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1 Una giustizia (amministrativa) in perenne trasformazione : profili storico-evolutivi e prospettive 1 - Premessa: l’evoluzione storica della tutela dinanzi al giudice amministrativo dalla legge del 1865 alla Costituzione e al codice del processo amministrativo. Il sistema delle tutele, nella sua evoluzione, rappresenta il livello di responsabilità dei poteri pubblici che l’ordinamento è disposto a riconoscere; e denota la capacità dello Stato di diritto di mettersi in gioco, riconoscendo a un’articolazione autonoma da sé il potere di giudicare la legittimità del suo operare, su richiesta di quegli stessi cittadini, come individui, nel cui interesse, come collettività, è svolta l’attività amministrativa. La nascita e l’evoluzione storica in Italia della tutela avverso gli atti dei pubblici poteri possono fornire la chiave di lettura di un sistema che si caratterizza proprio per la progressiva emersione di situazioni tutelate, di legittimati, di tecniche di tutela. Il sistema di tutela nei confronti della pubblica amministrazione, negli Stati preunitari, si fondava per lo più sul sistema del contenzioso amministrativo, di derivazione napoleonica: sistema vigente, sia pure con caratteristiche proprie, nei maggiori Stati italiani (Regno di Sardegna, Regno delle due Sicilie, Ducato di Parma e Piacenza), mentre un sistema assolutistico vigeva nel Lombardo-Veneto e nello Stato pontificio (secondo gli annotatori, in quest’ultimo, pur dopo la formale istituzione nel 1835 del contenzioso amministrativo); all’opposto, il sistema di giurisdizione unica era presente nel solo Granducato di Toscana: un sistema di giurisdizione unica, peraltro, che non escludeva una serie di eccezioni, giudicate in ultima istanza dal Consiglio si Stato, in matera di pensioni, di contabilità pubblica, di appalto per le strade pubbliche, di acque e strade 1 . Non si possono qui esaminare questi sistemi, ma va posto in rilievo un carattere di fondo del sistema del contenzioso amministrativo, ben evidenziato da Fabio Merusi 2 : il contenzioso amministrativo riposava su una clausola generale di attribuzione di competenza che devolveva agli organi del contenzioso, in un processo significativamente strutturato per citazione, la cognizione di tutti gli affari caratterizzati dalla connessione tra un’obbligazione (del privato o della p.a.) e un 1 ASTUTI, L’unificazione amministrativa del Regno d’Italia, Napoli 1966, 97. 2 MERUSI, Consiglio di Stato (all.D) e abolizione del contenzioso (all.E), in Storia Amministrazione Costituzione, 150° dell’unificazione amministrativa italiana (legge 20 marzo 1865, n. 2248), Bologna 2015, p.225 ss. Di particolare interesse per la ricostruzione storica e per i profili di attualità del nostro sistema di giustizia amministrativa sono i molteplici e autorevoli contributi contenuti nel volume collettaneo Il Consiglio di Stato: 180 anni di storia, Bologna 2011.

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Una giustizia (amministrativa) in perenne trasformazione : profili storico-evolutivi e

prospettive

1 - Premessa: l’evoluzione storica della tutela dinanzi al giudice amministrativo dalla legge del

1865 alla Costituzione e al codice del processo amministrativo.

Il sistema delle tutele, nella sua evoluzione, rappresenta il livello di responsabilità dei poteri

pubblici che l’ordinamento è disposto a riconoscere; e denota la capacità dello Stato di diritto di

mettersi in gioco, riconoscendo a un’articolazione autonoma da sé il potere di giudicare la

legittimità del suo operare, su richiesta di quegli stessi cittadini, come individui, nel cui interesse,

come collettività, è svolta l’attività amministrativa. La nascita e l’evoluzione storica in Italia della

tutela avverso gli atti dei pubblici poteri possono fornire la chiave di lettura di un sistema che si

caratterizza proprio per la progressiva emersione di situazioni tutelate, di legittimati, di tecniche di

tutela.

Il sistema di tutela nei confronti della pubblica amministrazione, negli Stati preunitari, si fondava

per lo più sul sistema del contenzioso amministrativo, di derivazione napoleonica: sistema vigente,

sia pure con caratteristiche proprie, nei maggiori Stati italiani (Regno di Sardegna, Regno delle due

Sicilie, Ducato di Parma e Piacenza), mentre un sistema assolutistico vigeva nel Lombardo-Veneto

e nello Stato pontificio (secondo gli annotatori, in quest’ultimo, pur dopo la formale istituzione nel

1835 del contenzioso amministrativo); all’opposto, il sistema di giurisdizione unica era presente nel

solo Granducato di Toscana: un sistema di giurisdizione unica, peraltro, che non escludeva una serie

di eccezioni, giudicate in ultima istanza dal Consiglio si Stato, in matera di pensioni, di contabilità

pubblica, di appalto per le strade pubbliche, di acque e strade1.

Non si possono qui esaminare questi sistemi, ma va posto in rilievo un carattere di fondo del

sistema del contenzioso amministrativo, ben evidenziato da Fabio Merusi2: il contenzioso

amministrativo riposava su una clausola generale di attribuzione di competenza che devolveva agli

organi del contenzioso, in un processo significativamente strutturato per citazione, la cognizione di

tutti gli affari caratterizzati dalla connessione tra un’obbligazione (del privato o della p.a.) e un

1 ASTUTI, L’unificazione amministrativa del Regno d’Italia, Napoli 1966, 97.

2 MERUSI, Consiglio di Stato (all.D) e abolizione del contenzioso (all.E), in Storia Amministrazione Costituzione, 150°

dell’unificazione amministrativa italiana (legge 20 marzo 1865, n. 2248), Bologna 2015, p.225 ss. Di particolare

interesse per la ricostruzione storica e per i profili di attualità del nostro sistema di giustizia amministrativa sono i

molteplici e autorevoli contributi contenuti nel volume collettaneo Il Consiglio di Stato: 180 anni di storia, Bologna

2011.

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provvedimento dell’amministrazione. “Tutto era cominciato con il debito pubblico” –ci ricorda

Merusi- ma, una volta attivato, il criterio della connessione assurge a clausola generale volta a

sottrarre al giudice ordinario, perché non divenisse un “organo superiore del governo”, una serie di

importanti materie (imposte, sanzioni pecuniarie, lavori pubblici, contratti di fornitura, demanio

pubblico), nelle quali –come fu argutamente osservato- “la sola possibilità, direbbe quasi l’odore,

d’interesse dell’amministrazione dello Stato paralizzava la giurisdizione del giudiziario”3.

La seconda notazione –che riprenderemo in prosieguo- è che solo con la legge Rattazzi del 1859 si

abbandona il criterio della clausola generale a presidio del contenzioso amministrativo e si entra

nell’ottica della elencazione della materie attribuite al giudice del contenzioso, probabilmente in un

estremo tentativo, non riuscito, di evitarne l’abolizione. Quella legge, inoltre, sanziona

definitivamente “la evoluzione del Consiglio di Stato da organo politico ad organo consultivo

tecnico in materia amministrativa”4, con l’abolizione della presenza del re, e con l’attribuzione di

funzioni di giudice in unico grado o di ultima istanza del contenzioso amministrativo.

Ma prima di passare all’esame della legge del 1865, prendendo le mosse per l’appunto dalla legge

Rattazzi, va fatta un’altra premessa di ordine più generale. Il sistema di giustizia amministrativa

italiano, anche nell’assetto attuale, è frutto di una stratificazione progressiva, in cui nulla si

distrugge e ogni nuovo elemento si aggiunge; esso muove dalla legge fondamentale abolitiva del

contenzioso, cui si aggiungono altre leggi “per sopperire alle esigenze che si manifestavano”5: la

legge del 1877 attribuisce la soluzione dei conflitti alla Cassazione; la legge del 1889, nelle

intenzioni, dà copertura di tutela agli affari previsti dall’art. 3 della legge n. 2248; il sistema si

completa, e si assesta per lungo tempo, con l’istituzione della Quinta Sezione nel 1907 –che, nella

giurisdizione “anche in merito” attribuitale, eredita la “giurisdizione propria” dell’allegato D- e con

la definitiva precisazione della natura giurisdizionale delle sezioni quarta e quinta del Consiglio di

Stato, già anticipata dalla Cassazione al fine di sottomettere la Quarta Sezione alla propria

giurisdizione sui conflitti; nella riforma del R.D. 30 dicembre 1923, n. 2840, infine, ritroviamo la

giurisdizione esclusiva sui diritti (ma per elencazione tassativa, sul modello Rattazzi). L’assetto, che

resisterà per decenni, è delineato nella “codificazione” ad opera del testo unico del 1924, insieme

3 Riferimenti in MERUSI, cit., p.233.

4 ASTUTI, cit., p.66.

5 GUICCIARDI, La giustizia amministrativa, Padova 1943,p. 39 ss.

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con la disciplina processuale. Gli ulteriori sviluppi prendono le mosse dalla Costituzione e arrivano

ai giorni nostri con il codice del processo amministrativo.

Il dato di fondo che si coglie da questa premessa generale di ordine storico è che mai, se non con la

legge del 1865 e in realtà nemmeno con quella, in Italia si è assistito a radicali cambiamenti nel

sistema delle tutele nei confronti della pubblica amministrazione, ma semmai a un progressivo

affinamento delle forme di tutela, con una forte propensione alla duttilità e alla flessibilità dei

modelli di riferimento.

