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Consiglio Superiore della Magistratura Ufficio per gli Incontri di Studio Incontro La prova nel processo civile Roma, 11-13 giugno 2012 La prova nel procedimento cautelare Coordinatore Dott. Stefano Celentano Giudice del Tribunale di Lucera Roma, 12 giugno 2012

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Consiglio Superiore della Magistratura Ufficio per gli Incontri di Studio

Incontro

La prova nel processo civile

Roma, 11-13 giugno 2012

La prova nel procedimento cautelare

Coordinatore

Dott. Stefano Celentano

Giudice del Tribunale di Lucera

Roma, 12 giugno 2012

1. Premessa:

La disciplina del processo cautelare attualmente vigente è il risultato della riforma

attuata con la L. 26.11.1990 n. 353, e delle successive modifiche introdotte tanto dal

D.,Lg. N. 5/2003 ( con riferimento al contenzioso societario e finanziario), quanto dalla

Legge 14.5.2005 n. 80.

Prima della riforma del ’90, il nostro ordinamento non conosceva un modello unitario di

processo cautelare, e la materia era disseminata di schemi procedimentali differenti che

creavano notevoli incertezze interpretative, favorendo spesso un uso distorto delle

misure cautelari oltre al formarsi di prassi praeter legem fortemente differenziate da

ufficio ad ufficio1; l’art. 74 della L. 353/90 ha introdotto invece nel corpo del codice di

rito, anteponendola alla disciplina delle singole misure cautelari, una nuova sezione

denominata “Dei procedimenti cautelari in generale”, e composta dagli artt. 669 bis –

669 quaterdecies , che ha invece offerto finalmente una normativa processuale unificata

per tutti i provvedimenti cautelari, ferme restando la specificità dei presupposti e le

diverse funzioni delle singole misure.

Lo schema procedimentale uniforme si ispira in linea generale alle regole che

disciplinavano il procedimento d’urgenza, essendo prevista all’art. 669 bis la sua

introduzione con un unico atto di impulso, dinanzi ad un giudice la cui competenza è

fissata con regole di generale applicazione ( rinvenienti negli artt. 669 ter, quater e

quinquies c.p.c.); la pronuncia, a seguito di contraddittorio e di cognizione sommaria, è

cristallizzata nelle forme dell’ordinanza o del decreto “se la convocazione della

controparte potrebbe pregiudicare l’attuazione del provvedimento” (art. 669 sexies,

c.p.c.) da confermare o revocare con ordinanza a seguito della necessaria instaurazione

del contraddittorio. Il provvedimento reso all’esito di tale procedimento sostanzialmente

deformalizzato, ha contenuto di rigetto o di accoglimento dell’istanza, ed i suoi effetti e

la sua stabilità sono uniformi per tutte le singole tipologie di misura ( artt. 669 septies,

octies e novies c.p.c.); il provvedimento è altresì suscettibile di revoca, modifica o

riforma, secondo uno schema unitario garantito dall’applicazione degli artt. 669 decies,

undecies e terdecies c.p.c., nonchè di attuazione mediante il ricorso a criteri di

applicazione generale ( art. 669 duodecies c.p.c.).

1 Guaglione, Il processo cautelare, Edizioni Scientifiche Italiane, 2006, 50

Su tale disciplina, come già evidenziato, si sono sovrapposti tanto il D. Lgs. n. 5 del

2003, quanto la L. 80 del 2005 ( in vigore dal 1-1-2006), la quale ha di fatto rimodellato

il procedimento cautelare, introducendo la distinzione tra provvedimenti cautelari

anticipatori e conservativi.

Come acutamente osservato dalla dottrina2, la disciplina di cui alla L. 80/2005

introduce una sorta di rivoluzione concettuale in materia cautelare, che sembra quasi

evolvere dalla mera “cautela del diritto” – da accertare successivamente nel giudizio a

cognizione pena, e con efficacia di giudicato – alla assicurazione immediata dell’utilità

sostanziale di cui l’istante ha bisogno, attraverso un procedimento semplificato che si

conclude con una decisione altrettanto semplificata nella forma e nella sostanza, a

prevalente finalità esecutiva, e suscettibile di consolidare i suoi effetti nel tempo.

2.La competenza

Quanto alla competenza, la . 353/90 devolve le misure cautelari richieste ante causam al

giudice che sarebbe competente a conoscere la causa nel merito; altresì, la normativa

attribuisce il potere cautelare sempre e comunque al giudice monocratico, anche

laddove la competenza spetti ad un ufficio in composizione collegiale. (eccezione a tale

principio è costituita dalle controversie devolute alla sezione specializzata agraria, in cui

l’ordinamento prevede come regola che il giudice di primo grado sia collegiale ed operi

comunque in tale veste3).

Sul punto, va evidenziato che l’ultimo comma dell’art. 669 ter c.p.c. specifica che, dopo

il deposito del ricorso nella cancelleria del giudice competente ( ai sensi dell’art. 669 bis

c.p.c.), il cancelliere predispone il fascicolo e lo presenta al Presidente del Tribunale, il

quale designa “il magistrato cui è affidata la trattazione del procedimento”;è evidente

la soppressione della competenza cautelare ante causam in capo al Presidente del

2 Guaglione, op. cit., 52 3 Attardi, Le nuove disposizioni sul processo civile e il progetto del senato sul giudice di pace, Padova, 1991, 230; in giurisprudenza, cfr. Trib. Rieti, 18 maggio 1993, in Foro It., 1993, I, c. 2968, che ha espressamente affermato la competenza inderogabile delle sezioni specializzate agrarie in tema di provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c. in forza della’art. 26 L. 11-2-71 n.11, contenente una disciplina di carattere speciale che prevale su quella generale dettata dal codice di rito.

Tribunale, così come configurata in precedenza ( art. 672 c..c. ante riforma), seppur è

fatta salva l’ipotesi che il presidente assegni a se stesso il fascicolo4 .

Resta aperto in dottrina ed in giurisprudenza il problema se il giudice istruttore – inteso

quale persona fisica - designato per la trattazione della causa di merito possa essere

diverso o meno dal giudice della cautela. Parte della dottrina ha ritenuto5 che la ratio

della riforma ( quella di evitare la scissione tra giudice della cautela e giudice del

merito) induca a ritenere necessaria la normale coincidenza dei due giudici, salvo

particolari impedimenti, anche al fine di non disperdere nella fase di merito il bagaglio

di conoscenze acquisite dal giudicante in fase cautelare. Al contrario, si è invece

considerato preferibile che la trattazione della causa di merito venga affidata ad un

magistrato diverso da quello della cautela, e tanto al fine di assicurare maggiore serenità

di giudizio, scongiurando il rischio anche potenziale di un qualsivoglia

condizionamento nella decisione rispetto al “precedente”6

Sul punto – seppur nella diversa prospettiva dell’obbligo di astensione o della

ricusabilità del giudice del merito ove si sia occupato della medesima questione in fase

cautelare – va segnalata la pronuncia della Corte Costituzionale n. 326 del 7.11.977, la

quale ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità dell’art. 51 c.p.c., proprio

nella parte in cui non impone in tale ipotesi alcun obbligo di astensione, in riferimento

all’art. 24 Cost.; il giudice delle leggi ha infatti affermato che l’obbligo di astensione

endoprocessuale del giudice civile si distingue da quello del giudice penale, in quanto,

mentre nel processo penale la pronuncia in fase cautelare cade praticamente sulla

medesima res judicanda, nel processo civile invece il giudizio sul fumus e sul periculum

– basato su un’istruttoria ridotta e sommaria - esclude valutazioni contenutistiche e

muove da un apprezzamento di semplice verosimiglianza delle buone ragioni del

ricorrente, contro la cui irreversibile compromissione la misura cautelare si appalesa

come strumento concesso limitatamente al tempo necessario a farle valere in via

ordinaria.

Parte della dottrina ritiene la questione ancora attuale, soprattutto alla luce della

introduzione , tra le garanzie del “giusto processo” ai sensi dell’art. 111 Cost., della

4 Consolo, Il nuovo procedimento cautelare, in Riv. Dir. Proc., 1994, p.321; Guarnieri, Provvedimenti urgenti per il processo civile, in Comm. Tarzia e Cipriani, Padova, 1992, 301 5 V.G. Frus, in Aa Vv., Le riforme del processo civile, a cura di S. Chiarloni, Bologna, 1992, 627 6 Saletti, Appunti sulla, nuova disciplina delle misure cautelari, in Riv. Dir. Proc., 1991, pag. 369. 7 In Foro It., 1998, I, c. 1007, con nota di G. Scarselli, Tutela del giudice e Corte Costituzionale

imparzialità e terzietà del giudice, e la Corte Costituzionale, nuovamente sollecitata sul

punto, ha espresso, con la pronuncia n. 387 del 15-10-.99 che “il principio di

imparzialità-terzietà della funzione giurisdizionale ha pieno valore costituzionale con

riferimento a qualunque tipo di processo”, con la conseguenza che occorre evitare che

lo stesso giudice, nel decidere, abbia a ripercorrere l’identico itinerario logico

precedentemente seguito.

La competenza cautelare in corso di causa è invece disciplinata all’art. 669 quater c.p.c.,

che stabilisce che laddove vi sia causa pendente per il merito, la domanda deve essere

proposta al giudice della stessa. Quanto al concetto di pendenza della causa, essa si

identifica con riferimento alla avvenuta notificazione della domanda, nei giudizi che

iniziano con atto di citazione, e dal deposito del ricorso in cancelleria, nei procedimenti

in cui la domanda assume tale forma8

Occorre poi chiarire che cosa si intenda per “causa pendente per il merito”. La

giurisprudenza ante riforma, sul punto, ha stabilito che per causa pendente per il merito

debba intendersi il giudizio avente ad oggetto l’accertamento dello stesso diritto che il

ricorrente afferma essere minacciato da un pregiudizio imminente ed irreparabile, per

impedire il quale è necessario assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione di

merito9; anche le pronunce successive alla novella del 90 hanno confermato questo

orientamento ravvisando la causa pendente per il merito, solo allorchè vi sia identità di

parti, di petitum e di causa petendi, fra il giudizio già pendente e quello relativo alla

misura cautelare richiesta10

Problema da affrontare è quello della competenza in corso di causa nel caso di eccepita

incompetenza del giudice di merito; si dibatte dunque sulla individuazione del giudice

competente ad emettere misure cautelari, allorchè sia oggetto di contestazione la sua

competenza a conoscere del merito ( attraverso eccezione di parte o rilievo officioso,

ritualmente proposti), e si tratta dunque di stabilire se la norma dell’art. 669 quater

c.p.c. abbia inteso riconoscere in ogni caso al giudice istruttore la cognizione

sull’istanza cautelare proposta in corso di causa, o se invece tale competenza sia stata

attribuita dal legislatore solo sul presupposto ( da verificare in concreto) che il giudice

8 Cass. SSUU, 11.5.1992 n. 5597, in Foro It., 1992, I, c. 2089 9 Cass. 28.10.1983, n. 6387; Cass. 10.07.1985 n. 4112 10 Trib. Milano, 7.4.1993, in Giust. Civ., 1993, I, p.1663; Trib. Roma, 2.11.1994; Cass. 17.11.94 n. 9740

già investito della causa di merito sia effettivamente competente a conoscere della

stessa.

La prima soluzione è sostenuta dalla dottrina prevalente e da una parte della

giurisprudenza11, e comporta che al giudice istruttore del cautelare sia sottratto ogni

potere di controllo sulla propria competenza a conoscere il merito, dovendo egli

provvedere anche a prescindere del successivo accertamento sulla competenza a

conoscere della causa di merito, fermo restando che, in caso di declinatoria della

competenza, l’eventuale misura cautelare concessa non sarebbe travolta a patto che il

processo venga tempestivamente riassunto dinanzi al giudice ad quem. A favore di tale

impostazione militano due considerazioni di fondo: a) la competenza cautelare lite

pendente è una sorta di competenza di fatto, che non rinvia alla competenza sul merito

“legale” ( quella cioè ancorata al rigido rispetto delle norme relative alla competenza

dettate dal codici di rito) che si determina semplicemente sulla base della circostanza

che un determinato giudice è assegnatario del fascicolo di merito; b) l’urgenza che

caratterizza la richiesta di tutela cautelare non consente di attendere una pronuncia sulla

competenza ed una successiva traslatio iudicii.

La soluzione contraria invece presuppone come necessario il preventivo controllo da

parte del giudice istruttore della propria competenza a conoscere del merito, con la

conseguenza che, in caso di accertamento negativo, il ricorso cautelare deve essere

dichiarato inammissibile; la misura cautelare eventualmente concessa diventerebbe

inefficace ove venisse successivamente pronunciata sentenza declinatoria della

competenza; la domanda cautelare dovrebbe conseguentemente essere riproposta

dinanzi al giudice competente12.

Nel caso invece di processo sospeso o interrotto, o ancora nella ipotesi in cui il giudice

istruttore del merito non sia stato ancora nominato, l’art. 669 quater c.p.c., dispone che

la domanda sia proposta al presidente del tribunale, il quale designa il magistrato a cui è

affidata la trattazione del procedimento.

Ciò comporta che, nei casi di processo interrotto o sospeso, il presidente designi il

magistrato che ha pendente nel suo ruolo il giudizio medesimo, e che nell’altra ipotesi,

11 Frus, Le riforme del processo civile, cit., p.631; Consolo- Luiso-Sassani, Commentario alla riforma del processo civile, cit., p. 445; Trib. Torre Annunziata 25.5.1995 12 Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, p.350; Vaccarella-Capponi-Cecchella, Il processo civile dopo le riforme, Torino, 1992, p.355; Trib. Pistoia, 20.10.94, Trib. Santa Maria Capua Vetere. 9.2.99

il presidente contestualmente designi il medesimo magistrato tanto per la trattazione del

cautelare che del merito.

Nelle ipotesi di cause cancellate ( e non estinte), la competenza è del giudice che ha nel

proprio ruolo il giudizio di cui è stata anteriormente disposta la cancellazione, tenuto

conto che la causa cancellata è ancora pendente ove non sia spirato il termine utile per la

riassunzione.

Analogamente, nelle cause devolute per la decisione al tribunale in composizione

collegiale, laddove il ricorso sia presentato nelle more tra la rimessione della causa al

collegio e l’emanazione della decisione, competente sarà il giudice istruttore che ha

istruito la causa.

Va infine evidenziato che il principio del parallelismo tra competenza cautelare e

competenza di merito subisce alcune eccezioni:

a) quando competente per il merito è il giudice di pace, la domanda cautelare,

tanto in corso di causa, quanto ante causam, si propone al tribunale del

circondario in cui ha sede l’ufficio del giudice di pace competente per il merito

b) quando il giudice italiano è privo di giurisdizione sulla causa di merito, perché

appartenente alla cognizione del giudice straniero, ma abbia invece competenza

cautelare perché il luogo di esecuzione della misura ex art. 10 L. 31.5.95 n. 218

si trova in Italia ( norma che stabilisce che in materia cautelare , la giurisdizione

italiana sussiste quando il provvedimento deve essere eseguito in Italia o quando

il giudice italiano ha giurisdizione ne merito); in tale ipotesi l’istanza cautelare si

presenta, a pena di inammissibilità al giudice che sarebbe competente per

materia o valore nel luogo in cui il provvedimento provvisorio dovrà essere

eseguito13

c) quando l’azione civile è stata esercitata o trasferita all’interno del processo

penale: in tale ipotesi, secondo i principi generali di cui all’art. 669 ter c.p.c.,

resta comunque competente a pronunciare misure cautelari il giudice civile ( che

sarebbe competente per materia e per valore) del luogo in cui va eseguito il

provvedimento richiesto. Unica eccezione ( all’eccezione) è rappresentata dalla

ipotesi in cui sia richiesto sequestro conservativo sui beni dell’imputato dal

13 Trib. Avellino, 18.8.1999; Trib. Torino, 2.10.1998. Tale fattispecie si verifica spesso laddove sia richiesto il sequestro conservativo di crediti che lo straniero vanti nei confronti di un terzo, e laddove i beni oggetto da sequestrare si trovino sul territorio nazionale

soggetto già costituitosi parte civile nel processo penale, in virtù dell’art. 316 ,

comma 2, c.p.p: secondo la dottrina prevalente tale competenza è esclusiva, in

quanto fondata sulla necessaria esigenza di collegamento tra la cautela e la

decisione del merito ( che in questo caso spetta dunque al giudice penale,

almeno sull’an)14.

d) in caso di controversia oggetto di clausola compromissoria, di compromesso o di

giudizio arbitrale pendente: in tale ipotesi, l’art. 669 quinquies c.p.c. attribuisce

al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito la competenza a

conoscere della domanda cautelare, sia ante causam, che in corso di causa. La

disposizione riflette il divieto ai sensi dell’art. 818, comma 1 c.p.c., di

concessione da parte degli arbitri di misure cautelari.

La materia era stata oggetto di vivace dibattito in dottrina e giurisprudenza circa

la ammissibilità o meno delle istanze cautelari in controversie devolute alla

cognizione degli arbitri, e dalla portata della “scelta” delle parti di optare per

tale soluzione; ultimamente, con la novella del 2005, si è posta la parola fine

a tale dibattito, essendo orami normativamente prevista tale ipotesi all’art.

669 quinquies c.p.c.

