Proprietà e «beni comuni», verso il «bene comune»? · Quasi a voler significare che nella...

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www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale ISSN: 2240-9823 Data pubblicazione: 05.03.2014 Proprietà e «beni comuni», verso il «bene comune»? di Francesco Rinaldi 1 «Se fossi a conoscenza di qualcosa che mi fosse utile e che fosse pregiudizievole alla mia famiglia lo scaccerei dal mio spirito. Se sapessi qualcosa che fosse utile alla mia famiglia ma non alla mia patria, cercherei di dimenticarlo. Se sapessi qualcosa di utile per la mia patria che però fosse pregiudizievole all’Europa, o pure che fosse utile all’Europa ma pregiudizievole per il genere umano, lo considererei come un crimine, perché sono uomo per necessità, mentre non sono francese che per accidente» (Montesquieu) SOMMARIO: 1. Premessa. 2. Oggetto e beni della proprietà. 3. Le declinazioni e le relazioni del diritto di proprietà: verso i «beni comuni». 4. La proprietà nel pensiero di Tocqueville, Savigny, Windscheid, Marx e Pugliatti: la proprietà, «il grande campo di battaglia». 5. La costituzionalizzazione della proprietà attraverso la funzione sociale e l’accessibilità a tutti (art. 42, co. 2, Cost.) 6. «Beni comuni» o «non proprietari»: una questione di consapevolezza, di costi e di concretizzazione del diritto al godimento. 7. Considerazioni conclusive. 1. La scelta, obbligata, di porre in relazione la «proprietà» e i «beni comuni», come si vedrà, appare irretrattabile al fine di potersi comprendere la non categoria dei beni non proprietari, come è, forse, possibile definire, al di là di ogni ulteriore e necessaria valutazione, i beni comuni, la cui logica inclusiva 2 è opposta a quella che caratterizza il diritto di proprietà, ma che può essere compresa, si ritiene, solo ove si comprenda a fondo la logica proprietaria. 1 Il presente scritto costituisce la rivisitazione della Relazione tenuta in data 14.2.2014 presso l’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale nell’ambito di un Seminario di Studi organizzato dal Prof. Vincenzo Baldini all’interno delle attività del corso di dottorato di ricerca in Diritti Fondamentali. 2 Cfr. J. HABERMAS, L’inclusione dell’altro, trad. it., Milano, 1998, 6 ss.

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Data pubblicazione: 05.03.2014

Proprietà e «beni comuni», verso il «bene comune»?

di

Francesco Rinaldi1

«Se fossi a conoscenza di qualcosa che mi fosse

utile e che fosse pregiudizievole alla mia famiglia lo scaccerei dal mio spirito. Se sapessi

qualcosa che fosse utile alla mia famiglia ma non alla mia patria, cercherei di dimenticarlo.

Se sapessi qualcosa di utile per la mia patria che però fosse pregiudizievole all’Europa, o pure che fosse utile all’Europa ma pregiudizievole per

il genere umano, lo considererei come un crimine, perché sono uomo per necessità, mentre

non sono francese che per accidente»

(Montesquieu)

SOMMARIO: – 1. Premessa. – 2. Oggetto e beni della proprietà. – 3. Le declinazioni e le relazioni del

diritto di proprietà: verso i «beni comuni». – 4. La proprietà nel pensiero di Tocqueville,

Savigny, Windscheid, Marx e Pugliatti: la proprietà, «il grande campo di battaglia». – 5. La

costituzionalizzazione della proprietà attraverso la funzione sociale e l’accessibilità a tutti (art. 42,

co. 2, Cost.) – 6. «Beni comuni» o «non proprietari»: una questione di consapevolezza, di costi

e di concretizzazione del diritto al godimento. – 7. Considerazioni conclusive.

1. – La scelta, obbligata, di porre in relazione la «proprietà» e i «beni comuni», come

si vedrà, appare irretrattabile al fine di potersi comprendere la non categoria dei beni

non proprietari, come è, forse, possibile definire, al di là di ogni ulteriore e necessaria

valutazione, i beni comuni, la cui logica inclusiva2 è opposta a quella che caratterizza il

diritto di proprietà, ma che può essere compresa, si ritiene, solo ove si comprenda a

fondo la logica proprietaria.

