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Direttore: Francesco Gui (dir. resp.). Comitato scientifico: Antonello Biagini, Luigi Cajani, Francesco Dante, Anna Maria Giraldi, Francesco Gui, Giovanna Motta, Pèter Sarkozy. Comitato di redazione: Andrea Carteny, Stefano Lariccia, Chiara Lizzi, Daniel Pommier Vincelli, Vittoria Saulle, Luca Topi, Giulia Vassallo. Proprietà: “Sapienza” - Università di Roma. Sede e luogo di trasmissione: Dipartimento di Storia moderna e contemporanea, P. le Aldo Moro, 5 - 00185 Roma tel. 0649913407 – e - mail: [email protected] Decreto di approvazione e numero di iscrizione: Tribunale di Roma 388/2006 del 17 ottobre 2006 Codice rivista: E195977 Codice ISSN 1973-9443

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Direttore: Francesco Gui (dir. resp.).

Comitato scientifico: Antonello Biagini, Luigi Cajani, Francesco Dante, Anna Maria

Giraldi, Francesco Gui, Giovanna Motta, Pèter Sarkozy.

Comitato di redazione: Andrea Carteny, Stefano Lariccia, Chiara Lizzi, Daniel

Pommier Vincelli, Vittoria Saulle, Luca Topi, Giulia Vassallo.

Proprietà: “Sapienza” - Università di Roma.

Sede e luogo di trasmissione: Dipartimento di Storia moderna e contemporanea, P. le

Aldo Moro, 5 - 00185 Roma

tel. 0649913407 – e - mail: [email protected]

Decreto di approvazione e numero di iscrizione: Tribunale di Roma 388/2006 del 17

ottobre 2006

Codice rivista: E195977

Codice ISSN 1973-9443

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Indice della rivista

aprile - giugno 2014, n. 31

MONOGRAFIE E DOCUMENTI

Ritualità ed immagini del potere papale nei Gesta Innocentii III di Francesco Massetti p. 3

Ser Tommaso, Ser Pietro e il “mal francese”. Testimonianze sull’insorgere dell’epidemia luetica in Italia agli esordi dell’età moderna. Sintomi e cure

di Marco Parigini p. 67

The Origins of the European Integration: Staunch Italians, Cautious British Actors and the Intelligence Dimension (1942-1946) di Claudia Nasini p. 93

***

RECENSIONI Luca Stroppiana, Stati Uniti, Bologna, il Mulino, 2013, II edizione aggiornata, pp. 185 di Giacomo Mazzei p. 145

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Eurostudium3w aprile-giugno 2014

3 F. Massetti, Ritualità ed immagini

Ritualità ed immagini del potere papale nei Gesta Innocentii III

di Francesco Massetti

This paper deals with the ways in which pope Innocent III (1198-1216) was able to

express his extremely high conception of the Roman pontiff as «vicarius Christi»,

supreme mediator between God and mankind and holder of the «plenitudo potestatis»,

through a complex system of images and rituals, analysing some particularly relevant

passages from Gesta Innocentii III, a papal biography whose anonymous author was

very close to Innocent - due to his likely engagement in a curial office - and showed

himself very sensitive to the symbolic and ritual aspects of papal authority.

Dieser Beitrag behandelt die Weisen, in denen Papst Innozenz III. (1198-1216) seine

hohe Auffassung des Papstes als «vicarius Christi», der höchste Mittler zwischen Gott

und den Menschen und der Inhaber der «plenitudo potestatis», durch ein komplexes

System von Bildern und Ritualen wirksam ausdrücken konnte, auf der Grund mancher

besonders bedeutsamen Textstellen aus der Gesta Innocentii III, einer päpstlichen

Biografie, dessen anonymer Autor wegen seiner wahrscheinlichen Ausübung eines

Kurienamtes sehr nahe Innozenz war und sich sehr empfindlich auf die symbolische

und rituelle Aspekte der päpstlichen Autorität zeigte.

Il presente studio ha visto la luce in occasione del corso tenuto dalla

professoressa Giulia Barone all’Università di Roma “La Sapienza” sul tema

«Annali, Cronache, Storie: la storiografia tra XII e XIII secolo», nel secondo

semestre dell’anno accademico 2011-‘12. La gestazione dello studio è stata

tuttavia ben più lunga, poiché già l’anno precedente, conducendo delle ricerche

sull’eredità costantiniana nel Medioevo nell’ambito di una tesi di laurea

triennale sulla Vera Croce nella Legenda aurea, abbiamo notato l’importanza del

pontificato di Innocenzo III per lo sviluppo di ritualità e simboli del potere

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4 F. Massetti, Ritualità ed immagini

papale. Particolarmente significativo, al riguardo, è stato un testo suggerito dal

professor Umberto Longo: Le Chiavi e la Tiara. Immagini e simboli del papato

medievale, di Agostino Paravicini Bagliani.

Il corso della professoressa Barone ci ha dunque fornito l’occasione per

cercare di verificare questa nostra convinzione sulla base di un testo troppo

poco studiato a fronte della sua ricchezza e complessità: i Gesta Innocenti III.

Innocenzo III costituisce senza dubbio una figura di capitale importanza

nella storia del papato, anzitutto per la grande coerenza e la straordinaria

efficacia teoretica con le quali, recependo e potenziando le precedenti

elaborazioni ecclesiologiche legate al primato petrino, egli seppe delineare la

sua altissima concezione dell’ufficio di vicarius Christi, detentore della “plenitudo

potestatis” (“pienezza dei poteri”), in virtù della quale egli non soltanto si

proclamò supremo pastore, maestro e giudice della cristianità universale, ma

rivendicò anche una posizione di superiorità rispetto ai sovrani temporali, cui

era affidato il concreto esercizio del regnum.

In questo nostro contributo intendiamo soffermarci in particolare sulla

capacità del grande pontefice di tradurre le sue feconde elaborazioni teologiche

in un significativo apparato simbolico-rituale, verso il quale l’autore dei Gesta

Innocentii III, si mostra assai sensibile ed interessato, come ha ben rilevato da

Paravicini Bagliani. Avremo modo di mostrare che la prospettiva offerta dai

Gesta Innocentii si rivela particolarmente interessante per la grande vicinanza

dell’anonimo autore al pontefice, dovuta allo svolgimento di un importante

ufficio curiale che lo pose in stretto rapporto con le elaborazioni innocenziane e

gli consentì un accesso privilegiato alla ricchissima produzione documentaria

della cancelleria romana.

Nella prima parte della nostra ricerca presentiamo alcune fondamentali

informazioni sui Gesta Innocentii III, senza pretesa di originalità. Abbiamo

cercato, infatti, di riassumere brevemente i risultati delle preziose ricerche di

Gress-Wright, Powell, Barone e Bolton su struttura, contenuto, genesi ed

attribuzione dell’opera.

La seconda parte costituisce invece il focus del nostro interesse, giacché

abbiamo qui indagato il testo dei Gesta Innocentii III al fine di comprendere

l’importanza attribuita da Innocenzo III e dal suo biografo alle rappresentazioni

rituali, letterarie ed artistiche del potere papale.

Nella prima sezione di questa seconda parte presentiamo la cerimonia

della consacrazione di Innocenzo III, significativamente fissata il giorno della

festività solenne della cathedra Petri, a rimarcare il primato petrino del pontefice.

Nella narrazione dei Gesta Innocentii assume grande importanza anche la

solenne processione da San Pietro al Laterano, alla quale partecipano

concordemente le autorità civili ed ecclesiastiche, testimoniando il superamento

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5 F. Massetti, Ritualità ed immagini

della pluridecennale conflittualità seguita alla Renovatio Senatus (1143), la

ricostituzione del Senato cittadino.

Nel seconda sezione prendiamo in esame il testo di una delle più note

lettere di Innocenzo III, la Sicut universitatis conditor, nella quale viene

presentato il celebre paragone fra il sole e la luna e i due poteri universali. Essa

risulta significativamente riportata dall’autore dei Gesta Innocenti III in una

sezione eminentemente narrativa, a rimarcarne la fondamentale importanza per

la politica innocenziana. Sulla base degli studi di Othmar Hageneder, abbiamo

cercato di collegare una significativa modifica del dettato della lettera agli

sviluppi del Thronstreit.

Nella terza sezione, ripercorrendo una delle rievocazioni più

emblematiche fra quelle proposte dai Gesta, analizziamo in dettaglio il

cerimoniale di incoronazione di Pietro II d’Aragona a Roma, mostrando

l’importanza che esso ha avuto nella riaffermazione del potere papale presso

l’Urbe e l’intera cristianità. Particolarmente preziosi si sono rivelati gli studi di

Damian Smith, che permettono di chiarire le motivazioni che spinsero il

sovrano aragonese ed il pontefice alla solenne incoronazione svoltasi durante la

festa di san Martino del 1204.

La quarta ed ultima sezione è dedicata a due raffigurazioni artistiche, un

antepedium lateranense ed il mosaico absidale di San Pietro, fatto realizzare da

Innocenzo III. Avvalendoci anche in questo caso degli opportuni riscontri con i

Gesta, abbiamo cercato di mettere in evidenza l’importanza attribuita dal

pontefice alla propaganda visiva, che ha trovato nel mosaico vaticano la sua più

originale ed emblematica espressione.

Parte I. I Gesta Innocentii III

I Gesta Innocentii III si possono definire una biografia soltanto lato sensu,

trattandosi di un unicum nell’ambito delle biografie papali per la sua estensione

e per la combinazione di parti narrative e regesti documentari. Inoltre, i Gesta

Innocentii non coprono l’intero pontificato di Innocenzo III (1198-1216),

fermandosi al 12081.

I.1 Struttura e contenuto

I capitoli iniziali (1-7), dedicati alle origini, alla cultura giuridica e teologica, alla

produzione letteraria e alla carriera ecclesiastica di Lotario dei Conti di Segni,

futuro Innocenzo III, sono esemplati sulla base delle biografie papali contenute

1 D.R. Gress-Wright, The «Gesta Innocentii». Text, introduction and commentary. Ph.D. Dissertation,

Bryn Mawr College 1981, pp. 28*, 34*-35*.

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6 F. Massetti, Ritualità ed immagini

nel Liber Pontificalis (VI-IX secolo)2. Presentano una forma narrativa anche i

capitoli dedicati al recupero del Patrimonio di San Pietro (8-17) e alle vicende

del regno di Sicilia fino alla maggiore età di Federico di Svevia (18-40)3. Questa

sezione, secondo la classificazione operata da Gress-Wright, concerne le

«temporales actiones», cioè le azioni compiute da Innocenzo III quale signore

territoriale4. L’autore, che nella narrazione si avvale della sua esperienza diretta

degli avvenimenti e di resoconti curiali di prima mano5, insiste fortemente sulla

contrapposizione fra la saggezza, la magnanimità e la pazienza del pontefice e

la malvagità dei suoi rivali. In particolare assume un dimensione quasi epica la

lotta fra Innocenzo e il suo principale antagonista, il nobile tedesco Marcoaldo6.

Con il capitolo 41 inizia la parte dedicata agli “spirituales actus”, gli atti

compiuti dal pontefice in virtù della sua potestà spirituale. Intesa in senso

stretto, essa comprende i capitoli 41-59, dedicati all’organizzazione curiale e alle

“cause de toto orbe”, vale a dire i rapporti con le principali monarchie europee7.

Tuttavia anche i successivi capitoli 60-132 presentano “azioni spirituali” in

senso lato, poiché Innocenzo III si presenta come giudice universale e supremo

amministratore della cristianità8.

La sezione centrale dell’opera (capp. 60-119), dedicata alla IV Crociata, alla

presa di Costantinopoli, all’unione con la Chiesa greca e ai rapporti con le

Chiese orientali di Armenia e Bulgaria, si presenta in forma di dossier di

documenti, costruiti sulla base delle lettere conservate nei registri papali9. Gli

eventi presentati in questa ampia sezione sono noti all’autore soltanto

attraverso il materiale documentario della cancelleria10.

Segue la sezione dedicata ad uno dei più importanti eventi del papato di

Innocenzo III, l’incoronazione di Pietro II d’Aragona (capp. 120-122). La

narrazione della solenne cerimonia è accompagnata dal testo del giuramento

del sovrano e del privilegio concesso da Innocenzo III alla corona aragonese11.

La successiva sezione (cap. 123-131) è dedicata alle azioni di “reformatio et

correctio” compiute da Innocenzo III. Hanno una forma documentaria i capitoli

2 G. Barone, “Introduzione”, in Gesta di Innocenzo III, traduzione di S. Fioravanti, a cura di G.

Barone e A. Paravicini Bagliani (La corte dei papi 20), Roma 2011, p. 8. 3 Ibid. 4 Gress-Wright, The «Gesta Innocentii»…, cit., pp. 29*-30*. 5 Ivi, p. 32*. 6 Ivi, pp. 33*, 111*; cfr. B. Bolton, “Too important to neglect. The Gesta Innocentii PP III”, in Ead.,

Innocent III: Studies on Papal Authority and Pastoral Care, Cambridge 1992, pp. 92-93. 7 Gress-Wright, The «Gesta Innocentii»…, cit., pp. vii, 30*. 8 Ivi, p. 30*. 9 Barone, “Introduzione”, cit., p. 9. 10 Gress-Wright, The «Gesta Innocentii»…, cit., p. 32*. 11 Ivi, p. 30*; Barone, “Introduzione”, cit., p. 9.

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7 F. Massetti, Ritualità ed immagini

relativi alla lotta contro la pataria a Viterbo (123-125) e all’elezione del vescovo

di Canterbury (132), mentre hanno andamento narrativo i capitoli dedicati

all’opera di riforma nei domini pontifici (126-128) e ai rapporti con Filippo II

Augusto e Giovanni d’Inghilterra (129-131)12.

La seconda sezione narrativa (cap. 133-142), dedicata alle “temporales

actiones”, tratta dei difficili rapporti fra il pontefice ed il comune romano, fra

1203 e 1204.

La parte finale (cap. 143-150), concernente le donazioni alle istituzioni

religiose e le ordinazioni operate dal pontefice, è piuttosto convenzionale,

ispirandosi alle tradizionali conclusioni delle biografie del Liber Pontificalis13.

L’autore non ha inserito alcun documento relativo al complesso problema

della successione imperiale a Enrico VI: non viene fatta alcuna menzione

all’appoggio dato da Innocenzo III ad Ottone IV di Brunswick. Si tratta di un

elemento sorprendente, data la centralità della questione, nonché l’ampio

spazio riservato nei Gesta Innocentii alla tutela di Federico II quale re di Sicilia. È

assai probabile che la scelta dell’autore sia dovuta alla coeva composizione del

Regestum super negotio Romani imperii, nel quale la cancelleria aveva iniziato a

raccogliere tutti i documenti relativi alla successione imperiale, a partire dal

1199. L’autore dei Gesta Innocentii avrebbe dunque ritenuto sufficiente tale

regesto, decidendo così di non occuparsi della questione imperiale14.

I.2 Genesi ed ipotesi di attribuzione

Gli autori che hanno affrontato il problema della paternità dei Gesta Innocentii

III hanno individuato alcuni tratti peculiari dell’anonimo autore. Sicuramente

egli aveva una solida cultura, anche in ambito giuridico, era molto vicino al

pontefice ed aveva accesso alla documentazione prodotta nella cancelleria

papale, della quale fece ampio uso15.

Su queste basi sono state avanzate tre principali proposte di attribuzione,

legate tutte agli uffici della Curia Romana, i quali ebbero un notevole sviluppo

tra la metà del XII secolo e l’inizio del XIII, in particolare dopo la pace stipulata

con il Comune nel 1188. Furono soprattutto due gli uffici che assunsero una

struttura particolarmente articolata: la Camera, organo preposto all’attività

amministrativa e finanziaria della corte papale, e la Cancelleria16, preposta alla

12 Gress-Wright, The «Gesta Innocentii»…, cit., p. viii, 31*. 13 Ivi, p. 31*; Barone, “Introduzione”, p. 9. 14 Ivi, p. 10. 15 Ivi, p. 11. 16 Dopo una fase di prolungata vacanza fra il 1187 e il 1205, la carica di cancellarius Sanctae

Romanae Ecclesiae tornò ad essere occupata per volere di Innocenzo III, il quale profuse il suo

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8 F. Massetti, Ritualità ed immagini

produzione documentaria. Proprio in questi due ambiti si è cercato di

individuare l’autore dei Gesta Innocentii17.

Barone ha dimostrato con chiarezza l’origine romana dell’autore, la quale

emerge dall’approfondita conoscenza delle famiglie romane, nonché dalle

dettagliate indicazioni topografiche, presenti in particolar modo nella

narrazione degli scontri cittadini del 1203-1204. Gli studi sulla topografia delle

Roma medievale, in particolare quelli condotti da Armellini18 e dal

Krautheimer19, hanno permesso di verificare l’attendibilità delle notizie fornite

dall’autore dei Gesta Innocenti20.

Sulla scorta di un articolo di Lefèvre21 e degli studi di Agostino Paravicini

Bagliani sul rapporto tra le biografie papali del XIII secolo e biografie papali

scritte dal cardinale Bosone, a lungo camerlengo22, Gress-Writght23 ha ipotizzato

un’identificazione dell’autore dei Gesta Innocentii III con Ottaviano, canonico di

san Pietro e consubrinus di Innocenzo III, presente a Roma quasi

ininterrottamente. Dal 1200 al 1204 Ottaviano fu camerlengo, e nel 1206 fu

elevato al cardinalato presso la diaconia dei Santi Sergio e Bacco, di cui era stato

titolare lo stesso pontefice prima dell’elezione e alla quale egli rimase molto

legato24. L’appartenenza dell’autore alla Camera apostolica è stata motivata in

virtù dello spiccato interesse mostrato dai Gesta per gli aspetti finanziari e

patrimoniali.25

Gress-Wright ritiene che una prima parte dell’opera e gran parte degli

ultimi capitoli risalgano al 1203, quando Innocenzo si ammalò gravemente.

L’autore avrebbe inteso scrivere la biografia del papa nell’imminenza della sua

morte, che invece sarebbe avvenuta ben 13 anni dopo. In questo modo Gress

Wright cerca di spiegare l’uso del passato remoto in un’opera scritta mentre il

impegno nell’incremento dell’attività e del personale della Cancelleria (Barone, “Introduzione”,

cit., p. 12). 17 Ivi, pp. 11-12. 18 M. Armellini, Le Chiese di Roma dal IV al XIX secolo, Roma 1942. 19 R. Krautheimer, Roma. Profilo di una città, 312-1308, Roma 1981. 20 Barone, “I ‘Gesta Innocentii III’: politica e cultura di Roma all’inizio del Duecento”, in Studi

sul Medioevo per Girolamo Arnaldi, a cura di Ead., L. Capo e S. Gasparri, Roma 2001, pp. 1-23, pp.

6-7. 21 Y. Lefèvre, Innocent III et son temps vus de Rome: étude sur la biographie anonyme de ce pape, in

«École française de Rome. Mélanges d' archéologie et d'histoire» 61 (1949), pp. 242-245. 22 A. Paravicini Bagliani, La storiografia pontificia del XIII secolo. Prospettive di ricerca, in «Römische

Historische Mitteilungen» 18 (1976), pp. 45-54; cfr. Id., “Le biografie papali duecentesche e il

senso della storia”, in Il senso della storia nella cultura medievale italiana (1100-1350). Atti del XIV

Convegno internazionale di studi, 14-17 maggio 1993, Pistoia 1995, pp. 155-173, pp. 156-157. 23 Gress-Wright, The «Gesta Innocentii»…, cit., p. 112*-114*. 24 Barone, “Introduzione”, cit., p. 13; Ead., “I ‘Gesta Innocentii III’…”, cit., p. 2. 25 Barone, “I ‘Gesta Innocentii III’…”, cit., p. 3.

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9 F. Massetti, Ritualità ed immagini

pontefice era ancora in vita. I Gesta Innocentii andrebbero intesi, nella loro fase

iniziale, quale una difesa dell’operato del pontefice, che lasciava interrotta la

sua azione politica, oggetto di forte contestazioni. Solo in seguito alla

guarigione del pontefice l’autore avrebbe ripreso la composizione dell’opera,

aggiungendo dettagli ai temi già affrontati e inserendo una serie di dossier su

importanti materie di carattere “spirituale”, come la Crociata, l’unione con la

Chiesa greca, e i rapporti con le Chiese di Bulgaria e Armena. Considerando che

questi eventi arrivano fino al 1208, Gress-Wright data a questo anno la fine della

composizione26. L’autore avrebbe interrotto l’opera prima della fine del

pontificato di Innocenzo III ritenendo esaurita la sua funzione di difesa

dell’operato del pontefice, analogamente alla Vita Alexandri III di Bosone, che si

conclude prima della morte del pontefice, presentando il punto di vista papale

nel conflitto che lo ha contrapposto a Federico Barbarossa27.

L’attribuzione al cardinale Ottaviano formulata da Gress-Wright presenta

elementi di grande interesse, dalla parentela con il pontefice al profondo

coinvolgimento nell’amministrazione della Chiesa romana; tuttavia non

mancano punti deboli, messi in evidenza da Barone. In primis, la presenza di

dati di natura finanziaria e patrimoniale non indica necessariamente

l’appartenenza dell’autore alla Camera apostolica, giacché notizie di tale natura

si trovano abbondanti anche nel Liber Pontificalis, in particolare nelle biografie

dei pontefici dell’VIII e IX secolo, prima cioè della costituzione della Camera

stessa28. Inoltre, risulta assai difficile motivare l’interruzione dell’opera nel 1208,

otto anni prima della morte di Innocenzo III, giacché il cardinale Ottaviano

sopravvisse di quasi venti anni al pontefice, e non fu impegnato in alcuna

attività tale da impedire il compimento dell’opera. L’attribuzione sarebbe poi

totalmente da escludere se si accogliesse come veridico il commento di Giraldus

Cambriensis, secondo il quale Ottaviano era “simplex et iuris ignarus […] vir

fatuus et idiota”29. Barone ha infatti mostrato che l’autore doveva essere dotato

di un alto livello culturale: egli era in grado di apprezzare con competenza le

capacità del pontefice in campo teologico e giuridico30 e padroneggiava con

sicurezza il formulario della cancellerie papale, così da potere riassumere i

26 Ivi, pp. 2-3; cfr. Gress-Wright, The «Gesta Innocentii»…, cit., pp. 109*-110*. 27 Gress-Wrght, The «Gesta Innocentii»…, cit., pp. 32-33; Bolton, “Too Important to Neglect…”,

cit., p. 98. 28 Ivi, p. 3. 29 Barone, “Introduzione”, cit., p. 14. 30 Proprio nell’ambito filosofico e teologico viene individuata la superiorità di Innocenzo, il

quale «super coetaneos suos tam in philosophica quam teologica disciplina profecit».

L’anonimo autore attribuisce ad Innocenzo una solida competenza giuridica, ma soprattutto

coglie l’originalità del suo pensiero teologico (Barone, “I ‘Gesta Innocentii’…”, cit., p. 9.).

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10 F. Massetti, Ritualità ed immagini

documenti riportati, cogliendo il loro significato profondo. L’autore presenta

inoltre un elenco puntuale e cronologicamente esatto delle opere di Innocenzo

III, mostrando un’attenzione tipica dell’intellettuale, in un’epoca in cui le opere

anonime o falsamente attribuite ad autori affermati erano frequentissime31.

Barone ha avanzato un’ipotesi di attribuzione che a noi sembra più

convincente: l’autore dei Gesta Innocentii sarebbe da individuare nel cardinale

diacono Giovanni del titolo di Santa Maria in Cosmedin. Per Giovanni valgono

alcuni degli elementi forti presenti nell’attribuzione di Gress-Wright a

Ottaviano. Giovanni era infatti consaguineus o nepos del pontefice;

probabilmente apparteneva al ramo materno della famiglia di Innocenzo,

giacché egli cita la famiglia della madre (gli Scotti), particolare assai raro nelle

biografie dei pontefici, e dà ampio rilievo alla lotta fra gli Scotti e i Boboni,

famiglia di papa Celestino III. Anche per Giovanni è attestata una presenza

continua a Roma, sulla base delle sottoscrizioni in calce alle bolle papali32.

Giovanni fu consacrato cardinale nel 1200, segno del favore di Innocenzo,

e la sua lunga permanenza nel collegio cardinalizio gli consentì di conoscere da

vicino l’operato del pontefice. Nel 1205 Giovanni fu nominato cancellarius,

ponendo fine alla vacanza della carica, protrattasi dal pontificato di Gregorio

VIII. Il suo ruolo nella cancelleria papale spiegherebbe così la capacità

dell’autore di reperire i numerosi documenti inseriti nei Gesta, nonché l’abilità

nella loro rielaborazione33.

Giovanni, inoltre, scomparve nel 1213, consentendo così di spiegare con la

morte dell’autore l’incompiutezza dei Gesta Innocentii, che coprono solo i primi

dieci anni di pontificato34.

Una terza attribuzione è stata ipotizzata da Powell35, cha ha individuato

l’autore dei Gesta Innocentii in Pietro Beneventano (Petrus Collavicinus), chierico

della cappella papale ed autore della Compilatio III, raccolta di decretali di

Innocenzo III estratta dalle lettere dei Registri ed inviata allo Studium di

Bologna36. Proprio la competenza nel reperimento e nella rielaborazione dei

documenti della cancelleria papale costituisce il principale elemento a supporto

31 Barone, “I ‘Gesta Innocentii’…”, cit., pp. 7-8. 32 Ead., “Introduzione”, cit., pp. 13-14. 33 Ivi, p. 15; Ead., “I ‘Gesta Innocentii III’…”, cit., p. 21. Sulla modalità di rielaborazione dei

documenti nei Gesta Innocentii rimandiamo a Barone, “I ‘Gesta Innocentii III’…”, cit., pp. 14-15. 34 Barone, “Introduzione”, cit., p. 15; Id., “I ‘Gesta Innocentii III’…”, cit., p. 21. 35 J.M. Powell, “Innocent III and Petrus Beneventanus: Recostructing a Career at the Papal

Curia”, in Pope Innocent and His World, a cura di J.C. Moore, Aldershot 1999, pp. 51-62; The deeds

of pope Innocent III by an anonymous author. Translated with an introduction and notes by J. M.

Powell, Washington D.C. 2004, p. XIII. 36 Barone, “I ‘Gesta Innocentii III’…”, cit., p. 20.

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11 F. Massetti, Ritualità ed immagini

della tesi di Powell, la quale tuttavia non risulta molto convincente, per due

motivi principali. In primo luogo, l’origine campana non sembra conciliabile

con la dettagliata conoscenza delle vicende familiari di Innocenzo e della

topografia di Roma, elementi che, come visto, fanno propendere decisamente

per un’origine romana. Inoltre Pietro Beneventano, come Ottaviano, è

sopravvissuto ad Innocenzo, che lo ha promosso al cardinalato nel 1212,

consacrandolo cardinale diacono di S. Maria in Aquiro. Divenuto cardinale

prete di S. Lorenzo in Damaso nel 1216, proseguì la sua carriera al tempo di

Onorio III. Ci sembra poco convincente la spiegazione addotta da Powell in

merito all’interruzione dell’opera, che sarebbe avvenuta per consentire la

composizione della raccolta di decretali innocenziane37.

37 Barone, “Introduzione”, cit., pp. 15-16.

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12 F. Massetti, Ritualità ed immagini

Parte II. Ritualità ed immagini del potere papale

Il pontificato di Innocenzo III si inaugurò con un rituale di consacrazione dalla

forte valenza simbolica, prima testimonianza dell’altissimo valore ideale

attribuito dal pontefice ai rituali e alle immagini come rappresentazioni del

potere papale. Già in questa prima occasione, infatti, Innocenzo diede prova

della sua capacità di potenziare il cerimoniale tradizionale con elementi atti ad

esprimere l’altissima concezione che egli ebbe dell’ufficio petrino38.

Eletto pontefice l’8 gennaio 119839, Lotario dei Conti di Segni, cardinale

diacono della chiesa dei Santi Sergio e Bacco, dovette essere ordinato prima

sacerdote e poi vescovo per potersi insediare sul soglio di Pietro40. Per

l’ordinazione sacerdotale, il neoeletto pontefice volle attendere il sabato delle

Quattro Tempora, che nel 1198 cadde il 21 febbraio. Il giorno successivo,

domenica 22 febbraio, festa della Cattedra di San Pietro, Innocenzo III venne

finalmente consacrato pontefice41. La solenne cerimonia della consacrazione è

così descritta nei Gesti Innocentii III:

Celebrata est eius electio sexto Idus Ianuarii anno incarnationis dominice millesimo centesimo

nonagesimo septimo et quia tunc diaconus erat dilata est eius ordinatio in presbyterum usque

ad sabbatum quatuor temporum, nonas Kalendas Martii, et sequenti dominica in qua tunc

occurrit festum cathedre Sancti Petri, fuit apud Sanctum Petrum in episcopatum consecratus et

in eiusdem apostoli cathedra constitutus non sine manifesto signo et omnibus admirando42.

La data scelta da Innocenzo per la sua consacrazione presenta una

notevole portata ideologica in relazione al potere papale, poiché in occasione

della festa della Cattedra di san Pietro il pontefice sedeva sulla cattedra che si

riteneva appartenuta allo stesso apostolo43. Maccarone ha dimostrato in maniera

convincente che l’autore dei Gesta Innocentii III riteneva che la cattedra utilizzata

nella liturgia della “Cathedra Petri” fosse la stessa appartenuta a Pietro, come si

38 A. Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara. Immagini e simboli del papato medievale, Roma 20052,

p. 13. 39 D.R. Gress-Wright, The «Gesta Innocentiii III» (=GI), cit., pp. 2-3. Sulle vicende che

accompagnarono la morte di Celestino III e l’elezione del suo successore si vedano J. Sayers,

Innocent III. Leader of Europe 1198-1216, New York 1994; A. Paravicini Bagliani, “I Gesta Innocentii

III e la ritualità pontificia. A proposito della prima traduzione italiana della Vita di Innocenzo

III”, in Roma e il papato nel Medioevo. Studi in onore di Massimo Miglio, 2 voll., Roma 2012, I, p. 201-

212, pp. 203, 207-209. 40 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 13. 41 Ibid.; M. Maccarone, “La «cathedra sancti Petri» nel Medioevo: da simbolo a reliquia”, in

Romana Ecclesia, Cathedra Petri, Roma 1991, 2 voll., II, p. 1349; W. Maleczek, “Innocenzo III,

papa”, in Dizionario Biografico degli Italiani 62, Roma 2004, pp. 419-435, p. 420. 42 GI, pp. 3-4. 43 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 13.

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13 F. Massetti, Ritualità ed immagini

evince dall’espressione “eiusdem apostoli cathedra” (“la cattedra del medesimo

apostolo”), superflua se egli avesse voluto indicare semplicemente la cattedra

marmorea situata nell’abside di San Pietro44.

II.1 I significati della consacrazione innocenziana

Gli studi effettuati a partire dal pontificato di Paolo VI45 hanno consentito di

appurare che la cattedra utilizzata da Innocenzo III era la cattedra lignea

appartenuta a Carlo il Calvo, probabilmente donata a papa Giovanni VIII in

occasione dell’incoronazione imperiale del Natale 87546. Riportiamo di seguito

l’efficace descrizione del prezioso manufatto offerta da Paravicini Bagliani:

Il trono di Carlo il Calvo, così come è giunto a noi, consta di un largo sedile con schienale

sormontato da un timpano. La parte del sedile è formata da quattro montanti verticali collegati

da otto traverse, due per lato, a incastro. Nei due montanti posteriori si innesta lo schienale a

timpano, il cui vano è occupato da arcatelle sorrette da tre colonnette e due semicolonnette

ioniche. Tutti i bordi del trono, le arcatelle e le colonnette sono decorati da liste di avorio, o con

una decorazione a rete o con motivi vegetali popolati da figure umane ed animali, spesso

fantastiche.

Al centro del timpano il busto dell’imperatore è circondato da quattro angeli, che gli porgono

due palme, una corona e un libro […]. Nel fregio di destra, dopo l’angelo con palma e libro, è

raffigurato un uomo in atto di trafiggere un serpente-drago con una lancia. Seguono poi sei

coppie di combattenti. Alla sommità del timpano appaiono i busti del sole e della luna, cui

seguono le diverse costellazioni, per terminare con la figura della terra.

L’intero schienale appare dunque un «tempio» che permette all’imperatore di apparire in tutta

la sua maestà divina. L’imperatore è perciò partecipe della terra e del cielo, è come Cristo, e ciò

viene confermato dal fatto che quattro gli angeli che gli fanno corona. Tradizionalmente,

quattro erano appunti gli angeli che circondavano la mandorla su cui siede Cristo in maestà. I

fregi d’avorio della cattedra sostengono l’esaltazione cosmica dell’imperatore.

La parte anteriore del sedile è interamente occupata da formelle d’avorio, disposte in tre fasce:

nella prima, formata da un’unica fila di formelle, sono disposte le prime sei fatiche di Ercole,

nella seconda e terza, formate da una serie di formelle doppie, le altre sei fatiche più una fila di

mostri dalle forme sempre più mescolate fra loro. Tutto il trono appare così divisibile grosso

modo in due zone, il cielo (costellazioni) e la terra (lotte umane poi degradate con la presenza di

mostri […]. L’intero programma del trono del trono appare quindi concepito per glorificare

l’imperatore, a cui l’universo è interamente soggetto e spetto il diritto che «tutto si posto ai suoi

piedi» (Sal 8, 8)47.

44 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., p. 1350. 45 Ivi, pp. 1273-1278. 46 Sul probabile dono della cattedra lignea e della Bibbia di San Paolo a papa Giovanni VIII da

parte Carlo il Calvo si veda G. Arnaldi, Natale 875: politica, ecclesiologia e cultura nell’alto

Medioevo, Roma 1990, pp. 115-128. 47 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., pp. 15-16.

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14 F. Massetti, Ritualità ed immagini

Lo studio delle raffigurazioni erculee ha indotto Margherita Guarducci a

datare le lamelle eburnee in età tardoantica (fine III - inizio IV secolo),

ritenendole il resto di un trono imperiale della famiglia Herculia, donate da

Costantino al papa insieme al palazzo lateranense48. Gli studi paleografici

condotti da Bischoff49 e Hollstein50 hanno tuttavia fornito sicuri elementi in

favore di un’origine franca delle formelle erculee, accolta da Maccarone51.

Persa la memoria delle sue origini, la cattedra è entrata a far parte della

liturgia della basilica di San Pietro, dall’XI secolo affidata al capitolo vaticano52.

Le festività della Cathedra sancti Petri fu ripresa, dopo un lungo periodo di

oblio, nell’XI secolo, a seguito del grande rinnovamento ecclesiologico fondato

sul primato petrino. La festività aveva perso in parte il suo significato originale,

per cui era celebrata, tra IV e V secolo, come la festa dell’episcopato trasmesso

da Cristo a Pietro e, per suo tramite, agli apostoli e quindi ai vescovi. Di questo

significato originario si conservava solo la lettura del sermone sulla cattedra

petrina dello pseudo Agostino53.

Dal XII secolo si accentuò la centralità della sessione di Pietro sulle cattedre

di Antiochia, sua prima sede episcopale, e di Roma, cui san Pier Damiani e il

canonico vaticano Pietro Mallio aggiunsero Alessandria. Questa interpretazione

della festività legata al rapporto materiale fra Pietro e la sua cattedra episcopale

fu ben evidenziata da Uguccione da Pisa nella sua Agiographia54: “Cathedra

Sancti Petri dicitur; quia tali die positus fuit in cathedra apostolicatus Rome”55.

In tale contesto, Maccarone ha cercato di individuare il ruolo riservato alla

cattedra lignea nella liturgia della basilica vaticana. Un primo dato molto

significativo si ricava dal Liber Politicus (1140-1143) del canonico vaticano

Benedetto, il quale, in riferimento alla statio diurna del 22 febbraio, celebrata dal

papa o da uno dei sette cardinales sancti Petri56, afferma:

48 M. Guarducci, “Gli avori erculei della cattedra di S. Pietro: elementi nuovi”, in Atti

dell’Accademia Nazionale dei Lincei, memorie, cl. Scienze morali, storiche e filologiche, s. VIII, vol.

21 (1977), fasc. 3, pp. 117-253, p. 192; cfr. Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., pp. 1284-

1285. 49 B. Bischoff, “Die Schrift auf der Cathedra von St. Peter im Vatikan”, in M. Maccarone (a cura

di), Nuove ricerche sulla cattedra lignea di S. Pietro in Vaticano, Atti della Pontificia Accademia

Romana di Archeologia, s. III, Memorie in 8°, vol. I, Città del Vaticano 1975, pp. 21-31. 50 E. Hollstein, Die Cathedra Lignea von St. Peter im Vatikan, ivi, p. 79-103. 51 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., pp. 1298-1299. 52 Ivi, pp. 1327-1328. 53 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, pp. 1330-1333. 54 Ivi, p. 1334. 55 Huguccio Pisanus, “Agiographia”, in Id., De dubio accentu. Agiographia. Expositio de symbolo

apostolorum, ed. G. Cremascoli, Spoleto 1978, pp. 137-174; pp. 153-154 nn. 437-439. 56 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., p. 1335.

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15 F. Massetti, Ritualità ed immagini

In cathedra sancti Petri legitur sicut in die Natalis eius, tamen ad vesperum et ad matutinas

laudes canitur: Ecce sacerdos magnus. Stacio [sic] in eiusdem basilica. Domnus papa debet

sedere in kathedra ad missam. 57

Il termine “kathedra” in sé è generico, e nelle fonti liturgiche del secolo XII

è utilizzato anche in riferimento alla cattedra marmorea situata nell’abside di

San Pietro. Ma la specifica e perentoria prescrizione del liturgista (“debet sedere”)

fa pensare ad una cattedra particolare, riservata a questa particolare funzione

liturgica. Né si può pensare semplicemente all’uso della “cathedra parata”,

poiché esso non avrebbe il valore di una particolarità liturgica legata alla festa

del 22 febbraio, visto che l’ornamento della cattedra papale era frequente in

molte altre cerimonie.

Maccarone, sulla base degli studi di Febei58 e Duchesne59, ha allora

identificato questa cattedra usata nella statio diurna del 22 febbraio con la

cattedra lignea del IX secolo60. Benché si fosse instaurata una certa relazione fra

la cattedra lignea usata per la festività del 22 febbraio e la Cathedra sancti Petri

intesa in senso materiale, non si poteva ancora parlare di una vera e propria

reliquia. Infatti, alcuni decenni dopo, al tempo di Alessandro III, il canonico

Pietro Mallio non inserì la cattedra lignea fra le “praetiosae reliquiae”, che

comprendevano soltanto i corpi di santi e la reliquia della Veronica. La cattedra

lignea era dunque conservata nella basilica vaticana non come reliquia ma come

oggetto di uso liturgico61.

Se a livello ufficiale il culto della cattedra lignea non era riconosciuto, a

livello popolare esso cominciò a farsi strada nel corso del XII secolo. Avilo,

abate del monastero bavarese di Tegernsee, venne in visita ad limina apostolorum

all’inizio del XII secolo, riportando tre presunte reliquie di San Pietro: “de

corpore Sancti Petri et de croce eius et de kathedra eius”62. Lo sviluppo della

festa della Cattedra di San Pietro, unitamente alla fame di reliquie petrine ben

attestata da Onorio di Autun63, aveva contribuito alla materializzazione di una

57 “Liber politicus”, in Le Liber censuum de l’eglise Romaine, avec une introduction et un

commentaire par P. Fabre e L. Duchesne (=LC), 3 voll., Paris 1910-1952, II, p. 149, n. 31. 58 F.M. Febei, De Identitate Cathedrae in qua Sanctus Petrus Romae primum sedit, et de Antiquitate et

Praestantia Solemnitatis Cathedrae Romanae Dissertatio, Romae 1666, p. LII. 59 “Liber politicus”, cit., p. 162, n. 42. 60 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., pp. 1336-1337. 61 Ivi, pp. 1138, 1146. 62 Notae Tegernenses, ed. G. Waitz, in M.G.H., Scriptores XV, 2, Hannoverae 1888, pp. 1067-1068,

p. 1068. 63 “Ecce non solum corpus eius a principibus veneratur, sed etiam baculi vel catenae eius vel

vestis vel aliquod ad eum pertinens quasi divinum quid ab omni populo adoratur. Ecce totus

orbis undique propter Petrum piscatorem, non propter Augustum mundi imperatorem”

(Honorius Augustodunensis, Speculum Ecclesiae, in PL 172, coll. 986).

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16 F. Massetti, Ritualità ed immagini

nuova reliquia. Nella coscienza dei fedeli si dovette consolidare l’idea che

l’antico seggio utilizzato nella liturgia del 22 febbraio, unica ed esclusiva della

basilica vaticana, fosse proprio la stessa cattedra usata dall’apostolo64.

Particolarmente interessante per il nostro studio è l’analisi di un passo

dell’Ordo di Basilea, redatto all’inizio del XIII secolo, nel quale la sessio sulla

“cathedra sancti Petri” è direttamente connessa alla consacrazione: “In qua

cathedra […] electus sedere non debet, sed papa consacratus”65. La severa

prescrizione vietava dunque al pontefice neoeletto e non ancora consacrato di

sedere su una “cathedra” non meglio specificata. Ma la prescrizione, se riferita

alla cattedra marmorea, sarebbe in totale contraddizione con quanto attestato in

merito alle elezioni papali del XII secolo in San Pietro, nelle quali l’eletto non

ancora consacrato sedeva sulla “cathedra Petri”. Per spiegare l’apparente

contraddizione, Maccarone ha ipotizzato in modo convincente che la

proibizione dell’Ordo di Basilea riguardasse proprio la cattedra lignea, sulla

quale poteva sedersi soltanto il papa consacrato, poiché tale cattedra iniziava ad

essere creduta la vera cattedra episcopale di Pietro66.

Lo stesso Ordo di Basilea riferisce che il pontefice consacrato doveva

sedere per tre volte sulla cattedra di San Pietro: “Et statim palliatus accedit ad

paratam cathedram beati Petri, in qua cum lacrimis tercio brevissime sedet […]

Cum vero trinam sessionem peregerit, accedit ad altare missam celebratus”67. Una

spiegazione convincente è stata individuata nel riferimento alle tre cattedre

petrine cui abbiamo accennato in precedenza. San Pier Damiani mette Pietro a

confronto con Davide, unto tre volte, riconoscendo ad entrambi una “trina

promotio tamquam una dumtaxat”68 e attribuendo per questo a Pietro una

superiorità rispetto a tutti gli altri vescovi69.

Innocenzo, già canonico di san Pietro70, doveva essere pienamente

consapevole di questa complessa elaborazione ecclesiologica e liturgica legata

alla Cathedra sancti Petri, e la cronologia ci autorizza a pensare che egli vi abbia

64 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., pp. 1340, 1343-1346. 65 B. Schimmelpfennig, Ein bisher unbekannter Text zur Wahl, Konsekration und Krönung des Papstes

im 12. Jahrhundert, in «Archivum Historiae Pontificiae» 6 (1968), pp. 43-70, p. 65. 66 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., pp. 1346-1347. 67 Schimmelpfennig, Ein bisher unbekannter Text…, cit., p. 61. 68 Petrus Damiani, Epistola I, 20, in PL 144, coll. 237-247, col. 238. 69 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., pp. 1347-1348; Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la

Tiara…, cit., p. 13. 70 Nell lettera al capitolo di San Pietro del 13 marzo 1998 Innocenzo III ricorda di essere stato

canonico della basilica vaticana prima di essere eletto pontefice: “qui olim in ipsa vobiscum

pariter canonici beneficium assecuti”. Il concetto venne ribadito anche sette anni dopo, nella

bolla al Capitolo di San Pietro del 15 ottobre 1205: “in hac sacrosancta basilica ecclasiasticum

beneficium sum adeptus” (Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., p. 1351, n. 286).

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17 F. Massetti, Ritualità ed immagini

attivamente contribuito. Lo stesso autore dei Gesta Innocentii sottolinea la voluta

ostentazione della valenza simbolica della consacrazione avvenuta nella festa

della Cathedra sancti Petri, “non sine manifesto signo et omnibus admirando”.

La corrispondenza tra le due incattedrazioni è stata evidenziata dallo stesso

Innocenzo III nella sua prima lettera (13 marzo 1198) al capitolo della basilica

vaticana:

Cum ea die simus in sede apostolica consecrati, qua beatus Petrus apostolus in episcopali fuit

cathedra collocatus»71. Anche nel sermone pronunciato nel primo anniversario della sua

consacrazione Innocenzo ricordò con una formula analoga la particolare occasione in cui essa si

svolse: «Licet ipso die fuerim in sede apostolica consecratus, quo beatus apostolus in episcopali

fuit cathedra collocatus. 72

Consapevole dunque del significato della festività della Cathedra sancti

Petri, nel sermone pronunciato in occasione della sua consacrazione Innocenzo

III insistette fortemente sul primato di Pietro e sull’ufficio apostolico del

pontefice73. La lunga omelia74 pronunciata da Innocenzo si concentra sull’analisi

di Matteo 2475: “Quid putas est fidelis servus et prudens quem constituit

Dominus super familiam suam?” (Mt 24, 25). Padre Leonard Boyle ha

evidenziato che dal sermone del pontefice appena consacrato emerge

un’autocoscienza dell’identità papale senza precedenti rispetto ai suoi

predecessori76.

Il “servo” del Vangelo di Matteo viene ad identificarsi proprio con il

pontefice, “servo dei servi”, che reclama un ufficio di servizio, non di dominio.

Tale ufficio porta comporta un grande onore, ma allo stesso tempo è un grave

fardello per chi deve portarlo.

Innocenzo elenca tre qualità fondamentale che deve possedere il servo del

Signore: “fides cordis, prudentia operis, cibus oris”77. La prima qualità, la “fides

cordis”, è legata alla promessa contenuta nel Vangelo di Luca (22, 32), secondo la

quale la fede di Pietro non verrà mai meno, in modo che egli possa confermare

nella fede i suoi fratelli: “Ego, inquit, pro te rogavi, Petre, ut non deficiat fides

tua, et tu aliquando conversus, confirma fratres tuos”. Innocenzo afferma che la

promessa è stata esaudita, poiché la fede non è mai venuta meno nella Sede

71 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., p. 1349. 72 Innocentius III Papa, Sermo III in consecratione pontificis, in PL 217, coll. 659-666, p. 663. 73 J. Seyers, Innocent III and Europe (1198-1216), New York 1994, p. 15. 74 Innocentius III Papa, Sermo II in consecratione pontificis, in PL 217, coll. 653-660. 75 J.C. Moore, Pope Innocent III (1160/1161-1216). To Root Up and to Plant, Leiden 2003, p. 26. 76 L. Boyle OP, “Innocent’s View of Himself as Pope”, in A. Sommerlechner (a cura di),

Innocenzo III. Urbs et Orbis, Atti del Congresso Internazionale, Roma, 9-15 settembre 1998, 2

voll., Roma 2003, I, p. 1-20, p. 7. 77 Innocentius III, Sermo II in consecratione pontificis, cit., 656.

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18 F. Massetti, Ritualità ed immagini

Apostolica, resistendo ad ogni turbamento: “Et fides apostolicae sedis in nulla

numquam turbatione defecit, sed integra semper et illibata permansit: ut Petri

privilegium persisteret inconcussum”78.

Pertanto Innocenzo, che occupa la Sede apostolica, può essere sottoposto a

giudizio dalla comunità dei fedeli soltanto per mancanza di fede79: “In tantum

enim fides mihi necessaria est, cum de caeteris peccatis solum Deum iudicem

habeam, propter solum peccatum quod in fidem committitur possem ab

Ecclesia iudicari”80.

La seconda qualità, la “prudentia operis”, è strettamente correlata alla fede:

“Propterea nec fides sufficit sine prudentia, nec prudentia sufficit sine fide.

Oportet igitur ut sim fidelis et prudens”81. Il pontefice deve essere non solo

saldo nella fede, ma anche prudente come i serpenti: “Estote prudentes sicut

serpentes” (Matteo 10,16). Particolarmente interessante è l’implicita

associazione del pontefice al sommo sacerdote ebraico, che dall’alto della sua

prudenza è in grado di distinguere coloro che hanno la lebbra, secondo Levitico

12, 2-482: “ut sic discernam inter lepram et non lepram”83.

La trattazione della terza qualità, il “cibus oris”, è preceduta da un excursus

che risponde alla domanda di Innocenzo circa la propria identità e la propria

superiorità sui regnanti: “Quis autem sum ego, aut quae domus patris mei, ut

sedeam excellentior regibus et solium gloriae teneam?”84. Una prima risposta è

data dal profeta Geremia (1, 10): “Constitui te super gentes et regna, ut evellas

et destruas et desperdas et dissipes, et aedifices et plantes”85. Ma soprattutto il

pontefice giustifica la sua supremazia sulla base della “potestas clavium”

attribuita a Pietro: “Tibi dabo claves regni caelorum, et quidcumque ligaveris

super terram, erit ligatum et in caelis”86 (Matteo 16, 19). Innocenzo III, appena

intronizzato sulla Cathedra sancti Petri, giunse ad identificarsi pienamente con

Pietro, fondando la sua supremazia su tutti i regnanti proprio sulla “potestas

ligandi ac solvendi” assegnata all’apostolo.

Soltanto al pontefice, identificato con Pietro, spettava la pienezza dei

poteri87: “solus autem Petrus assumptus est in plenitudinem potestatis288.

78 Innocentius III, Sermo II in consecratione pontificis, cit., col. 656. 79 Boyle, Innocent’s View of Himself, cit., p. 8. 80 Innocentius III, Sermo II in consecratione pontificis, cit., col. 656. 81 Ivi, coll. 656-657. 82 J. Doran, “The Role Models of Innocent III”, in Innocenzo III…, cit., I, p. 69. 83 Innocentius III, Sermo II in consecratione pontificis, cit., col. 657. 84 Ibid. 85 Ibid. 86 Ibid. 87 Seyers, Innocent III…, cit., p. 15. 88 Innocentius III, Sermo II in consecratione pontificis, cit., col. 658.