Infine, è opportuno fare un cenno alla competenza cautelare ante causam nelle ipotesi in

cui operi una deroga convenzionale della competenza territoriale. In tali ipotesi, la

tesi prevalente in dottrina ed in giurisprudenza propende per ritenere che, in

presenza di accordo derogativo sulla competenza, il giudice competente per la fase

cautelare sia quello convenzionalmente designato dalle parti, e tanto perché le parti,

pur potendo derogare alla competenza nel merito, non possono invece derogare al

necessario collegamento funzionale esistente tra il giudice della cautela e quello del

merito. Tale opzione risulta essere in linea con la nuova struttura del procedimento

cautelare e con la ratio ad essa sottostante, che presuppone la strumentalità del

processo cautelare rispetto al giudizio di merito ed il costante raccordo tra i due

giudizi1516

14 Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, cit., p. 332; Trib. Roma, 10.4.1995, Trib. Roma 20.10.1993 15 Guarrnieri, Provvedimenti Urgenti, cit. Pag. 2999; Guaglione, Il processo cautelare, cit. 80 16 Consolo-Luiso-Bassani, Commentario alla riforma, cit. Pag. 590; Trib. Lecco 4.12.2000; Trib. Ferrara 21.10.1997; Trib. Palermo 13.2.1995

3. Il Procedimento

La forma della domanda è quella del ricorso ai sensi dell’art. 669 bis c.p.c., sia che

l’istanza cautelare sia proposta in corso di causa, che ante causam.

E’ assolutamente ammissibile la proposizione dell’istanza cautelare all’interno dell’atto

di citazione, ovviamente a patto che l’atto contenga in modo preciso

l’identificazione della cautela richiesta, rimanendo in tal senso comunque assicurata

la instaurazione del contraddittorio attraverso le forme rituali del giudizio ordinario.

Naturalmente, il giudice istruttore, laddove non ritenga di poter concedere la misura

cautelare con decreto inaudita altera parte, dovrà fissare apposita udienza di

comparizione delle parti per la trattazione della domanda cautelare, a data più

prossima rispetto a quella fissata nella citazione per la prima comparizione delle

parti.

La dottrina e la giurisprudenza sono invece divise circa la possibilità di presentare la

domanda cautelare in corso di causa in forma orale, e cioè attraverso la mera

verbalizzazione in udienza ( modalità in passato ammessa ai sensi dell’abrogato art.

673 c.p.c.). Parte della dottrina, facendo leva sul principio di libertà delle forme ex

art. 121 c.p.c., sul principio del raggiungimento dello scopo ex art. 156 c.p.c., e su

quello di conservazione degli atti processuali ex art. 159 c.p.c. ritiene ammissibile

un’istanza cautelare verbalizzata in udienza purchè contenga tutti gli elementi utili

alla identificazione della cautela richiesta, con riferimento al suo oggetto ed al

requisito del periculum in mora 17.

Parte della giurisprudenza ha invece osteggiato tale ipotesi, ritenendo operante un rigore

formale sancito dall’art. 669 bis c.p.c. che non ammetterebbe deroghe18; al

contrario, altra giurisprudenza la ritiene ammissibile, in aderenza alla dottrina

precedentemente citata19.

Deve osservarsi sul punto che, pur volendo aderire a tale ultimo orientamento, è buona

prassi quella di concedere, dinanzi ad un’istanza cautelare formalizzata a verbale di

17 Frus, Le riforme del processo civile, cit., 609; Verde, Appunti sul procedimento cautelare, in Foro It., 1992, V. c. 438 18 Trib. S. Maria Capua Vetere, 27.3.97, Trib. Napoli 11.1.96, Trib. Bari 29.4.94 19 Trib. Roma, 9.10.99; Trib. Salerno, 20.1.95

udienza, un termine a difesa alla controparte al fine di garantire al meglio l’efficacia

del contraddittorio, ed evitare di comprimere il diritto di difesa di quest’ultima.

Il contenuto del ricorso cautelare:

L’art. 669 bis c.p.c. non indica un contenuto minimo o essenziale del ricorso cautelare,

per cui occorre operare un rinvio normativo all’art. 125 c.p.c. che, con riferimento al

“contenuto e sottoscrizione degli atti di parte” impone che il ricorso debba

contenere, in generale, l’indicazione dell’ufficio giudiziario, delle parti, dell’oggetto

e delle ragioni della domanda, nonché la formulazioni delle conclusioni.

Dunque, possiamo in ogni caso ritenere operante un onere di specifica individuazione

della causa petendi (fatto generatore del diritto cautelare e periculum in mora), e del

petitum ( specifica misura cautelare richiesta), circostanze che assumono un rilievo

processuale notevole e specifico, avendo la riforma introdotto un filtro alla

riproponibilità delle domande cautelari a seguito di provvedimento negativo, a meno

che non vi siano mutamenti di circostanze o nuove ragioni di fatto o di diritto (art.

669 septies, II comma c.p.c.), per cui è importante nonché necessario individuare gli

elementi essenziali della domanda cautelare proprio al fine di evitare che la parte

possa riproporre identica domanda, dopo un precedente rigetto.

Il carattere strumentale della domanda cautelare impone ovviamente che il ricorso

contenga ( sempre sotto il profilo della causa petendi) indicazioni sufficienti circa

la domanda di merito a cautela della quale è richiesta la tutela cautelare, e tanto

anche per il successivo onere di introdurre il giudizio di merito (ovviamente ove non

si tratti di provvedimento cautelare anticipatorio) da intendersi come giudizio sullo

stesso oggetto del processo cautelare.

Sul punto, deve sottolinearsi che la giurisprudenza, in sintonia con la dottrina, è

favorevole all’applicabilità della norma generale contenuta nell’art. 125 c.p.c. al

ricorso cautelare, quale modello contenutistico dell’atto introduttivo, con la

necessaria indicazione, in caso di ricorso ante causam, della futura causa di merito.

Tale convincimento si fonda su una serie di considerazioni di ordine sistematico: a)

l’art. 669 ter c.p.c. impone l’indicazione degli elementi idonei ad individuare il

giudice competente per il merito ai fini della verifica della competenza del giudice

adito in sede cautelare; b) l’art. 669 octies e novies impongono l’inizio del giudizio

di merito nel termine di sessanta giorni (ovviamente con esclusione dei

provvedimenti anticipatori), sanzionandone l’inosservanza con l’inefficacia del

provvedimento cautelare, e dunque prescrivono evidentemente che indicazione

dell’oggetto della domanda di merito sia ben presente nel ricorso introduttivo; c)

l’art. 669 sexies c.p.c. che, consentendo in sede cautelare il compimento di atti di

istruzione indispensabili in relazione ai presupposti ed ai fini della misura cautelare

richiesta, esige la descrizione della domanda di merito che si intende proporre, al

fine di valutare compitamente il requisito del fumus boni juris, come probabile

esistenza del diritto che costituirà oggetto del processo a cognizione piena; d) gli

artt. 669 septies e decies c.p.c. i quali, al fine di agevolare l’individuazione delle

ragioni di riproponbilità del ricorso in caso di rigetto, richiedono una sufficiente

identificazione della domanda di merito.

Ciò posto, un orientamento giurisprudenziale particolarmente rigoroso richiede che il

ricorrente debba indicare, a pena di nullità, non solo la causa petendi ed il petitum

mediato ( cioè il bene della vita che si intende tutelare), ma anche le specifiche

conclusioni della causa di merito20. Tuttavia, a parere di buona parte della dottrina ,

tale conclusione pecca di eccessivo formalismo ed espone le ragioni di urgenza del

ricorrente al rischio di rimanere ingabbiato nelle morse di oneri processuali troppo

gravosi; parrebbe dunque preferibile l’opinione che impone al ricorrente di

specificare il petitum mediato e la causa petendi ( cioè le ragioni di fatto e di diritto

nonchè la situazione lesiva su cui si fonda la domanda) e non anche le analitiche

conclusioni che integrano il petitum immediato del giudizio di merito21 .

Da ciò deriva che la sanzione della nullità del ricorso cautelare potrà configurarsi

soltanto ove dal tenore dello stesso non sia possibile neppure indirettamente dedurre

il contenuto del giudizio di merito.

In giurisprudenza, si registra una netta spaccatura in relazione alle conseguenze

dell’omissione o dell’incompletezza degli elementi oggettivi di identificazione della

domanda cautelare e della mancata indicazione della domanda di merito: le sanzioni

ipotizzate sono quelle della inammissibilità22 e della nullità23, e sembra preferibile

20 Pretura Alessandria, 16.3.93 21 Guaglione, Il processo cautelare, cit., 88 22 Trib. Roma 14.7.2001; Trib. Bari 25.9.1996 23 Trib. Potenza 29.3.1995; Trib. Rovigo 7.3.1994

tale seconda opzione in quanto in linea con l’art. 156, comma 2 c.p.c. (tratterebbesi

altresì di nullità insanabile laddove non sia contenuta l’indicazione della causa di

merito, con conseguente inapplicabilità dell’art. 164 c.p.c.). Tuttavia, la dottrina

prevalente ritiene che tale vizio sia sanabile in applicazione del disposto dell’art.

164, comma 5 c.p.c., tramite la rinnovazione o l’integrazione del ricorso disposta dal

giudice, con possibilità di chiudere in rito il procedimento ( comminando dunque la

sanzione demolitoria) solo in ipotesi di mancata integrazione o rinnovazione nel

termine all’uopo fissato24 . Tale soluzione sembra preferibile, attesa la completa

libertà delle forme del procedimento cautelare e dunque il contesto processuale e

sostanziale di riferimento.

Differente invece è l’ipotesi in cui il ricorso contenga l’indicazione erronea del

provvedimento richiesto; il principio di conservazione degli atti consentirebbe di

superare ogni dubbio circa l’inammissibilità o improcedibilità della domanda in tali

casi, soltanto ove dal contenuto dell’atto non emerga in modo inequivocabile

l’esatto contenuto delle richieste25 . Sul punto, va altresì segnalato che resta fermo il

potere del giudice di dare al rapporto, sul quale la domanda è fondata, l’esatta

qualificazione giuridica sulla scorta della narrazione dei fatti prospettata,

prescindendo dalla denominazione, eventualmente anche erronea, che la parte abbia

utilizzato nel ricorso medesimo, ovviamente con il limite di non alterare petitum e

causa petendi26.

Va da sé che il potere del giudice non possa essere invocato per superare l’indefettibile

principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato; è dunque consentito

qualificare giuridicamente in termini diversi il petitum e la causa petendi fissati dal

ricorrente, ma non è invece possibile sostituirsi ad esso per contribuire a determinare

il contenuto di una domanda ad origine lacunosa nei suoi termini essenziali, o

generica arrivando dunque ad emettere un provvedimento di contenuto diverso da

quello richiesto.

24 Cecchella, Vaccarella, Capponi, Il processo, civile, cit., 359; Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, cit., 339 25 Trib. Verona, 16.1.1997 26 Cass. Civ., 10.6.1998 n. 5719; Cass., 18.1.94 n. 398, in Rep. Foro It., 1994, voce Procedimento civile, p. 1554,n. 115; Cass. Civ. 5.11.1994 n. 9166

E’ altresì inibito alla parte mutare il petitum cautelare in corso di causa ( es. da

provvedimento d’urgenza a sequestro giudiziario), perchè tale circostanza

integrerebbe un’inammissibile mutatio libelli27.

Infine, laddove il contenuto della domanda di merito si presenti poi differente da quello

prospettato con il ricorso cautelare ante causam, il provvedimento concesso perderà

efficacia ai sensi dell’art. 669 novies c.p.c.; laddove invece, in corso di causa, sia

proposta una istanza cautelare che difetti del necessario nesso di strumentalità con la

domanda di merito già proposta, il ricorso sarà inammissibile.

L’accoglimento della domanda: Il decreto inaudita altera parte:

L’ordinamento pone un preciso limite alla discrezionalità del giudice di concedere il

provvedimento in difetto di contraddittorio, e cioè la circostanza per cui “la

convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l’attuazione del

provvedimento”.

Partendo dal presupposto dunque che tale ipotesi è limitata a situazioni di particolare

urgenza (soprattutto sotto il profilo temporale), la dottrina è divisa sulla

individuazione concreta del criterio da seguire per l’utilizzo di tale discrezionalità;

l’indirizzo più rigoroso propende per una interpretazione letterale dell’art. 669

sexies, comma 2 c.p.c., e dunque limita tale potere al rischio della concreta

realizzazione della tutela invocata ove si dilatino i tempi con la convocazione della

controparte e la fissazione dell’udienza ad hoc28. L’orientamento maggioritario

invece con un procedimento logico maggiormente elastico, equipara il concetto di

“attuazione” della misura a quello di effettività e dunque di infruttuosità.

Dunque, il pregiudizio concreto che legittimerebbe l’utilizzo del decreto inaudita altera

parte si muoverebbe verso due distinte direttrici: a) l’ipotesi di una particolare

urgenza di provvedere, che non consentirebbe alcuna dilazione temporale; b)

l’ipotesi in cui, in ragione della misura cautelare specifica, risulta utile, al fine della

effettività della tutela richiesta, giocare sull’”effetto sorpresa”, in quanto mettere

preventivamente sull’avviso la controparte significherebbe darle la possibilità di

27 Trib. Firenze, 27.5.1995, in Foro It., 1996, I, c, 1863 28 Consolo - Luiso- Sassani, Commentario alla riforma, cit., p. 625, che utilizza la curiosa espressione di “periculum in mora al quadrato”.

compiere atti idonei a vanificare o rendere comunque ineseguibile il provvedimento

( sul punto, si registra un’ampia casistica soprattutto in materia di sequestri).

Parte della dottrina ritiene preferibile l’orientamento più rigoroso, e dunque la

limitazione dell’uso del decreto inaudita altera parte alle sole ipotesi in cui la

corretta instaurazione del contraddittorio renderebbe concretamente inattuabile la

misura cautelare29 , e ciò perché il bilanciamento tra due valori sottesi (la tutela

cautelare ed il contraddittorio) non può non prendere in considerazione il novellato

art. 111 Cost. che ha eretto a ragno costituzionale il valore del contraddittorio stesso.

Anche nel caso in cui il procedimento sfoci nell’emissione del decreto inaudita altera

parte, le forme e i tempi dell’attività processuale sono determinate dal giudice, il

quale, appunto, assumerà le “sommarie informazioni” ove lo riterrà opportuno,

quale unica fonte di prova compatibile con l’urgenza di provvedere in assenza di

contraddittorio. La nozione di “sommarie informazioni”va intesa concettualmente in

chiave negativa, come sistema istruttorio contrapposto all’istruttoria della

cognizione ordinaria, e comprende in sé ogni elemento utile a fondare il

convincimento del giudice; per tale motivo deve ritenersi operante una piena

apertura ai poteri inquisitori del giudice ed alle prove atipiche, sia sotto il profilo

delle fonti di prova che delle modalità di acquisizione30. Dunque è consentito, anche

senza istanza di parte, richiedere documentazione e relazione tecnica stragiudiziale,

procedere alla ispezione dei luoghi o all’audizione dei terzi, acquisire notizie dagli

organi della P.A., purchè ogni attività istruttoria resti poi cristallizzata all’interno del

procedimento31.

Ovviamente, stante la deformalizzazione del rito, e la necessità, in caso di decreto, di

apprezzare non solo la fondatezza della misura cautelare ( seppure alla luce di un

criterio di verosimiglianza) ma anche la sussistenza del presupposto oggettivo

rappresentato dalla c.d. “urgenza al quadrato” di provvedere, non è escluso che le

sommarie informazioni possano avere ad oggetto l’uno e l’altro aspetto.

La sussistenza del presupposto oggettivo per la concessione del decreto e del supporto

probatorio deve emergere dalla motivazione del decreto, ancorchè il provvedimento

29 Cipriani, Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e diritto di impugnare, in Rass. Dir. Civ., 2004, p. 989 30 Ricci, Le Prove atipiche, Milano, 1999, p. 292 31 Cavallone, Il Giudice e la prove nel processo civile, Padova, 1991, pag. 289 e ss..

sia destinato ad essere assorbito nella successiva ordinanza di modifica , revoca o

conferma ( e ciò rende di fatto, priva di conseguenze sulla validità della misura,

l’eventuale carenza di motivazione dl decreto).

Laddove si emetta il decreto inaudita altera parte, l’art. 669 sexies, comma 2 c.p.c.,

richiede l’instaurazione di un contraddittorio differito, dovendo il giudice fissare nel

dispositivo del decreto l’udienza per la conferma, revoca o modifica dello stesso,

che dovrà tenersi nel termine massimo di 15 giorni, con onere per il ricorrente di

notificare alla controparte il ricorso ed il decreto con l’avviso della fissazione della

detta udienza; l’omissione nel dispositivo del decreto di tale fissazione integra la

nullità del provvedimento emesso32 . Il dies a quo del termine di 15 giorni decorre

dalla pronuncia del decreto, e dunque può ritenersi che vi sia un onere

particolarmente gravoso e stringente per il ricorrente il quale dovrà affrettarsi e

rendersi particolarmente diligente nel notificare ricorso e decreto alla controparte.

Laddove tale termine resti inosservato da parte del ricorrente, in giurisprudenza si

propende per ritenere operante una causa di sopravvenuta inefficacia del decreto, a

meno che non possa trovare applicazione il generale principio della rimessione in

termini ex art. 184 c.p.c., laddove la decadenza maturata non sia imputabile alla

condotta della parte ricorrente33. Va altresì segnalato che la costituzione del

resistente all’udienza ha efficacia sanante dell’eventuale omesso rispetto da parte del

ricorrente del termine di otto giorni per la notifica del ricorso e del decreto34.

Va altresì segnalato che, apertasi la fase della revoca, conferma o modifica del decreto

ai sensi dell’art. 669 sexies c.p.c., il giudice provvederà ad effettuare atti istruttori

eventualmente occorrenti, soprattutto con riferimento alle eventuali argomentazioni

in diritto ed allegazioni in fatto proposte dal resistente, nonchè gli eventuali controlli

sulle informazioni assunte in precedenza, provvedendo ad emettere l’ordinanza in

parola soltanto all’esito di tali attività. Va da sé che tali attività possano non

esaurirsi fisicamente in un’unica udienza, e che dunque si dia corso ad un

“procedimento” , con carattere d’urgenza ( e dunque di brevità) articolato tuttavia in

più udienze.

