscenze dichiarative e procedurali, all’attivazione di legami lavorativi reali e significativi tra gli insegnanti e alla messa in comune- tra novizi ed esperti, tra

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competenti e meno competenti- delle loro pratiche lavorative. In tali progetti dovrebbe essere privilegiata l’interazione sociale tra insegnanti, che costituisce una delle più preziose fonti di apprendimento informale, in cui sia possibile una condivisione sociale dei compiti e un uso contestualizzato di strumenti, che incorporino al loro interno elementi di apprendistato.

APPRENDIMENTO-APPRENDISTATO

L’uso del termine apprendistato, che all’interno della prospettiva situata sostituisce <polemicamente> quello di apprendimento, serve appunto a sottolineare come le pratiche di acquisizione delle competenze siano pratiche situate, graduate e inserite in contesti di attività e nelle quali è centrale in concetto di partecipazione ad attività congiunte. Nell’apprendistato è previsto poco insegnamento nel senso tradizionale del termine, ma si assegna comunque un giusto rilievo a ruolo di guida e di assistenza da parte degli esperti.

LE RIUNIONI

Le riunioni possono essere ottimizzate ponendo attenzione ad alcuni vincoli organizzativi e gestionali, tra i quali particolarmente essenziali sono:

- Tempi: fissare un tempo di inizio ma anche quello di fine,e non superare le due-tre ore; - Numero partecipanti: limitato numero di persone, non superare le otto-dieci; - Ordine del giorno condiviso: aiuta la discussione che tutti i partecipanti sappiano in anticipo

quali argomenti saranno trattati e con che priorità; - Condivisione materiali di riferimento: se si discute una legge, è essenziale perché la

riunione sia proficua che tutti abbiano potuto leggere tale documento prima della riunione. - Disposizione spaziale: anche dettagli spaziali quali ad esempio la disposizione dei

partecipanti possono influenzare l’andamento della situazione interattiva: ad esempio, essere seduti in modo da poter vedere tutti è un modo per sostenere un’interazione efficace.

§§§CAP.14: GLI INSEGNANTI E LE TECNOLOGIE MULTIMEDIALI

L’avvento dei personal computer e la loro prima introduzione nelle scuole negli anni ’70 ha segnato l’inizio di un nuovo modo di pensare e fare didattica. Sono passati da allora trent’anni ed ora si parla di introduzione della multimedialità come nuovo modo di affrontare l’insegnamento. Il programma ministeriale di sviluppo delle tecnologie didattiche nel sistema scolastico si propone come finalità di modificare e integrare la didattica con un’attività di insegnamento e apprendimento in un ambiente caratterizzato dalla presenza di più tecnologie didattiche, con particolare riguardo ai personal computer, anche multimediali, e al lavoro in rete. Le tecnologie didattiche possono favorire nuove forme di dialogo fra scuola e realtà giovanile, rompendo l’isolamento della classe e della scuola con il mondo esterno.

UN BREVE EXCURSUS STORICO

Nel campo delle tecnologie didattiche si sono verificati negli ultimi vent’anni cambiamenti profondi nel modo di utilizzare il computer in campo educativo. I primi

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programmi ad entrare nelle scuole sono stati i programmi di tipo CAI (Computer Aided Instruction), che si rifanno alle tecniche dell’istruzione programmata; propongono strategie educative di tipo comportamentista. Scopo dell’educazione è la trasmissione di conoscenze da un esperto ad un novizio; per trasmettere tali conoscenze è necessario operare in modo scientifico definendo obiettivi e mezzi per il loro raggiungimento. Così questi programmi propongono sequenze didattiche basate sul meccanismo del rinforzo: per ogni risposta esatta è previsto un rinforzo positivo che può assumere la forma dell’elogio o della possibilità di andare avanti ed accedere ad altre informazioni o quesiti. In tali programmi non vi è spazio per l’iniziativa dell’allievo che deve limitarsi a seguire i percorsi e rispondere alle verifiche di apprendimento proposte dal software.

