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SOTTOMESSO MAGGIO 2013, ACCETTATO DICEMBRE 2013 © Giovanni Fioriti Editore s.r.l. 303 Psichiatria e Psicoterapia (2013) 32, 4, 303-315 PROMUOVERE LE NARRAZIONI AUTOBIOGRAFICHE E LE ABILITÀ METACOGNITIVE NELLA TERAPIA METACOGNITIVA INTERPERSONALE DEI DISTURBI DI PERSONALITÀ Giancarlo Dimaggio, Pierfrancesca Carabelli, Luisa Buonocore, Raffaele Popolo, Giampaolo Salvatore Introduzione Il modello metacognitivo-interpersonale scompone i disturbi di personalità in aree e processi di funzionamento mentale e interviene su di essi e sui loro circuiti di rinforzo. Gli elementi in questione sono: stati mentali problematici, disfunzioni metacognitive, schemi e cicli interpersonali disfunzionali, difficoltà nei processi di valutazione e di scelta e difficoltà nella regolazione dell’autostima. Lo scopo della Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI; Dimaggio et al. 2007, Dimaggio et al. 2010) è aiutare il paziente a identificare emozioni dolorose, pensieri stereotipati e negativi, capire i nessi psicologici di causa ed effetto tra idee, emozioni e comportamenti e, se possibile, favorire la formazione di rappresentazioni più ricche e articolate su se stessi e sugli altri. Con molti pazienti, in particolare con i pazienti con Disturbo di Personalità (DP), questi compiti sono complessi da realizzare. I clinici che si occupano di DP devono superare due principali ostacoli al trattamento: le difficoltà metacognitive, quindi la difficoltà a identificare e comprendere gli stati mentali e le emozioni propri e altrui, e le narrazioni impoverite, cioè l’incapacità di fornire ricordi autobiografici ricchi e sfumati, correlati a esperienza soggettiva. Questi pazienti, infatti, difficilmente hanno una storia da raccontare e, quando i terapeuti chiedono dettagli di episodi autobiografici, appare solo un paesaggio narrativo abbozzato. Affermazioni generalizzate, astratte e stereotipate sono la regola: questi pazienti non sono a conoscenza di dove e quando sorge un pensiero problematico, di chi stava interagendo con loro e hanno difficoltà a ricostruire la sequenza di azioni. Analogamente, altri possono identificare solo poche emozioni. Anche quando devono descrivere variazioni dell’arousal, la causa che ha provocato l’attivazione emotiva rimane a loro oscura, anche indipendentemente dagli interventi del clinico. Altri pazienti, invece, riescono a raccontare quello che pensano e sentono, ma la chiarezza delle loro descrizioni è controbilanciata dalla fermezza delle loro credenze specifiche. Queste sono difficili da relativizzare, perché i pazienti non sono in grado di prendere una distanza critica, un punto di vista diverso da cui osservare ciò che pensano e sentono, e capire che il loro pensiero non rispecchia la realtà, ma è un prodotto della loro mente. Le narrazioni autobiografiche impoverite e la limitata conoscenza dei propri stati mentali e affetti sono, quindi, grandi ostacoli al trattamento in quanto rendono difficile identificare i

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SOTTOMESSO MAGGIO 2013, ACCETTATO DICEMBRE 2013

© Giovanni Fioriti Editore s.r.l. 303

Psichiatria e Psicoterapia (2013) 32, 4, 303-315

PROMUOVERE LE NARRAZIONI AUTOBIOGRAFICHE E LE ABILITÀ METACOGNITIVE NELLA TERAPIA METACOGNITIVA INTERPERSONALE DEI

DISTURBI DI PERSONALITÀ

Giancarlo Dimaggio, Pierfrancesca Carabelli, Luisa Buonocore, Raffaele Popolo, Giampaolo Salvatore

Introduzione

Il modello metacognitivo-interpersonale scompone i disturbi di personalità in aree e processi di funzionamento mentale e interviene su di essi e sui loro circuiti di rinforzo. Gli elementi in questione sono: stati mentali problematici, disfunzioni metacognitive, schemi e cicli interpersonali disfunzionali, diffi coltà nei processi di valutazione e di scelta e diffi coltà nella regolazione dell’autostima.

Lo scopo della Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI; Dimaggio et al. 2007, Dimaggio et al. 2010) è aiutare il paziente a identifi care emozioni dolorose, pensieri stereotipati e negativi, capire i nessi psicologici di causa ed effetto tra idee, emozioni e comportamenti e, se possibile, favorire la formazione di rappresentazioni più ricche e articolate su se stessi e sugli altri.

Con molti pazienti, in particolare con i pazienti con Disturbo di Personalità (DP), questi compiti sono complessi da realizzare. I clinici che si occupano di DP devono superare due principali ostacoli al trattamento: le diffi coltà metacognitive, quindi la diffi coltà a identifi care e comprendere gli stati mentali e le emozioni propri e altrui, e le narrazioni impoverite, cioè l’incapacità di fornire ricordi autobiografi ci ricchi e sfumati, correlati a esperienza soggettiva.

