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Psichiatria e Psicoterapia (2012) 31, 3, 170-185 FAMIGLIE MIGRANTI E SERVIZI DI SALUTE MENTALE: ALCUNI TEMI CHE EMERGONO DA UNA PRIMA REVISIONE DELLA LETTERATURA SCIENTIFICA Eleonora Caponi, Irene Agnello, Aldo Stella 1. Introduzione A livello mondiale, negli ultimi dieci anni i migranti sono aumentati di 64 milioni di unità e secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni sono attualmente 214 milioni. La migrazione è un fenomeno in crescita nei paesi occidentali (Tarricone 2011). In particolare in Italia, al 31 dicembre 2010, su 60.626.442 residenti nel Paese, i 4.570.317 stranieri (per il 51,8% donne) incidono sulla popolazione per il 7,5%, cioè 52 volte di più rispetto al 1861 (Caritas/ Migrantes 2011). Se esaminata dal punto di vista psicologico, l’immigrazione è considerata ormai da molti anni come un’inevitabile esperienza stressante (Hattar-Pollara e Meleis 1995, Levitt et al. 2005, Tang et al. 2007, Yakhnich 2008). Gli studi che hanno affrontato il tema dell’immigrazione, ponendo attenzione alle difficoltà di adattamento e di malessere psicologico manifestato dalle persone, hanno dimostrato che i migranti evidenziano un minore accesso e utilizzo dei servizi di salute mentale (Bhui e Bhugra 2002b). Le difficoltà di adattamento a cui vanno incontro nei paesi occidentali traggono origine da molteplici cause, ma, soprattutto, dalla necessità di fronteggiare il trauma vissuto nei paesi di origine, superando le barriere linguistiche e culturali nonché le discriminazioni incontrate (Bhugra e Jones 2001). Gli effetti prodotti dall’immigrazione, in termini psicologici e di malessere sociale, sono ritenuti inoltre responsabili dell’elevata prevalenza di disturbi mentali, che sono di facile riscontro fra gli immigrati che si trovano in paesi occidentali (Breslau et al. 2007, Cantor-Graae e Selten 2005). Tuttavia, a fronte di questi disagi, vari studi segnalano che i migranti vanno incontro a numerosi ostacoli nel ricevere cure e ciò va ricondotto alle loro difficoltà finanziarie e alla mancanza di servizi culturalmente e linguisticamente competenti (Morgan et al. 2004). Il difficile percorso di cura per i migranti è spesso complicato da un ritardo nella diagnosi dei disturbi o anche dall’applicazione di un trattamento inefficace (Schraufnagel et al. 2006). La letteratura internazionale sottolinea anche la presenza dello stigma, che caratterizza i servizi di salute mentale, e numerose difficoltà legate a cure primarie e competenza culturale, intesa come la capacità di rispondere alle specifiche esigenze dei migranti, utilizzando, per esempio, i mediatori culturali, la psicoterapia culturalmente orientata e di intervento psicosociale (Bhui et al. 2007, Kirmayer et al. 2003, Wynaden et al. 2005). Si è altresì rilevato che i fattori personali, gli specifici linguaggi nel disagio, gli atteggiamenti verso i servizi, le esperienze precedenti e i sistemi di riferimento culturali sono in grado di influenzare l’accesso all’assistenza psichiatrica, nel caso di disturbi mentali tra gli immigrati (Bhui e Bhugra 2002a, Goldberg 1999, Schraufnagel et al. 2006, Tapsell e Mellsop 2007). Inoltre, è stato dimostrato che l’accesso a un servizio culturalmente e linguisticamente appropriato è 170 © Giovanni Fioriti Editore s.r.l. SOTTOMESSO MARZO 2012, ACCETTATO SETTEMBRE 2012

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Psichiatria e Psicoterapia (2012) 31, 3, 170-185

FAMIGLIE MIGRANTI E SERVIZI DI SALUTE MENTALE: ALCUNI TEMI CHE EMERGONO DA UNA PRIMA REVISIONE DELLA LETTERATURA SCIENTIFICA

Eleonora Caponi, Irene Agnello, Aldo Stella

1. Introduzione

A livello mondiale, negli ultimi dieci anni i migranti sono aumentati di 64 milioni di unità e secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni sono attualmente 214 milioni. La migrazione è un fenomeno in crescita nei paesi occidentali (Tarricone 2011). In particolare in Italia, al 31 dicembre 2010, su 60.626.442 residenti nel Paese, i 4.570.317 stranieri (per il 51,8% donne) incidono sulla popolazione per il 7,5%, cioè 52 volte di più rispetto al 1861 (Caritas/Migrantes 2011).

Se esaminata dal punto di vista psicologico, l’immigrazione è considerata ormai da molti anni come un’inevitabile esperienza stressante (Hattar-Pollara e Meleis 1995, Levitt et al. 2005, Tang et al. 2007, Yakhnich 2008). Gli studi che hanno affrontato il tema dell’immigrazione, ponendo attenzione alle difficoltà di adattamento e di malessere psicologico manifestato dalle persone, hanno dimostrato che i migranti evidenziano un minore accesso e utilizzo dei servizi di salute mentale (Bhui e Bhugra 2002b). Le difficoltà di adattamento a cui vanno incontro nei paesi occidentali traggono origine da molteplici cause, ma, soprattutto, dalla necessità di fronteggiare il trauma vissuto nei paesi di origine, superando le barriere linguistiche e culturali nonché le discriminazioni incontrate (Bhugra e Jones 2001). Gli effetti prodotti dall’immigrazione, in termini psicologici e di malessere sociale, sono ritenuti inoltre responsabili dell’elevata prevalenza di disturbi mentali, che sono di facile riscontro fra gli immigrati che si trovano in paesi occidentali (Breslau et al. 2007, Cantor-Graae e Selten 2005).

Tuttavia, a fronte di questi disagi, vari studi segnalano che i migranti vanno incontro a numerosi ostacoli nel ricevere cure e ciò va ricondotto alle loro difficoltà finanziarie e alla mancanza di servizi culturalmente e linguisticamente competenti (Morgan et al. 2004). Il difficile percorso di cura per i migranti è spesso complicato da un ritardo nella diagnosi dei disturbi o anche dall’applicazione di un trattamento inefficace (Schraufnagel et al. 2006).

La letteratura internazionale sottolinea anche la presenza dello stigma, che caratterizza i servizi di salute mentale, e numerose difficoltà legate a cure primarie e competenza culturale, intesa come la capacità di rispondere alle specifiche esigenze dei migranti, utilizzando, per esempio, i mediatori culturali, la psicoterapia culturalmente orientata e di intervento psicosociale (Bhui et al. 2007, Kirmayer et al. 2003, Wynaden et al. 2005).