I programmi nati all’interno dell’approccio cognitivista di elaborazione umana dell’informazione, che considera l’uomo come puro sistema di elaborazione di informazioni, sono programmi di tipo ICAI (Intelligent Computer Assisted Instruction) o ITS (Intelligent Tutoring System). Sono programmi più flessibili rispetto ai loro predecessori, sono in grado di imparare, cioè di modificare il proprio comportamento in base all’esperienza e di adottare strategie diverse con studenti diversi.

Verso la fine degli anni ’70, accanto all’uso del computer come tutor, cioè come guida all’istruzione, che è proprio dei programmi di tipo tutoriale, appaiono due altre categorie di uso educativo dell’elaboratore, come strumento e come discente; non più quindi colui che insegna all’allievo ma colui che apprende dallo studente stesso. È il caso ad esempio del linguaggio Logo. In quegli anni si andava sempre più affermando l’approccio costruttivista, che considerare chi impara come colui che costruisce la propria conoscenza interagendo con l’informazione ed interpretandola. Si tratta di un nuovo cognitivismo che ha avuto come espressione psicopedagogia il costruttivismo sociointerazionista. Principi fondamentali di tale paradigma sono la concezione della conoscenza come un prodotto socialmente e culturalmente costruito e la consapevolezza del ruolo dell’interazione sociale nella costruzione della conoscenza.

IL LINGUAGGIO LOGO

La prima grande rivoluzione nel campo dell’uso didattico del computer viene offerta alla fine degli anni ’70 da Papert e dalla sua informatica cognitiva. Papert, collaboratore di Jean Piaget e professore al Massachusetts Institute of Tecnology, è il creatore del linguaggio Logo, un linguaggio di programmazione di grande semplicità, che offre un feedback immediato. Il bambino può disegnare sullo schermo figure geometriche dando semplici comandi (avanti, indietro, sinistra, destra) ad una <tartaruga> che si muove sullo schermo. Ma Logo è anche un linguaggio estremamente potente, grazie alla sua caratteristica più importante: la modularità. Logo possiede infatti un vocabolario di base, ma può imparare nuovi vocaboli e diventare così sempre più esperto.

Negli anni ’80 le scuole americane prima e quelle europee in un secondo tempo sono state positivamente contagiate dalle proposte di Papert di ribaltare i ruoli tradizionali offerti dai programmi tutoriali: non deve essere il computer a programmare il bambino, ma il bambino a programmare il computer. Nelle intenzioni del suo creatore, il Logo non è definibile solo come linguaggio di programmazione, ma è anche un ambiente e

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una filosofia educativa. È un linguaggio per imparare, ma non solo per imparare a programmare; è un linguaggio per imparare a pensare. Nel microambiente offerto dal linguaggio Logo il bambino è padrone della macchina e si trova a dover insegnare all’elaboratore a pensare, lanciandosi perciò nell’esplorazione del proprio modo di pensare. Ricerche successive di alcuni collaboratori di Papert hanno ridimensionato il mito del Logo come apprendimento diretto, nel quale i ragazzi imparano da soli per tentativi ed errori, ed hanno restituito all’insegnante il ruolo primario di guida all’apprendimento. Non basta porre un ragazzo di fronte alla <tartaruga> Logo perché tutte le sue difficoltà in campo matematico siano superate; è necessario un attento intervento dell’insegnante che deve essere in grado di controllare il processo educativo, sapendo quando è necessario intervenire e quando è meglio lasciare che i bambini imparino da soli, attraverso tentativi ed errori, o attraverso la collaborazione fra pari.