Questi pazienti, infatti, diffi cilmente hanno una storia da raccontare e, quando i terapeuti chiedono dettagli di episodi autobiografi ci, appare solo un paesaggio narrativo abbozzato. Affermazioni generalizzate, astratte e stereotipate sono la regola: questi pazienti non sono a conoscenza di dove e quando sorge un pensiero problematico, di chi stava interagendo con loro e hanno diffi coltà a ricostruire la sequenza di azioni. Analogamente, altri possono identifi care solo poche emozioni. Anche quando devono descrivere variazioni dell’arousal, la causa che ha provocato l’attivazione emotiva rimane a loro oscura, anche indipendentemente dagli interventi del clinico.

Altri pazienti, invece, riescono a raccontare quello che pensano e sentono, ma la chiarezza delle loro descrizioni è controbilanciata dalla fermezza delle loro credenze specifi che. Queste sono diffi cili da relativizzare, perché i pazienti non sono in grado di prendere una distanza critica, un punto di vista diverso da cui osservare ciò che pensano e sentono, e capire che il loro pensiero non rispecchia la realtà, ma è un prodotto della loro mente.

Le narrazioni autobiografi che impoverite e la limitata conoscenza dei propri stati mentali e affetti sono, quindi, grandi ostacoli al trattamento in quanto rendono diffi cile identifi care i

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processi cognitivo-affettivi sottostanti al compromesso funzionamento interpersonale e che influenzare regolamentazione degli affetti. Queste difficoltà includono problemi nel formare e recuperare ricordi autobiografici specifici che sono alla base dello stabilirsi di un senso di identità personale (McAdams 2001). La capacità di formare memorie autobiografiche è un aspetto centrale del funzionamento psicologico della persona: essere in grado di recuperare i ricordi personali permette alle persone di formare rappresentazioni di loro stessi come esseri unici che esistono con continuità significativa nel corso del tempo; inoltre forniscono un contesto per dare un senso a ciò che accade nel vissuto interpersonale (Conway 2005, Singer et al. in press). Allo stesso tempo, alcuni pazienti faticano a costruire identità basate su autonarrazioni che includano qualità positive, risorse e senso di agency.

Pertanto senza un arricchimento delle narrazioni autobiografiche e una maggiore consapevolezza dei meccanismi psicologici alla base dei sintomi e disfunzioni sociali, è difficile delineare obiettivi per il cambiamento.

Diverse evidenze empiriche provenienti dalla ricerca in psicoterapia e dalla psicopatologia sperimentale, stanno iniziando a supportare le osservazioni cliniche (Dimaggio et al. 2002): le narrazioni autobiografiche impoverite (Spihnoven et al. 2009) e le disfunzioni nell’autoriflessività- un aspetto della più ampia capacità di comprendere gli stati mentali definita metacognizione (Dimaggio e Lysaker 2010, Semerari et al. 2007) o di mentalizzazione (Fonagy et al. 2002) – possono essere considerati degli obiettivi primari nella psicoterapia con pazienti affetti da DP (Bateman e Fonagy 2004, Dimaggio et al. 2007).

L’obiettivo del presente lavoro è descrivere le principali difficoltà narrative e di autoriflessione dei pazienti e come queste ostacolino il trattamento e la creazione di una buona relazione terapeutica. Successivamente, sarà descritto come i terapeuti possono agire per arricchire le narrazioni dei pazienti e per promuovere lo sviluppo di abilità metacognitive più elevate (Dimaggio et al. 2010, 2011, 2012). L’obiettivo generale del clinico è costruire la conoscenza psicologica e la comprensione necessaria al fine di favorire un buon funzionamento interpersonale e un’adeguata regolazione emotiva. Riteniamo che questa sia una parte centrale della terapia con tutti i pazienti con disturbo di personalità.

Per illustrare le difficoltà indicate e gli interventi tecnici necessari per superarle sarà utilizzato come esempio una psicoterapia di un paziente con Disturbo di Personalità, trattato con TMI. La procedura indicata suggerisce al clinico di dedicare tutto il tempo necessario a elicitare episodi autobiografici specifici e dettagliati mentre allo stesso tempo valuta attentamente le capacità autoriflessive dei pazienti evitando di coinvolgere i pazienti in ragionamenti mentalistici eccessivamente complessi.

Narrazioni autobiografiche impoverite

Per i pazienti affetti da DP è difficile spiegare perché soffrono e ciò che provoca i loro problemi. Molti descrivono le cause dei problemi in modo intellettualizzante o teorizzano sul perché le loro relazioni vanno male, senza fornire episodi relazionali che supportino le loro affermazioni (Dimaggio et al. 2007, Spinhoven et al. 2009). Ad esempio, possono notare che l’atmosfera sul lavoro è tesa o che le relazioni coniugali sono una fonte di disagio, ma quando

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il loro terapeuta chiede specifici episodi autobiografici che esemplifichino ciò che accade nella loro vita, essi non riescono a fornirne. Tendono, inoltre, a esternare la responsabilità delle loro difficoltà incolpando gli altri, senza fornire una chiara descrizione di ciò che gli altri e loro stessi in realtà hanno fatto, pensato o sentito nel momento specifico in cui sono sorti i problemi. Affermazioni come: “Ho sempre mantenuto le mie amiche a distanza perché voglio conservare la mia libertà”, “I miei rapporti vanno sempre male, perché gli uomini sono inaffidabili”, non riescono a fornire al clinico le informazioni necessarie per comprendere il paziente.