Si è altresì rilevato che i fattori personali, gli specifici linguaggi nel disagio, gli atteggiamenti verso i servizi, le esperienze precedenti e i sistemi di riferimento culturali sono in grado di influenzare l’accesso all’assistenza psichiatrica, nel caso di disturbi mentali tra gli immigrati (Bhui e Bhugra 2002a, Goldberg 1999, Schraufnagel et al. 2006, Tapsell e Mellsop 2007). Inoltre, è stato dimostrato che l’accesso a un servizio culturalmente e linguisticamente appropriato è

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SottomeSSo marzo 2012, accettato Settembre 2012

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fondamentale per gli immigrati stessi (Bhui et al. 2007).Le ricerche hanno infine documentato che molti membri di gruppi minoritari hanno paura o

si sentono a disagio in relazione al sistema di salute mentale, perché non hanno familiarità con esso (Scheffler e Miller 1991). In queste circostanze, senza servizi culturalmente competenti, l’incapacità di servire gruppi di persone appartenenti a minoranze razziali ed etniche in modo adeguato è destinata a peggiorare, data l’enorme crescita demografica di queste popolazioni (Snowden et al. 2006, Takeuchi e Uehara 1996).

Dalle considerazioni appena fatte, che fotografano il panorama scientifico che negli anni ha costituito la cornice entro la quale il tema dell’immigrazione e della salute mentale è stato studiato, ci sembra emerga la necessità, quanto mai attuale, di prendere in considerazione gli ultimi studi che si sono realizzati in questo settore.

Ebbene, la presente ricerca si pone come obiettivo proprio quello di affrontare il tema della salute mentale delle famiglie migranti e il loro accesso ai servizi pubblici corrispondenti, onde individuare i principali problemi connessi con l’accoglienza e l’assistenza dei migranti stessi.

Tale ricerca è stata condotta utilizzando “BIXY”, il servizio bibliografico dell’Università degli Studi di Roma “Sapienza”, e, in particolare, la piattaforma BIDS. Le più importanti riviste consultate nel settore di psicologia e psichiatria sono state rintracciate nelle seguenti banche dati elettroniche: PsycInfo, PsycArticles, Proquest Psychology Journals, Sociological Abstract, Social Services Abstract, PubMed Central e Medline.

Il lavoro, volto a reperire i principali prodotti bibliografici pertinenti al tema della ricerca, è stato configurato a muovere dall’individuazione di alcune parole chiave (keywords) combinate: “immigrant famil*” e “mental healt services utilization”.

La ricerca, inoltre, ha utilizzato precisi criteri: 1) abbiamo eliminato i duplicati; 2) abbiamo considerato solo i lavori compresi tra l’anno 2010 e il 2011; 3) solo gli articoli di riviste scientifiche internazionali; 4) solo articoli con revisione dei pari (peer review) e 5) solo articoli in lingua inglese. Tali criteri di esclusione hanno consentito di ridurre il corpus dei prodotti che sono stati visionati e il cui contenuto ha permesso di definire lo stato dell’arte in ordine al tema scelto e indicare alcuni aspetti che noi giudichiamo molto rilevanti.

Il nostro interesse si è primariamente concentrato sui processi migratori di interi nuclei familiari migranti. Tuttavia, come la letteratura segnala, vi sono diverse prospettive di osservazione che si possono assumere per analizzare questo tema. Si possono, cioè, privilegiare vari aspetti: le dinamiche intrafamiliari oppure i problemi posti dalle seconde generazioni; i ruoli genitoriali che subiscono una continua trasformazione; il continuo costituirsi e ricostituirsi delle famiglie durante il processo migratorio; i matrimoni misti, ma anche altri aspetti ancora.

Nella presente ricerca, si è scelto di focalizzare l’interesse su di un particolare aspetto: le modalità attraverso le quali le agenzie di salute, cioè le istituzioni pubbliche che si occupano della salute mentale (del benessere/malessere psicologico), si fanno carico dell’intero nucleo migrante, con un’attenzione particolare rivolta ai genitori e al difficile compito che essi si trovano a svolgere all’interno del processo dell’emigrazione stessa. Del resto esiste una relazione fra l’appartenenza ad un determinato gruppo etnico e la resistenza ad utilizzare servizi di salute mentale (Mothi et al. 2011).

Ci sembra opportuno precisare che esiste un’ampia letteratura – fatta non solo di articoli scientifici, ma anche di volumi monografici o di singoli capitoli di volumi – che tratta la migrazione dal punto di vista della salute mentale e dell’approccio psicologico da adottare con i migranti (Zagelbaum et al. 2010); tuttavia, se ci si concentra soltanto sugli articoli scientifici, allora è da rilevare che in questi ultimi svolgono un ruolo preponderante le ricerche cross-

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culturali o le ricerche qualitative su particolari gruppi etnici presenti in zone a forte pressione migratoria (ad esempio gli Stati Uniti).

Molti degli articoli che abbiamo visionato si concentrano sull’accesso ai servizi di salute mentale di immigrati provenienti da specifici paesi e appartenenti a particolari gruppi etnici. Di questi articoli, un gran numero si occupa delle popolazioni latine, mettendo in rilievo in primo luogo i fattori che ne influenzano l’accesso ai servizi di salute mentale (Hochhausen et al. 2011); in secondo luogo, in che misura l’appartenenza a sottogruppi etnici, l’identità culturale e le caratteristiche linguistiche e sociali incidono nell’utilizzo dei servizi nel caso di disturbi psichiatrici (Keyes et al. 2010); in terzo luogo, in che misura le credenze culturali, le conoscenze e gli approcci culturali possono influenzare i comportamenti di richiesta di aiuto (Garcìa et al. 2010). Infine, uno degli articoli presi in esame evidenzia quali sono le caratteristiche specifiche che possono influire sul trattamento psicologico dei Latinos, con diagnosi di depressione, in una clinica di salute mentale che fornisce servizi culturalmente sensibili (Santiago-Rivera et al. 2011).

Altri studi sono invece focalizzati sulle popolazioni asiatiche ed affrontano sia l’influenza che ha la discriminazione per queste popolazioni nell’utilizzo dei servizi di salute mentale (Spencer et al. 2010) sia l’importanza di conoscere i problemi di salute mentale che riguardano gli immigrati sud-asiatici e le modalità con le quali essi utilizzano i servizi (Prabhughate 2011) sia, infine, la questione della conoscenza della lingua, per verificare quanto questa influisca su tali popolazioni nell’utilizzo dei servizi di salute mentale (Kang et al. 2010).

Nel corso della ricerca, abbiamo reperito anche ulteriori studi focalizzati su gruppi etnici ancora minori; tuttavia, abbiamo deciso di privilegiare il tema dell’accesso della popolazione immigrata ai servizi di salute mentale pubblica in generale, piuttosto che prendere in esame in dettaglio i singoli gruppi etnici.

Aggiungiamo che, per quanto riguarda l’esperienza italiana, sia nazionale che regionale, abbiamo rilevato un unico articolo scientifico (Tarricone et al. 2011), che è in linea con l’impostazione epistemologica che intendiamo seguire nel presente lavoro ed è in sintonia con la cornice culturale di riferimento che seguiremo. Per anticipare la nostra impostazione, diciamo che procederemo per “congetture e confutazioni”, nel senso che, a muovere da alcuni dati che emergono dai lavori scientifici da noi presi in esame, formuleremo delle ipotesi che poi sottoporremo al vaglio della riflessione critica e di nuovi dati, emergenti da ulteriori futuri lavori.