32 Trib. Trani, 2.3.1999 33 Trib. Como, 14.1.2000 34 Trib. Napoli, 28.8.1997

Prima di procedere all’esame delle questioni relative alla fissazione dell’udienza ed alla

costituzione del resistente, occorre brevemente soffermarsi sulle problematiche

relative all’eventuale rigetto dell’istanza cautelare emesso con decreto inaudita

altera parte.

Sul punto, va evidenziato che, sebbene l’art. 669 sexies c.p.c. preveda espressamente

che il provvedimento di rigetto debba avere la forma dell’ordinanza, tuttavia in

giurisprudenza si è affermata una prassi (non molto diffusa), avallata da parte della

dottrina, per cui il giudice, in presenza di un ricorso con macroscopici profili di

infondatezza o inammissibilità, possa rigettarlo anche senza l’instaurazione del

contraddittorio35 .

A presidio di tale prassi militano ragioni di economia processuale, nonché una certa

lettura delle norme in questione, i cui principi non sarebbero violati dalla sua

applicazione. Tuttavia, a parere della dottrina maggioritaria, tale orientamento non

sembra condivisibile tenuto conto sia del tenore letterale dell’art. 669 sexies c.p.c.,

che della sua ratio; la ragione dell’emissione del decreto inaudita altera parte ( di

accoglimento) è soltanto quella di garantire la cautela nella sua effettività, atteso che

l’eventuale convocazione delle parti la pregiudicherebbe in tal senso, e tale esigenza

non è esportabile nell’ipotesi in cui con il medesimo strumento processuale ( il

decreto) si voglia invece rigettare il ricorso, non comprendendosi affatto quale sia

“l’urgenza di rigettare” in contrapposizione invece alla comprensibile “urgenza di

provvedere”.

Le eventuali esigenze di economia processuale non possono andare a scapito del

principio del contraddittorio così come elevato a rango costituzionale dall’art. 111

Cost. In tal senso, il provvedimento di rigetto emesso con decreto avrebbe evidente

natura abnorme, e sarebbe espressione di un uso distorto del potere giurisdizionale36.

L’instaurazione del contraddittorio:

La forma tipica della instaurazione del contraddittorio è quella della notifica del ricorso

e del decreto di fissazione dell’udienza al resistente a cura del ricorrente.

35 Guaglione, Il reclamo avverso i provvedimenti cautelari, in Rass. Dir. Civ., 1998, pag. 28; Cicchitti, Sul reclamo contro il decreto di rigetto della domanda cautelare, in Riv. Dir. Proc., 1998, 609 e ss; 36 Laboragine, Sulla reclamabilità del decreto di rigetto dell’istanza cautelare, in Rass. Dir. Civ., 2001, pag. 420 e ss.

Tuttavia, non possono escludersi a priori forme diverse di convocazione, di carattere

informale (telegramma, fax, biglietto di cancelleria), e tanto in ossequio al principio

di libertà delle forme ex artt. 121 e 131 c.p.c., nonchè alle esigenze di celerità e di

urgenza37; il ricorso a tali forme anomale di comunicazione non si giustificherebbe

invece laddove, emanato già il decreto inaudita altera parte, e dunque soddisfatte le

esigenza di celerità e urgenza, il procedimento prosegua solo per la revoca, modifica

o conferma dello stesso; in tali casi, unica forma di comunicazione ammissibile

sarebbe quella della tradizionale notifica.

In ordine alla sanzione da comminare alla notificazione eseguita al di fuori delle

prescrizioni stabilite dal giudice ex art. 151 c.p.c., la giurisprudenza si è orientata

nel senso di ritenere tale notifica affetta non da inesistenza bensì da nullità sanabile

alla luce dell’eventuale conseguimento dello scopo ex art., 156, comma 3 e 160

c.p.c.38.

Nel caso di istanza cautelare proposta a verbale o con memoria depositata in udienza, il

contraddittorio deve ritenersi automaticamente attivato nei confronti delle altre parti

costituite, salvo il diritto delle stesse di controdedurre eventualmente entro un breve

termine a difesa richiesto o concesso d’ufficio; qualora invece vi siano delle parti

rimaste contumaci, occorrerà comunicare alle stesse il contenuto della richiesta

cautelare avanzata in corso di causa, o mediante il sistema della notificazione

rituale, oppure mediante il ricorso ad altre forme di comunicazione caratterizzate

anche da maggiore celerità39. Si badi bene che in questo caso la necessità della

notifica al contumace si fonda soltanto sulla lettura dell’art. 669 sexies c.p.c. che

impone il contraddittorio nel procedimento cautelare, e non anche su quella dell’art.

292 c.p.c. ( notificazione delle domande nuove in corso di giudizio in favore del

contumace), atteso che l’istanza cautelare non implica processualmente una

domanda nuova, stante il legame di strumentalità con le domande di merito già

avanzate.

37 Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, Torino, 1993, 183 38 Trib. Roma, 12.3.2001, in Giust. Civ, 2002, I, p. 751 39 Trib. Agrigento, 24.11.94

I poteri istruttori del giudice e le prove atipiche

A differenza della previgente disciplina, gli “atti di istruzione” di cui all’art. 669 sexies

c.p.c. ricomprendono in se tutti i mezzi di prova tipici del giudizio ordinario di

cognizione, ritenendo così ammissibile, in linea di principio, il ricorso alla

consulenza tecnica, all’ispezione di cose o luoghi, alla richiesta di informazioni alla

p.a., all’interrogatorio formale ed alla prova testimoniale. L’unico limite. è quello

della indispensabilità, un limite dunque di carattere sostanziale (e non processuale)

fisiologico rispetto all’urgenza di provvedere. Tale norma dunque ha mutato la

disciplina precedente, che stabiliva soltanto per i procedimenti per denuncia di

nuova opera e di danno temuto la possibilità di ricorrere ad alcuni mezzi di prova

tipici del procedimento ordinario (art. 689, commi 2 e 4 c.p.c. , abrogato)

Sul punto, va altresì evidenziato come il legislatore abbia previsto il ricorso agli atti di

istruzione laddove il procedimento sfoci nell’emissione di una ordinanza, ed invece

il ricorso alle sommarie informazioni ( comma 2) laddove si debba provvedere con

decreto inaudita altera parte. In altri termini, si è osservato40 come la minore o

maggiore urgenza di provvedere legittimerebbe non soltanto un diverso modus

procedendi ( in contraddittorio o inaudita altera parte), ma anche un diverso taglio

dell’istruttoria: più simile a quella del processo ordinario di cognizione nella ipotesi

canonica della preventiva audizione delle parti, e invece più informale ed elastica,

ove l’urgenza di provvedere non consenta tale comparizione.

In particolare, va segnalato che, nel primo caso – procedimento che sfoci nell’emissione

di un’ordinanza – l’indagine cautelare resterebbe modellata sullo schema del rito

ordinario, con le sole deroghe dettate dalla necessità di rapida definizione del

procedimento: dunque, troverebbero piena applicazione il principio dispositivo di

cui all’art. 115 c.p.c., e le generali regole in materia di onere probatorio ex art. 2697

c.c., con esclusone dei poteri inquisitori del giudice, le cui iniziative ufficiose

resterebbero circoscritte nell’ambito dei mezzi di prova dedotti dalle parti e

confinate negli angusti limiti fissati nel giudizio ordinario.

Ovviamente, in entrambi i casi, il potere ufficioso del giudice di assumere mezzi di

prova o informazioni che dir si voglia, fa sì che il modello del processo cautelare

resti in entrambi i casi un modello “dispositivo attenuato” o “misto”, disegnato

40 Guaglione, op. cit. 120

dall’art. 115 c.p.c., in cui i poteri di impulso e di iniziativa delle parti costituiscono

la regola, mentre i poteri ufficiosi svolgono una funzione sussidiaria ed integrativa,

attraverso la quale il giudice tenta di rimuovere le lacune e le difficoltà probatorie

che le parti non sono in grado di superare.

Sotto tale profilo, è opportuno dare contezza di un dibattito esistente in dottrina ed in

giurisprudenza circa l’ampiezza dei poteri istruttori del giudice in sede cautelare, e

l’esatta portata del concetto di “istruzione deformalizzata”.

Un primo orientamento ritiene che gli atti espletati dal giudice debbano svolgersi

secondo gli schemi di cui all’art. 202 e ss c.p.c., avendo dunque rango qualitativo

pari a quelli esperibili nella fase a cognizione ordinaria41; tale opzione interpretativa

potrebbe determinare tuttavia un evidente appesantimento della cognizione in sede

cautelare, e sembrerebbe non cogliere a pieno il senso della istruttoria

deformalizzata voluta dal legislatore, contribuendo altresì a rendere assai incerta la

linea di demarcazione tra la cognizione piena e quella sommaria42.

Dunque, può darsi atto che il dibattito su tali questione porta a conclusioni divergenti,

laddove per i sostenitori della prima tesi l’unica deroga possibile alle ordinarie

regole processuali in materia di assunzione delle prove attiene alla disciplina

processuale delle modalità di acquisizione dei singoli mezzi di prova (facendo leva

sulla lettera della norma che prevede che “il giudice procede nel modo che ritiene

più opportuno” e non agli atti di istruzione che ritiene più opportuni), limitando

dunque il potere discrezionale del giudice alla scelta delle formalità di acquisizione

dei singoli mezzi istruttori e non ai tipi di prova in astratto concepibili. Sotto tale

ottica, ad esempio, è ammissibile procedere all’ esame dei testimoni senza che la

parte abbia provveduto alla formulazione dei capitoli di prova, ma non sarebbe

possibile invece escutere un teste incapace ai sensi dell’art. 246 c.p.c., o porgli

domande al di fuori dei limiti di cui agli artt. 2721 e ss c.c.. Inoltre, il livello di

derogabilità alle formalità che presidiano all’acquisizione delle prove non potrebbe

essere totale, tanto da stravolgere i caratteri generali dell’istruttoria ordinaria e la

natura del mezzo acquisito, perché altrimenti non vi sarebbe alcuna differenza con le

sommarie informazioni di cui al comma 2 dell’art. 669 sexies c.p.c..

41 Consolo. Luiso. Bassani, La riforma, cit., pag. 468; Olivieri, I provvedimenti cautelari, cit., pag. 703 42 Verde, di Nanni, Codiuce di procedur civile, cit. p. 463

Dunque, i canali di acquisizione al processo dei singoli mezzi istruttori, previsti dal

comma 1 della norma, devono restare tendenzialmente quelli tipici, per cui la

deviazione dai principi legali in materia non deve mai essere di entità tale da

trasformare il mezzo istruttorio in una prova vietata e sconfinante nell’ambito delle

prove illecite.

Secondo i sostenitori di altra tesi – in realtà molto scarna in giurisprudenza - alla lue di

una interpretazione più pregnante del concetto di “deformalizzazione”, non vi

sarebbe alcuna differenza tra l’attività istruttoria finalizzata all’emanazione del

decreto, e quella finalizzata all’emanazione dell’ordinanza; il principio della libertà

delle forme imporrebbe l’applicazione in entrambi i casi di una serie di regole

identiche, rinvenibili nella iniziativa inquisitoria, nella soppressione delle regole

sull’onere della prova, nella assoluta informalità dell’acquisizione, fermo restando il

principio delle allegazioni, che comunque non consente al giudice di ampliare il

thema decidendum, o di introdurre nel processo d’ufficio nuovi fatti. Tale

orientamento sottolinea la volontà del legislatore di predisporre un modello unitario

di procedimento cautelare, sia pure creato “sul corpo espresso dalle esigenze del

singolo processo”43.

In base a tale indirizzo, dunque, il procedimento cautelare segna un deciso superamento

del principio dispositivo, ampliando invece i poteri ufficiosi del giudice nella ricerca

dei mezzi di prova, ed informando il “sistema cautelare” ad un’identità più

propriamente inquisitoria in senso formale, nel senso che l’attività probatoria resta

affidata alla libera iniziativa del magistrato procedente.

A prescindere dall’adesione totale all’uno o all’altro dei due orientamenti ( il primo

dominante in giurisprudenza), può comunque affermarsi che all’attualità, alla lue

della L. 353/90, saranno disponibili d’ufficio i seguenti mezzi di prova: 1)

interrogatorio libero delle parti; 2) ordine di ispezione su persone o cose; 3) richiesta

di informazioni alla p.a.; 4) giuramento suppletorio; 5) audizioni di testi di

riferimento, o di testi ritenuti superflui in precedenza; 6) confronto tra i testimoni; 7)

la consulenza tecnica.

Quanto ai testimoni, o meglio agli “informatori”, parte della dottrina ritiene che gli atti

espletati dal giudice nel corso dell’istruttoria cautelare “ordinaria” ( quella di cui al

43 Verde, Di Nanni, cit.

primo comma) sia una ordinaria attività istruttoria, e che dunque le dichiarazioni

degli stessi, vadano precedute dall’impegno formale di cui all’art. 251 c.p.c. .

Tale prassi è senza dubbio da preferire, rispetto alla destrutturazione delle forme per

l’audizione dei testi spesso invalsa in sede cautelare, anche in relazione alla

maggiore attendibilità delle informazioni rese sotto il vincolo del “giuramento”,

nonché alla possibilità di “recupero” delle stesse in fase di merito, qualora vertano

sulle medesime circostanze già sottoposte ai testi, con conseguente economia

processuale. La deformalizzazione dell’assunzione delle prove consente invece di

“condurre” i testimoni in udienza, senza una preventiva indicazione nominale degli

stessi, e senza l’articolazione di specifici capitoli di prova.

Assolutamente pacifico è poi l’utilizzo delle prove atipiche, ove per esse si debbano

intendere le prove innominate (cioè prove fuori catalogo, non tipizzate), quali scritti

di terzi, perizie stragiudiziali, sentenze, ma anche le prove già tipizzate, ma assunte

con meccanismi non rituali ( es. acquisizione di dichiarazioni di scienza delle parti o

di terzi, ed ispezioni senza il rispetto delle modalità e dei limiti previsti dal codice

civile o da quello di rito).

Sul punto, l’ingresso di tali prove nel sistema processuale cautelare ( ma anche

ordinario) viene fatto risalire alla mancanza, nel generale sistema di norme sulle

prove, di una espressa norma di chiusura che qualifichi come inammissibili quei

mezzi di prova che non trovano espresso riconoscimento e specifica

regolamentazione in diritto positivo44; secondo altra tesi la legittimità del ricorso

alle prove atipiche deriverebbe dal generale principio dell’accertamento della verità

effettiva, dall’ammissibilità dell’indizio come fonte di prova, e dal generale diritto

alla prova ex art. 24 Cost., che deve consentire alle parti di poter utilizzare ogni

mezzo di indagine che in concreto appaia rilevante per l’accertamento dei fatti di

causa, purchè non escluso da specifiche disposizioni di legge45.

In giurisprudenza, l’utilizzo delle prove atipiche, anche in sede cautelare, è

orientamento consolidato46.

44 Taruffo, Prove atipiche e convincimento del giudice, cit., pag. 389 e ss 45 Ricci, le prove atipiche, cit., pag. 223 46 Cass. 25 marzo 2004, n. 5965, secondo cui “L'art. 116 c.p.c. conferisce al giudice di merito un potere ampiamente discrezionale del quale, attenendo esso alle cosiddette prove atipiche o innominate, va motivatamente giustificato l'uso, e non già, come invece in caso di mancata valutazione delle prove tipiche (e salvo sempre il principio del libero convincimento), il non uso.

Tuttavia, all’interno di tale orientamento assolutamente favorevole all’introduzione

delle prove atipiche nel procedimento cautelare, si registrano divergenti opinioni:

una prima corrente di pensiero ritiene ammissibili le prove atipiche sotto entrambi i

profili esaminati, mentre altre o al primo o al secondo.

Quanto al loro concreto valore probatorio, dovendosi esaltare il requisito della

deformalizzazione dell’istruttoria cautelare, e dovendosi ritenere che tale sede sia

uno dei terreni elettivi dell’utilizzo delle prove atipiche, deve concludersi che essi

abbiano pieno calore probatorio, al pari dei messi di istruttoria tipizzati.

(cfr. Appendice, in seguito)

Il requisito della indispensabilità pone un limite rispetto all’indagine che il giudice del

cautelare è chiamato a compiere. Tale concetto è di ampiezza maggiore rispetto a

quello di “rilevanza della prova”, ed è finalizzato restringere, in ambito cautelare,

l’utilizzo dei mezzi istruttori al solo fine di decidere sul provvedimento richiesto.

Il concetto di “indispensabilità”, nel codice di rito viene indicato in relazione

all’ispezione di persone e cose ( art.118 c.p.c.), all’ordine di esibizione di documenti

o di altre cose (art. 210 c.p.c.), nonchè ai mezzi di prova in appello ( art. 345 e 437

c.p.c.), cioè in situazioni in cui, vuoi per la gravità dell’incidenza nella sfera

giuridica delle parti o di terzi, o per l’eccezionalità della riapertura dell’istruttoria in

un sistema caratterizzato da rigide preclusioni e decadenze, il mezzo di prova è

l’unico strumento per dimostrare un certo fatto su cui si fonda il diritto azionato in

giudizio.

Con specifico riferimento al rito cautelare, tale nozione indica l’assoluta necessità

dell’atto istruttorio, dal quale non si possa prescindere ai fini della delibazione

sull’istanza cautelare; dunque è un concetto differente rispetto a quello di rilevanza

della prova, atteso che un mezzo di prova richiesto potrebbe essere sì rilevante

rispetto all’oggetto del decidere, ma non indispensabile rispetto a quanto già “agli

atti” del procedimento.