A oggi, lavori qualitativi e quantitativi hanno suggerito almeno 6 tipi specifiche difficoltà narrative dei pazienti con Disturbi di Personalità (Dimaggio e Semerari 2001, Lysaker et al. 2011, Dimaggio et al. 2012): 1) Narrazioni senza chiari confini di spazio e limiti di tempo: è difficile capire dove e quando

l’episodio abbia avuto luogo. 2) Quando l’episodio viene riportato si ha ampio uso di intellettualizzazione, non vi sono

dettagli che raccontino cosa è realmente accaduto tra le persone coinvolte.3) Le descrizioni degli altri presenti nell’episodio narrativo sono spesso superficiali e le

sequenze delle azioni e delle reazioni sono difficili da seguire.4) Il dialogo che si svolge tra i partecipanti è spesso ripetitivo e stereotipato; gli scambi

comunicativi, quando sono richiamati, tendono a seguire più una formula che a riflettere i ricordi di una conversazione unica.

5) Il tema narrativo risulta ridondante e la storia tende a essere stereotipata.6) Gli episodi narrati non hanno alcuna qualità pittorica che potrebbe consentire a un

ascoltatore di immaginare quello che è successo. I ricordi mancano di dettagli visivi, uditivi, di gusto, olfattivi, elementi che possano dare l’opportunità di cogliere la memoria come un’esperienza unica.

La ricerca ha suggerito che le narrazioni di molti pazienti con DP Evitante, Dipendente o Ossessivo-Compulsivo sono caratterizzate da una ridotta specificità (Spinhoven et al. 2005). Allo stesso modo le narrative dei pazienti con DP Borderline sono frequentemente generalizzate (Maurex et al. 2010), riportano meno eventi di vita e meno coerenti (Jørgensen et al. 2012). Le narrative autobiografiche prodotte da pazienti con DPB ritraggono eventi di vita intrisi di affetti disregolati e privi di qualunque senso di agency (Adler et al. 2012).

Per sviluppare una formulazione del caso e un piano di trattamento, il terapeuta ha necessità di capire e descrivere insieme al paziente le strutture e processi cognitivo-emotivi che guidano le azioni e che possono essere individuati attraverso l’esame di specifici episodi autobiografici. Questi processi sono come le mappe che illustrano: a) come la persona ha bisogno di agire al fine di soddisfare i propri bisogni, motivazioni o desideri; b) come gli altri sono stabilmente rappresentati e c) come la persona reagisce in genere al fine di far fronte ai problemi e agli ostacoli. Questi processi sono coerenti con l’idea di schemi interpersonali problematici e con la formulazione del Tema Relazionale Conflittuale Centrale (Core Conflictual Relationship Theme, Luborsky e Crits-Christoph 1990). Lo schema include, infine, le strategie per evitare sofferenza e coping disfunzionale dopo le reazioni negative degli altri significativi. Gli episodi narrativi sono il modo più produttivo per accedere agli elementi dell’ esperienza soggettiva - le emozioni, le credenze, i piani e le previsioni - necessaria per costruire una visione condivisa del mondo

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mentalistico del paziente e per predisporre un piano congiunto finalizzato al raggiungimento del benessere.

Disfunzioni metacognitive

Sebbene le difficoltà metacognitive siano da tempo considerate come una caratteristica tipica dei DP (Fonagy 1991), solo di recente sono emerse numerose evidenze empiriche a supporto. Le attuali conoscenze circa le disfunzioni metacognitive nel PD suggeriscono che la metacognizione ha più componenti (Dimaggio e Lysaker 2010) e che i danni possono verificarsi anche solo in alcune funzioni della metacognizione ma non in altre. Ad esempio, un paziente può essere in grado di descrivere le proprie emozioni, sebbene non riesca a inferire gli stati mentali degli altri dalle loro espressioni facciali. Alcune ricerche hanno evidenziato disfunzioni metacognitive specifiche in ciascun DP. L’alessitimia o la scarsa consapevolezza emotiva (Taylor et al. 1997) è stata riscontrata in pazienti con DP Evitante, Dipendente, Passivo-Aggressivo e, Schizoide, Borderline e Depressivo (Nicolò et al. 2011) e nelle donne con disturbi alimentari e tratti narcisistici (Lawson et al. 2008). Un dato costante è il disturbo Evitante di Personalità correla maggiormente con l’alessitimia rispetto agli altri DP (Nicolò et al. 2011). L’osservazione clinica, inoltre, suggerisce che le persone con più grave patologia della personalità tendono ad avere deficit metacognitivi più diffusi (Colle et al. 2010).

In generale, quindi, la ricerca suggerisce che le difficoltà metacognitive sono una caratteristica del PD. Esse includono difficoltà nel riconoscere le emozioni altrui dall’espressione facciale (Domes et al. 2008); formare rappresentazioni complesse e sfumate del sé con gli altri (Semerari et al. 2005), assumendo anche la prospettiva altrui (Dimaggio et al. 2009).