2 - La legge abolitiva del contenzioso amministrativo

Il legislatore del 1865 è condizionato da due fattori: la valenza politica che si assegnava alla

riforma; i modelli di riferimento: quelli interni (il sistema del contenzioso e la legge Rattazzi) e

quelli esteri.

Partendo da questi ultimi, al legislatore del 1865 si presentava uno scenario europeo articolato che

si è andato modificando nel tempo fino ai giorni nostri.

In sintesi può dirsi che vi erano due sistemi:

a) sistemi monisti, o a giurisdizione unica. Il prototipo di questo modello è costituito dalla

Costituzione belga del 1831 (nel 1946, come è noto, il Belgio istituirà un sistema a doppia

giurisdizione sul modello francese), cui si ispirò fedelmente il legislatore italiano del 1865.

E’ solitamente ascritto ai sistemi monisti anche quello dei Paesi anglosassoni, poi seguìto in

Norvegia, Israele e in alcuni Paesi dell’est europeo;

b) il sistema dualista per eccellenza, che è quello francese, fondato, sul versante dei rapporti di

diritto pubblico, sulla giurisdizione piena del Conseil d’Etat. Ma dualista è anche il sistema

tedesco: questo, nella seconda metà dell’800, supera il modello precedente, caratterizzato

dalla presenza di tribunali ordinari e dalla riserva dell’amministrazione di decidere i reclami

avverso l’azione amministrativa, e oggi si fonda sull’attribuzione di competenza delle

controversie di diritto pubblico. Come osserva il Guicciardi, il sistema tedesco, sin dalle

origini, predispone un sistema di garanzia solo per i diritti soggettivi, affidando i diritti

soggettivi privati ai tribunali ordinari e le controversie di diritto pubblico ai tribunali

amministrativi, che costituiscono un ramo di una comprensiva giurisdizione ordinaria.

“Appunto per questo –nota il Guicciardi- la giurisdizione dei Tribunali amministrativi non

può avere un carattere diverso dalla giurisdizione civile e penale; e, come queste, anche

quella non può essere che una giurisdizione su diritti soggettivi o di diritto obbiettivo…con

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esclusione di ogni sindacato di merito”6, locuzione quest’ultima da intendersi riferita

all’esercizio di discrezionalità.

I due sistemi sono meno marcatamente separati di quanto sembri. Una loro rigida applicazione

avrebbe comportato un’alternativa secca: la rigorosa applicazione del principio di divisione dei

poteri e dell’indipendenza dell’esecutivo rispetto al giudiziario avrebbe portato a costituire tribunali

speciali in seno all’esecutivo; viceversa, la rigida applicazione del principio di legalità avrebbe

comportato di deferire la cognizione di tutti i diritti soggettivi, ma solo di quelli riconosciuti tali, ai

tribunali ordinari (lasciando però così sforniti di tutela gli interessi non elevati a diritti)7.

Così, nei fatti, ben presto la rigida alternativa parve intollerabile. Non solo, come si è detto, il

sistema tedesco, pur dualista, è concentrato prevalentemente sui diritti soggettivi, ma è proprio

l’esperienza del sistema inglese, oltre che la evoluzione stessa del sistema belga approdato al

sistema francese nel 1946, a dimostrare i problemi cui sono andati storicamente incontro i sistemi

(più o meno) monisti, problemi che il legislatore italiano si troverà ad affrontare all’indomani della

legge del 1865.

L’esperienza anglosassone, e segnatamente inglese, del judicial review insegna che bisogna

costruire un sistema ad hoc per traghettare i poteri pubblici dall’area insindacabile dei Crown

Privileges all’area del sindacato giurisdizionale, in cui il potere pubblico prevalga sull’area della

libertà solo se previsto dalla legge e se esercitato alla stregua dei princìpi di fairness,

reasonableness and proportionality. In quel sistema, sin dalle origini, per far fronte alle incoercibili

esigenze della vita amministrativa, “si sono venute creando così numerose giurisdizioni speciali per

le singole materie amministrative…che il principio dell’unità della giurisdizione ha conservato un

valore puramente nominale”8.

Il dato di fondo che sembra cogliersi dal raffronto comparato, ma anche con i sistemi preunitari e la

legge Rattazzi, è che i sistemi monisti sono caratterizzati da due elementi che devono far riflettere:

a) la compresenza di tribunali speciali per determinate, ma numerose, materie amministrative:

oltre all’esempio del Regno Unito –dove nel 1998 si arriveranno a contare oltre duemila

6 GUICCIARDI, cit., p.56.

7 Ancora GUICCIARDI, cit., p.54 e 55.

8 GUICCIARDI, cit., p.56.

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administrative tribunals9- è la stessa Costituzione belga del 1831, all’art. 93, a riconoscere

eccezioni alla cognizione del giudice ordinario, disposizione di cui si fece crescente uso10;

b) un’evoluzione, variabile nel tempo ma pressoché inesorabile, verso un sistema, se non

doppio, quanto meno plurale di giurisdizione, imposto da un’esigenza di tutela di posizioni

soggettive che, verrebbe da chiedersi il perché, non riescono a trovare adeguata tutela nei

sistemi a giurisdizione unica: forse –come rileva il Sordi11- per “le intrinseche difficoltà dei

sistemi di giurisdizione unica nell’adeguarsi compiutamente al crescere delle esigenze di

tutela [nate dalla] specialità amministrativa”, mentre i sistemi a doppia giurisdizione si

dimostrano maggiormente capaci ad adattarsi al mutevole atteggiarsi del potere pubblico,

per tener dietro sia alla puissance ottocentesca, sia al service novecentesco.

Quanto ai modelli di riferimento interni, la Scuola liberale sembra disconoscere che “il sistema dei

giudici ordinari del contenzioso amministrativo aveva avuto la funzione di dare un giudice a

questioni di diritto pubblico che sotto i regimi assoluti non ne avevano mai avuto”12; e soprattutto

non si accontenta del “compromesso” della legge Rattazzi, cui anzi si imputa l’attribuzione del

contenzioso al Consiglio di Stato, i cui componenti non godevano nemmeno di quelle pur limitate

garanzie di inamovibilità riconosciute alla Camera dei conti, essendo a pieno titolo inquadrati nel

potere esecutivo. La legge Rattazzi, infatti, pur abolendo il criterio della clausola generale propria

del sistema del contenzioso, affidava al Consiglio di Stato la competenza a decidere controversie su

numerose materie (debito pubblico, pensioni, concessioni minerarie, lavori pubblici, appalti,

imposte), vuoi come giudice ordinario del contenzioso amministrativo di ultima istanza, vuoi come

giudice speciale di unico grado.

La valenza politica della scelta tra i sistemi di giurisdizione era all’epoca assai chiara. Bisogna anzi

dire che la classe politica e la scuola giuridica giuspubblicistica del tempo, che spesso

9 Dato tratto da GARCIA DE ENTERRIA, Le trasformazioni della giustizia amministrativa, Milano 2007, p.62.

10 SORDI, cit., p.189; CROSETTI, Il Consiglio di Stato dall’Unità d’Italia alla Costituzione, in Il Consiglio di Stato nella storia

d’Italia, Torino 2011, p.173 ss, spec. P.183; CHIODI, La giustizia amministrativa nel pensiero politico di Silvio Spaventa,

Bari 1969, p.39 e 40; quest’Autore, in particolare, rileva come giurisdizioni speciali furono progressivamente costituite

per elezioni, leva militare, controversie tributarie e valutarie, assistenza pubblica, talune controversie tra comuni,

contabilità pubblica.

11 SORDI, Uno sguardo all’Europa: il legislatore del 1889 di fronte ai modelli continentali di giustizia amministrativa, in

Studi per il centenario della Quarta Sezione, Roma 1989, I, p.173 ss, spec. p.190 ss.

12 SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, II, Napoli 1973, p.5.

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annoveravano autorevoli esponenti comuni all’una e all’altra, ebbe tra le priorità politico-

istituzionali la centralità del sistema di garanzie verso la pubblica amministrazione sia nel 1865 sia

poi nella riforma del 1889.

La consapevolezza di tale valenza politica è presente in tutta Europa.

E’ stato invero rilevato come la scelta per il sistema di giurisdizione, da una parte, rispondesse

all’indirizzo ideologico cui si aderiva nel concepire il potere dello Stato nei confronti dei cittadini e,

conseguentemente, il rapporto intercorrente tra gli stessi e lo Stato; dall’altra, fosse influenzata da

contingenti situazioni storiche dei rapporti tra i poteri dello Stato. Sul primo versante, la doppia

giurisdizione sembrava essere frutto di una concezione autoritaria dello Stato, mentre la

giurisdizione unica si fondava sull’idea di un diritto paritario, “comune” a cittadini e poteri pubblici.

Sul piano delle contingenze storiche, per un verso, la giurisdizione unica in Inghilterra è la

risultante della convergenza del Parlamento e dei giudici contro l’accentramento monarchico e

l’assolutismo dell’esecutivo; viceversa, la doppia giurisdizione si afferma in Francia per il sospetto

che Parlamento e Governo nutrivano nei confronti del potere giudiziario13.