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19 F. Massetti, Ritualità ed immagini

Innocenzo III non ha più alcun dubbio nel riconoscersi pienamente nel servo

citato da Marco, in quanto egli è “Vicarius Iesu Christi, successor Petri, Deus

Pharaonis: inter Deum et hominem medius constitutus, citra Deum, sed ultra

hominem: minor Deo, sed maior homine: qui de omnibus iudicat, et a nemine

iudicatur”. Il pontefice svolge una fondamentale funzione di mediazione fra la

dimensione terrena e quella celeste, poiché è al di sotto di Dio e al di sopra

dell’uomo. In quanto tale, il pontefice può giudicare tutti gli uomini, ma non

può essere da alcuno giudicato89.

Passando al terzo attributo, il “cibus oris”, Innocenzo fa uso di una

struttura argomentativa già presente nel De officio altaris, affermando che il

Signore ha dato a Pietro il primato in tre occasioni: “ante passionem, et circa

passionem et post passionem”90. Prima della passione, Gesù ha pronunciato il

celebre “Tu es Petrus” (Matteo 16,18); durante la passione, ha promesso a Pietro

una fede che non sarebbe mai venuta meno; dopo la passione, ha posto Pietro a

capo del gregge cristiano, dicendogli: “Pasce oves meas” (Giovanni 20,15)91.

Proprio per quest’ultima missione affidata a Pietro, il pontefice deve nutrire i

cristiani con la parola, con l’esempio e con il sacramento eucaristico92:

Cibum dare tenetur videlicet exempli, verbi, sacramenti. Quasi dicat: Pasce exemplo vitae,

verbo doctrinae, sacramento eucharistiae. 93

In cambio di questo nutrimento spirituale, il pontefice chiede di pregare

per lui, affinché egli compia il suo servizio di apostolato94:

Ecce fratres et filii, cibum verbi de mensa sacrae Scripturae vobis proposui comedendum, hanc

a vobis recompensationem expectans, hanc a vobis vicissitudinem postulans, ut puras manus

sine disceptatione levetis ad Dominum, et pietatis in oratione credentes, quatenus hoc

apostolicae servitutis officium […]. 95

La forte insistenza dell’omelia sul servizio apostolico del papa, sul suo

essere non soltanto successore di Pietro, ma l’unico e vero “Vicarius Christi”,

trova riscontro anche nei paramenti liturgici indossati dal pontefice in occasione

della festività della Cathedra Petri. In tale occorrenza liturgica, infatti, il pontefice

vestiva di bianco, colore cristico per eccellenza insieme al rosso. Lo stesso

Lotario dei conti di Segni, nel suo trattato De missarum mysteriis, aveva collegato

89 Boyle, Innocent’s View of Himself, cit., pp. 8-9; Maleczek, Innocenzo III, cit., p. 421 90 Innocentius III, Sermo II in consecratione pontificis, cit., col. 658. 91 Boyle, Innocent’s View of Himself, cit., p. 9. 92 Ibid. 93 Innocentius III, Sermo II in consecratione pontificis, cit., col. 659. 94 Boyle, Innocent’s View of Himself, cit., p. 9. 95 Innocentius III, Sermo II in consecratione pontificis, cit., col. 660.

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20 F. Massetti, Ritualità ed immagini

i due colori cristici alle due massime ricorrenze petrine, giacché il pontefice

doveva vestire di rosso nella festa dei santi Pietro e Paolo (29 giugno) e di

bianco nella festa della cattedra di san Pietro (22 febbraio)96: “Licet autem in

apostolorum Petri et Pauli martyrio rubeis sit utendum, in conversione tamen et

cathedra utendum est albis”97.

Il bianco, colore della divinità di Cristo, è legato all’episodio della

trasfigurazione sul Monte Tabor, durante la quale le vesti del Signore si fanno

candide come la luce:

Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in

disparte su un alto monte. E fu trasfigurato il sole e le sue vesti davanti a loro; il suo volto brillò

come il sole e le sue vesti divennero candide come luce. (Matteo 17,1-2) 98

Nel Constitutum Constantini, noto al pontefice attraverso il Decretum di

Graziano99, nel quale è stato inserito dal glossatore Paucapalea100, il colore

bianco della tiara ricevuta dono dall’imperatore è associato esplicitamente alla

resurrezione di Cristo101: “frygium vero candido nitore splendidam

resurrectionem dominicam designans”102.

Nel testo dei Gesta Innocentii, il colore bianco è peraltro associato alla

colomba posatasi alla destra di Lotario, simbolo dell’elezione divina per

intercessione dello Spirito Santo:

Cum autem celebraretur electio hujuscemodi signum apparuit, quod videlicet tres columbae

frequentabant volatus in locum in quo cardinales sedebant congregati, et cum ipse post

nominationem fuisset a ceteris segregatus, una illarum que candidissima erat ad eum volitans,

iuxta dexteram insidebat. 103

Alla cerimonia di consacrazione di Innocenzo III assistettero le massime

autorità ecclesiastiche e civili:

Interfuerunt autem consecrationi eius quam ipse cum multa cordis compunctione et

lacrimarum effusione recepit, quatuor archiepiscopi et episcopi octo et viginti, sex presbyteri et

96 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 51; Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…,

cit., p. 1334. 97 Innocentius III Papa, De missarum mysteriis, in PL 217, coll. 763-916, col. 801. 98 Bibbia CEI, 2008. 99 Doran, The Role Models of Innocent III, cit., p. 67; H. Hageneder, Il sole e la luna. Papato, impero e

regni nella teoria e nella prassi dei secoli XII e XIII, a cura di M.P. Alberzoni, Milano 2000, p. 52. 100 G.M. Vian, La donazione di Costantino, Bologna 20102, p. 86. 101 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 51. 102 “Constitutum Constantini2, ed. H. Fuhrmann, in M.G.H., Fontes iuris Germanici antiqui in

usum scholarum ex Monumentis Germaniae Historicis separatim editi X, Hannover 1968, pp. 55-98, p.

52. 103 GI, p. 3.

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21 F. Massetti, Ritualità ed immagini

novem diaconi cardinales et decem abbates cum quibus omnibus et tam priore cum subdiaconis

quam primicerio cum cantoribus, necnon iudicibus, advocatis et senatore et ceteris scholis

processit104.

Tale presenza congiunta delle massime cariche ecclesiastiche e civili era

prevista nel Romanus ordo de consuetudinibus et observantiis (1192) del camerarius

Cencio: “Post hec in proximo die dominico dominus electus cum omnibus

ordinibus sacri palatii et nobilibus Romanis vadit ad Sanctum Petrum”105.

Per quanto riguarda la presenza delle autorità ecclesiastiche, l’autore dei

Gesta Innocentii menziona quattro arcivescovi e ventotto vescovi, cui si

aggiungono sei cardinali preti e nove cardinali diaconi106. Michele Maccarone ha

giustamente evidenziato che l’enfasi posta sulla cospicua presenza di alti prelati

alla consacrazione di Innocenzo III è in piena sintonia con la decisa

affermazione della centralità di Roma nella Chiesa universale che fu propria del

pontificato innocenziano107. Anche il clero regolare presenziò alla consacrazione

papale, con dieci abati, presumibilmente appartenenti ad abbazie dell’Urbe o

dei dintorni108. La componente ecclesiastica era infine completata dal priore con

i suddiaconi e dal primicerius con i cantores.

Un ruolo fondamentale, nella cerimonia di consacrazione, era svolto

dall’arcidiacono e dal priore della basilica di San Pietro, che dovevano

ammantare il pontefice del pallium, simbolo della pienezza del potere papale109,

come espressamente indicato nell’ordo di Cencio:

Qua consecratione finita, prior sacri palatii et basilicarius ponit palleum super altare, quod ipse

prior parare propria manu debet, et statim archidiaconus dicit pontifici: «Accipe palleum,

plenitudinem scilicet pontificalis officii, ad honorem omnipotentis Dei et gloriosissime virginis

ejus genitricis et beatorum apostolorum Petri et Pauli et sancte Romane ecclesie», et nichil aliud.

104 Ivi, p. 4. 105 Cencius, Romanus ordo de consuetudinibus et observantiis, in LC, I, p. 312; cfr. Albinus, Ordo, in

LC, II, p. 124. 106 Sayers (Innocent III, cit., p. 27, n. 33) ipotizza l’identificazione dei quattro arcivescovi con i

quattro cardinali vescovi, ritenendo gli altri ventotto vescovi citati dall’autore dei Gesta

Innocentii presuli provenienti da diocesi limitrofe o richiamati nell’Urbe dai loro uffici. Ci

sembra tuttavia più affidabile la ricostruzione di Paravicini Bagliani (I Gesta di Innocenzo III, cit.,

p. 210), il quale ritiene che i cardinali vescovi si debbano considerare in seno al gruppo dei

ventotto vescovi. Riteniamo infatti poco probabile che l’autore dei Gesta Innocentii abbia

attribuito erroneamente il titolo arciepiscopale ai cardinali vescovi. 107 Paravicini Bagliani (I Gesta di Innocenzo III, cit., p. 210) 108 Sayers, Innocent III, cit., p. 27, n. 33. 109 Ivi, pp. 27-28; Paravicini Bagliani, Il trono di Pietro. L’universalità del papato da Alessandro III a

Bonifacio VIII, Roma 1996, p. 20; Id., Le Chiavi e la Tiara…, cit., pp. 49, 53-54, 72-73.

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22 F. Massetti, Ritualità ed immagini

Et statim ipse archidiaconus cum priore basilicario aptant idem palleum super pontificem

intromissis spinulis aureis tribus, ante et retro et sinistro latere110.

La presenza delle autorità laiche (giudici, avvocati, senatore e scholae)

costituiva un’evidente testimonianza della “potestas in temporalibus” del

pontefice, che trovava la sua più espressione simbolica nella processione che

accompagnava il papa dalla basilica di San Pietro al Laterano, così descritta nei

Gesta Innocentii:

Solemniter coronatus per urbem a basilica sancti Petri usque ad lateranensem palatium,

comitantibus profecto et senatore cum magnatibus et nobilibus urbis, multisque capitaneis et

consulibus ac rectoribus civitatum. Coronata est tota civitas et clerus cum thuribulis et incenso,

populus autem cum palmis et floribus, utrique cum hymnis et canticis, sparsis de more

missilibus, obviam illi catervatim venerunt111.

Terminata la messa della consacrazione, seguiva dunque il rituale della

solenne incoronazione del pontefice112, dettagliatamente descritto nell’ordo di

Albino (1189):

Celebrata missa descendit ad locum ubi est equus papalis ornatus, et ibi archidiaconus recepit

frigium a majori stratori de quo dominum papam coronat; et sic per mediam urbem devenit ad

palatium Lateranense coronatus113.

Il pontefice veniva dunque incoronato con la tiara (regnum, frigium, corona,

thyara), uno degli attributi del potere imperiale donati a Silvestro nel

Constitutum Constantini114:

ipse vero sanctissimus papa super coronam clericatus, quam gerit ad gloriam beati Petri,

omnino ipsam ex auro non est passus uti coronam, frygium vero candido nitore splendidam

110 Cencius, Romanus ordo, cit., p. 312; cfr. Albinus, Ordo, cit., p. 124. 111 GI, p. 4. 112Il pontificato di Innocenzo III si è inserito in un processo caratterizzato dalla progressiva

valorizzazione della cerimonia di incoronazione. La crescente importanza del valore simbolico

della corona papale, già evidente nella Vita di Gregorio IX, “duplici diademate coronatus” (Vita

Gregori IX, in LC II, pp. 18-36, p. 19), culmina nel cerimoniale di Gregorio X (PL 78, coll. 1105-

1122, col. 1108), nel quale l’incoronazione è ormai divenuta una cerimonia autonoma e

prioritaria rispetto alla presa di possesso del Laterano (M. Dykmans, Le cérémonial papal de la fin

du Moyen Âge à la Renaissance, tome I: Le cérémonial papal du XIIIe siècle (Bibliothèque de l'Institut

Historique Belge de Rome 24), Bruxelles- Rome 1977, p. 180). Accordando la priorità alla

solenne cerimonia di incoronazione in San Pietro, non solo veniva raggiunto l’apice dell’imitatio

Imperii, ma soprattutto si metteva in risalto il e fondamento petrino l’universalità del potere

papale. Così, alla fine del XIII secolo, il termine “incoronatio” finì per affermarsi sul più antico

“consecratio” (Paravicini Bagliani, Il trono di Pietro…, cit., p. 21; Id., Le Chiavi e la Tiara…, cit., p.

75-76). 113 Albinus, Ordo, cit. p. 124; cfr. Cencius, Romanus Ordo, cit., p. 312. 114 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 72-73

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23 F. Massetti, Ritualità ed immagini

resurrectionem dominicam designans eius sacratissimo vertici manibus nostris posuimus […];

statuentes, eundem frygium omnes eius successores pontifices singulariter uti in processionibus

ad imitationem imperii115.

Nel testo del Constitutum Constantini, Silvestro I riceve la tiara, simbolo

della resurrezione di Cristo, dopo aver umilmente rinunciato ad indossare la

corona imperiale. Tuttavia il copricapo viene associato esplicitamente

all’imitatio Imperii, peraltro in un contesto processionale che rende il passo del

Constitutum particolarmente significativo al fine di comprendere la valenza

simbolica del frygium nella processione che accompagnava il pontefice dal

Vaticano al Laterano.

Lo stesso Innocenzo III, nel sermone pronunciato in occasione del primo

anniversario della sua consacrazione, si soffermò sul valore simbolico della

tiara:

Nam ceteri vocati sunt in partem sollicitudinis, solus autem Petrus assumptus est in

plenitudinem potestatis. In signum spiritualium contulit mihi mitram, in signum temporalium

dedit mihi coronam; mitram pro sacerdotio, coronam pro regno, illius me constituens vicarium

qui habet in vestimento et in femore suo scriptum: “Rex regum, dominus dominantium”116.

La mitra è dunque il simbolo del regnum, il potere temporale, ed insieme

alla mitra, simbolo della sacerdotium, della potestà spirituale, va a costituire la

«plenitudo potestatis» del pontefice, al quale si possono riferire i titoli di

Apocalisse 19, 16: “Re dei Re, Signore dei Signori”.

Il tema viene ulteriormente approfondito dallo stesso Innocenzo nel Sermo

de sancto Silvestro, nel quale il pontefice fa esplicito riferimento alla donazione

costantiniana:

Nam vir Constantinus egregius imperator, ex revelatione divina per beatum Silvestrum fuit a

lepra in baptismo mondato, Urbem pariter et senatum, cum omnibus et dignitatibu suis, et

omne regnum Occidentis ei tradidit et dimisit, secedens et ipse Byzantium et regnum sibi

retinens orientis. Coronam vero capitis sui illi voluit conferre: sed ipse pro reverentia clericalis

coronae, vel magis humilitatis causa, noluit illam portare; verumtamen pro diademate regio

utitur frigio aureo circulari. Ex auctoritate pontificalis constituit patriarchas, primates,

metropolitanos, et praesules; ex potestate vero regali, senatores, praefectos, iudices et

tabelliones instituit. Romanus itaque pontifex in signum imperii utitur regno, et in signum

pontificii utitur mitra; sed mitra semper utitur et ubique; regno vero, nec ubique, nec semper,

quia pontificalis auctoritas et prior est, et dignior et diffusior quam imperialis117.

Innocenzo ribadisce che la tiara (frygium) è utilizzata da pontefice quale

segno del suo “imperium”, mentre la mitra rappresenta il potere spirituale, il

115 “Constitutum Constantini”, cit., pp. 92-93. 116 Innocentius III, Sermo III in consecratione pontitifis, cit., col. 665. 117 Id., Sermo VII in festo d. Silvestri pontificis maximi, PL 217, coll. 481-484, col. 481.

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24 F. Massetti, Ritualità ed immagini

“pontificium”. Egli aggiunge che la mitra è sempre indossata dal pontefice a

differenza della tiara, rispetto alla quale è superiore poiché il “pontificium” è

superiore all’ “imperium”118. Ciò che a noi interessa maggiormente, in questo

passo, è il legame fra le due potestà del pontefice, rappresentate dai due

copricapi, e le autorità che da lui dipendono. In virtù del suo “imperium”, il

pontefice ha ereditato da Costantino il potere di costituire le massime autorità

civili, vale a dire senatori, prefetti, giudici: mutatis mutandis, si tratta delle figure

che sfilano nella processione che segue alla consacrazione pontifica. La loro

partecipazione costituisce allora una celebrazione del potere temporale del papa

sull’Urbe, che trova la sua più emblematica espressione proprio nella tiara

indossata dal pontefice.

La partecipazione delle autorità cittadine alla solenne processione che

doveva accompagnare il pontefice da san Pietro al Laterano era

minuziosamente regolamentata in merito all’ordine di precedenza, come si

evince dall’ordo di Albino119:

Nunc qualiter quisque ordo in processione tali venire debeat, subscribitur. Post dominum

papam prefectus indutus manto pretioso et calciatus zanca una aurea, altera rubea, et circum

eum judices pluvialibus induti incedunt. Ante pontificem aliquantulum sequestratus incedit

prior subdiaconus regionarius cum toalgia, ut cum voluerit dominus papa spuere, possit illo

gausape suum os tergere, et diaconi cardinales proximi pape bini incedunt, et post ipsos

subdiaconi basilicarii, quos precedunt tam subdiaconi regionarii quam scola cantorum cum

grecis qui consueverunt evangelium et epistulam legere. Istos antecedunt scriniarii et advocati.

Ante hos presbyteri cardinales, ante istos episcopi cardinales et abbates urbis; et precedunt istos

si qui sunt forenses episcopi aut archiepiscopi. Ante istos duo prefecti navales pluvialibus

induti; ante hos vero portantes XII vexilla que bandora vocantur, et equus domini pape

falleratus et vacuus120.

La solenne partecipazione del prefetto Pietro II di Vico, del senatore e dei

nobili romani, nonché di molti capitanei121 e rettori delle città del Patrimonium

Petri costituiva la visibile conseguenza della pace conclusa fra papa Clemente III

e il Comune di Roma nel 1188. Senza tale accordo non sarebbe stata possibile

118 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., pp. 73-74. 119 B. Schimmelpfennig, Ein Fragment zur Wahl, Konsekration und Krönung des Papstes im 12.

Jahrhundert, in «Archivum Historiae Pontificiae» 8 (1970), pp. 323-331, p. 331. 120 Albinus, Ordo, cit., p. 124. 121 Il termine “capitaneus”, in riferimento al contesto socio-politico romano, è usato per la prima

volta in una fonte narrativa proprio nei Gesta Innocentii. Il termine era solitamente usato in

relazione ai vassalli dei vescovi dell’Italia centro-settentrionale, come nei Gesta Friderici di

Ottone di Frisinga “Cumque tres inter eos ordines, id est capitaneorum, vavassorum, plebis,

esse noscantur” (Otto Frisingensis Episcopus, Gesta Friderici I imperatoris, edd. G. Waitz – B. DE

Simson, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum separratim editi 46,

Hannoverae-Lipsiae 1912, pp. 1-161, p. 116).

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25 F. Massetti, Ritualità ed immagini

una così fastosa cerimonia che vedeva l’intera cittadinanza stretta attorno al suo

vescovo e signore122. Non è casuale che le descrizioni della solenne processione

seguente alla messa di consacrazione del papa presenti negli ordines di Albino

(1889) e Cencio (1192) siano state composte proprio a ridosso dell’accordo.

Se certamente la cerimonia non può essere letta come il risultato

dell’autorità e dell’abilità politica di Innocenzo III, che proprio in quel giorno

veniva consacrato123, è tuttavia possibile vedere prefigurata in questa solenne

processione la politica adottata dal pontefice nei suoi primissimi atti di governo.

Fin dal giorno successivo alla sua consacrazione, infatti, Innocenzo III cercò di

assumere un maggior controllo sulle istituzioni comunali e sul territorio del

Patrimonium Petri:

Sequenti die post consecrationem suam Petrum, urbis prefectum, ad ligiam fidelitatem recepit

et per manum quod illi donavit de prefectura eum publice investivit qui usque ad illud

temporis iuramento fidelitatis recepit, missisque nuntiis per totum ecclesie patrimonium fecit

sibi fidelitatem ab omnibus exhiberi et exclusis iusticiariis senatoris qui ei fidelitatem iuraverat

suos iusticiarios ordinavit, electo per medianum suum alio senatore, tam in urbe quam extra

patromonium recuperavit124.

Il pontefice cercò subito di ottenere il giuramento “ligio”, cioè prioritario

sugli altri giuramenti di fedeltà, da parte del prefetto urbano, Pietro di Vico, e

nominò nuovi giustizieri nella Marittima e nella Campagna, escludendo i

giustizieri che avevano giurato fedeltà al riottoso senatore Benedetto

Carushomo. Innocenzo riuscì quindi a far eleggere un nuovo senatore,

nominando un “medianus” a lui fedele, e, al contempo, gradito alla nobiltà

romana125.

Uno dei più importanti conseguimenti di Innocenzo III, celebrato

grandemente nei Gesta Innocentii III126, fu quindi la “recuperatio” dei territori del

Patrimonium Petri, precedentemente sottratti al controllo papale dalle forze di

Enrico VI127.

L’insistenza dei Gesta Innocentii III sulla presenza congiunta di prefetto,

senatore, consoli, capitanei e rettori di città alla solenne consacrazione di

122 G. Barone, “Innocenzo III e il Comune di Roma”, in Innocenzo III. Urbs et Orbis, cit., I, pp. 642-

667; pp. 642-643. 123 Ivi, p. 642. 124 GI, p. 5. 125 Sui primi provvedimenti presi da Innocenzo in merito al regime comunale si veda G. Barone,

“Innocenzo III e il Comune di Roma”, cit., pp. 650-652. 126 GI, pp. 5-14. 127 Sulla politica innocenziana di “recuperatio” dei territori del Patrimonium Petri si vedano:

Gress-Wright, «The Gesta Innocentii III», cit., pp. 15*-21*; M. Maccarone, “Orvieto e la

predicazione della Crociata”, in Id., Studi su Innocenzo III, Padova 1972, pp. 3-166, pp. 9-12.

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26 F. Massetti, Ritualità ed immagini

Innocenzo III è da leggere, quindi, sia come un’esaltazione della concordia

cittadina seguita agli accordi del 1188, sia come un’anticipazione delle prime

politiche adottate da Innocenzo nella gestione di Roma e del Patrimonium Petri.

II.2 Il sole e la luna

L’immagine del sole e della luna fu utilizzata per la prima da un pontefice in

riferimento al rapporto fra regnum e sacerdotium nella lettera inviata da Gregorio

VII a Guglielmo il Conquistatore l’8 maggio 1080. In un contesto politico di

grande difficoltà, caratterizzato dallo scontro aperto con l’imperatore Enrico IV,

scomunicato per la seconda volta, e dai cattivi rapporti con le corone di Francia

e Castiglia, Gregorio VII chiedeva aiuto al suo “figlio dilettissimo”, il re

d’Inghilterra, ricordandogli la necessaria subordinazione della potestà regia

all’autorità apostolica128:

Credimus prudentiam vestram non latere omnibus aliis excellentiores apostolicam et regiam

dignitates huic mundo ad eius regimina omnipotentem Deum distribuisse. Sicut enim mundi

pulchritudinem oculis carneis diversi temporibus rapresentandam solem et lunam omnibus

aliis eminentiora disposuit luminaria, sic, ne creatura, quam sui benignitas ad imaginem suam

in hoc mundo creaverat, in erronea et mortifera traheretur pericula, providit, ut apostolica post

Deum gubernetur regia129.

Se Gregorio VII è stato l’inventor del paragone sole-luna, Innocenzo III è

stato senza dubbio colui che ha maggiormente contribuito a farne un caposaldo

dell’elaborazione teologico-politica della Chiesa Romana, tanto da potersi

parlare di una dottrina dei “duo luminaria”130.

Innocenzo III ha utilizzato per la prima volta l’immagine del sole e della

luna nella lettera apostolica Sicut universitatis conditor del 30 ottobre 1198,

inviata ad Acerbo Falseroni, console fiorentino e priore della Lega della Tuscia,

e ai rettori della Tuscia e del ducato di Spoleto, cui il pontefice accorda la sua

protezione, ricordando il doveroso ossequio all’autorità della Chiesa Romana.

L’anonimo autore dei Gesta Innocentii ha ritenuto la lettera di straordinaria

importanza, al punto da includerla integralmente nella sua opera, come primo

documento.

L’arenga della lettera si apre proprio con l’immagine del sole e della luna:

Sicut universitatis conditor Deus duo magna luminaria in firmamento celi constituit, luminare

maius, ut preesset diei, luminare minus ut preesset nocti, sic ad firmamentum universalis

128 Sulla lettera inviata da Gregorio VII al re d’Inghilterra Guglielmo I si veda G.M. Cantarella, Il

sole e la luna. La rivoluzione di Gregorio VII papa (1073-1085), Roma-Bari 2005, pp. 5-12. 129 Gregorius VII Papa, Epistola VII. 25, ed. E. Caspar, in M.G.H., Epistole selecte II, Das Register

Gregors VII, Teil 2, pp. 505-507, pp. 505-506. 130 D. Quaglioni, “Luminaria, duo”, in Federiciana, 2 voll., Roma 2005, II, pp. 320-325.

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ecclesie qui celi nomine nuncupatur, duas magnas instituit dignitates, maiorem que quasi

diebus animabus preesset corporibus, que sunt pontificalis auctoritas et regalis potestas. Porro

sicut luna lumen suum a sole sortitur, que revere minor est illo quantitate simul qualitate, situ

pariter et effectu, sic regalis potestas ab auctoritate pontificali sue sortitur dignitatis

splendorem, cuius conspectui quanto magis inheret, tanto minori lumine decoratur, et quo plus

ab eius elongatur aspectu, eo plus proficit in splendore. 131

L’immagine dei “duo magna luminaria”, il sole e la luna, creati da Dio per

illuminare la terra di giorno e di notte, separando la luce dalla tenebre, è tratta

da Genesi 1, 16-18: “Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il

giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle. Dio le pose nel

firmamento del cielo per illuminare la terra e per regolare giorno e notte e per

separare la luce dalle tenebre”132. Suggestiva, benché difficilmente verificabile, è

l’ipotesi di Paravicini Bagliani, secondo la quale Innocenzo III potrebbe essersi

ispirato anche all’iconografia della Cathedra sancti Petri, che tanta parte aveva

avuto nella cerimonia della sua consacrazione133.

Nei suoi termini essenziali il paragone sole-luna è di facile comprensione:

come Dio ha creato nel cielo due luci, una maggiore, per illuminare la terra di

giorno, e una minore, per illuminarla durante la notte, così ha posto nel

firmamento della Chiesa due luci, la maggiore per illuminare le anime, la

minore per illuminare i corpi. La prima luce è identificata nella potestà

pontificale, la seconda nella potestà regale. Innocenzo III aggiunge che quanto

più l’autorità regia è vicina all’autorità del pontefice, sua sorgente, tanto meno è

decorata dalla luce, e quanto più si allontana, tanto più risplende134.

La comprensione del paragone è tuttavia complicata dal fatto che la

versione definitiva dell’arenga, attestata dal testo di Gesta Innocentii, è il frutto di

una correzione, oggetto di studio approfondito da parte di Othmar Hageneder.

Nel manoscritto originale del Registro di Innocenzo, infatti, il min- di “minori” e

il pro- di “proficit” sono aggiunti su rasura135. Il testo originale dell’arenga, in

assenza dell’originale, è stato ricostruito da Hageneder sulla base della Decretale

II 3 della raccolta di Raniero di Pomposa, terminata entro il giugno del giugno

1201:

cuius conspectui quanto magis inheret, tanto maiori lumine decoratur, et quo plus ab eius

elongatur aspectu, eo plus deficit in splendore. 136

131 GI, p. 10. 132 La Sacra Bibbia, CEI, 2008. 133 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 16. 134 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., pp. 33-34. 135 Ivi, pp. 34-35. 136 Ivi, p. 34.

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28 F. Massetti, Ritualità ed immagini

Il significato originale è quindi diametralmente opposto: quanto più la

“regalis potestas”, nel guardarsi reciprocamente, resta unita alla ”auctoritas

pontificia”, tanto più grande è la luce da cui viene illuminata; quanto più si

allontana da essa, tanto meno risplende137.

Il significato del paragone originale risulta perfettamente coerente dal

punto di vista astronomico se il “conspectus” è letto come “opposizione astrale”:

si ha la luna piena proprio quando i due astri si trovano in opposizione. Gli

astronomi medievale, come ad esempio Georg Von Peurbach (XV secolo), non

conoscevano il concetto di “conspectus” come termine tecnico; per indicare il

plenilunio, conseguente all’opposizione astrale, si utilizzavano termini quali

“panselenos”, ”plenilunium”, “oppositio duarum luminarium”.

Nella traduzione latina dell’Opus quadripartitum de iudiciis (o Tetrabiblos),

attribuito a Claudio Tolomeo, si legge tuttavia “conjunctione vel aspectu”138. Il

termine “aspectus” indicava allora probabilmente la congiunzione dei due astri.

Su tali basi Hageneder ha ipotizzato che “conspectus”, pur non essendo un

termine tecnico del linguaggio astronomico, designasse comunemente

l’opposizione astrale139. Nel paragone originale, dunque, non era importante la

distanza fra gli astri quanto il “cospetto”, cioè l’opposto orientamento. Quanto

più l’autorità regia guarda a quella papale, dunque, tanto più ne è illuminata140.

Questo significato di sostanziale concordia fra i due poteri viene confermato in

una lettera inviata da Innocenzo III ad Ottone IV, inserita nel Regestum super

negotio Romani Imperii141:

Nobis enim duobus regimen huius saeculi principaliter est commissum, qui si unanimes

fuerimus et concordes in bono, profecto, sicut propheta testatur (Ab 3, 11), sol et luna in ordine

suo stabunt, eruntque prava in directa et aspera fient plana (Is 40, 4), cum nobis duobus, favente

domino, nichil obsistere vel resistere possit, habentibus duos gladios. 142

Vi è poi una lettera inviata ai principi tedeschi nella quale i due poteri

sono assimilati ai due cherubini che si fronteggiano davanti al propiziatorio

dell’arca dell’Alleanza, in analogia con il “conspectus” del sole e della luna143:

137 Ivi, p. 35. 138 Claudius Ptolomaeus Pelusiensis Alexandrinus, “Opus quadripartitum de iudiciis”, in Id.,

Omnia, quae extant, opera preater Geographiam, ed. E.O. Schreckenfuchsius, Basileae 1551, pp. 379-

438, in particolare p. 428. 139 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., p. 36. 140 Ivi, p. 37; Boyle, Innocent’s View of Himself, cit., p. 6. 141 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., p. 37. 142 Regestum Innocentii III papae super negotio Romani Imperii (RNI), ed. F. Kempf, Roma 1947

(Miscellanea Historiae Pontificiae 12), n° 179, p. 386. 143 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., p. 38.

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29 F. Massetti, Ritualità ed immagini

Hec enim sunt duo cherubim, que versis vultibus in propitiatorium, super ipsum duabus aliis

coniunctis, mutuo se respicere describuntur. 144

In un’altra lettere inserita nel Regestum super negotio Romani Imperii,

Innocenzo III riprende l’immagine astronomica, paragonando l’eclissi lunare,

che accresce l’oscurità, alla mancanza di provvedimenti imperiali nei confronti

degli eretici e i pagani, foriera di infamia contro i credenti145:

Inde sicut in eclipse luna tenebre amplius tenebrescunt et, maioris caliginis obscuritas invalescit,

sic ex imperatoris defectu hereticorum vesania et violentia paganorum contra catholicos et

fideles perfidius et crudelius malitia multiplicata consurgunt. 146

Alla luce di tale confronto, risulta pienamente comprensibile il significato

iniziale del paragone: il potere regale svolge pienamente la sua funzione,

risplendendo maggiormente quando segue l’autorità spirituale, difendendo la

Chiesa da eretici e pagani. Lo splendore della dignità regale, al contrario, vien

offuscato quando essa non interviene in difesa della Chiesa, legittimando così il

papato a sciogliere i sudditi dal giuramento di obbedienza, fondamento di ogni

«potestas» e «dignitas»147.

Hageneder ha individuato un possibile ausilio alla comprensione della

correzione in un passo del De ordine creaturarum liber di Isidoro da Siviglia148:

An sit (Luna) etiam rotunda radiis solis illuminata. Quae, quandocumque soli sive ante, sive

post appropriat, velut in ora radio luminis illucescat; cum autem longius ac longius recedere

videtur, majus ac majus suum lumen a solis splendore augetur. Ut cum ad integrum

aequiparato orbe facie ad faciem soli opposita constiterit. Tunc plene in se imaginem solis

habere possit. 149

Dopo aver trattato del sole e della luna con parole molto vicine a Genesi 1,

16-18, Isidoro spiega che quanto più la luna si allontana dal sole tanto più

risplende; giunta a metà del suo corso, alla massima distanza, la luna raggiunge

il massimo splendore, trovandosi di fronte al sole e ricevendo completamente in

sé la sua immagine.

È probabile che l’autore della correzione alla lettera innocenziana,

ispirandosi al testo di Isidoro, abbia inteso il verbo “elongare” nel senso di

“recedere”. Se in precedenza l’accento principale era posto sull’opposizione

astrale, con la correzione l’attenzione si sposta sulla distanza, al crescere della

144 RNI, n° 2 p. 7. 145 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., p. 38. 146 RNI, n° 32 p. 99. 147 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., pp. 39-40. 148 Ivi, p. 43. 149 Isidorus Hispalensis, De ordine creaturarum liber, in PL 217, coll.913-954, col. 925.

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30 F. Massetti, Ritualità ed immagini

quale aumenta la luminosità. Se le due versioni sono entrambe corrette dal

punto di vista astronomico, dal punto di vista teologico-politico le due

formulazioni determinano implicazioni differenti150. Per questo Hageneder ha

ipotizzato che la correzione sia stata dettata da una volontà politica precisa,

comprensibile alla luce del successivo sviluppo dell’arenga:

utraque vero potestas sui primatus sedem in Italia meruit obtinere que dispositione divina

super universas provincias obtinet principatum, et ideo licet ad universas provincias nostre

provisionis aciem extendere debeamus, specialiter tamen Italie paterna nos convenit

sollicitudine providere, in qua christiane religionis fundamentum existit per apostolice sedis

primatum, sacerdotii simul et regni preeminet principatus. 151

Il riferimento al “primatus” e alla “potestas” su Roma e l’Italia è presente

anche nel Sermo XXII, tenuto da Innocenzo III in occasione della festa dei santi

Pietro e Paolo:

Altitudo maris istius de qua Christus inquit ad Petrum «Duc in altum», est Roma, que

primatum et principatum super universum saeculum obtinebat et obtinet; quam in tantum

divina dignatio voluit exaltare ut, cum tempora paganitatis sola dominium super omnes

gentiles habuerit, christianitatis tempore sola super fideles habeat universos152.

La città di Roma, che anticamente esercitava il “dominium”, cioè il potere

temporale, su tutte le genti, ha in seguito assunto il “magisterium” su tutti i

credenti, divenendo così, secondo la celebre formulazione di Leone Magno153,

città sacerdotale e regia:

Ecce liquido pater, quantum Deus Urbem istam dilexerit, ut eadem esset sacerdotalis et regia,

imperialis et apostolica, obtinens ei exercens non solum dominium super corpora, verum etiam

magisterium super animas. Longe nunc maior et dignior auctoritate divina, quam olim

potestate terrena, per illam habens claves regni coelorum, per istam orbis terrarum regens

habenas154.

150 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., pp. 43-44. 151 GI, pp. 10-11. 152 Innocentius III Papa, Sermo XXI in solemnitate D. apostolorum Petri et Pauli, in PL 217, coll. 555-

558, col. 556. 153 “Isti (sc. Principes apostolorum) sunt, qui te (Roma) ad hanc gloriam provexerunt, ut gens

sancta, populus electus, civitatis sacerdotalis et regia, per sacram beati Petri sedem caput orbis

effecta, latius praesideres relgione divina quam dominatione terrena” (Leo I Papa, Sermo

LXXXII in Natali apostolorum Petri et Pauli, in PL 54, coll. 422-428, coll. 422-423). Il celebre

sermone pronunciato da Leone Magno in occasione della festa degli apostoli Pietro e Paolo,

presentati come i veri fondatori di Roma, è oggetto di un’approfondita analisi in M. Maccarone,

“La concezione di Roma città di Pietro e Paolo da Damaso a Leone I”, in Id., Romana Ecclesia…,

cit., I, pp. 191-203. 154 Innocentius III Papa, Sermo II in consecratione pontificis, cit., col. 656.

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31 F. Massetti, Ritualità ed immagini

Quest’ultimo passo è particolarmente interessante, poiché presenta il

“dominium” come potere sui corpi e il “magisterium” come potere sulle anime,

fornendo così un trait d’union con il paragone sole-luna della lettera del 30

ottobre 1198: l’autorità dei pontefice, rappresentata dal sole, è preposta ad

illuminare le anime, mentre la potestà regia, rappresentata dalla luna, è

preposta al governo dei corpi. Nei due testi vi è inoltre lo stesso rapporto

gerarchico, poiché l’autorità dei pontefici, in virtù del potere sulle anime, risulta

essere superiore rispetto all’autorità regale.

Un ulteriore confronto testuale proposto da Hageneder contribuisce a

chiarire il significato della correzione attuata sul registro. La seconda parte

dell’arenga viene messa a confronto con un passo del Sermo VII de sancto

Silvestro155, già citato nel nostro studio in relazione al valore simbolico della

tiara:

Fuit ergo b. Silvester sacerdos, non solum magnus, sed maximus, pontificali et regali potestate

sublimis. Illius quidem vicarius qui est «Rex Regum et Dominus dominantium, sacerdos in

eternum secundum ordinem Melchisedec», ut spiritualiter possit intelligi dictum ad ipsum et

successores illius, quod ait beatus Petrus apostolus, primus et precipuus predecessor ipsorum:

«Vos estis genus electum, regale sacerdotium». Hos enim elegit dominus, ut essent sacerdotes et

reges. Nam vir Constantinus egregius imperator, ex revelatione divina per beatum Silvestrum

fuit a lepra in baptismo mondato, Urbem pariter et senatum, cum omnibus et dignitatibus suis,

et omne regnum Occidentis ei tradidit et dimisit, secedens et ipse Byzantium et regnum sibi

retinens orientis156

Silvestro, nuovo Melchisedech, in virtù della donazione costantiniana ha

assunto un potere non più soltanto pontificale, ma anche regale, ricoprendo così

il “regale sacerdotium” annunciato da Pietro (1Pt 2,29). Il pontefice non è soltanto

un grande sacerdote, ma il sommo sacerdote, sublime nella sua duplice potestà

pontificale e regale157.

Ancora più interessante in relazione al presente studio è un elemento che

Innocenzo III ha tratto dal Constitutum Constantini: la decisione di Costantino di

trasferire la propria capitale in Oriente, lasciando al pontefice Roma e

l’Occidente158. Proprio l’allontanamento di Costantino, dettato dal riguardo

verso l’autorità del pontefice159, costituisce a nostro avviso un elemento

155 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., p. 48. 156 Innocentius Papa III, Sermo VII in festo d. Silvestri pontificis maximi, PL 217, coll. 481-484, col.

481. 157 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., p. 48; Doran, The Role Models of Innocent III, cit., pp. 67-68. 158 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., p. 48; Vian, La donazione di Costantino…, cit., p. 92. 159 Nel testo del “Constitutum Constantini” viene detto chiaramente che l’imperatore terreno

non può esercitare il suo potere laddove l’imperatore celeste ha fondato il principato

sacerdotale: “Unde congruum prospeximus, nostrum imperium et regni potestatem orientibus

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32 F. Massetti, Ritualità ed immagini

fondamentale per comprendere la correzione della lettera del 30 ottobre 1198, la

quale sposta l’attenzione dal rapporto di opposizione astrale alla distanza fra i

“duo magna luminaria”.

Per comprendere pienamente il significato della correzione è inoltre

necessario inserirla nel contesto politico del Thronstreit, la lotta per la

successione al trono imperiale, e le sue ripercussioni sulla situazione dell’Italia

centrale.

Dopo la morte di Enrico VI, l’11 novembre 1197, le città di Lucca, Firenze,

Siena, San Miniato e Volterra costituirono la Lega Toscana, con i compito di

liberarsi dal giogo imperiale e riacquistare gli antichi diritti. La nuova Lega

volle assicurarsi l’alleanza del papato, impegnandosi a difendere i possessi e i

diritti della Chiesa Romana e a non riconoscer alcuno come Rex Romanorum o

imperatore, se non fosse stato prima riconosciuto dal pontefice. Tuttavia

Innocenzo III considerava la Tuscia parte dei territori spettanti al pontefice,

secondo la donazione effettuata da Carlo Magno a papa Adriano I (774), e fece

dipendere l’approvazione della Lega Toscana dal pieno riconoscimento dei

diritti della Chiesa Romana.

La questione fu risolta proprio con la lettera del 30 ottobre 1998, mediante

la quale fu concessa alla Lega la protezione papale (“apostolice protectionis

brachiis”, “protectionis patrocinium”160) in cambio dell’obbedienza alla Sede

Apostolica (“devotionis et fidei obsequium”161). Innocenzo III ottenne che le città

della Tuscia e del ducato di Spoleto potessero partecipare alla lega solo dopo

aver ottenuto l’approvazione papale, ma rinunciò invece alle sue pretese di

domino sull’intera Toscana. Grazie all’accordo fra la Lega e la Chiesa Romana,

comunque, fu fortemente limitata l’influenza imperiale nell’Italia centrale, dopo

il breve dominio instaurato da Enrico VI162.

Nel 1198, in Germania, si erano succedute in pochi mesi le elezioni

contrapposte di Filippo di Svevia (marzo) e Ottone IV di Brunswick (9 giugno).

Filippo, fratello di Enrico VI, già reggente per il nipote Federico, era sostenuto

dal partito degli Staufer e dalla corona francese, mentre Ottone, figlio di Enrico

il Leone, era supportato dal partito guelfo e dallo zio Riccardo Cuor di Leone,

transferri ac transmutari regionibus et in Byzantias provincias in optimo loco nomini nostro

civitatem aedificari et nostrum illic constitui imperium; quoniam, ubi principatus sacerdotum et

christianae religionis caput ab imperatori caelesti constitutum est, iustum non est, ut illic

imperator terrenus habeat potestatem” (“Constitum Constantini”, cit., pp. 94-95) 160 GI, p. 11. 161 Ibid. 162 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., pp. 59-60; Vian, La donazione di Costantino, cit., p. 92; Gress-

Wright, The «Gesta Innocentii»…, cit., p. 51.

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33 F. Massetti, Ritualità ed immagini

che voleva portare la Germania dalla propria parte nel conflitto contro la

Francia163.

Il pontefice si mantenne inizialmente equidistante, avviando però delle

trattative con Filippo di Svevia per il riconoscimento dei territori recuperati nel

ducato di Spoleto. La situazione mutò rapidamente e all’inizio del 1199 si

arrestarono le trattative con Filippo, mentre un’ambasceria di Ottone IV si

presentò a Roma chiedendo la conferma della sua elezione e l’incoronazione

imperiale. Le trattative fra gli ambasciatori imperiali e la curia Romana

riguardarono soprattutto il riconoscimento dei territori recuperati da Innocenzo

III nell’Italia centrale. Dopo aver ricevuto la notizia della morte di Riccardo

Cuor di leone, il più potente alleato di Ottone IV, i negoziatori guelfi furono

disposti ad accettare le condizioni dettate dalla Sede apostolica, e fu consegnato

al papa un documento che riconosceva i suoi diritti sui territori recuperati. Lo

stesso documento fu trascritto su pergamena e consegnato ad Ottone IV, che

tuttavia lo sottoscrisse dopo oltre un anno, tra l’estate del 1200 e l’inizio del

1201, quando l’imperatore si trovò in una situazione a tal punto critica da

richiedere necessariamente l’appoggio del pontefice164.

Secondo l’ipotesi avanzata da Hageneder la correzione sarebbe avvenuta

prima di presentare agli ambasciatori guelfi la trascrizione nel registro, durante

le trattative svoltesi a Roma fra l’aprile e il maggio 1199. Con tale “tocco

stilistico”, si sarebbe voluto comunicare al sovrano tedesco che non gli

competeva esercitare il suo dominio in Italia, dove il potere spirituale

(“primatus”) e temporale (“principatus”) avevano trovato la loro patria

d’elezione, in virtù del primato di Pietro. Imitando Costantino, il futuro

imperatore tedesco avrebbe dovuto riconoscere gli interessi papali legati alla

Lega Toscana e a quella Lombarda, poiché quanto più il regnum si fosse

allontanato dal sacerdotium, tanto più avrebbe potuto risplendere la sua dignità.

Dunque Ottone IV non solo avrebbe dovuto ricercare la concordia con

l’autorità del pontefice, ma avrebbe anche dovuto tenersi a debita distanza dal

territorio italiano, area di influenza del papato165. Sembra tuttavia esserci un

ostacolo cronologico a questa puntuale ricostruzione, poiché Raniero di

Pomposa, che terminò la consultazione dei Registri Innocenziani nel giugno

1201, non ha riportato la correzione.

Hageneder ha tuttavia fornito alcune spiegazioni plausibili. È ipotizzabile

che Raniero si sia basato non sul Registro ma su una delle piccole raccolte di

163 Hageneder, Il sole e la luna, cit., p. 60; J. Haller, “Lord of the World”, in Innocent III. Vicar of

Christ or Lord of the World?, Washington D.C. 19942 , p. 81; Sayer, Innocent III, cit., pp. 50-53. 164 Hageneder, Il sole e la luna, cit., pp. 60-62; cfr. Haller. Lord of the World, cit., pp. 82-84, 87-89;

Sayer, Innocent III, cit., pp. 53-58. 165 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., pp. 62-63; Boyle, Innocent’s View of Himself, cit., pp. 6-7.

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34 F. Massetti, Ritualità ed immagini

decretali cui potrebbero aver attinto altri compilatori, come Gilberto e Alano,

oppure su uno dei numerosi originali in cui la lettera del 1198 era stata redatta.

È possibile anche che Raniero abbia copiato direttamente dal Registro,

esaminando singolarmente e in tempi separati le varie annate, non recependo la

correzione apportata nel 1199 alla lettera risalente all’anno precedente166.

Ma la relazione individuata da Hageneder fra la correzione e la politica

attuata da Innocenzo III nei confronti di Ottone IV potrebbe valere anche se la

correzione fosse avvenuta nel giugno 1201. Infatti è possibile che la correzione

sia avvenuta proprio quando la notizia della promessa di Ottone IV a Neuss

arrivò a Roma e fu inserita nel Regestum super negotio Romani Imperii. In tal caso

il rapporto causa-effetto andrebbe semplicemente rovesciato: la correzione non

sarebbe stata apportata per influire sulla politica di Ottone IV in Italia, ma, al

contrario, sarebbe da leggere quale una conseguenza della politica

effettivamente perseguita dal sovrano tedesco167.

La presenza della versione corretta del paragone sole-luna nei Gesta

Innocentii non è invece in alcun modo problematica se si accoglie una datazione

successiva al 1203, cioè al periodo in cui Innocenzo cadde gravemente malato,

tanto da far pensare ad una sua morte imminente e spingere l’anonimo autore a

comporre un’opera in difesa dell’operato del pontefice168.

II.3 L’incoronazione di Pietro II d’Aragona

L’incoronazione di Pietro II d’Aragona fu uno dei più importante eventi svoltisi

a Roma sotto il pontificato di Innocenzo III169, e soprattutto fu l’occasione in cui

l’apparato cerimoniale allestito dal pontefice celebrò maggiormente la dignità e

la potestà papale. È interessante rilevare che questa solenne ed articolata

cerimonia non soltanto suscitò l’attenzione dei contemporanei, come testimonia

l’ampio spazio ad esso attribuito nei Gesta Innocentii III, ma esercitò anche un

effetto di lunga durata nello sviluppo dell’autorappresentazione papale, tanto

da essere raffigurato nel 1561 nel solenne contesto della Sala Regia vaticana ad

opera del pittore forlivese Livio Agresti, su commissione di papa Pio IV170.

166 Ivi, p. 65. 167 Ivi, p. 66. 168 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., p. 67. 169 Gress-Wright, The «Gesta Innocentii»…, cit., p. 98*. 170 A. Celletti, Autorappresentazione papale ed età della Riforma: gli affreschi della Sala Regia vaticana,

in Eurostudium3w, gennaio-marzo 2013, pp. 5-149, qui pp. 72-77,

http://www.eurostudium.uniroma1.it/rivista/monografie/Celletti%20pronto.pdf (4 maggio

2014).

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35 F. Massetti, Ritualità ed immagini

Si legge nei Gesta Innocentii che il sovrano aragonese si presentò a Roma il

9 novembre 1204, approdando con le sue cinque galee presso l’isola posta fra

Ostia e Porto171:

Anno septimo pontificatus domini Innocentii pape tertii, mense Novembri, Petrus, rex

Aragonum, ad apostolicam sedem accessit, ut ab eodem domino papa militare cingulum et

regium acciperet diadema. Venit autem per mare cum quinque galeis, et applicuit apud insulam

inter portum et Ostiam, adducens secum Arelatensem archiepiscopum, prepositum

Megalonensem, cum quibus interfuit electus Montis Maioris, et alii quidam clerici nobiles et

prudentes. Proceres quoque secum adduxit Sancium, patruum suum, Hugonem de Baucio,

Rocelium de Marisilia, Arnaldum de Foliano, et alios multos nobiles et potentes. 172

Pietro II giunse accompagnato da un imponente seguito di nobili e ad alti

prelati dei territori a lui sottoposti: Michele, arcivescovo di Arles, Guy de

Ventadour, prevosto di Miguelonne, Guillaume de Bonnieux, il conte Sancio,

zio del sovrano aragonese, Hugh de Les Baux, Roncelin, visconte di Marsiglia,

ed Arnau de Foixà173. L’analisi delle motivazioni del viaggio di Pietro II a Roma,

condotta da Damian Smith, permette di comprendere meglio la presenza di un

così importante seguito.