Diventa, quindi, sempre più evidente che il miglioramento della metacognizione o della mentalizzazione è un elemento chiave di ogni terapia DP. I clinici dovrebbero poter riconoscere queste difficoltà e adattare il trattamento di conseguenza (Allen et al. 2008, Dimaggio e Lysaker 2010). La formulazione del caso richiede, quindi, una valutazione dei problemi metacognitivi e permette di regolare le operazioni di terapia di conseguenza.

Le narrazioni impoverite e le disfunzioni metacognitive come ostacoli alla terapia

Le narrazioni povere o disorganizzate ostacolano il trattamento. Esse rendono difficoltoso al terapeuta capire ciò che effettivamente ha attivato i pensieri, le emozioni e i comportamenti del paziente durante gli episodi relazionali e in che modo gli eventi si collegano con le reazioni emotive e cognitive. I pazienti stessi hanno difficoltà a capire il significato emotivo dell’esperienza e a individuarne il ruolo nella catena di eventi.

Molti approcci tipici per i DP postulano che la ricerca di collegamenti causa-effetto in momenti ben precisi nello spazio e nel tempo (cioè ricordi autobiografici) sia il punto di partenza fondamentale per la comprensione dei processi psicologici che causano comportamenti disfunzionali e disadattamento (Bateman e Fonagy 2004, Linehan 1993, Dimaggio et al. 2007).

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L’arricchimento delle narrazioni del paziente può promuovere miglioramenti nelle capacità di comprensione del paziente. Per perseguire questa possibilità i terapeuti stimolano memorie specifiche partendo dai ricordi generalizzati del paziente (Dimaggio et al. 2012).

Inoltre per molti pazienti la comparsa di memorie autobiografiche più sfumate precede lo sviluppo delle abilità di pensare in modo più complesso circa se stessi e gli altri; gli episodi narrativi possono dare l’opportunità ai pazienti di riconoscere le catene reali di pensieri, affetti e comportamenti nelle interazioni interpersonali (Dimaggio et al. 2012). Di seguito analizzeremo le procedure adottate dalla TMI per promuovere le narrazioni autobiografiche e la consapevolezza di pensieri, di affetti e di relazioni causali.

Procedure TMI: promuovere le narrazioni autobiografiche

Un’idea centrale della TMI è che terapeuta e paziente costruiscano insieme rappresentazioni condivise degli stati mentali del paziente (Bateman e Fonagy 2004, Stiles 2006, Dimaggio et al. 2007), al fine di promuovere le narrazioni autobiografiche e la consapevolezza dei pensieri, degli affetti e delle loro relazioni causali. Gli stati mentali del paziente sono, quindi, ricostruiti attraverso le narrazioni autobiografiche e attraverso il comportamento non verbale in seduta: voce, postura, gesti. Questi elementi sono condivisi in seduta e utilizzati per arrivare a una formulazione condivisa del funzionamento del paziente e pensare a un piano condiviso di trattamento.

La prima operazione che si compie in TMI è, quindi, identificare gli stati mentali riconoscibili nelle memorie autobiografiche. Il terapeuta evita di condurre il colloquio partendo dalle idee astratte, dalle teorizzazioni, intellettualizzazioni dei pazienti. I temi generali devono essere utilizzati solo come punto di inizio per ricercare le narrazioni specifiche. Per esempio il paziente potrebbe dire di sentire un costante senso di umiliazione perché la gente non è rispettosa. Il terapeuta pone domande specifiche a partire da questo tema generale. In questo caso: “Mi descrive un esempio, un momento in cui qualcuno l’ha fatta sentire umiliata?”.

La domanda principale che il terapeuta pone è “mi descrive un esempio preciso, un momento in cui ha sperimentato ciò che mi riporta?” La declina in vari modi: “Mi porta nella scena?”; “Ricorda un momento preciso della sua giornata in cui mi fa vedere cosa è successo?”. Elaborando il tema dell’umiliazione, il terapeuta chiede: “Mi racconta un momento in cui l’umiliazione era particolarmente forte. Chi era con lei? Cosa è successo? Quando è accaduto? Dove eravate? Vi siete scambiati parole? Come si è sentito quando avete parlato? Cosa di preciso quel collega ha fatto che l’ha umiliata?” (Angus e McLeod 2004, Hermans e Dimaggio 2004, Luborsky e Crits-Christoph 1998, Neimeyer 2000).

Il terapeuta spiega al paziente che la sua intenzione è quella di conoscerlo, stargli vicino e formulare insieme idee che siano capaci il più che possibile di cogliere i motivi che lo spingono a comportarsi in un certo modo. Il terapeuta spiega di essere motivato al massimo a comprendere il paziente e per questo ha bisogno di più materiale possibile, in modo che le sue ipotesi siano fondate e verificabili facilmente da entrambi. L’obiettivo del terapeuta è capire il paziente, non interpretarlo. Per far questo, il clinico ha bisogno di andare alla fonte e capire cosa il paziente pensa, sente e prova mentre agisce con gli altri. Quindi gli esempi aiutano entrambi a stare vicino

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all’esperienza vissuta, il racconto di fatti avvenuti mentre si interagiva con gli altri, là dove gli stati interni affiorano.