IL COMPUTER COME STRUMENTO PER SCRIVERE, COMPIERE RICERCHE, COMUNICARE

Sempre negli anni ’80 nelle scuole italiane il personal computer comincia ad essere utilizzato come strumento per elaborare testi, gestire ed organizzare archivi di dati, utilizzare forma diverse di presentazione delle informazioni: testi fra loro collegati, tabelle, grafici, archivi. L’uso del computer va così estendendosi ad insegnamenti diversi da quelli matematico-scientifici, tradizionalmente legati ad esso. Il computer viene così utilizzato come strumento flessibile, che permette volta per volta di scrivere e pubblicare un testo, creare archivi di storie da completare, costruire il giornalino scolastico, comunicare con studenti di altre scuole, compiere ricerche su basi di dati già costruite, o organizzare ed archiviare i dati. Il computer aiuta inoltre ad evidenziare il carattere pubblico dell’attività dello scrivere. Si scrive per qualcuno, per far conoscere le proprie idee, per essere letti dagli altri, e la possibilità di stampare, anche in più copie, ciò che è stato scritto permette una più agevole circolazione del prodotto.

MICROMONDI, SIMULAZIONI, IPERTESTI

Sulla scia della rivoluzione portata da Papert e dalla sua proposta di offrire agli studenti <ambienti per pensare>, gli sforzi dei ricercatori si sono rivolti a sviluppare sistemi che forniscano ambienti di apprendimento di tipo esplorativo. Espressione successiva all’approccio costruttivista alle tecnologie dell’educazione sono quindi ambienti di simulazione o di gioco didattico. Sono tutti ambienti che cercano di realizzare ciò che Jonassen definisce come apprendimento significativo, un apprendimento cioè che sia principalmente attivo, costruttivo e collaborativi; ambienti che inoltre si propongono come strumenti cognitivi, strumenti che amplificano il pensiero e facilitano la costruzione della conoscenza.

LE ATTESE DELLA MULTIMEDIALITA’

Il termine multimedialità è entrato da qualche anno nel linguaggio della scuola con differenti accezioni. Secondo Calvani, parlando di multimedialità, ad un primo livello oggi si può intendere un ambiente informatico capace di gestire audio e video oltre che testi ed immagini statiche. È un grandissimo cambiamento rispetto a pochi anni orsono, quando il mezzo computer per comunicare si serviva fondamentalmente della parola scritta. Ad un secondo livello, per multimedialità si intende ciò che più propriamente va

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sotto il nome di ipermedialità, cioè un’organizzazione reticolare di informazioni multimediali. Non si tratta di insegnare informatica né di creare nuovi sussidi più sofisticati per l’insegnamento tradizionale, ma di utilizzare le tecnologie multimediali nella didattica quotidiana. L’introduzione e la possibile manipolazione di forme di comunicazione diverse dalla parola scritta può stimolare nuove forme di apprendimento. Olson ha infatti osservato che l’intelligenza è un’abilità che si sviluppa in un determinato medium e che diversi tipi di media sollecitano diversi tipi di apprendimento. Ogni mezzo di comunicazione dà un contributo specifico allo sviluppo umano, ed è fondamentale in educazione poter utilizzare tutti i media nella loro specificità e complementarietà. Una didattica multimediale, che utilizza cioè differenti tipi di media e di linguaggi, non limitandosi al solo linguaggio verbale, può aiutare a sviluppare aspetti diversi della mente ed insegnare ai ragazzi ad aprirsi a prospettive diverse. Aprire la scuola al mondo della multimedialità significa inoltre poter utilizzare alcune delle caratteristiche più importanti che essa offre al mondo dell’educazione: l’interattività e la personalizzazione dei processi di insegnamento-apprendimento. L’interattività è data principalmente da ciò che unisce e gestisce i diversi linguaggi, il mezzo computer. La caratteristica principale dell’uso del computer è quella di consentire all’utente di intervenire e condizionare il processo in corso; il controllo può passare dal computer all’utente e viceversa, in modo alternato. La possibilità di personalizzare i processi di insegnamento-apprendimento è invece caratteristica principale di quella che è stata definita da Calvani multimedialità di secondo livello, l’organizzazione reticolare delle informazioni multimediali, cioè l’ipermedialità.