I Gesta Comitum Barcinonensium et Aragoniae regum attestano che Pietro non

voleva apparire da meno rispetto ai suoi predecessori, in confronto ai quali

voleva eccellere174. Già nel 1068 Sancho Ramirez aveva affidato il regno

d’Aragona alla potestà di Dio e di san Pietro e, tornando di nuovo a Roma nel

1088, il sovrano aragonese aveva offerto alla Sede Apostolica il pagamento di

un censo annuo di 500 mancusi175. Pietro I rinnovò la sottomissione e il tributo a

Roma, mentre Urbano II accolse il figlio del sovrano, Sancho, sotto la protezione

pontificia. In seguito il conte di Barcellona Berengario IV si dichiarò “homo, miles

et servus” di Adriano IV, che lo prese sotto la protezione papale. Inoltre Alfonso

II ottenne da Alessandro III un particolare riconoscimento per l’Aragona,

171 D.J. Smith, Innocent III and the Crown of Aragon. The limits of papal authority, Aldershot 2004, p.

43. 172 GI, p. 306. 173 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 43. 174 “Et quia praedictus dominus rex Petrus noluit probitate et nobilitate inferior suis esse, immo

antecellere eos cupiens fama et dignitate, Apostolorum limina cum multis sumptibus et

comitatu nobili visitavit” (“Gesta comitum Barcinonensium et Aragoniae regum”, edd. L.

Barrau-Dihigo – J. Massó Torrent, in Cróniques Catalanes, II, Barcelona 1925, p. 51. 175 Nel Liber Censuum di Albino è riportato il censo dovuto alla Sede Apostolica dalla corona

d’Aragona: “regnum Aragone iuris beati Petri est, D auri mancusios ad cunneum Jacce singulis

annis” (Le Liber Censuum, cit., II, p. 107). L’Aragona non è invece menzionata da Cencio (Smith,

Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 48).

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36 F. Massetti, Ritualità ed immagini

“regnum quod ad ius beati Petri specialiter pertinere dinoscitur”, e sviluppò

una stretta relazione con Celestino III176.

Il gesto di Pietro II si inserì dunque nel solco di una lunga tradizione

caratterizzata da stretti legami fra la corona aragonese e la Sede Apostolica. Al

tempo stesso, se la volontà di ricoprirsi di gloria secondo l’esempio dei suoi

antenati fu senz’altro presente, vi sono tuttavia molteplici ragioni politiche che

possono spiegare perché Pietro II abbia considerato la solenne incoronazione a

Roma non solo desiderabile, ma politicamente vantaggiosa177.

In primis, Damian Smith fa riferimento alla questione del matrimonio fra

una sorella di Pietro II e Federico II di Sicilia. In tale contesto si può ipotizzare

che Pietro II abbia voluto incrementare il proprio prestigio in vista della

possibile alleanza matrimoniale con gli Staufer. Tuttavia, benché attratto dai

possibili vantaggi politici ed economici, Pietro II si dimostrò assai cauto,

considerando l’entità della dote e soprattutto la possibilità che Federico II non

arrivasse ad esercitare il potere. Va inoltre notato che nella bolla Gaudemus in

domino (8 agosto 1204), Innocenzo III affronta separatamente i due temi

dell’incoronazione e della possibile alleanza matrimoniale fra Aragona e Sicilia.

Se dunque l’alleanza matrimoniale rientrava certamente fra gli argomenti da

discutere con il pontefice, non poteva costituire da sola il motivo della venuta di

Pietro II a Roma178.

Altra questione di grande importanza, evidenziata da Smith, era l’azione

di riconquista in cui era impegnata l’Aragona. In particolare Pietro II aveva

bisogno di accrescere il suo status al fine di ottenere supporto internazionale per

la conquista di Maiorca. L’impresa si sarebbe rivelata al momento oltre le

possibilità finanziarie e militari del regno d’Aragona, ma Pietro aveva

comunque ben chiara l’importanza della protezione papale nel lungo periodo in

cui egli avrebbe dovuto assentarsi per procedere alla conquista. Non a caso il

successore di Pietro II, Giacomo I, venne incoronato da papa Gregorio IX

proprio alla vigilia dell’effettiva conquista di Maiorca (1229). Tuttavia non

risulta che Innocenzo III abbia dato il suo sostegno all’impresa179.

Di particolare interesse ci sembra la terza motivazione politica addotta da

Smith, relativa alla situazione interna. Dopo un periodo di grande espansione

nella prima metà del XII secolo, l’Aragona si trovò ad affrontare un momento di

difficoltà, dovuto all’ascesa degli Almohadi e alla riottosità della nobiltà nelle

regioni meridionali del regno. In assenza di un forte successo militare, Pietro II

176 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., pp. 48-49. 177 Ivi, p. 49. 178 Ivi, pp. 49-50. 179 Ivi, pp. 50-51.

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37 F. Massetti, Ritualità ed immagini

può aver pensato di rafforzare la corona affermandone la legittimazione sacrale

attraverso la solenne cerimonia di incoronazione180. In tal senso, la presenza di

un ampio seguito di nobili ed alti prelati, lungi dall’essere una mera cornice

scenica, avrebbe rafforzato la posizione Pietro II, presentando l’immagine di un

sovrano forte, sostenuto dai maggiorenti.

Vi era inoltre la questione albigese, che offriva a Pietro la possibilità di

presentarsi come campione dell’ortodossia, ottenendo la protezione papale

contro l’espansione dei capetingi e affermando la sua supremazia nel Midi.

Pietro emanò severi editti contro gli eretici nel 1198 e nel 1204, recependo

prontamente le direttive del pontefice. In proposito, tre lettere papali181

confermano che l’argomento fu effettivamente discusso a Roma182. Ma

soprattutto il viaggio di Pietro II fu finanziato in gran parte da Raimondo VI di

Tolosa, il quale sperava che il sovrano aragonese potesse mediare presso il papa

circa la sua posizione sempre più difficile183.

L’ultima motivazione individuata da Smith, l’affermazione del potere

aragonese in Provenza attraverso l’affrancamento dall’Impero, è molto

significativa in relazione alla scelta dei proceres che seguirono Pietro II a Roma.

Il più alto prelato al seguito del re d’Aragona era infatti l’arcivescovo di Arles, e

molti degli altri notabili citati erano figure chiave dello scenario politico

provenzale184, come l’influente visconte di Marsiglia, Ronclin185.

Il padre di Pietro II, Alfonso II, aveva speso molte energie per portare

sotto il controllo aragonese le più importanti città della Provenza, a partire da

Arles, Nizza e Marsiglia. Inoltre, sebbene teoricamente la contea di Provenza

fosse un feudo imperiale, il re d’Aragona aveva negato a Federico Barbarossa

l’incoronazione a re di Borgogna, nel 1178. Le relazioni fra l’Aragona e l’Impero

peggiorarono ulteriormente al tempo di Enrico VI, il quale cercò l’appoggio dei

genovesi per invadere la stessa Aragona.

Facendo propria l’ambiziosa politica provenzale del padre, Pietro II cercò

di sfruttare la situazione di crisi in cui versava l’Impero, indebolito dalla lotta

fra Ottone IV di Brunswick e Filippo di Svevia, per guadagnare la protezione

180 Ivi, p. 51. 181Si tratta delle lettere Cum ad expellendam (PL 215, col. 666), Discretioni vestre (PL 215, col. 667) e

Cum Carissimo (PL 215, col. 666), scritte nel giugno 1205. 182 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 52. 183 Ibid. 184 Ibid. 185 Già abate dell’importante abbazia di Saint Victor, Roncelin divenne in seguito visconte di

Marsiglia. Dopo la scomunica da parte di Innocenzo III (1209), Roncelin si sottomise alla Sede

Apostolica, ripudiò la moglie e tornò all’abbazia di Saint Victor (V.L. Bourrilly, Essai sur

l’histoire politique de la commune de Marseille des origines à la victoire de Charles d’Anjou (1264), Aix-

en-Provence 1926, pp. 398; 401).

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38 F. Massetti, Ritualità ed immagini

papale sui possedimenti aragonesi in Provenza ed accrescere il suo status di

fronte al clero e alla nobiltà della regione. Va detto, tuttavia, che i possedimenti

provenzali, controllati dal fratello di Pietro, Alfonso, non rientravano fra i

territori posti sotto la protezione papale dall’accordo raggiunto fra Pietro II e

Innocenzo III186.

Se le motivazioni politiche che spinsero Pietro II a venire a Roma

permettono di spiegare la composizione del suo seguito, ancor più interessanti

per il nostro studio sono le ragioni che spinsero Innocenzo III ad allestire

l’imponente cerimoniale per l’incoronazione del sovrano aragonese. Esse

aiutano a comprendere la piena consapevolezza con cui il pontefice si servì

dell’imponente apparato liturgico per veicolare la sua altissima concezione del

potere papale, in rapporto sia all’Urbe che all’orbe.

Nel pieno del Thronstreit, in attesa dell’imminente incoronazione di

Filippo di Svevia quale Rex Romanorum, che sarebbe avvenuta ad Aachen due

mesi più tardi (gennaio 1205), l’incoronazione di Pietro II si presentava come

una forte affermazione dell’influenza della Chiesa Romana nelle vicende

politiche della cristianità. Inoltre, l’incoronazione di un re a Roma, secondo un

cerimoniale assai vicino all’incoronazione imperiale, poteva suggerire l’idea che

altre potenze fossero in grado contendere all’Impero tedesco la sua preminenza

all’interno della Res Publica Christiana, secondo una concezione ben presente nei

canonisti inglesi e spagnoli187.

Altra fondamentale motivazione, ben evidenziata da Smith, era legata alla

situazione politica interna all’Urbe. Fra 1203 e 1204, infatti, Innocenzo III

dovette fronteggiare una grave crisi nel rapporto con il Comune, durante la

quale lasciò per alcuni mesi la città188. Una controversia giudiziaria fra

Innocenzo III ed Oddone di Poli, reo di aver donato al Comune dei territori

ricevuti in feudo dalla Chiesa, in seguito all’intervento di Giovanni Capocci,

inveterato nemico del pontefice e campione della libertas comunale, degenerò in

un vero e proprio conflitto tra fazioni, portando a scontri per le strade, alla

costruzione e distruzione di fortificazioni, nonché a vere e proprie battaglie

urbane fra sostenitori e avversari del papa.

Innocenzo III, pur abbandonando la città, continuò comunque ad

esercitare la sua autorità, giacché una parte della cittadinanza, come di

consueto, gli affidò la nomina dei mediani per la scelta dei senatori. Se l’assenza

del pontefice da Roma, protrattasi per circa dieci mesi, va messa in relazione

con la grave malattia che lo colpì nell’autunno del 1203 piuttosto che con la

186 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., pp. 52-53. 187 Ivi, 53-54. 188 Ivi, p. 54.

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39 F. Massetti, Ritualità ed immagini

situazione di conflitto, è comunque significativo che Innocenzo III abbia scelto

di trascorrere a Roma, contrariamente alle abitudini, l’estate del 1204: egli

voleva evidentemente mantenere la situazione sotto il suo diretto controllo189.

È pertanto altamente probabile che dopo la grave crisi politica del 1203-

1204 Innocenzo III, definito efficacemente da Smith “a proven master of

liturgical propaganda”, abbia voluto riaffermare la centralità del papato per la

dignità di Roma attraverso il sontuoso apparato cerimoniale allestito per

l’incoronazione di Pietro II d’Aragona, che vide concordi tutte le più alte cariche

civili ed ecclesiastiche dell’Urbe190.

Altre motivazioni individuate da Smith riguardano la necessità di

rinnovare il censo dovuto alla Sede Apostolica da parte della corona

aragonese191, la difesa della libertas Ecclesiae192 e la ricordata alleanza

matrimoniale fra l’Aragona il regno di Sicilia193. Riteniamo tuttavia che la

solenne incoronazione di Pietro II a Roma, che andiamo ad analizzare nel

dettagliato resoconto fornito dai Gesta Innocentii III, sia pienamente

comprensibile soltanto alla luce della volontà di Innocenzo III di riaffermare

con forza il prestigio e la dignità del papato nei confronti dei romani e

dell’intera cristianità.

La prima manifestazione del potere di Innocenzo III si ebbe

nell’accoglienza del seguito di Pietro II:

Missis autem ad illum equitaturis et sommariis pene ducentis fecit apud Sanctum Petrum ad

praesentiam suam idem dominus papa venire, mittens in occursum ipsius quosdam cardinales,

senatorem Urbis et alios multos nobiles et magnates; fecitque illum apud Sanctum Petrum in

domo canonicorum honorabiliter hospitari. 194

La delegazione aragonese venne accolta dalle massime autorità

ecclesiastiche (cardinali) e civili (senatore, nobili e magnati), a dimostrazione

della piena potestà spirituale e temporale del pontefice sull’Urbe. Veniva così

ad essere fugato il ricordo dei contrasti fra la Chiesa e il Comune che avevano

travagliato l’Urbe nei mesi precedenti.

Il seguito di Pietro d’Aragona trovò accoglienza presso la residenza dei

canonici di San Pietro, luogo particolarmente adatto a ricevere una delegazione

189 Barone, “Innocenzo III e il Comune di Roma”, cit., pp. 662-664; cfr. Werner Maleczeck,

“Biografia di Innocenzo III”, in Gesta di Innocenzo III, cit., p. 35. 190 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 55; Barone, “Innocenzo III e il Comune di

Roma”, cit., p. 666. 191 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 53. 192 Ivi, pp. 55-56. 193 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 56. 194 GI, p. 306.

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40 F. Massetti, Ritualità ed immagini

straniera in visita alla Sede Apostolica, essendo connesso tradizionalmente con

il pellegrinaggio presso la tomba del princeps apostolorum195.

La prima parte della solenne cerimonia di incoronazione si svolse due giorni

dopo l’arrivo del sovrano, in occasione della festa di san Martino (11

novembre). Il luogo prescelto fu la chiesa di San Pancrazio, dove Pietro II venne

unto dal vescovo di Porto e incoronato dallo stesso Innocenzo III:

Tertio vero die, in festo videlicet sancti Martini, praefatus dominus papa, cum epicopis,

presbyteris et diaconis cardinalibus, primicerio et cantoribus, senatore, iusticiariis, iudicibus,

advocatis et scriniariis multisque nobilibus ac populo copioso, ad monasterium sancti Pancratiii

martyris prope Transtiberim est profectus. Ibique prefatum regem per manus Petri, Portuensis

episcopi, fecit inungi, quem postmodum ipse manu propria coronavit, largiens et regalia

insignia universa, mantum videlicet et colubium, sceptrum et pomum, coronam et mitram. 196

In assenza di uno specifico ordo per l’incoronazione regale a Roma, la

cerimonia si svolse sulla base dell’ordo per l’incoronazione imperiale197, dell’ordo

per la Chiesa di Arles e del cerimoniale per l’incoronazione papale nel giorno di

san Martino198.

All’evento intervenne il collegio cardinalizio al completo, composto da

cardinali vescovi, presbiteri e diaconi. Parteciparono anche le massime autorità

civili: il senatore, gli iusticiarii, i giudici, gli avvocati e gli scriniarii, insieme a

numerosi esponenti della nobiltà. Di fronte al “popolo copioso”, dunque,

veniva ribadita la piena concordia fra le autorità civili ed ecclesiastiche, che

trovavano entrambe il proprio vertice nel pontefice.

L’unzione del sovrano fu affidata dal pontefice al cardinale vescovo di

Porto, secondo nel cerimoniale romano soltanto al vescovo di Ostia199. Pietro di

Porto era un vecchio amico di Innocenzo III, il quale, al tempo del cardinalato,

gli aveva dedicato una delle sue opere più celebri, il De miseria humanae vitae.

Poiché il cardinale ostiense, preposto all’unzione imperiale200, era presente a

Roma, si può pensare che il pontefice abbia voluto dar luogo ad un cerimoniale

195 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 45. 196 GI, p. 306. 197 Le citazioni testuali dell’ordine romano per l’incoronazione imperiale sono tratte per la

maggior parte dall’Ordo cornationis XVII, ed. R. Elze, in Fontes iuris Germanici antiqui in usum

scholarium ex MGH separatim editi IX. Ordines coronationis imperialis, Hannover 1960, pp. 61-69. Si

tratta di un ordo coronationis datato alla fine del XII secolo e detto “Staufische ordo” dal nome

della casata imperiale. 198 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 45-46. 199 Ivi, p. 46. 200 “Ostiensis episcopus ungat ei brachium dextrum de oleo exorcizato et inter scapolas” (Ordo

coronationis XVII, cit., p. 65).

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41 F. Massetti, Ritualità ed immagini

strutturalmente parallelo e al contempo distinto rispetto a quello

dell’incoronazione imperiale201.

L’unzione era uno dei momenti più solenni della cerimonia di

incoronazione. Era stato re David, figura Christi, ad essere unto per primo re di

Israele, unendo in sé regalità e sacerdozio e costituendo così l’archetipo della

regalità sacra medievale, il rex et sacerdos202. Particolare importanza assumeva la

parte del corpo su cui era praticata l’unzione, giacché, a differenza del modello

biblico, l’unzione del capo fu riservata dalla Chiesa ai soli vescovi, mentre i

sovrani erano unti sull’omero203. Inoltre l’unzione dei vescovi era effettuata

usando il crisma, mentre i re erano unti con l’olio dei catecumeni. In questo

modo, nel corso del XII secolo, la Chiesa cercava di limitare il significato

dell’unzione regale, escludendola dal numero dei sacramenti, fissati a sette; essa

veniva riconosciuta come sacramentale e non come sacramento, operante per la

fede di colui che lo riceveva e non per propria virtù204.

Innocenzo III, in una lettera scritta al vescovo di Trnovo nel febbraio 1204,

insisteva espressamente sulla superiorità dell’unzione del capo con il crisma,

riservato ai vescovi, rispetto all’unzione regale del braccio con l’olio dei

catecumeni, a rimarcare la supremazia dell’autorità episcopale rispetto al potere

dei principi205:

Differt autem inter pontificis et principis unctionem, quia caput pontificis chrismate

consecratur, brachium vero principis oleo delinitur, ut ostendatur quanta sit differentia inter

pontificalem auctoritatem et principis potestatem. 206

Trattatisti tardomedievali come l’arcivescovo di Zara Nicola de

Metafaris207 hanno spiegato la translatio dell’unzione dal capo al braccio e alle

spalle richiamando il dovere del sovrano di difendere la Chiesa, della quale

costituiva il braccio armato208.

L’unzione fu seguita dall’incoronazione propriamente detta, nella quale il

sovrano ricevette dal pontefice le insegne del potere regale, accuratamente

presentate nel testo dei Gesta Innocentii

201 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 46. 202 H. Zug Tucci, “Le incoronazioni imperiali nel Medioevo”, in Per me reges regnant. La regalità

sacra nell’Europa medievale, a cura di F. Cardini e M. Santarelli, Siena 2002, pp. 119-136, pp. 127-

128. 203 Ivi, p. 128. 204 Ibid. 205 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 46. 206 PL 215 col. 284. 207 R. Elze, Der Thesaurus Pontificum des Erzbischofs Nicolaus von Zara, in «Revue des sciences

religieuses», volume hors série, Strasbourg 1956, pp. 143-160, in particolare p. 158. 208 Zug Tucci, Le incoronazioni imperiali nel Medioevo, cit. p. 128.

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42 F. Massetti, Ritualità ed immagini

In primo luogo fu imposta sul capo del sovrano la mitra clericale, sopra la

quale fu posta la corona regia. Nell’ordo coronationis l’imposizione della corona

da parte del pontefice era accompagnata dall’esortazione a condurre

un’esistenza all’insegna della giustizia e della misericordia, sì da ricevere da

Cristo una corona ancor più preziosa, la corona del Regno Eterno209:

Accipe signum gloriae, diadema regni, coronam imperii, in nomine Patris et Filii et Spiritus

sancti, ut spreto antiquo hoste spretisque contagiis vitiorum omnium sic iustitiam diligas, et ita

iuste et misericorditer et pie vivas. Ut ab ipso Domino nostro Iesu Christo in consortio

sanctorum aeterni regni coronam percipias. 210

Il significato della consegna della corona, simbolo del potere regale per

eccellenza, e della mitra, definita da Innocenzo III “signum pontificii”, è piuttosto

chiaro: soltanto attraverso la mediazione del pontefice, depositario della

plenitudo potestatis in quanto Vicarius Christi, poteva essere assegnata ai sovrani

la pienezza dei poteri all’interno dei rispettivi regni. Resta comunque degno di

nota che il sovrano, nell’atto dell’incoronazione, ricevesse un copricapo

tipicamente ecclesiastico come la mitra. L’ordo coronationis consente di far luce

su tale aspetto, affermando esplicitamente che il sovrano consacrando diviene

confratello dei canonici; nello scambio dell’ “osculum pacis”, il sovrano agisce

come uno dei diaconi, “sicut unum ex diaconis”. Nell’Offertorio il sovrano agisce

addirittura “more subdiaconi”, servendo il papa con calice e ampolla. Questi

indizi, nel loro insieme, fanno apparire il sovrano non tanto quale biblico rex et

sacerdos, ma piuttosto quale membro della corpo ecclesiale al servizio

dell’autorità pontificale211.

Dopo la corona, il pontefice consegnò al sovrano aragonese lo scettro, che

nell’Ordo coronationis XIV (metà XII secolo) è presentato come segno della

potestà regia, da esercitare virtuosamente in difesa della santa Chiesa e del

popolo cristiano:

Accipe sceptrum regie potestatis insigne, virgam scilicet rectam regni, virgam virtutis qua te

ipsum bene regas, sanctam ecclesiam populumque christianum tibi a Deo commissum regia

virtute ab improbis defendas, pravos corrigas, rectos pacifices, et ut viam rectam tenere possint

tuo juvamine dirigas, quatenus de temporali regno ad aeterneum pervenias, ipso adiuvante

cujus regnum et imperium secula sine fine permanent in seculorum. 212

209 Ivi, p. 129. 210 Ordo coronationis XVII, cit., p. 66.

211 Zug Tucci, Le incoronazioni imperiali nel Medioevo, cit. p. 129. 212 “Ordo coronationis XIV“, in Ordines coronationis imperialis, cit., pp. 35-47, in particolare p. 44.

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43 F. Massetti, Ritualità ed immagini

Lo scettro rappresentava idealmente lo strumento per correggere i

malvagi e stabilire la retta via, al fine di pervenire dal regno temporale al regno

eterno.

Quanto al globo aureo, esso era stato introdotto nel rituale

dell’incoronazione imperiale da Enrico VI, in sostituzione dell’anello imperiale.

Chiamato nelle fonti malum o pomum aureum, il globo aureo era simbolo del

dominio del mondo, anticamente attribuito a Roma, domina mundi.

Nell’interpretatio cristiana la croce aveva sostituito simboli pagani come la

Vittoria, la Fenice o l’Aquila, che originariamente sormontavano il globo213. Tra

tutte le “regia insignia”, il globo aureo è forse quella che stride maggiormente

nella cerimonia di incoronazione di Pietro II, poiché l’universalità del potere

insita nel simbolo si poteva difficilmente attribuire ad una potenza regionale

quale era il Regno d’Aragona all’inizio del XIII secolo.

Colobio e manto non erano invece oggetto di una consegna solenne da

parte del pontefice, ma facevano parte degli indumenti rituali indossati dal

sovrano incoronato. Il colobio era una tunica di uso liturgico, glossata dal Du

Cange come “tunica absque manicis, vel certe cum manicis, sed brevioribus, quae ad

cubitum vix pertinerent”214. Esso si distingueva dunque dalla dalmatica poiché

privo di maniche o dotato di maniche corte. Degna di nota è poi l’antica

connessione fra il colobio e il diaconato215, alla luce dello status diaconale

esplicitamente attribuito al sovrano nell’ordo coronationis XVIII.

Stando all’Ordo coronationis XIV, il manto doveva essere tolto in segno di

umiltà al momento della preparazione delle offerte e indossato nuovamente dal

sovrano al momento della comunione:

Imperator extrahit pluviale et induitur manto proprio. Cum dicitur Pax Domini, ascendit ad

communicandum indutus proprio manto216.

Nell’Ordo coronationis XVIII il manto viene invece deposto insieme alla

corona prima dell’Offertorio e nuovamente indossato dopo la comunione217:

Imperator corona et manto depositis accedit ad summum pontificem […] sacramque

communionem de manu eius suscipiat cum osculo pacis et sic ad thalamum rediens in

ambonem resumat mantum partier et coronam. 218

213 Zug Tucci, Le incoronazioni imperiali nel Medioevo, cit. p. 129; 135 n. 52; P.E. Schramm, Kaiser,

Röm und Renovatio: Stdien zur Geschichte des römischen Erneurungsgedankens vome Ende des

karolignischen Reiches bis zum Investiturstreit, Darmstadt 1962, I, p. 303. 214 ducange.enc.sorbonne.fr/COLOBIUM (5 maggio 2014). 215 W.H. Pinnock, Laws and Usages of the Church and the Clergy, Oxford 1861, pp. 954, 1020. 216 “Ordo coronationis XIV”, cit., p. 46. 217 Zug Tucci, Le incoronazioni imperiali nel Medioevo, cit., p. 130.

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44 F. Massetti, Ritualità ed immagini

Al fine di comprendere pienamente il valore simbolico della consegna

cerimoniale delle insegne regali da parte del pontefice, riteniamo

particolarmente rilevante un passo centrale del Constitutum Constantini, nel

quale papa Silvestro riceve da Costantino i simboli del regnum:

Pro quo concedimus ipsis sanctis apostolis, dominis meis, beatissimis Petro et Paulo et per eos

etiam beato Silvestro patri nostro, summo pontifici et universalis urbis Romae papae, et

omnibus eius successoribus […] diademam videlicet coronam capitis nostri simulque frygium

nec et non et superhumerale, videlicet lorum, qui imperiale circumdare assolet collum, verum

etiam et clamidem purpuream atque tunicam coccineam, et omnia imperialia indumenta seu

dignitatem imperialium praesidentium equitum, conferentes etiam et imperialia sceptra

simulque et conta atque signa, banda etiam et diversa ornamenta imperialia. 219

Benché il Constitutum Constantini non sia stato invocato dal Innocenzo III

per rivendicare la piena sovranità su tutta la cristianità occidentale, ivi

compresa l’Aragona, è indiscutibile la sua importanza nell’elaborazione di

simboli e rituali legati all’autorità papale, come abbiamo cercato di mostrare in

precedenza. Nel caso specifico, il Constitutum Constantini contribuì in modo

decisivo all’affermazione dell’idea per cui soltanto il pontefice, unico detentore

della plenitudo potestatis, potesse dispensare le insegne dell’imperium, donate a

Silvestro e ai suoi successori sul soglio di Pietro, dando una fondamentale

conferma sacrale all’autorità temporale.

Una speciale menzione merita il luogo e dell’incoronazione, la chiesa di

san Pancrazio, scelta per motivazioni di ordine pratico e simbolico. In primis, si

trattava di una chiesa di notevoli dimensioni, in grado di accogliere un gran

numero di persone, ed era posta ad una distanza ragionevole per una

processione fino a San Pietro. Era inoltre una chiesa situata fuori dalle mura

urbiche, e ciò toglieva spazio ad ogni possibile rivendicazione di diritti

giurisdizionali su Roma da parte della corona aragonese. Infine, la chiesa di san

Pancrazio si trovava in un area sotto la crescente l’influenza del vescovo di

Porto, il cardinale che compì l’unzione sacramentale del re.

Dal punto di vista simbolico, la chiesa di san Pancrazio era un luogo assai

significativo per prestare un giuramento di fedeltà, poiché il santo titolare era

ritenuto patrono dei giuramenti e scopritore degli spergiuri, come ricorda

Gregorio di Tours nel De Gloria Martyrum:

Ex hoc enim quisque fidem cuiuscumque rei ab alio voluerit elicere, ut verum cognoscat, non

aliter nisi ad huius (sc. beati Pancrathi) basilicam destinato. Nam ferunt, plerosque iuxta

basilicas apostolorum sive aliorum martyrum commanentes non alibi pro hac necessitate nisi

218 “Ordo coronationis XVII”, cit., p. 68. 219 “Constitutum Constantini”, cit., pp. 86-88.

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45 F. Massetti, Ritualità ed immagini

templum expetere beati Panchrati, ut, eius severitatis censura publice discernente, aut veritatem

audientes credant, aut pro fallatia iudicium beati martyris experiantur. 220

Il giuramento pronunciato da Pietro II al cospetto del pontefice ci è noto

soltanto attraverso i Gesta Innocentii, poiché esso manca nei Registri di

Innocenzo III. Ne riportiamo di seguito il dettato:

Ego Petrus, rex Aragonum, profiter et polliceor quod semper ero fidelis et obediens domino

meo papae Innocentio, eiusque catholicis successoribus, et ecclesiae Romanae, regnumque

meum in ipsius obedientia fideliter conservabo, defendens fidem catholicam, et persequens

haereticam pravitatem. Libertatem et immunitatem Ecclesiae custodiam, et earum iura

defendam. In omni terra potestati meae subiecta pacem et iustitiam servare studebo. Sic me

Deus adiuvet et haec sancta Evangelia. 221

Smith ha messo in chiaro che nel giuramento non si fa menzione di feudi e

vassalli. Il giuramento di fedeltà pronunciato da Pietro era piuttosto usuale nel

mondo mediterraneo, e non fu accompagnato da omaggio vassallatico222.

D’altra parte Fried ha evidenziato che il giuramento era diverso sia da quello

prestato dagli ufficiali e dai sottoposti del pontefice, sia da quello pronunciato

dai sovrani di Sicilia e da Giovanni I d’Inghilterra, formalmente vassalli del

pontefice223.

Pietro prometteva di mantenere la pace, di combattere l’eresia e di

difendere la Chiesa, dichiarandosi “fidelis et obediens” a Innocenzo III, ai suoi

successori e alla Chiesa Romana. Non andava tuttavia oltre tali impegni224.

Benché Innocenzo confermasse Pietro nella sua regalità, l’incoronazione

non fu l’atto costitutivo attraverso cui egli divenne re d’Aragona. L’unzione

ebbe sicuramente un effetto sacralizzante, ma la validità del potere regio, nella

prospettiva del sovrano aragonese, restava fondata sull’origine divina del

potere, sulla successione ereditaria e sulla conquista militare225.

L’interruzione dell’opera ad annum 1208 risparmiò peraltro all’autore dei

Gesta Innocentii l’imbarazzo di dover constatare che Pietro II non avrebbe dato

troppa rilevanza al giuramento solenne pronunciato a San Pancrazio di fronte al

patrono dei giuramenti226. Dopo aver combattuto l’eresia nel regno d’Aragona

220 Gregorius Turonensis, “De gloria martyrum”, in MGH, Scriptores rerum Merovingicarum, 1, p.

63. 221 GI, pp. 306-307. 222 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., pp. 56-57. 223 J. Fried, Der päpstliche Schutz für Laienfürsten. Die politische Geschichte des päpstlichen

Schutzprivilegs für Laien (11.–13. Jahrhundert) («Abhandlungen der Heidelberger Akademie der

Wissenschaften, Phil.-hist. Kl.», Jg. 1980, Nr. 1), Heidelberg 1980, p. 219. 224 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 57; Fried, Der päpstliche Schutz, cit., p. 219. 225 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 57. 226 Gress-Wright, The «Gesta Innocentii»…, cit., p. 98*.

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46 F. Massetti, Ritualità ed immagini

ed aver riportato una vittoria epocale sugli Almohadi a Las Navas de Tolosa

(1212), il 12 settembre 1213 Pietro II morì nella battaglia di Muret, combattendo

contro l’esercito crociato di Simone di Montfort, benedetto da Innocenzo III.

Soltanto un decreto di Urbano II salvò il sovrano aragonese dalla scomunica:

poiché l’Aragona era posta sotto la protezione della Sede Apostolica, il sovrano

avrebbe potuto essere scomunicato solo a seguito di un pronunciamento del

pontefice. In ogni caso, schierandosi contro l’esercito crociato, Pietro II era

palesemente venuto meno al giuramento pronunciato al cospetto del pontefice

di combattere l’eresia e difendere la Chiesa227.

Tornando alla cerimonia di incoronazione, per la seconda parte Innocenzo

III scelse lo scenario liturgico più solenne: la basilica petrina. Veniva così ad

essere ulteriormente rafforzato il parallelismo con il cerimoniale di

incoronazione imperiale.

Il sovrano, solennemente incoronato, giunse in processione a San Pietro tra

lodi ed applausi. Dopo aver deposto lo scettro e il diadema regale sull’altare

maggiore, rafforzando così l’idea che le insegne del potere regale gli erano state

concesse attraverso la mediazione del successore di Pietro e vicario di Cristo,

Pietro II ricevette dal pontefice la spada:

Deinde prefatus rex cum multo laudis praeconio et favoris applausu coronatus rediit iuxta

dominum papam ad basilicam Sancti Petri, super cuius altare sceptrum et diadema posuit, et de

manu eiusdem domini papae militarem ensem accepit228.

Nell’Ordo coronationis XIV la consegna della spada era accompagnata da

una solenne esortazione ad usarla al servizio della Chiesa229:

Accipe hunc gladium cum Dei benedictione tibi collatum, in quo per virtutem Spiritus Sanctus

resistere et ejicere omnes inimicos tuos et cunctos sancte Ecclesie inimicos, regnumque tibi

commissum tutari atque protegere castra Dei, per auxilium illustrissimi triumphatoris domini

nostri Ihesu Christi, cum Patre in unitate Spiritus Sancti vivit et regnat in omnia secula

seculorum230.

La spada, dunque, ricordava al sovrano il dovere di difendere la Chiesa e

di combattere i suoi nemici, ma non era la sanzione di un’investitura feudale,

come ha rimarcato Smith231. Dopo la consegna della spada, Pietro II depose

227 Sulla posizione assunta da Pietro II in merito alla crociata albigese, fino alla fatale sconfitta di

Muret, si vedano: D. Smith, “Peter of Aragon, Innocent III and the Albigensian Crusade”, in

Innocenzo III. Urbs et Orbis, cit., II, pp. 1049-1064; Id., Innocent III and the Crown of Aragon, cit., pp.

79-141. 228 GI, p. 307. 229 Zug Tucci, Le incoronazioni imperiali nel Medioevo, cit. p. 130. 230 “Ordo coronationis XIV”, cit., p. 43. 231 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 57.

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47 F. Massetti, Ritualità ed immagini

sull’altare il documento232 con il quale rinnovò l’offerta a San Pietro del regno

d’Aragona, insieme ad un censo annuale:

Cum corde credam et ore confiteor, quod Romanus pontifex, qui est beati Petri successor,

vicarius sit illius per quem reges regnant et principes principantur, qui dominantur in regno

hominum, et cui voluerit dabit. Ego, Petrus, Dei gratia rex Aragonum, comes Barcinone, et

dominus Montis Pessulani, cupiens principaliter post Deum beati Petri et apostolice sedis

protectione muniri, tibi, reverendissime Pater et domine summe pontifex Innocentii, et per te

Sacrosanctae Romanae Ecclesiae offero regnum meum, illudque tibi et successoribus tuis in

perpetuum, divini amoris intuitu, et pro remedio anime mee et progenitorum nostrorum,

constituo censuale, et annuatim de camera regis ducente quadraginta massemutine apostolicae

sedi reddantur, et ego ac successores mei specialiter ei fideles et obnoxii teneamur. Hoc autem

lege perpetua servandum fore decernens, quia spero firmiter et confido quod tu et successores

tui, me ac successores meos, et regnum predictum auctoritate apostolica defendetis, presertim

cum ex multo devotionis affectu, me ad sedem apostolicam accedentem tuis quasi beati Petri

manibus in regem duxeritis solemniter coronandum. Ut autem hec regalis concessio

inviolabilem obtineat firmitatem, de consilio procerum curie mee, praesente venerabili Patre

meo, Arelatensi archiepiscopo, et Sancio patruo meo, et Hugone de Baucio, et Arnaldo de

Fauciano, baronibus meis, sigilli mei feci munimine roborari. Actum Rome, apud Sanctum

Petrum, anno dominice incarnationis millesimo ducentesimo quarto, tertio Idus Novembris,

anno regni mei octavo. 233

Nel documento Pietro II confessa solennemente la sua fede nel pontefice

quale successore di Pietro e vicario di Cristo234, vale a dire vicario di Colui

attraverso il quale esercitano il proprio potere i re ed i principi, come

annunciato in Proverbi 15, 16. Cristo, di cui il pontefice è vicario, è dunque

riconosciuto come la fonte di ogni autorità sulla terra.

Dopo aver elencato tutti i suoi titoli di sovrano (re d’Aragona, conte di

Barcellona e signore di Montpellier), Pietro procede ad offrire in perpetuo il suo

regno alla Chiesa di Roma, nella persona di Innocenzo III, per ispirazione

divina e per la salvezza della sua anima. L’offerta del regno viene

accompagnata da un censo di 240 mazmudins235 da corrispondere annualmente

alla Sede Apostolica236. La concessione è convalidata dai proceres della corte di

Pietro II, alla presenza dell’arcivescovo di Arles, dello zio del sovrano, Sancio, e

di importanti baroni quali Hugh de le Baux e Arnau de Foixà237. In cambio

Pietro II chiede la protezione del pontefice, dalle cui mani è stato incoronato,

232 Come il giuramento di Pietro II a San Pancrazio, il documento ci è giunto soltanto attraverso i

Gesta Innocentii III (Gesta di Innocenzo III, cit., p. 251 n. 167). 233 GI, pp. 307-308. 234 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 57. 235 Si tratta di monete auree ed argentee la cui circolazione nella Penisola iberica risale al tempo

del dominio islamico. Cfr. Gesta di Papa Innocenzo III, cit., p. 251 n. 68. 236 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., pp. 44, 57. 237 Ivi, pp. 44-45.

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48 F. Massetti, Ritualità ed immagini

per sé e per i suoi successori sul trono d’Aragona238. Come ha notato Smith,

Pietro II si apprestava a ricevere dei significativi benefici in cambio di un prezzo

modesto239.

Compiuti i rituali, il sovrano aragonese fu condotto con il suo seguito a

San Paolo, dove erano state preparate le galee che lo ricondussero in patria,

dopo aver ricevuto la benedizione apostolica240:

His omnibus rite peractis, fecit eum dominus papa per Urbem ad ecclesiam Sancti Pauli deduci;

ubi, galeas inveniens praeparatas, intravit, et, apostolica benedictione munitus, ad propria

meruit cum prosperitate redire. 241

In conclusione, l’autore dei Gesta Innocenti III riporta il privilegio concesso

da Innocenzo III a Pietro II:

Cum quanta gloria et honore, tripudio et applausu, regium Rome de manu nostra in monasterio

beati Pancratii susceperis diadema, post quam per venerabilem fratrem nostrum portuensem

episcopum in regem fecimus te iniungi, tua sublimitas non ignorat ut dilectionis autem

affectum quem ad tuam habemus per exibitionem operis evidentius monstraremus. Regalia

insignia universa, mantum videlicet et colobium, sceptrum et pomum, coronam et mitram ad

opus tuum non minus pretiosa quam speciosa fecimus preparari, et ea liberalitate tibi

donavimus in signum gratie specialis. Tu vero tamquam devotus princeps et catholicus rex

super altare beati Petri apostolorum principis, regnum tuum nobis et per nos apostolice sedi

cum multo devotionis affectu per privilegii paginam obtulisti illud ei costituens in perpetuum

censuale firmiter promittendo, quod iuramentum fidelitatis et obedientie in coronatione tua

nobis exhibitum inviolabiliter observabis et ad illud exhibendum et observandum successores

tuos obligari volebas. Nos igitur gratiam tibi a nobis exhibitam ad successores tuos derivari

volentes, presentium auctoritate concedimus, ut cum ipsi decreverint coronati, coronam a sede

apostolica requierentes de speciali mandato per Terraconensem archiepiscopum apud

Cesaraugustam solemniter coronentur, prestita super predictis idonea cautione et quoniam iure

civili statutum est, ut mulieres maritorum honoribus decorentur, presentium auctoritate

concedimus, ut per manus eiusdem archiepiscopi eas licet coronari. Nulli ergo etc. nostre

concessionis etc. Si quis autem etc. 242

Il privilegio Cum quanta gloria fu emanato da Innocenzo III alcuni mesi

dopo la solenne incoronazione, il 16 giugno 1205243. Nel ricordo della cerimonia,

grande enfasi è posta sull’atmosfera di glorificazione e tripudio nella quale si è

svolta, come è sottolineato in apertura: “Cum quanta gloria et honore, tripudio et

applausu”. L’obiettivo del pontefice di risollevare il proprio prestigio attraverso

una cerimonia solenne fu pienamente conseguito.

238 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 44, 57. 239 Ivi, p. 57. 240 Ivi, p. 45. 241 GI, p. 308. 242 Ivi, pp. 308-309. 243 Gesta di Innocenzo III, cit., p. 251.

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49 F. Massetti, Ritualità ed immagini

Alcune espressioni relative all’unzione del sovrano (“per venerabilem

fratrem nostrum portuensem episcopum in regem fecimus te inungi”) e alle

insegne imperiali (“Regalia insignia universa, mantum videlicet et colobium,

sceptrum et pomum, coronam et mitram”) mostrano che l’autore dei Gesta

Innocentii ha certamente utilizzato il testo del privilegio per scrivere il resoconto

della cerimonia. Molto interessante è poi la notizia per cui le stesse insegne sono

state realizzate appositamente per l’occasione, in segno di grazia speciale:

“mitram ad opus tuum non minus pretiosa quam speciosa fecimus preparari, et

ea liberalitate tibi donavimus in signum gratie specialis”.

Infine, le disposizioni del pontefice riguardo alle future incoronazioni dei

sovrani d’Aragona mostrano come nella curia papale fosse ben nota la

situazione del regno iberico. Il pontefice prescrisse che le future incoronazioni

dovessero tenersi a Saragozza, ma ad opera dell’arcivescovo di Tarragona,

mostrando di sapere che il processo di unificazione tra Catalogna ed Aragona

non si era ancora pienamente compiuto244.

L’incoronazione e la bolla Cum quanta gloria ebbero conseguenze

significative sulla corona aragonese, giacché il rispetto del cerimoniale stabilito

da Innocenzo III per l’incoronazione divenne fondamentale al fine di sancire la

piena legittimità del sovrano245. Ma le conseguenze andarono ben oltre

l’Aragona, poiché attraverso l’incoronazione di Pietro II la Chiesa di Roma

raggiunse idealmente l’apice della sua influenza sui poteri secolari,

indirizzandoli verso la propria concezione della cristianità come corpo di cui il

pontefice, vicario di Cristo, rappresentava il capo, da cui promanavano dignità

ed autorità246.

Non a caso l’Ostiense dichiarò che i sovrani che avessero voluto ricevere

l’unzione regale de novo avrebbero dovuto chiedere, come il sovrano aragonese,

il permesso del pontefice, dal quale traeva origine ogni dignità ecclesiastica.

L’esempio di Pietro II fu portato da Egidio da Perugia anche in riferimento ai

sovrani che intendessero ricevere direttamente dal pontefice la “potestas

gladii”247.

244 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 51. 245 Ivi, p. 58. 246 Ivi, pp. 57-59. 247 Ivi, p. 59.

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50 F. Massetti, Ritualità ed immagini

II.4. Le raffigurazioni artistiche del potere papale

La parte conclusiva dei Gesta Innocentii, secondo la tradizione propria delle

biografie papali del Liber Pontificalis, elenca le donazioni e le ordinazioni

compiute dal pontefice. Le donazioni sono presentate non solo come atti di

evergetismo, testimonianza della munificenza e liberalità del pontefice, ma

anche come segni dell’impegno profuso per il culto divino e l’ornamento delle

chiese:

Quantum vero munificus et studiosus exstiterit circa cultum et ornamentum ecclesiarum,

frequentia dona manifestant. 248

Oggetto del nostro precipuo interesse, in quest’ultimo capitolo, sono i

passi dei Gesta Innocentii relativi a due opere d’arte commissionate da

Innocenzo III, nelle quali trovano la più significativa traduzione iconografica le

istanze teologico-politiche ed ecclesiologiche sostenute dal pontefice nel suo

magistero, teso a delineare un’altissima concezione del papa, investito per

volontà divina della “plenitudo potestatis”249.

Il primo passo è relativo ad una preziosa stoffa di sciamito, rossa e

dorata250, che il pontefice ha donato alla basilica Lateranense:

Basilicae ergo Salvatoris, quae Constantiniana vocatur, contulit […] pretiosam vestem de

examero rubeo deauratam ab anteriori parte imaginem Salvatoris, et imagines beatae Virginis,

Iohannis Baptistae, principis apostolorum, et imperatoris, mirabiliter insignitas […] 251

La figura del Salvatore, cui la basilica Lateranense era originariamente

dedicata, occupa la parte centrale insieme alla Vergine e a San Giovanni

Battista, formando il gruppo della deësis252, tema iconografico di origine

bizantina. La figura di san Giovanni Battista possiede un duplice significato, in

quanto egli è presente anche in qualità di santo protettore della basilica

Lateranense253.

L’imperatore cui il testo dei Gesta Innocentii si riferisce mediante

antonomasia è Costantino, il fondatore della Basilica Salvatoris, dal suo nome

definita “Costantiniana”, come ricorda l’anonimo autore254. Costantino è

248 GI, p. 345. 249 J. Gardner, “Innocent III and His Influence on Roman Art of the Thirteenth Century”, in

Innocenzo III. Urbs et Orbis, cit., II, pp. 1245-1260, p. 1245. 250 Gesta di Innocenzo III, cit, p. 27. 251 GI, p. 345. 252 La figura di san Giovanni Battista era spesso sostituita da quella di san Giovanni Evangelista,

presente sul Calvario insieme alla Vergine. 253 Gardner, Innocent III and His Influence on Roman Art, cit., p. 1247. 254 Ivi, pp. 1246-1247.

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51 F. Massetti, Ritualità ed immagini

senz’altro una figura di rilievo nella rappresentazione innocenziana del potere

papale, poiché proprio nel Constitutum Constantini, vale la pena di ripeterlo, il

pontefice ha trovato un vastissimo patrimonio di riferimenti simbolici, che

abbiamo cercato di illustrare nel corso del nostro studio.

Emblematica è poi la presenza di san Pietro, “princeps apostolorum”, data

l’insistenza di Innocenzo III sul primato petrino e sul servizio apostolico del

pontefice, fin dal sermone pronunciato in occasione della sua consacrazione255.

Nella stoffa dell’altare maggiore della basilica lateranense, Julian Gardner

ha individuato in nuce tre Leitmotiv del papato di Innocenzo III: l’enfasi

sull’altare e sui suoi sacramenti, ben testimoniata dal De sacro altaris mysterio e

nel De missarum mysteriis, sulla figura del Salvatore256 e su San Pietro, con il

quale il pontefice giunse ad identificarsi, proclamandosi non più soltanto

successore dell’apostolo ma unico vero “Vicarius Christi”257.

Un’idea del forte effetto suscitato dal perduto antepedium lateranense può

essere data dal prezioso frontale di seta purpurea che decorava l’altare

maggiore del monastero benedettino di Kloister Rupertsberg, oggi conservato

nei Musées Royaux di Bruxelles. Databile attorno al 1230, l’antepedium presenta

al centro la figura del Salvatore in trono, attorniato dalla Vergine e da san

Pietro, che tiene le chiavi e la croce, simboli della sua potestà e del suo martirio;

vi è poi la figura della fondatrice Hildegardis, che si erge di fronte a Rupertus. Il

donatore Sifridus, prostrato a terra, è identificabile con l’arcivescovo di

Magonza Siegfried II von Eppstein258, il quale partecipò al IV Concilio

Lateranense e poté senz’altro ammirare l’antepedium donato da Innocenzo259.

Il secondo passo è invece legato alla basilica vaticana, cui il pontefice, già

canonico di San Pietro, riservò la quarta parte delle offerte provenienti da tutti i

“ministeria” della Chiesa di Roma. Dopo aver elencato i ricchi doni elargiti dal

pontefice alla basilica di San Pietro, l’autore dei Gesta Innocentii fa riferimento al

restauro dei mosaici della basilica petrina:

[…] Absidem eiusdem basilicae fecit decorari musivo, et in fronte ipsius basilicae fecit

restaurare musivum quod erat ex parte magna parte consumptum. 260

255 Vd. sez. II.1. 256 La devozione di Innocenzo III per il Salvatore trova la sua più importante testimonianza nella

collocazione dell’icona Acheropoieta nella cappella privata di San Lorenzo, nel palazzo

Lateranense (Gardner, Innocent III and His Influence on Roman Art, cit., p. 1251). 257 Ivi, p. 1247. 258 Nella sessione di apertura del IV concilio lateranense l’ostinata loquacità dell’arcivescovo di

Magonza suscitò la rabbia di Innocenzo III, che così lo redarguì: “Audias me modo, posthac

audiam te” (Gardner, Innocent III and His Influence on Roman Art, cit., p. 1247 n. 10). 259 Ibid. 260 GI, p. 346.

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52 F. Massetti, Ritualità ed immagini

Il restauro del mosaico absidale di San Pietro fu senz’altro la più

importante committenza artistica di Innocenzo III261, costituendo la suprema

traduzione iconografica della concezione innocenziana dell’ufficio papale262.

I mosaici innocenziani sono andati distrutti nel 1592, durante i lavori di

realizzazione della basilica michelangiolesca, ma il programma iconografico è

stato tuttavia accuratamente documentato per mezzo di una copia conforme,

autenticata da un protonotario apostolico. Si sono inoltre salvati tre frammenti

dei mosaici, raffiguranti il busto di Innocenzo III, l’effigie dell’Ecclesia Romana

ed un tondo contenente una fenice, oggi conservati al Museo di Roma263.

Il tema iconografico originario del mosaico vaticano, ricostruito

indirettamente attraverso il testo delle iscrizioni absidali, doveva presentare la

Traditio legis, la consegna della Legge ai principi degli apostoli, Pietro e Paolo,

tema privo di diretti fondamenti scritturali neotestamentari che spesso si

accompagnava alla Traditio clavium, la consegna delle chiavi a Pietro, ispirata a

Matteo 16,19264.

Il mosaico innocenziano presentava nel registro superiore Cristo assiso in

trono265 e benedicente, affiancato da San Paolo a destra e da San Pietro a sinistra,

secondo lo schema della Traditio legis; i due apostoli sono raffigurati in

atteggiamento acclamante266.