1 Il presente scritto costituisce la rivisitazione della Relazione tenuta in data 14.2.2014 presso l’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale nell’ambito di un Seminario di Studi

organizzato dal Prof. Vincenzo Baldini all’interno delle attività del corso di dottorato di ricerca

in Diritti Fondamentali. 2 Cfr. J. HABERMAS, L’inclusione dell’altro, trad. it., Milano, 1998, 6 ss.

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Ebbene, la proprietà, «terribile, e forse non necessario diritto»3. «Dubbio», questo,

che Bentham definì «sovversivo dell’ordine sociale»4.

La proprietà è da considerare la «misura» di ogni rapporto (giuridico, sociale,

economico), di ogni diritto (specialmente di libertà) e di ogni comportamento, assumendo

rilievo, in quest’ultimo senso, il suo valore etico. Si consideri, ad esempio, la teoria

dell’abuso del diritto, che muove dal divieto degli atti emulativi (v. art. 833 cod. civ.),

significativa disposizione dettata in materia di diritto di proprietà5. La proprietà

3 Scriveva C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, Livorno, 1764, XXII ss. 4 J. BENTHAM, Principles of the cvil code, I, Edinburg, 1843, IX ss. Le due citazioni sono tratte da S. RODOTA’, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Bologna, 2013, le cui riflessioni sono fondamentali in argomento ed al quale si è fatto continuo riferimento. 5 L’art. 833 del cod. civ., rubricato Atti d’emulazione, stabilisce che «il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri». In materia di «abuso del diritto», storico precedente, al quale è comunemente ricollegata l’origine del

relativo dibattito giurisprudenziale, è CASS., 15.11.1960, n. 3040, in Foro it., 1961, I, 256 ss., con commento di A. SCIALOJA, per la quale «il mancato o negligente uso della facoltà di agire in difesa

del diritto soggettivo per rimuovere una situazione dannosa non solo al titolare del diritto medesimo, ma

anche a terzi, costituisce uso anormale del diritto soggettivo, se il non uso si risolve nell’inosservanza

dolosa o colposa di specifiche norme di condotta poste a tutela di diritti altrui». Il caso giunto all’esame

della Corte aveva ad oggetto l’occupazione abusiva, sine titulo, di alcuni appartamenti di proprietà di un Istituto Case Popolari che, anziché esercitare azione di sfratto nei confronti degli occupanti, installò, per migliorarne la fruibilità da parte dei medesimi, alcuni accessori (un bagno e una fontana). Uno dei condomini assegnatari, non tollerando l’abusiva occupazione,

intentò causa contro l’Istituto per non aver esercitato l’azione di sfratto, lamentando un

comportamento meramente emulativo, volto, cioè, esclusivamente a «nuocere o recare molestia ad altri», secondo la previsione dell’art. 833 cod. civ. La Corte, in quella sede, pur rigettando il

ricorso contro l’Istituto, aprì la strada all’identificazione di una possibile fattispecie di «uso

anormale del diritto», che corrisponde alla figura dell’ «abuso del diritto», quale elaborata dalla

dottrina. Il fondamento normativo di tale fenomeno viene, ad ogni modo, rintracciato nel citato art. 833 cod. civ. e nell’art. 1175 cod. civ. che, in materia di obbligazioni in generale, impone sia

la debitore che al creditore di comportarsi «secondo le regole della correttezza». A tali norme sono, poi, aggiunti l’art. 840, co. 2, cod. civ., che vieta al proprietario del fondo di «opporsi ad attività di terzi che si svolgano a tale profondità nel sottosuolo o a tale altezza nello spazio sovrastante, che egli non abbia interesse ad escluderle»; e l’art. 1375 cod. civ., che, in fase di esecuzione del rapporto obbligatorio, impone il dovere di comportarsi secondo buona fede. L’abuso del diritto viene, quindi, inteso come esercizio di un diritto, attribuito dalla legge o per

effetto di un contratto, per realizzare scopi diversi ed ulteriori, ai quali il diritto non è preordinato, al solo scopo di nuocere ad interessi altrui. In tale prospettiva, v. CASS., 16.10.2003, n. 15482, in Foro it., 2004, I, 1845 ss., la quale esplicitamente individua la figura dell’ «abuso del

diritto» nel «comportamento del contraente che esercita verso l’altro i diritti che gli derivano dalla legge

o dal contratto per realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati». Di grande rilievo – anche con specifico riferimento al tema dei beni comuni in indagine – è la possibilità di intravedervi una nuova, peculiare, concezione del diritto soggettivo, nel senso, cioè, che, attesa la dinamicità dei valori di solidarietà sociale di cui all’art. 2 della Cost. e la complessità della

moderna società politica, questo non sembra più consistere in un potere individuale totalmente