IPERTESTI E AMBIENTI IPERMEDIALI

Il primo ad immaginare un sistema ipertestuale è stato Vannevar Bush. Nel 1945 propone il progetto di una macchina, chiamata Memex, che dovrebbe funzionare in modo simile alla mente umana, consentendo di stabilire associazioni all’interno di materiale di tipo enciclopedico: da ogni elemento di informazione è possibile passare a qualsiasi altro. Il progetto di questa macchina si basava però sulla tecnologia disponibile nel tempo (microfilm proiettati su schermo, una tastiera, un insieme di leve e bottoni), ed il prototipo non fu in realtà mai realizzato.

Nel 1965 Theodor Nelson conia il termine <ipertesto>, riferendosi a <forme non sequenziali di scrittura congiunta tramite collegamenti>.

Con il termine ipermedia si viene poi ad intendere un sistema che applica metodi e tecniche ipertestuali alla gestione di informazioni di natura multimediale: le associazioni avvengono non solo con elementi linguistici, ma anche con altri sistemi simbolici (suono, grafica, animazione). Un ipermedia è dunque una forma di organizzazione non lineare di informazioni provenienti da diversi media. Comunemente è costituito da una serie di piccole unità informative, chiamate nodi, collegate fra loro attraverso legami o collegamenti che definiscono le relazioni logiche che esistono fra queste unità informative. Un ipermedia è quindi definibile come una rete più o meno complessa di informazioni e relazioni. La caratteristica principale dei <nodi> delle unità informative, è quella di avere una <autosufficienza comunicativa>. Un nodo è in genere costituito da una videata, ma può anche essere rappresentato da un’immagine, una parola, una frase.

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La non linearità dell’informazione ipermediale è data dalla presenza di legami (links). In pratica si tratta di comandi che consentono il passaggio da un nodo all’altro.

In un documento ipermediale si possono presentare due tipi di collegamenti: referenziali e di organizzazione. I collegamenti referenziali pongono in relazione due punti qualsiasi dell’ipertesto, che presentino fra loro un’associazione di qualsiasi tipo. Un collegamento organizzativo ha invece natura gerarchica, ed esprime una relazione di subordinazione o sovraordinazione fra concetti ed informazioni.

Questo ci porta ad affrontare un altro argomento: quello del tipo di struttura che un documento ipermediale può presentare. Jonassen parla di ipertesti non strutturati e ipertesti strutturati. Nei primi una fittissima rete di legami collega ogni nodo ad un altro, ed ogni nodo può rappresentare l’accesso alla base di dati. Nei secondi è presente invece un’esplicita organizzazione dei nodi e dei legami.

Una terza forma di organizzazione ipertestuale è di tipo gerarchico. Le pagine ipermediali sono collegate fra loro attraverso una struttura ad albero, in cui da un nodo principale si discende via via verso nodi subordinati. Anche se in realtà è la struttura meno ipertestuale, è utilizzata spesso nelle applicazioni ipermediali che comunemente si trovano sul mercato.

Chi legge un documento ipermediale deve muoversi all’interno delle unità di informazione, utilizzando i legami come mezzo di spostamento all’interno del mare di conoscenze fornite dal documento. L’esplorazione di un documento ipertestuale viene chiamata <navigazione>.

PROBLEMI LEGATI ALL’USO DEGLI IPERMEDIA

Uno degli aspetti negativi che si sono evidenziati nell’uso degli ipermedia in educazione è quello del possibile disorientamento, oltre che del sovraccarico cognitivo e della possibile distrazione da parte del lettore-studente. Un’attività di studio che si avvale di documenti di tipo ipermediale richiede grande sforzo e concentrazione per fronteggiare contemporaneamente più compiti e più percorsi, per tenere a mente i collegamenti compiuti e per ricrearsi una mappa cognitiva del materiale consultato. Questo può portare a ciò che alcuni autori definiscono sovraccarico cognitivo. Inoltre la grande quantità di materiale presentato e la molteplicità di sistemi simbolici utilizzati possono rappresentare per un ragazzo curioso una fonte di distrazione, invitandolo a girare di qua e di là senza una strategia proficua e senza soffermarsi su nessuna informazione.