L’intervallo temporale prescelto nella ricerca (biennio 2010-2011) è avvenuto sulla base di due considerazioni: la prima, di carattere generale, relativa alla quantità di articoli che trattano la materia, talmente ampia da imporre dei vincoli temporali; la seconda, legata al fatto che, dovendo scegliere un arco limitato di tempo, ci sembrava interessante considerare i lavori più recenti, e ciò anche per la ragione che in essi abbiamo ritenuto di ritrovare le tematiche più significative che sono emerse dall’analisi del fenomeno.

Se si prendono in esame gli articoli scientifici suddetti, i temi trattati possono venire suddivisi in alcune macroaree, che possono così venire riassunte: gli stili di vita dei nuclei familiari migranti (family lifestyle-parenting styles); le strategie di coping da essi utilizzate nell’affrontare la nuova realtà che si trovano a vivere; i conflitti che nascono non infrequentemente all’interno di tali nuclei familiari (family stress, family dynamics, family relations); i fattori di stress correlati alla migrazione; i ricongiungimenti familiari e le separazioni come fattori di rischio psicopatologico (Kaltman et al. 2011). Su tali temi, dicevamo, si concentra soprattutto l’indagine che emerge dalla letteratura internazionale.

Per procedere, abbiamo compiuto un lavoro di review della letteratura internazionale che ha

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prodotto un totale di 28 articoli scientifici, nei quali, più o meno direttamente, vengono trattate le questioni che a noi maggiormente interessano. Ci preme sottolineare come alcuni temi siano fortemente ricorrenti nei lavori da noi reperiti e il compito che ci siamo prefissi è precisamente quello di mettere in relazione tali temi con quello più generale dell’accoglienza e dell’intervento sui migranti da parte delle strutture suddette.

Gli articoli che sono stati visionati provengono prevalentemente dagli Stati Uniti e, quindi, prendono in esame soprattutto quella realtà. Non di meno, compaiono anche un lavoro canadese e quattro lavori europei: uno prodotto in Olanda (Yaman et al. 2010), uno in Norvegia (Kwak 2010), uno in Italia (Tarricone et al. 2011) e uno in Inghilterra (Mothi et al. 2011).

Il primo aspetto da noi preso in esame è il contesto socio-culturale all’interno del quale le strutture pubbliche di salute mentale operano. Per delineare tale contesto ci siamo pertanto avvalsi dei dati che emergevano dagli articoli selezionati. Ovviamente, per quanto appena detto, le informazioni che abbiamo ricavato concernono soprattutto le molteplici aree degli Stati Uniti d’America.

La letteratura dice, innanzi tutto, che un bambino su 5, di quelli che risiedono negli Stati Uniti, è nato in un altro paese o vive in una famiglia in cui uno dei suoi genitori è nato in un altro paese. In alcuni stati questo dato è anche maggiore: in California, per esempio, la metà dei bambini vive in una famiglia di immigrati (Javier et al. 2010). Gli Stati Uniti, infatti, ricevono la più alta percentuale di immigrati e rifugiati di ogni nazione della terra; pertanto, i bambini immigrati e i figli di immigrati concorrono a produrre una crescente fetta di popolazione americana, specie tra coloro che hanno meno di 18 anni.

In generale, è possibile affermare che, se gli immigrati costituiscono oltre il 12% della popolazione statunitense, di contro i loro figli sono oltre il 20% della popolazione di età inferiore ai 18 anni. Inoltre, circa 2,2 milioni di bambini negli Stati Uniti sono immigrati recenti e i bambini immigrati di prima e seconda generazione sono il segmento in più rapida crescita della popolazione infantile negli USA (e rappresentano oltre il 30% della popolazione scolastica) (Pumariega e Rothe 2010).

2. Accesso ai servizi: l’utenza e i disturbi denunciati

Negli articoli che abbiamo selezionato, gli autori affrontano la questione dell’accesso ai centri di salute pubblica (servizi con diverse specificità) sia dei genitori che dei bambini immigrati. In particolare, le ricerche si propongono di considerare alcuni aspetti, giudicati particolarmente significativi, e di indagarli da vari punti di vista.

Uno studio affronta in maniera generale l’importanza di comprendere le differenze demografiche tra gruppi per osservare quanto ciò condizioni il loro accesso ai servizi. Infatti, lo studio evidenzia una significativa variazione nell’uso dei servizi di salute mentale per età, etnia, razza, genere e livello di educazione (Gonzalez et al. 2010).

Un lavoro piuttosto specifico (Javier et al. 2010) propone un interessante confronto, quello tra bambini che necessitano di “cure speciali”, e per questa ragione si rivolgono ai servizi di salute pubblica, ma che provengono da due tipi diversi di famiglie: da famiglie di immigrati e da famiglie statunitensi. Lo studio ha utilizzato dati provenienti dal California Health Interview Survey, che ha identificato 1.400 bambini di età tra 0 e 11 anni che necessitano di “cure speciali”. La modalità di accertamento è stata la somministrazione di interviste telefoniche, realizzate dall’agosto 2003 fino al febbraio 2004 con adulti randomizzati. Ebbene, i dati hanno dimostrato

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che i bambini immigrati che richiedono cure speciali hanno un accesso molto ridotto ai servizi di salute comparati con le famiglie di non immigrati.

Ecco i dati di confronto tra i bambini appartenenti a famiglie immigrate e non immigrate: assenza di un’assicurazione sanitaria (10% vs 4,8%), mancanza di risorse di cura (5,9% vs 1,9%), ritardo nel richiedere cure mediche (13,0% vs 8,1%), totale assenza di visite mediche nell’ultimo anno (6,8 vs 2,6%), richieste di ricovero in pronto soccorso nell’ultimo anno (30% vs 44%), percezione di uno stato di salute fragile (33% vs 16%). L’analisi multivariata suggerisce che i risultati nel campione di bambini con bisogni di cure speciali nelle famiglie migranti riflettono le differenze che riguardano lo stato socio-economico della famiglia, la difficoltà di linguaggio dei genitori e l’educazione, l’eticità e la mancanza di posizione assicurativa dei bambini. Le risorse limitate, il fatto che i genitori non parlino inglese e l’uso limitato dei servizi di salute, inoltre, sono alcune delle barriere che impediscono ai bambini di famiglie immigrate, con bisogno di cure speciali, di essere in buona salute (Javier et al. 2010).