E’ in questo clima che nasce la legge del 1865. E il legislatore, pur nella vivacità del dibattito

parlamentare, imbocca decisamente la strada disegnata, politicamente e ideologicamente, dalla

Scuola liberale. Due i capisaldi che concorrono alla definizione della giurisdizione unica nella legge

del 1865: la tutela dei diritti va affidata al solo giudice esistente, cioè il giudice ordinario (il giudice

del contenzioso è un non giudice perché non è indipendente); la divisione dei poteri impone che

tutto ciò che è non-diritto sia riservato all’amministrazione e al suo sistema interno di tutela, che fa

capo al “ministro-giudice”. In altre parole, la legge, nel deferire al giudice ordinario i diritti

soggettivi (“diritto civile o politico”), pone una regola fondamentale di “riparto”, ovviamente

“rivolta” al solo giudice ordinario (che in realtà si poneva come unico giudice) nei suoi rapporti con

l’amministrazione (art.1). La regola consiste, da una parte, nella devoluzione piena dei “diritti” al

giudice ordinario, estraneo all’amministrazione (art.2), dall’altra -in ossequio alla teoria della

divisione dei poteri, declinata rigidamente come separazione, se non separatezza- nella devoluzione

a una riserva di amministrazione (art.3) degli “affari non compresi nell’articolo precedente”.

La regola ricomprendeva conseguentemente il divieto per il giudice ordinario di pronunciarsi in via

principale sulla legittimità del provvedimento e di rimuoverlo; e, in modo più articolato,

comportava tre corollari: in primo luogo, il divieto per il giudice ordinario di emettere sentenze

13 CHIODI, cit., p.34 e 35.

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costitutive (art. 4); in secondo luogo, la possibilità per il giudice di “disapplicare” il provvedimento

amministrativo illegittimo (art.5); infine, l’obbligo per la pubblica amministrazione di conformarsi

al giudicato, anche rimuovendo l’atto di cui, in sede di disapplicazione, era stata riconosciuta in via

incidentale l’illegittimità (art.4).

Lo schema in astratto era sistematico e coerente; e aveva il pregio, come gli fu riconosciuto poi da

Silvio Spaventa, di ciò che “fece provvidamente e ottimamente questa riforma, restituendo al

giudice ordinario tutte le quistioni di diritto privato, ancorché vi fosse interessata la pubblica

amministrazione”14.

Lo schema si sarebbe potuto sviluppare riconoscendo un’ampia accezione di “diritto civile e

politico”, ammettendo che in tale ambito il giudice avesse cognizione piena della legittimità del

provvedimento, sfruttando la valenza “imperativa” dell’obbligo per l’autorità amministrativa di

conformarsi al giudicato mediante la rimozione (erga omnes) dell’atto invalido. Il tutto avrebbe poi

richiesto il riconoscimento della responsabilità per danno da attività amministrativa, che era

assolutamente non concepibile nella dottrina e nella giurisprudenza civile dell’epoca (e, per

quest’ultima, fino alla sentenza della Cassazione n. 500 del 1999, quando finalmente la Corte ebbe

ad ammettere la risarcibilità dell’interesse legittimo, fino a quel momento dalla stessa Corte

esclusa).

“Partendo dal presupposto che le ideologie possono talvolta trarre in inganno”15, le cose non

andarono così, e forse difficilmente potevano andare diversamente. Per ragioni politiche, per ragioni

interne allo stesso sistema delineato dalla legge, per ragioni inerenti alla condizione dell’autorità

giudiziaria ordinaria; per ragioni “imposte” dall’esigenza di effettività di tutela.

In primo luogo, la legge del 1865 –come si è detto per i sistemi di giurisdizione unica in generale,

ieri e oggi- non può rinunciare a mantenere delle eccezioni, dichiarate all’articolo 10 dell’allegato

D, che, nel delineare la “giurisdizione propria” del Consiglio di Stato, vi rimette specificamente

alcune rilevanti materie (debito pubblico, i sequestri di temporalità e le controversie sulle

attribuzioni delle autorità civili ed ecclesiastiche) e contiene poi una sorta di clausola residuale di

14 SPAVENTA, La giustizia nell’Amministrazione (noto come Discorso di Bergamo 1880), che si trova pubblicato, tra i vari,

nel volume, curato dall’Istituto italiano per gli studi filosofici, SPAVENTA, La giustizia amministrativa (a cura di RICCI),

Napoli 1993, p.41 ss, spec. P.54. Spaventa continua: “Ma essa ebbe la pretesa di fare molto di più: di sottoporre, cioè,

al giudice ordinario anche le controversie di diritto pubblico, e questo non seppe e non poté fare se non in modo

molto imperfetto”.

15 MERUSI, cit., p.229

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“altre materie” deferite da leggi o già attribuite da leggi del contenzioso non specificamente

abrogate (es. concessioni minerarie, vincoli forestali, leva militare, commissioni censuarie). E

queste giurisdizioni andranno nel tempo progressivamente aumentando. Inoltre, l’articolo 12 dello

stesso allegato E manteneva la giurisdizione speciale in unico grado sulle pensioni.

Un elemento, che non costituisce eccezione, ma è foriero di conseguenze – e contribuisce ad aprire

la strada alla legge del 1889- è il mantenimento, nell’allegato D, della competenza del Consiglio di

Stato sui ricorsi straordinari al re, che recepisce analoga previsione della legge del 1859. Non può

dirsi se Rattazzi pensasse a un meccanismo di processualizzazione del ricorso straordinario in grado

di ripristinare il sistema del contenzioso; fatto sta che, nonostante il governo della Sinistra avesse

fatto di tutto per depotenziare il rimedio, discostandosi ripetutamente dai pareri del Consiglio di

Stato16, questo rimedio si insinuò nelle lacune della legge abolitiva, fornendo, nei due decenni

successivi al 1865, una tutela agli “affari non compresi”; tutela che il Consiglio di Stato svolse su

due versanti: in primis, estendendo l’area della tutela anche oltre i casi previsti dalla legge e con

riferimento a posizioni collegate anche nella loro genesi a provvedimenti costitutivi, fino a

ricomprendervi “legittime aspettative” (per esempio quella derivante dalla partecipazione a un

concorso pubblico); in secundis, sindacando la legittimità intrinseca degli atti amministrativi e

procedendo dunque alla progressiva enucleazione di quelle che diventeranno le fattispecie

sintomatiche dell’eccesso di potere17.

Quindi, il primo elemento di criticità è dovuto al mantenimento e allo sviluppo di giurisdizioni

speciali.

Il secondo elemento di criticità è costituito dalla considerazione che la legge del 1865 conteneva il

germe di una tutela “esigua e monca”18: lo stesso legislatore sembra essere consapevole del fatto

che un simile riparto tra giudice e amministrazione lascia in balìa della seconda la tutela degli

interessi non diritti, se Pasquale Stanislao Mancini, nel ribattere ai fautori del sistema del

contenzioso, che gli opponevano tale mancanza di tutela, ebbe a dire testualmente “questo cittadino

è stato ferito, e forse gravemente nei suoi interessi? Che cosa ha sofferto…Semplicemente una

16 MERUSI, cit., p.283.

17 CROSETTI, cit., p.211. Vd. amplius GIANNINI e PIRAS, Giurisdizione amministrativa, in Enc.dir., ad vocem.

18 BORSI, La giustizia amministrativa, cit., p.157.

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lesione degli interessi? Ebbene ch’ei si rassegni”19. L’effetto paradossale della legge fu che una

larga parte di contenzioso, per sottrarla a un giudice speciale e non abbastanza indipendente, il

giudice del contenzioso, fu rimesso direttamente all’autorità amministrativa. Dice bene Merusi:

poiché il sistema del contenzioso si fondava su una clausola generale, esso poteva ben giudicare su

provvedimenti amministrativi non connessi con un’obbligazione, e quindi con un diritto soggettivo;

questi casi fanno parte “dell’acqua sporca che gli abolizionisti intesero buttare via [ma che] andava

conservata”20.

Si giunge così al quesito di fondo che la legge del 1865 pone: quali sono, cosa ricomprendono i

diritti devoluti al giudice ordinario? I diritti non connessi a un’obbligazione o a un atto

amministrativo. La formula nelle sue applicazioni pratiche denota subito le sue criticità.

La prima categoria di situazioni che resta sfornita di tutela è quella delle posizioni che traggono

origine da provvedimenti amministrativi, per esempio tutte quelle che derivano da autorizzazioni di

polizia o da provvedimenti dell’autorità (apertura di locali per il pubblico spettacolo, panifici, e così

via)21. Poi -come fu rilevato in dottrina22- lo stesso allegato E prefigura poteri pubblici che il

giudice ordinario non è idoneo a controllare: ci si riferisce agli articoli 7 e 8 sulle ordinanze

contingibili e urgenti e sui poteri di esecuzione immediata dei provvedimenti a opera della stessa

amministrazione. L’area della discrezionalità tecnica, di grande rilevanza per esempio in materia di

beni storici e artistici, resta del pari sfornita di ogni tutela giudiziaria.

Più in generale, la giurisprudenza del giudice ordinario, oltre a tenersi tendenzialmente lontana da

qualsiasi forma di sindacato sulla discrezionalità, presto elabora la distinzione tra atti di imperio e

atti di gestione, per sottrarre i primi alla cognizione dei tribunali, sul presupposto che dove vi sia

spazio per l’esercizio dell’autorità amministrativa non vi è spazio per un diritto civile; posizione

giurisprudenziale palesemente incongrua, in quanto era l’impianto stesso della legge del 1865 a

19 Sul versante dell’opposizione, Crispi presentò un ordine del giorno nella Commissione Peruzzi, affinché fosse

elaborata una nuova proposta capace di “restituire al diritto comune le materie giurisdizionali che ne siano state

distratte”, ma anche di prevedere le forme di garanzia per tutte le altre materie già di competenza dei tribunali del

contenzioso. Cfr. NIGRO, Giustizia amministrativa, Bologna 1976, p.66.