Il terapeuta più e più volte, seduta dopo seduta, si mostra curioso e dichiara di non avere capito, di volere comprendere per avvicinarsi al paziente, di avere bisogno di più informazioni e quindi chiede esempi finché non sente di avere un’idea di cosa il paziente pensa e prova. Il clinico invita gentilmente ad evitare la forma impersonale – “succede che” – del discorso a vantaggio dell’uso della prima “a me è accaduto che” e della seconda persona.

Molti terapeuti temono che insistere nel chiedere episodi possa innervosire il paziente, che si possa sentire frustrato soprattutto se non riesce a ricordare, o che vorrebbe parlare senza essere interrotto e quindi sente il terapeuta intrusivo e irritante. Questi timori sono in grandissima parte legittimi, tuttavia vanno tollerati in quanto chiedere esempi, racconti di episodi narrativi, è una delle operazioni meno rischiose in termini relazionali. Il paziente capisce che il terapeuta è mosso dalla genuina voglia di conoscerlo, soprattutto se il razionale è stato illustrato correttamente.

In caso in cui il paziente manifestasse segni di chiusura o irritazione, qualunque intervento passerà attraverso la regolazione della relazione terapeutica. Quindi se il paziente è scontento della fatica fatta a rievocare gli episodi, o se non ne vede il senso, il terapeuta esplora come il paziente se lo rappresenta e cosa prova mentre espone il problema in seduta. Si tratta di passare dal lavoro sulla patologia alla riflessione e metacomunicazione sulla relazione terapeutica. È un’operazione che può durare minuti, come anche sedute intere, la cui fine è nella stabilizzazione dell’alleanza terapeutica.

Nella nostra esperienza i pazienti con tendenze intellettualizzanti, dopo alcune sedute con terapeuti TMI, si accorgono spontaneamente di stare teorizzando e ironicamente chiedono al terapeuta: “Lei vuole chiedermi un esempio, adesso, vero?!”. Di solito il terapeuta risponde sorridendo: “Esatto!”.

Un buon episodio è quello che risponde alle domande “Dove? Quando? Chi? Che cosa? Quale dialogo?”. Sottolineiamo che, una volta raccolto l’episodio il terapeuta non chiede “perché?” il paziente abbia agito in un determinato modo. Una domanda questa, spesso usata in CBT standard, che con i DP non risulta produttiva.

Il terapeuta per capire i processi cognitivi-affettivi sottostanti chiede successivamente “Cosa ha provato e pensato in quel momento? Ricorda cosa la spinse ad agire così?”. Il terapeuta valuta continuamente la chiarezza e la ricchezza emotiva e psicologica degli episodi narrativi e, attraverso l’analisi puntuale della scena, comprensiva di dettagli, luoghi, tempi e protagonisti, giunge a raccogliere una conoscenza che permetterà di identificare gli schemi interpersonali prevalenti.

Caso clinico

Ora presentiamo il caso di Giovanni, un ragazzo di 17 anni che giunge al Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Roma a causa di uno stato di scarsa concentrazione, sonnolenza, limitata energia, dolore al collo e alla testa, iniziati nei 6 mesi precedenti. Una volta escluse motivazioni di tipo organico, i genitori, sollecitati dai vari medici consultati, si orientano per una consulenza psicologica. Dalla SCID II, somministrata in fase di assessment, emergeva il

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disturbo Evitante, Narcisista, con tratti del disturbo Passivo-Aggressivo e dell’Istrionico. Sono stati effettuati anche altri test, da cui emergevano difficoltà nel riconoscimento delle emozioni provate, difficoltà a completare proprio lavoro o a concentrarsi quando presenti emozioni negative e una percezione di mancanza di capacità a gestire le stesse.

Al primo colloquio con la terapeuta, una degli autori dell’articolo (PC), Giovanni riferisce che il suo problema è nel non riuscire ad andare a scuola a causa di una sensazione generalizzata di mancanza di energia. Il terapeuta cerca di indagare in maniera più dettagliata la difficoltà descritta.

T: “Giovanni proviamo a descrivere questa difficoltà? Cosa prova in quei momenti?”P: “Nervosismo, fastidio…”T: “Cosa pensa?”P: “Non riesco a fare le cose”Inoltre nel non verbale, il paziente segnalava un forte nervosismo stringendo i pugni, in un

evidente stato di tensione muscolare in tutto il corpo.Qui il paziente fa molta fatica a individuare l’emozione vissuta, è poco puntuale nella

descrizione e utilizza definizioni ancora non sufficienti. Migliore è, invece, la descrizione del pensiero che rimanda a un senso di impotenza, di impedimento e frustrazione nel portare avanti il progetto di studio.

La terapeuta a questo punto tenta di stimolare un riconoscimento emotivo (monitoraggio), utilizzando anche i dati forniti dal comportamento non verbale.

T: “Giovanni la sente di raccontarmi meglio come è fatto questo nervosismo? Che mi sembra di poter notare anche ora, mentre è qui come…” Il terapeuta propone anche un feedback al paziente sulla gestualità utilizzata, sulla postura e sul tono di voce.