Nel registro inferiore del fregio era raffigurata una teoria di agnelli uscenti

dalle città sante di Gerusalemme e Betlemme, convergenti al centro verso il

Trono dell’agnello (agnus Dei), posto in asse rispetto al Cristo in “maestà” e

affiancato da Innocenzo III e dall’Ecclesia Romana. Il Trono dell’agnello, dal

quale sgorga del sangue all’interno di un calice, a memoria del sacrificio di

Cristo, è stato messo in relazione con le elaborazioni teologiche innocenziane

261 V. Pace, “La committenza artistica di Innocenzo III dall’Urbe all’orbe”, in Innocenzo III. Urbs

et Orbis, cit., II, pp. 1226-1244, p. 1234; Iacobini, A., “EST HAEC SACRA PRINCIPIS AEDES:

The Vatican Basilica from Innocent III to Gregory IX (1198-1241)”, in W. Tronzo (a cura di), Saint

Peter’s in the Vatican, Cambridge 2005, pp. 49-63, qui p. 49. 262 Boyle, Innocent’s View of Himself, cit., p. 13. 263 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 45; Pace, La committenza artistica…, cit., p.

1226; S. Schmitt, “Die bildlichen Darstellungen Papst Innozenz' III”, in T. Frenz (a cura di), Papst

Innozenz III., Weichensteller der Geschichte Europas, Stuttgart 2000, pp. 21-50, pp. 23-24; Iacobini,

“EST HAEC SACRA…, cit., p. 49. 264 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 46; Pace, La committenza artistica…, cit., p.

1228. 265 L’immagine di Cristo assiso sul trono era un tema centrale nei programmi iconografici di

Innocenzo II, come testimonia il mosaico absidale di San Paolo, terminato sotto Onorio III

(Gardner, Innocent III and His Influence…, cit., pp. 1249-1250). 266 Pace, La committenza artistica…, cit., pp. 1228, 1230; Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…,

cit., p. 46; Iacobini, “EST HAEC SACRA…, cit., p. 50

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53 F. Massetti, Ritualità ed immagini

contenute nel De sacro altaris mysterio, ma tale iconografia è attestata già nel XII

secolo in ambiente romano (nella chiesa abbaziale di S. Elia a Nepi) ed è

possibile che facesse parte del programma figurativo originario del mosaico

absidale di San Pietro267.

Le due figure di Innocenzo III e dell’Ecclesia Romana, rispettivamente alla

destra e alla sinistra dell’agnus Dei, costituiscono un hapax iconografico. La

tradizione storiografica ha voluto vedere in queste due figure la

rappresentazione delle nozze mistiche fra il Vicario di Cristo e la Chiesa

romana, “sponsa Christi”268, un tema già sviluppato da Innocenzo III nel De

quadripartita specie nuptiarum e nel sermone Qui habet sponsam269. In realtà manca

un’esplicita connotazione iconografica in tal senso, specialmente a confronto

con una celebre raffigurazione delle nozze mistiche fra il pontefice e la Chiesa,

commissionata da Innocenzo III per Santa Maria in Trastevere270. Il rapporto

delle due figure con il Trono dell’agnello, evidente simbolo cristico, sembra

invece suggerire che tale gruppo debba essere letto alla luce dell’investitura

divina della Chiesa romana e del suo pontefice da parte di Cristo stesso271.

Il pontefice è significativamente incoronato dalla tiara, simbolo del

regnum272, in controtendenza rispetto all’iconografia monumentale romana,

nella quale i papi erano apparsi sempre a capo nudo, tranne rarissime

eccezioni273. La tiara, dunque, rappresenta il potere regale, ed insieme al pallio,

simbolo della pienezza dell’ufficio apostolico274, connota il pontefice della

«plenitudo potestatis», conferita direttamente da Cristo, simboleggiato

dall’agnus Dei. La figura del pontefice viene così a riassumere in sé la dignità

regale e sacerdotale del Cristo275. Innocenzo III è inoltre raffigurato con le mani

protese verso l’Ecclesia Romana, in un gesto inedito di carattere feudale, che

rimarca il ruolo del pontefice quale unico Vicario di Cristo, da lui investito del

governo della Chiesa276.

267 Pace, La committenza artistica…, cit., pp. 1233; Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p.

46; Iacobini, “EST HAEC SACRA…, cit., pp. 50-51. 268 Sulla concezione dell’Ecclesia Romana come Sponsa Christi si veda W. Imkamp, Das Kirchenbild

Innocenz’ III. (1198-1216) (Päpste und Papsttum 22), Stuttgart 1983, pp. 203-272. 269 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., pp. 46-47; Gardner, Innocent III and His

Influence…, cit., p. 1251. 270 Pace, La committenza artistica…, cit., p. 1232. 271 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 47. 272 Vd. sez. II.1. 273 Pace, La committenza artistica…, cit., pp. 1231-1232. 274 Vd. sez. II.1 275 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 47; Iacobini, “EST HAEC SACRA…, cit., p.

51. 276 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 47.

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54 F. Massetti, Ritualità ed immagini

Molto interessante sotto il profilo iconografico è anche la figura

dell’Ecclesia Romana, giovane donna coronata da un diadema che la connota

come “imperatrix”, secondo un modello di ascendenza bizantina277. Il capo

coronato dell’Ecclesia era spesso contrapposto alla personificazione della

Sinagoga278, dal cui capo la corona cadeva, a significare il passaggio dall’antica

alla nuova alleanza279.

Una novità iconografica assoluta è costituita dal vessillo tenuto in mano

dall’Ecclesia Romana, raffigurante due chiavi, simbolo della “potestas ligandi ac

solvendi” affidata da Cristo a Pietro e da questi trasmessa ai suoi successori nella

Sede Apostolica. Innocenzo III commissionò dunque la prima raffigurazione

nella quale le chiavi, già attributo iconografico di san Pietro dal V secolo,

venivano ad essere strettamente legate alla Chiesa Romana. L’immagine delle

chiavi sarebbe divenuta già al tempo di Gregorio IX il simbolo inalberato dalle

truppe papali, che nel 1229 entrarono in Puglia esibendo gli “emblemi delle

Chiavi”280.

Particolarmente rilevante è l’interpretazione del rapporto fra le due figure

di Innocenzo III e dell’Ecclesia Romana data da padre Boyle. Rigettando una

lettura tesa alla mera glorificazione del potere pontificio, Boyle ha insistito sulla

concezione innocenziana del papato come servizio apostolico281. È assai

significativo che al di sotto di san Pietro non vi sia Innocenzo III ma l’Ecclesia

Romana, mentre il pontefice si trova sotto san Paolo. Pur nella sua forte

identificazione con il principe degli apostoli, Innocenzo III era perfettamente

consapevole che l’eredità petrina doveva passare necessariamente attraverso

l’unione con la Chiesa romana, dalla quale il pontefice riceveva in dote

“spiritualium plenitudinem et latitudinem temporalium”282, come affermato nel

sermone Qui habet sponsam283. Tuttavia Boyle ha mostrato come lo stesso

Innocenzo III si sentisse erede e successore non soltanto di Pietro ma anche di

Paolo. Nel sermone Duc in altum Innocenzo afferma che Gesù si rivolge solo a

Pietro quando ordina di prendere il largo, ma usa il plurale nell’esortazione a

gettare le reti della predicazione per “catturare” le anime, rivolgendosi in

questo caso sia a Pietro che a Paolo:

277 Ivi, p. 46; Iacobini, “EST HAEC SACRA…, cit., p. 51. 278 La contrapposizione fra Ecclesia e Synagoga divenne un motivo ricorrente nelle decorazioni

scultoree delle cattedrali francesi e tedesche del XIII secolo. Cfr. N. Rowe, The Jew, the Cathedral

and the Medieval City: Synagoga and Ecclesia in the Thirteenth Century, Cambridge 2011. 279 Pace, La committenza artistica…, cit., p. 1231. 280 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 20. 281 Boyle, Innocent III’s View of Himself, cit., pp. 13, 15. 282 Innocentius III Papa, Sermo III in consecratione pontificis, in PL 217, coll. 659-666, col. 665. 283 Boyle, Innocent III’s View of himself, cit., p. 13.

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55 F. Massetti, Ritualità ed immagini

Unde cum singulariter praemittitur ‘Duc in altum’, pluraliter subditur Et laxate retia in

capturam, quia solus Petrus tanquam universalis princeps Ecclesiae in altitudinem praelationis

ascendit, sed ipse cum Paulo retia praedicationi ad capiendos homines in Urbe laxavit. 284

Nel sermone, dunque, Roma è sia la profondità del primato supremo sulla

Chiesa, sia la profondità in cui sono gettate le reti della predicazione, facendo

del pontefice romano successore sia di Pietro che di Paolo nel suo ufficio di

dominio e servizio285.

Meritano attenzione, infine, le iscrizioni che illustrano il mosaico.

Valentino Pace si è soffermato sul bilinguismo delle scritte, eseguite sia in greco

che in latino. Benché questa particolarità sia in parte ascrivibile a mosaicisti di

provenienza siciliana, abituati al bilinguismo epigrafico, è da escludere che il

committente non abbia espresso il proprio consenso. La compresenza di greco e

latino assume allora una valenza ecumenica, a rimarcare il primato del papa sia

sulla Chiesa Occidentale che su quella Orientale, tornata in comunione con

Roma dopo l’esito della IV Crociata286.

Al di sotto del mosaico vi era inoltre una solenne scritta che glorificava il

ruolo della basilica di San Pietro:

SUMMA PETRI SEDES EST HAEC SACRA PRINCIPIS AEDES - MATER CUNCTARUM

DECOR ET DECUS ECCLESIARUM / DEVOTUS CHRISTO QUI IN TEMPLO ISTO - FLORES

VIRTUTIS CAPIET FRUCTUSQUE SALUTIS. 287

Maccarone, analizzando l’iscrizione, ha evidenziato che per “sedes” non si

deve intendere né la Cattedra di Pietro, né il trono dell’agnus Dei raffigurato nel

mosaico, ma la basilica di San Pietro: Innocenzo III, convinto sostenitore del

primato petrino e già canonico di San Pietro, volle sancire con questa iscrizione

il nuovo status della basilica vaticana quale cattedrale di Roma, al pari della

basilica lateranense288. In una lettera del 1205 inviata al clero di Costantinopoli,

Innocenzo III affermò che Gesù Cristo aveva posto in Roma una “sedes stabilis”

sia al Laterano che al Vaticano289: “Christus ex tunc fecit Petrum stabilem sedem

habere, sive in Laterano, sive in Vaticano”290.

Per ribadire la pari dignità tra la basilica vaticana e quella lateranense, che

in passato si era fregiata in via esclusiva del titolo di “mater cunctarum

ecclesiarum”, Innocenzo III fece costruire una “palatium apostolicum” in Vaticano,

284 Innocentius III Papa, Sermo XXI in solemnitate D. apostolorum Petri et Pauli, cit., col. 557. 285 Boyle, Innocent III’s View of himself, cit., p. 14. 286 Pace, La committenza artistica…, cit., pp. 1230-1231. 287 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., p. 1352. 288 Ivi, pp. 1352-1353; cfr. Pace, La committenza artistica…, cit., p. 1233. 289 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., p. 1353. 290 Innocentius Papa III, Epistola CCIII, in PL 215, coll. 512-517, col. 513.

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senza per questo trasferire dal Laterano i maggiori uffici papali, come la

Cancelleria, la Camera e l’Elemosineria. In tal modo si realizzò pienamente,

anche sotto un punto di vista monumentale, la presenza di due sedi stabili291.

Conclusioni

Nella prima parte del nostro studio abbiamo introdotto i Gesta Innocentii III,

cercando di mostrarne gli elementi peculiari. Nel primo capitolo abbiamo

evidenziato il carattere di testo - biografia sui generis dell’opera, per l’alternanza

fra parti narrative, legate soprattutto alle azioni temporali del pontefice a Roma

e nel Lazio, e dossier documentari, relativi all’azione del papa quale guida

suprema della Cristianità. Inoltre l’opera non copre l’intero pontificato di

Innocenzo III (1198-1216), fermandosi al 1208. I Gesta Innocenti III non trattano

del Thronstreit, la lotta per la successione al potere imperiale, poiché con ogni

probabilità l’autore considerò già sufficienti le notizie contenute nel Regestum

super negotio Romani Imperii.

Nella seconda sezione abbiamo presentato le principali ipotesi di

attribuzione dell’opera. Alcuni elementi sono ormai unanimemente accettati:

l’anonimo autore aveva una solida cultura, in ambito sia teologico che

giuridico, era molto vicino al pontefice ed aveva accesso alla documentazione

prodotta nella cancelleria papale. Barone ha inoltre dimostrato la provenienza

romana dell’autore sulla base delle sue dettagliate conoscenze delle famiglie

aristocratiche e della topografia dell’Urbe. Gress-Wright, sulla base degli studi

di Paravicini Bagliani, ha identificato l’autore con Ottaviano, consanguineo di

Innocenzo III, camerlengo della Chiesa Romana fra 1200 e 1204, nominato dal

pontefice cardinale diacono presso i Santi Sergio e Bacco, la stessa diaconia retta

da Lotario dei conti di Segni prima dell’elezione papale. Gress-Wright si è

basato soprattutto sul parallelo con le Vitae scritte dal camerlengo bosone e

sugli aspetti patrimoniali e finanziari all’interno dei Gesta Innocenti III. L’opera

sarebbe stata iniziata nel 1203, per difendere l’operato del pontefice,

gravemente ammalato e apparentemente prossimo alla morte, e sarebbe stata

ampliata in seguito con dossier documentari legati al suo ruolo di guida della

Cristianità.

Barone ha invece proposto di attribuire l’opera al cardinale diacono

Giovanni del titolo di Santa Maria in Cosmedin, anch’egli consanguineo del

pontefice, cancelliere della Chiesa Romana. L’ipotesi ci sembra assai più

convincente, poiché la morte del cardinale Giovanni nel 1213 consente di

291 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., p. 1353; cfr. Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la

Tiara…, cit., p. 46; Id., Il trono di Pietro, cit., p. 21.

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spiegare l’interruzione dell’opera ad annum 1208. Il cardinale Ottaviano, invece,

è sopravvissuto di circa venti anni ad Innocenzo, rendendo assai difficile

motivare l’interruzione dell’opera. La carica di cancelliere permette inoltre di

spiegare la grande familiarità dell’autore con la produzione documentaria

pontificia: egli non solo poteva attingere liberamente ai documenti, ma era

anche in grado di rielaborarli con piena padronanza.

La terza ipotesi, avanzata da Powell, ci sembra la meno convincente. Egli

ha proposto di attribuire l’opera al cardinale Pietro Beneventano, il compilatore

al quale si deve la Compilatio III, raccolta di decretali di Innocenzo III ed inviata

allo Studium di Bologna. Se la grande familiarità con la documentazione papale

potrebbe deporre a favore dell’ipotesi di Powell, l’origine campana ci sembra

inconciliabile con la forte identità romana dell’autore dei Gesta Innocentii. Come

Ottaviano, inoltre, Pietro sopravvisse a lungo ad Innocenzo III.

Nella seconda parte della nostra ricerca abbiamo presentato i passi dei

Gesta Innocentii a nostro avviso significativi al fine di evidenziare la grande

importanza attribuita da Innocenzo III alle rappresentazioni del potere papale.

Nella prima sezione di questa seconda parte abbiamo dettagliatamente

analizzato la cerimonia di consacrazione di Innocenzo III, fissata nel giorno

della Cathedra Petri, a ribadire fin dall’inizio del pontificato l’importanza

fondamentale del primato petrino. L’autore di Gesta Innocentii evidenzia la

piena consapevolezza del pontefice nel far coincidere la sua incattedrazione con

quella del princeps apostolorum. Proprio in età innocenziana si venne ad

affermare la credenza che la cattedra lignea conservata in Vaticano fosse

realmente la cattedra appartenuta all’apostolo Pietro, e non solo un antico e

venerabile seggio di uso liturgico.

Il sermone pronunciato da Innocenzo III in questa occasione, da noi

analizzato sulla base dei preziosi studi di padre Boyle, ha ulteriormente

rafforzato l’identificazione fra Pietro e il pontefice, che si proclamò

solennemente non solo “successor Petri” ma anche “vicarius Christi”, mediatore

fra cielo e terra e depositario della “potestas ligandi ac solvendi”.

Lo status di vicario di Cristo era poi ulteriormente sottolineato dai

paramenti liturgici indossati dal pontefice in occasione della festa della Cathedra

Petri: la vesta bianca alludeva alla resurrezione del Signore.

Se la cerimonia di consacrazione in San Pietro sancì la piena potestà

spirituale del pontefice quale vicario di Cristo, la successiva processione verso il

Laterano, nella quale il pontefice indossò la tiara, “signum pontificii”, ribadì la

sua piena sovranità temporale sull’Urbe, solennemente affermata nel

Constitutum Constantini, documento che ispirò Innocenzo III nella definizione

del valore simbolico dei paramenti papale. La solenne partecipazione delle

massime autorità civili ed ecclesiastiche, alla luce del pluridecennale conflitto

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fra Papato e Comune, conclusosi con la pace stipulata sotto il pontificato di

Clemente III nel 1188, ebbe la funzione di celebrare la rinnovata unità dell’Urbe

sotto la guida del suo pontefice. A nostro avviso, la solenne descrizione della

processione è stata inserita dall’autore anche quale anticipazione della politica

immediatamente perseguita da Innocenzo III al fine di ripristinare il controllo

sul Senato dopo la parentesi autonomistica di Benedetto Carushomo, ottenere la

piena fedeltà del prefetto urbano e nominare ufficiali di propria fiducia.

Nel seconda sezione abbiamo analizzato la lettera Sicut universitatis

conditor, il primo documento in cui Innocenzo III ha utilizzato l’immagine del

sole e della luna per rappresentare il rapporto fra papato ed Impero. La lettera

era diretta ad Acerbo Falseroni, console fiorentino e priore della Lega Toscana,

e ai rettori delle città del Ducato di Spoleto e della Toscana. L’autore dei Gesta

Innocentii ha riportato il testo della documento all’interno di una sezione

eminentemente narrativa, evidenziandone così l’importanza ai fini della

comprensione della politica ierocratica di Innocenzo III, fondata sulla

preminenza del sacerdotium rispetto al regnum. La luce del potere imperiale è

infatti inferiore per quantità, qualità, sede ed effetto alla luce del potere papale,

dalla quale trae il suo splendore.

Sulla base degli studi di Othmar Hageneder abbiamo cercato di spiegare il

cambiamento del dettato della lettera, che nella versione originale affermava

che il potere imperiale, rappresentato dalla luna, avrebbe brillato di luce più

intensa quanto più si fosse rivolto al sole del potere papale. Nella versione

corretta, invece, si afferma che la luce del potere imperiale è tanto più intensa

quanto più esso si allontana dal potere papale. Abbiamo cercato di mostrare che

la correzione è avvenuta in relazione alla lotta per la successione imperiale tra

Filippo di Svevia e Ottone IV di Brunswick.

È assai probabile che la correzione mirasse a suggerire all’imperatore di

occuparsi delle vicende interne alla Germania e non interferire nelle vicende

dell’Italia, dove era stato fissato per volere divino il “primatus” della Sede

Apostolica. D’altra parte lo stesso Constitutum Constantini, cui Innocenzo III ha

fatto riferimento in un suo celebre sermone su San Silvestro, stabiliva che

l’imperatore terreno non potesse fissare la sua dimora dove era stata posta

dall’Imperatore celeste la sede del potere sacerdotale. L’imperatore, dunque,

avrebbe dovuto volgersi al papato e stabilire con esso un rapporto di concordia,

evitando di ingerirsi negli affari italiani.

Nella terza sezione abbiamo analizzato la solenne incoronazione di Pietro

II d’Aragona, svoltasi a Roma il giorno di San Martino del 1204. Il sovrano

aragonese, in quest’occasione, rinnovò l’offerta del regno aragonese alla Sede

Apostolica, accompagnata da censo annuale. Abbiamo cercato di illustrare le

varie motivazioni politiche che potrebbero aver spinto Pietro II a farsi

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59 F. Massetti, Ritualità ed immagini

incoronare a Roma: dall’alleanza matrimoniale con Federico II alla necessità di

risollevare il prestigio della monarchia aragonese in un periodo di debolezza

interna, dalla ricerca di appoggi per l’opera di reconquista alla volontà di

presentarsi come campione dell’ortodossia nell’ambito della questione albigese,

fino alla difesa del potere aragonese nella Francia meridionale, motivazione

messa in particolare risalto dal seguito di importanti proceres provenzali che

accompagnò il sovrano a Roma.

Da parte sua, il pontefice intendeva risollevare il proprio prestigio nei

confronti di Roma e dell’intera cristianità. Da un lato egli mirava a riaffermare

la sua piena potestà sull’Urbe dopo il violento conflitto con il Comune fra 1203 e

1204, dall’altra, in un periodo in cui l’Impero era fortemente travagliato dalla

lotta per la successione al trono, egli voleva affermare l’influenza della Sede

Apostolica nelle vicende politiche della Cristianità, nonché mostrare che vi

erano altre potenti figure in grado di contendere la scena all’imperatore.

La descrizione del rituale di incoronazione suggerisce una forte analogia

con l’incoronazione imperiale. La diversità principale fu costituita dal luogo

scelto per la prima parte della solenne cerimonia: non la basilica di san Pietro,

ma la chiesa di San Pancrazio a Trastevere.

L’unzione fu impartita non dal vescovo di Ostia, come prevedeva l’ordo

coronationis, bensì da Pietro di Porto, amico del pontefice. Come l’imperatore, il

sovrano fu unto sul braccio e sulle scapole, a differenza dei vescovi, che

venivano unti sul capo come i sovrani biblici. L’unzione era peraltro

amministrata con l’olio dei catecumeni e non con il crisma. In una sua lettera al

vescovo di Trnovo, Innocenzo III avrebbe rimarcato tale differenza al fine di

affermare la supremazia del potere episcopale su quello regale. Il sovrano non

si presentava quale biblico rex et sacerdos, ma come sovrano temporale servitore

del sacerdotium.

La consegna delle insegne regali ribadì il parallelismo con il potere

imperiale: corona, tiara, scettro e pomo erano infatti i simboli dell’Imperium, il

supremo potere temporale da esercitare in difesa della Chiesa e contro i suoi

nemici. La solenne consegna di tali insegne regali, realizzate per l’occasione

quale segno di grazia speciale della Sede Apostolica, fu una chiara affermazione

del ruolo di mediazione svolto dal pontefice quale dispensatore e consacratore

dell’autorità temporale. Il pontefice si presentava infatti come vicario di Colui

attraverso il quale re e principi esercitavano il proprio potere, come annunciato

nei Proverbi.

Al cospetto di san Pancrazio, protettore dei giuramenti, Pietro II giurò

solennemente di impegnarsi nell’obbedienza alla Chiesa, nella difesa dei suoi

diritti e nella lotta contro l’eresia, mettendo in che il sovrano aragonese avrebbe

in seguito violato il giuramento, schierandosi contro i crociati di Simone

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60 F. Massetti, Ritualità ed immagini

Montfort nella battaglia di Muret (1213), ove avrebbe trovato la morte. Tale

circostanza non sembra comunque aver macchiato in modo indelebile la

memoria di Pietro II d’Aragona, dato che la sua incoronazione fu

successivamente richiamata come esempio dall’Ostiense e da Egidio da Perugia

e, ad oltre tre secoli di distanza, fu rappresentata per volere di Pio IV (1559-

1565) nella solenne cornice della Sala Regia vaticana, luogo privilegiato

dell’autorappresentazione papale.

L’ultima parte della cerimonia di incoronazione del sovrano aragonese si

svolse nella basilica vaticana, dove il sovrano ricevette la spada e depositò

solennemente sull’altare il documento con il quale offriva a san Pietro il regno

d’Aragona e un censo di 250 mazmudins, chiedendo in cambio la protezione del

pontefice, apertamente riconosciuto come Vicarius Christi.

Benché la cerimonia di incoronazione non si sia stata una vera e propria

investitura feudale, il pontefice ne uscì senz’altro rafforzato sul piano ideale. Le

conseguenze andarono ben oltre il regno d’Aragona, poiché attraverso

l’incoronazione di Pietro II la Chiesa Roma raggiunse idealmente l’apice della

sua influenza sui poteri secolari, orientandoli verso la propria concezione della

Cristianità come un unico corpo le cui membra facevano capo al pontefice,

vicario di Cristo, da cui promanava ogni autorità e dignità.

Nella quarta ed ultima sezione abbiamo considerato l’uso delle opere

artistiche al fine di rappresentare la dignità e l’autorità del pontefice. La prima

opera è un antepedium nel quale sono raffigurati il Salvatore, la Vergine, San

Giovanni Battista San Pietro e Costantino. Vi trovano espressione alcuni dei più

temi cari al magistero di Innocenzo: il primato petrino, l’eredità costantiniana e

l’enfasi sull’altare e i suoi sacramenti.

La seconda opera, che costituì la principale committenza artistica di

Innocenzo III, è il mosaico dell’abside lateranense, attestato da disegni realizzati

prima della sua distruzione, avvenuta in occasione del rifacimento della basilica

vaticana alla fine del XVI secolo. Nel registro superiore vi è raffigurato Cristo in

maestà, ai lati del quale si trovano, in posizione adorante, Pietro e Paolo. Nel

registro inferiore si trova un vero e proprio hapax iconografico: ai lati dell’agnus

Dei sono raffigurati Innocenzo III e la personificazione dell’Ecclesia Romana. Il

pontefice è rappresentato nella sua “plenitudo potestatis”, espressa dalla

compresenza della tiara, simbolo del potere temporale, e dal pallio, simbolo

della pienezza dell’autorità pontificale.

Particolarmente interessante è poi la figura dell’Ecclesia Romana, giacché la

chiavi raffigurate nel suo stendardo rappresentano la “potestas ligandi ac

solvendi” della Chiesa di Roma. Potrebbe sorprendere la presenza dell’Ecclesia

Romana e non di Innocenzo III al di sotto di san Pietro, ma ciò si può

comprendere bene se si rinuncia a vedere nel mosaico una semplice

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glorificazione del potere papale. Come ha ben mostrato padre Boyle, nel

mosaico trova espressione l’altissima concezione del papato come servizio

apostolico. Innocenzo III ha infatti ereditato la guida della Chiesa soltanto in

virtù della sua unione con l’Ecclesia Romana, detentrice dell’eredità petrina.

Inoltre il pontefice è erede del solo Pietro in relazione al primato, ma di

entrambi i principi degli apostoli in relazione alla predicazione della retta

dottrina.

L’iscrizione posta al di sotto del mosaico proclamò la basilica petrina

«mater cunctarum ecclesiarum». Così Innocenzo III, forte assertore del primato

petrino e già fiero canonico di san Pietro, elevò la basilica Vaticana al rango di

cattedrale, al pari della basilica Lateranense. La Chiesa Romana ebbe così due

sedi stabili, una legata al primato di Pietro, l’altra all’eredità costantiniana,

testimoniando la pienezza dei poteri del pontefice.

Giunti al termine del nostro contributo, speriamo di essere riusciti a

illustrare in modo sufficientemente chiaro la straordinaria efficacia con la quale

Innocenzo III seppe far uso di un articolato apparato di immagini e rituali al

fine di sostenere e rafforzare le sue profonde elaborazioni teoretiche sul primato

petrino, augurandoci che in futuro le grandi possibilità offerte in tal senso dai

Gesta Innocentii III possano ispirare ulteriori approfondimenti.

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67 M. Parigini, La nuova peste

Ser Tommaso, Ser Pietro e il “mal francese”.

Testimonianze sull’insorgere dell’epidemia luetica in Italia agli esordi

dell’età moderna. Sintomi e cure (1)

di Marco Parigini

“Qualunque origine geografica si voglia attribuire alla sifilide, non c'è dubbio,

che furono i soldati e i mercenari francesi, spagnoli, svizzeri, tedeschi, i veicoli

del germe del Rinascimento, il Treponema pallido2”. Questo è ciò che afferma

Eugenia Tognotti3, il cui lavoro L’altra faccia di Venere, rappresenta uno dei testi

più importanti sull’impatto che il morbo ebbe in Italia.

Allorché, nel 1494, Carlo VIII percorse la penisola da nord a sud, per

rivendicare il proprio diritto dinastico sul Regno di Napoli, circa 60.000 soldati

e mercenari invasero la penisola, seguiti da centinaia di prostitute. Nonostante

le diverse reazioni che tale calata produsse, nella frammentata realtà politica

dell'epoca non furono pochi coloro che videro nell' evento un segno

dell'imminente Apocalisse4, confermato inoltre, dal dilagare di un morbo

sconosciuto, la sifilide, spaventoso come la lebbra, ma ancor più ripugnante e

causa di vergogna, prima che di sofferenza, poiché connesso alla pratica

sessuale.

1 La seguente trattazione costituisce una rielaborazione e al tempo stesso un approfondimento

della tesi triennale, redatta dal sottoscritto, dal titolo Il ”mal francese” in Italia tra il Quattrocento e

il Settecento, sostenuta presso il Dipartimento di Storia, Culture, Religioni, della Sapienza

Università di Roma, nella sessione di Marzo 2013, relatore Renata Ago. 2 E. Tognotti, L'altra faccia di Venere, Sassari, 2006, p. 30. 3 Eugenia Tognotti è professore ordinario della facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università

di Sassari, collaboratrice dell' Institut de l’Histoire de la Médecine et de la Santé di Ginevra,

collaborating center dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ed autrice, inoltre, d’importanti

testi di storia della medicina. 4 J. Arrizabalaga, J. Henderson, R. French, The Great Pox. French Disease in Renaissance Europe,

Yale, 1997, pp. 39-44.

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68 M. Parigini, La nuova peste

Fu proprio nell’accampamento di Fornovo, un villaggio sul fiume Taro,

dove si svolse la battaglia tra i resti dell’esercito di Carlo VIII di ritorno da

Napoli e le forze congiunte delle truppe spagnole e degli Stati italiani, che il

medico militare veneziano Marcello Cumano osservò quello che pare sia stato il

primo caso noto, o quantomeno registrato e diffuso, di pustole genitali5,

lasciandone questo ricordo:

Pustulae sive vesicae epidemiae. - 1495 in Italia ex uno influxu coelesti, dum me recepi in castris

Navarrae (Novarae) cum armigeris Dominorum Venetorum, Dominorum Mediolanensium,

plures armigeri et pedestres ex ebullitione humorum me vidisse attestor pati plures pustulas in

facie et per totum corpus, et incipientes communiter sub praeputio vel extra praeputium, sicut

granum milii, aut super castaneam (glandem), cum aliquali pruritu patientis. Aliquando

incipiebat pustula una in modum vesiculae parvae sine dolore, sed cum prurito, fricabant, et

inde ulcerabatur, tamquam formica corrosiva (serpigo exedens), et post aliquot dies incurrebant

in angustiis propter dolores in brachiis, cruribus pedibus, cum pustulis magnis. Omnes medici

periti cum difficultate curabant. Ego cum flebotomia in saphena, aliquando in basilica,

procedebam cum digerentibus, purgantibus, tandem unctionibus in locis necessariis, et

durabant pustulae super personam, tanquam leprosam, variolosam, per annum et plus, sine

medicinis. 6

Di lì in poi la sua diffusione a livello europeo divenne inarrestabile e

rapidissima, seguendo i così detti ”soldati di ventura”, o almeno i fortunati

sopravvissuti, nel loro ritorno in patria7. In Europa la Francia meridionale è la

prima ad essere colpita, Lione nel marzo del 1946, Besançon in aprile, Parigi in

autunno; le Fiandre e l’Olanda sono raggiunte nel 1496, l’Inghilterra, la Scozia e

la Germania nel 1497, l’Ungheria nel 1499, la Danimarca nel 1502. Alla fine del

XV secolo, tutta l’Europa e il bacino del mediterraneo sono colpiti8.

È poi rilevante che non pochi autori, alla ricerca del “paziente zero”, lo

abbiano individuato nel sovrano francese, responsabile dell'invasione e noto,

tra le altre cose, per i propri costumi sessuali piuttosto disinvolti9. In effetti egli

5 E. Tognotti, op. cit., pp. 37-38. 6 C.G. Gruner, “Aphrodisiacus, sive de lue venerea”, Jena, 1789, p. 52, in A. Corradi (a cura di),

Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime memorie fino al 1850, Bologna, 1973, p. 351. 7 E. Tognotti, op. cit., p. 37. 8 M. Grmek, Storia del pensiero medico occidentale, Roma Bari, 1993, p. 443. 9 “Attesa la maniera licenziosa nella quale visse il monarca, è molto probabile che la sua

malattia fosse di tutt'altro genere e quella in conseguenza che dopo alcuni mesi cominciò a fare

guasto in tutta Italia e di lì si sparse in Europa, sarebbe d'origine reale e dovrebbe riferirsi a

quest'epoca”, in W. Roscoe, La vita e il pontificato di Leone X, Vol. I, traduzione del conte Bossi,

1816, p. 221. Tra gli autori che fecero riferimento al nuovo morbo, in relazione allo stato di

salute del sovrano francese, vi è anche Jean Molinet, storiografo ufficiale del ducato di

Borgogna, il quale scrive ironicamente che durante la campagna italiana il re “alla fine

conquistò la grosse vérole, una malattia violenta, orribile e abominevole dalla quale anche lui fu

colpito; e molte delle sue genti ritornate in Francia ne furono dolorosamente oppresse; ed

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69 M. Parigini, La nuova peste

si ammalò subito dopo l'entrata ad Asti ma, molto probabilmente, di una forma

peraltro leggera di vaiolo10.

Quindi il collegamento con la presenza delle truppe di Carlo VIII fu in

Italia del tutto immediato e, con ogni probabilità, corretto. Non a caso, la

malattia ottenne presto il soprannome di “mal francese”, e coloro che la

contrassero di “infranciosati” o “baroni di Francia”11, tuttavia, i francesi furono i

soli ad essere ritenuti portatori primi del male, almeno in Italia, senza che si

considerasse la reale eterogeneità che caratterizzava la composizione delle

truppe mercenarie discese nella penisola. O almeno questo fu ciò che avvenne

nei nostri territori. Dal canto loro, i francesi si riferivano alla malattia come al

“mal de Naples”12, avendola contratta proprio nel Mezzogiorno italiano. In

effetti, tanto gli italiani che i francesi, oltre a non aver chiaramente alcun motivo

di rivendicare i natali di un morbo tanto orribile, avevano registrato un dato

chiave: il contagio su larga scala era avvenuto sul suolo italiano in occasione

dell'invasione francese. Numerosissimi uomini e donne di origini disparate, che

si erano trovati a sostare, a vivere, per anni nei medesimi territori, con contatti

di varia sorta ed innegabile promiscuità sessuale, avevano favorito la

deflagrazione del flagello.

Ma soltanto francesi o napoletani i responsabili della diffusione della

nuova peste? E perché non altri ancora? Allo stato dei fatti, tra i soldati che

approdarono a Napoli non mancavano gli iberici che erano giunti al seguito di

Consalvo di Cordova, inviato nel regno italiano dai Re cattolici, i quali avevano

aderito alla lega anti-francese, nata il 31 marzo del 1495 a Venezia e alla quale

avevano aderito anche Massimiliano I e il Papa. E in effetti erano stati gli

spagnoli ad aver da poco conquistato il Nuovo mondo, precisamente dal quale,

secondo alcuni, era stato importato il male, prima di allora sconosciuto nel

Vecchio continente, e poi introdotto in quel crocevia di umanità che era la

penisola italiana, appunto dall'esercito comandato da Consalvo.

Tant’è che, sebbene non suffragata da alcun documento redatto da

europei, l’ipotesi non può essere esclusa allo stato degli studi. Anzi, è molto

essendo questa grave pestilenza sconosciuta prima del loro ritorno, essa fu chiamata malattia di

Napoli”. Si veda C. Quetel, Il mal francese, Milano, 1993, p. 17. 10 E. Tognotti, op. cit., pp. 32-33. 11 Nel suo poema Franceide, overo del mal francese. Poema giocoso, edito a Venezia nel 1629, Giovan

Battista Lalli, narra come Giunone, invidiosa del favore di cui la rivale Venere gode presso gli

umani, invii il male ai suoi estimatori: francesi ed italiani. Essi decidono chi tra loro debba

essere ritenuto responsabile del contagio, sfidandosi a Barletta; è proprio a seguito della vittoria

italiana che la spaventosa malattia viene identificata con il nome di 'mal francese', a scapito dei

perdenti, ma non certo con grande ristoro dei presunti vincitori. Si veda A. Tosti, Storie all'ombra

del mal francese, 1992, p. 17. 12 C. Quetel, op. cit., p. 18.

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70 M. Parigini, La nuova peste

probabile che proprio le truppe spagnole abbiano introdotto la sifilide in Italia,

provocandone la diffusione di massa una volta ritiratesi le milizie13.

Non ha in effetti dato frutti la tesi di coloro che hanno cercato, tra il XIX

secolo ed il successivo, di dimostrare che la malattia fosse esistita in Europa,

anche in epoca precolombiana14, riesumando ossa europee sepolte prima degli

anni Novanta del Quattrocento, e cercando sulla loro superficie e sui denti

tracce delle lesioni attribuibili alla lue15.

Simili investigazioni, per la verità, erano state tentate anche all’epoca dei

fatti, o poco più tardi, e non soltanto tra i resti umani: fra gli altri, il decano della

Facoltà di Medicina di Parigi, Guy Patin (e non fu l’unico) giunse a scomodare il

testo biblico. Nelle sacre scritture, infatti, si narra di una malattia che affliggeva

Giobbe con ulcere e dolori notturni alle ossa16, e che dunque sarebbe stata ben

più remota della conquista spagnola. Da ciò l'espressione diffusa di “mal di san

Job” o “lebbra di san Job”17. Proprio a questo si dovette il notevole intensificarsi,

in quegli anni, del culto che riguardava il personaggio biblico, al quale, per tale

motivo, furono dedicati molti dei primi ospedali sorti sul territorio italiano.

Il riferimento alla lebbra non può di certo apparire strano per un'epoca

travagliata da un male sconosciuto, ma ancora memore dell'altro temibile

morbo, allora in fase di scomparsa in Europa. Inoltre non era infrequente che le

due malattie venissero confuse nelle loro manifestazioni cutanee, e ad ogni

modo erano entrambe segno del peccato e manifestazione inconfutabile della

punizione divina. Come osservano Naphy e Spicer, autori dell’opera Plague.

Black Death and Pestilence in Europe, l'ipotesi, abbastanza diffusa, che la sifilide

non fosse altro che un nuovo tipo di lebbra, “aveva il grande vantaggio di

permettere una facile classificazione della malattia e, presumibilmente, di

curarla”18.

Tuttavia il legame con l'attività sessuale risultava maggiormente evidente

per quanto riguardava un morbo la cui prima manifestazione avveniva nell'area

genitale. Questo, comunque, non deve far pensare che fosse da subito del tutto

chiara la natura venerea della malattia alla scienza medica del tempo, ma

piuttosto che essa fosse sovente interpretata come sintomo dell'indecenza

sessuale della sua vittima. Si consideri infatti che “si presumeva che la sifilide

13 J. Arrizabalaga, J. Henderson, R. French, op. cit., 1997, p. 16. 14 B.J. Baker, G.J. Armelagos, The Origin and Antiquity of Syphilis, in «Chicago Journals», vol. 29,

n. 5, 1988, p. 720. 15 C. Quetel, op. cit., pp. 50-51. 16 Ivi, pp. 47-48. 17 E. Tognotti, op. cit., pp. 48-49. 18 W. Naphy, A. Spicer, Plague. Black Death and Pestilence in Europe, Stroud, 2004, ed. consid.,

Bologna, 2006, p. 144.

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Eurostudium3w gennaio-marzo 2014

71 M. Parigini, La nuova peste

non potesse trasmettersi attraverso il sesso lecito (cioè quello tra persone

sposate)”19.

Francisco Lopez de Villalobos, nel 1498, fu il primo ad ipotizzare che

quello sessuale, totalmente inteso, fosse il canale principale di trasmissione de

“las bubas”, termine con cui egli si riferisce alla malattia, a partire dai suoi

sintomi più evidenti20.

Mal francese e Belpaese

Seppure si possa affermare con relativa sicurezza che il 1496 rappresentò l’anno

nel quale si registrò il picco del contagio in Italia, è al contrario assai arduo

stabilire il percorso e le direttrici della sua diffusione, in particolare a causa

delle difficoltà di reperimento di fonti attendibili. Sembrerebbe che il morbo si

sia propagato contemporaneamente in numerose città attraversando la penisola

secondo l’asse sud- nord, ovvero da Napoli a Roma e quindi l’Italia centrale, la

Lombardia ed infine il Veneto, nel triennio 1495-9821. Quel che si deve inoltre

notare è come in molti centri accanto al definizione “mal francese” ne ricorrano

altre come “mal delle tavelle” a Genova, “mal delle bolle” a Bologna e “mal

delle brofole” in Lombardia22.

Nel 1530 la malattia acquisisce il nome con cui è ancora nota, sifilide,

mutuandolo da quello di Sifilo, il pastore protagonista del poema Syphilis sive de

morbo gallico, scritto dal medico e letterato Girolamo Fracastoro23. Merito

dell’intellettuale padovano non è solo di aver fornito un nome alla malattia ma

anche, e soprattutto, quello di aver cercato di spiegare come il male riuscisse a

contagiare altre persone, fuoriuscendo dal corpo del malato, e ciò attraverso i

“seminaria”, particelle che nascono per generazione spontanea, materia viva e

animata da movimento, che penetra nell'organismo attraverso la respirazione

(quindi tramite l'aria, come accennato) o la dilatazione venosa e si fa strada

“attraverso i pori, e le vene e le arterie, in altre maggiori e da queste in altre,

spesso fino al cuore”24. Non di meno, riguardo il morbo luetico, l'autore ci dice

che può essere trasmesso per contatto diretto “ma non dopo ogni contatto né

rapidamente, ma solo se due corpi con mutuo contatto si riscaldano moltissimo,

19 Ivi, p. 145. 20 A. Roccasalva, Fracastoro medico, astronomo e poeta nella cultura del Cinquecento italiano, Genova,

2008, p. 37. 21 E. Tognotti, op. cit., p. 42. 22 L. Premuda, Da Fracastoro al Novecento, Venezia, 1996, pp. 37-38. 23 C. Quetel, op. cit., p. 61. 24 G. Fracastoro, in S. Ferrari, Il pensiero scientifico di Girolamo Fracastoro nel De contagione et

contagiosis morbis, Padova, 1927, ed. consid. 1941, p. 12.

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72 M. Parigini, La nuova peste

il che avviene principalmente nel coito per mezzo del quale la maggior parte

degli uomini fu infetta”25.

Infatti, mentre nel momento della deflagrazione del morbo luetico non è

del tutto immediata la deduzione della sua natura venerea, questa è ormai

quasi universalmente accettata quando Girolamo Fracastoro redige il suo

trattato sul contagio e prova ne è il brano sopra citato, estrapolato appunto dal

De contagione. Come fa notare Conforti26, è ragionevole sostenere che proprio la

sifilide, così evidentemente connessa con i rapporti sessuali, avesse contribuito

al superamento almeno parziale, della teoria medica circa le epidemie, per la

quale esse erano causate dalla “mala aria” intrisa di miasmi, sprigionatisi dal

terreno o derivanti da fenomeni celesti.

Come si è detto, l'epidemia, che era del tutto nuova nel continente, lo

invase senza concedere requie alla fine del XV secolo. Anche se, solo pochi anni

dopo, agli inizi del XVI, alcuni medici, constatata una lieve attenuazione della

sua virulenza, già ne prevedevano la prossima scomparsa, che veniva

pronosticata per la fine del secolo. Per l’appunto Falloppio nel 1564 la

considerava pressoché sconfitta, mentre medici più accorti come Fernel

intuivano una sua persistenza nei secoli, sebbene in forma attenuata, a meno di

un cambiamento netto dei costumi sessuali27.

A differenza della relativa facilità con cui è possibile ricostruire dinamiche

di diffusione di epidemie come vaiolo e tifo, ben note e spesso identificate da

magistrati e responsabili di sanità dell’epoca, l’individuazione dei casi di sifilide

presenta spesso degli ostacoli, in primis la discrepanza temporale tra contagio e

comparsa dei primi sintomi. Tuttavia anche le manifestazioni iniziali della

malattia, come il sifiloma primario, venivano spesso confuse con quelle relative

ad altri mali ed in ogni caso cronisti e memorialisti del tempo ritenevano

opportuno segnalarne i casi solo nel momento in cui essa assumeva forma

epidemica, colpendo un gran numero di persone28.

Tornando alla seconda metà degli anni Novanta del Quattrocento, nelle

cronache di molte città italiane si comincia a trovare traccia del nuovo,

misterioso morbo. Tra le prime ad essere infettate, si hanno, nel 1495, Como,

Cremona, Brescia e Genova, da dove Monsignor Agostino Giustiniani scrive nei

suoi Castigatissimi Annales che la comparsa del flagello è sicuramente connessa

25 G. Fracastoro, “De contagione et contagiosis morbis”, traduzione in A. Pastore, E. Peruzzi (a

cura di), Girolamo Fracastoro tra medicina, filosofia e scienza della natura, Atti del convegno

(Venezia - Padova, ottobre 2003), Firenze, 2003, p. 79. 26 M. Conforti, G. Corbellini, V. Gazzaniga, Dalla cura alla scienza. Malattia, salute e società nel

mondo occidentale, Milano, 2011, p. 166. 27 C. Quetel, op. cit., pp. 60-61. 28 E. Tognotti, op. cit., 2006, p. 37.

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73 M. Parigini, La nuova peste

all’inondazione del Tevere, verificatasi proprio quell'anno29. Afferma infatti

Giustiniani “Anchora questo anno o vero pigliò piede una specie di malattia

non più nominata, quanto per ricordo di viventi, né più sentita de passanti. I

francesi la nominano male Napolitano, Spagnoli et Italiani Mal Francese. Noi

genovesi il nominiamo tavelle”30. Sempre nel 1495 il morbo tocca la Toscana,

giungendo inizialmente a Pisa, dove viene registrata nel Memoriale da Giovanni

Portoveneri, che lo indica come “un certo vaiuolo grosso”31. Nello stesso anno la

sifilide colpisce con particolare violenza Firenze, dove viene notata da Luca

Landucci e dallo storico Pietro Parenti, che la appella “rogna franciosa” e

ricorda come in quegli stessi anni “in quasi tutte le parti del mondo si

distense”32. A gennaio è registrata dal Landucci la presenza in città del capitano

francese d'Aubigny (luogotenente di Carlo VIII), anch'egli vittima del morbo,

durante la campagna contro Ferdinando33.

Nel 1496, esattamente il 16 gennaio, la lue è registrata anche a Napoli da

Tommaso da Catania, il quale indica la data precisa del suo ingresso nella città:

il 16 gennaio. Degna di nota è anche l'indicazione dell'arrivo del male a Ferrara,

nel 1496, fornita dall'annalista Fra' Paolo Lignago. Egli, infatti, non manca di

sottolineare che questo “provene per li homini che hanno a che fare con donne

immonde”34.

Nella sua Cronaca, lo speziale Jacopino De' Bianchi segnala la malattia a

Modena nel 1497, descrivendone i sintomi ed in particolare le orribili

deturpazioni che seguivano, tra le quali la lacerazione della cartilagine del naso

e dei tessuti del pene35 negli uomini. Ciò che rende inoltre interessante l’opera

del De' Bianchi è l’identificazione di un presunto itinerario che il male avrebbe

seguito nella sua propagazione: “A Roma e le circostanzie e per tutte le cità de

Roma sino a Modena e anche Reze, Parma e a mio parere veniva da verso

Napule”36.

Nel 1498 la lue è attestata in Sicilia dallo storico Antonio Amico37.

29 Ivi, pp. 37-39. 30 Agostino Giustiniano Genovese, vescovo di Nebbio, “Castigatissimi Annali”, Genova, 1537, in

E. Tognotti, p. 39. 31 Ibidem. 32 Ivi, p. 40. 33 Ivi, p. 42. 34 Ivi, p. 38. 35 J. Arrizabalaga, J. Henderson, R. French, op. cit., p. 26. 36 J. De' Bianchi, “Cronaca Modenese di Jacopino De' Bianchi, detto de' Lancellotti, Parma,

1861”, in E. Tognotti, op. cit., 2006, p. 42. 37 Ibidem.

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74 M. Parigini, La nuova peste

Un notaio con le “dogle”. Il Diario di Ser Tommaso

Allo stesso anno risale la testimonianza diretta di Tommaso di Silvestro, un

malato orvietano, che nel suo Diario d'Orvieto, iniziato già nel 1482, descrive la

sua esperienza, narrando i primi sintomi, dolori genitali e agli arti, seguiti dalle

“bruscialime”, croste che gli ricoprono il capo, ed infine dalle bolle tipiche della

malattia che lentamente compaiono su tutto il corpo38.

Come si è accennato poc’anzi, le Chroniche redatte in questo periodo sono

numerose e ricordano spesso l'epidemia luetica che colpì le comunità delle città

italiane sul finire del 1400. Tra tutte si è scelto di approfondire il testo del notaio

orvietano, in quanto in grado di offrirci la testimonianza diretta e personale di

un malato che osserva sul proprio corpo la comparsa degli orribili sintomi nel

momento iniziale della diffusione della malattia, quando ancora nulla si sa e si

sperimentano cure spesso dolorose e poco efficaci.

In via generale, Ser Tommaso tratta nel suo diario degli avvenimenti

macroscopici e microscopici che interessano Orvieto tra il 1482 ed il 1503,

raccontando morti, matrimoni, litigi, duelli, impiccagioni insieme ai periodi di

carestia, e i frequenti passaggi delle truppe straniere che attraversano la

Penisola sul finire del XV secolo per ordine di Carlo VIII.

In merito ai decessi, questi vengono elencati minuziosamente e in

particolare, quando le cause di morte sono malattie come la peste o il “mal

francioso”, i nomi dei defunti sono raggruppati al di sotto di un'intestazione che

indica il nome del morbo. Scopriamo così che la peste alle soglie del

Cinquecento continua a fare numerosissime vittime in Umbria39, mentre la lue,

probabilmente non ancora nel pieno della sua virulenza, uccide

sporadicamente. Lo stesso ser Tommaso si ammala al volgere del 1496 e torna

ad accusare sintomi violenti nella primavera del 1498.