20 MERUSI, cit., p.241

21 Basti pensare –come rileva il Chiodi (cit., p.49)- che la stessa legge del 1865, all’allegato B, enumerava un grande e

rilevante numero di competenze (porto d’armi, apertura di alberghi, chiusura di pubblici esercizi, licenze di

affittacamere e permessi di affitto di appartamenti mobiliati, svolgimenti di varie attività, ecc.) che venivano lasciate

“all’arbitrio della pubblica sicurezza”.

22 BORSI, cit., p.109 ss.

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presupporre una qualche connessione tra diritto e provvedimento, di cui la legge si preoccupava di

sterilizzare gli effetti. Ancora, la stessa teoria della degradazione conferisce il colpo di grazia alla

competenza giudiziaria, in quanto la connessione tra diritto e atto veniva di fatto risolta in favore

del secondo, anche a fronte del più tipico diritto soggettivo, la proprietà.

L’atteggiamento giurisprudenziale, non contrastato in maniera convincente in dottrina, si spiega con

un altro fattore di criticità: la categoria dei giudici ordinari, il cui connotato distintivo rispetto ai

tribunali del contenzioso era costituito dal rappresentare un potere autonomo e indipendente,

versava in una situazione oggettivamente difficile: essi si rivelarono “persino poco proclivi a

spingere il loro sindacato fin dove legalmente potevano, con vantaggio per i buoni rapporti fra

Potere giudiziario e Potere esecutivo, ma con danno per l’efficace tutela dei diritti individuali”23. In

realtà, la magistratura italiana all’epoca versava “in condizioni di vera e propria inferiorità” a causa

della sostanziale influenza che l’esecutivo è in grado di esercitare su di essa, ma anche a causa della

estrazione sociale dei magistrati, provenienti dalla borghesia prevalentemente agraria e portati a

condividere la concezione autoritaria dello Stato24. Sicché paradossalmente, proprio quel giudice,

che doveva diventare il perno del sistema abolitivo del contenzioso per le sua caratteristiche di

indipendenza, si rivelò nei fatti piuttosto un ostacolo ai propositi della riforma e della scuola liberale

che l’aveva sostenuta.

Sul piano più strettamente tecnico, e riassuntivamente, si può dire che la legge abolitiva rivela da

subito una duplice lacuna25: dal punto di vista sostanziale, la sottrazione di ogni tutela nelle ipotesi

in cui non sia leso un diritto soggettivo; sul piano processuale, la mancanza di un rimedio per

assicurare l’ottemperanza al giudicato, che veniva rimessa all’amministrazione, creando così la

strana situazione di una “giurisdizione senza coazione”, giusta la formula orlandiana26.

23 BORSI, cit., p.158; GUICCIARDI, cit., p.45. CROSETTI, cit., sottolinea che il giudice arrivava a negare la giurisdizione nei casi

in cui, pur in assenza di un atto formale, il comportamento del soggetto pubblico coinvolgesse in qualche modo le

funzioni amministrative; e tale atteggiamento era ancora consolidato fino a tutti gli anni 70 del Novecento: NIGRO, cit.,

p.201 s.

24 NIGRO, cit., p.73 s.

25 Il giudizio di SAMBATARO, Il rifiuto del contenzioso amministrativo e la legge del ’65, in Studi per il centenario della IV

Sezione, cit., p.51 ss, secondo cui nella legge del 1865 si evidenziano “più le garanzie dell’autorità invece di quelle della

libertà” è probabilmente ingeneroso. Ma fatto sta che l’attuazione pratica della giurisdizione unica, anche per criticità

intrinseche a quel sistema pure negli altri ordinamenti, non riuscì ad apportare un significativo incremento di tutela e,

in alcuni settori, ne determinò addirittura una riduzione .

26 Laddove il Consiglio di Stato, già ai sensi dell’articolo 27 dell’allegato D, rimuoveva “l’ostacolo dell’atto abusivo o,

secondo i casi, lo annulla e rimette le cose nello stato precedente”: formula anticipatoria del giudizio di ottemperanza.

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Il vero problema sorge in conseguenza della riconosciuta e preservata autoritatività degli atti dei

pubblici poteri: il provvedimento iure imperii, mediante l’equiparazione tra atto valido e atto

invalido fino alla pronuncia di illegittimità, di fatto comportava quel che fu definita la

“degradazione” del diritto a fronte di un sistema che non consentiva al giudice civile la pronuncia

costitutiva nei confronti dell’amministrazione. Si trattava, in altri termini, pur sempre di una

questione di tutela di diritti , che non trovavano tutela per una ragione di ordine apparentemente

processuale (il divieto delle sentenze costitutive); sicché a tale problema andava posto rimedio sul

piano sì delle tecniche di tutela, ma senza stravolgere i cardini di quel “riparto” tra giudice civile e

pubblica amministrazione27.

Nasce in questo contesto –di cui occorre necessariamente tener conto -la IV Sezione del Consiglio

di Stato per la tutela degli interessi legittimi (che in realtà spesso erano diritti soggettivi

“degradati”) e l’istituzione del giudice amministrativo si pone in dichiarata continuità con il sistema

della legge del 1865 (a.3, l. 1889, poi trasfuso nel testo unico del 1924 sul Consiglio di Stato) e in

via residuale nell’ambito del sistema delle tutele (“quando i ricorsi non siano di competenza

dell’autorità giudiziaria”).

Come che sia, però,28 si determinò una “singolare inversione logica: prima venne individuato un

nuovo rimedio esperibile contro i provvedimenti amministrativi illegittimi; solo in un secondo

momento si costruì una situazione giuridica soggettiva ad esso correlata”. In altri termini, il sistema

di giustizia amministrativa ri-nasce con una motivazione che potremmo ben definire “rimediale”,

27 Probabilmente su questo punto il sistema a giurisdizione unica si incartò, lasciandoci, con la teoria della

degradazione, una costruzione, che dopo decenni di onorato servizio, finisce oggi per rivelarsi una damnosa hereditas

(tanto che Scoca ha avuto modo di definirla, in un intervento del 1997, una “bizzarra teoria”, che ci porterà a dover

percorrere “un doppio processo per ottenere soltanto un risarcimento del danno”: SCOCA, Giustizia amministrativa:

riflessioni per la Bicamerale, in Unione europea, sistema italiano, modelli comparati di giustizia amministrativa:

riflessioni per la Bicamerale, ed. Cenform, 1997, p.16). Sugli equivoci insiti nella teoria dell’affievolimento, v. già NIGRO,

Giustizia amministrativa, Bologna 2000, p.117 ss. (ma già nella prima edizione del 1976); ivi richiami. ROSSI, Giudice e

processo amministrativo, (Relazione a San Martino-Venezia 8 aprile 2011), in www.astrid-on-line.it, sottolinea come gli

orientamenti della Cassazione, nel corso degli anni, siano stati dei più diversi, oscillando “dalla applicazione

generalizzata del principio di degradazione dei diritti a interessi, fino alle tesi opposte che hanno dato vita alla nozione

di carenza di potere e all’individuazione di diritti non degradabili”. La stessa oscillazione, secondo l’A., si manifesta

anche in tema di risarcibilità degli interessi legittimi, tanto che “quando si legge che la sentenza 500 della Cassazione

ha introdotto nel 1999 la responsabilità civile dell’Amministrazione [per violazione di un interesse legittimo –ndr], non

si capisce immediatamente che era stata la stessa Cassazione a escludere, fino a quella sentenza, l’applicabilità

dell’art. 2043 ai casi di esercizio del potere amministrativo”.

28 CLARICH, Azione di annullamento, Commento all’art. 29 c.p.a., in Commentario al c.p.a. (a cura di QUARANTA e

LOPILATO), Milano 2010, rinvenibile su www.giustizia-amministrativa.it.

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cioè volta a individuare rimedi di ordine tecnico-processuale per la garanzia di posizioni individuali

prive di tutela29.

3 - La legge del 1889 e i successivi sviluppi (le riforme del 1907 e del 1923)

Merusi direbbe “la vendetta della connessione fra obbligazione e atto amministrativo”.

Si è detto che, anche nell’ottica dei fautori della doppia giurisdizione, la legge del 1889 si pone in

dichiarata continuità con la legge del 1865. Ed è significativo che Minghetti, relatore della legge del

1865, sarà con Spaventa e Crispi a denunciarne i limiti e ad auspicarne il “completamento” con la

legge del 1889. Si trattava semplicemente di “dare un giudice agli affari che non lo avevano”, cioè

agli affari di cui all’articolo 3.

In realtà le cose stavano diversamente. Come già era avvenuto per la legge del 1865, la legge del

1889 assume un’alta valenza politica. Sotto tale profilo, bisogna riconoscere alla classe politica

italiana di aver assunto la questione della giustizia amministrativa come centrale nella formazione

dello Stato unitario di diritto e, ancor più, di uno Stato la cui sfera di azione pubblicistica si andava

estendendo per rispondere alle esigenze dell’economia e del benessere sociale. E di farlo in

un’ottica di garanzia di legalità e di tutela degli individui. Emblematica è la posizione di Silvio

Spaventa, che denuncia il limite di fondo, sul piano dell’assetto istituzionale e politico, della legge

del 1865, che lascia vuoti di tutela in un momento in cui, come è giusto che sia, i rapporti di diritto

pubblico sono in espansione per l’incrementarsi dell’attività amministrativa dello Stato moderno.