In seguito a ricerche e ad esperienze effettuate in scuole italiane, si sono delineate alcune linee guida per la progettazione di ipermedia per attività di studio, sia per far fronte ai problemi di distrazione, sia per motivare gli studenti all’esplorazione dell’ipermedia stesso. Per prima cosa è importante che la navigazione all’interno dell’ipermedia sia sostenuta da un compito dotato di significato, che sostenga la motivazione degli studenti. Inoltre l’applicazione deve fornire un supporto alla collaborazione, proponendo attività che possano essere condivise con l’intera classe, favorendo così il confronto e la costruzione comune di significati. È possibile anche ipotizzare l’aiuto di una guida procedurale, che a richiesta aiuti gli studenti ad

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affrontare meglio il compito proposto, a scegliere le informazioni rilevanti. Questa guida però non deve essere troppo rigida, ma lasciare libertà agli studenti di chiedere o non chiedere aiuto e di esplorare liberamente il materiale a disposizione.

LE POTENZIALITA’ EDUCATIVE DELL’USO DI IPERMEDIA PER ATTIVITA’ DI STUDIO

La maggior parte dei ricercatori sono d’accordo nel sottolineare una notevole quantità di aspetti positivi legati all’uso degli ipermedia in educazione. Innanzitutto, le applicazioni ipermediali, organizzando una rete complessa di informazioni articolata in nodi e connessioni non lineari, usando diversi linguaggi o media, possono operare come amplificatori culturali e favorire un modo di pensare associativo, complesso, personale. Le tecnologie ipertestuali ed ipermediali si prestano ad assecondare il modo in cui l’uomo <naturalmente> pensa, e che questo avviene soprattutto grazie a due delle caratteristiche di tali tecnologie: l’associare le informazioni e il far interagire insieme diversi codici linguistici. Studi hanno dimostrato che le immagini mentali facilitano la memorizzazione delle conoscenze, che risultano dunque maggiormente efficienti in occasione dell’impiego del doppio registro, verbale ed iconico, rispetto alla rappresentazione esclusivamente proposizionale. Gli ipermedia possono quindi costituire un efficace supporto ai processi di ideazione ed elaborazione della conoscenza.

Le potenzialità educative degli ipermedia derivano principalmente dalla possibilità di raccogliere in poco spazio un grande quantità e varietà di informazioni di accedere ad esse con facilità e rapidità, gratificando immediatamente le richieste di maggior informazione poste dall’utente. Inoltre un ipertesto è un ambiente non direttivo, che mette in grado chi apprende di prendere decisioni rispetto al proprio percorso, mantenendo sempre il controllo del proprio apprendimento. La possibilità offerta di scegliere la propria rotta favorisce la personalizzazione dei percorsi di apprendimento. Un sistema ipertestuale favorisce quindi ciò che da molti anni è considerato un fattore importante dell’apprendimento: porre il processo di istruzione sotto il controllo del discente. Chi studia ha a disposizione uno strumento flessibile ed interattivo e può seguire un percorso personale di ricerca dell’informazione e di costruzione delle competenze.

COSTRUIRE IPERMEDIA A SCUOLA

È da sottolineare però che, per quanto riguarda l’uso della multimedialità nelle scuole, la modalità più diffusa non è tanto quella della fruizione delle applicazioni ipermediali presenti in commercio o create da gruppi di insegnanti, ma la progettazione e la costruzione di applicazioni multimediali da parte degli studenti stessi. Sono due modi differenti di utilizzare gli ipermedia, entrambi validi se usati da insegnanti attenti e capaci di sollecitare nell’allievo un apprendimento attivo. Costruire insieme un prodotto ipermediale non significa semplicemente imparare a programmare, ma principalmente imparare a costruire insieme qualcosa che risulti motivante e significativo anche per altri. Costruire ipermedia a scuola significa agire sul piano sociale agire sul piano sociale, consentendo di allestire ambienti di lavoro cooperativo. Progettare e costruire ipermedia significa anche sollecitare abilità di organizzazione di concetti, capacità di creare collegamenti fra un concetto e l’altro, costruendo una sorta di mappa

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concettuale degli argomenti che si stanno trattando. Importante è che l’insegnante non si lasci prendere dalla preoccupazione del <prodotto>, dalla smania di ottenere un’applicazione simile a quelle prodotte dall’editoria elettronica, ma dedichi attenzione e tempo ai processi di pianificazione del lavoro comune e di ricerca dei significati, in modo che gli allievi siano protagonisti attivi del proprio percorso di apprendimento.