In altri termini, la valutazione di indispensabilità non va pertanto compiuta con

riferimento alle informazioni già acquisite, o agli altri mezzi di prova dedotti, ma

semplicemente ai presupposti e alle finalità del provvedimento richiesto. Per

presupposti, deve intendersi l’accertamento del fumus boni juris e del periculum in

mora. Con particolare alla valutazione del fumus boni juris, in dottrina si è detto

che il giudizio sul diritto cautelato è un giudizio presuntivo, di probabilità e

plausbilità e non di certezza, giacchè non è possibile, con un accertamento

sommario, poter stabilire l’esistenza di un diritto per il quale occorre la garanzia di

accertamento ordinario, anche se la prassi, soprattutto in tema di art. 700 c.p.c. –

così come riformato per effetto del venir meno del requisito della strumentalità ai

sensi dell’art. 669 octies c.p.c. - si è spesso spinta oltre nell’affermare l’esistenza del

diritto azionato in via cautelare, in termini di certezza positiva. Ciò non significa

tuttavia che il giudice della cautela debba limitarsi a valutare la verosimiglianza

delle allegazioni fattuali delle parti, dovendone comunque ricercare una conferma

sul piano probatorio47 .

Quanto alla valutazione del periculum in mora – e dunque alle attività istruttorie

ritenute indispensabili al fine di valutarne la sussistenza o meno in relazione al

provvedimento specifico richiesto – essa va svolta, secondo alcuni autori, in termini

assolutamente probabilistici48, e secondo altri invece, in modo più approfondito e

mai ipotetico, trattandosi di un presupposto esclusivo della tutela cautelare, del tutto

irrilevante nel giudizio di merito49.

L’art. 669 sexies c.p.c., quanto alla valutazione della indispensabilità del mezzo

istruttorio, impone anche la verifica dello scopo che la misura cautelare richiesta

tende a realizzare; in altri termini, ove lo scopo del provvedimento cautelare

richiesto sia irrealizzabile o irraggiungibile, è lecito negare l’attività istruttoria,

atteso che l’impossibilità di ottenere lo scopo concreto della cautela che si richiede,

rende superflua ogni attività istruttoria, poiché appunto non solo “non

indispensabile”, ma anche sostanzialmente inutile.

Le prove c.d. “di lunga indagine”

In giurisprudenza si è osservato come alcune tipologie di attività istruttoria sarebbero di

per sé incompatibili con la struttura del cautelare, in quanto abbisognevoli di tempi

47 Picardi, Codice di procedura civile, Milano 2004, sub art. 669 sexies c.p.c., 2211 48 Arieta, in Arieta e Montesano, Il nuovo processo civile, Napoli 1991, p. 131 49 Cecchella, in vVccarella, Capponi e Cecchella, Il processo civile, cit., pag. 364

di realizzazione inconciliabili con le esigenze di celerità: il riferimento è alla

consulenza tecnica d’ufficio 50, o alla querela di falso51. Tuttavia, seppur tale

impostazione possa sembrare concettualmente corretta in relazione ai caratteri di

speditezza e sommarietà del rito cautelare uniforme, non si può aderire in modo

acritico a tale orientamento, laddove è invece concretamente ipotizzabile che, in

taluni casi, il ricorso a queste attività istruttorie sia non solo indispensabile, ma

anche rilevante rispetto alla tipologia di cautela ( es, indagine tecnica

sull’intollerabilità di rumori o esalazioni, in costanza di una richiesta ex art. 700

c.p.c.).

Quanto alla querela di falso, è di tutta evidenza che il procedimento incidentale di

verificazione, con la conseguente sospensione del giudizio, mal si concilia con la

struttura del cautelare; tuttavia, il documento disconosciuto può essere oggetto di

una procedura di verificazione non cristallizzata nelle forme di cui all’art. 216 c.p.c.,

bensì con forme rapide, quali una immediata consulenza resa nelle forme del “parere

in udienza”, che avrà un valore indiziario e di verosimiglianza al fine dell’esame dei

presupposti per la tutela cautelare, a nulla valendo poi nel successivo giudizio di

merito ove si ricorrerà agli strumenti tipizzati di accertamento 52.

Quanto al giuramento, decisorio e supletorio – mezzi di prova di sporadico utilizzo –

parte della dottrina li ritiene incompatibili con l’istruttoria cautelare, sulla base

dell’argomentazione per cui, avendo tali mezzi specifica attitudine a determinare la

decisione totale o parziale della causa, essi sarebbero utilizzabili solo nel giudizio di

merito a cognizione piena, in quanto suscettibile di essere deciso con carattere di

definitività53 . La tesi sembra condivisibile anche alla luce del rigore delle formalità

di ammissione ed assunzione ditale mezzo di prova, difficilmente conciliabili con il

rito cautelare, come si desume anche dal tenore dell’art. 237 c.p.c.; tuttavia, il

riferimento alla definitività della decisione – ragion per cui i due mezzi sarebbero

incompatibili con il rito cautelare – all’attualità va rivisitato alla luce della nuova

disciplina dei provvedimenti c.d. anticipatori, i quali – non essendoci più obbligo di

50 Trib. Verona, 9.3.98 51 Trib. Genova 28.12.94 52 Trib. Milano, 24.4.2002 53 Lombardo, natura e caratteri dell’istruzione probaoria, cit. p. 491

attivazione del giudizio di merito – sono come ben noto potenzialmente idonei ad

assumere carattere di definitività nel tempo.

In conclusione, le caratteristiche salienti del modello procedimentale cautelare

disegnato dall’art. 669 sexies c.p., con particolare riferimento alle regole che

presiedono alla disciplina dell’attività istruttoria risultano essere le seguenti: a)

sommarietà della cognizione; b) libertà delle forme, quanto al percorso

procedimentale ed agli atti istruttori, potendo gli uni e gli altri divergere dagli

schemi normativamente fissati e dal novero dei mezzi probatori tipici; c) giudizio di

indispensabilità della prova, rigorosamente correlata alla verifica dei presupposti ed

al perseguimento dei fini propri del provvedimento cautelare; d) officiosità con

riferimento alla scelta delle modalità procedimentali e degli specifici mezzi di

prova, pur limitata dalla congruità dello scopo e dalle allegazioni delle parti.

I poteri del giudice sono dunque particolarmente ampi ed incisivi, anche se

normativamente segnati; eventuali eccessi possono essere censurati in sede di

reclamo ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c., e dedotti quali vizi in procedendo del

provvedimento cautelare concesso.

L’istruttoria cautelare ed il giudizio di merito:

Tematica di particolare rilievo è quella dell’efficacia nel giudizio di merito del materiale

probatorio raccolto in fase cautelare.

Punto di partenza della questione è la pronuncia della Corte Costituzionale n. 326 del

7.11.1997, con la quale – in materia di art. 51 c.p.c. e di obbligo di astensione del

giudice – si è chiarito 1) che l’indagine sul fumus boni juris compiuta in fase

cautelare è un mero giudizio di verosimiglianza, una sorta di valutazione

probabilistica delle ragioni del ricorrente che non esprime alcuna compiuta

valutazione contenutistica delle questioni in fatto ed in diritto che andranno a

formare l’oggetto dell’accertamento nel merito, 2) che il materiale probatorio

raccolto ante causam non è di per sé destinato ad assumere una successiva rilevanza

nel giudizio di merito, rimanendo argomenti di prova, proprio in funzione delle

diverse finalità istruttorie, che nella fase cautelare hanno ad oggetto solo

l’accertamento della sussistenza del periculum che del fumus.

Tale pronuncia presta il fianco a numerose obiezioni.

In primo luogo, il concetto di “verosimile” è un minus rispetto a quello del fumus boni

juris, in quanto il giudizio di verosimiglianza è dato sulla scorta della valutazione

dell’id quod plerumque accidit (e dunque su allegazioni e circostanze che appaiono

normali e/o comunque corrispondenti a ciò ), mentre la fondatezza del fumus boni

juris va affermata sull’accertamento di fatti precisi, seppur provati in modo

superficiale, sommario e senza rispetto delle formalità previste dal secondo libro del

codici di rito. In altri termini, la valutazione positiva del fumus boni juris

presuppone un accertamento di fatti con conseguente cognizione di diritti, sia pure

in modo superficiale e senza rispetto di particolari formalità: il diritto sostanziale

viene dunque ricercato ed affermato in termini probabilistici, e non di oggettiva

certezza giuridica, soltanto perché provato con sistemi conoscitivi dotati di un

minore grado di certezza giuridica perché più immediati e di rapido espletamento,

ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con il concetto (metagiuridico) di

verosimiglianza.

Quanto al secondo aspetto, proprio per la strumentalità dei due giudizi, è assolutamente

frequente che un “fatto storico” rappresenti oggetto di prova tanto nel giudizio

cautelare che in quello di merito, soprattutto ove si pensi ai giudizi possessori e

nunciatori, a causa del particolare legame esistente tra le due fasi, e l’identità di

presupposti.

Ciò posto, non vanno poi dimenticate le ragioni di economia processuale, che spesso

impongono di assumere le prove in fase cautelare con formalità idonee a resistere

anche nel giudizio di merito, allo scopo di operare una sorta di cognizione

anticipata, cosicchè il successivo giudizio di cognizione finisca per risolversi in un

mero riesame di valutazioni già integralmente compiute54.

Infine, sul punto, va ricordato che non esiste nel processo civile una norma analoga

all’art. 431 c.p.p. che prevede che il giudice del dibattimento non possa conoscere i

fatti accaduti nel corso dell’indagine preliminare, e tale dato normativo indica

proprio la volontà del legislatore di non spezzare il vincolo di strumentalità, per 54 Consolo, Ricusazione del giudice per precedente cognizione della causa, in Riv. Dir. Civ. 1982, II, pag 213-217

ragioni di ordine sostanziale e processuale nonché per evidenti motivi di economia

processuale tra la fase cautelare e quella di merito, e questo legame non può che

esplicare la sua efficacia anche con riferimento all’attività istruttoria.

Può dunque oggettivamente compiersi un diverso percorso argomentativo, così

sintetizzabile: a) ove in sede cautelare siano state acquisite prove tipiche, attraverso i

normali sistemi di acquisizione previsti dalla legge (acquisizione rituale ed in

contraddittorio di produzione documentale, ed assunzione ai sensi dell’art. 202 e ss

c.p.c. delle prove costituende), dette prove debbono intendersi pienamente

utilizzabili nel giudizio di merito, esaltandosi il carattere di strumentalità rispetto

all’autonomia del procedimento cautelare; b) qualora invece vi sia stata acquisizione

informale di prove tipiche in sede cautelare, le risultanze istruttorie manterranno

carattere indiziario in fase di merito, o – per i fautori di tesi più rigorose - resteranno

prive di valore, dovendo essere rinnovate secondo le regole dell’istruttoria ordinaria;

c) ove siano state acquisite in sede cautelare prove atipiche o innominate ( perizie

stragiudiziali, uso di prove raccolte aliunde), a tali risultanze istruttorie si attribuirà

il medesimo valore che avrebbero assunto se raccolte direttamente in fase ordinaria,

a nulla rilevando dunque la sede processuale in cui le stesse sono state acquisite.

Tali prove potranno agevolmente rivestire il ruolo di “indizi” ed essere posti a base

di un ragionamento presuntivo (in virtù dell’art. 2727 c.c.), oppure quello di

“argomenti di prova” ex art. 116, comma 2 c.p.c..

Va ricordato, in merito a tale questione, che, secondo la communis opinio, gli argomenti

di prova sono cosa diversa dalla prova vera e propria, ivi compresa quella indiziaria

o presuntiva, e ciò non solo dal punto di vista strutturale (posto che le presunzioni

sono sempre basate su un’unica interferenza che dal fatto noto conduce al fatto

ignoto, mentre l’argomento di prova implica sempre un duplice passaggio, in

contrasto con il divieto della praesumptio de praesumpto), ma soprattutto da quello

della rispettiva efficacia (tenuto conto che gli argomenti di prova forniscono

elementi di giudizio inidonei da soli a fondare il convincimento del giudice, ma

utilizzabili per il controllo logico-critico delle prove tipiche già acquisite.

Circostanze nuove e nuove prove:

La tematica attiene ai rapporti tra procedimento cautelare e giudizio di merito, con

riferimento all’ammissibilità di nuove allegazioni e nuove prove nell’ambito di una

cognizione cautelare in corso di causa, e alle barriere preclusive ( assertive ed

istruttorie) già eventualmente maturate in tale sede.

Ciò può accadere in tre ipotesi: 1) proposizione di istanza cautelare in corso di causa, o

riproposizione di istanza già rigettata con la deduzione di nuove circostanze ex art.

669 septies c.p.c., 2) richiesta di revoca di una misura già concessa sul presupposto

di mutamenti delle circostanze o di fatti anteriori conosciuti dopo l’emissione del

cautelare ex art. 669 decies c.p.c., 3) proposizione del reclamo ex art. 669 terdecies

c.p.c. avverso un provvedimento ante causam o in corso di causa, mediante

allegazione di nuove circostanze o prove nuove.

Va innanzitutto premesso che il problema attiene ai profili relativi al fumus boni juris

( profili di diritto dunque, relativi alla prova della sua probabile esistenza in sede

cautelare, e della sua effettiva sussistenza in sede di merito), e non anche al

periculum in mora, laddove l’urgenza è di per sé un concetto fattuale, compiuto

necessariamente rebus sic stantibus, e privo di valutazioni in diritto.

Le soluzioni proposte in dottrina sono due, e dunque la libera deducibilità di nuove

allegazioni e di nuove prove (apprezzando dunque l’autonomia del giudizio

cautelare rispetto a quello del merito) o invece la preclusione di attività non più

consentite nella fase di merito (apprezzando maggiormente il rapporto di

strumentalità tra i due giudizi); logicamente va privilegiata la seconda scelta,

laddove non avrebbe senso dedurre diritti in sede cautelare che non possono più

essere valutati ed accertati a causa delle preclusioni già maturate nel merito. M vi è

di più: l’ allegazione di un diritto differente rispetto a quello azionato nel merito,

comporterebbe – per le ipotesi in cui è ancora richiesta la sussistenza di evidenti

profili di strumentalità, e dunque non per quelle contemplate ai sensi dell’art. 669

octies c.p.c. in relazione ai c.d. “provvedimenti anticipatori” – comporta una totale

inammissibilità dell’istanza cautelare proprio per la insussistenza di tale legame di

strumentalità.

Dunque, può ritenersi che i poteri probatori cautelari delle parti - nelle tre evenienze

menzionate – potranno liberamente esercitarsi fino a quando non siano maturate –

nel giudizio di merito – le relative preclusioni istruttorie, ovvero con la chiusura

dell’udienza ex art. 183 c.p.c. (ove manchi istanza di concessione dei termini ex art.

183, VI comma c.p.c.) o con lo spirare dei termini perentori concessi per le

integrazioni istruttorie, dopo di che le risultanze da porre a base della istruzione

cautelare – sempre con esclusivo riferimento al fumus boni juris – saranno

unicamente quelle dell’istruzione esperita nel merito; la possibilità di una ulteriore e

differente istruttoria cautelare potrà ipotizzarsi, in via eccezionale, soltanto in

presenza di una rimessione in termini ai sensi dell’art. 184 bis c.p.c., o per

circostanze e fatti relativi alla sussistenza di un periculum in mora, che, come già

evidenziato, va allegato e conseguentemente valutato sempre rebus sic stantibuis.

Infine, vi sono ipotesi in cui talune attività istruttorie sfuggono alla barriera

preclusiva di cui all’art. 183 c.p.c., essendo esercitabili sino al momento della

precisazione delle conclusioni (la proposizione di un’istanza di verificazione di una

scrittura privata precedentemente disconosciuta, ovvero la proposizione di una

querela di falso, o il disconoscimento di una riproduzione meccanica e della

conformità di una copia fotostatica all’originale)55.

5. La revoca e la modifica

All’art. 669 decies c.p.c. viene codificato un potere generale di revoca e modifica dei

provvedimenti cautelari, seppur subordinato all’esistenza di “mutamenti di circostanze”.

Su tal aspetto è intervenuta la L. 80/2005, sostituendo al comma 1 dell’art. 669 decies

c.p.c. due nuovi commi, nei quali, al presupposto del mutamento delle circostanze ( e

dunque alla esistenza di fatti nuovi), se ne aggiunge un altro, costituito dall’allegazione

di “fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento

cautelare”.

Sulla esatta portata del concetto di “mutamenti di circostanze”, nel tempo si sono

affermati due distinti orientamenti: un primo, più restrittivo, riteneva che in tale

concetto andassero ricompresi soltanto fatti storici extraprocessuali intervenuti

55 Tarzia, Lineamenti del nuovo processo dcivile di cognizione, Milano, 1991, pag. 109

cronologicamente a seguito della emanazione del provvedimento cautelare, nonché a

seguito del termine per proporrre il reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c.56, con

conseguente esclusione del deducibile ( fatti preesistenti non dedotti) e dei nuovi

elementi di valutazione sul fumus e sul periculum conseguenti alle risultanze istruttorie

nel frattempo acquisiste nella causa di merito. L’orientamento contrapposto invece, di

matrice più liberale, attribuiva a tale espressione normativa un significato più ampio, in

cui ricomprendere la jus superveniens, le nuove allegazioni anche di fatti preesistenti57,

e l’esito delle prove assunte nel corso del giudizio58.

La giurisprudenza maggioritaria ha optato nel tempo per questo secondo orientamento,

riconoscendogli il pregio di soddisfare l’esigenza di permettere un adeguamento

costante della misura cautelare concessa agli sviluppi tanto del processo a cognizione

piena, che ai fatti storici extraprocessuali.