Di fronte al dilagare dell’ingerenza della politica nella giustizia e nell’amministrazione –denunciato

tra gli altri dal Minghetti nel discorso all’Associazione di diritto costituzionale di Napoli dell’8

gennaio 188030- Spaventa rifiuta soluzioni astratte e anacronistiche -un antistatalismo che pure

univa la Sinistra trasformista e settori della Destra specie nel Mezzogiorno e un più ampio

decentramento amministrativo- e individua le cause, di quella che potremmo definire la mala

giustizia amministrativa, nell’incertezza delle norme giuridiche, nella irresponsabilità della pubblica

amministrazione e nell’incertezza del giudice; il tutto in un contesto in cui la politica e i partiti che

29 Per lo sviluppo di tali considerazioni si consenta il rinvio a PATRONI GRIFFI, Pubblici poteri e tutele nel codice del

processo amministrativo, in Scritti in onore di G.Palma, Torino 2012, III, p.2131 ss (rinvenibile con contenuto

sostanzialmente analogo in www.giustizia-amministrativa.it, sotto il titolo: Riflessioni sul sistema delle tutele nel

processo amministrativo riformato).

30 Gli argomenti furono da lui ripresi nel noto saggio su I partiti politici e la ingerenza loro nella Giustizia e

nell’Amministrazione (1881).

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la rappresentavano tendevano a realizzare l’interesse di parte più che il benessere della collettività.

Spaventa, nel discorso di Bergamo, enumera le lacune del sistema abolitivo del contenzioso e cita

analiticamente, ministero per ministero, i casi di cattiva amministrazione31. Quello che a noi

interessa è che egli individua il rimedio di ciò nella istituzione di una giurisdizione amministrativa,

con tutte le garanzie di indipendenza proprie dell’autorità giudiziaria. In qualche modo, sembra

potersi dire che, con il sistema combinato delle leggi del 1865 e del 1889, l’Italia realizza, sia pure

tardivamente, quel percorso indicato da von Gneist e imboccato sin dall’inizio dalla maggior parte

degli ordinamenti europei, di aderire a un modello di doppia giurisdizione che evitasse le incertezze

e le contrapposizioni dogmatiche cui aveva dato vita la legge del 1865, nelle sue premesse teoriche

e ancor più nelle sue applicazioni pratiche32.33

Il ragionamento sotteso alla legge del 1889 è grosso modo il seguente: la legge del 1865 mirava a

sottrarre i cittadini all’arbitrio pubblico; è riuscita solo in parte nel suo intento, soprattutto perché

troppe sono le posizioni individuali lasciate in balìa dell’amministrazione; occorre completare

l’opera individuando un giudice indipendente e autorevole che abbia il potere di annullare i

provvedimenti amministrativi lesivi di quei “diritti minori” che allo stato non avevano tutela. Si

incide cioè su due elementi: riformare il Consiglio di Stato per garantire l’inamovibilità dei suoi

membri; dare al Consiglio di Stato le competenze e i poteri che non aveva il giudice ordinario, e

cioè competenza sugli interessi legittimi e potere di annullamento. Il quadro si completa attribuendo

allo stesso Consiglio di Stato, con la neo istituita “giurisdizione anche in merito”, il potere di

assicurare l’esecuzione dei giudicati ordinari. L’impressione, e forse l’intenzione, era quella di una

giurisdizione amministrativa “tappabuchi”; la realtà fu una giurisdizione amministrativa da subito

centrale nel sistema delle tutele avverso la pubblica amministrazione: qualcosa non molto dissimile

da un tribunale ordinario del contenzioso amministrativo.

31 Un’analisi ragionata del discorso, sul versante politico ma non solo, in CHIODI, cit., spec. p.72 ss quanto allo

“strapotere ministeriale”.

32 Per tale ordine di considerazioni, cfr. COGNETTI, Legge Amministrazione Giudice, Potere amministrativo fra storia e

attualità, Torino 2014, p.74.

33 Sul piano politico e costituzionale, la legge del 1889 tende a riportare su di un piano orizzontale, di equivalenza tra

gli ordini, il principio di divisione dei poteri, innovando la prassi costituzionale che aveva inteso il principio in senso

verticale-gerarchico, con al vertice il parlamento (CHIODI, cit., p.80): in realtà lo Stato moderno si fonda sul

bilanciamento e non sulla divisione dei poteri; o meglio, il principio di divisione dei poteri, in uno Stato moderno, si

declina nel loro bilanciamento più che su una separazione che sconfina nella separatezza.

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Come osserva acutamente Sordi34, il sistema era tutt’altro che in continuità, quanto meno

concettuale: nel nostro ordinamento si troveranno a convivere due giudici, la cui competenza è in

entrambi i casi delineata con clausola generale. Solo quando si riuscirà a uscire dall’ipocrisia

concettuale del giudice ordinario e del giudice speciale –a partire dagli anni 70 del Novecento-

questo sistema mostrerà di poter avere un assetto razionale; e anzi, il nostro “sistema articolato ed

atipico di doppia giurisdizione” sarà “in grado di fornire agli amministrati una più ampia, flessibile

ed efficace copertura di tutela rispetto a quella attualmente offerta dagli altri ordinamenti europei”35.

La legge del 1889 individua questo giudice nel Consiglio di Stato, stabilendo per i suoi componenti

anche garanzie di inamovibilità, e il Consiglio di Stato da subito “si dimostrò idoneo all’esercizio di

questa nuova funzione, sulla base delle esperienze già compiute dal 1859 al 1865”36, nonché delle

funzioni svolte come giudice speciale sopravvissuto alla legge abolitiva e come organo consultivo

chiamato a dare pareri sui ricorsi straordinari; tanto che la Quarta Sezione ebbe un grande successo

e –come è stato rilevato- si creò la singolare situazione che presto i cittadini si mostrarono ben

contenti di essere “degradati” nella loro posizione giuridica, per la maggiore efficacia della tutela

dinanzi al Consiglio di Stato37.

In questo periodo viene a formarsi -spesso in una dialettica serrata con la Corte di cassazione, che

peraltro è incline ad aumentare gli spazi di tutela del cittadino dinanzi al giudice amministrativo-

quella giurisprudenza del Consiglio di Stato che, con il concorso della dottrina, sviluppa la nozione

di interesse legittimo, ne definisce le caratteristiche in origine marcatamente processuali, sviluppa la

figura dell’eccesso di potere: dà vita al sistema di tutela del cittadino contro gli atti dei pubblici

poteri in un ordinamento che, pur conservando l’autoritatività del provvedimento, individua una

progressiva emersione di interessi tutelati a fronte di ogni manifestazione di potere.

34 SORDI, La giustizia amministrativa nel tornante di fine Ottocento: dall’esegesi al sistema, in Il Consiglio di Stato: 180

anni di storia, Bologna 2011, p.65 ss, spec. p.67.

35 COGNETTI, cit., p.75, che argomenta la sua tesi con riferimento anche al diritto europeo.

36 ASTUTI, cit., p.105.

37 GUICCIARDI, cit., p.48, il quale osserva che “l’aver istituito un giudice per il contenzioso di annullamento degli atti

amministrativi, sia pure a prezzo di una definitiva rinuncia alla completa attuazione del principio di giurisdizione unica,

significava offrire un’adeguata tutela” a tutte le posizioni soggettive dei privati. L’Autore sembra peraltro dolersi, sia

pure con riferimento alla teoria dei diritti fatti valere come interessi, che si pervenne a una “deformazione del

concetto di giurisdizione del Consiglio di Stato, nella quale si fu indotti a vedere piuttosto un mezzo per la tutela degli

interessi dei cittadini che un mezzo per la repressione dell’invalidità degli atti amministrativi a garanzia dell’interesse

pubblico”(p.49).

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La successiva legislazione del 1907 e del 1923 assesta il sistema. La riforma del 1907, oltre a

chiarire la natura giurisdizionale del Consiglio di Stato e a disciplinare la procedura, istituisce la

giurisdizione “anche in merito”38 e include in questa il giudizio di ottemperanza, a garanzia

dell’esecuzione del giudicato dei tribunali ordinari, qualche decennio dopo estesa in via

giurisprudenziale dal Consiglio di Stato, con l’avallo della Cassazione, anche all’esecuzione dei

giudicati amministrativi39. Ciò colma la seconda lacuna dianzi evidenziata dalla legge del 1865 con

riferimento all’obbligo dell’amministrazione di dare esecuzione al giudicato dei tribunali ordinari.

Ma il fenomeno più interessante, nella prospettiva moderna, si ha con la riforma del 1923. Il punto è

colto perfettamente da Merusi40: il legislatore del 1889 volle “limitarsi” ad aggiungere un giudice

degli interessi al giudice dei diritti. Se non che poteva ben darsi che all’annullamento di un atto

conseguissero obbligazioni consequenziali; in quel caso, il cittadino doveva rivolgersi in via

successiva a due giudici, con un’inversione rispetto alla regola: prima al giudice amministrativo e

poi al giudice ordinario (esempio tipico fu la materia del pubblico impiego). Il legislatore allora

“provvide a concentrare in un unico giudice casi di connessione fra atto amministrativo ed

obbligazione, ma non più per proteggere l’amministrazione, e perciò il potere esecutivo,

dall’ingerenza del giudiziario, bensì per risparmiare al cittadino un duplice giudizio per questioni

connesse”. Riprenderemo il punto, che è centrale nelle considerazioni sull’attuale assetto della

giustizia amministrativa, ma possiamo anticipare la riflessione che nel 1923 si assiste a uno schema

–che all’epoca lascia fuori il risarcimento del danno- che si ripeterà, all’indomani della sentenza

delle Sezioni unite n. 500 del 1999, proprio per ricondurre anche la “materia” risarcitoria (proprio

perché non considerata una materia, ma un “rimedio”) alla giurisdizione esclusiva del giudice

amministrativo.