P: “Mi viene rabbia, irritazione perché non riesco a fare quello che voglio!”Qui Giovanni accede a un’emozione precisa, la rabbia, mettendola plausibilmente in relazione

con un senso di impotenza a fare le cose per lui importanti. Quindi il terapeuta prova riformulare:T: “Giovanni mi sta dicendo che quando si sente così teso è perché sta provando una forte

rabbia legata al sentirsi impedito nello studiare secondo le sue aspettative e desideri.” Il paziente prova rabbia perché sente compromesso uno scopo specifico: lo studio. In questa

fase la terapeuta si interroga, solo tra sé e sé, su che valore abbia lo studio dal punto di vista del paziente e procede per individuare narrazioni autobiografiche in cui Giovanni abbia sperimentato le sensazioni appena descritte.

T: “Giovanni riuscirebbe a individuare un momento preciso nell’ultima settimana in cui ha provato questa rabbia e questo senso di impotenza”. Il terapeuta aggiunge uno stimolo temporale (ultimi 7 giorni) allo scopo di elicitare un racconto più circoscritto anche nel tempo, considerando anche che il paziente aveva raccontato che quella sensazione era stata presente quasi sempre negli ultimi sei mesi.

P: “L’ho provata l’altro giorno quando ero in casa con mia madre. Stavo in camera mia sul libro, provavo a studiare invece avevo molto sonno. Sentivo mia madre girare per casa. Ho pensato << Se tutto questo sonno, come faccio studiare?>> Forse ero preoccupato?!”

T: “Preoccupato per cosa?”P: “Perché non sarei riuscito studiare, quindi prevedevo che non sarei andato a scuola,

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dando ancora una preoccupazione e delusione ai miei”T: “Cosa ha provato all’idea dei suoi genitori delusi dal suo non andare a scuola?”P: Il paziente localizza l’emozione sul piano somatico, appoggiandosi una mano sullo sterno.

“Avevo un’ansia fortissima, come fossi angosciato”Quando il paziente focalizza l’emozione provata si rilassa in volto e si appoggia più

comodamente alla poltrona. Quindi la terapeuta comprende che l’emozione nucleare è stata individuata e messa in relazione al timore di deludere l’altro.

L’operazione di individuazione degli elementi emotivo-cognitivi è stata possibile solo nella misura in cui la narrazione ricordava gli elementi fondamentali: chi (paziente e madre, Altro significativo), dove (il paziente in camera propria, in casa la madre), quando (2 giorni prima della seduta), cosa accade (percezione di impedimento a studiare), dialogo (non è presente al paziente riferisce il dialogo interno, valido per estrapolare aspetti relazionali).

A questo punto, la terapeuta può provare a riformulare quanto raccontato, poiché sente di avere a disposizione un antefatto, un’emozione, un pensiero e un’ipotesi di rappresentazione di sé e dell’altro:

T.: “ Quindi Giovanni mi sta dicendo che l’altro giorno, quando era in casa con sua madre, riflettendo sulla fatica a studiare e sulla sonnolenza, ha provato una forte ansia all’idea che i suoi genitori rimanessero delusi per l’ennesima assenza. Giovanni possiamo forse pensare che per lei sia molto importante avere la stima, la fiducia nell’altro e che sente che questa dipende da quello che fa, nello specifico dallo studio; inoltre potremmo aggiungere che nei casi in cui ritiene che performance non sia del livello desiderato avverte ansia e ‘angoscia…” Il paziente annuisce col capo.

La terapeuta può procedere per esplorare nuove narrazioni e domanda a Giovanni se ricorda episodi che sente emotivamente simili al precedente. Il paziente rintraccia un episodio in cui era in classe, durante l’interrogazione valuta che la prestazione non è ottimale, focalizzandosi sul tono di voce incerto, e per un attimo si dice che sta facendo brutta figura e che perderà la stima dei compagni e la fiducia della professoressa, prova ansia, si confonde sui contenuti, tuttavia intervento dell’insegnante lo rassicura. Interrogazione va a buon fine, anche se il paziente racconta di aver continuato a pensarci anche nelle ore successive perché non si riteneva soddisfatto. Quindi terapeuta e paziente concordano sull’ipotesi di schema relazionale in cui il bisogno del sé è ottenere stima, apprezzamento. L’altro è rappresentato come colui che giudica, pertanto il paziente vede nelle performances (scolastiche e/o relazionali) le modalità mediante le quali ottenere la stima altrui.

Possiamo osservare il cambiamento della capacità narrativa del paziente: all’inizio del processo il paziente riferiva sofferenza quasi solo sotto forma di malessere fisico, successivamente riesce a descrivere vissuti emotivi, cognitivi e in parte relazionali. Infatti le narrazioni sono complete, più ricche di dettagli e illustrano a paziente come anche a terapeuta i bisogni, gli scopi del paziente, il suo agire e interagire con l’altro.