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costituisce il «calco per modellare la stessa nozione generale di diritto soggettivo»6,

dunque, anche di natura fondamentale.

Dal modo di concepire il diritto di proprietà, ed in particolare, i suoi limiti,

sembra dipendere, ancor’ oggi, l’organizzazione sociale ed economica, nonché il

regime politico7, di uno Stato, anche in termini di «giustizia» e «carità»8, nella

dichiarata prospettiva di assicurare protezione alle esistenziali altrui necessità. Una

libero nella funzione, ossia «egoistico» nel suo esercizio, bensì – quasi in analogia con la concezione del potere pubblico (si consideri, ad esempio, il vizio sintomatico dell’atto

amministrativo rappresentato dall’eccesso di potere per sviamento) – in un potere che è tenuto a sottostare alle regole fondanti dell’ordinamento che lo riconosce e lo attribuisce al singolo.

Quasi a voler significare che nella concezione del diritto soggettivo entri, come costituente, il corretto uso sociale dello stesso. Ove tale carattere manchi o venga meno, quindi, alcun diritto soggettivo – nel senso di «potere di agire» – potrebbe essere riconosciuto al singolo. Si potrebbe essere tentati, quindi, di affermare che il diritto soggettivo esiste ed è tale soltanto se utilmente esercitato, secondo il consenso sociale. Sicché, ove il diritto venga esercitato in maniera «scorretta» o «anormale» (e tale risulta anche il relativo mancato esercizio), non vi sarebbe più alcuna esigenza o situazione giuridica soggettiva meritevole di protezione. Insomma, una concezione dell’esercizio del diritto soggettivo «strumentale» rispetto all’ «attuazione

dell’ordine giuridico», com’è stato autorevolmente affermato (v. R. VON JHERING, La lotta per

il diritto, 1891, trad. it. a cura di R. RACINARO, Milano, 1989, spec. 102 e 125, le cui riflessioni sono fondamentali in argomento). Facendo nuovamente riferimento al pensiero di illustri giuristi, se, da un lato, un diritto che non può essere provato è come se non esistesse; dall’altro,

si potrebbe aggiungere, un diritto che non viene esercitato (o, più in generale, che viene anormalmente esercitato), è come se non fosse tale per l’ordinamento (in proposito, v.

JOSSERAND, De l’abus des droits, Paris, 1905; Id., De l’esprit des droits et de leur relativité. Théorie

dite de l’abus des droits, Paris, 1939, spec. 201, 265, 320, 415; ed il celebre saggio di P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., I, 1965, 205; Id., L’abuso del diritto, Bologna, 1998; GIORGIANNI, L’abuso del diritto nella teoria della norma giuridica, Milano, 1963; KELSEN, Teoria

generale del diritto e dello Stato, 1945, rist. 2000, Milano, 78 ss.). In argomento, sia, altresì, consentito rinviare a F. RINALDI, Verwirkung, ritardato esercizio del diritto e giudizio di buona fede, in Nuova Giur. civ. comm., 2005, 3, I, 444 ss. 6 RODOTA’, op. ult. cit., 43. 7 Due recenti esempi, particolarmente significativi, possono essere proposti: l’affermazione ed elaborazione del diritto di proprietà in Cina e la tutela costituzionale della proprietà in India. Quanto alla prima ipotesi comparativa, si fa riferimento agli emendamenti costituzionali del 2004, in materia di inviolabilità del diritto di proprietà, di suoi limiti in termini di espropriabilità, ed al rapporto tra proprietà pubblica e privata. La proprietà, dunque, nell’ambito