Riassuntivamente, sul punto. Con la legge del 1889 e i successivi sviluppi si completa, secondo le

intenzioni e secondo l’opinione tradizionale, il sistema di tutela del cittadino avviato dalla grande

riforma del 1865. Il legislatore dell’epoca era ben consapevole della valenza e delle implicazioni

politiche delle scelte fatte, dopo aver posto la questione della giustizia amministrativa al centro

38 Su cui POLICE, La giurisdizione “propria” del Consiglio di Stato dagli allegati D ed E dalla legge 20 marzo 1865, n. 2248

al c.p.a., in Il Consiglio di Stato: 180 anni di storia, cit. p.77 ss.

39 Sulla ricostruzione della vicenda fino al c.p.a. cfr. DAIDONE e PATRONI GRIFFI, Giudizio di ottemperanza, in Codice della

giustizia amministrativa, (a cura di MORBIDELLI), Milano 2015, p.1019 ss.

40 MERUSI, cit., p.249 s.

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delle politiche che concorsero a formare lo Stato unitario e ad assicurargli un moderno assetto

istituzionale.

Sul piano tecnico, una volta restituito ai tribunali ordinari e sottratto all’amministrazione il

contenzioso sugli atti dei pubblici poteri, con una scelta di alta valenza politica, il legislatore si

preoccupa di ricostruire un sistema che fosse idoneo ad assicurare una garanzia concreta ed effettiva

ai cittadini e allo stesso il rispetto della legalità nella pubblica amministrazione. La giurisdizione

amministrativa si pone come un contenzioso di annullamento e in un’ottica rimediale. Vedremo

che, a partire dalla scelta per la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nel caso di

“intreccio tra diritti e interessi” (o tra atto e obbligazione, direbbe Merusi), il contenzioso di

annullamento si trasformerà progressivamente in una giurisdizione piena su rapporto e la

giurisdizione esclusiva si svilupperà in un’ottica rimediale volta a realizzare il principio di

concentrazione della tutela dinanzi a un unico giudice. Tutto muove da “una curiosa convivenza fra

contenzioso amministrativo e giurisdizione unica del giudice ordinario”41, che mi sembra costituire

il punto di assestamento, aperto ai nuovi sviluppi costituzionali, del processo di “stratificazione”

avviato dalla legge del 1865 e che vede una prima tappa conclusiva nella riforma del 1923.

4 - La Costituzione e la nuova trasformazione della giustizia amministrativa

La Costituzione repubblicana disegna un sistema di norme sui rapporti tra cittadino e poteri pubblici

e sulle tutele, con una specifica attenzione al sistema di tutela dinanzi al giudice amministrativo.

La Costituzione recepisce sostanzialmente il sistema che abbiamo sin qui descritto, scartando come

è noto la soluzione della giurisdizione unica pur sostenuta da un giurista del calibro di Calamandrei,

probabilmente per non ricadere in una scelta che in passato si era rivelata dogmatica nonché per la

considerazione pratica che non era il caso di trasformare radicalmente un sistema che si era nei

decenni ben assestato e che aveva dato buona prova di sé, anche sotto il profilo dell’indipendente

esercizio della giurisdizione, perfino durante il fascismo.

Ma la maturazione dottrinaria e giurisprudenziale è già pronta per una evoluzione del quadro

costituzionale della giustizia amministrativa che –nella compiuta lettura che ne dà Bachelet42- può

essere riassunta in un complesso mutamento significativo intervenuto negli ultimi decenni del

secolo scorso, ma che già era in nuce presente nel dibattito a cavallo della seconda guerra.

41 MERUSI, cit., p.253.

42 BACHELET, La giustizia amministrativa nella Costituzione italiana, Milano 1966. Cfr. PAJNO, La giustizia amministrativa

all’appuntamento con la codificazione, in Dir.proc.amm. 2010, p.119 ss.

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In effetti, muta la collocazione del giudice amministrativo nel sistema delle tutele e si assiste alla

progressiva e tendenziale perdita di centralità del provvedimento amministrativo (sul piano

sostanziale) e del carattere impugnatorio del processo. Il Consiglio di Stato viene formalmente

configurato in Costituzione come un giudice speciale che sopravvive al divieto costituzionale delle

giurisdizioni speciali. In realtà, questa configurazione già non era del tutto aderente alla realtà,

come si è visto; la struttura impugnatoria del processo era coerente con quella idea, ma la “pratica”

del contenzioso di annullamento raccontava un’altra storia: mi riferisco alla capacità del

contenzioso di annullamento di penetrare il “fatto” e di sindacare la legittimità intrinseca per mezzo

dell’eccesso di potere; e, ancor più, alla giurisdizione di merito (soprattutto quella inerente alla

giurisdizione strumentale di natura cautelare e all’ottemperanza) e al progressivo espandersi della

giurisdizione esclusiva. Progressivamente va delineandosi l’idea del giudice amministrativo –per

dirla con Mario Nigro- come “giudice ordinario degli interessi legittimi”, che porta alla

configurazione della giustizia amministrativa come “sistema generale di giustizia, con riferimento

all’esercizio del potere pubblico”43.

I due punti che precedono hanno come punto di caduta la trasformazione, anch’essa progressiva e

tendenziale, dell’interesse legittimo in posizione “piena” attraverso la quale si rende visibile il bene

della vita.

La riprova della “nuova” lettura della Costituzione riguardo al sistema di giustizia amministrativa si

rinviene nella giurisprudenza costituzionale. Vi sono due affermazioni chiave, che oggi possono

essere lette e rese coerenti con l’evoluzione storica del nostro sistema, ma anche con quella degli

altri ordinamenti europei.

Le sentenze n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006 riconoscono la parità delle situazioni tutelate (diritto

e interesse) cui deve corrispondere la parità dei giudici e delle tutele da loro offerte. Il giudice

amministrativo è dunque il “giudice naturale dell’esercizio della funzione pubblica”, che deve poter

garantire una tutela piena ed effettiva della situazione soggettiva; la pienezza di tutela implica che

egli deve poter disporre di tutti i mezzi di tutela conosciuti dall’ordinamento, ivi compreso il

risarcimento del danno che così, nell’ottica della Corte, viene visto non come un diritto autonomo e

astratto ma come un “rimedio”, cioè come uno dei possibili strumenti di reintegrazione della

posizione soggettiva lesa.

43 PAJNO, cit., p.126.

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La sentenza n. 140 del 2007 afferma che anche la lesione dei diritti fondamentali può essere fatta

valere dinanzi al giudice amministrativo, non sussistendo nella Costituzione una norma che riservi

tali diritti al giudice ordinario. Aggiungerei, che non sembra potersi condividere l’idea che ci siano

diritti non degradabili, cioè preclusi all’esercizio del potere pubblico44. La realtà è che, già sul piano

dogmatico, la presenza di un diritto, nella nostra esperienza, perfino di un diritto di libertà, come

notò Giannini, non segna il limite (rectius: non delimita il campo) del potere: la garanzia

costituzionale opera, a vari livelli, con il combinato disposto della riserva di legge (che nega spazio

al potere), della tipicità dei provvedimenti (che richiede il fondamento legislativo del potere) e dei

vizi di legittimità (che richiedono il corretto esercizio del potere)45.

Il codice del processo amministrativo, nel 2010, recepisce questi indirizzi, delineando un processo a

cognizione tendenzialmente piena, con una pluralità di azioni, con un arricchito strumentario

istruttorio, con poteri decisori articolati e modellati sulla domanda. Le azioni si modellano dinanzi

al giudice e sono scelte dalla parte sulla base della loro maggiore idoneità a soddisfare l’interesse

sostanziale46.

5 – Le prospettive future: nel solco della tradizione ?

Le prospettive di questa riflessione di ordine storico non possono che essere poste in termini aperti.

Il primo punto riguarda il ruolo del giudice amministrativo.

44 Occorrerebbe, in primo luogo, capire, con la certezza imposta dall’assumere un criterio di riparto, quali siano

nominatim i diritti fondamentali e quali i diritti non fondamentali (le riflessioni sul tema dei diritti fondamentali, tra le

tante, svolte in un bell’articolo del 2002 di FERRAJOLI, non delineano una categoria a individuazione certa); poi, la

giurisprudenza della Cassazione è fortemente oscillante sul tema: Cass. 7186 del 2011, per giunta in un passo

motivazionale non necessario, assume che un diritto costituzionalmente protetto non può essere portato davanti al

giudice amministrativo, mentre un Autore (PAOLANTONIO), sulla scorta di Cass. n.2656/08, vede “il definitivo abbandono

(senza punto interrogativo e senza virgolette) di un’altra figura pretoria priva di fondamento teorico e di diritto

positivo (quella dei cc.dd. diritti incomprimibili)”.

45 La situazione, sul piano costituzionale, è ben diversa da quella tedesca, dove i diritti pubblici soggettivi delimitano

dall’esterno la sfera dei pubblici poteri. Ma non è detto che il livello di tutela sia perciò meno penetrante ed efficace

nel nostro ordinamento: la conformazione del potere al suo interno, ad opera della legge e dello stesso giudice, oltre

che ovviamente la sua necessaria base legale, consente di adattare gli strumenti di tutela al concreto esercizio del

potere.

46 L’emanazione del codice del processo amministrativo –evento definito “storico” per il nostro sistema di giustizia

amministrativa- ha dato luogo a una estesa letteratura, che non è possibile qui richiamare, con particolare

riferimento, per le novità di maggiore interesse nella presente sede, alla pluralità delle azioni, al rapporto tra giudizio

di cognizione e giudizio di ottemperanza, alla domanda risarcitoria.