Ciò consente di fare una prima, fondamentale, considerazione. La disparità economica, che sussiste tra le famiglie di immigrati e le famiglie statunitensi, da un lato, è la causa della disparità di accesso sia all’istruzione che alla salute, e in particolare alla salute mentale (Pumariega et al. 2010). Dall’altro lato, essa è l’effetto della disparità di accesso, nel senso che si instaura un circolo vizioso, per il quale all’emarginazione economica segue l’emarginazione sociale, e viceversa. Il primo problema, con il quale si deve pertanto misurare una struttura pubblica di salute mentale, è precisamente questo: garantire l’accesso alla struttura anche a coloro che sono economicamente più svantaggiati.

Come è noto, tale problema è particolarmente sentito negli Stati Uniti e riguarda la salute in generale. Solo coloro che hanno i mezzi economici possono garantirsi un’adeguata assistenza. Prima della riforma del 1990, infatti, le famiglie immigrate e i loro figli avevano accesso a benefici di assistenza pubblica con gli stessi diritti dei cittadini americani; a seguito di tale riforma, si sono venuti a creare un continuo cambiamento e una notevole confusione rispetto ai diritti di accesso all’assistenza pubblica (Kalil e Crosby 2010).

Come secondo aspetto, è possibile indicare la particolare vulnerabilità dei bambini. Fra gli studi da noi presi in esame, uno in particolare ci suggerisce che per alcuni gruppi etnici, che provengono da specifiche regioni dell’America come l’America Latina, i bambini figli di immigrati risultano essere particolarmente vulnerabili sul piano della salute mentale per lo stress dovuto all’immigrazione e alle difficoltà nel processo di acculturazione. Non infrequentemente, i bambini che arrivano all’attenzione delle agenzie di salute pubblica infantile vengono da esperienze di abuso, neglect, abbandono, violenza domestica o abuso di sostanze da parte dei genitori (Dettlaff et al. 2010), così che un’essenziale indicazione che emerge dalla letteratura è proprio quella, rivolta appunto alle strutture, di svolgere un’accurata ricerca, con tutti mezzi disponibili, per osservare la possibile presenza di esperienze così traumatiche.

Per quanto riguarda la fascia degli adolescenti, uno specifico studio esamina l’accesso ai servizi di salute mentale dei ragazzi stranieri che soffrono di depressione maggiore. I risultati della ricerca sottolineano come l’utilizzo dei servizi di salute mentale da parte degli adolescenti con depressione maggiore sia molto basso, e in particolare ancora inferiore tra gli adolescenti stranieri. Inoltre, tali risultati suggeriscono che investire in servizi di salute mentale, che hanno una sede interna alla scuola, può incrementare il successo degli interventi (Cummings et al. 2011).

Un ulteriore approfondimento del tema della vulnerabilità dei giovani immigrati prende in considerazione quali sono i fattori che non soltanto nei bambini, ma soprattutto nei loro caregivers

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e negli assistenti sociali spingono ad un maggior utilizzo dei servizi di salute mentale. In una specifica ricerca, l’attenzione è stata posta proprio sui cosiddetti servizi di “family support” (FS), che hanno precisamente il compito di alleviare lo stress dei caregivers. La ricerca da noi esaminata testimonia che l’uso dei supporti familiari non è determinato solo da fattori demografici o dall’alto rischio di manifestazioni di disturbi comportamentali per i membri dei nuclei familiari migranti (come attestato dallo studio precedente, nel quale si dice che la condizione migratoria spesso produce storie di maltrattamento o abuso da parte dei genitori che manifestano seri problemi mentali). L’uso di questi servizi è facilitato anche dalla particolare attenzione degli assistenti sociali (caseworkers), che sono mossi sia dall’intento di darsi una preparazione adeguata, onde acquisire le competenze culturali necessarie per il loro lavoro, sia dall’obiettivo di acquisire una maggiore sensibilità nella percezione dei problemi organizzativi (Rajendran et al. 2010), che costituisce una competenza di indubbia rilevanza quando si affrontano i suddetti problemi.

3. Accesso ai servizi: qualità dell’offerta

Quanto detto consente di comprendere un punto molto significativo: l’accesso ai servizi di salute pubblica non dipende soltanto dalla domanda, ma anche dalla qualità dell’offerta. La letteratura segnala come siano necessarie una formazione e una competenza “culturalmente sensibili” da parte del personale curante, poiché risulta indispensabile che i social workers conoscano l’impatto che l’immigrazione e l’acculturazione possono avere sulle famiglie immigrate nonché gli effetti che tale impatto produce sull’accesso ai servizi.

Una valutazione attenta dei valori culturali e religiosi, delle dinamiche familiari e dei ruoli all’interno delle famiglie degli immigrati e dei rifugiati, che si rivolgono ai servizi di salute mentale, può permettere la definizione di interventi terapeutici appropriati quando si lavora con persone che hanno differenti background culturali. Senza la presenza di servizi culturalmente competenti, si rischia il fallimento nel dare servizi, tenuto conto anche dell’enorme crescita demografica di immigrati che è prevista nei prossimi tempi (Dow 2011).

Facciamo notare, a questo proposito, che il lavoro del gruppo italiano di psichiatria transculturale di Bologna sostiene che l’utilizzo dei mediatori culturali e degli assistenti sociali, durante i primi colloqui con i pazienti stranieri, può migliorare la partecipazione al trattamento (Tarricone et al. 2011).

Una delle possibili soluzioni, che viene proposta al fine di ridurre le barriere culturali e linguistiche che penalizzano fortemente queste famiglie, consiste appunto nel valorizzare adeguatamente l’importanza che il training può avere nella formazione di coloro che si occupano di questi problemi. Ebbene, ci si auspica che costoro acquisiscano una competenza in questioni cross-culturali e, nei colloqui che intrattengono con immigrati, seguano la buona norma di utilizzare interpreti esperti, onde diminuire le distanze ed eliminare la disparità tra immigrati e non immigrati (Javier et al. 2010).

Il linguaggio, infatti, è stato identificato come uno dei maggiori ostacoli che può impedire ai gruppi minoritari di ricevere servizi di salute mentale. Spesso sono proprio le difficoltà linguistiche ad impedire che gli immigrati si rivolgano ai servizi, per paura di non essere capiti, o perché imbarazzati della loro incapacità di comunicazione (Dow 2011).

La ricerca, d’altra parte, svolge un ruolo fondamentale nel progetto volto ad abbattere le barriere culturali. Molti studi si concentrano, non per niente, sulle differenze culturali poiché è solo conoscendo le differenze culturali che è possibile rilevare le barriere e, solo se queste ultime

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vengono rilevate, possono venire abbattute (Chen et al. 2011). Lungo questa linea si collocano anche gli studi volti a osservare il sentimento anti-immigrazione, particolarmente acuto in certi stati degli USA (Dettlaff et al. 2010), nelle sue motivazioni più nascoste e nel suo continuo evolversi.