Nell'autunno del 1496 il notaio scrive che “già era incomenzata la peste ad

pululare et anche uno male che se diciva mal francioso, et erane una grande

influentia intra la quale ad me me vennaro certe dogle, primo alle dinocchie,

alle feste de Natale dell'anno 1496, et da puoi, de jannaio, me caschò una grande

scesa”. Quindi ben presto si rende necessario ricorrere a “cinque sciloppi et una

presa de pillole”, nonostante i quali l'ammalato non guarisce, perchè più avanti

afferma: “me se scoprì certe dogle alla pronta della spalla mancha et per lo rene

38 J. Arrizabalaga, J. Henderson, R. French, op. cit., pp. 25-26. 39 Si vedano T. di Silvestro, Diario di Ser Tommaso da Silvestro, vol. I, Orvieto, 1503, ed. consid.,

Orvieto, 1891, pp. 64-73; pp. 82-83; pp. 87-88; pp. 99-100; pp. 109-130; p. 135; pp. 142-144; p. 190;

T. di Silvestro, vol. II, Orvieto, 1503, ed. consid., Orvieto, 1891, pp. 199-214; pp. 219-220; pp. 250-

252; pp. 255-257; pp. 259-261. T. di Silvestro, Diario di Ser Tommaso di Silvestro, Internet Archive,

Texts, 2011 ,

https://archive.org/stream/p5archiviomurato15fior/p5archiviomurato15fior_djvu.txt.

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75 M. Parigini, La nuova peste

et alle natiche. Et sì me duraro per fine at magie”40. Ser Tommaso non fa più

cenno alla sua malattia sino ai primi mesi del 1498, lasciando supporre una

momentanea scomparsa dei sintomi.

Ad aprile del suddetto anno, di ritorno da una fiera tenutasi a

Foligno,segnala una recrudescenza: “me incomenzò a dolere la verga, et da

puoi tuctavia omne dì cresceva lo male. Da puoi a dì octo de giugno me

incomenzaro ad venire le dogle del mal francioso. Et tucto lo capo me se impiè

de bruscialime, overo croste, come brusciate, et le dogle me vennaro allo braccio

dricto et allo mancho, adeo che tucto lo braccio, dalla spalla insino alla

congnuntura della mano, me dolivano l'ossa che non trovava mai riposo. Et da

puoi me vennaro le dogle allo dinocchio dricto, et ttucto me impiè de bolle,

tucto lo dosso di nante et derieto, adeo che, facta la festa del corpo, depo, io me

curai et medicinai et sanguinai”.

Il notaio, a questo punto, si sottopone al salasso e, assistito da un frate, tale

frate Oliviero, fa bagni immerso in essenze di erbe varie: “me lavò con un

bagnolo de vino et molte herbe come amaro, ruta, menta, trasmerino, lionoro,

salvia et altre herbe”. Nonostante un leggero miglioramento che permette al

malato di interrompere il periodo di letto ed iniziare nuovamente ad uscire di

casa, un ulteriore peggioramento del suo stato interviene nel giro di due

settimane: “Me rimase un grande male dentro alla bocca et da puoi, a dì XXIJ de

luglo, me venne un flusso che durò [lacuna] dì, del quale io me ne ebbe ad

morire. Et da puoi del mese di novembre me recomenzaro ad tornare le dogle

nella gamba, molto terribile”41. Ser Tommaso lascia supporre un netto

40 Ivi, pp. 86-87. Sulla natura e i sintomi del morbo come attualmente individuati si veda M.

Moroni, R. Esposito, F. De Lalla, Manuale di malattie infettive, Milano, 1994, pp. 490-493: la sifilide

si manifesta circa tre settimane dopo il contagio con un'ulcera pruriginosa di piccole dimensioni

nella zona genitale, che permane per circa un mese se misconosciuta. Segue la tumefazione dei

linfonodi inguinali, e dopo circa due mesi, un eritema rossaceo sul tronco e sugli arti, che poi si

organizza in pustole. Successivamente compaiono delle verruche bianche sulle mucose, spesso

accompagnate dalla caduta di capelli, febbre, stanchezza generale e mal di gola. Dopo circa 1-2

mesi, tuttavia, i sintomi regrediscono. La fase più drammatica, infatti, si manifesta dopo decine

di anni dal contagio, annunciata da placche gommose esterne (sulla pelle) e interne (sulla

superficie degli organi interni); possono comparire anche lesioni celebrali con conseguenti

paralisi e disturbi comportamentali irreversibili. La malattia pur avendo una storia naturale

severa, risponde bene alle comuni terapie antibiotiche e viene solitamente trattata con la

penicillina, che permette la guarigione senza reliquati nelle aree interessate se la cura viene

iniziata in tempo. Alla luce di tali dati scientifici, per le finalità del presente contributo è

importante sottolineare come la malattia presenti un lungo periodo di cessazione dei sintomi, il

che può spiegare il silenzio di Ser Tommaso al riguardo. 41 T. di Silvestro, op. cit., pp. 141-142. “As far as we know, this is the earliest and most detailed

account of the course of Mal Francese in Italy, drawn from the personal experience of a non-

medical man”, J. Arrizabalanga, J. Henderson, R. French, op. cit., p. 27.

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76 M. Parigini, La nuova peste

peggioramento, eppure questa è l'ultima occasione in cui il notaio scrive della

sifilide parlando della propria salute, mentre torna a nominarla più avanti come

causa del decesso di otto concittadini.

Nell'aprile del 1499, si riporta la morte di Agnilo d'Antonino, che “haviva

avuto male alla verga prima, ma de nove mese o forse uno anno et non ne guarì

mai, et de quello se disse che morì del mal francioso”42 e che, a differenza di ser

Tommaso, si ammala e muore nel giro di pochi mesi, senza alcun periodo di

miglioramento.

Nello stesso anno la sifilide uccide Machteio da Riparola, di cui tuttavia

l'autore non dice nient'altro43, mentre si dilunga, invece, sulla tremenda sorte

del giovane Cesare, figlio di Eusebio dell'Avedute, che “era stato male un anno

e mezo o circa de decto male, quale fu terribile, de piaghe grandissime nella

faccia per tucto, come se vediva, et nella mano, et anque credo, per tucto lo

dosso e nella verga, in tal modo che se morì”44. Come lui, nel gennaio del 1500,

muore Tradito de Nanne45. A marzo dello stesso anno vengono uccisi dal “mal

francioso” ser Michelagnolo, figlio del canonico di Santa Maria, Paulo

Dispenza, Madonna Margherita e Madonna Lucrezia46, uniche due donne

vittime della lue, di cui ser Tommaso faccia menzione.

L'ultimo sifilitico ricordato dal notaio orvietano è Salvestro de Andrea del

Calata, che muore nel 1503, dopo quattro anni di malattia “seccho, che pariva

uno legno”47.

Quindi il notaio documenta una comunità straziata dalla peste, ma ancora

poco colpita dal nuovo morbo che invece di lì a poco mieterà vittime per tutta la

Penisola. Tuttavia ser Tommaso non manca di segnalare puntualmente i casi di

contagio di “mal francioso”, così da farne constatare un'iniziale diffusione in

terra umbra.

Inoltre è opportuno tenere conto di un'altra questione strettamente

connessa con la malattia: il passaggio delle truppe straniere, che ovviamente

non manca di suscitare disagi e scalpore. Difatti, nel novembre del 1494, è

registrato l'arrivo di numerosi “uomini d'arme2 tra svizzeri e francesi, con

“qualche femine tedesche et franciose”48, nonché dello stesso Carlo VIII, che

però si ferma provvisoriamente a Viterbo. Tutta la città è in allarme: “adeo che lo

jovedì ad sera, ad dui hore de nocte andò un bando, che nisciuno andasse a

42 T. di Silvestro, op. cit., p. 157. 43 Ivi, p. 174. 44 Ivi, pp. 193-194. 45 Ivi, p. 194. 46 Ivi, p. 200. 47 Ivi, p. 359. 48 Ivi, p. 32.

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77 M. Parigini, La nuova peste

dormire, et che tucta la nocte se facesse buona guardia et cusì fu facto”49, infatti

“feciaro la dicta gente d'arme che passò per lo contado d'Orvieto, uno grande

dampno per tucta le castella” e “se pigliaro tucte quelli castelli intorno che

erano dell'Orsini, sì dellà dal Tevare, sì anche de quà, ed omna cosa misero ad

saccomanno”50.

È evidente la facilità con cui le truppe avanzano e conquistano, “quasi ad

modum senza colpo de spade”, come accade a Napoli, e ciò lascia credere a

molti, tra i quali lo stesso ser Tommaso, che essi facciano la volontà di Dio

anche perché “quello anno, overo questo anno, incomenzando dall'anno 1494 et

del mese de novembre, nel quale lo re de Francia comenzò ad venire verso el

Patrimonio, per fine al presente dì de ogie, che sonno a dì sey de marzo 1495,

sempre fu buono tempo quasi admodum et non piovette mai”51.

Nelle sporadiche occasioni in cui le armate incontrano una qualche forma

di resistenza nei loro spostamenti, non mancano di ricorrere alla brutale

violenza contro i cittadini. In particolare ser Tommaso ci offre testimonianza di

un episodio di notevole ferocia, che vede protagoniste le truppe svizzere di

strada per Orvieto, dove è appena giunto un cardinale ambasciatore del re: nel

giugno del 1495 centinaia di persone “intra donne, mammolette et molte

montanare, quale erano gite a mietere, et anche huomini della terra” tutti

“fuoro taglate ad pezze da Scvizzare et multe montanari fuoro ferite, delle quale

parte ne vennaro qua ad Orvieto et dissova essere stato cusì”52.

49 Ivi, p. 33. 50 Ivi, pp. 34-35. 51 Ivi, p. 37. 52 Ivi, p. 42.

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78 M. Parigini, La nuova peste

L’occhio del chirurgo. I 234 casi di Pietro Rostinio

Alla metà del 1500, il sospetto che ci deriva dalla lettura del testo sopracitato,

ovvero che i soldati di Carlo VIII fossero stati l’effettivo veicolo di trasmissione

del male lungo l’intero territorio della penisola italiana, è ormai assodato come

dato scientificamente certo da molti medici; uno tra i più importanti e noti è

Pietro Rostinio, nato a Pratalbonio, in provincia di Brescia, il quale apre il suo

trattato sulla malattia, edito nel 1559, con una breve introduzione, riguardante

l’origine del termine “mal francese” utilizzato per appellare la sifilide, nella

quale fa riferimento alla calata del sovrano francese, accennando inoltre ad una

presunta, splendida meretrice al seguito dei soldati francesi, che avrebbe

contagiato questi per via di “un'apostema putrefatta presente all’interno del suo

cavo orale, originando l'epidemia”53.

L’analisi di quest’opera, dal titolo Trattato del mal francese, in cui si discute

sopra 234 sorti di esso male & a quanti modi si può prender, causare, & guarire, e il

confronto di alcune informazioni in essa contenute con quelle estrapolate dal

diario di Tommaso di Silvestro ci permettono di evidenziare i cambiamenti

nelle conoscenze relative alla lue, avvenuti nell’arco di poco più di 50 anni,

nonché di sottolineare il differente approccio al male che emerge dai due scritti.

Infatti il più antico è produzione di un profano della medicina, l’altro invece di

un medico di grande fama.

Ser Tommaso si sottopone a diversi trattamenti sperando che questi lo

riconducano alla sanità: pillole e sciroppi, salassi e persino bagni aromatici

vengono utilizzati dal notaio in questa impari lotta contro il male allora

semisconosciuto. E nonostante la maggioranza delle volte tali rimedi paiano

essere inefficaci, non è da escludere che il notaio si ritenga comunque fortunato,

essendo risultato l’unico dei sopracitati sifilitici locali a resistere alla morte pur

ricevendo le stesse cure prestate agli altri ammalati. Infatti, pur senza trovare

un effettivo riscontro testuale, è ragionevole pensare che il trattamento clinico

fosse stato il medesimo per tutti.

Diametralmente diverso è l’approccio riscontrabile invece nel testo medico

tardocinquecentesco, in cui ogni sintomo osservato, studiato e catalogato, porta

con sé un diverso tipo di trattamento, che può variare a seconda di molti fattori

e condizioni. Per meglio fare luce su questo nuovo sguardo scientifico con il

quale si comincia ad osservare la malattia, si ritiene pertanto opportuno in

questa sede esaminare lo scritto stesso più approfonditamente. L’opera in

questione è suddivisa in tre parti fondamentali: una prima, in cui si tratta delle

53 Pietro Rostinio, Trattato del mal francese, dell’eccellente medico et dottore Pietro Rostinio, nel quale si

discorre sopra 234 sorti di esso male & a quanti modi si può prender, causare, & guarire, Venezia, 1559,

p. 21.

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79 M. Parigini, La nuova peste

234 possibili combinazioni dei vari sintomi della lue e si sviscerano le sue

caratteristiche peculiari relativamente all'origine e alle modalità di contagio;

una seconda, in cui vengono presentate le cure con cui affrontare il morbo; e

infine una terza consistente nell'esposizione di alcuni possibili quesiti circa l'uso

del “legno santo”, uno dei rimedi più popolari del tempo contro il male, e delle

relative risposte.

Già dal titolo si può intuire il radicale cambiamento nell’approccio al male;

infatti se sul finire del 1400 il morbo è praticamente sconosciuto, nell’arco di

poche decadi, il livello di conoscenza empirica arriva a livelli sorprendenti: solo

dal suddetto medico vengono individuate, durante la sua esperienza di cura, tre

forme base in cui la sifilide si manifesta “la prima delle quali ha pustole sole, e

cruste e questa si chiama rogna del mal francese, la seconda ha solamente dolori

e questa si chiama dolori del mal francese, la terza specie ha solamente tumori

durissimi e questa si chiama durezze galliche”54. Da esse deriverebbero quattro

ulteriori forme composite55: “rogna gallica con dolori”, “rogna gallica con

durissimi tumori”, “dolori gallici con durissimi tumori in più parti della

persona” e “rogna gallica con dolori e tumori”.

Nuovi e spaventosi sintomi vengono registrati come indicatori della

presenza del male nel corpo della persona, quali perdita della vista, perdita di

capelli e peli sull'intera superficie del corpo e caduta delle unghie e dei denti,

che, combinandosi con quelli precedentemente enunciati, danno vita a specie

estremamente complesse di lue, che Rostinio elenca, indicandone sempre quella

semplice, da cui derivano56. Dunque “Saranno (...) duegento e trentaquattro

specie, ouero modi di mal Francese, otto semplici, uent'otto per complicatione

di due semplici modi insieme, e cinquanta sei per complicatione insieme de tre

modi, e sessantaquattro per complicatione de quattro modi insieme, e

quarantasette per complicatione de cinque semplici modi, e uentidue per

complicatione de otto modi, e e otto per complicatione de sette semplici modi, e

uno solo modo per complicatione de tutti li otto modi insieme. Se uoi sumare,

saranno duegento e trentaquattro modi”57.

Il medico veneziano cerca inoltre di spiegare al lettore come il male possa

aver avuto origine e come abbia avuto una rapidissima propagazione. Si è detto

in precedenza, per quanto attiene alla vasta diffusione della sifilide nell’Italia

cinquecentesca, che alla metà del secolo la scienza medica ormai la imputava

prevalentemente all’atto sessuale in generale e cosi anche lo stesso Rostinio in

particolare che, come visto accenna anche ad una sorta di figura archetipica di

54 Ivi, p. 10. 55 Ivi, p. 11. 56 Ivi, pp. 11-17. 57 Ivi, p. 18.

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80 M. Parigini, La nuova peste

una “publica meretrice bellissma”, a causa della quale “questo male cominciò a

macular prima un’huomo, poscia due, et tre, et cento” seminando poi il male

per tutta la penisola58.

Circa le cause originarie che sarebbero state alla base dell'insorgere della

patologia fino ad allora sconosciuta, però, il medico veneto prende le distanze

dalle diffuse interpretazioni che vogliono la lue causata dai moti di Saturno o

dall'indignazione divina. Responsabile dell'originarsi della sifilide, scrive il

medico, “potè ben essere Saturno, qual'è giudicato pessimo pianeta, ma potero

anco esser gli altri insieme. Basta che per influentia, lume et moto, l'aere fu mal

disposto da' corpi celesti”59. Dunque non è l'anomalo corso del detto pianeta a

generare da solo le condizioni per l'insorgenza di una nuova malattia, bensì, più

probabilmente, un generale insolito allineamento celeste, che provoca una

“mala disposizione dell'aere”60 e conseguentemente eccessiva pioggia,

straripamenti e innalzamento dell'umidità, causa diretta di mali fino ad allora

mai esperiti, almeno a memoria d'uomo. Prendendo per certa, a differenza di

molti colleghi61, l’ipotesi che questo male mai si fosse presentato in precedenza,

scrive il medico: “Noi dicemo che ‘l mal francese è male nuovo, di cui niuno

giammai fece mentione, ne lo conobbe mai se non a questi tempi. Ma è cosa

manifestissima che li generan nuovi mali, come si può vedere negl’ historici, i

quali dicono che molte volte si son generati nuovi mali, i quali dinanzi mai

furono visti ne pensati”62.

Inoltre, a proposito dell’altra tesi che aveva ottenuto largo seguito al

tempo, ovvero quella che faceva derivare la diffusione della sifilide dall’ira di

Dio dovuta al presunto decadimento dei costumi sessuali, Rostinio si interroga

con grande libertà intellettuale sulla sua attendibilità, chiedendosi: “se questa è

la punizione divina, perché mali così o ben peggiori non castigano assassini e

ladri?”. E ancora: “ma i bambini che nel ventre materno pigliano il contagio, che

colpa hanno?”63.

58 Ivi, p. 21. 59 Ivi, pp. 18-19. 60 Si è già visto come tale presunta putrefazione dell’aria dovuta ai moti celesti, sia considerata

probabile causa dell’epidema luetica dallo stesso Fracastoro. 61 Tra i medici più autorevoli che ritenevano impossibile che la sifilide non si fosse mai

manifestata prima della fine del Quattrocento vi era Niccolò Leoniceno; il fondamento di tale

teoria sta nella convinzione che “la sapienza dei Greci non poteva che rappresentare un vertice

inattingibile, che ai moderni era solo dato recuperare, non modificare o arricchire”, cosicché

sostenere che tale morbo fosse prima di allora sconosciuto, avrebbe significato minare in

qualche modo l'autorità della scienza greca. Ovviamente vi erano anche numerosi uomini di

scienza convinti del contrario. Si veda M. Conforti, G. Corbellini, V. Gazzaniga, op. cit., p. 164. 62 P. Rostinio, op. cit., p. 20. 63 Ivi, p. 22.

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81 M. Parigini, La nuova peste

Il medico chiude poi questa sezione passando in rassegna le parti del

corpo che possono fungere da accesso del virus nel momento del contagio,

quindi organi genitali, cavità orale e, nel caso specifico della donna, le

mammelle, ed osservando infine che, pur essendo la malattia potenzialmente

letale, di fatto raramente uccide: “Il mal Francese pochi ne ammazza, tamen può

ben ammazzare”64, e quando accade che pazienti malati da lungo tempo

muoiano ciò è prevalentemente imputabile al logoramento fisico che il male

comporta, motivo per cui «facilmente si cade in altri mali”65.

Con approccio precocemente scientifico: sintomi, diagnosi e rimedi

Nella seconda parte del libro, la più cospicua, dal titolo Curatione del mal

Francese quando comincia66, Rostinio espone con chiarezza tutti i rimedi che a suo

parere sono da somministrare in caso di contagio luetico: le cure sono per la

gran parte a base di piante e fiori, sotto varie forme di estratti, polveri, sciroppi

o anche purghe, i quali, dopo lo stadio iniziale, sono sostituiti da pratiche più

serie, come il salasso o le unzioni mercuriali, a seconda delle condizioni del

paziente.

Tutte le cure erano poi da diversificare a seconda del paziente. Sulla base

della teoria umorale di derivazione ippocratica, infatti, dall’umore di una

persona dipendevano non solo i medicamenti da applicare, ma anche la stessa

probabilità di contrarre il morbo o, al contrario, di scampare il pericolo67.

Due trattamenti erano universalmente riconosciuti validi e apprezzati

dallo stesso Rostinio, ossia le unzioni mercuriali68 e il decotto di guaiaco, un

arbusto importato fresco o essiccato dalle Americhe. Il medico indica con

precisione i metodi di preparazione69 ed i momenti di assunzione70 e di

64 Ivi, p. 28. 65 Ibidem. 66 Ivi, p. 30. 67 “… i melanconici… han i corpi più densi, che non sono atti a ricevere, il che avvenne, perché

egli havea la carne più densa et le vie del corpo erano serrate”, P. Rostinio, Trattato…, cit., p. 30. 68 Prima di effettuare le unzioni - ivi, p. 51 - si suole applicare delle garze o cerotti ottenuti

mescolando argento vivo (altro termine con cui ci si riferisce al mercurio), essenza di storace,

terìaca (un elettuario, ovvero sciroppo, a base di numerose sostanze naturali) con cera e resina

di pino; essi vanno posti sulle caviglie, sulle ginocchia, sulle cosce, sulle mani, sui gomiti e sulle

spalle per tre giorni, e poi cambiati. Il composto più comune per le unzioni viene preparato

utilizzando burro fresco, colofonia, olio di alloro, cinabro, mercurio depurato, litargirio d'oro e

sale. Tuttavia il medico bresciano ne consiglia tre varianti: una per autunno e primavera, una

per l'estate ed una invernale. 69 Il primo decotto semplice, spiega sempre Rostinio, si ha lasciando bollire una libbra di

polvere, ottenuta grattando il legno con una lima, in dodici libbre d'acqua per un'intera

giornata; da ciò che rimane in pentola, dopo aver filtrato il liquido prima della

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82 M. Parigini, La nuova peste

applicazione71, che andavano rispettati tassativamente al fine di garantire il

buon esito della terapia.

In conclusione, grazie a queste due preziose testimonianze è possibile

prender nota prima di tutto di un dato fondamentale: in poco meno di

sessant’anni dalla prima comparsa, il veicolo di trasmissione era stato scovato,

mentre la certezza che questo fosse stato l’esercito di Carlo VIII in calata su

Napoli era assunta come dato comprovato.

Dalle pagine sopra analizzate è poi deducibile l’apparente e inquietante

cambiamento dei sintomi del male, sicuramente inaspriti nelle loro

manifestazioni. Infatti, se in entrambi i testi il morbo luetico viene descritto

come caratterizzato da “dolori grandissimi”72, piaghe e croste di ogni genere,

che in realtà oggi sappiamo essere il risultato di un normale decorso di

un’infezione non trattata, si rintracciano nel testo del Rostinio altri quattro

sintomi sconvolgenti, di cui egli, verso la conclusione del suo Trattato73, ci parla

in modo approfondito. Il primo, chiamato nel testo “pellarola”, è imputato agli

“humori che putrefacciono le radici de' capelli” e si accompagna a prurito, come

avviene con l'alopecia; in questo caso il paziente va quasi completamente

rasato, per poter applicare sulla superficie interessata un preparato di issopo,

lavanda, mirra e aloe. La medesima “materia” infetta che causa la perdita dei

capelli, se raggiunge le gengive, provoca la caduta dei denti, “dentarola”, che

per essere curata necessita dell'immediata somministrazione del decotto di

guaiaco. Eventualità più rara è quella dell “unghiarola”, che richiede

l'intervento con purghe e con lavande delle dita mediante unguenti a base di

mirtillo, acacia, coralli bianchi, mastice e incenso. La temutissima perdita della

somministrazione, si deve poi ricavare un secondo liquido con minore concentrazione della

sostanza. Accanto a quella del decotto semplice, nel testo sono esposte anche la ricetta per

ottenere una “decottion composita”, che prevede l'aggiunta di borragine, rose, viole, zenzero,

senna e canfora, e il decotto a base di vino, in cui le dodici libbre d'acqua sono sostituite da dieci

di vino bianco forte; queste due versioni del composto sono ritenute utili, in quanto dotate di

maggiori proprietà nutritive, poiché la quantità di cibo che il malato ingerisce durante la cura

deve andare progressivamente diminuendo fino al termine della somministrazione. Ivi, pp. 60-

63. 70 Il paziente dovrà assumere il primo decotto cinque ore prima del pranzo, bere il secondo

durante il pasto e di nuovo il primo cinque ore dopo la cena; tutto questo per quaranta giorni.

Ivi, p. 61. 71 Rostinio suggerisce di effettuare le unzioni per nove giorni, o al massimo dodici, se

necessario; e comunque diminuendo le dosi di mercurio nel preparato dopo il nono giorno. Al

termine del trattamento i pazienti devono immergersi in acque aromatizzate, nelle quali sono

state fatte bollire salvia, menta, ruta, rosmarino, rose rosse, fiori di camomilla e foglie di alloro;

in estate anche viole, mirtilli e noci di cipresso. 72 Ivi, p. 21. 73 Ivi, pp. 80-86.

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83 M. Parigini, La nuova peste

vista, o “occhiarola”, va invece trattata con il salasso tramite sanguisughe e

l'esposizione del malato a fumenti di viole, malva, meliloto e fieno greco.

La domanda però, si dice, sorge spontanea: come è possibile che questi

sintomi non fossero già apparsi nel momento della prima comparsa del morbo?

La risposta è semplice: confrontando i due testi, come si è già detto in

precedenza, si nota un cambiamento importante nelle cure che venivano

prestate ai soggetti colpiti dalla sifilide. Sciroppi e salassi, bagni aromatici e

pillole di precipitato di calcio (ad eccezione di quest’ultimo che nella meta del

500 era fortemente sconsigliato) sono comuni rimedi che vengono menzionati

da entrambi gli autori, ma all’epoca di Rostinio la scienza medica ha trovato un

altro “infallibile” rimedio per guarire gli infetti, il mercurio. E proprio qui sta il

punto.

In proposito è importante osservare che già allora alcuni dei

contemporanei del medico bresciano avevano messo in dubbio le capacità

miracolose di questo antidoto, tant’è che Rostinio si sente di dover rispondere

alle critiche, fondate soprattutto sulla considerazione dei danni che il mercurio

può causare al cervello. Piuttosto perentorio, l'autore del Trattato si limita a

controbattere con una domanda: “chi è quel medicamento che non noce ad

alcuna parte?”74.

Torneremo sul problema mercurio in seguito, analizzando ora aspetti che

sono al centro del dibattito contemporaneo circa il morbo luetico.

Nonostante sia piuttosto infrequente, quello di “mal spagnolo” sembra

l’appellativo più corretto; prima di tutto perché, come confermato da numerosi

studi, il male sembrerebbe essere stato contratto in prima istanza dagli

esploratori spagnoli approdati sull’isola d’Hispaniola, al seguito della

spedizione di Colombo del 149375. Infatti, proprio a Bajona, il porto dove nel

marzo dello stesso anno approdò la caravella comandata da Don Alonso Pizon,

si scatenò un intenso focolaio dell’infezione, così come a Barcellona, dove

ritroviamo il Grande Ammiraglio del Mare Oceano in persona offrire

solennemente le Americhe ai reali di Spagna. Dalla città catalana la malattia si

sarebbe poi diffusa nel resto d’Europa76. Tale tesi è inoltre avvalorata dalla

testimonianza del medico spagnolo Rui Diaz de Isla che, nel suo ˝Tractado contra

el mal serpentino que vulgarmente en España es llamado bubas˝, pubblicato nel 1539,

sosteneva di aver curato alcuni dei primi esploratori del nuovo mondo da un

morbo che “separa e corrompe la carne, e rompe e decompone le ossa, e

disgrega e contrae i muscoli”77. A ciò andrebbero poi aggiunti elementi

74 P. Rostinio, op. cit., 1559, p. 57. 75 G. Cosmacini, Presentazione, in E. Tognotti, op. cit., p. 14. 76 A. Tosti, op. cit., p. 19. 77 G. Benvenuto, Alle origini della sifilide, in «D&T-Diagnosi&Terapia», XVII, n. 4, 1997, pp. 13-19.

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84 M. Parigini, La nuova peste

riscontrati con moderne tecnologie sugli scheletri appartenenti a popolazioni

precolombiane rinvenuti nel territorio americano, che evidenziano lesioni ossee

riconducibili alla presenza del morbo nel periodo antecedente al 149278.

È pertanto probabile che quando la spedizione giunse in terra sicula,

composta da una flotta di sessanta galee e un piccolo esercito di seicento cavalli

e cinquemila fanti, i soldati spagnoli sotto il comando del celebre Corrado di

Cordova, fossero già portatori del germe79.

La società è sconvolta da questo morbo che lascia vistosi segni della sua

presenza, tanto da essere da molti giudicato assai più raccapricciante della

lebbra; innumerevoli sono coloro che imputano le cause dell’apparizione del

male alla decadenza dei costumi all’interno della cristianità, decadenza che

avrebbe poi scatenato la vedetta divina80. La comparsa della malattia comporta

in prima battuta considerazioni di tipo morale sul contagio, come si evidenzia

dalle pagine che il cronista comense Muralto nel 1495 dedicò alla sifilide:

“optime time dignoscebantur pudici ad impuris hominibus”. Tale male quindi

risparmiava i morigerati castigando invece gli impuri81.

Ci fu chi addirittura nel dilagare della pestilenza vide il chiaro segnale

della fine del mondo dovuta alla generale e dilagante corruzione dell’epoca,

come il protestante Joseph Grünpeck, storico dell’imperatore Federico III

d’Asburgo, che ne scrive in questi termini: “Quando percepite la miserevole

corruzione di tutta la cristianità, di tutte le abitudini encomiabili, delle regole e

delle leggi, lo squallore di tutte le classi, le molte pestilenze, i cambiamenti in

quest’epoca e tutti gli sconosciuti e strani avvenimenti, sapete che la fine del

mondo è vicina e le acque dell’afflizione scorreranno sull’intera cristinità”82.

Il cambiamento nella mentalità della società post-rinascimentale emerge

chiaramente dalle testimonianze di Ser Tommaso e di Pietro Rostinio. Colpisce

il fatto che manchino in entrambi richiami alla punizione divina per spiegare le

origini del contagio. A differenza di quanto ci si sarebbe aspettato da un uomo

del tardo XV secolo, nel diario del notaio orvietano ogni speculazione su origine

e diffusione viene elusa e l’attenzione si concentra sulla somministrazione delle

cure, mentre per il nostro medico cinquecentesco la chiave di volta per

comprendere scientificamente le modalità del contagio sta nel contatto sessuale.

Se per secoli si dibatterà sulle cause che portarono allo scoppio dell’epidemia e

alla sua veloce diffusione utilizzando le teorie più fantasiose, fino a farla

78 B.J. Baker, G.J. Armelagos, The Origin and Antiquity of Syphilis, in «Chicago Journals», vol. 29,

n. 5, 1988, pp. 711-719. 79 E. Tognotti, op.cit., p.34. 80 A. Tosti, op. cit., pp. 11-12. 81 Ivi, 12. 82 J.Grünpeck, “Historia Friderici et Maximiliani, 1512-15”, cit., in E. Tognotti, op. cit., p. 29.

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85 M. Parigini, La nuova peste

derivare dall’alimentazione con carne umana83, Rostinio riesce, come si è detto,

ad intuire sia il momento storico in cui essa compare, la fine del 400, sia la

modalità di propagazione, ovvero i rapporti sessuali .

La stessa teoria miasmatica, che vedeva la mala area al centro della

diffusione della sifilide, viene quindi, se non accantonata, quanto meno

ridimensionata nel peso che ha nell’analisi dello sviluppo della malattia stessa.

Se dunque Rostinio su aspetti come la teoria umorale rimane ancorato alla

tradizione, indubbiamente una innovativa mentalità scientifica è evidente in lui

e nel suo fare.

La catalogazione di sintomi e rimedi è più che meticolosa nella sua opera e

gran parte del Trattato è per l’appunto occupata da questo tipo di trattazione: ad

ogni sintomo corrisponde un rimedio ben specifico e l’eventuale comparsa di

nuovi segni, che per il medico indica un avanzamento o un regresso del male,

corrisponde ad un inasprimento o un cambiamento nelle cure da apportare; si

vedrà poi in conclusione, con l’analisi di alcune delle piante consigliate dal

medico, come esse effettivamente avessero proprietà molto spesso lenitive o

antiinfiammatorie, a dimostrazione dell’elevato livello di sapere scientifico

allora raggiunto, grazie solamente alla pura osservazione diretta.

Come si è visto, alla metà del Cinquecento, l’arma con cui si combatteva la

battaglia contro questo male era prevalentemente il mercurio, e si è inoltre

notato come sintomi terribili quali la caduta di denti, capelli, unghie e la perdita

della vista fossero apparsi solo in un secondo momento rispetto alla prima

comparsa del male. Tuttavia, alla luce di scoperte più recenti84, le manifestazioni

sintomatiche di cui si è detto risultano chiaramente individuabili come la

conseguenza di una prolungata esposizione a tale sostanza. Questo, come gli

altri metalli, ha infatti la capacità di legarsi con i gruppi –SH (idrosulfuri) delle

proteine e degli enzimi microsomiali, meccanismo d’azione che determina una

forma di tossicità sia acuta che cronica, e la stessa morte cellulare. Nei casi di

tossicità cronica gli effetti riscontrati comprendono tremori, debolezza

muscolare, alterazioni dei movimenti, danni renali, alla corteccia celebrale e al

83 L. Fioravanti, “Il reggimento della peste. Nel quale si tratta che cosa sia la peste, & da che

procede, & quello che doveriano fare i prencipi per conservar i suoi popoli da essa… Di nuovo

ristampato, corretto, & ampliato di diversi bellissimi secreti… in questa ultima impressione

aggiuntovi alcuni secreti dati in luce dall’Autore avanti la sua morte pertinenti alla materia del

Libro, Venezia, appresso Lucio Spineda, 1626”, in ivi, p. 70. 84 In realtà il livello di conoscenza scientifica del metallo oggi raggiunta, ci permette di

affermare che le controindicazioni sono estremamente dannose e che possono provocare il

decesso del paziente; inoltre esse vanno spesso a confondersi con i sintomi della stessa malattia,

includendo perdita di denti e capelli e lesioni cutanee, e facendo pensare che questi, osservati

nel Cinquecento su malati sottoposti a tale trattamento, potevano essere provocati proprio dalle

unzioni. Si veda M. Conforti, G. Corbellini, V. Gazzaniga, op. cit., p. 165.

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86 M. Parigini, La nuova peste

cervelletto, perdita della vista, dei denti, dei capelli, dell’udito ed infine il

decesso; quando si verifica un’intossicazione acuta si hanno solitamente

broncopolmoniti, gravi sintomi neurologici e danni all’apparato

gastrointestinale. Tali manifestazioni furono confuse, tuttavia, per secoli con i

sintomi della sifilide; vale a dire che il confronto fra l’esperienza di Ser

Tommaso e il testo del dottore veneziano mostra come la comparsa del

mostruoso morbo non fosse stata altro che un effetto collaterale della

somministrazione del metallo pesante.

Risulta evidente che nel Quattrocento, quando le cure con il mercurio non

si erano ancora diffuse, non si manifestò la comparsa di sintomi invece molto

comuni nel secolo successivo: ciò a riprova della loro pericolosità per lo

sciagurato paziente.

Ad ogni modo, nonostante i devastanti effetti collaterali, al mercurio si

ricorse abbondantemente fino alla meta del XX secolo, per la semplice ragione

che in effetti esso attaccava e uccideva il batterio responsabile dell’infezione,

dato empiricamente registrato dalla medicina del Cinquecento grazie alla

riduzione delle lesioni cutanee. L’efficacia ad ogni modo era limitata alla prima

fase dell’infezione; nella lue secondaria, infatti, il numero di spirochete, i batteri

che causano le malattia, cresce e in questo caso il mercurio poco poteva nel

tentativo di eliminarle.

Le considerazioni relative all’efficacia delle cure, nei primi secoli di

diffusione della malattia, furono complicate dalla natura stessa di questa; la

sifilide, infatti, può presentare lunghi periodi di attenuazioni dei sintomi, che

inducevano erroneamente a ritenere guarito il malato.

È facilmente intuibile che in molti casi medici e pazienti che ricorrevano ai

medicamenti sopracitati per la cura della lue giunsero a conclusioni errate o

quanto meno parzialmente errate.

Le ricette del medico Rostinio

Nel corso di questo articolo si sono brevemente menzionati alcuni dei rimedi

naturali che nel XVI secolo venivano prescritti da Pietro Rostinio per affrontare

il mal francese; in conclusione di questa trattazione abbiamo deciso di passare

in rassegna, tramite una tabella, alcune delle piante e dei minerali consigliati dal

medico, esponendo inoltre le proprietà chimiche che oggi sono loro

riconosciute85.

Ricorderemo prima i principali sintomi osservati, in modo tale da avere

poi una panoramica più completa e chiara: oltre alle già ampliamente citate

85 Le informazioni presenti nella tabella sono tratte dal testo di C. Capasso, Farmacognostica.

Botanica, chimica e farmacologia delle piante medicinali, Milano, 2011.

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Eurostudium3w gennaio-marzo 2014

87 M. Parigini, La nuova peste

“dentarola”, ”pellarola”, ”occhiarola” e ”unghiarola” vanno ricordate altre

importanti manifestazioni del male, come le ”gomme”, placche gommose che

solitamente intaccano la superfice della pelle, le ”pannocchie”, che altro non

sono che ulcerazioni del derma, lo ”scolamento”, ovvero la perdita di siero da

parte del membro maschile, ed i ”caroli”, pustole che possono manifestarsi sul

prepuzio e sulle estremità esterne vaginali.

Erbe, frutti, metalli,

minerali, derivati animali

Impiego suggerito da

Rostinio nel Cinquecento

Proprietà attualmente

riconosciute

Acacia. In composto per purgare

il paziente sifilitico; in

soluzione per gargarismi

contro i ”caroli” in bocca;

in lavanda per le dita

contro l’”unghiarola”.

Proprietà lassative,

antiossidante, e

antimicrobiche.

Aloe. In preparato per

unguento per curare la

”pellarola”.

Proprietà

antiinfiammatorie.

Allume di Rocca. In polvere per curare i

”caroli”.

Proprietà astringenti ed

antibatteriche.

Altea. In infuso per purgare; in

unguento per curare

arrossamenti e gonfiori

genitali; in decotto per

fumenti per curare le

”gomme”.

Proprietà

antiinfiammatorie ed

emollienti.

Bacche di melograno. In polvere per il

trattamento dei ”caroli”.

Proprietà antiossidanti,

astringenti, e

antitumorali.

Bolo armeno. In polvere per la cura dei

”caroli”.

Proprietà astringenti e

coagulanti.

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Eurostudium3w gennaio-marzo 2014

88 M. Parigini, La nuova peste

Borraggine. Nella ”decottion”

composita a base di

guaiaco.

Proprietà

antiinfiammatorio e

antidermatitiche.

Burro. Nel composto base per le

unzioni; nel composto

per le unzioni da

effettuare in primavera,

in autunno ed in estate.

Funge da eccipiente in

creme ed unguenti.

Canfora. Nel composto a base di

mercurio per le unzioni,

da effettuarsi in

primavera ed in autunno;

nella ”decottion

composita” a base di

guaiaco

Proprietà anestetiche ed

antimicrobiche

Cinabro. Nel composto per le

unzioni mercuriali.

Contiene mercurio.

Colofonia Nel composto per le

unzioni mercuriali; in

quello da utilizzare in

primavera ed autunno.

Proprietà rubefacenti

(attiva la circolazione

periferica) e

decongestionanti delle

vie aeree superiori.

Corallo bianco. Estratto a utilizzare in

unguento per la cura

della ”unghiarola”.

Proprietà anestetiche ed

antivirali.

Croco. Nel composto per le

unzioni mercuriali da

utilizzare in inverno.

Proprietà toniche e

rinvigorenti.

Fieno greco. Per la cura delle

”gomme”: in fumenti, in

unguento

Proprietà

antiinfiammatorie,

antiossidante,

antianemiche,

anabolizzanti.

Fiori di camomilla. In unguento per trattare

le ”pannocchie”; in acqua

aromatizzata per bagni

successivi alle unzioni.

Proprietà sedative,

antiinfiammatorie,

antiossidanti.

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89 M. Parigini, La nuova peste

Fumoterra. In decotto per il

trattamento del paziente

di temperamento

melanconico.

Proprietà calmanti e

lenitive.

Grasso di gallina. In unguento per curare

arrossamenti e gonfiori

genitali.

Funge da eccipiente in

creme ed unguenti.

Grasso di oca. In unguento per curare

arrossamenti e gonfiori

genitali.

Funge da eccipiente in

creme ed unguenti.

Grasso di maiale. Nel composto per le

unzioni mercuriale da

utilizzare durante

primavera ed autunno.

Funge da eccipiente in

creme ed unguenti.

Gomma arabica. In unguento per gonfiori

ed arrossamenti della

parete vaginale esterna e

della mammella.

Colloide protettore.

Guaico. In decotto come terapia

base per il trattamento

generale del morbo

luetico, e quello specifico

di sintomi quali

”dentarola” e

”scolamento”.

Proprietà antisettiche e

antiinfiammatorie.

Incenso (pianta). In lavanda per la cura

del’”unghiarola”.

Proprietà antisettiche.

Indivia. In sciroppo per il

trattamento dei pazienti

di temperamento

flemmatico o sanguigno.

Proprietà diuretiche,

toniche e depurative.

Isssopo. In infuso per il

trattamento del paziente

di temperamento

melanconico; in

unguento per la cura

della ”pellarola”.

Proprietà espettoranti.

Favorisce la digestione.

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90 M. Parigini, La nuova peste

Latte vaccino. In unguento per la cura

di arrossamenti e

gonfiori genitali; in

composto per sciacqui

per il trattamento dei

"caroli" nella bocca.

Proprietà lenitive.

Lavanda. In unguento per la cura

della ”pellarola”.

Proprietà

antiinfiammatorie.

Litargirio d’oro. In misura polverizzata

per la cura dei ”caroli”;

nel composto base per le

unzioni mercuriali.

Ossido di piombo, privo

di proprietà curative

riconosciute.

Malva. In composto per fumenti

per trattare le ”gomme”;

in unguento per curare

arrossamenti e gonfiori

genitali; in unguento per

il trattamento delle

”pannocchie”; in

preparato per fumenti

per la cura dell’

”occhiarola”; in

composto per purgare il

paziente sifilitico.

Proprietà lassative ed

antiinfiammatorie.

Marcorella. In composto per purgare

il paziente sifilitico.

Proprietà lassative.

Meliloto. In composto per i

fumenti per il

trattamento dell’

”occhiarola”.

Proprietà

antiinfiammatorie e

diuretiche.

Menta. In acqua aromatizzata

per bagni successivi alle

unzioni.

Proprietà antisettiche ed antibatteriche.

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91 M. Parigini, La nuova peste

Mercurio. Nei composti per le

unzioni cui ricorrere

come cura generale ad

uno stadio avanzato del

morbo luetico.

Tossico. Ha facoltà di

uccidere un numero

limitato di spirochete.

Mirra. In tutti e tre i vari

composti per le unzioni

mercuriali, diversificati

per ogni stagione; in

unguento per il

trattamento della

”pellarola”.

Proprietà antisettiche ed

antiinfiammatorie.

Mirtilli In acqua aromatizzata

per bagni successivi alle

unzioni; in unguento per

la cura dell’”unghirola”.

Proprietà antiossidanti,

antisettiche ed

antiinfiammatorie.

Piantaggine. In composto per i

gargarismi per trattare i

”caroli” dalla bocca.

Proprietà antiallergiche,

antimicrobiche

antiinfiammatorie.

Ruta. In acqua aromatizzata

per bagni successivi alle

unzioni.

Proprietà toniche,

diaforetiche e

stomachiche.

Rose rosse. In composto polverizzato

per la cura dei ”caroli”;

in composto per

gargarismi per il

trattamento dei "caroli"

nella bocca; in acqua

aromatizzata per bagni

successivi alle unzioni;

nella ”decottion” a base

di guiaco.

Proprietà toniche,

astringenti. Utili per

combattere gli

arrossamenti dermici.

Rosmarino. In acqua aromatizzata

per bagni successivi alle

unzioni.

Proprietà

antiinfiammatorie ed

antimicrobiche.

Salvia. In acqua aromatizzata

per bagni successivi alle

unzioni.

Proprietà antibatteriche

ed atisettiche.

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92 M. Parigini, La nuova peste

Sandalo. In unguento per curare

arrossamenti e gonfiori

genitali; in composto per

fumenti per il

trattamento delle

”gomme”.

Proprietà idratanti.

Semi di lino. In unguento per curare

arrossamenti e gonfiori

genitali; in composto per

fumenti per il

trattamento delle

”gomme”.

Proprietà emollienti ed

antiinfiammatorie.

Senna. In infusione per trattare il

paziente di

temperamento collerico,

flemmatico e

melanconico; nella

decottion ”composita” a

base di guaiaco.

Proprietà lassative.

Storace. Nei composti per le

unzioni.

Proprietà diuretiche,

espettoranti e

antiinfiammatorie.

Viole. In unguento per la cura

di arrossamenti e

gonfiori genitali; in

composto per purgare il

paziente sifilitico; in

acqua aromatizzata per i

bagni successivi alle

unzioni; nella “decottion

composita” a base di

guaiaco; in composto per

fumenti nella cura

dell’”occhiarola”.

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93 C. Nasini, The Origins

The Origins of the European Integration: Staunch Italians,

Cautious British Actors and the Intelligence Dimension (1942-1946) di Claudia Nasini

The idea of unity in Europe is a concept stretching back to the Middle Ages to

the exponents of the Respublica Christiana. Meanwhile the Enlightenment

philosophers and political thinkers recurrently advocated it as a way of

embracing all the countries of the Continent in some kind of pacific order1. Yet,

until the second half of the twentieth century the nationalist ethos of Europeans

prevented any limitation of national sovereignty.

The First World War, the millions of casualties and economic ruin in

Europe made the surrendering of sovereignty a conceivable way of overcoming

the causes of recurring conflicts by bringing justice and prosperity to the Old

World. During the inter-war years, it became evident that the European

countries were too small to solve by their own efforts the problem of a modern

economy2. As a result of the misery caused by world economic crisis and the

European countries’ retreating in economic isolationism, various forms of

Fascism emerged in almost half of the countries of Europe3.

The League of Nations failed to prevent international unrest because it

had neither the political power nor the material strength to enable itself to carry

1 Cfr. Andrea Bosco, Federal Idea, vol. I, The History of Federalism from Enlightenment to 1945,

London and New York, Lothian foundation, 1991, p. 99 and fll.; and J.B. Duroselle, “Europe as

an historical concept”, in C. Grove Haines (ed.by) European Integration, Baltimore, 1958, pp. 19-

20. 2 Cfr. Walter Lipgens, General introduction, in Lipgens (ed.), Documents on the History of European

Integration, vol. 1, Continental Plans for European Union 1939-1945, Berlin-New York, De Gruyter,

1984, p. 8. 3 Ibidem.

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94 C. Nasini, The Origins

out its decisions and enforce its will on nation states4. Facing these challenges in

the Twenties and Thirties, Europeanist and even Federalist views flourished

throughout all of Europe. Among them, the 1929 “Briand Plan” of Aristide

Briand, the many “Pan-European” initiatives by Richard Coudenhove-Kalergi,

the pro-Europeanist writings of Luigi Einaudi to conclude with launch of

British “Federal Union” in 1938. These ideas remained alive during the Second

World War and in many quarters inspired the anti-Axis underground fighters

including Italy especially.

As early as in 1942, undisputed Resistance leaders like Emilio Lussu, Leo

Valiani, Aldo Garosci and Altiero Spinelli started liaising with the Anglo-

Americans, in many cases making them aware of their Federalist principles. The

British in particularly showed the strongest interest towards these initiatives as

confirmed by the fact that some of these Italians became full-fledged British

agents in the ranks of the Special Operation Executive (SOE)5. There is also

evidence of the British Labour Government’s persistent attention towards the

Italian Federalism after 1945. On one hand the Foreign Office showed its

interest in carrying on with the publication of the influential Italian Europeanist

journal «L’Unità Europea»6. On the other, even after Victory Day, liaisons with

former SOE’s Italian agents continued, as recently declassified evidences show

in the case of Leo Valiani and others7. A substantial detail is that these Italians

were mainly democratic with socialist leanings belonging to the non-

Communist milieu and presumably this latter aspect facilitated the continuation

of these liaisons under the Attlee Government. Moreover, British pro-

Europeanist covert activities further expanded in the post-war.

One emblematic episode was the involvement of the British Joint

Intelligence Committee (JIC) in the setting up of the Independent League for

European Cooperation (ILEC), a transnational pressure group devoted to the

4 Ivi, p. 19. 5 On the participation of Lussu and Valiani to SOE’s operations the best and most updated

accounts are in Mireno Berrettini, La Gran Bretagna e l’antifascismo italiano. Diplomazia clandestina,

Intelligence, Operazioni speciali (1940-1943), Firenze, Le Lettere, 2010; see also Mauro Canali, Leo

Valiani e Max Salvadori. I servizi segreti inglesi e la Resistenza, in «Nuova Storia Contemporanea»,

III (2010), pp. 29-64. 6 Particularly revealing in this respect are recently unearthed documents at the British National

Archives (TNA) in Kew Gardens, London, which shed light on this aspect of British relation

with Italian Europeanism. See TNA, F.O. 371/60673 folder named Mario Alberto Rollier. Director

of Italian Paper «L’Unità Europea». 7 On the intercession of British intelligence in favour of Valiani’s trip to Britain in the post-war

see TNA, HS9/1569/4. This folder contains a letter dated 24 August 1945 and written by the HQ

SOM (the headquarters in command of SOE in Italy) pressing the British consulate in Rome to

hasten the concession of a Visa for the United Kingdom for the former SOE agent Leo Valiani.

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Eurostudium3w gennaio-marzo 2014

95 C. Nasini, The Origins

promotion of a common area of free exchange in Europe and beyond8. Worth

highlighting here is the evidence that as early as in 1942 under the command of

the Labour Minister of Economic Warfare, Hugh Dalton, SOE precociously

promoted the clandestine activities of several Italian Europeanists while also

putting them in contact with representatives of the Labour establishment. This

is probably why by 1945 for the whole non-communist Italian intelligentsia of

Europeanist inclinations - mainly gathered around the “bourgeois” Italian

Partito d’Azione - the British Labour Party had come to embody a solid

international point of reference much more than the American Administration9.

The latter, on the other hand, started to pour millions of dollar in favour of

European integration only once the Soviet encroachment had fully manifested

and therefore not until 194710. It is regrettable that by then Britain was

financially exhausted.