La novella del 2005 ha poi codificato tale orientamento, ritenendo che i fatti anteriori

possano essere proposti a fondamento della istanza di revoca o modifica, purchè

l’istante fornisca la prova del momento in cui ne abbia avuto conoscenza, momento che

deve collocarsi cronologicamente in epoca successiva al provvedimento cautelare in

questione. Opera quindi un sorta di soluzione intermedia tra la pura e semplice rilevanza

di fatti preesistenti e non dedotti dinanzi al giudice della cautela, e la rimessione in

termini della parte che ha omesso di allegare tali termini ( purchè dia prova di averli

conosciuti successivamente alla emanazione del provvedimento)59; in tale senso

l’istituto svolge una funzione non solo di adeguamento del provvedimento alle effettive

modifiche della realtà fattuale, ma anche di rimedio contro l’insufficiente allegazione

ove sorretta da una giustificata conoscenza sopravvenuta.

Quanto al locus processuale ove presentare tali istanze, la norma impone che esse

vadano formulate in sede di reclamo, allorquando siano ancora pendenti i termini ex art.

669 terdecies c.p.c.; dunque, qualora il fatto sopravvenuto sia conosciuto dalla parte in

tempo utile per la proposizione del reclamo, ella avrà l’onere di adire il collegio ai sensi

dell’art. 669 terdecies c.p.c. investendolo della domanda di modifica o revoca, e se farà

spirare tale termine inutilmente, non potrà poi presentare analoga istanza basata sui fatti

56 Verde Di Nanni, Codice di procedura civile, cit., pag. 257 57 Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, cit. p. 339 58 Frus, o.u.c., pag. 740 59 Guaglione, op. cit., 204

nuovi appresi pendente il termine medesimo. Diversamente, l’istanza di revoca o

modifica sarà ammissibile ove le circostanze nuove vengano conosciute dopo lo spirare

del termine per il reclamo60 .

Anteriormente alla riforma del 2005, l’art. 669 decies c.p.c. attribuiva il potere di revoca

e modifica del cautelare concesso ante causam, al giudice istruttore della causa di

merito, ritenendo appunto che la sua sede naturale fosse “il corso dell’istruzione”, con la

conseguenza che – interpretando letteralmente la norma – il provvedimento non potesse

essere revocato o modificato prima della instaurazione del merito, e prima che si fosse

dato corso all’istruzione nell’ambito di tale giudizio.

Evidenti le criticità di tale rigida opzione, soprattutto con riferimento al pregiudizio

dell’esigenza di modellare con rapidità il contenuto del cautelare alle situazioni di fatto

in mutamento.

Dunque, un orientamento più elastico riteneva che, anche nelle ipotesi escluse

dall’accezione del termine “nel corso dell’istruzione” come recepita, fosse possibile

richiedere revoca e modifica al giudice che aveva emesso il cautelare (ove la causa di

merito non fosse iniziata), o a quello della causa di merito anche prima dell’attività

istruttoria stricto sensu.61 .

Tale orientamento era stato recepito nel d.lg. 5/2003.

Il nuovo testo dell’art. 669 decies, comma 2 c.p.c. ha recepito in sostanza la medesima

soluzione, consentendo la revocabilità e modificabilità del cautelare dinanzi al giudice

che lo ha emesso anche in assenza dell’instaurazione del merito ( e ciò assume

particolare rilievo per i provvedimenti ex art. 669 octies per i quali il merito è ormai

opzione facoltativa).

Dunque, la competenza del potere di revoca e modifica del cautelare resta distribuita tra

il giudice che ha emesso la misura cautelare ( per i casi di mancato inizio del

procedimento di merito, ovvero di cognizione dello stesso ad un giudice straniero, ad

arbitri, o nelle ipotesi di trasferimento dell’azione civile in sede penale), e quello

competente per il merito, ove la causa sia già iniziata.

Il medesimo potere, nel caso di pendenza dei termini per l’appello rispetto ad una

pronuncia di primo grado già emessa, spetta al giudice di primo grado.

60 Caponi, Provvedimenti cautelari e azioni possessorie, cit., c. 138 61 Trib. Bari, 25.3.1993

Qualora invece il provvedimento sia stato emesso dal collegio in sede di reclamo, sulla

revoca o modifica è competente il giudice monocratico, atteso che, diversamente

opinando, si produrrebbero problemi nella composizione del collegio ove il

provvedimento di revoca venga a sua volta reclamato.

Quanto al procedimento da seguire per la modifica o revoca, il legislatore si limita a

prevedere che esso inizi su istanza di parte, e che venga poi emessa ordinanza ( non è

dunque consentito la revoca o la modifica con decreto inaudita altera parte).

L’istruttoria nei procedimenti finalizzati alla revoca ed alla modifica, non può non tener

conto dei presupposti in fatto per la loro attivazione : dunque richieste di attenta

valutazione delle allegazioni istruttorie avvenute in fase di merito circa variazioni e

prove contrarie della esistenza del diritto positivamente valutato nella precedente sede

cautelare, oppure richieste di attività istruttoria a sostegno di un dedotta e sopravvenuta

insussistenza del periculum ( e ciò tanto in relazione al mutamento delle circostanze,

che all’effetto che tale mutamento ha ottenuto sulla dedotta sopravvenuta insussistenza

del periculum in mora).

7. Il reclamo

Punto di partenza è la nota pronuncia della Corte Costituzionale n. 253 del 23.6.1994,

con cui si è dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 669 terdecies c.p.c. nella

parte in cui limitava il reclamo ai soli provvedimenti concessivi della misura,

precludendo dunque al ricorrente di reclamare l’ordinanza di rigetto. 62

Con la legge 80/2005 si è poi inserita nel testo normativo l’integrazione disposta dal

giudice delle leggi, riformulandosi l’art. 669 terdecies c.p.c. nella attuale versione, e

dunque il reclamo è divenuto – anche dal punto di vista della chiara formulazione della

disciplina normativa – un rimedio di carattere generale nell’ambito del microsistema

cautelare63.

62 La questione era stata sollevata da Trib. Aosta, 6.10.1993, Trib. Bologna 15.7.1993, Trib. Roma, 3.11.1993 e Trib. Verona 22.12.1993 63 Guaglione, op. cit., 233

Per logica conseguenza, la riconosciuta reclamabilità del provvedimento di rigetto

integrale della istanza cautelare ha risolto in senso positivo anche il dubbio

interpretativo circa la reclamabilità dei provvedimenti di parziale accoglimento, per

lungo tempo negata dalla giurisprudenza64.

Quanto alla reclamabilità del decreto inaudita altera parte, essa deve escludersi,

dovendosi attendere che il decreto concessivo della misura cautelare venga poi

confermato, modificato o revocato per poter poi impugnare la relativa ordinanza dinanzi

al collegio: Tuttavia, la prassi (poco ortodossa) di emettere decreti inaudita altera parte

di rigetto delle istanze cautelari impone di accordare comunque una forma di tutela al

ricorrente che si vede rigettata l’istanza cautelare senza instaurazione del

contraddittorio; in tali ipotesi, è preferibile riconoscere l’ammissibilità del reclamo, in

quanto, se non si consentisse al ricorrente la possibilità di richiedere ad un organo

superiore il riesame delle decisione, riconoscendogli soltanto la facoltà di riproposizione

della stessa istanza, si verrebbe a creare una situazione di evidente squilibrio e di

disparità di trattamento rispetto al caso di decisione assunta nella forma dell’ordinanza,

sempre e comunque reclamabile. Dunque, la reclamabilità del decreto di rigetto è una

conseguenza dell’applicazione dei principi e del ragionamento logico-giuridico

effettuato nella pronuncia della Corte Costituzionale citata, onde evitare di sperequare la

posizione del ricorrente a seconda che la decisione, in virtù di una scelta discrezionale

del giudice, assuma appunto la forma del decreto anziché quella dell’ordinanza65;

pertanto, prescindendo dalla veste formale del provvedimento reclamato,

l’ammissibilità del reclamo non può che dipendere dal carattere definitivo, e non

solamente provvisorio, del provvedimento medesimo, per cui la sua esperibilità avverso

il decreto di rigetto (provvedimento appunto definitivo, in quanto non trasfuso in

ordinanza) non costituisce una violazione dell’art. 669 terdecies c..c,., ma

l’estrinsecazione di una nozione per così dire, sostanziale, dell’ordinanza reclamabile66.

Il reclamo avverso le pronunce in rito:

64 Trib. Avellino, 16.7.1993, in Riv. Dir. Proc., 1994, pag. 607, con nota di Grasso 65 Trib. Torino, 11.8.1994; Trib. Milano, 15.5.2001; Trib. Lecce, 13.9.2000 66 Gambineri, in Foro It., 1994, I, c,3224

La tematica attiene al controllo delle ordinanza di rigetto per incompetenza, e per altri

motivi di rito ( difetto di giurisdizione o di legittimazione ad agire, nullità non sanata

della domanda, difetto non sanato di legittimatio ad processum).

Anche in questo caso, dopo le incertezze interpretative dei primi tempi, la Corte

Costituzionale, con la pronuncia n. 197 del 26.5.1995, ha chiarito che, anche alla luce

della propria precedente pronuncia già citata, il reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c.

debba intendersi contro ogni provvedimento di diniego, senza possibilità di distinguere

a seconda delle ragioni – di merito e di rito, ivi comprese quelle attinenti alla

competenza – del diniego stesso. Tale opposizione interpretativa si impone – a parere

della Corte – anche perché avverso le pronunce dichiarative della incompetenza in sede

cautelare è inammissibile il regolamento di competenza ad istanza di parte, essendo

estranea alla materia cautelare l’intera disciplina dettata agli artt. 42-50 c.p.c.67.

Ciò posto, non sembrano esserci ragioni ostative per ritenere ammissibile il reclamo

anche avverso alle ordinanze di rigetto per motivi in rito diversi dalla dichiarazione di

incompetenza, quali in particolare il difetto di giurisdizione68, la dichiarazione di nullità

non sanata dell’atto introduttivo, il difetto di rappresentanza tecnica ex art. 82 c.p.c., il

difetto di capacità processuale ex art. 75 e ss c.p.c.

Il reclamo avverso i provvedimenti di revoca o modifica:

Anteriormente alla pronuncia n. 253 /94 della Corte Costituzionale, in dottrina si erano

sviluppati due orientamenti contrapposti: un primo negava la reclamabilità di tali

ordinanze, facendo riferimento all’interpretazione letterale dell’art. 669 terdecies c.p.c.

(che ammetteva il reclamo solo per i provvedimenti di accoglimento)69, ed un secondo

che invece, anticipando il senso della pronuncia medesima, ed in ossequio al principio

del doppio grado di giurisdizione cautelare, riteneva ammissibile tale reclamo70

Da segnalare poi, un terzo orientamento – molto seguito in dottrina – che riteneva

reclamabili solo i provvedimenti di revoca o modifica ampliativi della misura, e non

anche quelli restrittivi del provvedimento precedentemente emesso, ritenendo che

67 Cass., 29.1.1993 n. 1164, in Foro It, I, c.2206 68 Trib. Napoli, 7.9.94 69Tarzia, Il provvedimento negativo. Il reclamo, cit., 393 70 Montesano, Arieta, Il nuovo processo civile, cit., 154

questa – si ribadisce, prima della pronuncia della Corte Costituzionale – potesse essere

l’unica opzione interpretativa coerente con il dato letterale dell’art. 669 terdecies c.p.c..

Con l’intervento della Consulta, come si è già detto, non sembrano più sussistere ragioni

ostative alla reclamabilità di qualsiasi pronuncia in materia cautelare, sia essa di

accoglimento, di rigetto, di revoca, di modifica, o di rigetto per ragioni di rito; buona

parte della dottrina afferma infatti che le ordinanze di revoca e modifica siano anche

esse espressioni di un normale potere di decisione cautelare, seppur esercitabile in un

periodo di tempo successivo al rilascio della originaria misura, e che per tale motivo

non possano essere sottratte all’ordinario mezzo di impugnazione e dunque

assoggettate al controllo da parte di un organo giudicante ( il collegio diverso da quello

che le ha emanate).

Vi è tuttavia parte della dottrina e della giurisprudenza che è ancora portata ad escludere

la reclamabilità di tali provvedimenti sulla scorta di alcune considerazioni71: a)

l’impossibilità di assimilare il provvedimento di revoca a quello di rigetto dell’istanza

cautelare, atteso che con il primo si accerterebbe soltanto la permanenza delle

circostanze già individuate dal giudice della cautela, mentre col secondo si individuano i

requisisti negativi che impediscono la concessione della cautela; b) l’esigenza di non

appesantire eccessivamente il procedimento cautelare, instaurando un generalizzato

doppio grado di giudizio; c) la sussistenza di ampie garanzie per il soggetto che subisce

la revoca del provvedimento cautelare, potendo riproporre l’istanza senza limiti, in

assenza di una pregressa ordinanza di rigetto.

Sembra tuttavia preferibile, ed auspicabile che la giurisprudenza assuma piena

consapevolezza della natura effettiva dei provvedimenti di revoca o modifica: essi,

implicando un esame sulle allegate modificazione del quadro fattuale che aveva in

precedenza giustificato l’adozione della misura cautelare, vanno considerati come

espressione di un nuovo potere cautelare, esercitato in un momento successivo a quello

dell’originaria misura; per tali motivi, escluderne la reclamabilità porterebbe la

conseguenza ( pregiudizievole) di rendere intoccabile il provvedimento

originario per tutto l’arco temporale che va dallo spirare dei termini per il suo reclamo

fino alla emanazione della sentenza di merito. Sembra dunque preferibile ammetterne la

reclamabilità, con la precisazione tuttavia che la cognizione del collegio si limiti a

71 Trib. Milano, 29.8.2002, in Giur. It., 2003, I, c.1394, Trib. Bari, 4.8.1997, Trib. Napoli, 25.11.1994

valutare l’effettiva esistenza dei mutamenti delle circostanze addotti a sostegno della

istanza di revoca o modifica, senza che possa in alcun modo procedersi ad un riesame

degli originari presupposti già valutati in sede di concessione della misura originaria72

Dunque, in tale ottica, può ritenersi che il reclamo abbia un diverso ambito ed una

differente funzione a seconda che investa il provvedimento originario, o quello di

revoca o modifica ( e di rigetto della relativa istanza); nel primo caso il collegio

verificherà la legittimità e/o l’inopportunità del provvedimento adottato dal giudice

della cautela ( accoglimento o rigetto che sia), nel secondo invece dovrà valutare il

corretto esercizio dei poteri di revoca o modifica vagliando esclusivamente la

sussistenza o meno delle circostanze addotte a sostegno della relativa istanza, e la loro

idoneità a porsi a fondamento di una manipolazione del provvedimento originario.

La competenza:

Il Giudice del reclamo è un organo collegiale, del quale non può far parte il singolo

giudice che ha emesso il provvedimento reclamato; ciò si ricava dalla disciplina offerta

dal raccordo tra i commi 2 e 4 dell’art. 669 terdecies c.p.c. e gli artt. 737 e 738 c.p.c., e

dunque dalla regole relative ai procedimenti in camera di consiglio, per i quali l’art. 50

bis c.p.c. richiede la composizione collegiale. Tale competenza ( e dunque il tribunale in

composizione collegiale) è prevista anche per i provvedimenti cautelari emessi dal

giudice del lavoro, sia che ci sia apposita sezione lavoro ( e in tal caso sarà devoluta

alla competenza di quest’ultima), sia che invece il reclamo appartenga alla competenza

della sezione civile del tribunale.

Il reclamo si propone con ricorso da depositare nella cancelleria del giudice competente

nel rispetto del dettato dell’art. 125 c.p.c., che identifica, in via generale, il contenuto

minimo degli atti di parte.

Quanto al termine per la proposizione del reclamo, prima della novella del 2005, si

discuteva in dottrina ed in giurisprudenza sulla decorrenza di tale termine

(originariamente fissato in dieci giorni), ritenendo che esso decorresse dalla

notificazione dell’ordinanza da parte dell’ufficiale giudiziario, o in alternativa dalla

comunicazione del dispositivo dell’ordinanza da parte del cancelliere. Con la L.

72 Trib. S. Angelo dei Lombardi, 5.3.2002, secondo cui “il reclamo avverso il provvedimento di modifica o revoca della misura cautelare investe il collegio del potere di compiere gli atti di istruzione necessari al controllo del sopravvenuto mutamento delle circostanze che hanno indotto al provvedimento contestato.

80/2005, la questione è stata risolta , in quanto il nuovo art. 669 terdecies prevede che “

contro l’ordinanza con la quale è stato concesso o negato il provvedimento cautelare è

ammesso reclamo nel termine perentorio di quindici giorni dalla pronuncia in udienza

ovvero dalla comunicazione o dalla notificazione se anteriore”; dunque, restano

equipollenti, ai fini della decorrenza del termine, tanto l’emanazione in udienza

dell’ordinanza cautelare, quanto la comunicazione del dispositivo da parte della

cancelleria, o la notificazione del provvedimento (ove avvenuta anteriormente alla

comunicazione della cancelleria).

Di nessun valore è invece il rilascio di copia integrale del provvedimento al procuratore

della parte prima della comunicazione o della notificazione, così come la consegna di

copia alla parte; in tali casi, il cancelliere non è comunque esonerato dall’onere della

formale comunicazione.

Qualora la parte voglia notificare il provvedimento ottenuto alla controparte dovrà farlo

al procuratore costituito e non alla parte personalmente, a meno che questa non sia

rimasta contumace in giudizio73.