Un’ulteriore necessità si impone agli operatori di servizi, cioè quella di prevedere uno screening dello stato di salute mentale delle famiglie immigrate, allo scopo di individuarne e riconoscerne le esigenze e i bisogni. Spesso è la paura dello stigma, massimamente temuto quando si ha a che fare con problemi di salute mentale, che induce le persone a non chiedere aiuto, anche quando, invece, avrebbero estremo bisogno di poter esprimere il loro disagio e ricevere la giusta accoglienza e comprensione nonché le cure appropriate. Poiché questa eventualità deve essere sempre messa in conto, gli operatori socio-sanitari dovranno, da un lato, essere vigili; dall’altro, prendere in considerazione i programmi di sensibilizzazione progettati specificamente per ridurre i fantasmi legati allo stigma della malattia mentale che spesso aleggiano tra le famiglie di immigrati (Rajendran et al. 2010). Il punto di vista che ci sentiamo di promuovere, pertanto, è quello di mantenere un’elasticità cognitiva, che consenta di rimettere sempre in discussione ipotesi formulate, se i dati raccolti lo richiedono. Le modalità di configurazione dello stigma, infatti, evolvono di continuo e spesso non appaiono per la ragione che non sono state ancora riconosciute.

Del resto, e questo è il punto sul quale ci sentiamo di dover insistere, il potenziale stigma che riguarda la malattia mentale può ulteriormente diminuire la possibilità di utilizzare i servizi di consulenza (Dow 2011), così che la capacità di identificare lo stigma stesso e di neutralizzarlo mediante un intelligente lavoro di critica del pregiudizio risulta il prerequisito per l’accesso alle strutture.

4. Accesso ai servizi e abbandono dei servizi

L’aspetto concernente le modalità di accesso ai servizi è intrinsecamente vincolato ad un altro problema certamente non secondario, quello dell’abbandono dei servizi da parte dell’utenza. Il tema dell’abbandono è stato affrontato, in particolare, da uno studio longitudinale (Kalil e Crosby 2010), nel quale viene preso in esame il periodo della riforma del welfare, tra il 1995 e 1999 negli USA, con l’intento di stabilire se l’abbandono dei servizi di welfare aveva avuto un impatto diverso sulla salute dei bambini delle famiglie native rispetto a quelli delle famiglie migranti.

Ebbene, dai dati forniti emerge un elemento che giudichiamo molto significativo: i bambini figli dei migranti, che hanno perso i contatti con la rete del servizio sociale, mostrano problematiche maggiori in termini di salute in generale rispetto ai bambini figli di nativi, o dei bambini figli di migranti che ancora sono seguiti dai servizi. Alcune variabili di controllo sono state utilizzate per verificare lo stato di salute iniziale di questi bambini, le caratteristiche demografiche e la qualità delle condizioni sociali e abitative. Inoltre, sono stati individuati degli indicatori che testassero la salute mentale e fisica dei genitori. Dalla ricerca emerge che l’impatto negativo maggiore, causato dalla mancanza di una rete di welfare, lo si riscontra soprattutto tra i migranti che hanno delle barriere multiple per accedere ai programmi sociali (per es., inferiore permanenza negli Stati Uniti, situazione abitativa precaria, il fatto di non avere alcun familiare con cittadinanza, esperienze negative vissute dalle madri vittime di discriminazione, difficoltà linguistiche).

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Dal punto di vista dell’abbandono dei servizi, uno studio afferma che per i migranti più giovani e di recente immigrazione è più alto il rischio di dropping out. Tale rischio, più elevato per particolari gruppi etnici che per altri, è proprio connesso alla competenza che dovrebbe essere richiesta agli operatori dei servizi: competenza che riguarda sia una conoscenza culturalmente adeguata, sia linguisticamente appropriata. La presenza di mediatori o di operatori sociali competenti al primo colloquio con gli stranieri sembrerebbe ridurre il rischio di drop-out (Tarricone et al. 2011) e questa è anche l’ipotesi interpretativa che noi abbiamo considerato la più significativa e della quale abbiamo cercato di verificare la consistenza.

Su un punto molte delle ricerche prese in esame sembrano convenire: le famiglie migranti che hanno difficoltà economiche ricevono meno attenzione da parte dei servizi di welfare rispetto alle famiglie di nativi che hanno le stesse difficoltà economiche. Anche se non è facile indicare i motivi che spingono le famiglie immigrate a lasciare il sistema del welfare, è da rilevare non di meno un peggioramento nella salute dei bambini che fanno parte delle famiglie che praticano tale abbandono. Non è facile stabilire se ciò accade perché questi bambini non accedono ai servizi (a causa di barriere linguistiche, di conoscenza o della situazione precaria dei genitori) o perché molti migranti, che vivono in condizione di emarginazione sociale o senza documenti in regola, temono che il contatto con i servizi possa portare ad un coinvolgimento delle forze di polizia e ad una espulsione dal paese per loro o per altri membri della famiglia. Il punto certo è che questa situazione di emarginazione e di vita sociale parallela li porta spesso ad ignorare la possibilità di partecipare ad attività di inserimento sociale fornite da altri servizi o di ricevere sussidi e appoggi da parte di altre agenzie, a cui accedono invece con più facilità i cittadini residenti (Kalil e Crosby 2010).

Un altro punto che emerge con chiarezza, e che giova ribadire, è il seguente: le barriere per gli immigrati comportano non solo meno diritti, ma anche un accesso inferiore ai servizi di welfare. Un fattore che rende difficile l’accesso, come sottolineato dalla maggioranza dei lavori, è la mancanza di operatori della salute che siano competenti culturalmente e linguisticamente nonché capaci di superare le barriere culturali (Rajendran et al. 2010). Questo, come indicato poco sopra, costituisce un punto che a noi sembra di estrema rilevanza.

Le differenze più significative che si riscontrano negli studi sulle popolazioni migranti riguardano, infatti, non solo fattori individuali, ma anche disparità etniche: sia l’accesso ai sevizi sia la loro accoglienza e il loro intervento sono influenzati da tali differenze. Inoltre, emerge con chiarezza la mancanza di servizi “culturalmente competenti” e questo costituisce un grave limite. Sarebbe estremamente importante prestare la massima attenzione, da un lato, alla manifestazione culturale dei sintomi e dei problemi nonché alle espressioni sintomatiche del disagio; dall’altro, al supporto linguistico e al coinvolgimento familiare nella cura nonché alla psicoterapia praticata, al supporto sistemico-contestuale e alla farmacoterapia utilizzata. Tutti questi aspetti dovrebbero essere tenuti in grande considerazione soprattutto per configurare trattamenti culturalmente orientati, ossia trattamenti che si avvalgano di operatori culturalmente e linguisticamente competenti e che sappiano individuare un percorso che preveda anche una crescita culturale e linguistica dei migranti.

L’obiettivo più generale è precisamente quello di favorire interventi preventivi, che comprendano una giusta considerazione del problema della salute mentale dei migranti nonché la capacità di programmare un adeguato percorso di adattamento degli stessi. Questo approccio, come è stato opportunamente sottolineato (Pumariega et al. 2010) ha proprio l’obiettivo di minimizzare il rischio di conseguenze negative per la salute mentale delle famiglie migranti e noi ci sentiamo di condividerlo interamente.