The immediate post-war era presented in effect several problems for the

Europeanist impetus of the British Labour Government. A similarly difficult

panorama, although for different reasons, emerged also in Italy. Certainly a

combination of economic and financial problems, coupled with Cold War

tensions, prevented the British Labour government from pursuing a more

incisive pro-Europeanist foreign policy11. However, differently from what

assumed by orthodox historiography (as will be seen), the post-war Labour

Government was not from the start blindly negative towards the idea of a

European closer unity as against a supposed predilection for a favoured

partnership with the United States. In the Eighties, thanks to the opening of

governmental archives in several countries of Europe under the Thirty year

rule, a more recent line of research has started questioning earlier assumptions.

These readings have claimed that Labour Government was in fact much in

favour of being part of some sort of formal or informal union among the

Western countries of Europe. Given the fact that the Big Three victorious

8 Cfr. Thierry Meyssan, «Histoire secrète de l’Union européenne», Réseau Voltaire

International, 28 juin 2004 http://www.voltairenet.org/article14369.html. 9 This is certainly the opinion of the official scholar of the Action Party Giovanni De Luna, Storia

del Partito d’Azione, (History of the Action Party),Torino, UTET, 2006, p. 311. 10 In the exterminate historiography on the transatlantic dimension of the construction of

Europe there is a general consensus that nothing significant came out from the Americans

before of the launching of the Marshal Plan. See for instance Michael Hogan, The Marshall Plan.

American, Britain and the Construction of Western Europe, 1947-1952, Cambridge, CUP, 1987. For a

recent elaboration of this view see Mark Gilbert, Partners and Rivals: Assessing the American Role

in Antonio Varsori and Wolfram Kaiser (eds. by) European Union History. Themes and Debates,

Palgrave, Macmillan, 2010, pp. 171 and 177 and fll. 11 See for all John W. Young, Britain and European Unity, 1945-1999, Basingstoke, Macmillan,

2000, 2nd edition (first edition 1993), p. 7.

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96 C. Nasini, The Origins

powers now dominated the planet, British leadership of Europe seemed

natural.

A strategy, in other words, that of the Labour leaders meant to face

American and Soviet’s competition with Europe at large, and Britain in

particular, in the balance of world power. Yet, the British attempts in exploiting

to this end the vast network of foreign clandestine contacts built throughout

Europe during the Second World War remains one of the least addressed aspect

of British foreign policy in this phase. Instead the new SOE’s evidence,

especially as declassified after 2008, as well as some overlooked British Foreign

Office’s papers concerning Italy give sustenance to the revisionist

interpretation12. The Labour government’s strategy appears carefully tailored to

involve the existing secret contacts abroad in building up a consensus in favour

of its agenda including its European policy.

On the other hand, this was also the main aim behind the creation of the

Foreign Office’s first Cold War propaganda weapon, that is, the Russia

Committee13. The Russia Committee’s main targets of propaganda abroad were

in fact various foreign European personalities either politicians or publicists

who had previously served in SOE or had already secretly liaised with the

British. The latter were entrusted with the goal of clandestinely disseminating

in their countries suitable publicity to counter Soviets’ propaganda against

Britain14. An approach which considers the existence of these precocious and

preventive connections can help to provide a new perspective to post-war

Labour Europeanism. Why, otherwise, did SOE, under Dalton, spend so much

effort in creating liaisons with Italian Europeanism? Why did the Labour

Government bother to nurture these relations in the post-war?

Limits and limitations of traditional historiography

The historiography on the very embryonic steps of the unification of European

comprises a disparate number of historical accounts stimulated by different

national historiographical traditions which often have entertained only a partial

12 At the British National Archives the collection Special Operation Executive, Series 1, Special

Operations in Western Europe, 1941-1948 includes thousands pages of documents concerning

aspects of SOE activity in Italy. The sub-collection HS/9 includes instead, as mentioned, several

previously withdrawn dossiers concerning Italian political personalities who were recruited by

SOE during the WWII. Most of these Italians would cover important institutional positions in

post-war Italy. 13 A good summary on the origin and scopes of the Russia Committee is in Raymond Smith, “A

Climate of Opinion: British Officials and the Development of British Soviet Policy, 1945-1947”,

«International Affairs», vol. 64, n. 4, Autumn 1988 in particular p. 636 and fll. 14 Ibidem.

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97 C. Nasini, The Origins

dialogue among themselves15. Moreover, more often than not European

scholars have chosen to publish scholarship in their native language –

especially, German, French and Italian – thus impeding a broader process of

intellectual cross-fertilization. Even when addressing a short span of time as the

years up to 1946 there is such an abundance of historical accounts of the most

disparate nature which makes a synthesis very difficult16. Focusing prevalently

on the main trends of Italian and British literature on early integration is

therefore a deliberate choice to synthesise what would be otherwise too diverse.

Yet, this delimited overview is significant enough since it contains the crux

themes and debates which have informed the historiographical discourse.

In Italy, for instance, a “Federalist-centred approach” (derived from the

tradition of the history of political thought) has prevailed and is still mainly

adopted. Although a similar approach was initially also evident in Britain (as

well as in the rest of Europe), more recent British scholars have consistently

challenged the “Federalist school”, undertaking lines of research which have

shown the flaws of this scholarship17. If we look at two of the most paramount

Italian representatives of the Federalist school, Sergio Pistone18 and Lucio Levi19,

15 This is the opinion of Antonio Varsori in his recent attempt at a comprehensive survey of the

history of European integration. Cfr. the Introduction to A. Varsori and W. Kaiser (eds. by),

European Union History: Themes and Debates, Palgrave, Macmillan, 2010, p. 2. 16 Ibidem. 17 A concise but comprehensive account of this new trend of historiography is in Oliver

Daddow, Britain and Europe since 1945. Historiographical Perspective on Integration, Manchester,

MUP, 2004 in particular p. 122 and fll; and passim. 18 Pistone focuses on the investigation of the theoretical explanations offered as bases for the

various Federalist theories in Europe from the eve of First World War (taken as a quo term) until

today. Pistone’s analysis, in particular, focuses on those prominent authors, namely Luigi

Einaudi, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Lord Lothian e Lionel Robbins, who provided an

innovative interpretation of the origins of the so-called ‘European crisis,’ prior and between the

two World Wars. In Pistone’s view, the reasoning that these thinkers accounted for the

European crisis appears to be well-equipped to contend with the explanations that different

cultural-political traditions (the Liberal, the Democratic, the Communist) were offering at the

time. Cfr. in particular S. Pistone (ed. by), L’idea dell’unificazione europea dalla prima alla seconda

guerra mondiale, Torino, Fondazione L. Einaudi, 1975 and also S. Pistone (ed. by) I movimenti per

l’unità europea dal 1945 al 1954, Milano, Jaca Book, 1992. 19 Levi’s work presents a more geo-political approach to the history of Federalism. Levi clarifies

the elements that constituted an impediment in the immediate aftermath of World War I and

allowed, instead, in the second, the beginning of the European integration. Until the second

post-war, European statesmen were not inclined, in fact, to start a process of limitation of their

own sovereignty, for this still contained, though with very clear evidence of decline, an

autonomous position of power in the world. In subsequent years, beginning with the Second

World War, European Federalism made manifest, instead, the inclination of several European

countries to accept American leadership, though not separated by the attempt at developing a

European pilier that would reduce the subordination of the Old Continent to the United States.

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98 C. Nasini, The Origins

the efforts of Federalist theoreticians and pressure groups are seen at the core of

the inception of the integration process. These personalities and groups built on

the informal networks of pro-Europeanist anti-fascist exiles formed during and

shortly after the Second World War in different countries of Europe20. This

milieu comprised, as will be discussed later, the 1943 Italian Movimento

Federalista Europeo (MFE) set up underground by Altiero Spinelli and Ernesto

Rossi in war-time Milan. It also included the European Union Movement

(EUM) launched by Churchill between 1946 and 1947 in Britain, to name only

two significant examples. Pistone and Levi highlight the mutual intellectual

influences existing among Italian and British Federalist theoreticians and claim

that they furthered discussion on Federalism, making possible for it to become a

realistic political path.

This strand of research is still influential in Italy and in other words

remains mainly concerned with the analysis of the intellectual influence of some

Federalists – Spinelli first and foremost - on the strategy for the European

construction. This is evident in some relatively recent studies by leading Italian

historians in the field like Piero Graglia21. The same is true for authors like

Daniela Preda, Cinzia Rognoni Vercelli and Antonella Braga22. The two massive

2005 volumes edited by Rognoni Vercelli and Preda, Storia e percorsi del

Federalismo: l’eredità di Carlo Cattaneo, for instance, are a large collection of essays

dealing with the life-time intellectual experience of Federalists of the calibre of

Spinelli and Rossi as well as of personalities like Alcide De Gasperi, Mario

Albertini, Eugenio Colorni and Celeste Bastianetto23. The few essays devoted to

other topics, i.e. the one about the British pressure groups of “Federal Union”,

L. Levi (ed. by), Verso gli Stati Uniti d’Europa: analisi dell’ integrazione europea, Napoli, Guida,

1979. See also L. Lucio (ed. by) Altiero Spinelli and Federalism in Europe and in the World, Milano,

Angeli, 1990. 20 The best account of this Federalist milieu throughout the whole Europe is in the documentary

volumes edited by Walter Lipgens and Wilfried Loth, Documents on the history of the European

integration, Berlin; New York, De Gruyter, 1985-1988. See in particular, W. Lipgens (ed. by) The

struggle for European Union by political parties and pressure groups in Western European countries,

1945-1950, Berlin-New York, Walter de Gruyter,1988. 21 It would be impossible to make here a comprehensive list of the Italian studies on Spinelli

which present this approach but a useful recent example is for instance Piero Graglia, Altiero

Spinelli, Bologna, Il Mulino, 2008. 22Cfr. D. Preda (ed. by) Altiero Spinelli ed i movimenti per l’unità europea, Padova, CEDAM, 2010;

Id., Alcide De Gasperi federalista europeo, Bologna, Il Mulino, 2004; A. Braga, Un federalista

giacobino: Ernesto Rossi pioniere degli Stati Uniti d’Europa, Milano, Il Mulino, 2007; C. Rognoni

Vercelli, Luciano Bolis: dall’Italia all’Europa, Bologna, Il Mulino, 2007; Id., Mario Alberto Rollier. Un

valdese federalista, Milano, Jaca Book, 1991. 23 C. Rognoni Vercelli and D. Preda, Storia e percorsi del Federalismo: l’eredità di Carlo Cattaneo,

Bologna, Il Mulino, 2005.

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99 C. Nasini, The Origins

represent just an exception to what is prevalently a biographical account with

an Anglo-Saxon style. Other works from the same authors follow the same

pattern24.

Federalist perspectives owed much to the fact that until the Seventies the

original documentation concerning European integration was still classified.

For two decades after 1945 political memoirs and pamphlets supplanted more

proper historical works giving space to the perspectives of authors who were in

reality the original protagonists of the Federalist “crusade” especially in Italy25.

In Britain, the content of these early chronicles consistently informed the

subsequent scholarship because they propagated a set of myths on the origin

and causes of integration that later authors felt compelled to contend26.

According to the British Federalist school, the post-war Labour Government

and especially the Foreign Secretary Ernest Bevin had been from the start firmly

against any British involvement in the continental search of some form of

cooperation and possibly unity.

The debate became bitter because, given Britain’s persistent aloofness

from the first integrative steps, the Federalist crusaders translated their

24 See above note 22. 25 One emblematic example is Achille Albonetti’s 1960 Preistoria degli Stati Uniti (Milano,

Giuffre). This is a volume whose structural conceptualization is clearly influenced by the 1955

Etats-Unis d’Europe ont commencé written by the prominent promoter of the European

integration, Jean Monnet. Likewise, several volumes of strong supporters and militants of

Federalist ideals contributed to the initial bibliography on the subject. Among these, one should

remember Altiero Spinelli and Ernesto Rossi’s 1944 Problemi della Federazione Europea (Edizioni

M.F.E.); Spinelli’s 1944 Il manifesto di Ventotene (see edition edited by S. Pistone, Il Manifesto di

Ventotene, Torino CELID, 2001), and Manifesto dei federalisti europei (Parma, Guanda, 1957);

Spinelli’s 1953-54 Lettere Federaliste 1953 (Edizioni M.F.E.) and finally, his 1960, L’Europa non cade

dal cielo (Bologna, Il Mulino). Also worth mentioning are Aldo Garosci’s 1954 Il pensiero politico

degli autori del Federalist, (Edizioni di Comunità); and Adriano Olivetti’s 1952 Società, Stato,

Comunità (Edizioni di Comunità). 26 Particularly influential British Federalist authors were those connected with the Federal Trust

for Education and Research (the educational forum created by William Beveridge in 1945 in

connection with Federal Union movement) like Richard Mayne and John Pinder. See for instance,

R. Mayne, The Community of Europe, London, Victor Gollancz, 1962; Id., The Recovery of Europe:

from Devastation to Unity, London, Weidenfeld and Nicolson, 1970; Id., Postwar: The Dawn of

Today’s Europe, London, Thames and Hudson, 1983; or J. Pinder, Britain and the Common Market,

London, The Cresset Press, 1961. Also prominent were Federalist journalists writing for the

magazine «The Economist» like Christopher Layton or American Miriam Camps. See among

others M. Camps, Missing the Boat at Messina and other Times?, in B. Brivati and H. Jones (eds.

by), From Reconstruction to Integration, op. cit., pp.133-143, and Id., Britain and European

Community.1955-1963, London, Oxford UP, 1964. Finally, there were the books from the “Euro-

enthusiasts” in British political life among whom prominently Anthony Nutting, Europe will not

Wait: a Warning and a Way Out, London, Hollis and Carter, 1960; or Robert Boothby, My

Yesterday, Your Tomorrow, London, Hutchinson, 1962. .

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100 C. Nasini, The Origins

disappointment into an angry discourse of “missed opportunities” for the

country27. This discourse adopted powerful vehicle-oriented metaphor of

European boats, busses and trains leaving without Britain which signified

variably the country’s economic decline, foreign policy drift and political

misjudgement. Although in the immediate post-war years the European issue

was not high in British popular consciousness, the skilful manipulation of

language made such a powerful picture of missed chances that the concept

spread in the media and public discourse28.

The “Federalist school” has continued to be predominant in Italy also

because of the limited acquaintance of Italian scholars with the far-reaching

debate on the integrative process developed in the rest of Europe from the late

Seventies onwards. Only a few Italian historians, among whom Antonio

Varsori, Federico Romero, Ruggero Ranieri and Enrico Serra, became engaged

with the debate aroused by this new scholarship29.

As already noted, as a consequence of the opening of governmental

archives in several European countries, in the Eighties a new line of research

emerged, with British historians in the forefront of this revisionism. The new

interpretation was also spurred by new European networks of scholars, among

whom most notable is the Liaison Committee of European Historians, which

was formed in 1983 with the institutional and financial support of the

Community institutions30. Through the European Commission’s support of the

27 A concise account of the so-called “missed opportunity school” is provided by the

historiographical synthesis of Oliver Daddow, Britain and Europe since 1945. Historiographical

Perspective on Integration, op. cit., p. 59 and fll.; in particular as the author notes at p. 70:

“Orthodox historiography is at root a political discourse originating from discontent with

British foreign policy and was written with more than an eye on changing the future”. 28 Ivi, p. 112. 29 For a concise survey of European integration history as a sub-field of Cold War history in

Italy and the scant participation of Italian historians to the genre see A. Varsori, Cold War

History in Italy, in «Cold War History», vol. 8, issue 2, 2008, in particular pp. 162-163. Overall

Varsori names only a handful of Italian scholars who became involved with the broader

international debate spurred by the new scholarly interpretation in the Eighties. Among these

the contributions by Ruggero Ranieri and Federico Romero in A. Milward et al., The Frontier of

National Sovereignty History and Theory 1945-1992, London, Rutledge, 1992; Enrico Serra, The

Relaunching of Europe and the Treaties of Rome, Brussels, Bruylant, 1989. For Varsori’s own

contributions to the field see A. Varsori and W. Kaiser, European Union History, op. cit., pp. 240-

241. 30 The establishing of the Liaison Committee as an official body was advocated in Luxembourg

during a massive “International Conference of Professors of Contemporary Europe” by the

historian René Girault. The French scholar had already sponsored large European transnational

networks especially in 1979-1980 when he had launched the international research project “The

Perception of Power Politics in Western Europe” addressing the early integration history. The

proceedings were published by Josef Becker and Franz Knipping, Power in Europe? Great Britain,

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101 C. Nasini, The Origins

Liaison Committee and under the guidance of French international relation

historian René Girault, several international conferences were held with the

specific intent of reassessing the significance of the first integrative steps31. The

establishing of the Liaison Committee coupled with an earlier initiative by the

Community institutions, that is, the creation of the European Union Institute

(EUI) in 1974, in the outskirt of Florence, which acted as a post-doctoral school

and whose main focus was again on European Union history32. British economic

political historian Alan Milward was one of the first academics to hold a chair

at the EUI.

Revisionism also fed on the so-called “depolarization of Cold War

historiography”33. Going against previous readings, according to which the US

and Soviet Union were the only protagonists in the emergence of the Cold War,

the new historiography of the East-West conflict began to highlight the role

played by Europe and especially Britain in its inception34. The depolarization of

the Cold War had an impact on the history of the construction of Europe and on

British relations with it. Integration has been no longer interpreted as a direct

consequence of the competition between the Superpowers but as an

autonomous phenomenon. A new so-called “national interest school” of

France, Italy and Germany in a Post-war World 1945-1950,Berlin-New York, Walter de Gruyter,

1986. 31 A reassessment of the formative years was addressed in a number of conferences in the

Eighties and early Nineties. Among the proceedings published in the first half of the Nineties

see in particular Michael L. Dockrill and Anthony Adamthwaite, Europe within the Global System,

1938-1960: Great Britain, France, Italy and Germany: from Great Powers to Regional Powers, Bachum,

Brockeyer, 1995. 32 Most notably the EUI sponsored a massive project of collective research in Europe for a large

edition of documents related to leading - prevalently Federalist - European personalities,

political parties, movements and national and transnational pressure groups and covering again

the years of World War Second and the immediate postwar. The ensuing books were the

abovementioned series of documentary volumes edited by German historian Walter Lipgens.

Lipgens was the first to hold a chair in Modern European History at EUI, and after his death in

1984 he was replaced by W. Loth who in turn left his chair to British historian Alan Milward in

the late Eighties. 33 See on this Clemens Wurm, Early European Integration as a Research Field: Prospectives, Debates,

problems in C. Wurm (ed. by) Western Europe and Germany. The Beginning of European Integration

1945-1960, Oxford, Berg Publishers, 1995, in particular p. 15. 34 For historical overviews of this shift in interpretation see David Reynolds, The Origin of the

Cold War: The European dimension, 1944-1951, in «The Historical Journal», vol. 28, n° 2, 1985, p.

499. See also Lawrence S. Kaplan, The Cold War and European Revisionism, in «Diplomatic

History», vol. 11, n° 2, 1987, pp. 143-56; Donald C. Watt, Britain and the Historiography of the Yalta

Conference and the Cold War, in ivi, vol. 13, n° 1, 1989, pp. 67-89.

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102 C. Nasini, The Origins

interpretation dominated the Eighties35. According to this school, pioneered by

Alan Milward, European integration was neither the by-product of East-West

confrontation nor the achievement of Federalist personalities and pressure

groups but rather the goal wilfully pursued by European governments for their

own self-interest36.

The latter autonomously chose to build the European institutions because

they perceived them as a way of resolving domestic problems at a larger

European level37. For instance, for France and Germany the integration became

an instrument through which they recovered some of their lost power38. France

gained a share of German coal and still industries and Germany was allowed to

return to world politics. After Milward, revisionism was also initially spurred

by works of authors like Victor Rothwell and Geoffery Warner39. Both authors

claimed that Britain in the post-war had not been alien to the idea of a closer

cooperation with the European countries. They deconstructed the consensus

view according to which the alliance with the United States was the main goal

of British post-war foreign policy-makers and especially of Ernest Bevin. The

first target of the revisionists was therefore the Foreign Secretary who had been

till then considered the father of Euro-Atlantic partnership and therefore quite

inimical to the idea of closer integration with Europe40. An opinion propagated

also by the most important biographer of the Foreign Secretary, Alan Bullock,

35 See on this periodization C. Wurm, Early European Integration as a Research Field,op. cit., p. 18

and fll. 36 See most notably Milward, The Reconstruction of Western Europe 1945-1951, London, Methuen,

1994; Id., The European Rescue of the Nation State, London, Rutledge, 1992. 37 Ibidem. Milward’s view is embraced in Clemens Wurm, Early European Integration as a Research

Field, op. cit., in particular p. 19. 38 See Milward, The Reconstruction of Western Europe, op. cit., passim and 333-334. 39 V. Rothwell, Britain and the Cold War, London, Jonathan Cape, 1982; Geoffrey Warner, “The

Reconstruction and Defence of Western Europe after 1945”, in Nevil Waites (ed. by), Troubled

Neighbours: Franco-British Relation in the Twentieth Century, London, Weidenfel and Nicolson,

1971, pp. 259-292. See also by Warner, “The Labour Governement and the Unity of Western

Europe, 1945-1951”, in Ritchie Ovendale (ed. by), The Foreign Policy of the British Labour

Government, 1945-1951, Leicester, Leicester University Press, 1984, pp. 61-82. 40 Two well received articles respectively of 1982 and 1984 by John Baylis had given academic

voice to the view of Bevin as an inveterate Atlanticist. See J. Baylis, Britain and the Dunkirk

Treaty: the Origin of NATO, «Journal of Strategic Studies», vol. 5, n° 2, 1982, pp. 236-47; and Id.,

Britain the Brussels Pact and the Continental Commitment, in «International Affairs», vol. 60, n° 4,

1984, pp. 615-29. The idea was propagated in subsequent literature for instance Mark Stephens,

Ernest Bevin, Unskilled Labourer and World Statesman, 1881-1951, Stevenage, SPA Books, 1985, pp.

109-124; but also in Richie Ovendale, The English Speaking Alliance: Britain, the United States, the

Dominions and the Cold War, 1945-1951, London, Allen and Unwin, 1985. Many others followed

the same pattern of interpretation see again on this O. Daddow, op. cit., p. 95 and fll., and

passim.

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Eurostudium3w gennaio-marzo 2014

103 C. Nasini, The Origins

although the historian justifies Britain’s defence retrenchment under American

shelter as a matter of economic exigencies41.

Overall a more sophisticated scholarship emerged which asked new

questions. How was it possible that Bevin and his Labour Cabinet colleagues

had been so neglectful of the European dimension of British foreign policy42?

Instead of describing the inadequacy of British foreign policy, revisionists

started to investigate their causes and consequences more thoroughly43. They

have given to British foreign policy a new perspective filling many of the gaps

in the understanding of the stimuli behind the choices of British policy-

makers44.

A new community of diplomatic historians, in other words, started to

claim that in the immediate post-war, even for Britain, it was in the national

interest to be part of a more cohesive Europe. This line of research was

significantly expanded, as already mentioned, by subsequent scholars, such as

John Young and John Kent who created the “Third Force” paradigm for

understanding Bevin’s aim after 194545. This consisted in spurring some form of

formal or informal alliance with the countries on the Mediterranean and

Atlantic fringe of Europe with the goal of combining their national and colonial

resources to cope with superpower competition46. Western Europe’s overseas

possessions, particularly in Africa, were such that, if coupled with those of the

British Empire, they would make it possible to avoid subjugation to the United

States47. Even better, it would permit a world “Third Force” to rise to a role of

global leadership. Devised by Bevin and the Foreign Office in 1945, this policy

was gradually gaining ground throughout 1946 until it reached its zenith in

41 Cfr. Alan Bullock, Ernest Bevin: Foreign Secretary, 1945-1951, London, Heinemann, 1983, pp. 41-

42. 42 See for this claim Oliver J. Daddow, Britain and Europe since 1945, op. cit., p. 113 and fll. 43 Ibidem. 44 Ivi, p. 120-121. 45 See in particular J. Young, Britain and European Unity 1945-1999, op. cit., passim, J. Kent and J.

Young, “British Policy Overseas: The ‘Third Force’ and the Origin of NATO – in Search of a

New Perspective”, in Beatrice Heuser and Robert O’Neill (eds. by), Securing Peace in Europe,

1945-1962: Thoughts for the Post Cold War Era, Basingstoke, Macmillan, 1989, pp. 41-61; J. Kent,

“Bevin Imperialism and the Idea of Euro-Africa, 1945-1949”, in M. Dockrill and J.W. Young

(eds. by), British Foreign Policy, 1945-56, Basingstoke, Macmillan, 1989, pp. 47-76. A new article

of Geoffrey Warner also added to this new interpretation see Warner, “Ernest Bevin and British

Foreign Policy, 1945-1951”, in Gordon Craig and Frances L. Loewenheim (eds. by), The

Diplomats 1939-1976, Princeton NJ, PUP, 1994, pp. 103-134. 46 See for all J. Kent, “Bevin Imperialism”, op. cit., p. 55. See also Klaus Larres, “A Search for

Order: Britain and the origin of a Western European Union, 1944-55”, in B. Brivati and H. Jones,

From Reconstruction…, op. cit., in particular p. 73 and fll. 47 See for all G. Warner, “Bevin and British Foreign Policy”, op. cit., p. 112.

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104 C. Nasini, The Origins

1947-1948, when, Kent and Young conclude, there was a “wide ranging

consensus” among British policy-makers (and in the Conservative opposition),

American State Department officials and established press organs48. The

endorsement of the “Third Force” interpretation was so intense that by early

2000 the missed opportunity metaphor was regarded with disdain by the

academic community49.

The Federalist debate in Britain and Italy between the interwar years and WWII

During the interwar period, both in Great Britain and Italy, outstanding

political thinkers conceived the idea of superseding the nation state through the

creation of a genuine political and constitutional Federation among the

European countries. The crux of Federalist theory was that in light of recurring

conflicts the institutional formula of Federation was the only means to put an

end to international strife. In order to prevent each country from pursuing its

own national interest, European institutions had to be reorganized with the

power to transcend sovereignties. Some of the most influential writings were

those by British authors of the calibre of Philip Kerr (later Lord Lothian), Lionel

Curtis and Lionel Robbins50. This literature added to that by the Italian

Professor Luigi Einaudi51. These authors introduced the debate on the failures

of the League of Nations, which had left intact the sovereignty of its member

states, thus relinquishing the power to preserve order, prosperity and peace in

Europe.

48 See J. Young, Britain and European Unity…, op. cit., p. 1 and passim. See also on the consensus

concept Kent and Young, “British Policy Overseas”, op. cit., p. 51. 49 It would be impossible to list here all the main protagonists of this new generation of

scholarship see on this the abovementioned good overview by Oliver Daddow, Britain and

Europe since 1945…, op. cit., in particular p. 126 and fll. 50 Belong to this intellectual enterprise the books by L. Curtis, The Commonwealth of Nations,

London, Macmillan, 1917; Id., Civitas Dai, London (Allen and Unwin), vol. I, 1934; P. Kerr and L.

Curtis, The Prevention of War, New Haven & London, Yale University Press, 1923; Philip Kerr,

Approaches to World Problems, New Haven & London, Yale University Press, 1924; and most

notably P. Kerr, Pacifism is not Enough, nor Patriotism Either, The Burge Memorial Lecture,

London, OUP, 1935. A collection of the most sounding passages of these works are in John

Pinder and Andrea Bosco (eds. by), Pacifism is not Enough: Collected Lectures and Speeches of Lord

Lothian (Philip Kerr), London and New York, Lothian Foundation, 1990. 51 Paramount were the two articles by Einaudi “La società delle nazioni è un ideale possibile?”

(Is the League of Nation a feasible ideal?) and “Il dogma della sovranità e l’idea della Società

delle Nazioni” (The dogma of sovereignty and the idea of the League of Nations) written by the

Italian economist under the pseudonym “Junius”. They appeared in the Milan newspaper

«Corriere della Sera», on January 5 and December 28, 1918. See on this, among many others,

Charles Delzell, The European Federalist Movement in Italy: First Phase, 1918-1947, «The Journal of

Modern History», vol. 32, No. 3 (Sep., 1960), pp. 241-250 (p. 241).

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105 C. Nasini, The Origins

Drawing together the Kantian theory of international anarchy with the

realist view of raison d’etat as the main driving force in relations among

sovereign states, these writers illustrated the damaging consequences of

national sovereignty in the economic, political and social field. The remedy was

perceived to lie in the institution of a Federal government which drew its

institutional inspiration from authors like Alexander Hamilton, A.V. Dicey and

John Stuart Mill52. Against this background in the Thirties many British

politicians, from Winston Churchill to Clement Attlee and Ernest Bevin,

welcomed the idea of creating a United States of Europe53.

This early debate nurtured subsequent literature by other significant

British protagonists from both the Liberal and Socialist milieu who gathered

around the movement of “Federal Union” after its creation in 193854. Through

the medium of “Federal Union” Lothian, Curry and Robbins’s writings reached

Italy and along with those by Luigi Einaudi they became the intellectual

backbone of Italian Federalism55.

“Federal Union” was the creation of three unknown British young men, C.

Kimber, D. Rawnsley and P. Ransome, who in late 1938 established the

movement under the influence of personalities like Lothian, Robbins and

Curtis56. Curtis in particular provided Kimber and his two fellows with a copy

of the recently published path-breaking federalist pamphlet Union Now by

American journalist Clarence Streit to acquaint them with the revolutionary

52 Cfr. John Pinder, “Federal Union, 1939-1941”, in Walter Lipgens (ed. by) Documents on the

History of European Integration, vol. II, Plans for European Union in Great Britain and in Exile, 1939-

1945, Berlin and New York, Walter de Gruyter, 1986, p. 29. 53 For a précis of Churchill’s Federalist formula see Hugo Young, This Blessed Plot. Britain and

Europe from Churchill to Blair, London, Basingstoke, 1998, pp. 10-25. Young also summarizes

Attlee and Bevin’s standpoints on the issue, see p. 25 and fll. See also John T. Grantham, The

Labour Party and European Union, 1939-1951, PhD dissertation, Cambridge , 1977, in particular p.

16 and fll. 54 One of the most complete account of “Federal Union” is in Richard Mayne and John Pinder,

Federal Union: the Pioneers, Basingstoke, Macmillan, 1990; see also Andrea Bosco, “Federal Union

e le origini dell’offerta di ‘indissolubile unione’ di Churchill alla Francia”, (Federal Union and

the Origin of Churchill’s Offer of “Indissoluble Union” to France) in Storia e Percorsi del

Federalismo, vol. II, op. cit., pp. 1139-1196. 55 On their wide impact of the British authors in Italy see John Pinder, Tre Fasi nella Storia… (Tre

Phases in the History of British Federalism), op. cit., p. 386. Particularly well received were the

two works by Robbins Economic Planning and International Order, London, Macmillan, 1937; and

Id., The Economic Causes of War, London, Jonathan Cape, 1939. 56 See J. Pinder and R. Mayne, Federal Union, op. cit., pp. 10-11. On the early months of “Federal

Union” see also A. Bosco, Federal Union e l’origine…, op. cit., pp. 1147-1167.

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106 C. Nasini, The Origins

views of the American journalist57. At the same time, Lothian and Robbins

contributed to propagandize the activities of Federal Union within the British

establishment. It resulted in the confluence of some of the finest British

personalities into the movement58. Among them were academicians like Ivor

Jennings, William Beveridge, Norman Angel and Arnold Toynbee. Meanwhile

also intellectuals and politicians like Barbara Wootton, Ronald G. Mackay and

Konni Zillicus soon adhered59. By the spring of 1940 Federal Union counted

over eight thousand members which became twelve thousand the following

year.

Apart from numerous branches throughout the major British cities, sub-

branches were established in France, Holland, Belgium and Switzerland60.

Federal Union deplored the League of Nations, welcomed the creation of a

European supranational and constitutional Federation endowed with a directly

elected European parliament, an independent executive power, a Court of

Justice and a police force61. That is, all those instruments able to curb the

bellicose expansionism of the European nation state. The exact composition of

the proposed Federation remained a matter of debate although the most

popular option was the one which saw as prospective members Britain, France,

Germany as well as the small democracies of Western Europe62.

No wonder, therefore, that the debate around “Federal Union” gathered

momentum in Britain with the outbreak of the Second World War. In January

1940 the Foreign Office entrusted Arnold Toynbee and Alfred Zimmerman,

who were both members of “Federal Union” as well as of the Chatman House

think-tank (also known as the Royal Institute of International Affair), to draft an

Act of Perpetual Association between the United Kingdom and France. The document

was intended as the constitutional nucleus of the prospective United States of

Europe63. An offer on this line was actually rejected by the French government

on the eve of its decision to surrender to Germany64. Nevertheless, as already

noted, the alliance between Britain and France remained one of the central

tenets of post-war British foreign policy. Around a prospective British-French

57 Ivi, pp. 1152-1159. The pamphlet by Streit advocated the creation of a Federation which must

include the North American states, the countries of Western Europe and those of the

Australasia. See also on this J. Pinder, Federal Union 1939-41, op. cit., p. 29. 58 See Bosco, Federal Union e le origini dell’offerta…, op. cit., in particular pp. 1147 and 1157-1158. 59 Ibidem. 60 On the membership, Ivi, pp. 1161-1165. 61 Andrea Bosco, Federal Union e le origini dell’offerta…, op. cit., pp. 1147-1167; pp. 1152-1153. 62 Ibidem. 63 See Ivi, p. 1181-1191. 64 See Ivi, p. 1145-1146.

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107 C. Nasini, The Origins

axis, Bevin tried for some time to launch a distinctly British proposal for a

cooperation or even economic unification of the Western countries of Europe65.

In Italy during the Twenties and Thirties the federalist debate had centred

on the writings of Einaudi but also on those of members of the “anti-fascist

intelligentsia” who had gathered around the Giustizia e Libertà (Justice and

Liberty) movement of democratic socialist Carlo Rosselli66. While in exile from

Fascist Italy prevalently in France, Switzerland and the United States, these

Italians had kept alive the belief of Rosselli in a Europe-wide common fight

against the Nazi-Fascism and in the creation of the United States of Europe. In

the United States, the former Foreign Minister Carlo Sforza authored several

influential books, among which, most notably, the 1930 Gli Stati Uniti d’Europa.

Aspirazione e Realtà (The United States of Europe. Aspiration and Reality)67.

Sforza became the leader of the Mazzini Society, the anti-fascist coterie created

in the United States by anti-fascist Harvard professor Gaetano Salvemini in

1939.

The Mazzini Society was also indebted to the inheritance of Giustizia e

Libertà of which Salvemini had been one of the founders and therefore it

embraced its longing for the United States of Europe68. In a more immediate

context the Mazzini Society’s efforts were directed to obtain Allies’ support for

a Comitato Nazionale Italiano which would act as a sort of anti-fascist government

in exile led by Carlo Sforza and devoted to the cause of Italian liberation69.

Among the goal that the American coterie wanted to achieve through Anglo-

American aid was the constitution of a so-called “Italian legion” of anti-fascists

to be delivered onto the peninsula in parallel with an allied landing70.

Other Italian antifascist exiles had strong Europeanists leaning. In France

the right-wing Socialist Claudio Treves and the Republican Silvio Trentin

respectively animated the anti-fascist journal La Libertà in Paris and the

movement Libérer et Fédérer in Lyon, while Ignazio Silone, also a right-wing

65On the alliance with France among many others see Larres, “A Search for Order…”, op. cit., in

particular pp. 77-82. 66 Articles on the European Federation appeared frequently in the journal «Quaderni di

“Giustizia e Libertà”» which Rosselli edited as an exile in France from 1932 to 1935 before being

assassinated by Fascist emissaries in 1937. See C. Delzell, “The European Federalist

Movement…”, op. cit., pp. 242-243. 67 C. Sforza, Gli Stati Uniti d’Europa. Aspirazione e Realtà (The United States of Europe. Aspiration

and Reality), Lugano, 1930. 68 Cfr. Antonio Varsori, Gli Alleati e l’emigrazione democratica anti-fascista (1940-1943), Sansoni,

Firenze, 1982, in particular p. 39 and passim. 69 Ivi, pp. 127-128. 70 Ibidem.

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108 C. Nasini, The Origins

Socialist, established the fortnightly L’Avvenire dei Lavoratori in Zurich71.

Relations between many of these exiled intellectuals, for instance Carlo Sforza

and the Mazzini Society in the United States, and the British intelligence were

prolonged and intense since the early Forties.

Italian Federalist Anti-fascism in the evidence about British Special Operation

Executive

Details of the relations entertained between SOE and Italian anti-fascists either

in the United States or in Switzerland are particularly detailed in the

abovementioned SOE file folders which contain previously withdrawn dossiers.

Among these dossiers the most informative are those concerning Leo Valiani,

Emilio Lussu and Aldo Garosci. There are, however, several other dossiers

concerning further Italian Federalists. This is the case for instance of the future

influential Italian Ambassador in the United States Alberto Tarchiani of whom

also there is trace in SOE files. Other Italians who appear in contact with British

SOE during WWII like Ugo La Malfa, Alberto Cianca, Filippo Caracciolo, and

Alberto Damiani in their capacities at that time as leading members of the

Action Party also subscribed to the Europeanist crusade of the party.

Detailed relations of SOE with some of these Italians in the United States

are also revealed in a document of American provenience dated March 1942. It

reflects a mixture of strategic considerations and ideological predilection which

were so typical of SOE’s attitude in dealing with the patriots and that the

Americans of OSS were quick to espouse as soon as they entered the conflict.

The document sent by agent John C. Wiley to OSS’s head William Donovan,

asked the permission of “stepping in” in lieu of SOE in the backing of the

Mazzini Society as a matter of great urgency72. According to the memo, “the

British had since some time been paying a subsidy of approximately $2.000 a

month to various individuals connected with the Mazzini Society”73. As the

American agent emphasized the British behavior had reflected their belif that

the Mazzini Society had “a representative character of the very best sort […] In

a conspicuous way, it symboliz[ed] the continued existence of free Italian

sentiments in respectable quarters. […] In fact, the most valuable human

elements in the Italian picture [were] to be found grouped [there]”74.

71 See C. Delzell, The a European Federalist Movement…, op. cit., pp. 242-243. 72 Cfr. National Archives and Records Administration (NARA), RG 226, Entry 210, box 62

Memorandum for Colonel Donovan dated 6 March 1942. 73 Ivi, p. 1. 74 Ivi, pp. 1-2.

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109 C. Nasini, The Origins

What concerned the American most, was the fact that after the United

States’ entrance into the conflict, the British (in accordance with US State

Department) had believed it appropriate to terminate their subsidy within the

United States territory therefore leaving the Mazzini Society in a financial

vacuum. The agent claimed that if the Americans would not provide a

substitute to British support this would result in an unfortunate situation for

their relations with Italian antifascism in general and the Mazzini Society in

particular. Thereafter the agent, clearly because of what had inferred from

British attitude, started to commend the significance of the Mazzini Society to

Bill Donovan.

He praised the Mazzini Society both as an indispensable conduit of

information on Italy but more importantly as a valuable political tool. Since the

Mazzini Society enjoyed the favour of millions of Italians outside Italy, the

agent stressed, that its “influence in the conduct of the war and in the shaping

of an eventual peace [would] be considerable”75. Therefore, the agent believed

that it would be an enormous advantage for the United States to replace the

British in their role of financier as well as of patron of the Mazzini Society76.

Unquestionably this document is quite a tangible proof of the British goodwill

towards the Mazzini Society and the Italian anti-fascism in general.

In 1943 after their return to Nazi-occupied Italy in consequence of the fall

of Mussolini, several of the abovementioned Italian exiles started their

underground battle within the Italian Resistance while continuing their

Federalist propaganda. In so doing, they joined efforts with the group that

meanwhile had conceived one of the most important Federalist document of the

whole European Resistance: Manifesto “Per un’Europa libera e unita” (“For a Free

and United Europe” Manifesto) (1940-1941). Written by Altiero Spinelli, Ernesto

Rossi and Eugenio Colorni during their captivity on the Fascist prison island of

Ventotene, the Manifesto drew its key inspiration, as already noted, from the

writings of Lothian, Curties and Robbins.

In 1943 the Ventotene Manifesto became the programmatic document of the

so called Movimento Federalista Italiano (Italian Federalist Movement) led again

by Spinelli and Rossi. It had been established at the end of August of that year

during a clandestine meeting in Milan in the house of Mario Alberto Rollier,

another prominent Federalist, who would maintain a leading role inside the

movement for many years. It also is worth mentioning Rollier here because

there is evidence of continuing British attention towards Rollier’s Europeanist

activities even after the end of the conflict.

75 Ibidem. 76 Ivi, p. 3.

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110 C. Nasini, The Origins

Finally, one last anti-fascist bastion of strong Federalist inclination was the

Partito d’Azione Italiano (Italian Action Party, alias PdA) created underground in

Italy in 1942 by some militants of the former Giustizia e Libertà and other who

shared Rosselli’s democratic socialist inclinations. There is also evidence that

SOE kept a close eye on the Action Party’s publicity as it appeared in the party’s

clandestine journal Italia Libera. In particular SOE’s files contain copies of the

Manifesto of the Action Party which came out in 1943 on Italia Libera. British

intelligence also prepared some positive appreciation of the document for the

Foreign Office as well as the translation of some of its parts. Nor did SOE forget

to signal in its report to London the strong Federalist line of the Action Party

with regard to post-war European relations77.

The new intelligence evidence shows, in other words, that there was a

consistent convergence between the British and the Italians at least as far as the

non-communist Left was concerned from both sides. It seems that a thin but

enduring thread was provided by the belief, common among a certain political

milieu of the two countries, in the need of providing post-war Europe with new

intellectual energies and original strategies of cohabitation for European people.

As David Stafford, one of the leading historians of SOE, has pointed out with

reference to SOE’s central role in stirring Resistance movements according to

British strategic thinking: “the theory of the “European Revolution” was

already, long before the Soviet Union entered the war, common currency on the

Left of the British political spectrum”78.

SOE was created because it was believed capable of enhancing

widespread revolt among the population of the Nazi-conquered countries of

Europe. Stafford calls SOE the detonator factor of European popular uprising79.

This is also emblematically expressed in Churchill’s famous remark on the

occasion of SOE’s creation on July 1940: “Now set Europe ablaze”. The creation

of SOE was the direct consequence of British military unpreparedness in 1939-

1940, when the British Chiefs of Staff did not consider a major British land

offensive in Europe feasible for several months to come80. This was in fact

before that the United States and Soviet Russia entered the war. Representing

the principal strategic alternative to a more direct, as much infeasible, military

77 The National Archives (TNA), Special Operation Executive, Series 1, Special Operations in Western

Europe, document HS6 904/00035-00050. The folder contains copies of the Action Party’s

Manifesto as expressed through the «Italia Libera» the journal that SOE routinely sent to London

for appreciation. 78 D. Stafford The Detonetor Concept: British Strategy, SOE and European Resistance after the Fall of

France, «Journal of Contemporary History», vol. 10, n° 2 (April 1975), p. 208. 79 Ivi, pp. 191; 199-200. 80 Ivi, p. 193 in particular.

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111 C. Nasini, The Origins

involvement, SOE was established amidst a lot of concerns. These regarded its

more immediate objectives. It also had to do with the choice of a suitable chief

for the organization. Even its political complexion was an underling issue.

It must be born in mind that SOE was conceived as an extension and a

supplement to the activities of Ministry of Economic Warfare established in

September of 1939. The latter’s scope of carrying on “economic pressure”

against the enemy through blockade, air bombing of strategic targets and

sabotage was expanded to include the active role of the oppressed population

of Nazi-occupied Europe. SOE’s role was that of igniting the spirit of revolt of

these potential resistance movements through any means. This meant not only

to provide the European nationals with support in term of weapons and

ammunition, albeit these were much needed, it involved the much more

difficult task of providing the European patriots with same sharable political

prospect for the future which would spark them into action irrespective of their

nationality81.

Stafford, in other words, plays up the ideological dimension behind the

creation of SOE. An interpretation which also explains why, in the end, Hugh

Dalton was chosen to lead the organization. The choice of the ambitious Labour

representative, already head of the Ministry of the Economic Warfare, meant

that the new organization would prevalently count on the leftist forces of

Europe for the implementation of its strategy. As Dalton himself declared in his

memoirs the best energies for the kind of subversion required resided in his

British constituents and their counterparts throughout Europe82. Their action

should include methods like labour agitations and strikes, boycotts and riots as

much as propaganda. It was Dalton’s opinion that “SOE would be a

revolutionary organization. Just as it was his opinion that SOE had as his field of

operations a Europe’s potentially open revolt”83.

At the core of SOE creation, in other words, were ideological elements of

such a strong force, that it affected all its structure and activities. This is part of

the reason why SOE was not put under service control but was instead given to

Dalton’s command and its personnel were recruited as much among clerks and

commercial travellers as among men who could understand the European

workers’ aspirations84. Yet their goal should transcend national boundaries85.

Being conceived as a continent-wide fight, it was to contain some sort of supra-

national aim. As again Dalton pointed out, “what was needed was an

81 Ivi, pp. 203; 208. 82 Ivi, p. 200. 83 Ibidem. 84 Ivi, pp. 207-208. 85 Ivi, pp. 203; 208.

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112 C. Nasini, The Origins

organization to coordinate, inspire, control and assist the nationals of oppressed

countries who must themselves be the direct protagonists. We need absolute

secrecy, a certain fanatical enthusiasm, willingness to work with people of

different nationalities and complete political reliability”.

Could not the pursuit of such a common project for the European people

start from an evaluation of the ideas that their own Resistance representatives

had in mind? The significant interest that SOE showed for Italian Federalism as

early as in 1940 seems to provide a positive answer to this question. On the

other hand, British own acquaintance with Federalism at that time was enough

to make them believe that Federalism could be a prospective founding value in

the construction of a new European identity.

The content of much of the discussions which took place between the

Italian intellectuals and SOE representatives; or the motivations which pushed

SOE in heavily financing most of these personalities (emblematically Carlo

Sforza’s coterie of the “Mazzini Society”), add strength to the picture of SOE as

motivated by this ideological tinge. Many further revealing episodes occurred

between 1940 and 1945 when SOE started liaising with the Italian antifascists in

order to find a strategy for bringing about the collapse of Mussolini’s regime as

a conduit to Italy’s capitulation86

This happened, for instance, when between 1941 and 1942 Emilio Lussu

came into contact with SOE’s emissaries first in Gibraltar and Malta and later in

Lisbon and London87. Lussu was a well-known antifascist exile of strong

Socialist leaning who had fought in the International Brigades during the

Spanish Civil War. He had actively participated in the creation of the Giustizia e

Libertà movement with Rosselli and later, in his native Sardinia Island, had also

founded the Partito Sardo d’Azione (Sardinian Action Party) of Federalist

orientation88. Lussu was, along with Silvio Trentin, the Italian theorist of the

Federal state who saw in decentralization and local autonomies, the solution to

the problem of bureaucratic centralization of the authoritarian state. As already

noted Lussu had originally come into contact with SOE in 1941. Since these very

early contacts, the Sardinian intellectual had unfolded to SOE his original

subversive scheme for Fascist Italy.

86 Evidence of these connections are already contained in the recent volume by Moreno

Berrettini, La Gran Bretagna e l’antifascismo italiano…,op. cit., passim. 87 Cfr. TNA, collection Special Operation Executive, Series 1, Special Operations in Western Europe,

document HS9/1569/4. This is a very large folder containing a lot of evidences concerning the

cooperation between SOE and several Italian anti-fascist exiles, especially in the United States. It

also contains information on Lussu’s interaction with SOE. 88 Berrettini, La Gran Bretagna e l’antifascismo italiano…, op. cit., p. 24 and fll.

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113 C. Nasini, The Origins

In his strategy the subversion from inside of the country espoused his

Federalist thinking and his wishes of bringing about the autonomy of Sardinia

from the rest of the peninsula89. According to Lussu, the Sardinia island should

became the stronghold of an autonomist and anti-Mussolini rebellion under the

lead of some Italian officers of the former Brigata Sassari (Sassari Brigade) who

had fought with him during the First World War. This rebellion should be

launched in parallel with an Allied landing in the Island which would help the

insurgence to spread into the rest of the country bringing about the end of the

regime and of the alliance with Germany. From a purely military point of view,

as again noted by Stafford, since 1940 the islands of Italy and its southern

shores had both became central in SOE’s preparatory strategy, as they

represented in fact potential targets of a subsequent Allied landing90.

On the other hand, Lussu’s plan, code-named operation “Postbox”, was

initially rejected by the British Foreign Office because of the demands the

Sardinian had posed in return for his collaboration91. This comprised some

political guarantees for Italy especially in the territorial sphere where Lussu

pleaded the cause of the preservation of the Italian colonies and that of the

italianità of Trieste. At the same time, there is evidence that during 1941 the

cooperation was forestalled by Lussu’s initial refusal to became an agent for

SOE. Apparently Lussu retorted to the British that “no exponent of Italian

antifascism would ever have accepted to become a British agents and thus

serving a foreign power”92. On the other hand, there is evidence that no later

than in January 1942 Lussu softened his position with respect to SOE’s request

of enrolment into its ranks. Probably financial reasons were at the core of

Lussu’s change of views in this respect93. According to further documentation

of SOE provenience, Lussu from 1942 became an “extremely friendly contact”

of Baker Street (alias SOE headquarters).94 Lussu thereafter offered SOE many

useful links with prominent Italians both in the United Kingdom and in the

United States; for instance with people like abovementioned Alberto Tarchiani

at that time first secretary of the Mazzini Society and with the future Italian

89 Ibidem. 90 Cfr. D. Stafford “The Detonetor Concept: British Strategy, SOE and European Resistance”, op.

cit., p. 206. 91 See also the account of operation Postbox based on SOE’s documentation in E. Di Rienzo,

Quando Emilio Lussu voleva regalare la Sardegna a Churchill, in «il Giornale», 14 giu. 2010. 92 Ibidem. 93 Ibidem. 94 Cfr. TNA, Special Operation Executive, Series 1, Special Operations in Western Europe, document

HS9/1569/4. See dossier on Lussu.

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114 C. Nasini, The Origins

Minister Alberto Cianca. These two men paved the way into the inner

entourage of the Mazzini Society for SOE95.