LA RETE INTERNET, ESPLORARE E COMUNICARE

Uno dei più grandi ipermedia che si possono attualmente navigare è offerto dalla rete Internet. Attraverso il World Wide Web –il sentiero che unisce tutto il mondo- è possibile esplorare, individuare, recuperare informazioni che si trovano fisicamente in diverse parti del mondo.

Due possono essere gli usi principali della telematica nella didattica: nella prima direzione la rete Internet viene considerata come una potente risorsa per l’accesso all’informazione, nella seconda viene considerata come un magnifico strumento per la comunicazione interpersonale.

La quantità di documenti presenti sulla rete è enorme, la facilità di accesso data dall’organizzazione ipertestuale delle pagine rende sicuramente stimolante e divertente l’attività di raccolta delle informazioni. Per poter utilizzare la rete Internet alla ricerca di informazioni è però necessario avere una forte motivazione, pazienza e capacità di selezione. È un’attività sicuramente riservata a studenti più grandi, dalla scuola media in poi. L’uso dei motori di ricerca, strumenti che consentono di ritrovare nella rete documenti attraverso l’uso di parole chiave, può rappresentare poi una palestra per lo sviluppo di abilità logiche.

Ma una direzione forse più interessante per la didattica è utilizzare la rete per mettere in atto attività di comunicazione e collaborazione a distanza fra scuole. Sia in Italia che in altri paesi sono state attuate molte esperienze di apprendimento collaborativi attraverso l’uso delle reti, con risultati apprezzabili ai fini educativi. Ad un primo livello si hanno esperienze di scambio interpersonale attraverso la posta elettronica. È la prosecuzione delle attività di <corrispondenza scolastica> introdotte nella scuola da Celestin Freinet e diffuse in Italia dal Movimento di cooperazione educativa. Ad un secondo livello abbiamo esperienze di apprendimento cooperativo, che si radicano nei paradigmi costruttivista e socioculturale. Si tratta di esperienze che si pongono come fine quello di costituire comunità di apprendimento a distanza.

GLI INSEGNANTI E IL COMPUTER

L’introduzione delle nuove tecnologie nella scuola non deve essere una operazione puramente tecnologica, basarsi cioè sulla semplice alfabetizzazione degli insegnanti. È necessario che gli insegnanti abbiano l’occasione di riflettere sui cambiamenti che l’uso educativo della multimedialità può e deve arrecare alla didattica. Si dice che l’uso della multimedialità porterà grandi cambiamenti nel modo di fare scuola. Si passerà dalla vecchia lezione cattedratica ad un apprendimento attivo e collaborativi. Ma tutto questo avverrà davvero?

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Il cambiamento non è garantito. È sempre possibile utilizzare i nuovi sistemi per mantenere vecchi sistemi formativi. Spesso la scuola assorbe la nuova tecnologia rinchiudendola in spazi e tempi ad essa dedicati. I cambiamenti che l’introduzione di una tecnologia può produrre in un determinato ambiente sono minimi se lo strumento si inserisce pienamente nella struttura già esistente. Così un laboratorio informatico in cui l’insegnante fa lezione trasferendo dal suo video schermate sui video degli alunni è funzionale ad un modo tradizionale di concepire l’insegnamento, e comporta solo un aggiornamento tecnologico. L’introduzione del computer per scrivere, fare giornalini, costruire applicazioni multimediali e comunicare con altre scuole richiede invece un’organizzazione che preveda tempi di lavoro collettivo, tempi di lavoro di gruppo e tempi di lavoro individuale. Richiede un cambiamento nel modo di fare scuola, nel modo di concepire le attività di insegnamento-apprendimento.