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Se poi spostiamo l’attenzione, e leggiamo il fenomeno dell’acceso ai servizi pubblici di salute mentale concentrandoci sulla provenienza etnica, è possibile rilevare, in forza dei dati che emergono dalla nostra review, come già detto in precedenza, che un gruppo etnico particolarmente studiato è quello degli americani di origine asiatica. In una specifica ricerca, sono stati studiati i rapporti tra lo stato generazionale (cioè immigrati di prima, seconda o terza generazione) e gli effetti della coesione familiare sull’uso corrente dei servizi di salute mentale (negli ultimi 12 mesi) tra gli americani asiatici. L’obiettivo di questo studio non soltanto era quello di esaminare l’associazione tra la coesione familiare e l’utilizzo dei servizi di salute mentale tra gli americani asiatici, ma altresì di verificare se queste associazioni erano diverse per generazione.

Lo studio ha portato alla seguente conclusione: la coesione familiare e lo status generazionale influiscono sulla probabilità degli americani asiatici di rivolgersi ai servizi di salute mentale. I risultati evidenziano anche la necessità di cure primarie e la presenza costante di altri sistemi per lo screening dello stato di salute mentale, in particolare per la prima generazione di americani asiatici. I programmi dei servizi di salute mentale devono avere come obiettivo la cura e il sostegno per gli immigrati recenti e per gli individui privi di un forte sistema di sostegno familiare.

I risultati fondamentali emersi da questa indagine sono due. In primo luogo, i partecipanti che avevano una maggiore coesione familiare avevano meno probabilità di utilizzare servizi di salute mentale, anche dopo che erano stati controllati per la malattia mentale e per altri fattori socio-demografici. In secondo luogo, è stato scoperto che l’effetto di status generazionale nell’uso dei servizi di salute mentale modifica l’effetto della coesione familiare.

In particolare, la coesione familiare sembra giocare un ruolo importante per gli americani asiatici di prima generazione nel cercare servizi di salute mentale rispetto alla terza o alla successiva generazione di americani di origine asiatica e, inoltre, gli americani immigrati asiatici con una forte coesione familiare hanno una minore probabilità di ricevere servizi di salute mentale.

Anche se preliminari, questi risultati suggeriscono che la significativa differenza che si riscontrava nel campione tra gli americani di seconda e terza generazione asiatici era legata al fatto che almeno un genitore era nato all’estero e ciò può suggerire l’ipotesi che i programmi educativi mirati al genitore immigrato possono essere particolarmente utili per favorire l’utilizzo dei servizi di salute mentale. Tale ipotesi dovrà venire attentamente vagliata, perché, se corroborata da altri studi e ricerche, offrirebbe una indicazione di sicuro interesse, fermo restando che essa non costituisce l’unica ipotesi ermeneutica formulabile.

Un’altra ipotesi che potrebbe essere formulata, infatti, è che gli immigrati provenienti da famiglie coese abbiano meno probabilità di utilizzare servizi di salute mentale perché richiedono un minor numero di servizi. Le famiglie, cioè, possono fornire esse stesse i supporti necessari oppure possono utilizzare pratiche di guarigione tradizionali. Non si è in grado di valutare questa ipotesi esplicativa, così che si può affermare che le ricerche dovrebbero approfondire ulteriormente questi temi.

Lo studio ha infine trovato un’associazione positiva tra coesione familiare ed eventuali disturbi del DSM-IV: gli intervistati con un alto livello di coesione familiare avevano meno probabilità di avere un disturbo e ciò trova una conferma molto significativa in letteratura (Ta et al. 2010).

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5. Elementi potenzialmente stressanti nel processo di immigrazione

Quando facciamo riferimento alle modalità con cui le famiglie di immigrati si rivolgono ai servizi, non possiamo tralasciare un aspetto ad esse collegato e cioè quello inerente ai fattori potenzialmente stressanti. Ci chiediamo: quali sono i fattori o gli eventi potenzialmente stressanti, connessi alla migrazione e all’esito del percorso di acculturazione, che possono concorrere al sopraggiungere di un disagio o di un disturbo mentale?

La decisione di emigrare cambiando nazione, cultura e comunità è una decisione dolorosa, anche se implica la speranza di migliorare la propria situazione e quella della propria famiglia. Naturalmente, l’immigrazione in genere si verifica perché chi emigra prevede di avere benefici (avanzamento economico ed educativo; libertà politiche, religiose e sociali; in generale, maggiori opportunità).

La migrazione è inevitabilmente un’esperienza stressante; può essere anche pericolosa o violenta per gli immigrati che entrano illegalmente nel paese di accoglienza. Vista l’accumulazione di fattori stressanti, non stupisce che gli immigrati, che appartengono a fasce a più basso reddito, siano a rischio di disagio per la salute mentale (Kaltman et al. 2011).

Un’equazione rischio-beneficio esiste per i bambini immigrati e per i figli di immigrati. Essi sono in grado di raggiungere complessivamente una migliore salute fisica di quella che avrebbero avuto nelle nazioni di origine, progrediscono spesso verso un livello di istruzione superiore e contribuiscono a migliorare l’economia del paese che li ospita: questo, almeno, emerge dallo studio dell’immigrazione negli Stati Uniti. Tuttavia, gli immigrati devono affrontare molteplici sfide, tra le quali è possibile ricordare: maggiori elementi di stress e di conflitto all’interno delle loro famiglie; difficoltà di adattamento nel contesto sociale; disparità economica e culturale; difficoltà di accesso all’istruzione e alle strutture che si occupano di salute, in genere, e di salute mentale, in particolare (Pumariega et al. 2010).

I principali fattori di stress a lungo termine per i bambini immigrati e le famiglie sono quelli derivanti dalla xenofobia nella cultura di accoglienza e nella società. La xenofobia (pregiudizio negativo diretto contro un gruppo nazionale o etnico) di solito si esprime attraverso sottili o palesi discriminazioni nonché attraverso l’emarginazione sociale ed economica. Il razzismo può venire considerato una componente della xenofobia (o una forma estrema di xenofobia), che spesso si associa a movimenti anti-immigrazione.

In particolare, i bambini rifugiati e le loro famiglie sono stati sovente esposti a esperienze di guerra molto pesanti, a elevati tassi di stress acuto che possono generare PTSD (Disturbo Post Traumatico da Stress), depressione e ansia.

Il tema dell’acculturazione e quello dell’assimilazione sono di grande rilevanza e noi lo abbiamo sottolineato più volte nel presente lavoro. Essi sono intrinsecamente vincolati al tema dell’identità personale. Il processo di formazione dell’identità, più precisamente, può venire definito un evento critico nel processo di acculturazione. Infatti, il bambino e l’adolescente immigrati devono adattarsi a due mondi diversi: quello tradizionale della propria famiglia e quello dei pari, cioè il mondo della scuola e della comunità. Il bambino è sottoposto a pressioni molteplici e spesso con richieste contraddittorie che emergono dal mondo della scuola, su un versante, e dalla famiglia, sull’altro versante.