Consequently, by 22 January 1942, Lussu’s project was “being considered

[in London] in the highest circles.” The documents show that Lussu was

considered as a personality of the “highest standing” by SOE and eventually he

met with “ministers and senior officials like Clement Attlee and Stafford

Cripps” in UK96.

It confirms an early interest in the Left of the British political

establishment, albeit not without some scepticism, in the belief which was

central for Lussu (as well as for the greatest part of the Italian non-communist

Left ) in a possible gradual overcoming of the shortcomings of the nation state

through a different political compromise among the European countries. No

wonder then that personalities like Leo Valiani, Aldo Garosci, Ernesto Rossi

and Altiero Spinelli whose faith in Federalism was even stronger than that of

Lussu, were not only listened by the British but received ample material and

moral support from SOE.

In sum what emerges from these files confirms what until today has been

merely maintained in some personal chronicles or memoirs, which have

unequivocally been rejected by traditional historiography. The essential role

played by the non-Communists did not match with the prevalent national

rhetoric according to which the Communists brigades were the real

protagonists of the Italian Resistance. In the face of the radicalization of the

political and ideological climate in post-war Italy, the “non-communist”

Resistance was progressively discounted. Its role gradually faded away as

dissonant with the national account of the valiant Brigate Garibaldi, the Marxist

Partisan formations which unaided – or worse, even opposed by the Allies –

distinguished themselves in the antifascist fight thus restoring morale to Italy.

The most revealing episode of SOE involvement with Italian Resistance

leadership of Federalist orientation is that of Leo Valiani, even if there is no

mention of this clandestine connection with SOE in his celebrated 1947 account

of his antifascist experience, Tutte le strade portano a Roma (All Roads Bring to

Rome)97. Valiani published Europeanist articles and was acquainted to the inner

95 Ibidem. 96 Ibidem, see Report on Lussu from ‘J’ dated 16 May 1942; and Dispatch from ‘J’ on 22 January

1942. 97 L. Valiani, Tutte le starde portano a Roma, Roma, 1947. A full list of Valiani’ s own prolific

writing, comprising over hundred publications, is in

http://www.fondazionefeltrinelli.it/feltrinelli-

cms/cms.view?pflag=customP&id=FF9000000208&physDoc=208&munustr=055&numDoc=289.

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115 C. Nasini, The Origins

entourage of the underground Spinelli’s Italian Movimento Federalista Europeo98.

Leo Valiani was, in fact, one of the main leaders of the Italian Resistance in

Northern Italy in his capacity as representative of the Action Party within the

CLNAI (Committee of National Liberation of Northern Italy) the clandestine

body in charge of the antifascist movement in Milan. Later in the post-war he

was a preeminent member of the Constituent Assembly for the Italian Republic

as well as seven time deputy in the Italian Parliament. Valiani appears as a

leading figure in any single account on the Italian Resistance not only because

he was one of its main leaders but particularly because he presided at all the

most important negotiation meetings between the Resistance leadership and the

Allies.

Valiani attended, along with Ferruccio Parri (the future Italian Prime

Minister in 1945), the very first one of this meetings held in Lugano on 3 and 4

November 1943. This was the first time after the Armistice when a small Italian

Resistance delegation officially met the heads of both SOE and OSS,

respectively John Mac Caffery and Allen Dulles. The second one of these

meetings was held again in Switzerland between 23 and 29 October 1944 and it

included, via a second small Italian delegation, the participation of Valiani and

Alfredo Pizzoni, the then acting president of the CLNAI. The two, during a

very sensitive phase of the Italian Campaign, were summoned in Switzerland

by Mac Caffery and Dulles to ascertain if, in case of a potential untimely

evacuation of the Germans before the arrival of the Allied armies in the North,

the Italian Resistance leadership would be able to maintain ‘law and order’

within the movement and the population and prevent possible unpredictable

civil unrests. According to Pizzoni’s memoir, before the official meeting Mac

Caffery requested to privately confer with Valiani since – as Pizzoni infers - the

two men had already previously met99.

Presumably, though, this was not the prevalent reason for the pre-emptive

tête-à-tête between Valiani and Mac Caffery but rather the fact that SOE had

long been covertly connected with Valiani.

Finally, Valiani and Giuseppe Cadorna (the General entrusted with the

military command of CLNAI) again attended the third and last important

meeting between SOE/OSS and the Italian Resistance leadership in Switzerland,

held on 28 February 1945 in Berne100. At that time, Valiani was also one of the

98 See for instance Valiani’s 1945 article in http://patrimonio.fondazionefeltrinelli.it/new-

feltrinelli/biblioteca/detail/FF9000000706/dalla-bomba-atomica-alla-federazione-degli-stati.html 99 A. Pizzoni, Alla Guida del CLNAI (My Leadership in the CLNAI), Bologna, Il Mulino, 1995, p. 82

and fll. 100 See Luigi Cadorna, La Riscossa. Dal 25 luglio alla Liberazione (The Redemption. From the 25 of July

to the Liberation), Milano, Rizzoli, 1948, p. 223 and fll.

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116 C. Nasini, The Origins

three Italian leaders in charge of a body created in February 1945 within the

Resistance: the Comitato per l’insurrezione (Insurrectional Committee). It was a

kind of insurrectional “Directory” established by the Communist, Socialist and

Action Parties to direct the popular uprising which was meant to erupt in

coordination with the final advance of the regular Armies in order to harass and

disrupt the Germans. Yet, at the beginning of 1945 the Allied commands were

eager to know if there were also further and unwelcomed aims behind the

recent constitution of the comitato insurrezionale. The ultimate aims of the new

committee were certainly a matter of concern for the Allies as this board

comprised exclusively the Italian parties from the Left. Presumably, the

situation in Italy must have appeared quite similar to the incidences that had

recently occurred in Greece.

The new files from the SOE archives are quite explicit on the

abovementioned Swiss meetings, particularly, on the history of Valiani’s

adherence to SOE. The Italian anti-fascist exile was recruited in Mexico by SOE

in June 1943. The first reference to the inclusion of Valiani in SOE’ s projects is

in a memorandum from SOE’s Italian agent Max Salvadori addressed to “J”,

that is, C.L. Roseberry, head of SOE Station in London101. In the document

Salvadori, alias Sylverston, who in 1942 had befriended Valiani in Mexico, not

only suggested “J” to enroll Valiani into SOE but also to assist him in his wish

to return to Europe to fight102. In the same memo Salvadori also mentioned -

confirming earlier evidences - other prominent members of the American

Mazzini Society, namely, Emilio Lussu and Alberto Cianca who, in their

capacities of already friendly “contacts” of SOE, would be able to persuade at

least 10 more Italians from the coterie to work for SOE. On the other hand, at

the core of Salvadori’s interest was Leo Valiani, alias Leo Weiczen or also

Giuseppe Federico. Appreciation of Salvadori’s memorandum in fact is stated

in the following extract “Max is eager that Weiczen is sent here [in London] to

work with him”103. As a consequence of Salvadori’s pressure SOE branch of

New York had thus supported Valiani in obtaining a visa for the United States

and later in August 1943 to embark on the warship S.S. Mosdale leaving from

Halifax to London (many details on Valiani’s trip across the ocean are in several

SOE cypher telegrams to and from New York included in the file folder)104.

101 See TNA, Special Operation Executive, Series 1, Special Operations in Western Europe, document

HS 9/1305/ 6. 102 Ibidem. 103 Ibidem. 104 Ibidem.

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117 C. Nasini, The Origins

Yet, Valiani’s own SOE record sheet is even more detailed105. The

document undersigned on 14 August 1945 by SOE Lt. Col. Richard Hewitt (a

prominent member of SOE in Italy) states that Valiani was, in fact, a SOE

“agent” from 1943 until 25 July 1945106. Specifically, the document reads

“Valiani was infiltrated via Switzerland before the Armistice into the Milano

area. He was engaged in Resistance activity of a purely political nature and was

closely connected to the CLNAI. As such, he contributed to setting it up and its

further work. He was responsible to ‘Y’ for reporting on his resistance activity

and became one of the main Action Party leaders in Milan”107. Finally, with

regard to the liquidation matter concerning Valiani, the record sheet shows (in

an appendix B) that Valiani undersigned a certification, after the Italian

Liberation in Milan, declaring that “as from 25 July 1945 his association with

No.1 Special Force is officially terminated and that he has no claim, financial or

otherwise on No 1 Special Force in Italy or elsewhere in respect of himself, his

relatives or his friends”108.

On the other hand, as we will see, there is further evidence that the British

commands were not at all inclined to hastily terminate their connection with

Valiani. Indeed, the records demonstrate that SOE actively advised the British

authorities to espouse and assist Valiani’s expressed wish to visit the UK in the

summer of 1945.

In truth, the work provided by Leo Valiani must have been quite

important for SOE. As documentation reveals, Valiani (like his friend and

colleague Max Salvadori) had acted as British ‘watchdog’ among the Italian

Resistance. There is evidence that SOE always considered it important to confer

with Valiani and thus he was always required to be among the participants of

all the Resistance delegations in Switzerland. As another series of documents

suggest, the last of the three aforementioned meetings was a matter of

particular concern for the Anglo-Americans109. Held in Berne on 28 February

1945, it was the first meeting to take place after the Greek Communist coup and

during the time when the recently established comitato insurrezionale,

dominated by the Italian leftist parties, was hectically preparing the national

uprising with the supposed intention of disrupting the Germans. It seems likely

that in a similar situation both SOE and OSS must have felt the urgent need to

confer with their most pre-eminent Italian ‘watchdog’ alias Valiani. This

105 See TNA, Special Operation Executive, Series 1, Special Operations in Western Europe. Particularly

file folder HS 9/1569/4 includes a lot of further information of interest on Valiani. 106 Ibidem. 107 Ibidem. 108Ivi. See Appendix B. 109 These documents are also contained in file folder HS9/1569/4.

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118 C. Nasini, The Origins

urgency regarded the exigency of being reassured on the loyalty of the Italian

Resistance to the Allies during weeks when both SOE and OSS were delivering

tons of military aids to the Partisans. The extreme concern of SOE on the matter

is confirmed by the fact that the Swiss meeting was preceded by an intense

exchange of cypher telegrams among London, Berne and New York (where was

the SOE branch which had originally recruited Valiani) in order to ascertain if

Leo Weiczen was still a reliable agent110.

Consequently, in a dispatch from London to New York on 19 February

1945, the London Station wrote: “Leo Weiczen now working in occupied Italy.

To our knowledge he was originally communist but understand that during his

exile he had no association with the communists and only with Giustizia e

Libertà [the movement forerunner of the Action Party] people. He is now […]

on central Liberation Committee in Northern Italy. Complications with

Communists may arise and we wish to know whether we can rely on Weiczen.

Report quickly please”111. From New York, SOE replied on 20 February:

“Subject [a pencil annotation on the cypher telegram adds the name of Weiczen]

was specially recommended by Salvadori in whose judgment we have absolute

confidence. Subject was not associated, repeat not associated, with the

communists but on the contrary while in Mexico took a very definite

anticommunist line. We feel you can have full confidence on him. You can

obtain confirmation and all details of subject’s activity in Mexico from

Salvadori”112. On the same day a further and last telegram from London to

Berne stated: “Concerning Leo, New York telegraphed as following: while in

America he never was in contact with Communists but rather adopted an

anticommunist line. You can trust him”113.

Further evidence of Federalists’ implication with the Secret Services of the United

Kingdom

Aldo Garosci’s codenames for SOE were Magrini, Ferry and Colombo. Like

other Italian dissenters who became British agents he was first a militant of

Giustizia e Libertà (the anti-fascist movement of Carlo Rosselli) and later a

militant of the Partito d’Azione. In 1940, he had repaired to the United States

where he was among the founders of the Mazzini Society and was one of the

first Italians that SOE recruited via the American coterie. As his SOE record

sheet reads: “Garosci […] arrived from New York to the UK on 28 June 1943.

110 Ibidem. All the cipher-telegraphs are in copy in the file folder. 111 Ibidem. 112 Ibidem. 113 Ibidem.

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119 C. Nasini, The Origins

[…] To be organiser-agent in Massingham commencing on July 1943”114. The

document adds that after returning to Europe under SOE auspices, Garosci was

recruited for operation “Arnold”. Consequently, he was parachuted down into

the Rome area on 12 December 1943 in order to carry out subversive

propaganda and resistance until the Liberation of the city. Afterword he was

mainly engaged in political activities within the Action Party. Although the

records stress that after the Liberation of Rome, Garosci loosened his

association with SOE, he was officially discarded no sooner than the 27

September 1945. A last remark adds: “non-SIM agent” “recommended for

reemployment and contact”115. Garosci’s profile is similar in many respects to

that of many other SOE’s non-SIM Italian recruits. Like many of them, after

embracing socialism at an early stage, Garosci gradually moved towards a more

non-maximalist position and espoused the Europeanist crusade of the Action

Party. In 1954, whilst a militant of the Partito Social Democratico Italiano

(Italian Social Democratic Party) - which had broken with the Moscow-aligned

Italian Socialist Party (PSIUP) of Pietro Nenni in early 1947 - Garosci published

Il pensiero politico degli autori del ‘Federalist’ (The Political Thinking of the

Authors of the ‘Federalist’ ) which represented the first popularization of the

pamphlet in Italy.

The records on Garosci show that the British were not at all inclined to

hastily terminate their connection with him in consideration of a possible post-

war re-employment. The same had been the case for Valiani. On 24 August

1944, the HQ SOM (the headquarters in command of SOE in Italy) addressed a

letter of commendation about Valiani to the British General Consulate in Rome

stating that

the above mentioned Italian [Valiani] has given most distinguished services in connection with

Special Operations. […] It is understood that he has recently made application in his capacity as

a journalist, through the Press Attaché at the Embassy in Rome, for permission to visit the

United Kingdom. It would be appreciated if all possible assistance might be given to him to

achieve that end.116

Ernesto Rossi and Altiero Spinelli’s underground activities in Switzerland

were also part of these intense clandestine exchanges, albeit in a relatively more

independent capacity. As we have seen, during WWII neutral Switzerland

became the crossroad where SOE liaised with its agents of foreign nationality.

114 See TNA, Special Operation Executive, Series 1, Special Operations in Western Europe, document

HS 9/565/5, Garosci’s record sheet. 115 Ibidem. 116 TNA, Special Operation Executive, Series 1, Special Operations in Western Europe, document

HS9/1569/4.

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120 C. Nasini, The Origins

Rossi and Spinelli were other “contact or source” of SOE in Switzerland.

Although there is no documentary evidence of their proper enrolment into the

SOE ranks, following their footsteps in Switzerland we find them in contact

with so many SOE agents that there is no doubt of their working under British

auspices. Rossi, on the other hand, had been actively involved in summer 1943

in the negotiations occurred in Switzerland between exponents of the Italian

anti-fascism underground and SOE /OSS in order to devise a strategy to bring

about the end of the regime117.

At that time, Rossi had unfolded his own plan to the Mac Caffery who

apparently led these Swiss meetings with an attentive Allen Dulles in the

background118. As for Spinelli, after moving in Switzerland at the end of 1943 he

actively worked to develop extensive underground contacts among pro-

Europeanist exiles there. His endeavours brought about the Geneva conference

of May 1944 when exponents of 9 European countries ensued the “Federalist

declaration of European Resistance fighters”119. In September 1946, Spinelli and

Rossi, as already mentioned, participated in the creation of the European Union

of Federalists (EUF) in Switzerland. Also in this case there was the involvement

of the Allied intelligence community since remnants of the American OSS, as

we will see, decided to back the creation of the European Union of

Federalists120.

The outcome of the “Free and United Europe” gospel in 1946 Italy

There is no doubt, in sum, of the leading role played by Italian Federalists

within SOE and more in general with the Allied intelligence services during the

Resistance. The post-war was different. It was not lack of determination but

rather the constraining impact of external impediments. First and foremost the

Federalist impetus of Italy was hampered by its condition of defeated country

with no international say. Partly it was also hindered by the preoccupation of

alleviating the harsh clauses imposed by the victorious powers which absorbed

most of the energies of those working in the Italian Ministry of Foreign

Affairs121. And finally it was also troubled by the need to solve the “Institutional

question” that is the choice between Monarchy and Republic.

117 See TNA, Special Operation Executive, Series 1, Special Operations in Western Europe, document

HS 7/262, War Diary 1942, vol. 1, pp. 245-246 and fll. 118 Ivi, p. 246. 119 Cfr. C. Delzell, “The European Federalist Movement…”, op. cit., p. 248. 120 Cfr. Thierry Meyssan «Histoire secrète de l’Union européenne» Réseau Voltaire

International, 28 juin 2004 http://www.voltairenet.org/article14369.html. 121 See on this Ilaria Poggiolini, Italy in D. Reynolds (ed. by), The Origin of the Cold War in Europe,

op. cit., pp. 128-130. As for the year up to 1947 Italian government found mostly concerned

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121 C. Nasini, The Origins

The Italian Federalists were solid in their republican feelings, yet the

struggle within the country was not as straightforward as assumed during the

war. The alliance of the Communists in this sense was essential for defeating

the monarchists and therefore the Federalist forces in the government – albeit

not of scarce significance - did not dare to displease them with their longing for

the United Stated of Europe122. The latter option was clearly unwelcomed by the

Italian Communists. Sergio Pistone has claimed that between 1945 and early

1947 the Italian Communist Party as part of the coalition government, and

following indication in this sense from Moscow, participated in emasculating

the Europeanist outlook of Italy123.

Even the Italian Movimento Federalista, which was still active as a pressure

group – but now under a new leadership - saw its activities in fact hampered by

the momentary estrangement from the cause of Rossi and Spinelli. Both would

restart their federalist action only in consequence of the launch of the Marshall

plan which Spinelli and Rossi appreciated in so far as it provided the Western

European countries with new room for manoeuver towards their Federalist

goals124. Yet, at the end of 1945 Spinelli made manifest his pessimistic view of

the general situation of the continent after the conflict. It frustrated the strategy

envisaged in his Ventotene Manifesto, viz. that of a short, sharp struggle for

federalism taking advantage of the power vacuum brought about in Europe by

the collapse of Hitler’s Reich125. European countries had instead been occupied

and stabilized in consequence of the decisions taken at the international

conferences of Teheran, Yalta and Postdam by the “Three Big”. Powerful

foreign powers had once again deprived larger European masses of the

freedom of deciding of their own foreign policies126.

The only action feasible in those circumstances was, according to Spinelli,

the intellectual task of “wakening European minds” on the magnitude of the

around the peace treaty terms which were negotiated in a growing atmosphere of East-West

confrontation. Among the Italian government’s concerns were pressing issues like the definition

of the boundaries of the Free Territory of Trieste; the extent of the dismemberment of the Italian

Navy and of the limitation on the Army and Air Forces; the fate of the Italian colonies,

reparations to USSR, Greece, Yugoslavia, Greece, Albania and Ethiopia. 122 Sergio Pistone, “The Italian Political Parties and Pressure Groups in the Discussion on

European Union”, in Walter Lipgens, The struggle for European Union…, op. cit., p. 133 in

particular. 123 Ibidem. 124 Daniela Preda, Declino e rilancio del MFE tra fine della guerra e Piano Marshall, in Michel

Dumoulin (ed. by) Plans des temps de guerre pour l'Europe d'après-guerre, 1940-1947: actes du

colloque de Bruxelles 12-14 mai 1993, Bruxelles-Milan, Bruylant-Giuffré, 1995, in particular pp.

516-517. 125 Cfr. Pistone, Italian Political Parties and Pressure Groups, op. cit., pp. 135; 146. 126 Daniela Preda, Declino e rilancio del MFE…, op. cit., in particular p. 493.

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122 C. Nasini, The Origins

situation127. The Movimento therefore should become a study-centre. Spinelli

was also disillusioned by those who had participated in the Resistance at his

side within the Action Party. Many of the former “azionisti”, progressive

intellectuals or middle-class students and workers from the left, that Spinelli

had seen as the prospective holders of the supranational banner had instead

launched themselves in the political arena with the goal of changing exclusively

the internal political structure of the country128. Due to the intransigence of the

Communists and the Socialists (who had joined the former with a pact of unity

of action) the issue of the European federation had progressively disappeared

from the Italian political agenda.

On the other hand, at the end of 1945 Spinelli believed that an agreement

with the Communists in the parliament was indispensable for making those

democratic reforms the country needed in the domestic field129. Therefore this

led to his decision of abandoning the Federalist crusade for fear that under

present circumstances the Italian Movimento Federalista might end up for

appealing exclusively to conservative forces130. The situation which instead

occurred was diametrically opposed. In January 1946, the new leaders of the

Italian Movimento Federalista Umberto Campagnolo and Guglielmo Usellini,

presided over a movement that Charles Delzell has defined as made in large

part of “crypto-communists”, whose objectives were unsurprisingly “hazy”131.

For almost two years the Movimento Federalista participated in that large

“third-forcist” political surge, which encompassed the majority of Europeanist

groupings in the Continent, which advocated the Federation of Europe as a

means of preventing the formation of rigidly hostile blocs132. As for the strategy

Campagnolo claimed that, what was needed, was the direct mobilization of

people133. This would bring about the revolutionary (but non-violent)

dissolution of states which would be merged through the agency of a European

Constituent Assembly in a European Federal Republic134. The latter would

include Britain and also the USSR after the soviet people had dissolved their

state135.

On the other hand, such a far-reaching project was left in the vague

concerning its more immediate political interlocutors. As already mentioned the

127 Ivi, in particular p. 498. 128 Ivi, in particular pp. 498-502. 129 Ivi, p. 501. 130 Ibidem. 131 Cfr. C. Delzell, “The European Federalist Movement…”, op. cit., p. 249. 132 Cfr. for instance S. Pistone, Italian Political Parties and Pressure Groups…, op. cit., p. 143. 133 Daniela Preda, Declino e rilancio del MFE…, op. cit., in particular pp. 503-504. 134 Cfr. Pistone, Italian Political Parties and Pressure … op. cit., p. 160. 135 Ibidem.

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123 C. Nasini, The Origins

support of Italian left was unlikely. The hazy indication of the “masses” as the

main protagonists evidently overestimated the interest of public opinion at

large for European federation. Nor Soviet appreciation of such a plan would be

more forthcoming. Finally, the Movimento’s detrimental approach to the

Atlantic option particularly informed its relations with the Italian pro-western

parties which were seen as outright inimical136. In sum, before Spinelli returned

to lead the Movimento Federalista Italiano Italian federalists had no influence on

the Italian political establishment except that they played a considerable part in

persuading the Constituent Assembly to adopt article 11 of the New

Constitution137. The latter, while not referring to European unity as such, spoke

of “limitation of sovereignty necessary to a system for assuring peace and

justice among countries”138.

It can be claimed that the Movimento Federalista‘s vision of unity of Europe

which might comprehend both Labourite Britain and Soviet Russia reflects the

same contradiction that traumatized those on the left of the Labour Party at the

end of the war139. Also in Britain the non-communist parliamentary left had

tended for a while to align itself with the “fellow travellers” in condemning

Britain and the United States for deterioration of relations with Soviet Union140.

Unlike the Movimento Federalista, however, the position of the left-wing of the

Labour Party was quite different from that of the Communist Party and by mid

1946 this was made apparent. As Anglo-Soviet differences accumulated, the

parliamentary Labour Left turned to the notion of establishing a “Third Force”

which would assume independence from both the Superpower. This unit was

considered capable to entertain positive relations with both the United States

and USSR and even help them to bridge their divergences.

From this was also to come a new commitment to the goal of a United

Europe expressed clearly at the end of 1946 in the Keep Left Manifesto. The

Third Force was firmly grounded on Britain leading a group of countries which

wished to maintain their independence from the Soviet Union. This was evident

even for the most radical personalities within the Labour Party. As early as at

the beginning of 1946 Michael Foot had expressed his conviction that Great

Britain now stood “at the summit of her power and glory because the country,

as a capitalist society run by a socialist government, could offer a middle way

136 Daniela Preda, Declino e rilancio del MFE…, op. cit., in particular p. 515. 137 Cfr. Pistone, Italian Political Parties and Pressure Groups…, op. cit., p.134-135. 138 Ivi, p. 135. 139 See Michael Newman, Socialism and European Unity. The Dilemma of the Left in Britain and

France, London, Junction Books, 1983, p. 139. 140 Ibidem.

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124 C. Nasini, The Origins

between Communism and Capitalism to the world”141. As 1946 unfolded, a

neutralist option of this kind took ground among a progressively larger number

of Labourite personalities and this, as will be said, also influenced the British

policy towards Western European integration142. In other words, the Third

Force that the Movimento Federalista had in mind was not endorsed even by

those countries that should be its main protagonists namely the Soviet Union

and Britain.

What associated Italy with Britain in 1946 was the endless discussion

entertained by the democratic left in both countries regarding the alternative of

opting for the Atlantic choice. The future members of “Keep Left” engaged

during that year in a tight debate with the Labour Government on the apparent

disadvantages of that alternative. By relying on the United States to counter the

anti-British policy of the Soviet Government, Britain was endangering its

relation with democratic forces in the rest of Europe, permitting them to be

squeezed out by the division of every country into communist and anti-

communist143. First and foremost this fate befell the Italian Action Party during

1946. Since the end of the war as part of the coalition government, the Action

Party made various attempts of gaining the confidence of the Christian

Democratic majority for a policy of more independence from the United States,

particularly in the economic sphere144.

This was for instance the goal of Spinelli during 1945 as member of the

Action Party and later in 1946 as an adherent to the newly created Movimento

per la Democrazia Repubblicana. The latter was created in February 1946 as a

consequence of the defection of Ferruccio Parri and Ugo La Malfa from the

Action Party145. Yet, eventually, the Action Party disbanded under the difficult

task of reconciling the longing of the majority of the party for social justice with

the laissez fare approach favoured by the Christian Democrats146.

Earlier in the post-war, between June and November 1945 thanks to his

outstanding Resistance records the Action Party had secured the post of Prime

141 Klaus Larres, “A Search for Order: Britain and the Origins of a Western European Union,

1944-55”, in B. Brivati and H. Jones, From Reconstruction to Integration…, op. cit., p. 73. 142 Ivi, p. 77 and fll. 143 Cfr. Newman, Socialism and European Unity, op cit., p. 139. 144 On the importance for the Action Party of a convergence with the more progressive forces of

the Italian Christian Democrats in governing Italy see G. De Luna, Storia del Partito d’Azione, in

particular p. 321 and fll. 145 Cfr. G. De Luna, Storia del Partito d’Azione, op. cit., p. 329. On Spinelli’s disposition to work

with enlightened Christian Democrats see Piero Graglia (ed. by,) Europa Terza Forza: politica

estera e difesa comune negli anni della Guerra Fredda, 1947-1954, Bologna, Il Mulino, 2000, in

particular p. XXXVIII. 146 Cfr. G. De Luna, Storia del Partito d’Azione, in particular p. 327 and fll.

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125 C. Nasini, The Origins

Minister for its leader Ferruccio Parri. However, during 1946 major differences

had progressively emerged between the democratic-reformist line of Ugo La

Malfa and the more pro-socialist line of Emilio Lussu. These divergences

combined with the electoral defeat of 1946 caused the party’s decline. It can be

maintained that the party was progressively weakened by the growing

unwillingness of the “actionists” to work with revived Christian Democratic,

Liberal and Communist parties which appeared as exclusively “interested in

promoting partisan interests” of capitalist, socialist or clerical nature147.

The Action Party had aimed to be an inter-class party and to promote (and

appeal to) the need of the large masses of Italians who were still extraneous to

the political system of the big mass-parties148. The Action Party had evidently

underestimated the importance of ideology in the strongly ideological context

of post-war Europe. No wonder that the main group of former members of the

Partito d’Azione led by Riccardo Lombardi joined the Italian Socialist Party of

Nenni in October 1947. The rest under the leadership of La Malfa formed the

above mentioned Movimento per la Democrazia Repubblicana which lasted for a

very short season before his members flowed in the rest of the Italian “lay”

parties.

In sum, in 1946 many of the former Italian Resistance leaders decided to

distance themselves from Federalist activity, devoting to the deepening of

intellectual aspects, like Rossi and Spinelli did for a while. Others, like Lussu,

with their adherence to Italian Socialist Party renounced for the time being to

the construction of Europe. Finally, personalities like Valiani or Mario Alberto

Rollier, members of the new leadership of the Movimento Federalista Europeo,

continued to nurture their links with the Anglo-American intelligence

apparatus, especially with the British, in the hope of receiving much needed

support to their Europeanist initiatives. Given the fact that the “Three Big”

victorious powers now dominated the planet, British leadership of Europe

seemed natural.

Bevin between the Superpowers: the struggle for a ‘Third Force’ in Europe

By 1945, it was manifest that the inter-war arrangements between the “Big

three” had fostered a division of the world in spheres of interest. If the

Americans were perceived as dominating the Western hemisphere and the

Russians Eastern Europe, Britain’s position in the new balance of world power

remained uncertain. Surely, similarly to the Coalition government, what

engaged most the new Labour leadership was the power political need of

147 Ivi, p. 324 and fll. 148 Ivi, p. 324.

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126 C. Nasini, The Origins

boosting the crippled influence of Britain in the context of the new world

order149. This desire, on the other hand, matched with the widespread belief that

Britain abandoning her traditional “splendid isolation” would answer to the

demands of countries like Scandinavia and Benelux, which, as it was perceived,

then looked at London as to a prospective leader in a more integrated Europe150.

A belief also spurred by the asylum received in London during the war by the

Dutch, Belgian and Netherland government-in-exile151.

As for Italy, the exchanges entertained with many Federalist exiles pushed

the Italians to have similar expectations152. Certainly these Europeanist

sentiments were not completely disregarded by the new Foreign Secretary

Ernest Bevin as previously assumed by historiography. These feelings were in

line with a new awareness in the Foreign Office, that the foreign secretary was

eager to embrace, that Britain’s interests in the post-war were not separate from

those of the rest of the Western European countries153.

As already noted a completely new line of research asserting Bevin’s

interest in European cooperation has emerged since the Eighties mainly via the

contribution of historians like John Young and John Kant154. This was the not

particularly long but intense phase of the Labour’s government search of a new

independent global leadership. Many historians saw this phase epitomized in

Ernest Bevin’s official enunciation of his “Grand Design” or his “Three

Monroe” doctrine of late 1945155. According to the latter, Bevin claimed the right

to protect the security of British Commonwealth and to develop good relations

with British neighbours in the same way as the United States had done over a

century in the continent of America. Similarly he condemned the fact that a

Soviet Monroe had been recently adopted by Moscow from the Baltic to the

149 There is a vast consensus on the power political complexion of the post-war Labour

Government, see for all, J. Kent, “Bevin Imperialism…”, op. cit., p. 48 in particular. 150 John W. Young, Britain and European Unity…, op. cit., p. 6. 151 See on this John T. Grantham, The Labour Party…, op. cit., in particular p. 126. 152 This is the belief of Giovanni De Luna the official scholar of Italian Partito d’Azione (Action

Party) to whom the greatest part of Italian Federalists adhered in 1945. Giovanni De Luna, Storia

del Partito d’Azione, (History of the Action Party), op. cit., p. 311. 153 See for all J. Grantham, The Labour Party…, op. cit., in particular p. 126. More critic regarding

the true nature of Bevin’s Europeanism but in agreement with Grantham is Hugo Young,”

Ernest Bevin. Great Brit” in H. Young (ed. by), This Blessed Plot. Britain and Europe from Churchill

to Blair, Basingstoke, Macmillan, 1998, p. 32 and fll. See also S. Greenwood, “The Third Force in

the late 1940s”, in B. Brivati and H. Jones, From Reconstruction to Integration. Britain and Europe

since 1945, Leicester, LeicesterUP, 1984, in particular p. 61. 154 A concise account of this scholarship is in Oliver Daddow, Britain and Europe since 1945…, op.

cit., in particular p. 114 and fll. 155 See, for instance Klaus Larres, “A Search for Order…”, op. cit., p. 78.

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127 C. Nasini, The Origins

Pacific156. This interpretation gives emphasis to the idea of the new Foreign

Secretary Bevin as aiming to assert the role that Britain would undertake

between the Superpowers. It rejects the previously assumed belief that in 1946

Bevin had already resolved in his mind in forcing Britain into the slipstream of

the United States in the by-polar world that was emerging.

For revisionist readings in order to reach his goal Bevin, on one hand,

tried in fact to pursue a degree of economic independence from the United

States and, on the other hand, he attempted to reassure the Soviets that Britain

was not necessarily antagonist towards them157. What most alarmed London,

also according to major revisionist readings, was not so much the existence of a

Soviet sphere of influence per se but rather the awareness of a vacuum of power

in Western Europe which would permit Communism to spread further158.

Therefore the necessity of forming some power structure in Western Europe to

balance the situation159. Furthermore such a Western system by placing more

control on a defeated Germany would enhance the prospect of continued

Anglo-Russian cooperation160.

This was what became soon known as Bevin’s World “Third Force”. In

sum, a phase characterized mainly by the persisting fear of German renaissance

along with the emerging awareness of existing Soviet danger as possible threats

to peace in Europe. Therefore a foreign policy chiefly occupied by three goals

up to the end of 1946. In the first place, there was the priority of boosting

Britain’s influence in the world. Secondly, there was the customary need to

contain Germany, and, finally, it had emerged the relatively new objective of

checking (possibly undetected) Soviet expansionism while keeping the

appearances of continuing inter-Allied cooperation161. For the achievement of all

these objectives, the potential leadership of a more integrated European unit

represented an important addendum.

In this regard, revisionist readings highlight two main assumptions that

Bevin shared with senior figures in the Foreign Office162. In the first place, the

reality of Britain as the weakest of the “Big Three” required her to undertake

156 Cfr. also J.T. Grantham, The Labour Party, op. cit., p. 127. 157 Ivi, p. 131. 158 See Sean Greenwood, The Third Force…, op. cit., p. 59. 159 Ibidem. 160 Ibidem. 161 There is a large consensus on this aspects of British foreign policy in the immediate post-war,

see for instance David Reynolds, “Great Britain”, in D. Reynolds (ed. by) The Origin of Cold War

in Europe. International Perspectives, New Haven and London, Yale UP, 1994, pp. 77-95. 162 On the early convergence of Bevin’s views with those of his senior officials see for instance J.

Kent, “Bevin’s Imperialism…”, op. cit., p. 48-50; Kent and Young, “British Policy overseas”, op.

cit., pp. 43; 45; Sean Greenwood, “The Third Force in the late 1940s”, op. cit., p. 61 in particular.

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128 C. Nasini, The Origins

the leadership of Western Europe and to combine it with that of the Dominions

in order to match United States and Soviet Russia’s power163. In this endeavour

Britain had to be able to count on the alliance with France as an indispensable

cornerstone, but also on the enrolment of the rest of the countries of Europe as

valuable “collaborators”164. Similarly important is the revisionists’ claim that

while pursuing his goals Bevin was cautious and avoided as much as possible

of talking in term of a prospective Western bloc which might have upset,

although for different reasons, both the Superpowers165.

Yet, since summer 1945 the Foreign Secretary had voiced to his officials his

desire of establishing closer relations either in financial and economic matters

or in political questions with the countries on the Mediterranean and Atlantic

fringe of Europe and more specifically with Greece, Belgium, the Netherlands

and Scandinavia166. Italy and France were put on a special footing in this

scheme. There was in fact the wish of making both countries partners in a

strategy to rebalance the disparity between British industrial and agricultural

outputs167. It also reflected the goal of becoming independent from the United

States both in food stuff and raw materials and in general of looking at Western

Europe as an easier source of supplies168.

In sum, throughout all 1946 Bevin’s nurtured quite high expectations

regarding British economic policy towards the rest of Europe. On one hand, he

believed that increased European trading would alleviate Britain’s scarce dollar

reserve. On the other, by giving some sort of economic assistance to the rest of

Western Europe – either in providing financial aid or purchasing export goods -

he thought he would establish Britain as an important contributor to European

Recovery and enhance its prospect of becoming The great European Power169.

More generally, in both France and Italy, although in different ways,

matched another element of Bevin’s strategy which envisaged using the

resources of the European colonial powers and their bases as central economic

and logistic assets of the prospective Western European system170. As agreed

with his senior officials, Bevin made a first step by approaching the French

163 See on this, among many others, Hugo Young, “Ernest Bevin, Great Brit”, op. cit., pp. 34-35. 164 Cfr. John W. Young, Britain and European Unity…, op. cit., p. 1. See also for the reference to

Italy as collaborator in particular Kent, “Bevin’s Imperialism…”, op. cit., p. 60 and following;

and Grantham, The Labour Party, op. cit., p. 128. 165 See in particular, S. Greenwood, “The Third Force…”, op. cit., p. 61. 166 Ibidem. 167 Ivi,p. 62. 168 Cfr. Kent, “Bevin’s Imperialism…”, op. cit., p. 51 in particular. 169 Ivi, pp. 50-51. 170 See for instance Kent and Young, “British Policy Overseas…”, op. cit., p. 42 and fll; p. 51.

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129 C. Nasini, The Origins

government in view of achieving a firm alliance with France171. However, as it

has been contended, since the very beginning it was clear that “Enthusiasm

alone could not diminish the real impediments strewn across the route”172. In

the first place, in searching agreement with France, Bevin faced unreasonable

demands from the French regarding the future of the Levant states and of the

Rhineland and Ruhr; not to mention the strength of the French Communist

Party which made fear that France was succumbing to Soviet influence173.

Secondly, he encountered staunch opposition to his economic policy within his

own Cabinet notoriously in the Economic Departments and soon also in the

Colonial Office174.

However, Bevin was not deterred and instead with increasing emphasis

brought to French attention the importance of the gain which could be made by

cooperating in the colonial sphere. The latter consideration was in Bevin’s mind

when in early 1946 he approached the French Prime and Foreign Minister

Georges Bidault affirming that France and Britain had in their colonial

possessions a valuable amount of natural resources, manpower and strategic

bases175. If the two powers would work in partnership in developing the

productive capacities of their Empires as one single economic unit they would

soon match the United States and Soviet’s power176.

One note of caution must be made here. Possibly part of the reasons for an

earlier underrating of Bevin’s Europeanism can be traced in the Foreign

Secretary’s caution in discussing his strategy with anyone other than his closest

officials in the Foreign Office. As Raymond Smith has contended, at this early

post-war stage sensitive issues of Britain’s foreign policy were discussed

outside Cabinet, at ad hoc meetings of selected committees177. Furthermore,

Bevin disliked to commit his thoughts to paper178. Notably personalities like

Gladwyn Jebb of the Reconstruction Department and the Permanent Under

Secretary Orme Sargent were acquainted and even inspirers of Bevin’s

scheme179. The same can be said for Duff Cooper, the then influential British

Ambassador in Paris whose opinions were held in high regard within the inner

171 See Grantham, The Labour Party, op. cit., p. 128-131. 172 Cfr. Kent, “Bevin’s Imperialism…”, op. cit., p. 63 in particular. 173 Cfr. Klaus Larres, “A Search for Order…”, op. cit., p. 79. 174 On the disparities of views between the Foreign Office and the Economic Departments see

for instance John Kent, “Bevin’s Imperialism…, 1945-1949”, op. cit., pp. 48-51. 175 Cfr. S. Greenwood, “The Third Force in the late 1940s”, op. cit., p. 64. 176 Ibidem. See also, J. Kent and J. Young, “British Policy Overseas…”, op. cit., p. 42. 177 Raymond Smith, A Climate of Opinion: British Officials and the Development of British Soviet

Policy, 1945-1947, «International Affairs», vol. 64, n° 4, Autumn 1988, p. 632. 178 Ivi, p. 336. 179 Cfr. John Kent, “Bevin’s Imperialism…”, op. cit., pp. 48-51.

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130 C. Nasini, The Origins

entourage of Bevin180. A few other Foreign Office’s representatives were aware

and shared – not without some reservations - Bevin’s aims181.

As for the rest, the Foreign Secretary was aware of the hostile environment

surrendering his vision particularly within the Economic Departments.

According to the current Chancellor of the Exchequer and the President of the

Board of Trade, respectively Hugh Dalton and Stafford Cripps, the idea of

fostering economic cooperation with the rest of the European countries was a

dangerous mistake182. It would distance the Americans, staunch opponents of

regional economic blocs, as opposed to a multilateral world trade system. It

would disappoint the Dominions which might suffer discrimination and not

help Britain’s deficit balance since dislocated European economies were even

scarcer in dollar than Britain. Both Dalton and Cripps as former members of the

Coalition government had been hardened by the experience of power against

old-style internationalism of Labour Party’s ideology183.

Together they were convinced, both of British economic dependence from

American help and by the danger represented by alienating the Soviets.

Therefore the need of continuing wartime inter-allied cooperation. Unlike his

colleagues from the economic departments, Bevin was much less persuaded of

the feasibility of carrying on in amity with both the Superpowers.184 Therefore,

the existing opposition did not prevent Bevin from tapping a reservoir of

thoughts which went back to his own extensive engagement with economic

issues185.

At the same time, as we shall see, also the vast number of clandestine

contacts established during the conflict with outstanding foreign personalities

now members of many post-war European governments were not completely

discarded as possible reservoir of support. Was it completely uninfluential the

fact that former SOE’s agent Emilio Lussu had received the portfolio of Post-

War Relief in the Ferruccio Parri’s Italian Government in June 1945? Was really

unimportant that former Mazzini Society’s founder Alberto Tarchiani was now

180 Ivi, p. 52. 181 On Bevin’s supporters within the Foreign Office’s various departments see for instance John

Kent and J.W. Young, “British Policy Overseas…”, op. cit., pp. 49-50. 182 See also on the opposition to Bevin’s strategy in the Economic Departments, Clemens Wurm,

“Great Britain: Political Parties and Pressure Groups in the Discussion on the European Union”,

in Walter Lipgens and Wilfried Loth (eds. by), Documents…, cit., vol. 3, The struggle for European

Union by Political Parties and Pressure Groups in Western European Countries, 1945-1950, Berlin, De

Gruyter, 1988, in particular pp. 631-633. 183 See Grantham, The Labour Party, op. cit., pp. 1-2. 184 Cfr. Klaus Larres, “A Search for Order…”, op. cit., p. 77. 185 On Bevin’s early political career as Union’s leader see H. Young, “Ernest Bevin. Great Brit”,

op. cit., pp. 26-29.

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131 C. Nasini, The Origins

Italian Ambassador in Washington? Or that staunch Federalist and old SOE’s

Resistance contact in Switzerland Ernest Rossi in July 1945 had become Under-

Secretary in the newly founded Italian Ministry of Reconstruction? And was it

not similarly important that another old acquaintance of SOE, Ugo La Malfa,

was made first Minister for Reconstruction and later Minister for Foreign Trade

in the first De Gasperi’s Government from December 1945 onwards?

On the other hand, the involvement of the Italian engineering and

building firms, artisans and other semiskilled workers in Britain’s strategy of

development of Africa in cooperation with European countries was also in

Bevin’s mind in the immediate post-war186. There was also the intention of

extending a welcome to Italian immigrants in settling in British African colonies

to help the peninsula with the burden of unemployment187. Both manoeuvres

were intended, other than fostering intra-European cooperation, to placate

Italian appetites on their former colony of Cyrenaica of which Bevin wanted a

trusteeship188. An insight in the opinion of the Italian economic departments on

the matter was not evidently disregarded by the Foreign Secretary.

Here a potential further element of historiographical confusion must be

also pointed out along with the mentioned verbal caution of Bevin. Even

revisionist historians while investigating Bevin’s vision have often concluded

that the Foreign Secretary’s European strategy was, notwithstanding all his

laudable trying, in the last instance too “vague”, “ill devised” and therefore

ultimately “ineffectual”189. Others have pointed out to the “ambiguity” of the

Foreign Secretary190. For instance, if Bevin claimed the right to apply his own

Monroe doctrine in the Old Continent according to Greenwood, “the lack of

precision which characterized his approach to European cooperation was never

satisfactory tackled and seriously impaired his implementation”191. Similarly,

many scholars put the stress, as already noted, on the Foreign Secretary’s

attention for countries on the Mediterranean and Atlantic fringe of Europe

during 1946192.

186 Cfr. Kent, “Bevin’s Imperialism…”, op. cit., p. 60 in particular and following. 187 Ibidem. 188 Ibidem. 189 See for instance, S. Greenwood, “The Third Force”, op. cit., pp. 63 and 68 and 69. 190 See among others H. Young, “Ernest Bevin. Great Brit”, op. cit., pp. 31-32. 191 S. Greenwood, “The Third Force…”, op. cit., p. 63. 192 This opinion is also shared by Alan Milward, The Reconstruction of Western Europe, London,

Methuen, 1984, chapter VIII. The leading British historian claims that up to 1948 Bevin

considered the possibility of creating a common market in Western Europe to maintain

independence from the United States. Geoffrey Warner is also a well-known advocate of this

view, see G. Warner, “The Labour Governments and the Unity of Western Europe” in Ritchie

Ovendale (ed. by) The Foreign Policy of the British Labour Government, 1945-1951, op. cit.

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132 C. Nasini, The Origins

Many authors also agree on the fact that France and Italy were put in a

special footing since the start193. If overall, between 1945 and early 1947, this

phase saw Bevin testing the feasibility of a new unity among those countries

that he later named the “Middle of the planet” (the Western European

countries, their oversee territories and British Middle East194) regarding these

countries and more specifically one of his supposedly favourite partners,

namely Italy, has the subject been really tackled in depth? How much do we

know about this Italian policy beyond the discussions – admittedly not many-

occurred at that time between Foreign Office’s mandarins?

Better put, in light of the open opposition faced by Bevin within the British

Cabinet, what do we know about the Foreign Secretary’s possible attempt to

discreetly enrol as distinctly principal “collaborators” the already ongoing pro-

Europeanist secret contacts existing both inside and outside the country? In

other words, how useful is it to move away from traditional British

governmental actors to try to grasp in full Bevin and Foreign Office’s actual

Europeanist strategy? Can the idea of an attempt made by British foreign

policy-makers to enrol as real collaborators both wider British pro-Europeanist

societal forces and their vast network of contacts abroad – many of whom had

been former British agents during the conflict – be completely ruled out? If it is

true that there were many impediments strewn across the road: mainly

American and Soviet’s unforeseeable reaction and the staunch opposition of the

economic departments, how much must have appeared advisable to undertake

very discreet steps towards the promotion of Britain’s Europeanist goals? As

already noted, the broad involvement of the intelligence community, especially

the American one, in the promotion of European unity is a well acknowledged

phenomenon for the years after 1948, why the same cannot also be true for the

previous biennium195?

This adds strength to the idea that there was a wide spread belief that, like

during the conflict, something underground but not less incisive could have

been done. On the other hand, early 1946 saw also the creation of the Russia

Committee sparkled, among other things, from an alarming report by the Joint

193 S. Greenwood, “The Third Force…”, op. cit., p.62. 194 Ivi, p. 64. 195 For the years after 1948 the work of historian Richard Aldrich must be here pointed out.

Aldrich has described in details the American involvement with the American Committee for

United Europe which formed around personalities like Allen Dulles and which apparently

between 1948 and the early Fifties poured millions of dollars to support pro-Europeanist

initiatives and pressure groups in Western Europe. See R. Aldrich, OSS, CIA and the European

Unity: the American Committee on United Europe, 1948-1960, in «Diplomacy and Statecraft», vol. 8,

(March 1997) pp. 184-227.

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Eurostudium3w gennaio-marzo 2014

133 C. Nasini, The Origins

Intelligence Committee concerning Russia’s strategic interest and intention196.

Among the measures devised to counter Russia’s negative propaganda against

Britain there was the decision to carry on a defensive line of publicity which

exactly like during the conflict was centred on the enrolment of foreigner

collaborators. Foreign politicians, publicists and trade union leaders would be

enrolled to disseminate pro-British propaganda in their home countries197.

Moreover, is it not possible that also in this case, as we have seen it had

happened in similar circumstances – one for all: relations with the Mazzini

Society during WWII - the Americans after 1948 were mainly following the

footsteps of their senior intelligence partners? Again, this is a field of research at

a very embryonic stage, yet it seems advisable to point to a few revealing

episodes that occurred between 1945 and 1947 which give emphasis to the

existence of a clandestine side of Bevin’s foreign policy. This is what is

commonly known as the “intelligence dimension” and still remains an under-

investigated historical feature.

Before going into further details concerning these episodes, it seems

worthwhile to add a few more considerations about the general framework in

which these supposed clandestine activities took place. These considerations

concern, on the one hand, the fact that in 1946, there was a wide bipartisan

political consensus inside Britain on the advisability of European economic

cooperation. Secondly, it must be remembered here that unlike previously

assumed by historiography, the European countries and particularly Britain

could count in 1946 on a larger room for manoeuvre in regard with fostering

European cooperation. Although even today nobody would question the

goodwill of the United States towards Western European integration due to

paramount economic, political and strategic reasons, what has been more

recently contended is the extent of American leverage on the European

countries in this respect198. If we take into account these two elements – the

existing widespread bipartisan consensus and a larger room for manoeuvre for

Britain than previously assumed – the idea of carrying on with clandestine

activities geared to promote Europeanism in the continent must have appeared

not totally obnoxious to the Foreign Secretary.

196 Cfr. R. Smith, “A Climate of Opinion: British Officials…”, op. cit., p. 632. 197 Ivi, pp. 635-640. 198 Among the many dissonant voices in respect to previous readings see for all the chapters by

Antonio Varsori, Daniele Pasquinucci, Mark Gilberg , Morten Rasmussen and Lorenzo Mechi in

A. Varsori and Kaiser, European Union History, op. cit.

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134 C. Nasini, The Origins

In and out of Whitehall: the phase of bipartisan consensus

As just noted, there is evidence that concerning cooperation in Europe, at least

for one year after the end of the conflict there was full consensus between the

Labour establishment and the Conservative opposition199. This is because

exponents of both line-ups believed in the importance of creating regional

economic blocs in the continent to foster economy and preserve peace. During

the war, apparently under the spell of Kalergi, Churchill in several occasions

had advocated his idea of creating three South-Eastern European

confederations to combine with the five major European powers in a new

system that he had named “Council of Europe”200.

He had also welcomed the formation of distinctive “United States of

Europe” in different circumstances. He reiterated his thoughts in the post-war

and between 1945 and 1946 at least in three important occasions. In November

1945 Churchill made a statement in this sense during a speech at the Belgian

parliament. He restated his view in occasion of his celebrated “Iron curtain”

speech at Fulton, Missouri, on 3 March 1946 and again at the University of

Zurich in September 1946201.