Laddove si verifichi un contemporaneo difetto di comunicazione e di notificazione

(ipotesi assai rara), il termine per il reclamo è quello annuale ex art. 327 c.p.c.,

dopodiché la parte si riterrà decaduta dalla facoltà di proporre reclamo, secondo quanto

affermato dalla Suprema Corte di tema di regolamento di competenza74

Gli effetti devolutivi del reclamo:

Il reclamo, dal punto di vista metodologico, è un rimedio a critica libera, non essendovi

alcuna predeterminazione legale di specifici e presunti vizi del provvedimento

impugnato che possano essere sollevati dinanzi al collegio.

Quanto agli eventuali effetti devolutivi, la dottrina e la giurisprudenza sono divise nel

ritenere il reclamo una sorta di totale revisione dell’oggetto della domanda cautelare (

ritenendo operante un effetto devolutivo pieno, assoluto ed automatico, con conseguente

73 Trib. Roma, 2.12.1998 74 Cass. 8.9.2003 n. 13127, in Rep. Foro It., 2003, voce competenza civile

libertà del giudice rispetto ai motivi di reclamo)75 oppure un riesame limitato ai soli

motivi di censura avverso l’ordinanza impugnata76.

Sembra preferibile tale seconda opzione, perché al silenzio del legislatore, supplisce

tuttavia il principio generale della corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112

c.p.c., per cui deve concludersi che il reclamo investa il giudice, in funzione di “giudice

del controllo” nei limiti di quanto viene richiesto dal reclamante, sicchè il collegio non

deve estendere il proprio esame anche alle domande ed alle eccezioni non riproposte nel

reclamo, le quali vanno ritenute implicitamente abbandonate77.

Quanto ai motivi di reclamo, già prima della riforma del 2005, la prevalente dottrina (

dunque nella vigenza del testo originario dell’art. 669 terdecies c.p.c.) si era

decisamente orientata nel senso di attribuire al reclamo natura giuridica di novum

judicium, ammettendo la deducibilità non solo dei supposti errori del primo giudice, ma

anche di ogni circostanza (preesistente o sopravvenuta), ragione di diritto o prova che

possa condurre ad una decisione diversa da quella reclamata, con conseguente

inoperatività del divieto dei nova di cui all’art. 345, comma 3, c.p.c.. Tale orientamento

si fondava, volta per volta, su diverse argomentazioni, quale la mancanza di un primo

grado cautelare scandito da preclusioni, o gli ampi poteri istruttori del giudice del

riesame, o ancora proponendo una lettura estensiva della formula “motivi

sopravvenuti”, usata dall’art. 669 terdecies c.p.c., intendendola comprensiva oltre che di

veri e propri fatti nuovi, anche di semplici nuove ragioni, e quindi anche di nuove

prospettazioni in fatto o in diritto78 .

Su tale solco sembra essersi mossa la Corte Costituzionale con la pronuncia n. 65 del

17.3.1998, la quale, discostandosi dal precedente orientamento espresso con la sentenza

n. 253 del 1994, ha fatto riferimento ad un generale mezzo di controllo dell’operato del

giudice della cautela da parte di un giudice diverso e collegiale, investito del

complessivo contenuto della domanda cautelare e titolare dei medesimi poteri conferiti

al primo giudice.

75 ArieTa, Reclamabilità del provvedimento di rigetto e struttura del reclamo cautelare, in Studi in onore di C. Mandrioli, Milano, 1995, I, pag. 482 e ss. 76 De Cristofaro, Struttura rescindente o sostitutiva del reclamo cautelare, in Giur. It., 1994, I, 2, c.215 ss; Trib. Padova, 13.2.1996 77 Trib. Verbania, 8.4.1999 78 Merlin, Provvedimenti urgenti, cit., p. 374, nota 20

Sul punto, il nuovo comma 4 dell’art. 669 terdecies c.p.c. (introdotto con la L. 80 del

2005) prescrive testualmente che “le circostanze ed i motivi sopravvenuti al momento

della proposizione del reclamo debbono essere proposti, nel rispetto del principio del

contraddittorio, nel relativo procedimento”, e tanto anche in coordinazione – come si è

già evidenziato in precedenza – con i primi due commi dell’art. 669 decies c.p.c., in

materia di revoca e modifica..

Dunque, sarà possibile dedurre fatti nuovi sotto il profilo oggettivo (perchè

effettivamente verificatisi dopo l’emissione del cautelare) o soggettivo (perché

preesistenti, ma conosciuti dopo), ma anche nuovi argomenti di diritto ( i motivi).

Ovviamente, spirato il termine per il reclamo, tutti i motivi e le circostanze deducibili in

tale sede, non potranno porsi a fondamento di un’ulteriore istanza di revoca o modifica,

ed il provvedimento potrà essere modificato o revocato solo in presenza di fatti nuovi

sopravvenuti cronologicamente rispetto alla fase del reclamo.

L’inibitoria:

La proposizione del reclamo non ha efficacia sospensiva dell’esecuzione del

provvedimento, salva l’inibitoria o la subordinazione della esecuzione del cautelare

reclamato alla prestazione di congrua cauzione che il destinatario passivo della misura

può richiedere “quando per motivi sopravvenuti il provvedimento arrechi danno”.

Il ricorso all’inibitoria è molto scarso nella prassi, e forse a ciò contribuisce la

formulazione infelice del sesto comma dell’art. 669 terdecies c.p.c., nonché il dibattito

in dottrina sulla consistenza di tali motivi sopravvenuti, intesi – per qualcuno – ancora

una volta non soltanto da un punto di vista temporale e fattuale in senso stretto, ma

anche logico, sì da ricomprendere nella formula tutte quelle ragioni, di fatto o di diritto

che, anche se antecedenti al provvedimento concessivo della misura, non siano state

prospettate in tale sede..

La convocazione della controparte e l’intervento dei terzi:

Il rinvio operato dall’art. 669 terdecies, comma 3, c.p.c. agli artt. 737 e 738 c.p.c.

rafforza indubbiamente l’informalità del procedere; in tale ottica si è affermato che,

accanto alla notificazione del ricorso e del decreto a cura della parte istante (strumento

tipico di attivazione del contraddittorio), sono tuttavia ammissibili altre forme

abbreviate ed informali di convocazione, quali la chiamata attraverso la polizia

giudiziaria, ovvero tramite telefono, fax, telegramma o biglietto di cancelleria79.

Anche la giurisprudenza, sul punto opta per l’utilizzo di alcuni strumenti informali di

convocazione, seppure la notificazione a cura del reclamante del reclamo e del decreto

di fissazione dell’udienza collegiale, resta la forma più utilizzata.

E’ invece controversa la legittimazione a proporre reclamo in capo ai terzi rimasti

estranei al procedimento cautelare espletato in prime cure, i quali assumano di aver

subito un pregiudizio dal provvedimento emesso inter alios. La questione sorge

soprattutto laddove il terzo non sia stato posto in condizione di intervenire in un

momento anteriore alla chiusura del procedimento cautelare e lamenti un pregiudizio

arrecatogli dalla pronuncia emessa in sua assenza.

La dottrina è divisa tra chi ammette che il terzo, titolare di diritti autonomi ed

incompatibili con quello cautelato, possa proporre reclamo al pari di uno dei soggetti

che hanno partecipato al procedimento cautelare80, e chi invece nega tale legittimazione.

Anche la giurisprudenza sul punto è divisa, pur meritando sostegno l’orientamento più

liberale, sulla scorta delle seguenti considerazioni: a) l’intervento ordinario nel giudizio

a cognizione piena successivo al cautelare, mediante un’istanza di revoca o modifica ex

art. 669 decies c.p.c. pregiudicherebbe il terzo dal punto di vista dei tempi eccessivi in

cui rimarrebbe compresso il suo diritto; b) il ricorso all’art. 669 duodecies c.p.c. è

insufficiente perché limitato nei suoi presupposti; c) il ricorso all’art. 404 c.p.c. gli

imporrebbe di attendere il passaggio in giudicato della sentenza di merito; d) il rimedio

ex art. 619 c.p.c. presuppone solo la difesa dei diritti reali.

Dunque, sembra preferibile ammettere il reclamo cautelare da parte del terzo, che dovrà

essere depositato nel termine di quindici giorni decorrente dal momento in cui egli abbia

avuto conoscenza del provvedimento; in caso di contestazione sul rispetto di tale

termine, incomberà sul terzo l’onere della prova di provare la tempestività del ricorso81.

L’istruttoria:

79 In senso contrario all’uso di forme di evocazione informale, Mandrioli, Le modifiche del processo civile, cit. pag. 198 80 Tarzia, Provvedimenti urgenti, cit., p. 397, nota 10, pur facendo salva l’azione ordinaria di accertamento del suo diritto 81 Trib. Catanzaro, 27.5.1997

Con l’entrata in vigore del rito cautelare uniforme, si è sviluppato il dottrina il dibattito

sulla portata dei poteri istruttori del collegio in sede di reclamo, influenzato dalle

differenti concezioni circa l’ambito di cognizione del giudice superiore. I limiti dei

poteri istruttori risentono infatti, per evidenza logica, dell’ampiezza dei motivi

deducibili e dell’ambito di cognizione del giudice superiore.

E dunque, laddove si opti per un’ampiezza devolutiva, dovrà attribuirsi al collegio un

ampio potere conoscitivo degli stessi termini di quello riconosciuto al giudice di prime

cure ex art. 669 sexies c.p.c., con conseguente possibilità di procedere

indiscriminatamente agli atti di istruzione ritenuti indispensabili, ivi comprese le

sommarie informazioni. Al contrario, ove si propenda per il reclamo quale “revisio

prioris istantiae”, i poteri istruttori saranno ristretti al minimo indispensabile.

Anteriormente alla novella del 2005, la giurisprudenza è stata divisa nel ritenere

incompatibile con la natura del reclamo qualsiasi nuova attività istruttoria82, oppure –

optando per la natura devolutivo-sostitutiva del reclamo – nell’ammettere la deduzione

di nuovi argomenti, nuove prove e nuovi documenti83.

Il legislatore del 2005 ha optato definitivamente per la natura devolutivo-sostitutiva del

reclamo, aperto dunque alle allegazioni di fatti nuovi, e con la possibilità dunque per il

tribunale di “assumere nuove informazioni ed acquisire nuovi documenti”.

Nonostante la differenza terminologica con la formula utilizzata all’art. 669 sexies,

comma 1 c.p.c. ( “atti di istruzione”), la formula utilizzata per il reclamo non giustifica

una minore ampiezza dei poteri istruttori del collegio in tale sede, essendo a tale organo

riconosciuta piena potestà cautelare, e potendo dunque colmare eventuali lacune

dell’istruttoria cautelare in prima fase (sempre nel rispetto dei motivi di reclamo),

accogliere nuove istanze istruttorie relative a circostanze sopravvenute o a fatti in

precedenza non dedotti, con applicazione sostanzialmente analogica di quanto previsto

all’art. 669 sexies comma 1 c.p.c.84. Il principio che giustifica tale ampiezza di poteri

istruttori è dunque quello per cui alla simmetria dei poteri cognitivi con il procedimento

cautelare dinanzi al giudice monocratico, deve corrispondere tendenzialmente un’eguale

82 Trib. Firenze, 11.3.1997, Trib. Termini Imerese, 12.2.2001; Trib. Milano, 25.3.96 83 Trib. Roma, 5.11.2003, in Rep. Foro. It., 2003, p.2166 n. 15 84 Tommaseo, Commento, cit., p.105, che equipara i poteri istruttori del collegio a quelli concessi dalla legge al giudice che ha emanato la misura cautelare reclamata; Atterdi, le nuove disposizioni, cit., pag. 259; Ghirga, Le nuove norme sui procedimenti cautelari, in Riv. Dir. Proc., 2005, pag. 812, secondo cui “il giudice del reclamo può svolgere attività istruttoria nelle stesse forme previste per il primo grado”

estensione dei poteri istruttori, ovviamente coordinando tale opzione con il rispetto del

termine (ordinatorio) di venti giorni stabilito per la decisione sul reclamo, e dunque,

ferma restando la mancanza di specifiche preclusioni istruttorie, valorizzando tuttavia il

carattere di indispensabilità dell’istruttoria in sede di reclamo.

In buona sostanza, il giudice del reclamo potrà integrare eventuali lacune dell’attività

istruttoria dinanzi al giudice di prime cure, accogliere istanze istruttorie relative a

circostanze sopravvenute o a fatti in precedenza non dedotti, procedendo al compimento

di quegli atti di istruzione ritenuti indispensabili in relazione ai presupposti ed ai fini

della richiesta misura cautelare, in applicazione analogica dell’art. 669 sexies c.p.c..

8. L’ambito di applicabilità del rito cautelare uniforme

L’art. 669 quaterdecies c.p.c., contenente la norma di chiusura del modello

procedimentale introdotto con la L. 3534/90 esprime l’attitudine ad una generale

applicabilità del rito cautelare uniforme in correlazione alla valenza costituzionale

riconosciuta alla tutela cautelare, e dunque pone il problema di comprendere, e di

identificare, gli altri provvedimenti di natura cautelare a cui tale modello

procedimentale possa applicarsi.

Sicuramente, per espressa previsione normativa, il procedimento si applica: a) ai

sequestri ex artt. 670 e 671, 687 c.p.c.; b) alle denunce di nuova opera e di danno

temuto di cui agli artt. 1171 e 1172 c.c.; c) ai provvedimenti d’urgenza ex art. 700

c.p.c.; d) al provvedimento ex art. 624 c.p.c. ed art. 703 comma 2 c.p.c. per quanto

attiene alla reclamabilità degli stessi.

Per quanto invece attiene agli ulteriori provvedimenti cautelari disseminati nel codice

civile e nelle leggi speciali, è demandata all’interprete volta per volta verificare la

applicabilità del modello cautelare uniforme sulla scorta di due criteri base: a) il previo

riconoscimento della natura cautelare del provvedimento in questione; b) la

compatibilità del modello procedimentale ex art. 669 bis e ss c.p.c. con il singolo

provvedimento cautelare.

Quanto al primo aspetto, occorre intendersi – a livello sostanziale e processuale –

sull’accezione da fornire al termine “cautelare”; in assenza di una definizione legale,

occorre valutare due elementi: a) la natura funzionale, consistente nell’assicurare

l’effettività della tutela giurisdizionale contro i pericoli di infruttuosità e tardività del

provvedimento principale conseguibile nel procedimento a cognizione piena; b) la

struttura, e cioè la sua provvisorietà (inidoneità a regolare definitivamente l’assetto di

interessi dedotto nel rapporto principale) e strumentalità rispetto alla cognizione di

merito, ponendosi tale provvedimento in un rapporto di servizio rispetto ad una

necessaria e successiva decisione da adottare in sede di giudizio ordinario di

cognizione85.

Con la riforma dell’art. 669 octies c.p.c. ad opera della L. 80/05 , essendosi reciso il

necessario vincolo tra cautela e procedimento di merito, sono sorte incertezze

interpretative nella ricerca di una nozione di cautela che di fatto non è pacifica; in altri

termini, l’unico elemento caratterizzante del provvedimento cautelare è quello

funzionale del periculum in mora; si è detto dunque in dottrina che la tutela sommaria

anticipatoria non cautelare è quella caratterizzata dall’esigenza generica di fornire alla

parte che ha ragione un’anticipazione del provvedimento di merito favorevole, al fine di

evitare di dover attendere la conclusione del giudizio; nel caso invece della tutela

anticipatoria cautelare l’esigenza specifica , di rango costituzionale, è quella di evitare

che la parte subisca un danno più o meno grave (fino al limite dell’irreparabilità) dalla

durata del processo a cognizione piena. A quest’ultima schiera di provvedimenti potrà

applicarsi il rito cautelare uniforme.

Identificata la natura cautelare del provvedimento richiesto, occorre formulare il

giudizio di compatibilità ai sensi dell’art. 669 quaterdecies c.p.c.

Sul punto, la dottrina ha inteso dare alla norma di cui all’art., 669 quaterdecies c.p.c.

una portata particolarmente ampia, nel senso che esso potrà trovare applicazione

rispetto ai procedimenti previsti nelle norme speciali (anche ove queste siano anteriori

all’art. 669 quaterdecies), le quali sono destinate a sopravvivere ogni volta che vi siano

esigenze specifiche da tutelare86.

Inoltre, il giudizio di compatibilità da formulare volta per volta, secondo la dottrina e

giurisprudenza prevalenti, ha natura di verifica parziale, nel senso che va compiuto per 85 Montesano Arieta, Il nuovo processo civile, cit., pag. 164 86 Proto Pisani, Procedimeni cautelari, cit. pag. 33

ciascuna norma del procedimento cautelare uniforme, e non allo stesso

complessivamente valutato87; dunque, ove la legge speciale regolatrice del

provvedimento extravagante contenesse una disciplina della competenza incompatibile

con quella posta dagli artt. 669 ter, quater e quinquies c.p.c., ciò non escluderebbe a

priori l’applicabilità dell’art. 669 terdecies c.p.c.. trattasi dunque di un’applicazione

selettiva delle norme sul cautelare uniforme.

I provvedimenti nell’interesse dei coniugi e della prole:

Sono i provvedimenti previsti all’ art. 708 comma 3 e 4 c.p.c. ( in caso di separazione),

o ex art. 4, comma 8 della L. 898/70 ( in caso di divorzio).

Sono provvedimenti che hanno senza dubbio natura cautelare, così come riconosciuto

più volte dalla Cote di Cassazione88.