Il processo di acculturazione genera spesso forti elementi stressanti, che si rendono più evidenti nel momento in cui i figli diventano adolescenti e si verifica un vero e proprio conflitto culturale intergenerazionale. Quest’ultimo, come indicato in precedenza, si manifesta a seguito dell’assimilazione diversificata della cultura del paese che li accoglie, dell’acquisizione di nuove

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norme e valori culturali e dell’adattamento a nuovi linguaggi e regole familiari, che finiscono per creare una forte distanza tra genitori e figli di famiglie immigrate (Schwartz et al. 2010).

Sul tema della correlazione tra l’elevata acculturazione/assimilazione e il rischio di psicopatologia per i bambini di immigrati esiste, in effetti, una cospicua letteratura. Recenti studi hanno rinforzato l’ipotesi della stretta relazione che sussisterebbe tra lo stress dovuto all’acculturazione e varie forme di psicopatologia tra i giovani immigrati (soprattutto sintomi depressivi, rischio di abuso di sostanze, comportamenti antisociali, sintomi dell’ansia, difficoltà di concentrazione). Inoltre, la letteratura segnala un maggiore rischio di psicopatologia tra i bambini e tra i giovani immigrati rispetto ai loro genitori (Pumariega et al. 2010).

A noi preme ribadire quanto già indicato in precedenza: solo l’informazione culturale (la competenza culturale di cui abbiamo già parlato), i trattamenti e gli interventi preventivi, capaci di incontrare i bisogni di salute mentale e culturale dei bambini immigrati e delle famiglie, sembrano avere la potenzialità di diminuire il rischio di conseguenze negative sulla salute mentale (Pumariega et al. 2010).

Non sarà inutile ricordare che, in aggiunta alle barriere culturali e del linguaggio, molti dei problemi che riguardano le famiglie immigrate si originano fuori dalla famiglia e sono collocate nelle dinamiche sociali ed economiche della globalizzazione e della migrazione transnazionale. Queste ultime sono il risultato di politiche anti-immigrazione, che hanno caratterizzato alcuni Stati federali: gli USA, infatti, non hanno una politica uniforme sull’immigrazione (Dettlaff et al. 2010).

Sul tema dell’acculturazione, tuttavia, ci sentiamo di dover insistere, proprio per la sua rilevanza. Esso è stato affrontato in generale in tutti i lavori; tuttavia, due studi se ne sono occupati in maniera più approfondita (Schwartz et al. 2010, Schwartz et al. 2011).

L’acculturazione è descritta come un processo multidimensionale che consiste nella confluenza tra i valori ereditati culturalmente dai paesi di origine e le pratiche culturali del paese ricevente. Le implicazioni di questa riconcettualizzazione del costrutto di acculturazione sono discusse in termini di relazioni psicosociali e della salute. In particolare, appare necessaria un’elaborazione per affrontare il “paradosso dell’immigrante”, secondo il quale gli immigrati, che si espongono di più al contesto culturale che li ospita, riferiscono più conseguenze negative per la salute fisica e mentale. In tal senso una maggiore acculturazione produrrebbe una emersione dei disturbi superiore a quella dei nativi.

L’obiettivo primario che ci siamo prefissi con questo lavoro è stato proprio quello di proporre un’espansione del concetto di acculturazione e, allo stesso tempo, di sollevare un numero di domande e questioni critiche che riteniamo vadano opportunamente approfondite, formulando ipotesi interpretative, anche in alternativa tra loro, che devono poi trovare il continuo sostegno dei dati. Come emerge in letteratura (per esempio, Schwartz et al. 2010), questo lavoro viene effettuato con grande attenzione, per la ragione che il tema non solo è molto delicato, ma si caratterizza per il concorso di molteplici aspetti.

In uno studio successivo, condotto dallo stesso team di ricerca (Schwartz et al. 2011), è stato esaminato un modello “bidimensionale” di acculturazione (che comprende anche i valori e le pratiche culturali presenti negli Stati Uniti), in relazione all’abuso di alcol, all’uso illecito di droghe, a comportamenti sessuali a rischio e alla guida alterata su un campione di 3.251 giovani studenti immigrati, di prima e seconda generazione. I risultati indicano che le pratiche culturali e i valori collettivi sono generalmente di protezione contro i comportamenti a rischio per la salute. Tuttavia, l’identificazione con i valori culturali del paese di origine negli ispanici, è positivamente associato con una maggior presenza di comportamenti sessuali a rischio.

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Un altro lavoro ancora studia l’efficacia educativa dei genitori, lo stress familiare percepito, la capacità educativa dei genitori e i comportamenti “externalizing” (indicatori di disagio) dei bambini (Yaman et al. 2010). Si tratta di uno studio realizzato nei Paesi Bassi, che nello specifico compara lo stress familiare, la capacità educativa e l’ “externalizing” tra gli Olandesi e i bambini di seconda generazione che vengono da famiglie immigrate turche che vivono in Olanda.

Lo studio analizza vari aspetti: quanto l’appartenenza a un gruppo culturale specifico influenza la capacità di tollerare lo stress familiare e i problemi a esso correlati; se un alto livello di acculturazione (vivere in una realtà sapendone utilizzare le risorse, ecc.) può, in generale, ridurre lo stress percepito; infine, quanto può costituire un fattore positivo l’alto livello di acculturazione delle madri. Dal lavoro risulta che non c’è differenza significativa tra i due gruppi (olandesi e immigrati) rispetto alle strategie per tollerare lo stress familiare e rispetto ai comportamenti di “externalizing” dei bambini.

L’articolo appoggia la teoria del “no-group difference”, secondo la quale non esistono differenze etniche in relazione alle capacità genitoriali di resistenza ai fattori di stress, e in relazione ai conseguenti comportamenti dei bambini (Yaman et al. 2010).

Un ultimo articolo che approfondisce i temi dell’acculturazione, e che riteniamo di dover menzionare, è di provenienza norvegese (Kwak 2010). Esso mette in luce le difficoltà sperimentate da una ragazza adolescente, di origine asiatica, immigrata in nord-america. L’autrice, di origine coreana, racconta il suo percorso di migrazione e le sue relazioni sociali lungo il percorso di acculturazione. Ella pone grande attenzione al concetto di collettività nella cultura di origine nonché l’armonia e la gerarchia all’interno delle famiglie asiatiche, e descrive l’evoluzione nello stile di vita dei migranti nella nuova società. Il punto che l’autrice mette in evidenza è che in virtù della sua cultura di provenienza i genitori vedono i figli non come individui, ma come membri della famiglia allargata.