Le narrazioni in terapia, mentre illustrano i vissuti relazionali alla luce dei quali terapeuta e paziente possono ricostruire gli schemi interpersonali, in Giovanni stimolavano anche i processi attentivi verso gli episodi relazionali attuali. Cioè il paziente, stimolato a raccontarsi attraverso narrazioni autobiografiche, imparava anche riconoscere, registrare e mettere a fuoco i vissuti

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Narrazioni autobiografiche nella Terapia Metacognitiva Interpersonale

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relazionali che gli accadevano tra una seduta e l’altra (e non solo riferendosi a periodi precedenti alla terapia).

Nel corso del trattamento il focus è andato modificandosi: da che il paziente riferiva come problema la tensione muscolare, l’irritazione, la sonnolenza, si è riusciti a sensibilizzare Giovanni alle dinamiche relazionali e, costruendo le sue rappresentazioni di sé e dell’altro, a illustrargli quanto quelle fossero motivo di sofferenza, al punto tale che Giovanni veniva in seduta desideroso, bisognoso di confrontarsi con la terapeuta su eventi relazionali recenti.

P.: “L’altro giorno ero con Beatrice al bar, c’erano alcuni suoi compagni di corso (di università), ad un certo punto, Lei si mise a parlare con uno di loro, io non sapevo di che cosa stessero parlando, ho tentato di fare una battuta simpatica, che non c’entrava nulla e magari pure con un tono di voce un po’ alto, hanno sorriso, e poi hanno continuato a parlare tra di loro, mi sono sentito escluso, non sapevo cosa dire, li vedevo molto fichi rispetto a me, mi sono rattristato e pensavo che avevo sbagliato battuta, mi sono sentito escluso ma anche un po’ rifiutato”

T.: “Giovanni in questo episodio racconta di un suo tentativo di allacciare contatti con altri, magari esagerando anche nelle battute, allo scopo di risultare simpatico e di sentirsi considerato, interpretando i segnali non verbali dell’altro ha inferito che la stessero ignorando e ha provato tristezza. Crede di aver già vissuto in un altro momento, in un altro contesto anche con altre persone questa sensazione?”

P.: “Certamente. Con mio padre molto spesso succede questa cosa!”T.” Possiamo vedere insieme un episodio specifico in cui avviene questo con suo padre?”P.: “Beh sì domenica scorsa eravamo insieme al bar, io ero molto contento di stare con lui,

ma allo stesso tempo sentivo il bisogno di risultare simpatico ai suoi occhi. Quindi ho cominciato a fare battute, alle quali lui non rispondeva come mi aspettavo, o sorrideva o addirittura non mi diceva nulla e io di fronte a questo modo di fare provavo imbarazzo perché non sapevo cosa fare mentre temevo che il suo silenzio dipendesse dal fatto che le mie battute non erano abbastanza divertenti. Questa, dottoressa, è una sensazione che provo molto spesso anche con i miei amici, infatti quando sono coloro da una parte provo molto piacere stare, ma allo stesso tempo vivo l’ansia di fare di tutto ad esempio battute, oppure offrire qualcosa da bere, oppure fare un po’ il pagliaccio allo scopo di risultare divertente e di sentirmi considerato. Però mi sto rendendo conto che a volte, pur di ottenere considerazione, faccio cose anche inutili… è che in realtà io non so se devo fare proprio così tanto per avere l’attenzione degli altri, per sentirmi uno di loro”.

In quest’ultima narrazione, Giovanni accede a quella che, a posteriori, nel corso della terapia, risultò essere la scena prototipica dolorosa in cui il silenzio dell’altro è vissuto dal paziente come un rifiuto. Nella narrazione Giovanni opera spontaneamente un passaggio dall’episodio autobiografico a un episodio narrativo recente. Si rende quindi conto di quanto la sensazione relazionale vissuta col padre gli stia condizionando la vita relazionale con gli amici. Costruisce rappresentazioni integrate di sé: riesce a vedersi ansioso di fare di tutto per sentirsi accettato e allo stesso tempo mette a fuoco qualità positive che prima non riusciva a riconoscere, quali la curiosità e la sensibilità. L’integrazione di più rappresentazioni di sé e dell’altro favorisce la messa in discussione dei meccanismi relazionali utilizzati per raggiungere il bisogno primario, nel caso di Giovanni la stima e l’accettazione altrui. Infatti si rende conto di quanto sia per

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lui faticoso, ed anche poco produttivo, mostrare agli altri sempre e solo la rappresentazione di quello energico, vitale, entusiasta, senza dubbi o incertezze per stare con gli altri. Questa consapevolezza ha favorito il senso di agency: Giovanni si è mostrato desideroso di scoprire e sperimentare modalità relazionali più funzionali, per riuscire a stare con gli altri anche senza “sentirsi in forma”.

Conclusioni

Le recenti acquisizioni della ricerca in psicoterapia hanno evidenziato che i pazienti con Disturbo di Personalità in seduta: a) mostrano narrazioni autobiografiche impoverite, con tendenza alla teorizzazione e alla generalizzazione senza far ricorso episodi narrativi ricchi, specifici e dettagliati; b) non riescono a trasmettere ciò che pensano e sentono ed hanno un ridotto senso di agency: anche se sono consapevoli che i pensieri hanno un’origine interna si sentono impotenti nel mettere in atto dei cambiamenti; c) hanno scarsa consapevolezza delle emozioni, degli eventi scatenanti e dei loro effetti sul comportamento; molti pazienti di questi pazienti riescono a identificare solo alcune emozioni, raramente quelle positive. d) Mancano di differenziazione tra fantasia e realtà; hanno credenze distorte su chi sono, sulle intenzioni degli altri verso loro stessi e mancano di prevedere come raggiungere i propri scopi attraverso le interazioni sociali. Sono convinti che le loro credenze siano lo specchio della realtà e non riescono ad accedere alla lettura della realtà da un’angolazione diversa dalla propria.