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Dal giudice ordinario dell’interesse legittimo (Nigro) al giudice naturale della funzione pubblica

(Corte costituzionale), ovverossia il giudice dell’amministrazione che agisca in veste di autorità, il

giudice amministrativo si avvia a diventare “il solo giudice dell’amministrazione in caso di

connessione obbligazione-atto amministrativo. Il giudice unico del nesso obbligazione-atto e

dell’impugnazione dell’atto amministrativo”47. E si badi che trattasi di un “risultato al quale

l’attuale giudice amministrativo è giunto attraverso un processo inverso rispetto a quello che

caratterizzò l’oggetto della competenza degli organi del contenzioso amministrativo: prima

l’impugnazione dell’atto e poi il nesso obbligazione-atto”. Il tutto supportato da quello che Merusi

definisce una “contorsione”, prima dottrinale e giurisprudenziale e poi anche legislativa, di un

processo impugnatorio che si trasforma in un processo di cognizione. Ma è un percorso pienamente

coerente con il principio, oramai di valenza costituzionale, di giusto (ed effettivo) processo e di

ragionevole durata, che si estrinseca in primo luogo mediante la concentrazione delle tutele dinanzi

a un unico giudice48.

A me sembra che sia un giudice molto vicino, nella logica istituzionale, a un giudice del

contenzioso amministrativo, naturalmente 150 anni dopo49: un giudice competente sulla base di una

clausola in parte generale (per la giurisdizione di legittimità) e in parte enumerativa (per

giurisdizione di merito ed esclusiva), nel contesto di un processo peraltro sostanzialmente unitario,

in cui, rispetto al contenzioso amministrativo ma anche rispetto alla legge del 1865, ciò che muta

radicalmente è il punto di riferimento di tutela, diremmo lo scopo della tutela: la garanzia di legalità

47 MERUSI, cit., p.259.

48 Emblematica, in tal senso, è proprio la vicenda del risarcimento del danno. Riconosciuta da Cass. n. 500 del 1999 la

risarcibilità dell’interesse legittimo, fino a quel momento negata peraltro dalla stessa Cassazione, si è ripetuto il

canovaccio cui abbiamo già assistito con l’introduzione della giurisdizione esclusiva nel 1923: la concentrazione delle

tutele dinanzi al giudice amministrativo attribuendo a quest’ultimo anche la giurisdizione sui diritti risarcitori, come si

direbbe con linguaggio tradizionale; ma, meglio, attribuendo al giudice amministrativo il potere di utilizzare (anche) il

rimedio risarcitorio ove questo serva ad assicurare piena tutela al privato leso dall’agire pubblico. Come è stato

acutamente sottolineato- tanto in caso di azione di annullamento quanto in caso di azione di risarcimento la causa

petendi va individuata nella lesione dell’interesse legittimo, dal momento che il (diritto al) risarcimento rappresenta il

petitum e non già la causa petendi (così VARRONE, Potere di degradazione e/o funzione conformativa della p.a., in Studi

in onore di Vincenzo Caianiello, Napoli 2008, p.761 ss, spec. p.765. L’A. rileva come la teoria della degradazione non

colga ormai l’evoluzione dello stesso diritto soggettivo: non più figura di carattere quiritario come nel codice e nella

legge del 1865, bensì figura aperta sul versante pubblicistico al potere di conformazione del diritto attribuito, a certe

condizioni, all’ amministrazione).

49 MERUSI, cit., p.258, parla di “un ritorno al contenzioso amministrativo, non più per difendere l’esecutivo dalle

ingerenze del potere giudiziario, ma per motivi di efficace ed effettiva tutela del cittadino nei confronti dell’attività

della pubblica amministrazione”.

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(individuale e comune, cioè del privato e della stessa amministrazione) e non più la complicata,

quanto datata, scelta tra diritti del privato e autonomia dell’esecutivo. Un giudice che ovviamente

non ha più il problema di “essere parte dell’amministrazione”, perché è venuta meno la valenza

politica di quel principio (cioè la separazione dei poteri), mentre oggi il principio costituzionale è il

bilanciamento dei poteri e il principio politico-amministrativo è quello della tutela dei cittadini.50

Il secondo punto riguarda la consistenza della figura dell’interesse legittimo. Un recente dibattito tra

studiosi51 ha fatto emergere, su di un tema in cui la letteratura non può più essere citata tanto che è

sconfinata, posizioni variegate e diversificate anche tra civilisti e orientamenti, allo stato minoritari

ma progressivamente emergenti in certa scuola giuspubblicistica, e anche processualcivilistica,

italiana, volti a negare radicalmente, sul piano sostanziale, la peculiarità dell’interesse legittimo e

della conformazione dei poteri pubblici, per giungere ad auspicare il superamento di una

giurisdizione dedicata al legittimo esercizio dei pubblici poteri.

Per i primi, i civilisti, l’interesse legittimo rimane una posizione soggettiva intrinsecamente

connessa a un potere autoritativo; si esalta la dimensione relazionale del rapporto privato-pubblica

amministrazione, al di fuori della quale la posizione del privato non può essere compiutamente

compresa e tutelata; si individuano, a tal riguardo, “posizioni giuridiche di diritto comune

strumentali alla tutela di un interesse di protezione del privato”, per concludere che “solo

50 Se questa è la logica della posizione costituzionale del giudice amministrativo oggi e come risultante della sua storia,

una logica ispirata all’effettività della tutela del cittadino e non alle attribuzioni del giudice, non può che destare

perplessità un orientamento, non univoco e all’apparenza minoritario, della Corte di cassazione che, nella sede

regolatoria della giurisdizione, sembra talvolta assumere, contrariamente all’atteggiamento tenuto dalla Corte per

oltre un secolo con lo scopo di rendere effettiva la tutela, un’idea di eccesso o di difetto di potere giurisdizionale, non

solo estranea all’articolo 111 Cost., ma anche contraddittoria rispetto al sistema complesso e paritario che si è andato

delineando nel corso di oltre un secolo. Ci si riferisce alla tendenza a individuare un vizio inerente alla giurisdizione

nelle sentenze del Consiglio di Stato che dichiarino un ricorso inammissibile per difetto di legittimazione o interesse o

che neghino il diritto al risarcimento del danno: confondendo così tra “motivo inerente alla giurisdizione” e difetto di

presupposti processuali o di condizioni dell’azione, la cui cognizione non può che spettare al giudice competente sulla

causa, e introducendo una sorta di anomalo terzo grado di giudizio; il che non è nella Costituzione, ma nemmeno

coerente con il disegno del riparto come si è storicamente determinato e che forse richiederebbe una riflessione sulla

necessità di istituire in prospettiva un tribunale dei conflitti. Tornano alla mente le parole del MORTARA (Per la

istituzione di un Tribunale supremo dei conflitti di giurisdizione, in Monitore dei tribunali, 1899, p.247: “funzioni del

pari giurisdizionali sono quelle dei tribunali ordinari e delle magistrature speciali”), secondo cui “contenzioso su diritti

e contenzioso di annullamento appartengono a due declinazioni, distinte –ma unitarie-, di un sindacato giurisdizionale

che ha il compito, nella sua universalità, di doppiare e garantire il diffondersi del principio di legalità” (così SORDI, La

giustizia amministrativa nel tornante di fine Ottocento, cit., p.70.

51 TRAVI (a cura di), Colloquio sull’interesse legittimo, Napoli 2014. Sia consentito rinviare alla mia recensione in

Riv.trim.dir.pubbl. n. 3 del 2015.

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nell’ambito del rapporto fra p.a. e cittadino emerge il diritto del secondo alla protezione, quale

conformazione moderna dell’esercizio del potere, il quale non può più essere concepito come

autoreferenziale e insensibile”52. Per converso, muovendo da un’accurata analisi della

discrezionalità amministrativa, da altri si assume53, come matrice di una vera e propria distorsione

del sistema di tutela, la “funzionalizzazione del potere”, che avrebbe generato l’interesse legittimo e

l’eccesso di potere, il primo “figlio di un dio minore” e il secondo strumento dell’influenza perenne

dell’interesse pubblico sulla situazione soggettiva. La Studiosa rileva che, in uno Stato di diritto, la

discrezionalità non preesiste al diritto e alla legge ma ne è un prodotto; e ancora: “il diritto

oggettivo è fonte di diritti soggettivi; la norma giuridica in quanto tale è assolutamente prescrittiva,

poiché altrimenti non è norma”. Inevitabile la conclusione, rigidamente consequenziale: “il vincolo

di scopo (il fine pubblico del potere) opera come un qualsiasi limite esterno”, il quale –

immaginiamo- non conforma il potere, che è perfettamente conformato dalla norma; il potere

discrezionale viene a scomporsi in una componente disciplinata da regole azionabili davanti al

giudice e in una componente insindacabile: per la prima parte “l’attività discrezionale è, in realtà,

pienamente vincolata” perché il nucleo della pretesa del cittadino diventa il metro per capire se vi

sia potere. Esaurito quest’ambito, si è nel merito, riservato all’amministrazione e quindi nell’area

dell’insindacabilità, insindacabilità del resto riconosciuta anche ai poteri negoziali (ogni potere “una

volta attribuito incontra limiti esterni: al suo interno è preminenza allo stato puro”).