I genitori asiatici, secondo quanto afferma l’autrice, investono nei figli, ma come se fossero una cosa propria, lasciando poco spazio alle loro libertà, e la contraddizione maggiore è vissuta dai figli nell’incontro con altri che non appartengono a quel gruppo culturale. La dimensione personale è del tutto mancante all’interno della famiglia asiatica: il successo personale è una prova desiderabile, ma come prova di successo per la famiglia. C’è poco spazio per l’individuo e per le soddisfazioni personali e non viene valorizzato lo sforzo individuale come invece viene fatto nel contesto culturale ricevente. Quando una persona si trasferisce non può mai prevedere le conseguenze di un processo di acculturazione, che sono sempre più grandi di quello che si possa prevedere. L’autrice, insomma, rileva l’importanza dei legami con la propria realtà culturale, anche se questa consapevolezza provoca dei conflitti. Inoltre sottolinea l’importanza di elaborare e condividere con altri questa esperienza di gestione e superamento del conflitto.

6. Conclusioni

Abbiamo rilevato come esista un’ampia letteratura che tratta la migrazione dal punto di vista della salute in generale. Noi abbiamo dato particolare rilevanza al tema dell’accesso ai servizi di salute mentale pubblica sia dei genitori che dei bambini immigrati. Si è così potuto mettere in evidenza che alcune ricerche hanno dimostrato che i bambini immigrati che richiedono cure speciali hanno un accesso molto ridotto ai servizi di salute comparati con le famiglie di non immigrati e ciò risulta in stretta relazione con lo stato socio-economico della famiglia migrante, la difficoltà di linguaggio dei genitori e l’educazione. Le risorse limitate, il fatto che i genitori

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non parlino inglese e l’uso limitato dei servizi di salute sono, quindi, alcune delle barriere che incontrano i bambini di famiglie immigrate. Il primo problema con il quale si deve pertanto misurare una struttura pubblica di salute mentale è precisamente questo: garantire l’accesso alla struttura anche a coloro che sono economicamente più svantaggiati. Inoltre, le persone che provengono da paesi stranieri non hanno le conoscenze per comprendere come i servizi funzionano, si sentono emarginati o hanno il timore del servizio sociale che potrebbe allontanarli dai propri figli.

A questo proposito, non si può non considerare la particolare vulnerabilità dei bambini, che risulta ancora più significativa in alcuni gruppi etnici. Ciò è da ricondurre allo stress dovuto all’immigrazione e alle difficoltà nel processo di acculturazione, processo che a nostro giudizio riveste un ruolo fondamentale non solo per comprendere il fenomeno nei suoi aspetti psicologicamente più significativi, ma anche per individuare le strategie più efficaci che dovranno essere messe in campo per affrontare e risolvere i problemi che a tale fenomeno sono connessi.

Del resto, una struttura pubblica di salute mentale non può non preoccuparsi anche di alleviare lo stress dei caregiver, così che l’obiettivo principale risulta quello di ridurre le barriere culturali e linguistiche che penalizzano fortemente le famiglie migranti. Per raggiungere tale obiettivo, è importante che gli operatori delle strutture acquisiscano una competenza in questioni transculturali e, nei colloqui che intrattengono con immigrati, seguano la buona norma di utilizzare interpreti esperti, onde diminuire le distanze ed eliminare la disparità tra immigrati e non immigrati. Di qui la necessità di servizi “culturalmente competenti”, cioè orientati all’accoglienza delle persone immigrate attraverso l’utilizzo di figure professionali specifiche, come i mediatori culturali, o di persone preparate in ambito interculturale.

Dopo un’attenta disamina critica dei temi dell’assimilazione e dell’acculturazione, il nostro lavoro si conclude prendendo in esame alcuni degli elementi che risultano potenzialmente più stressanti nel processo di immigrazione per i bambini e le loro famiglie.

Per quanto concerne la situazione nel nostro paese, è utile ricordare che l’approccio al quale abbiamo fatto riferimento è quello al quale si ispirano gli autori del lavoro italiano che abbiamo preso in considerazione: la prospettiva assunta dai servizi di salute mentale a seguito della legge Basaglia, ispirata ad una visione multidimensionale dell’essere umano. Secondo questa corrente uguale dignità va assegnata in termini clinici alla vita biologica individuale, a quella psicologica e a quella sociale. Questi tre fattori risultano ugualmente rilevanti nel determinare i meccanismi psicopatologici e la prospettiva terapeutica che può essere assunta (Tarricone et al. 2011).

La ricerca da condurre in questo ambito risulta inoltre indispensabile, poiché permette di adattare strategie di intervento basate su evidenze scientifiche che consentono di implementare i servizi, soprattutto per le fasce più marginalizzate come quella dei migranti (Kaltman et al. 2011).

Riassunto

Parole chiave: famiglie migranti, utilizzo dei servizi di salute mentale, competenza culturale, assimilazione, stress familiare, acculturazione

Il presente lavoro affronta il tema della salute mentale delle famiglie migranti e il loro accesso ai servizi pubblici corrispondenti, e si propone di individuare i principali problemi connessi con l’accoglienza e l’assistenza dei migranti. Sono stati scelti articoli scientifici di letteratura internazionale compresi nel biennio

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2010-2011 calibrati su questo tema e si è focalizzato l’interesse primariamente su di un particolare aspetto e cioè le modalità attraverso le quali le agenzie di salute mentale si fanno carico dell’intero nucleo migrante, rivolgendo dunque l’attenzione tanto ai genitori quanto ai bambini. L’accesso ai servizi è analizzato dal punto di vista dell’utenza e dei disturbi denunciati, della qualità dell’offerta nonché dell’abbandono dei servizi stessi, senza tralasciare l’analisi degli elementi che risultano potenzialmente stressanti nel processo di immigrazione. Il lavoro mette in evidenza che il primo problema con il quale si devono misurare le strutture è garantire l’accesso anche a coloro che vivono in condizione di emarginazione socioculturale e sono economicamente più svantaggiati.

IMMIGRANT FAMILIES AND MENTAL HEALTH SERVICES: SOME TOPICS THAT EMERGE FROM A FIRST REVIEW OF SCIENTIFIC LITERATURE

Abstract

Key words: immigrant families, mental health services utilization, cultural competence, assimilation, family stress, acculturation

The study deals with immigrant families’ mental health and their access to public mental health-related services, and aims at pointing out the main problems associated with the reception and assistance to immigrants. We consider international scientific articles discussing this issue published in the years 2010-2011, and our focus is primarily on the strategies followed by mental health agencies in order to assist the entire immigrant family unit, thus providing support for both parents and children. Access to mental health services and facilities is examined on the basis of the users’ viewpoint and the mental disorders reported as well as the quality of the available services and the factors affecting dropout. We also investigate the aspects which prove to be potentially stressful in the immigration experience. As indicated in the study, the first challenge mental health care providers have to face is to facilitate access and utilization of services for the immigrants who experience sociocultural isolation and economic deprivation.

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Famiglie migranti e servizi di salute mentale

185Psichiatria e Psicoterapia (2012) 31,3

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Corrispondenza

Eleonora CaponiCentro Italiano di Psicologia Analitica (CIPA), Roma.E-mail: [email protected]

Irene AgnelloCentro Italiano di Psicologia Analitica (CIPA), Roma.E-mail: [email protected]

Aldo StellaDipartimento di Scienze Umane e Sociali, Università per Stranieri di Perugia.E-mail: [email protected]