Deve dunque cambiare prima di tutto il ruolo dell’insegnante. L’insegnante non è più l’unico esperto di riferimento; esiste una comunità, e l’insegnante diviene il direttore d’orchestra, colui che sollecita, sostiene ed orchestra le attività degli insegnanti. Gli studenti in piccoli gruppi organizzano le proprie attività e il ruolo dell’insegnante, la sua professionalità, consiste nel coordinare le attività e pianificarle, nell’incoraggiare e favorire lo scambio, la collaborazione, il confronto creando nella classe una <comunità di apprendimento> che sappia anche aprirsi al mondo esterno. Lo studente è visto come un costruttore attivo della propria conoscenza, un novizio intelligente che sa autoregolare le proprie strategie di apprendimento, che pur non avendo tutte le conoscenze in un certo dominio sa come ottenerle.

Cambia l’organizzazione degli spazi e dei tempi e svanisce la netta differenziazione tra discipline. Un’attività di progettazione e costruzione di oggetti multimediali per sua natura va oltre i rigidi confini delle discipline; gli studenti si muovono trasversalmente alle discipline, passando attraverso connessioni, nessi, legami da un blocco di sapere ad un altro.

Perché si possa arrivare realmente ad un nuovo modo di insegnare è necessario da parte degli insegnanti un approccio positivo alle nuove tecnologie; assumere un atteggiamento di curiosità e flessibilità verso il mezzo e le attività che esso consente.

§ La necessità più avvertita dagli insegnanti che si sono accostati all’uso della multimedialità è quella di una formazione psicopedagogia e didattica su come gestire l’attività multimediale all’interno della classe e come integrare le attività nel curricolo. Molti insegnanti hanno riferito la difficoltà di dover gestire una classe numerosa e vivace all’interno di un laboratorio informatico. Probabilmente il problema consisteva proprio nell’approccio di tipo tradizionale che questi docenti volevano avere con l’attività informatica: tanti alunni disciplinati che ascoltano ciò che dice l’insegnante e ripetono automaticamente i gesti da compiere al computer. Se la classe è abituata a lavorare a gruppi e i ragazzi si sentono interessati e partecipi del lavoro comune, i problemi di gestione disciplinare della classe all’interno del laboratorio sicuramente diventano irrilevanti.

§ Un secondo problema sollevato dagli insegnanti è stato quello dell’integrazione dell’attività nei curricoli e del mancato svolgimento dei programmi. Molto spesso

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lavorare con la multimedialità richiede una gran quantità di tempo ed alcuni insegnanti hanno osservato che il rapporto tempo impiegato/risultati ottenuti in termini di conoscenze acquisite non è sempre positivo. Inoltre si rischia di dover sorvolare su una buona parte del programma per affrontare, sia pure in modo approfondito, un solo argomento. Anche qui siamo di fronte ad un problema di impostazione didattica. Probabilmente una grande quantità di tempo è presa dall’imparare a programmare, ad utilizzare lo strumento. Vi sono in commercio prodotti che facilitano il lavoro di programmazione. Ogni studente può così con facilità divenire autore ipermediale. Inoltre il computer deve divenire uno strumento al servizio della didattica quotidiana, non prendere uno spazio a sé in concorrenza con il normale svolgimento del programma. Per questo è molto importante la possibilità di avere o trasportare un computer all’interno delle classi. Lo strumento deve essere accessibile nella noemale attività per scrivere, prendere appunti utili all’attività di classe, prender visione(attraverso un proiettore) di immagini particolarmente interessanti pubblicate su CD-ROM. Vi saranno poi particolari attività progettate collettivamente dagli insegnanti di classe che si potranno realizzare all’interno del laboratorio, in momenti deputati.

La scommessa della multimedialità nella scuola sembra dalle prime osservazioni risultare vincente; lo sarà se gli insegnanti sapranno utilizzare le nuove tecnologie in modo flessibile e funzionale ad una didattica che ponga lo studente al centro del processo educativo.