Abbiamo illustrato come la Terapia Metacognitiva Interpersonale abbia tra i suoi scopi principali quello di arricchire le narrazioni impoverite dei pazienti e di costruire uno scenario condiviso da terapeuta e paziente con cui accedere alla comprensione del mondo rappresentazionale del paziente. Attraverso il caso di Giovanni abbiamo evidenziato le tecniche che il terapeuta ha a disposizione per favorire un arricchimento delle narrazioni del paziente. Inizialmente Giovanni riferisce descrizioni generalizzate e poco precise dei propri pensieri e fatica a riconoscere gli stati emotivi sottostanti. Nel corso della terapia, Giovanni è riuscito a riportare memorie autobiografiche sempre più ricche dei dettagli necessari che hanno permesso al terapeuta di individuare le rappresentazioni del Sé e dell’Altro e gli schemi interpersonali che guidavano la condotta del paziente. La condivisione dello schema ha permesso al paziente di riconoscere le sue modalità dei funzionamento interpersonale, arricchire le rappresentazioni di Sé in termini di qualità, risorse e senso di agency e, quindi, di definire gli obiettivi del cambiamento.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale prevede una procedura di trattamento step-by-step per i pazienti Disturbi di Personalità in cui l’arricchimento delle narrazioni è un passo primario e fondamentale. Attualmente una serie di casi singoli sono stati pubblicati a supporto di questa procedura (Dimaggio et al. 2010, Dimaggio e Attinà 2012, Dimaggio et al. 2012); è in corso un trial di efficacia per valutare l’outcome del trattamento e quanto le procedure descritte qui siano candidate a diventare principi efficaci di trattamento per pazienti con disturbi di personalità e disfunzioni narrative.

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Narrazioni autobiografiche nella Terapia Metacognitiva Interpersonale

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Riassunto

Parole chiave: disturbi di personalità, memorie autobiografiche, metacognizione, disfunzioni narrative

Molti pazienti con Disturbo di Personalità mostrano una serie di difficoltà nel accedere alle memorie autobiografiche e nel rievocare ricordi specifici. La loro immagine di Sé con gli Altri è costruita su rappresentazioni intellettualizzate, astratte e rigide. Queste guidano in modo inefficace i comportamenti del soggetto . Allo stesso tempo il clinico, nelle narrazioni intellettualizzanti, fatica a trovare l’informazione psicologica in cui rintracciare la conoscenza sugli stati mentali che permette di pianificare il caso in maniera congiunta e progettare il trattamento. La Terapia Metacognitiva Interpersonale prevede una procedura step-by-step che indica come passo primario il passaggio da memorie intellettualizzate a episodi autobiografici specifici. L’obiettivo fondamentale è aiutare i pazienti ad accedere ad aspetti dell’esperienza inclusi nelle memorie specifiche che li aiuteranno ad arricchire l’identità narrativa ed acquisire flessibilità nel comportamento. Illustriamo le procedure adottate in un caso di paziente con Disturbo di Personalità. Discutiamo le implicazioni del caso clinico per la teoria del trattamento delle disfunzioni narrative.

PROMOTE ACCESS TO AUTOBIOGRAPHICAL MEMORIES AND IMPROVING METACOGNITION WITH METACOGNITIVE INTERPERSONAL THERAPY FOR PERSONALITY DISORDERS

Abstract

Key words: personality disorders, autobiographical memories, metacognition, narrative dysfunctions

Many patients with personality disorders feature a series of difficulties in accessing autobiographical memories and recall specific episodes. Their representations of Self and Others are built on rigid and abstracts intellectualizations, which guide the person’s way in an ineffective way. At the same time the clinician, inside intellectualizing narratives, finds hard to find the psychological information which will help to then access states of mind, build up an accurate case-formulation and plan treatment. Metacognitive Interpersonal Therapy is based on step-by-step procedures which starts from helping the patients pass from generalized memories and intellectualizations to specific autobiographical episodes. The basic goal is helping the patients access aspects of their experience, nested in the specific memories, which will then enrich their narrative identity and acquire behavioral flexibility. We illustrate the procedures adopted in a case of a young man suffering from personality disorders. We discuss the implications of the case material for the theory on how to treat narrative dysfunctions.

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Giancarlo Dimaggio: Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale – Roma, Istituto “A.T. Beck”- RomaPierfrancesca Carabelli: Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale – Roma

Luisa Buonocore: Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale – Roma Raffaele Popolo: Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale – Roma, Studi Cognitivi – MilanoGiampaolo Salvatore: Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale – Roma, Istituto “A.T. Beck” – Roma

Corrispondenza

Giancarlo Dimaggio [email protected]