As for Bevin, he had also made apparent in several occasion his firm belief

concerning the economic causes underlying war and the need of establishing

effective international economic organizations while occasionally advocating

the “United States of Europe”202. On the other hand, traditionally the Labour

Party’s orthodoxy in foreign policy consisted in a commitment to

internationalism203. Among the principles professed there was explicitly the

idea of a transfer of a degree of national sovereignty to some supranational

organization204. The creation of a Judicial body for the settlement of

international disputes was also endorsed as a desirable machinery205.

Furthermore, in Bevin’s case his experience during 1929 as member of the

Colonial Development Advisory Committee, established by the then Labour

Government, had brought him to appreciate the importance of reforming in

new directions the existing relations between the British mother country and its

subjected population206. He believed that this goal should be shared by the rest

199 See on this the opinion of Grantham, The Labour Party, op. cit., p. 126. 200 Ivi, p. 38 and ffl. 201 Ivi, pp. 164-165. 202 Again on Bevin’s days as a Union leader see H. Young, “Ernest Bevin. Great Brit”, op. cit., p.

28. 203 Cfr. Grantham, The Labour Party…, op. cit., p. 6 and fll. 204 Ibidem. 205 Ibidem. 206 Crf. J. Kent, “Bevin’s Imperialism…”, op. cit., p. 54 in particular.

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135 C. Nasini, The Origins

of the European colonial powers and that there was room for manoeuver for

working in partnership in this area. It represented a broad overture, beside

France, to countries like Netherlands, Belgium, Portugal and again Italy.

In sum, during 1946 personalities from both the Labour establishment and

the Conservative opposition initially showed a strong bipartisan approach to

the Europeanist issue. A tangible proof of this is the fact that many of them

shared membership in the same national and transnational pro-European

pressure groups. If we look at the principal networks emerged during 1946 it is

evident that they comprised personalities of the most diverse political

complexions. This is true for the European Union of Federalists (EUF) created

by Dutch Professor Henri Brugmans in Geneve in September 1946 to become

the true bystander of the supra-national solution. It also applies to the

Independent League of European Cooperation (ILEC), which will be discussed

shortly in more details, a liberal economic organization established in London

in summer 1946. It is what Churchill maintained of his allegedly “non-political

and not-partisan” group of the United Europe Movement (EUM) launched in

London between 1946 and 1947. EUM was conceived in order to join – and

possibly take charge of - the Europeanist crusade in Britain and in Europe.

Finally a similar diversified complexion characterized the post-war version of

Kalergi’s Pan-European movement known in 1946 as the European

Parliamentary Union (EPU) which lobbied in favour of European unity within

the different European Parliaments and pushed for the early convening of a

European Constituent Assembly.

Among Kalergi’s acolytes in Britain there was the Australian born

barrister and since 1945 Labour M.P., R.W.G. Mackay, one of the staunchest

supporters of Federalism within the Labour government. In the beginning also

Mackay’s efforts were directed to the creation of some sort of bipartisan lobby

among the British parliamentarians. In effect a small All-party Parliamentarian

Group was launched in early 1946 following Kalergi’s advice of keeping the

European crusade free from party-political etiquettes207. The diverse political

complexion of these networks confirms that across the continent a large

assortment of personalities nurtured the hope of keeping the problem of

European unity entirely out of the realm of party-politics208. It was considered

advisable instead to act together and in any possible direction to influence

207 See Grantham, The Labour Party…, op. cit., p. 174. 208 Ibidem.

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136 C. Nasini, The Origins

governmental action209. Unlike the latter, their activities were mainly carried on

behind the official scene: a modality which guaranteed their anonymity not

devoid however of a proved degree of impact210. It is worth also to add that

what probably made these pressure groups unequivocally both tolerable and

influential, at least in Britain, was their broad interaction with the national

intelligence apparatus in a reciprocal activity of alternatively either support or

control.

In sum, if research moves away from traditional governmental action and

turn to the investigation of the role of national and transnational pressure

groups, British interest in European cooperation appears sharper. This picture

becomes even more significant if we include the discreet activities in this

respect of British intelligence services between war and the immediate post-

war, namely SOE and later JIC (Joint Intelligence Committee). The latter was

the body which inherited remnants of the former after its early disbandment in

1945211. The new edifice of JIC, on the other hand, brought the intelligence

apparatus back within the realm of the Foreign Office.

ILEC pressure group and the fight for the economic integration of Europe

The continuance of British clandestine involvement at several levels with

societal forces of strong Europeanist orientation it has been recently pointed out

by some political commenters. For instance, as Thierry Meyssan has revealed

for the Independent League for European Cooperation (I.L.E.C.) launched in

London in September 1946, not only one of its main promoters, Joseph H.

Retinger, was a former SOE agent but the whole structure of the pressure group

received the backing of the British Joint Intelligence Committee212. Moreover,

ILEC’s second chairperson, the former Belgian Prime Minister Paul Van

Zeeland, had spent his wartime days as a member of the Belgian government in

exile in Landon lobbying for an European security system213.

209 This is the opinion in particular of Laura Kottos, the scholar who has investigated the

formation of ILEC and particularly the activity of its British section. Cfr. L. Kottos, A ‘European

Commonwealth’: Britain, the European League for Economic Cooperation and European Debates on

Empire 1947-1957, in «Journal of Contemporary European Studies», vol. 20, n° 4, 2012, p. 498 in

particular. 210 Ivi, p. 499. 211 See Richard Aldrich, “Secret Intelligence for a post-war world: reshaping the British

intelligence community, 1944-1951” in Aldrich (ed. by), British Intelligence, Strategy and the Cold

War, 1945-1951, London, Routledge, 1992, pp. 16-27 in particular. 212 Cfr. Thierry Meyssan, Histoire secrète de l’Union européenne, in «Réseau Voltaire International»,

28 juin 2004 http://www.voltairenet.org/article14369.html 213 See Grantham, The Labour Party…, op. cit.

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137 C. Nasini, The Origins

As for the second reminder we had pointed out before, that is, the room

for manoeuvre of European countries, again this must be born in mind when

addressing the above mentioned British clandestine initiatives. The latter must

be seen within an interpretative framework which, following revisionist

writings, acknowledges Britain a much larger agency than previously assumed

particularly in regard to the United States. This allows for an investigation of

some previously belittled initiatives by the British apparatus like for instance in

the specific sphere of intelligence. Following the foot-steps of Milward and

others, as mentioned, different European scholars focusing on early integration

have contributed to discount American power over European countries at that

time.

For instance, it has been pointed out that, differently from mainstream

United States’ public opinion, the American State Department resolved to take

into due account European - particularly British - sentiments towards the loss of

national sovereignty. Therefore the important conclusion has followed that

Americans willy-nilly accommodated British sensibility214. This is not to deny

that the Americans attempted their own secret manoeuvring with respect to the

goal of unifying Europe. Nevertheless, the new readings allow us to claim that

United States’ action must have been concerted at a larger extent than

previously assumed with their traditional intelligence counterpart in Europe

namely the British.

According to Thierry Meyssan in late 1945 the British Joint Intelligence

Committee, presumably responding to knowledge of American involvement in

the setting up of the European Union of Federalists (EUF) in Geneva, sponsored

the creation of the Independent League for European Cooperation (ILEC)215.

This was an international forum composed by national committees where

domestic experiences were exchanged and transformed. Since late 1945

branches of ILEC where opened throughout all the major Western European

countries including Italy and Britain. A division was also established in the

United States to work in conjunction with the Council on Foreign Relations in

order to study how to create in Europe a common area of free exchange and

possibly the adoption of a common currency216.

Apparently during the summer of 1945 the Council on Foreign Relations

in conjunction with British Chatman House had already sponsored a conference

in London where the common positions of London and Washington had been

214 See for instance Klaus Schwabe, “The United States and European Integration, 1947-1957”, in

Clemens Wurm (ed. by), Western Europe and Germany. The Beginning of European Integration,

1945-1960, Oxford, Berg, pp. 115-36. 215 Thierry Meyssan, Histoire secrète de l’Union européenne…, cit. 216 Ibidem.

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138 C. Nasini, The Origins

made manifest217. The idea of creating in Europe some sort of common

economic unity to foster market and help reconstruction was evidently and

unsurprisingly endorsed by both sides. Nevertheless, as already mentioned,

American effective leverage on European countries in this respect was not as

straightforward as previously assumed, therefore the advisability of working in

accordance with the British on the issue.

ILEC’s secretary general, Joseph Retinger was, as already noted, the

former advisor to the Polish Prime Minister in exile in London. Retinger during

the war had served as a SOE agent and in this capacity had been parachuted

into occupied Poland to make contact with the Polish underground Resistance.

The President of ILEC was instead Paul Van Zeeland former Belgian Prime

Minister in exile218. Both characters would remain central in the main

endeavours towards the construction of Europe. The two are part of a quite

volatile network of former pro-Europeanist anti-fascist exiles, Resistance

leaders and agents of various foreign nationalities who after the war acted

behind the scene to influence the political scenario.

The Independent League for European Cooperation in 1949 became the

European League for Economic Cooperation. Networks like ILEC deserve

investigation because there is evidence that their advices, and specifically those

of ILEC, were acknowledged at the highest level of their respective

governments219. Even better, it seems that Bevin’s distinctive economic policy

regarding Western European cooperation reflected in a specular way the

guidelines suggested by ILEC220. On the other hand, the latter’s members were

not novice in economics and politics. The members of the ILEC were a

transnational assortment of personalities of the highest standing and numbered

among themselves Ministers and deputies from different European

Parliaments, politicians and union leaders as well as national and multinational

business firms’ tycoons. Later on ILEC became an advisory body for the

European Council while Van Zeeland entered the Bilderberg Group.

The popularity of the British section of ILEC was linked to its projection of

itself as a bipartisan and professional pool of experts which could help Britain

to build its domestic and foreign economic policy. According to scholar Laura

Kottos, the British section of ILEC included personalities which spanned from

Conservatives figures like Harold Macmillan, Duncan Sandys and Julien Amery

to Labourite exponents like Roy Jenkins and Liberal champions like Juliet Rhys-

217 Ibidem. 218 Ibidem. 219 Cfr. L. Kottos, “A ‘European Commonwealth’: Britain…”, op. cit., pp. 498-499. 220 Ivi, p. 501-502.

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Eurostudium3w gennaio-marzo 2014

139 C. Nasini, The Origins

Williams, future secretary of the section221. Oxford economist Roy Harrod and

influential Federalist journalist Lord Layton from «The Economist» also

adhered to the section222.

If the League had usually acted as a transnational intellectual forum for

debating economic issues by late 1945 cooperation between Europe and its

colonial possessions had come to the fore as a dominant feature of its agenda.

There were several reasons behind it. First of all it offered to the European

mother countries a solution to the burden of sustaining their colonies especially

facing the post-war financial wreckage especially of France and Britain.

Secondly, it reflected the need, for the same reason, to develop the colonies as a

conduit to their own self-support and to improve their capacity of responding

to the requirements of increasingly larger markets. As already mentioned there

is evidence that Bevin’s ideas on the subject voiced in his discussions with a few

European foreign ministers reflected the guidelines of ILEC British section223.

Laura Kottos when investigating ILEC’s activities has claimed that

European policies concerning relations with Empires were managed by

different ministries in the countries concerned and that there is little evidence

that these policies were linked in governmental terms. Therefore her claim for

the importance of moving away from governmental action and turning instead

to the investigation of transnational pressure groups within civil societies which

in her view moving behind the political scene where able to promote their

ideas224.

Kottos highlights how by early 1946 not only British and French sections

of ILEC were in agreement on the creation of a European Customs union but

also the Belgian section had joined them225. This Customs union was intended to

harmonize financial and economic policies both between metropolitan markets

and between the latters and their colonial possessions. The three sections

believed also firmly that a liberal European integration must have as a corollary

the potential to ease the regime of imperial preferences. Colonial big business

was aware that the latter prevented them from selling at competitive prices

their products outside the metropolitan markets and namely to most of the

European countries. If the goal of ILEC was to make colonies more competitive,

the first step was to extend the preferential regime to the other non-colonial

European partners226.

221 Ivi, p. 499 and fll. 222 Ibidem. 223 See L. Kottos, “A ‘European Commonwealth…”, op. cit., p. 498. 224 Ibidem. 225 Ivi, p. 500 and fll. 226 Ivi, p. 501.

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140 C. Nasini, The Origins

The attempt to increase the exchange of commodities in this way, on the

other hand, reflected an already existing trend in the commercial exchanges

between European Empires and their overseas possessions. The latter wanted

consumer goods and capital equipment, the former food staff and raw

materials227. In exchange for access to product at preferential tariffs, the non-

colonial European powers would participate in the development of the colonies

through some giant scheme for “joint European development of African

resources” to be defined228. The overseas territories needed investments to

improve their infrastructures and trading facilities and once the virtual cycle

would be started it would attract further investments and the competitiveness

of the colonies would boom229.

European overseas possessions were also known as possessing in great

amount minerals of which the United States were completely barren. In sum the

development of the productive capacities of the colonies could be used to earn

dollars and redress the balance of payments not only of France and Britain but

also of the rest of the European countries. This was to be the case in particular

for Italy since Bevin’s had in mind to replace the Italians in their trusteeship of

Cyrenaica and he thought that the easiest way of achieving it was to

compensate the Italians – big firms and working force - by granting them a

place in the British scheme of development of the African colonies230.

Although concerns have been expressed concerning the viability of

Bevin’s “European Commonwealth” as sometimes the plan was called, there is

evidence that throughout 1946 the Foreign Secretary spelled it several times. It

mentioned it to three consecutively different French Prime Ministers, namely

Charles De Gaulle, Georges Bidault and Leon Blum. He also constantly lobbied

the 1946 French Foreign Minister Bidault on the importance of the matter with

apparently a good degree of success231. He furthermore kept Attlee informed232.

Bevin’s belief in the potential of colonial cooperation was still held firm at the

time of the signing of the Treaty of Dunkirk in early 1947233. During the

negotiations it was stated that a special commission for studying how to set up

an Anglo-French Customs Union was to be created. The commission should

consider also the adoption of a special regime for allowing the dependent

colonies to join the machinery. As again Laura Kottos has maintained at that

227 Ivi, p. 501-502. 228 Ibidem. See also Kent, “Bevin’s Imperialism…”, op. cit., in particular p. 54; and also fll. 229 L. Kottos, “A ‘European Commonwealth…”, op.cit., pp. 502-503 in particular. 230 See J. Kent, “Bevin’s Imperialism…”, op. cit., in particular p. 60; and also fll. 231 Cfr. Greenwood, “The Third Force…”, op. cit., p. 64. 232 L. Kottos, “A ‘European Commonwealth …”, op. cit., pp. 501-502. 233 Ibidem.

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Eurostudium3w gennaio-marzo 2014

141 C. Nasini, The Origins

time the project of a possible joint venture of European powers in developing

African resources had been repeatedly discarded by several intradepartmental

study groups officially launched by the British government. Therefore Kottos

claims that at the root of Bevin’s stubborn endorsement of the Europe-African

scheme there was the persisting lobbying in this sense of the British ILEC

section.

British Foreign Office’s plead for «L’Unità Europea»

One further revealing episode occurred at the beginning of 1946 which testifies

once more as British pro-Europeanist societal forces were in fact privy to

foreign office officials and could influence the latters’ action in favour of

Europeanist goals. Also in this case moreover there is evidence of a bipartisan

consensus which informed both Labour and Conservative’s action in this

sphere. The episode regards a correspondence occurred between February and

April 1946 between the General Secretary of the internationalist pressure group

of “The New Commonwealth”, N. B. Foot, and the British Minister of State for

Foreign Affairs Philip Noel-Baker234. “The New Commonwealth” was another

of the many international pressure groups which dominated the British scene in

the second half of the Forties. In this case it championed the preservation of

world peace and to this end it lobbied in favour of collective disarmament and

the creation of an international police (air) force to regulate European disputes.

Like others of these post-war British networks the President of the British

section of “The New Commonwealth” was Winston Churchill235. In mid-

February 1946, Foot had addressed Noel-Baker in order to inform him of a most

unfortunate episode which apparently had occurred to the Italian weekly

Federalist journal «L’Unità Europea» of whom the British Foreign Office

probably had already knowledge. This was in fact the major publication

produced by Italian Federalists during the Nazi occupation as an underground

organ of resistance. Personalities like Leo Valiani, Ernesto Rossi e Altiero

Spinelli at that time had been among the principle authors of the journal.

During the war SOE had monitored «L’Unità Europea» for the Foreign Office.

234 Cfr. TNA, FO371/60673. This is a folder named Western Department, Italy, 1946, file n. 503. It

contains most of the correspondence occurred between February and April 1946 among British

Foreign Office’s officials and between the latters and the General Secretary of “The New

Commonwealth” with the goal of resuming publication of «L’Unità Europea» Italian Federalist

journal. 235 Cfr. TNA, FO371/60673. Letter n° ZM 583 dated 13 February 1946 from General Secretary of

“The New Commonwealth” N.B. Foot to Philip Noel-Baker of the Foreign Office. The

information regarding the presidency of Churchill is provided in the letter-head.

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Eurostudium3w gennaio-marzo 2014

142 C. Nasini, The Origins

According to Foot, who had been informed on the matter by the Secretary

of its affiliated pressure group of Swiss Europa Union of Lausanne, the previous

summer the Allied authorities in Italy had stopped the publication of «L’Unità

Europea» without explaining the reason for the ban. Foot mentioned to Noel-

Baker that previous attempts made to contact the Allied Press Office for

Lombardy in order to solve what Foot called “a minor mystery” had given no

positive result236. Therefore Foot said that they (“The New Commonwealth”)

“have been asked to bring the matter to the attention of the British government

in the hope that the Director of the paper, Professor Mario Alberto Rollier of

Milan University, could be accorded the privilege of an interview with Major

Sinclair Nobel, who seemed to be the responsible Allied officer”237.

As Foot cared to add to Noel-Baker, although he did not know the full

details of the matter: “he would be reluctant to believe that his Swiss

correspondents would ask ‘The New Commonwealth’ to put forward these

representations unless they were confident of the reliability of those responsible

for the direction of the paper”238. Therefore, Foot expressly requested Noel-

Baker to conduct an official investigation on the matter. Within a few days the

Western Department approached the British Embassy in Rome asking to

provide any information regarding the Allied ban on the publication of

«L’Unità Europea»239. On the same 25th of February Noel-Baker wrote back to

Foot to reassure him that the proper enquires were being made to the British

Embassy in Rome and that he would keep the General Secretary duly informed

as soon as he received the report from Rome.

On the other hand, the Minister of State took the time to remind Foot that

since the 31 December of the previous year the Allied Military Government in

Italy had come to an end with the consequence that the question of “the

maintenance or withdrawal of the ban would therefore now be a matter entirely

for the Italian Government”240. He also added the suggestion that the Swiss

Europa Union should approached the Italian government in this respect241.

Nevertheless, a second sub-file-folder containing the internal correspondence of

the Foreign Office reveals that in fact the Western Department spent some time

236 Ibidem. This information are contained in the same letter of 13 February 1946. 237 Ibidem. Again information in letter dated 13 February 1946. 238 Ibidem. 239 Cfr. TNA, FO371/60673. Letter n° ZM 583/-/22 dated 25 February 1946 and issued from the

Western Department to the Rome British Embassy. 240 Ibidem. 241 TNA, FO371/60673. Letter n° ZM 583/-/22 dated 25 February 1946 and issued from Noel-

Baker to N.B. Foot.

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143 C. Nasini, The Origins

throughout March 1946 occupied in sorting out the question242. A quite

informative letter was addressed to the Western Department on 18 March 1946

by the British chancery of the Rome Embassy243.

The latter reported that enquires made by the British Press and

Information Office in Milan had revealed that «L’Unità Europea» had in fact

been closed down the previous July, but it had happened in consequence of the

journal’s lack of money and not because any permit had been refused244. He also

added that the British Information Office had taken the time to approach in this

respect the director M. Alberto Rollier and the latter had affirmed that in May

1945 he had received a verbal permit to publish «L’Unità Europea» by the

British Psychological Warfare Branch. The chancery was not able to confirm

Rollier’s assertion because details concerning publication permits where in the

domain of the Allied Publication Board whose files by then had been already

headed back to the Italian authorities. Yet, he believed without shade of doubt

that “it does not appear that Rollier has suffered any wrong at the hands of the

Allies, nor indeed that he is under the impression of having suffered wrong”245.

Furthermore the good news was provided that according to the

information in the hands of the Rome Embassy a fortnightly paper bearing the

same name was at that time being published in Turin by the Italian Federalist

Professor Augusto Monti and Francesco Lobue246. In concluding his letter the

chancellor added a just apparently superfluous reminder for the Foreign Office.

He reminded the Western Department that the granting of publication licenses

within Italy was at that time “entirely a matter for the Italian government” and

there was no way in which the British could intervene without being accused of

“unwarranted interference in Italian internal affairs”247. In sum, in light of the

interest showed by the Foreign Office in the fate of the «L’Unità Europea» and

of the consequent pressure exerted on the Rome Embassy in this sense the latter

felt compelled to remind London that there were certain boundaries to be kept

in mind in diplomacy. Once Noel-Baker had provided Foot with all the details

now in his possession, the General Secretary sent a last regretful and apologetic

242 Cfr. TNA, FO371/60673. Sub-folder n° ZM 1041 containing correspondence between the

Western Department and the Rome Embassy. 243 Cfr. TNA, FO371/60673 letter n° ZM 1041 dated 18 March 1946 from the Rome Embassy’s

chancery to the Western Department of the Foreign Office. 244 Ibidem. 245 Ibidem. 246 Ibidem. 247 Ibidem.

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Eurostudium3w gennaio-marzo 2014

144 C. Nasini, The Origins

letter, dated mid-April 1946, where he expressed his deepest concern in fact for

“having put the Minister of State to a lot of unnecessary troubles”248.

These episodes, both the first concerning ILEC and the latter about «L’Unità

Europea», reveal how the Federalist crusade conducted by Lussu, Valiani and

all the others had not completely vanished in the thoughts of British policy-

makers with the end of the conflict. Rather the opposite was true. Many

contacts with diverse pro-Europeanist pressure groups were still in place and

acted in different directions behind the scene, in the Foreign Office. The advice

provided by members of these networks were never disregarded when the

issue of intra-European cooperation was on the table or when there was the

need of finding new strategies to expand it in original directions. The British

section of ILEC and «L’Unità Europea» were part of a larger puzzle which the

Foreign Office was keen to continue to assemble even when, or rather also in

consideration that, Churchill’s stamp was on the general plan. On the other

hand, it had been there since the very beginning. It had been Churchill who

pushed for putting Europe ablaze, for the creation of SOE. Also the decision of

giving its leadership to Dalton had had Churchill’s stamp. When clandestine

action had become a matter of life or death for Britain both Conservative and

Labour exponent had been in agreement. In 1940 the Labour party had joined

the struggle for Britain’s survival entering into the Coalition government next

to Churchill. There was no reason in 1946 for not continuing in agreement as

before. Not yet.

248 Cfr. TNA, FO371/60673 letter n° ZM 1041/583/22 dated April 10th 1946, from N.B. Foot to

Noel-Baker.

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G. Mazzei, Recensione 145

Luca Stroppiana, Stati Uniti, Bologna, il Mulino, 2013, II edizione

aggiornata, pp. 185. di Giacomo Mazzei

L’anno scorso il Mulino ha dato alle stampe la seconda edizione aggiornata di Stati

Uniti, sintetico ma dettagliato volume sul sistema politico-istituzionale di quel paese,

a cura di Luca Stroppiana, cultore di Istituzioni di diritto pubblico e Diritto pubblico

comparato presso l’università di Firenze. Nella prima edizione del 2006 il volume

faceva originariamente parte della collana “Si governano così”, che comprende una

ventina di saggi analoghi, di altrettanti autori, sui principali paesi dei cinque

continenti. Quello sugli Stati Uniti è il primo e finora unico di essi ad essere stato

ripubblicato, questa volta nella più ampia collana “Itinerari”.

Un merito da attribuirsi certamente all’autore, il quale ha pubblicato anche

diversi articoli accademici in materia di legislazione elettorale e forme di governo, si

è recentemente addottorato con una tesi in chiave comparativa sul finanziamento dei

partiti politici e delle campagne elettorali, ed è stato per anni curatore della rubrica

“Cronache costituzionali dall’estero: Stati Uniti d’America” per la rivista «Quaderni

costituzionali». Per il Mulino è riuscito nell’impresa, nient’affatto scontata, di

condensare in poco meno di duecento pagine una chiara esposizione del complesso

intreccio tra politica e ordinamento federale statunitensi, con riferimenti storici e

agganci ad avvenimenti contemporanei, oltre che accessibile ad un pubblico non di

soli addetti grazie a un linguaggio facilmente comprensibile e al formato di tipo

manualistico.

Ovviamente la novità editoriale va attribuita anche alla pregnanza

dell’argomento trattato. Gli Stati Uniti, sebbene di questi tempi siano in molti a

profetizzarne il declino, restano comunque la maggiore potenza mondiale e

rappresentano pur sempre il più longevo esempio di federazione su scala

continentale della storia, retta dalla più antica costituzione scritta ancora in vigore.

La temperie che la patria di George W. Bush e Barack Obama ha attraversato dal

2006 – annus horribilis della guerra in Iraq, durante il quale esplose oltretutto la bolla

speculativa nel mercato immobiliare americano, causa scatenante della successiva

recessione globale – è altresì suscitatrice di interesse. Essa ha avuto ricadute

immediate, tra cui, per l’appunto, l’elezione nel 2008 del primo presidente afro-

americano, preannunciata proprio nel 2006, allorché il suo predecessore alla Casa

Bianca si trovava ormai in piena crisi di popolarità, dalla riconquista democratica di

entrambi i rami del Congresso. L’amministrazione Obama è stata poi caratterizzata

da notevoli sviluppi, che vale la pena di richiamare, sempre in compagnia

dell’autore, quanto meno per sommi capi.

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G. Mazzei, Recensione 146

C’è stato innanzitutto il salvataggio dell’allora pericolante edificio monetario

con a capo la borsa di Wall Street e gli istituti di credito ad essa associati, avviato in

realtà negli ultimi scampoli dell’amministrazione Bush, ma completato sotto la

leadership del nuovo presidente, attraverso l’introduzione di significativi correttivi

alla regolamentazione del sistema bancario e delle transazioni finanziarie, insieme

ad un ulteriore, decisivo intervento nell’economia. Si è quindi assistito a un’epocale

riforma sanitaria, a un rinnovato e per certi versi inedito impegno nel campo dei

diritti civili e, per quanto riguarda la politica estera, sia al ritiro delle truppe

americane dall’Iraq sia a quello, lentamente in via di ultimazione, dall’Afghanistan,

mentre un’altra operazione militare, in Libia, avrebbe comportato un minore

coinvolgimento rispetto ai casi appena citati.

La stessa guerra planetaria al terrorismo islamico, che pure è proseguita a

spron battuto, registrando tra l’altro l’eliminazione di Osama Bin Laden, ha perso i

toni da crociata assunti all’indomani degli attacchi dell’11 settembre 2001. E se la

controversa era Bush è tramontata in maniera tutto sommato ingloriosa, l’era

Obama, tra punti di rottura e linee di continuità col passato, molti dei quali

prontamente rilevati da Stroppiana, è stata a lungo ed è tuttora scossa da forti

tensioni, emerse soprattutto attorno alle politiche di spesa pubblica. Ne è una

dimostrazione evidente l’ascesa del cosiddetto Tea Party, il movimento di protesta

che sull’opposizione a tali politiche ha costruito la propria fortuna e dal 2010 ha

riconsegnato stabilmente la Camera dei Rappresentanti ai repubblicani. Un successo

che potrebbe garantir loro anche il controllo del Senato nelle elezioni di mezzo

termine previste per il prossimo novembre.

Pertanto non stupisce la scelta della casa editrice bolognese, che del resto ha

sempre avuto un occhio di riguardo per le vicende politiche e per la ricca tradizione

del costituzionalismo a stelle e strisce, non di rado intese come utili spunti di

riflessione per il processo di unificazione europea. In virtù dei recenti sviluppi

d’oltreoceano e tanto più in un momento estremamente delicato per la politica e le

istituzioni nel nostro continente, la riedizione e l’aggiornamento del volume in

questione appaiono dunque particolarmente opportuni.

Il testo è suddiviso in nove capitoli tematici, il primo dei quali contiene

informazioni basilari sul “contesto geoeconomico”: conformazione fisica del paese e

sua organizzazione in Unione di stati, crescita economica e demografica, forme e

principi della cittadinanza. A tale riguardo diverse pagine sono dedicate al tema

dell’immigrazione, intimamente legato alla storia e all’identità stesse della nazione

americana, nonché oggetto di numerosi interventi legislativi nel corso del XX secolo,

a cui si è recentemente aggiunto, a fronte di forme dilaganti di clandestinità, un

tentativo di riforma organica più volte promessa e mai realizzata

dall’amministrazione Bush ma che sotto la spinta dell’amministrazione Obama

potrebbe finalmente essere in dirittura d’arrivo. Tra l’altro, l’autore spiega come

negli Stati Uniti la legislazione già vigente coniughi, in certi casi, il principio

costituzionalmente riconosciuto dello jus soli con quello dello jus sanguinis, entrambi

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G. Mazzei, Recensione 147

notoriamente al centro dell’attuale dibattito sulla gestione dei flussi migratori verso

l’Europa.

Nel secondo e terzo capitolo vengono rintracciate le origini dell’ordinamento

costituzionale statunitense tra i secoli XVII e XIX. Si va dall’epoca coloniale, quando

la corona inglese regnava su gran parte della costa orientale del Nord America, alla

rivoluzione di fine Settecento, dizione che abbraccia sia la guerra d’indipendenza

dall’Impero britannico sia il complesso di riforme istituzionali culminato nella

fondazione dell’Unione, sino a toccare la cruenta guerra civile in cui quella stessa

Unione precipitò tra il 1861 e il 1865. L’autore ripercorre le varie tappe del processo

costituente, a cominciare dal “periodo critico”, come egli lo definisce (p. 27), che vide

dapprima la crisi della confederazione di stati figlia della prima fase rivoluzionaria, e

quindi la creazione di una repubblica federale ad opera della celebre Convenzione di

Filadelfia, artefice dell’attuale costituzione nel 1787, che fu poi ratificata con voto

popolare dai singoli stati nel corso dei tre anni seguenti.

Vengono altresì citate l’introduzione, contemporanea alla ratifica, dei primi

dieci emendamenti costituzionali, il cosiddetto Bill of Rights, col quale furono

codificati fondamentali diritti di cittadinanza, e la successiva attribuzione alla Corte

Suprema del sindacato di costituzionalità delle leggi (judicial review). Segue, a

quest’ultimo riguardo, un’interessante chiosa sulle fonti del diritto federale e sulla

gerarchia tra di esse, preziosa per chi voglia cimentarsi in un confronto con gli assetti

istituzionali e con l’esercizio della giurisdizione all’interno dell’Unione europea.

Sempre in termini di paragone, ma più in generale, allargando cioè lo sguardo

alla lunga durata del processo costituente nel suo svolgimento storico, a far riflettere

è anche l’intervallo di tempo intercorso tra la rivoluzione e la guerra civile, prima

della cui conclusione il suddetto processo non poté considerarsi effettivamente

completato, come d’altronde la stessa suddivisione del testo operata da Stroppiana

suggerisce. Vale la pena di tenerlo a mente nel valutare i tempi dell’unificazione

europea, fonte di tante polemiche tra i federalisti nostrani, e sebbene ciò non sia

esplicitamente riconosciuto dall’autore, la sua ricostruzione offre spunti in tal senso.

Potrebbe però offrirne di più consistenti. A questo proposito, infatti, occorre

muovergli una prima critica. Nel descrivere quella che si potrebbe definire come la

crisi di sviluppo del federalismo americano, egli sembra ricalcare un’interpretazione

tradizionale eccessivamente schiacciata sulle questioni di dottrina e meno attenta del

dovuto al contesto sociale, non nuova, per la verità, alle pubblicazioni del Mulino

sull’argomento1.

Egli dà conto sia della contrapposizione tra entità statuali consumatosi nel

passaggio dalla confederazione alla federazione, sia delle alterne vicende

attraversate per circa ottant’anni dall’Unione concepita a Filadelfia, a causa

dell’allargamento ad ovest della stessa e della conseguente integrazione di nuovi

stati al suo interno. Inscindibile da tali vicende fu, com’è noto, la drammatica

1 Si pensi, ad esempio, al classico lavoro di Nicola Matteucci, per altri versi di estremo rigore e

assoluta levatura, La Rivoluzione americana: una rivoluzione costituzionale, Bologna, il Mulino, 1987.

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G. Mazzei, Recensione 148

questione della schiavitù, su cui l’autore si sofferma, indicando tra l’altro le odiose

clausole, poi emendate all’indomani della guerra civile, che nella versione originale

del dettato costituzionale disciplinavano il censimento degli schiavi ai fini

dell’imposizione fiscale e della rappresentanza politica dei liberi cittadini.

Non vi è però alcun accenno, nella ricostruzione proposta, ai vari conflitti,

schiavitù a parte, che pure segnarono la società americana fin dalle origini

dell’Unione. La Convenzione di Filadelfia, ad esempio, non fu solo, come egli lascia

intendere, la sede di un compromesso fra stati, diversi per potenza economica,

consistenza demografica, estensione geografica, e dipendenza, o meno, dal lavoro

servile. Essa rappresentò anche un mezzo per contenere la pressione popolare

generata dalla rivoluzione, incanalandola nelle istituzioni repubblicane. Dinamiche

democratiche dal basso e naturalmente il gioco di interessi contrapposti, non solo

quelli legati al traffico degli schiavi, continuarono a caratterizzare la vita politica

degli Stati Uniti nella prima metà dell’Ottocento, con effetti sugli sviluppi del

federalismo. Fu questo il caso dei primi tentativi, tutti falliti, di dotare il paese di una

banca centrale.

I successivi quattro capitoli del volume sono dedicati ad ulteriori aspetti del

quadro politico-istituzionale. Vengono approfonditi nell’ordine: il sistema elettorale

e dei partiti, la forma di governo, il federalismo e il sistema giudiziario. Qui si

trovano cenni soprattutto alla storia recente del paese, dalle grandi riforme

introdotte agli inizi del Novecento, in quella conosciuta come “era progressista”, e

durante il New Deal di Franklin Roosevelt, cui si deve buona parte del moderno

apparato di governo, fino ai giorni nostri.

Stroppiana, che, come si è detto, è uno specialista della materia, confeziona

un’analisi rapida ma accurata della “democrazia elettorale americana”, una

macchina dal funzionamento alquanto articolato. “In nessuna altra democrazia”, egli

osserva puntualmente, “si vota per eleggere così tante cariche diverse come negli

Stati Uniti”. Il riferimento è soprattutto all’elezione popolare di un gran numero di

pubblici uffici con funzioni amministrative e, caso “del tutto peculiare nel panorama

comparativo”, giudiziarie, a cui vanno aggiunti i vertici dell’esecutivo e le assemblee

rappresentative a livello federale, statale e locale. Un’altra peculiarità su cui viene

posto l’accento è l’Election Day, appuntamento riservato allo svolgimento

contemporaneo delle varie consultazioni elettorali, tradizionalmente fissato per il

martedì dopo il primo lunedì di novembre, una scadenza stabilita per legge nel

lontano 1845 e da allora mai disattesa, “nemmeno in tempi di guerra” (p. 51).

L’autore prende quindi in esame i sistemi elettorali per la Casa Bianca e il

Congresso, il nesso tra di essi e il bipartitismo, la legislazione che disciplina il

finanziamento delle campagne elettorali. Egli presta inoltre particolare attenzione

alle ultime quattro tornate delle presidenziali, dalla contestata elezione di Bush nel

2000 alla rielezione di Obama nel 2012.

Altrettanto nitida, sebbene contenga almeno una lacuna di rilievo, risulta la

trattazione riguardante la forma di governo. È ben spiegata la coniugazione del

principio fondamentale della separazione dei poteri esecutivo e legislativo con i vari

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G. Mazzei, Recensione 149

pesi e contrappesi (checks and balances) tra di essi, per cui si hanno poteri in parte

separati e in parte condivisi dalle diverse branche di governo. Vengono quindi

illustrate l’organizzazione dell’amministrazione federale, le differenze tra i due rami

del Congresso (Senato e Camera dei rappresentanti) ed anche la dinamica delle

relazioni tra questi e il Presidente in fatto di nomine e di iniziativa legislativa,

specificando con cura come quest’ultima appartenga soltanto ai membri del

Congresso, mentre il Presidente svolge in proposito un ruolo di “impulso” che si

esprime attraverso: il tradizionale discorso sullo stato dell’Unione e altri appelli

all’opinione pubblica, la presentazione di un progetto annuale di bilancio e

soprattutto la minaccia di sottoporre al proprio veto le proposte di legge approvate

dal Congresso, che a sua volta può annullare il veto presidenziale con un voto di

almeno due terzi dei componenti di ciascuna camera.

C’è però da notare come l’autore, che peraltro si dimostra capace di trattare

sinteticamente la complicata materia, tralasci sorprendentemente di considerare una

facoltà di non poco conto tra le varie attribuite al Presidente, vale a dire quella di

promulgare gli executive order (decreti esecutivi), cui nondimeno l’autore fa

riferimento più in là nel testo, a proposito del fallito tentativo, da parte di Obama, di

chiudere Guantanamo, il campo di detenzione per sospetti terroristi, da anni al

centro di roventi polemiche. Si tratta infatti di una facoltà limitata, in particolare

dagli atti del Congresso, ma solitamente gli executive order, che sono nell’ordine delle

centinaia per ogni amministrazione, vengono regolarmente implementati2.

Sia il capitolo sul sistema elettorale e dei partiti, sia quello sulla forma di

governo, a parte la lacuna appena sottolineata, arricchiscono il volume di una messe

di informazioni chiaramente utili alla riflessione sulla rappresentanza e sul

funzionamento delle istituzioni europee. Altrettanto interessante in questo senso è il

capitolo sul federalismo, nel quale vengono passate in rassegna, come di seguito: le

competenze del governo federale rispetto ai cinquanta stati che compongono la

federazione; le principali caratteristiche delle diverse costituzioni e forme di governo

statali; l’evoluzione del federalismo in prospettiva storica; il federalismo fiscale.

Particolarmente degno di nota è l’esame della cosiddetta Commerce Clause

della Costituzione, in base alla quale la potestà legislativa del Congresso si è estesa,

soprattutto durante il XX secolo, dapprima in ambito prettamente socio-economico,

ad esempio nei riguardi del lavoro minorile, della rappresentanza sindacale e della

2 Gli executive order sono rivolti alle agenzie federali, hanno valore di legge e non necessitano

dell’approvazione del Congresso per essere promulgati. La collaborazione del Congresso è però

indispensabile nei casi in cui le risorse previste siano di una certa entità, e comunque il Congresso

può modificare o abrogare tali decreti presidenziali – nel caso di Guantanamo è stata la Camera dei

Rappresentanti a impedirne la chiusura. Si noti inoltre che, sebbene non vi sia alcun riferimento

esplicito in materia nel dettato costituzionale, la promulgazione di executive order è entrata nella prassi

sin dal 1789, non appena fu eletto il primo presidente degli Stati Uniti, George Washington. Dagli

inizi del Novecento il ricorso agli executive order da parte dei presidenti è poi diventato prassi corrente

e ve ne sono stati di storici, come, ad esempio, quello riguardante la desegregazione razziale delle

forze armate nel 1948.

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G. Mazzei, Recensione 150

contrattazione collettiva, e successivamente in altri ambiti, quali la repressione dei

fenomeni criminali, la tutela dei diritti civili, la protezione dell’ambiente e, da

ultimo, la copertura della riforma sanitaria voluta da Obama.

Quanto al sistema giudiziario, altro cardine del quadro politico-istituzionale,

nel capitolo che segue viene considerata l’organizzazione di esso a livello federale e

(negli aspetti essenziali) statale. L’attenzione è concentrata sul vertice del sistema, la

Corte Suprema, sulla sua composizione e sulle sue funzioni, oltre che sulle

procedure e consuetudini che regolano la nomina dei suoi membri da parte del

Presidente e con l’assenso del Senato; il tutto accompagnato da ampi cenni agli

sviluppi della giurisprudenza costituzionale dalle origini ai giorni nostri. Qui

l’autore non si lascia sfuggire l’occasione per spendere qualche parola a proposito

della contestatissima sentenza sul caso Citizen United, con cui nel 2010 la Corte ha

dichiarato incostituzionali alcune importanti norme restrittive sul finanziamento

delle campagne elettorali, una sentenza che è stata giudicata dai critici, tra i quali lo

stesso Obama, “a tutto vantaggio degli interessi dei soggetti economici più forti” (p.

126).

L’ottavo e penultimo capitolo, su “libertà e diritti costituzionali”, ha per

oggetto principale il già citato Bill of Rights, i primi dieci emendamenti costituzionali,

e in particolare alcuni di essi: quelli che tutelano i diritti fondamentali del cittadino

per quanto riguarda le libertà di religione, d’espressione e di coscienza;

l’eguaglianza di fronte alla legge; le garanzie processuali (due process of law); il

principio di ragionevolezza della legge. Viene inoltre esaminato il XIV

emendamento, introdotto all’indomani della guerra civile e anch’esso concernente i

diritti fondamentali, aggiornati però alla luce di una rinnovata dottrina federalista

(protezione dei “privilegi” e delle “immunità” del cittadino nei confronti della

legislazione statale, non solo quella federale, come precedentemente previsto dalla

Costituzione) e della prima legislazione sui diritti civili delle minoranze, che furono

entrambe conseguenze di quella guerra.

Da tali premesse normative mosse la secolare lotta contro la segregazione e la

discriminazione razziale, che avrebbe profondamente segnato la società americana

specialmente nel secondo dopoguerra, intrecciandosi sia agli ulteriori sviluppi del

federalismo – la lotta fu condotta in parte ai danni dei “diritti degli stati” (states’

rights), espressione che infatti ha spesso avuto una connotazione razzista – sia, dagli

anni Sessanta del secolo scorso, al femminismo e al nascente movimento per i diritti

gay.

Sui movimenti per i diritti delle minoranze, nelle loro varie ramificazioni e

incarnazioni, Stroppiana elabora un interessante excursus, comprese le ultime novità

legislative e giurisprudenziali, sia a livello federale che statale, in materia di

matrimonio omosessuale e aborto. Proprio all’aborto egli dedica un’intera sezione

del suddetto capitolo, sotto la dicitura “un nuovo diritto costituzionale: la privacy”.

In essa, purtroppo, non vi è traccia del recente scandalo sulle attività investigative

della National Security Agency (NSA), una patente violazione della privacy, che per

molti americani è oggi una fonte di preoccupazione addirittura maggiore della

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G. Mazzei, Recensione 151

possibilità di nuovi attacchi terroristici. Con ogni probabilità l’autore ha completato

il manoscritto prima che lo scandalo esplodesse in tutta la sua gravità3.

In un’altra sezione del capitolo, inoltre, egli si occupa dell’annoso problema

delle armi da fuoco, il cui possesso negli Stati Uniti è costituzionalmente protetto dal

II emendamento. Il problema, le cui proporzioni sono ormai sconcertanti, è

accuratamente storicizzato unitamente alla dimostrazione dell’indiscutibile

anacronismo della norma costituzionale, cui tuttavia un numero considerevole di

americani è gelosamente affezionato, anche in nome di un preteso spirito di

indipendenza dai centri del potere politico, governo federale in primis4. Tutti questi

esempi, a loro modo, presentano motivi d’interesse per quanto riguarda i rapporti

tra federalismo, tutela dei diritti individuali e sentimenti di appartenenza alla

nazione.

Nell’ultimo capitolo del volume, infine, viene affrontato il tema delle relazioni

internazionali degli Stati Uniti. Se, come parrebbe di capire, è ancora attuale una

famosa battuta attribuita all’ex Segretario di Stato americano, Henry Kissinger, una

quarantina di anni or sono (“chi devo chiamare se voglio parlare con l’Europa?”),

anche questo tema offre spunti di sicuro interesse. Dopo un’occhiata veloce

all’organizzazione militare – dal Dipartimento della Difesa ai servizi di intelligence,

al Consiglio per la sicurezza nazionale (National Security Council) alle dirette

dipendenze del Presidente – segue un resoconto più approfondito sulle attribuzioni

costituzionali in materia di politica estera e di difesa, i cosiddetti “poteri di guerra”.

Si ricorda che Presidente e Senato condividono la responsabilità di nominare gli

ambasciatori all’estero e quella di stipulare trattati internazionali; che in tempo di

guerra al Presidente sono riservati poteri eccezionali in qualità di capo delle forze

armate; che la Camera dei rappresentanti svolge anch’essa un ruolo specifico, nello

stanziare cioè i finanziamenti per le azioni militari; e che è comunque il Congresso

nel suo insieme a dichiarare guerra o a concedere al Presidente una teoricamente

meno impegnativa ma di fatto altrettanto vincolante “autorizzazione per l’uso della

forza militare”.

3 In un sondaggio d’opinione sulle misure anti-terrorismo adottate dal governo americano, condotto

dal Pew Research Center nel luglio 2013, il 47 percento degli intervistati dichiarava di sentirsi

preoccupato a causa soprattutto delle restrizioni alle libertà personali che tali misure

comporterebbero, a fronte di un 35 percento più interessato all’efficacia di queste nel proteggere il

paese da possibili attacchi. È stata questa la prima volta dal 2004, da quando cioè l’istituto

demoscopico ha iniziato a sondare gli americani sull’argomento, che si è registrato un simile risultato.

Si veda in proposito l’articolo di Glenn Greenwald, che ha curato la pubblicazione delle rivelazioni

sulla NSA per il quotidiano inglese «The Guardian», Major opinion shifts, in the US and Congress, on

NSA surveillance and privacy, http://www.theguardian.com/commentisfree/2013/jul/29/poll-nsa-

surveillance-privacy-pew. 4 Per farsi un’idea realistica del problema, si pensi che, secondo una delle stime più attendibili, nel

2009 erano oltre 300 milioni le armi da fuoco in possesso di privati cittadini negli Stati Uniti, circa una,

in media, per ogni americano. Si veda William J. Krouse, Gun Control Legislation, Congressional

Research Service, 14 novembre 2012, p. 8, http://www.fas.org/sgp/crs/misc/RL32842.pdf.

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G. Mazzei, Recensione 152

L’ultimo capitolo è inoltre corredato da una sintesi sulle “epoche di politica

estera americana”, dai primi passi all’indomani della rivoluzione fino al post-guerra

fredda. Qui l’autore si cimenta in un compito probabilmente improbo e, nonostante

lo sforzo, il risultato è francamente deludente. Nelle pagine in questione, cinque per

l’esattezza, ci sono forse troppe semplificazioni. Una per tutte, quella relativa alla

mancata ratifica da parte del Senato del Trattato di Versailles all’indomani della

Prima guerra mondiale, con la conseguente esclusione degli Stati Uniti dalla Lega

delle Nazioni, la cui creazione era stata fortemente voluta dall’allora Presidente

Woodrow Wilson. Stroppiana spiega l’accaduto con la delusione delle ambizioni

idealistiche degli americani alla conferenza di pace e con lo scontro personale tra

Wilson e i membri del Senato, omettendo di dire che questi ultimi argomentarono il

proprio rifiuto su solide basi costituzionali ed ebbero ben presenti, nel farlo, gli

interessi nazionali specialmente in America Latina e nelle Filippine, che all’epoca

erano una vera e propria colonia degli Stati Uniti. Più convincenti sono invece le

ultime due sezioni del capitolo sulla guerra al terrorismo, dove vengono messe in

evidenza le novità nell’approccio di Obama, al pari delle scelte “continuiste” rispetto

all’amministrazione Bush.

Avviandoci alla conclusione, ci corre l’obbligo di segnalare, per dovere di

completezza, non tanto una semplice svista da parte dell’autore, quanto piuttosto la

sua sottovalutazione di un pezzo importante dell’apparato di governo federale, vale

a dire la Federal Reserve, la banca centrale americana, dotata di un’ampia autonomia

decisionale, sia pure nel suo inquadramento istituzionale di agenzia governativa,

dipendente per la propria esistenza e organizzazione, e per la nomina dei suoi

vertici, dal Presidente e dal Congresso. Stroppiana la cita en passant, a proposito delle

riforme istituzionali dei primi del Novecento – la creazione, nel 1913, della prima

stabile banca centrale negli Stati Uniti fu, come egli nota, uno degli aspetti più

significativi di quelle riforme – e inoltre in merito alla carente regolamentazione

finanziaria unanimemente riconosciuta tra le cause della recente crisi economica

globale. Non vi è però alcuna menzione del ruolo centrale svolto dalla Fed, come

viene abitualmente chiamata, nel contenere gli effetti della crisi una volta esplosa.

L’argomento avrebbe verosimilmente meritato una trattazione più approfondita5.

Ad ogni modo, il volume edito dal Mulino rappresenta un utile contributo

alla conoscenza del sistema politico-istituzionale statunitense, sia dal punto di vista

storico sia per quanto riguarda i fatti più recenti. L’argomento, come si è avuto modo

di osservare a più riprese nelle pagine precedenti, offre molteplici spunti di

riflessione sullo stato attuale e sui possibili sviluppi del processo d’unificazione

europea. Nel concludere, aggiungiamo che – forse perché, come disse un illustre

5 A questo proposito, anche per l’interesse dell’argomento in relazione alla Bce, la Banca centrale

europea, mi permetto di rimandare il lettore a un sintetico lavoro comparativo tra le due istituzioni

monetarie, da me precedentemente pubblicato su questa rivista: Brevi note su Fed e Bce,

«Eurostudium3w», n. 22 (aprile-giugno 2013), pp. 11-30,

http://www.eurostudium.uniroma1.it/rivista/archivio/Eurostudium27/Mazzei.pdf.

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speaker della Camera dei rappresentanti, “all politics is local” – non è infrequente, nel

nostro paese, discutere di America per regolare nient’altro che le solite beghe

domestiche, e invece è esattamente la dimensione continentale, quella dell’Unione

Europea, che poi ci riguarda ugualmente, la più appropriata per scorgere

somiglianze e differenze, stabilire paralleli, se non misurarsi col modello americano.