Il dibattito in dottrina attiene alla possibilità di assoggettare o meno tali provvedimenti

al reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c.; l’orientamento maggioritario ritiene che non sia

possibile il reclamo atteso che trattasi di provvedimenti emanabili d’ufficio e potendo

altresì sopravvivere all’estinzione del processo: Vi è poi un orientamento minoritario ,

che invece ritiene tali provvedimenti assoggettabili al rimedio del reclamo attese le

esigenze di immediatezza e contestualità rispetto al giudizio di merito da garantire in

ogni caso a tali statuizioni; tale orientamento afferma altresì che le ordinanze ex art.708

c.p.c. non sono espressamente dichiarate non impugnabili, per cui, almeno con

riferimento alle statuizioni in materia economica( e dunque sugli assegni di

mantenimento) dovrebbero essere reclamabili89; infine, può ritenersi che anche la

argomentazione relativa alla concedibilità d’ufficio di questi provvedimenti sembra un

argomento debole, perché mentre i provvedimenti sulla prole vanno adottati anche

d’ufficio ai sensi dell’art. 155 c.c. ( poiché deputati a garantire finalità pubblicistiche),

quelli concernenti i rapporti economici tra i coniugi presuppongono sempre e comunque

un’istanza di parte. Argomento invece insuperabile – e dunque contrario a questo

orientamento minoritario – è quello della carenza di strumentalità, atteso che i

provvedimenti del presidente del tribunale ( emessi nella fase presidenziale), al pari di

quelli emanati successivamente dal giudice istruttore nel corso del giudizio, non sono

87 Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, cit. pag. 387; Trib. Bologna, 6.5.1998 88 Da ultimo Cass. 12.4.1994 n. 3415 89 Cipriani, L’impugnazone dei provvedimenti nell’interesse dei coniugi e della prole, e il lento ritorno al garantismo, in corriere Giuridico, 1998, p. 211 e ss; Balena, Provvedimenti sommari esecutivi e garanzie costituzionali, cit., c. 1541 s.s.

strumentalmente collegati a quelli contenuti nella sentenza che definisce il giudizio di

separazione, che mantengono invece una loro sostanziale autonomia ed essendo diretti a

soddisfare diverse finalità; tale è la ragione per cui l’ordinanza presidenziale, autonoma

rispetto alla sentenza, è destinata a sopravvivere anche alla estinzione del processo,

proprio per la carenza del nesso di strumentalità con lo stesso.

Infine, sempre in contrapposizione con questo orientamento minoritario, milita una

ulteriore considerazione: quand’anche si volesse riconoscere natura cautelare ai

provvedimenti presidenziali, difetterebbe comunque il requisito della compatibilità ex

art. 669 quaterdecies per rendere applicabile (parzialmente) il procedimento cautelare

uniforme. Ed infatti, mentre le decisioni assunte ex art.708 c.p.c. sono sempre

modificabili e revocabili in prosieguo, anche all’esito di una rivalutazione degli

elementi già noti, la disciplina dettata all’art. 669 decies c.p.c. subordina invece la

revoca o modifica al mutamento delle circostanze, e dunque, consentire anche il

reclamo ex art. 669 terdecies c.p., porterebbe ad una proliferazione del contenzioso

inimmaginabile e del tutto sproporzionata. Contra, si osserva che anche tale

considerazione sembra tuttavia fragile, atteso che la formulazione dell’art. 669 decies

c.p.c. e quella dell’art. 708 c.p.c., comma 4, sono sostanzialmente identiche, poiché i

provvedimenti ex art. 708 c.p.c. possono essere modificati dal giudice istruttore anche (

ma non soltanto, quindi) sulla base di una nuova valutazione dei medesimi elementi già

valutati, senza escludere dunque le circostanze sopravvenute.

Attualmente, il contrasto in giurisprudenza è abbastanza marcato.

Sempre in materia di famiglia, altra questione attiene al sequestro dei beni del coniuge

obbligato ex art. 156 c.c.:l’orientamento prevalente ritiene che tale provvedimento,

nonostante la sua qualificazione in termini di “sequestro” , non abbia natura

propriamente cautelare, difettando in particolare i presupposti del fumus boni juris e del

periculum in mora. Tale sequestro presuppone infatti un credito già dichiarato, sia pure

in via provvisoria, ed ha come presupposto il necessario inadempimento della parte

obbligata al versamento del mantenimento; riveste dunque natura di provvedimento

coercitivo atipico diretto ad impedire la reiterata violazione dell’obbligo mediante

coazione dell’obbligato, e come tale è privo del nesso di strumentalità con il successivo

giudizio di merito.

Da tale affermata natura non cautelare, discende l’inapplicabilità del rito cautelare

uniforme.

A tale orientamento maggioritario, si affianca una diversa tendenza minoritaria che

ritiene che tale sequestro abbia natura cautelare, assolvendo ad una funzione analoga a

quella del sequestro conservativo (evitare la sottrazione dei beni dell’obbligato ai danni

del creditore), seppure basata necessariamente sull’accertamento dell’inadempimento e

sul pericolo di infruttuosità futura, nonchè della situazione da tutelare (diritto a

prestazioni periodiche con termine di scadenza indeterminato). In tale modo, potrà

garantirsi al soggetto obbligato il ricorso al reclamo.

Quanto alle ordinanze ex art. 186 bis e ter c.p.c., è evidente la loro natura tipicamente

monitoria; esse tuttavia non hanno carattere decisorio né l’idoneità a acquistare

l’irrevocabilità propria degli effetti del giudicato, essendo sempre revocabili e

modificabili, anche in caso di estinzione del processo, e destinate ad essere assorbite

nella sentenza di merito. Esse hanno dunque natura e funzione prettamente esecutiva, e

pertanto va esclusa l’applicabilità ex art. 669 bis c.p.c..

Infine, quanto ai provvedimenti possessori, il nuovo articolo 703 c.p.c. introduce una

volta per tutte – ponendo fine al dibattito giurisprudenziale – la reclamabilità degli stessi

ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c., sia con riferimento all’ordinanza di accoglimento

che a quella di rigetto.

Tuttavia, quanto alla generale applicabilità del rito cautelare uniforme, e soprattutto alla

natura del procedimento possessorio, in dottrina, nel tempo, hanno preso corpo due

orientamenti, uno dei quali non più attuale, così sintetizzabili: a) il procedimento

possessorio si svolge in un’unica fase sommaria destinata a concludersi con ordinanza,

impugnabile mediante reclamo, dotata di efficacia meramente esecutiva ed inidonea al

giudicato; b) il procedimento possessorio è un unicum che si snoda in due fasi,

sommaria e di merito, con la conseguenza che il giudice, dopo aver emesso i

provvedimenti sommari fissa direttamente l’udienza ex art. 183 c.p.c. 90.

La novella del 2005 ha finalmente reso soltanto eventuale la fase di merito,

subordinandola alla richiesta delle parti in tal senso entro il termine perentorio di

sessanta giorni dall’emissione dell’ordinanza a chiusura della fase sommaria; dunque il

procedimento cautelare pur presentandosi dogmaticamente come un copro a struttura

90 Cass. SSUU 24.2.1998 n. 1984

bifasica, subordina tuttavia la fase di merito alla specifica istanza di parte in tal senso,

istanza che non potrà avere contenuto differente a quello del ricorso, senza dunque

alcuna possibilità di ampliare il thema decidendum .

Laddove la seconda fase di merito non venga introdotta – e dunque laddove il

provvedimento emesso nella fase sommaria non venga trasfuso in alcuna sentenza –

l’ordinanza conclusiva della fase sommaria, ove di accoglimento, conserva la sua

efficacia esecutiva, confermandosi come un provvedimento sommario semplificato

esecutivo, passibile di rimanere in vita a tempo indeterminato e cioè fino

all’accertamento positivo di contrastanti ragioni di diritto, conseguente all’esercizio di

un’azione reale o personale.

Appendice: Le Prove atipiche

Per prova atipica si intende a) quella non prevista dalla legge, oppure b) quella prevista

dalla legge, ma non acquisita nelle forme previste dalla legge, nonché ancora c)

l’utilizzo a fini probatori di mezzi processuali diversi da quelli comunemente condotti al

concetto di prova.

Dunque vi è atipicità con riferimento alla fonte di prova, e quella riferita al

procedimento di acquisizione.

Da tenere distinta è la prova illecita, , ove il giudizio di illiceità va effettuato con

riferimento alla prova oggetto o frutto di una condotta illecita, o a quella assunta con un

procedimento che ha violato le norme processuali.

Fonti atipiche:

Si controverte se le prove nel processo civile siano solo quelle previste dal codice, come

tipiche, e che dunque le altre siano da considerarsi atipiche.

La discussione sulla prova atipica, e la necessità di giustificarla nel processo, nasce dal

concetto di diritto alla prova, secondo cui la parte ha il diritto di agire in giudizio

provando i fatti a fondamento delle sue pretese, ovvero di reagire e difendersi contro le

allegazioni probatorie delle controparti, e di non subire alcuna limitazione probatoria o

impedimento processuale all’acquisizione di prove raccolte in altri processi,

all’invocazione di un giudicato formatosi inter alios, e dunque di fornire al giudice –

proprio per la completezza del suo libero convincimento – quanti più elementi possibili.

Inoltre, vi è da dire che non vi è nel nostro ordinamento alcuna disposizione per le quali

le prove disciplinate dal codice siano da considerarsi un numerus clausus, e dunque è

ipotizzabile e giustificabile l’ingresso delle prove atipiche.

Nell'ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività

tipologica dei mezzi di prova. Ne consegue che il giudice può legittimamente porre a

base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purché idonee a

fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico

- riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se congruamente

motivato - con le altre risultanze del processo. In particolare, il giudice del merito può

trarre elementi di convincimento anche dalla parte della consulenza d'ufficio eccedente

i limiti del mandato, ma non sostanzialmente estranea all'oggetto dell'indagine in

funzione della quale è stata disposta. ( Cass. civ., Sez. II, 25/03/2004, n.5965)

Nell'ordinamento processuale vigente, in forza del principio di cui all'art. 116 c.p.c. il

giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove

cosiddette atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in

quanto non smentite dal raffronto critico con le altre risultanze del processo, con il solo

limite di dare congrua motivazione dei criteri adottati per la sua valutazione.

(Fattispecie relativa a un elenco dei dipendenti di un'azienda, privo di attestazione

della provenienza, utilizzato per valutare il requisito dimensionale in una controversia

in tema di licenziamento) (Cass. civ., Sez. lavoro, 27/03/2003, n.4666)

L'art. 116 c.p.c. conferisce al giudice di merito un potere ampiamente discrezionale del

quale, attenendo esso alle cosiddette prove atipiche o innominate, va motivatamente

giustificato l'uso, e non già, come invece in caso di mancata valutazione delle prove

tipiche (e salvo sempre il principio del libero convincimento), il non uso. (Cass. civ.,

Sez. II, 24/02/2004, n. 3642)

L'ammissibilità del ricorso alle prove atipiche nel giudizio civile, oltre a non essere

ostacolata da espliciti divieti, è imposta da norme di rango costituzionale, quali quella

che garantisce il diritto di difesa (e, quindi, il diritto alla prova) e quella che assicura le

garanzie del giusto processo (tra le quali, anche la garanzia di una decisione giusta, in

quanto fondata sull'accertamento veritiero dei fatti). (Nella specie, la corte ha ammesso

come prova uno scritto proveniente da un terzo). (App. Bari, 15/04/2005)

Quali sono le prove atipiche?

In primis viene in rilievo la produzione di documenti:

a) prove raccolte in altri processi. Acquisizione dei verbali di causa delle prove

testimoniali, o in generale di qualsiasi altra prova assunta in altro giudizio in cui vi sia

identità di parti: l’atipicità consiste nel fatto che questa prova non si è formata dinanzi al

giudicante (“Il giudice di merito può legittimamente tenere conto, ai fini della

decisione, di risultanze di relazioni tecniche acquisite in un diverso processo, tanto più

quando la relazione sia stata predisposta in relazione ad un giudizio tra le stesse parti

ed abbia avuto ad oggetto una situazione di fatto rilevante in entrambi i giudizi.”Cass.

civ., Sez. III, 18/04/2001, n.5682): trattasi dunque non di una prova orale (perchè non è

una testimonianza formatasi dinanzi al giudicante) ma di una prova documentale

atipica) Ciò può accadere sia in relazione ad altri giudizi tra le stesse parti, che tra parti

diverse (“E' rimessa alla prudente valutazione del giudice riconoscere il valore di

indizi, aventi la stessa efficacia probatoria delle presunzioni, a prove testimoniali

raccolte in altro giudizio, anche tra parti diverse, e ritualmente addotte.” Cass. civ.,

Sez. II, 18/09/2000, n.12288).

Quanto al valore probatorio da riconoscere a tali documenti, la giurisprudenza è

concorde nel ritenere che essi vadano valutati quali indizi di prova, anche se relativi a

giudizi tra le stesse parti (“Ai fini dell'impugnazione per revocazione, ai sensi dell'art.

395 n. 3 c.p.c., deve ritenersi decisivo il documento, trovato dopo la sentenza, che, se

acquisito agli atti, sarebbe stato in astratto idoneo a formare un diverso convincimento

del giudice, e perciò a condurre ad una diversa decisione (in applicazione di tale

principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva escluso la decisività

delle dichiarazioni rese in altro processo in sede di interrogatorio libero ai sensi

dell'art. 424 c.p.c., non avendo le stesse valore confessorio ed avendo, comunque, le

prove assunte in un diverso giudizio mera efficacia indiziaria”.Cass. civ., Sez. lavoro,

19/08/2000, n.11007 – “In caso di occupazione illegittima da parte della p.a. di un

fondo di proprietà privata per la costruzione di un'opera pubblica, la determinazione

della data in cui si è verificata la radicale trasformazione del suolo e la conseguente

sua irreversibile destinazione alla realizzazione dell'opera pubblica, ai fini della

decorrenza della prescrizione, costituisce apprezzamento di fatto, riservato al giudice

di merito, e, pertanto, insindacabile ove sorretto da adeguata motivazione. Ai fini della

formazione del proprio convincimento, il giudice può utilizzare anche prove raccolte in

un diverso giudizio tra le stesse o altre parti, quali indizi idonei a fornire utili elementi

di giudizio. (Nella fattispecie, la S.C. ha ritenuto corretta la decisione della Corte di

merito che aveva attribuito rilievo probante, ai fini della individuazione della data di

completamento dell'opera pubblica in questione, un edificio scolastico, alla consulenza

disposta in altro giudizio ed alla sentenza che lo aveva definito, pronunziata tra altre

parti, ma relativa allo stesso edificio, in quanto realizzato su area in parte di proprietà

di soggetto diverso dai ricorrenti).”Cass. civ., Sez. I, 04/01/2000, n.8).

Non sono mancate pronunce di segno contrario, che riconoscono a tali prove il valore di

prova piena (“Il giudice di merito può utilizzare in mancanza di qualsiasi divieto di

legge, anche prove raccolte in un diverso giudizio fra le stesse altre parti, come

qualsiasi altra produzione delle parti stesse, al fine di trarne non solo semplici indizi o

elementi di convincimento, ma anche di attribuire loro valore di prova esclusiva, il che

vale anche per una perizia svolta in sede penale o una consulenza tecnica svolta in altre

sedi civili.”Cass. civ., Sez. II, 11/08/1999, n.8585

Sentenza civile resa in altro giudizio:

Si tratta delle sentenza emesse in altri giudizi o tra le stesse parti o tra parti diverse:

hanno valore di “documentazione delle risultanze dei mezzi istruttori di prova” in tali

sedi esperiti.

Tali risultanze probatorie, poiché assunte aliunde hanno valore di meri indizi, che non

possono assurgere a rango di prova piena se non accompagnati da elementi probatori

ulteriori assunti nel giudizio in corso, ed a seguito di un raffronto critico con gli stessi.(“

Le sentenze pronunciate in altro processo tra parti diverse hanno valore di

documentazione delle risultanze dei mezzi di prova allora esperiti, senza però che

l'omesso esame di tali risultanze concreti un vizio di motivazione, in quanto, trattandosi

di prove svoltesi in giudizio diverso, alle stesse può attribuirsi valore di meri indizi, che

non possono assurgere a fonti determinanti per l'accertamento del fatto controverso, in

mancanza di un adeguato raffronto critico con le altre risultanze del processo.”Cass.

civ., Sez. lavoro, 11/12/1999, n.13889)

Vi è dunque un risvolto del principio del 2909 c.c. sul giudicato formale (la sentenza

passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, gli eredi e gli aventi causa), per

cui si può dire a contrariis che la sentenza non emessa tra le stesse parti non può essere

vincolante per i terzi, e rispetto a questi può avere solo valore indiziario in ordine alla

situazione giuridica che in esso si è accertato, ed è oggetto di libera valutazione da parte

del giudice davanti al quale è prodotta, sempre insieme agli altri elementi di giudizio

direttamente acquisiti. (“Dal principio fissato dall'art. 2909 c.c. - secondo cui

l'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra

le parti, i loro eredi o aventi causa - si evince, a contrario, che l'accertamento

contenuto nella sentenza non estende i suoi effetti - e non è vincolante - per i terzi.

Rispetto ai terzi, infatti, la sentenza passata in giudicato può esclusivamente avere la

diversa efficacia di prova o di elemento di prova documentale in ordine alla situazione

giuridica che abbia formato oggetto dell'accertamento giudiziale. Tale efficacia

indiretta può essere invocata da chiunque vi abbia interesse, ma spetta al giudice di

merito di esaminare la sentenza prodotta a tale scopo e sottoporla alla sua libera

valutazione, anche in relazione ad altri elementi di giudizio rinvenibili negli atti di

causa. (In base ai suddetti principi la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva

ritenuto che una sentenza divenuta definitiva emessa tra datore di lavoro e lavoratori

potesse avere effetti di giudicato anche nei confronti dell'Inps - ancorchè l'ente non

avesse partecipato al giudizio - al fine della riscossione dei contributi previdenziali

riferentisi ai rapporti di lavoro subordinato la cui sussistenza era stata accertata nella

sentenza passata in giudicato”

Cass. civ., Sez. lavoro, 18/05/1999, n.4821)

Il ragionamento di cui sopra vale ancor di più per le pronunce non passate in giudicato .