La conclusione è che a fronte dell’amministrazione possono esistere soltanto o diritti soggettivi

(ricollegando la “pretesa del cittadino a un certo comportamento” alle obbligazioni civilistiche

senza obbligo di prestazione54) oppure situazioni in cui, a fronte del potere discrezionale, il privato

non è titolare di situazioni giuridicamente rilevanti. “”Ch’ei si rassegni!” verrebbe da dire,

parafrasando le sopra richiamate parole pronunciate da Pasquale Stanislao Mancini nel dibattito

parlamentare relativo alla legge del 1865, e sembra ripetersi la storia –che, come si è visto, “non ha

avuto storia”- di configurare la pretesa del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, in

rigida alternativa, come diritto o come “il nulla”: sacrificando così a uno schema che appare

52 NICOLUSSI, Diritto soggettivo e rapporto giuridico. Cenni di teoria generale tra diritto privato e diritto pubblico, in

Colloquio sull’interesse legittimo, cit., p.67 ss..

53 CUDIA, Appunti sulla discrezionalità amministrativa (nello Stato di diritto), in Colloquio, cit., p.131 ss..

54 sicché –verrebbe da osservare- dalla coesistenza di due situazioni soggettive, che si ritiene ammissibile, si passa a

porre un obbligo primario di prestazione in capo al soggetto che esercita il potere.

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eminentemente ideologico quella storia di allargamento della tutela che il sistema di doppia

giurisdizione ha garantito attraverso l’azione convergente dei due giudici55.

E si è, infine, al terzo aspetto problematico, che riguarda, per l’appunto, la posizione del cittadino,

nel processo e nei suoi rapporti con i pubblici poteri.

Si è detto che, sin dalle origini e non solo in Italia, nella giustizia amministrativa è sempre stata

latente l’idea che le azioni più che come diritti delle parti (o come astratto “diritto di azione”, avente

esso stesso natura di diritto soggettivo, tesi prevalente nella dottrina processualcivilistica), possano

essere riguardate come strumenti di tutela pratica volti a reintegrare al meglio la sfera giuridica del

cittadino che sia stata lesa, sfera, essa sì, che si compone di posizioni soggettive. In altri termini, il

collegamento, più che tra diritto e azione, andrebbe fatto tra azione e sfera giuridica lesa: l’azione

ha finalità reintegratoria di un “patrimonio” attaccato contra ius dal potere pubblico.

L’impostazione appare riconducibile all’esperienza della tradizione romanistica, nella quale, se è

concessa una sommaria schematizzazione, il riconoscimento pretorio di un’actio rende giuridico il

vincolo e “pone” le correlate posizioni soggettive56; esperienza che resiste, attraverso il diritto

comune, nei soli Paesi di common law, dove l’assenza di codici sostanziali ha storicamente dato,

quanto meno a partire dal XVII secolo, maggiore spazio alle Corti nell’individuazione e nella

protezione degli interessi giuridici. In realtà, però, è proprio il campo del diritto amministrativo,

anche in alcuni Paesi di civil law (soprattutto, Francia e Italia, di certo non anche Germania e

Austria) a evidenziare un ruolo “pretorio” di quella che significativamente viene definita case-law

nel mondo anglosassone.

55 Come rileva CASSESE, La formazione e lo sviluppo dello stato amministrativo in Europa, in CASSESE, SCHIERA,VON

BOGDANDY, Lo stato e il suo diritto, Bologna 2013, p.17 ss., spec. p.41, “In paesi molto diversi tra loro…il controllo

giudiziario degli atti dell’amministrazione ha dato impulso allo sviluppo del diritto amministrativo. I tribunali hanno

contribuito alla razionalizzazione del diritto amministrativo e all’elaborazione dei suoi princìpi fondamentali…Il diritto

amministrativo è fondato sulla giurisprudenza assai più delle altre branche del diritto”. CHITI, Il Consiglio di Stato nella

considerazione degli <altri>, in Il Consiglio di Stato: 180 anni di storia, Bologna 2011, p.661 ss., spec. p.663, scrive:

“Con un processo lento, ora definitosi compitamente, la funzione della giustizia amministrativa si è invertita: suo

centro è la tutela giurisdizionale piena ed effettiva dei singoli…E’ l’interesse obiettivo dell’ordinamento che è mediato

dalla primaria tutela dei singoli”. E richiama SALANDRA, La giustizia amministrativa negli Stati liberi, Torino 1904, p.270,

secondo cui “non più costituita in gran parte da usurpazioni sopra i tenimenti della giustizia civile e della penale…la

giurisdizione amministrativa ha il suo posto…fra le costituzioni dei governi liberi”.

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Questa impostazione si pone in linea di continuità col nostro sistema, perpetuandosi quella

“inversione logica” tra azione e posizioni soggettive di cui si è detto, tra individuazione di un

rimedio con finalità di tutela e posizione soggettiva allo stesso correlata. In altri termini, se è vero

che, nel momento in cui l’ordinamento riconosce un diritto, ibi est actio, è anche vero che il

riconoscimento di un’azione, anche in via giurisprudenziale, è “riconoscimento del diritto”, o, in

altre parole, emersione di un interesse dal sociale al giuridico. In realtà, perché ci sia tutela, è poco

interessante sapere se (già) c’è un diritto o un interesse legittimo, perché –parafrasando Adolfo di

Majo- l’interesse legittimo non è un interesse materiale ontologicamente diverso, ma solo una

diversa forma di rilevanza e quindi di tutela attribuita a un interesse materiale ove questo si trovi a

coesistere con l’interesse pubblico: “dietro il rimedio di tutela vi è sempre una posizione di diritto

sostanziale che fa capolino”.

Conclusivamente, la sfera giuridica del cittadino si compone di situazioni sostanziali, diritti e

interessi, che possono interagire con l’esercizio di poteri pubblici; la stessa situazione sostanziale

può articolarsi come diritto o come interesse legittimo a seconda del tipo di interlocuzione che

assume nei rapporti intersoggettivi.

Si delinea, finalmente, un assetto, avviato dalla sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale,

in cui la giurisdizione amministrativa, configurata come giurisdizione ordinaria sugli interessi

legittimi, si qualifica come giurisdizione sui pubblici poteri, o giurisdizione dell’illegittimo

esercizio del potere pubblico, che consente di pervenire all’idea di una giurisdizione “piena”, senza

passare (necessariamente) per una giurisdizione esclusiva. Si vuole intendere che la giurisdizione

del giudice amministrativo assicura una tutela piena, per cognizione e strumenti di tutela, in tutte

quelle ipotesi in cui sia in gioco la contestazione della legittimità dell’agire pubblico; in tutte quelle

ipotesi –direbbe la Corte- in cui l’amministrazione agisca, anche indirettamente, come autorità e

quindi la posizione del privato sia qualificabile come interesse legittimo.

Questa impostazione impone di abbandonare criteri di riparto della giurisdizione che, già privi di

fondamento teorico ma non di utilità pratica, in passato, possono assumere addirittura carattere

fuorviante rispetto a un nuovo assetto di riparto incentrato sulla centralità della complessiva sfera

giuridica del cittadino e in un’ottica rimediale della giurisdizione, intesa questa come “la maggiore

adeguatezza del giudice e del giudizio”57 a riparare la lesione della sfera giuridica del cittadino in

conseguenza dell’agire pubblico. Ci si riferisce alla teoria dell’affievolimento, ancora da molti

57 SORDI, ult.cit., p.75.

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interpretata alla stregua di un “soffietto”, in cui il diritto soggettivo, “re dei re”, si degradi o si

riespanda, salvo che non sia un super-diritto “indegradabile”. Idea su cui per un secolo si è fondata

la scienza amministrativistica italiana e di grande ausilio per la giurisprudenza, ma oggi troppo

collegata a una visione episodica dell’esercizio del potere e statica del procedimento, che forse

andrebbe riletta da tutti alla luce almeno del carattere dinamico e aperto della vicenda

amministrativa, delle trasformazioni nell’amministrazione e della coesistenza di diritto e interesse,

di cui i Maestri del diritto amministrativo italiano parlano dalla fine degli anni Sessanta. E ci si

riferisce ancora a criteri di distinzione, in parte figli di quella deleteria distinzione tra atti di imperio

e atti di gestione (probabilmente tra i maggiori fattori di crisi della legislazione del 1865), tra

attività vincolata e attività discrezionale, o tra carenza (suddivisa in concreto e in astratto) e cattivo

uso del potere. Ma, a ben guardare, è la stessa distinzione tra diritti e interessi legittimi come

criterio di riparto, che peraltro troviamo nella Costituzione, a subire una radicale trasformazione

concettuale nell’ottica rimediale del processo e nella centralità della sfera giuridica del cittadino

riguardata nel suo complesso.

Difficile dire fino a che punto vi sia continuità storica e concettuale nell’evoluzione che si è

delineata nel sistema delle tutele. L’impressione è che quella della giustizia amministrativa sia una

storia di continuità in perenne trasformazione. In realtà il giudice dell’amministrazione è

sopravvissuto a mutamenti storici radicali, non solo in Italia, proprio per questa sua capacità di

adattarsi alle esigenze di tutela, mutevoli sul piano ideologico e sul versante storico. Se proprio si

vuole cogliere un elemento di continuità nella storia nostra e in quella degli altri ordinamenti

dell’Europa, pur diversificati tra loro, è proprio questo: la costante attenzione a coniugare la tutela

dei diritti e la garanzia del bene collettivo nell’esercizio del potere pubblico, quest’ultima contro

l’arroganza del potere ma anche contro l’invasività degli interessi di parte.

Filippo Patroni Griffi

Presidente di sezione del Consiglio di Stato

Pubblicato il 13 maggio 2016