Sentenze penali ed atti del procedimento penale.

Sentenza di patteggiamento: l’art. 445 c.p.p. stabilisce che essa non ha alcuna efficacia

nei giudizi civili ed amministrativi; ciò significa ancora una volta che, escludendone la

valenza di prova, possono però rinvenirsi alcuni elementi di giudizio anche per il

patteggiamento ( “La disposizione di cui all'art. 445, comma 1, c.p.p., secondo la quale

la sentenza di patteggiamento non ha efficacia nei giudizi civili ed amministrativi, si

applica anche con riferimento al procedimento disciplinare, pur quando esso non abbia

natura giurisdizionale (come nel caso di specie, con riferimento alla fase innanzi al

Consiglio provinciale dell'Ordine degli architetti ed ingegneri, che ha natura

amministrativa). Ne consegue che, nel giudizio disciplinare, l'accertamento dei fatti

addebitati al professionista, allo scopo di valutarne la rilevanza in sede disciplinare

avviene in modo del tutto autonomo rispetto alla sentenza di patteggiamento emessa nei

confronti dello stesso in relazione ai medesimi fatti. Tale accertamento può, bensì,

avvalersi degli elementi che risultano dal contenuto della predetta sentenza, ma esige

che non si tragga da essa la esclusiva prova della sussistenza dei fatti costituenti

illecito disciplinare, richiedendo l'affermazione di responsabilità disciplinare che, in

esito a cognizione piena, l'accertamento a contenuto negativo del giudice penale

(assenza degli estremi per il proscioglimento) si trasformi in un accertamento positivo

sulla sussistenza dei fatti, con conseguente necessità dell'esame, quanto meno, della

posizione che l'incolpato ha assunto sul punto sia in sede penale, che nel corso del

procedimento disciplinare.”

Cass. civ., Sez. III, 27/08/1999, n.8993).

Dunque l’assenza degli estremi per il proscioglimento – valutata ai fini del

patteggiamento – è solo un indizio (negativo per l’incolpato) che va valutato insieme a

tutto il resto acquisito a cognizione piena nel procedimento disciplinare.

Lo stesso dicasi per tutto il materiale probatorio assunto in dibattimento, anche se non

valutato per via dell’estinzione del reato (“Il materiale probatorio acquisito nel

procedimento penale per l'accertamento della commissione di un reato, ritualmente

introdotto nel giudizio civile, ancorchè non valutato criticamente in dibattimento per

essersi il reato estinto, può esser posto a fondamento del convincimento del giudice del

merito per la ricostruzione dei medesimi fatti ai fini dell'accertamento della

responsabilità civile nei confronti dello stesso soggetto indiziato di reato, ed, altresì,

possono essere utilizzate le dichiarazioni testimoniali, rese alla polizia giudiziaria in

sede di sommarie informazioni, ai sensi dell'art. 225 c.p.p. del 1930, per fatti anteriori

all'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, senza che perciò sia violato

il diritto alla difesa della parte.”

Cass. civ., Sez. III, 10/05/2001, n.6502).

Tali esempi sono l’espressione di un principio generale circa la possibile valutazione (

del tutto libera) che il giudice civile può fare delle risultanze singolarmente e

globalmente considerate ottenute in un procedimento penale, qualunque ne sia stato

l’esito (“La sentenza penale non irrevocabile, ancorchè non faccia stato nel giudizio

civile circa il compiuto accertamento dei fatti materiali formanti oggetto del giudizio

penale, costituisce in ogni caso un documento, che il giudice civile è tenuto ad

esaminare e dal quale può trarre elementi di giudizio, sia pure non vincolanti, su dati e

circostanze ivi acquisiti con le garanzie di legge, soprattutto quando gli stessi non

risultino da mere valutazioni del giudice penale, ma trovino rispondenza nell'istruttoria

espletata in quella sede.”

Cass. civ., Sez. I, 15/02/2001, n.2200)

Diverse pronunce sono state invece emesse in relazione alla perizia svolta in sede

penale, o alla CTU esperita in sede civile (“Il giudice di merito può utilizzare in

mancanza di qualsiasi divieto di legge, anche prove raccolte in un diverso giudizio fra

le stesse altre parti, come qualsiasi altra produzione delle parti stesse, al fine di trarne

non solo semplici indizi o elementi di convincimento, ma anche di attribuire loro valore

di prova esclusiva, il che vale anche per una perizia svolta in sede penale o una

consulenza tecnica svolta in altre sedi civili.”

(Cass. civ., Sez. II, 11/08/1999, n.8585).

Per la formazione del proprio convincimento il giudice di merito può utilizzare anche le

prove e gli accertamenti raccolti in diverso giudizio tra le stesse parti o tra altre parti e,

quindi, può trarre elementi di convincimento anche da una perizia svolta in un

procedimento penale.

(Cass. civ., Sez. II, 09/09/2004, n.18131)

Ed infine, sul comportamento delle parti negli altri procedimenti: “In tema di

valutazione della prova, l'omessa valutazione dei comportamenti processuali ed

extraprocessuali di una parte può integrare vizio della motivazione in relazione ad un

punto decisivo della controversia, quando tali comportamenti siano astrattamente

idonei, ove presi in considerazione dal giudice di merito, a determinare una decisione

diversa da quella adottata. Tali comportamenti devono essere presi in considerazione

dal giudice di merito anche se emergano da atti ed indagini svolte in sede penale,

costituendo in tal caso semplici indizi, idonei a fornire utili e concorrenti elementi di

giudizio, la cui concreta efficacia sintomatica deve essere valutata - in conformità alla

regola in tema di prova per presunzioni - non solo analiticamente, ma anche nella loro

convergenza globale, accertandone la pregnanza conclusiva in base ad un

apprezzamento insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da adeguata e corretta

motivazione sotto il profilo logico e giuridico. “

Cass. civ., Sez. III, 10/10/2003, n.15181.

Perizia stragiudiziale e consulenza tecnica di parte:

Sono documenti contenenti valutazioni, stime o giudizi non assunti in contraddittorio tra

le parti, ed elaborate da soggetto incaricato da una di esse.

Essi, secondo una vecchia impostazione, non hanno bisogno di specifica confutazione

da parte del giudice (“La consulenza di parte, ancorchè confermata sotto il vincolo del

giuramento, costituisce semplice allegazione difensiva di carattere tecnico, priva di

autonomo valore probatorio: ne consegue che il giudice di merito, il quale esprima un

convincimento ad essa contrario, non è tenuto ad analizzarne e a confutarne il

contenuto.” Cass. civ., Sez. III, 18/04/2001, n.5687); tuttavia non mancano sporadiche

pronunce di segno contrario (“Quando i rilievi contenuti nella consulenza tecnica di

parte siano precisi e circostanziati, tali da portare a conclusioni diverse da quelle

contenute nella consulenza tecnica d'ufficio ed adottate in sentenza, ove il giudice

trascuri di esaminarli analiticamente, ricorre il vizio di insufficiente motivazione su un

punto decisivo della controversia.”Cass. civ., Sez. lavoro, 16/06/2001, n.8165) .

La giurisprudenza più recente afferma che:

È affetta da vizio di motivazione la sentenza con la quale il giudice di merito, a fronte di

precise e circostanziate critiche mosse dal consulente tecnico di parte alle risultanze

della consulenza tecnica d'ufficio, non le abbia in alcun modo prese in considerazione e

si sia invece limitato a far proprie le conclusioni della consulenza tecnica d'ufficio,

giacché il potere di detto giudice di apprezzare il fatto non equivale ad affermare che

egli possa farlo immotivatamente e non lo esime, in presenza delle riferite

contestazioni, dalla spiegazione delle ragioni - tra le quali evidentemente non si

annovera il maggior credito che egli eventualmente tenda a conferire al consulente

d'ufficio quale proprio ausiliare - per le quali sia addivenuto ad una conclusione

anziché ad un'altra, incorrendo, altrimenti, proprio nel vizio di motivazione su un punto

decisivo della controversia. (Nella specie, la S.C., enunciando il riportato principio, ha

cassato con rinvio l'impugnata sentenza con la quale, in un giudizio risarcitorio per

lesioni conseguenti ad assunta responsabilità sanitaria, la corte di appello aveva

confermato la statuizione di rigetto della domanda adottata in primo grado, rilevando,

in modo apodittico e senza un preciso riscontro dei plurimi rilievi formulati dal

consulente di parte anche in appello a seguito di rinnovazione della consulenza tecnica

d'ufficio, la piena attendibilità delle risultanze di quest'ultima, in quanto ritenute

fondate su elementi di valutazione assolutamente condivisibili e conformi ai dati

riscontrati ed esaustivamente motivati con osservazioni pertinenti e logiche,

corrispondenti anche ai risultati peritali d'ufficio scaturiti in primo grado, con

conseguente insussistenza delle decisive incongruenze denunciate dall'appellante).

(Cassa con rinvio, App. Milano, 11 Ottobre 2002)

Cass. civ., Sez. III, 01/03/2007, n.4797

Il principio secondo cui la consulenza tecnica di parte costituisce semplice allegazione

difensiva di carattere tecnico priva di autonomo valore probatorio, della quale il

giudice di merito, che esprima un convincimento ad essa contrario, non è tenuto ad

analizzare e a confutare il contenuto, non comporta, nel caso in cui la consulenza di

parte sia una consulenza medico legale concernente prestazioni previdenziali e

assistenziali, che il giudice di merito, in considerazione della qualità delle situazioni

soggettive sulle quali il giudizio medico legale è destinato ad incidere, non abbia alcun

obbligo di confutazione. Tuttavia, l'omesso esame, da parte del giudice, dei rilievi della

parte, in tanto rileva come vizio di omessa motivazione, denunciabile in cassazione, in

quanto la parte ne indichi, con riferimento a serie e documentate argomentazioni

medico - legali, la decisività, ossia l'incidenza sulla valutazione della sussistenza o

meno di un determinato stato patologico.

Cass. civ., Sez. lavoro, 10/12/2002, n.17556

Nell'ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività

tipologica dei mezzi di prova. Ne consegue che il giudice può legittimamente porre a

base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purché idonee a

fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico

- riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se congruamente

motivato - con le altre risultanze del processo. In particolare, il giudice del merito può

trarre elementi di convincimento anche dalla parte della consulenza d'ufficio eccedente

i limiti del mandato, ma non sostanzialmente estranea all'oggetto dell'indagine in

funzione della quale è stata disposta. Cass. civ., Sez. II, 25/03/2004, n.5965

Scritture contenenti dichiarazioni provenienti dalla parte:

In relazione a tali documenti, molto significativa è una pronuncia del 2001, (conforme a

SSUU 153/98) che ha affermato: “La dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà

prevista dall'art. 4 della legge n. 15 del 1968 ha attitudine certificativa e probatoria

fino a contraria risultanza nei confronti della p.a. ed in determinate attività o procedure

amministrative; ma, in difetto di diversa, specifica previsione di legge, nessun valore

probatorio, neanche indiziario, può essere ad essa attribuito nel giudizio civile

caratterizzato dal principio dell'onere della prova, atteso che la parte non può derivare

elementi di prova a proprio favore, ai fini del soddisfacimento dell'onere di cui all'art.

2697 c.c., da proprie dichiarazioni. (Fattispecie in tema di prova della mancata vendita

di fondi rustici nel biennio precedente per un importo superiore a lire mille ai fini

dell'insorgenza del diritto di prelazione agraria).”Cass. civ., Sez. III, 16/05/2001,

n.6742

“Nel giudizio civile, caratterizzato dal principio dell'onere della prova, nessun valore

probatorio può essere attribuito alla dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà,

qualora essa costituisca l'unico elemento esibito nel giudizio civile al fine di provare un

elemento costitutivo dell'azione o dell'eccezione.”

Cass. civ., Sez. III, 06/04/2001, n.5142).

Tale principio è stato ribadito con riferimento a svariata casistica:

“Le attestazioni contenute in una cartella clinica sono riferibili ad una certificazione

amministrativa per quanto attiene alle attività espletate nel corso di una terapia o di un

intervento, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o

di opinione in essa contenute non hanno alcun valore probatorio privilegiato rispetto

ad altri elementi di prova; in ogni caso, le attestazioni della cartella clinica, ancorchè

riguardante fatti avvenuti alla presenza di un pubblico ufficiale o da lui stesso compiuti

(e non la valutazione dei suddetti fatti) non costituisce prova piena a favore di chi le ha

redatte, in base al principio secondo il quale nessuno può precostituire prova a favore

di se stesso.”

Cass. civ., Sez. III, 27/09/1999, n.10695.

“L'attestazione amministrativa non può costituire piena prova a favore

dell'amministrazione da cui essa provenga, che di essa intenda avvalersi in causa,

potendo comunque assumere valore indiziario e formare il convincimento del giudice in

associazione ad altri elementi. “

Cass. civ., Sez. I, 07/02/2000, n.1320.

Nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento, in considerazione del suo

carattere officioso, il giudice ha il potere-dovere di accertare l'esistenza dei presupposti

richiesti per l'apertura della procedura concorsuale anche in base agli atti del fascicolo

fallimentare, le cui acquisizioni conoscitive rientrano nella categoria delle prove

atipiche, delle quali il giudice può avvalersi per siffatto accertamento, e, quindi, sono

suscettibili di essere valutate a detto scopo anche le dichiarazioni rese nella fase

prefallimentare dal fallito, ovvero da un soggetto privo della capacità a testimoniare,

ex art. 246 cod. proc. civ. - norma questa non applicabile a detta fase - in quanto

titolare di un interesse che potrebbe legittimare la sua partecipazione al giudizio (nella

specie, un creditore del fallito).

Cass. civ., Sez. I, 02/09/2005, n.17698.

Dunque, in sintesi, si riconosce valore poco rilevante alle scritture contenenti

dichiarazioni delle parti, sulla scorta del principio per cui nessuno può precostituire

prove a suo favore.

Scritture contenenti dichiarazioni provenienti da terzi:

Vale lo stesso ragionamento sin qui seguito.

Sono documenti che non possono contenere elementi di affidabilità circa la genuinità, la

spontaneità e l’esattezza delle dichiarazioni ivi contenute, visto che non sono state

adoperate dal giudice nel processo in cui debbono servire.

Dunque, essi possono offrire soltanto elementi indiziari, valutabili unitamente alle altre

risultanze istruttorie assunte nel corso del giudizio, e valgono pertantosolo ad

integrazione del fondamento della decisione (Cass. 21.11.00 n. 15027: ha ritenuto

corretta la decisione del giudice di merito nella parte in cui aveva posto a fondamento

della condanna in un giudizio di risarcimento danni per sinistro stradale , oltre alle

circostanze direttamente accertate nella immediatezza dei fatti dagli agenti operanti,

anche le dichiarazioni di un terzo, inserite nel verbale da loro redatto).

Verbali P.A.:

Essi fanno fede fino a querela di falso, in ossequio all’art. 2700 c.c., solo per le

operazioni compiute direttamente dai verbalizzanti, ovvero per ciò che essi abbiano

percepito direttamente senza margini di discrezionalità interpretative; sul punto vi è

giurisprudenza costante (Cass. 12834/99, 5435/99, 3522/99).

Diversa invece è la valenza di verbali redatti non da p.a., ma da organi tecnici

particolarmente qualificati, che costituiscono sempre apprezzamenti formatisi al di fuori

del processo, anche se da organi qualificati e nell’ambito di specifiche regole

procedimentali ( “L'efficacia probatoria del contenuto della relazione redatta dal

curatore fallimentare va diversamente valutata a seconda della natura delle risultanze

da essa emergenti. Mentre, infatti, la relazione, in quanto formata da un pubblico

ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, fa piena prova fino a querela di falso degli atti

e dei fatti che egli attesta essere stati da lui compiuti o essere avvenuti in sua presenza,

il contenuto delle dichiarazioni rese dai terzi rimane liberamente valutabile in ordine

alla sua veridicità. In ordine a tale secondo genere di risultanze, peraltro, ove la "ratio

decidendi" si fondi su quelle parti della relazione del curatore in cui viene recepito ciò

che allo stesso è stato riferito, eludendosi, in tal modo, il ricorso ad una prova

testimoniale, con i limiti e la responsabilizzazione che essa comporta, si sostituisce una

fonte di prova atipica alla utilizzazione di un mezzo di prova tipico, violandosi i precetti

di diritto che governano l'assunzione delle prove. Nè può ritenersi che, in tali ipotesi, la

prova abbia carattere presuntivo, ove si consideri l'esigenza, per la validità di tal

genere di prova, che essa abbia a fondamento fatti noti, in quanto provati o tali da non

richiedere di essere provati per la loro notorietà o per l'assenza di contestazione.”

Cass. civ., Sez. I, 02/09/1998, n.8704).

Stesse conclusioni per le dichiarazioni confessorie verbalizzate da organi di polizia (“Le

dichiarazioni rese agli organi di polizia giudiziaria, ancorchè non siano vincolanti in

sede civile, costituiscono confessione stragiudiziale fatta ad un terzo che il giudice ha il

potere - dovere di apprezzare liberamente. (Fattispecie relativa ad una dichiarazione

resa agli ispettori Inail).”

Cass. civ., Sez. lavoro, 16/08/2000, n.10825.)

Analoghe considerazioni anche per le constatazioni amichevoli di sinistro, ove le

dichiarazioni formulate su modello incompleto, o sottoscritto da una sola delle parti,

degradino da prova legale ex art. 5 L. 39/77 ( secondo cui, ove compilate in modo

corretto e sottoscritto dalle parti hanno valore di presunzione iuris tantum, vincibile con

prova contraria fornita dall’assicuratore del danneggiante, su cui incombe il relativo

onere) e non hanno valore di confessione stragiudiziale, ma di mera ammissione

qualificabile come indizio.