del diritto socialista cinese e delle tradizionali categorie proprietarie della proprietà del popolo, della proprietà delle organizzazioni collettive delle masse lavoratrici e della proprietà dei cittadini. In argomento, v. A. SERAFINO, In tema di proprietà in Cina (i progetti della legge sui diritti reali), in Riv. dir. civ., 2006, 549 ss. Con riferimento alla tutela costituzionale della proprietà in India, sulla scia del modello sudafricano, «si è avvertita la difficoltà di bilanciare la necessità di redistribuzione della terra con la protezione dei diritti di proprietà esistenti» (v., in argomento, F. BENATTI, La tutela costituzionale del diritto di proprietà in India: storia e prospettive, in Rass. dir.

civ., 2012, 1164 ss., ma spec. 1184 ss.). 8 Così, J. LOCKE, Primo Trattato sul Governo, 1690, par. 42.

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visione della proprietà, questa, in termini di «ricchezza» anche a vantaggio di

determinate categorie di soggetti deboli, specialmente i «poveri»9.

Da queste constatazioni sembra possibile, sin da ora, cogliere alcuni tratti

caratterizzanti di quella funzione sociale che l’art. 42, co. 2, Cost., nel costituzionalizzare la

proprietà, attribuisce a questo eccellente diritto, inteso anche nel senso di dovere di

contribuzione al fine di assicurare la «sopravvivenza dei più deboli»10. Questo della

debolezza sociale segna l’emersione di un vero e proprio status, appunto, di «soggetto

debole»11, in una prospettiva di ampia tutela della persona e di profonda rimeditazione

della dottrina degli status12.

9 Cfr. H. ARENDT, Vita activa. La condizione umana (1958), trad. it. a cura di s. Finzi, Milano, 1991, spec. 89 ss.; e Z. BAUMANN, Danni collaterali, Roma-Bari, 2011, spec. XII ss. della premessa, che ricorda: «nel 2005, prima che l’uragano Katrina si abbattesse sulle coste della

Luisiana, gli abitanti di New Orleans e delle zone circostanti sapevano del suo imminente arrivo ed ebbero il tempo di correre ai ripari. Non tutti però poterono agire di conseguenza e mettersi in salvo. Taluni – e non furono pochi – non riuscirono a racimolare il denaro necessario ad acquistare un biglietto aereo (…). Inoltre, benché i beni di quei poveri che non riuscirono a

prendere un aereo o a trovare scampo in un motel fossero forse poca cosa rispetto a quelli dei ricchi, e quindi non altrettanto degni di essere rimpianti, essi rappresentavano per loro tutto ciò che possedevano. Nessuno li avrebbe compensati per la perdita di quei beni, che una volta perduti lo sarebbero stati per sempre, insieme a tutti i risparmi di una vita». 10 Cfr., L. BARASSI, Proprietà e comproprietà, Milano, 1951, 7 ss. 11 Sia consentito, in proposito, rinviare a F. RINALDI, Aspetti problematici di una tutela del

consumatore come «contraente debole», in Civitas et civilitas. Studi in onore di Francesco Guizzi, a cura di A. Palma, Torino, 2013, 778. 12 Argomento, questo degli status che meriterebbe maggiore approfondimento, anche al fine di potersi cogliere le effettive derive, in materia, dell’Ordinamento, tra status e anti-status. Per ciò che interessa direttamente la «scienza giuridica», la «dottrina degli status», comunemente, segnala due tradizionali «modi di atteggiarsi» dello stato delle persone: il primo, tende a definire, anche etimologicamente, il termine status nel senso di «condizione, posizione, situazione» e, dunque, stato giuridico come posizione di un soggetto rispetto ad un determinato gruppo sociale, che può essere l'intera collettività o un gruppo minore, dalla quale derivano determinate situazioni giuridiche soggettive. Con maggiore precisione, questo status, definito «comunitario», si caratterizza come «posizione (…) tendenzialmente stabile o addirittura

permanente, dell’essere umano rispetto a una collettività, onde esso trae la sua forza e quasi la sua identità (…)». Il secondo, invece, esprime lo status come «qualità essenziale che individua, o concorre a individuare, un essere umano come soggetto, vale a dire come entità sempre identica a sé stessa al di là delle vicende che in relazione alla detta qualità possano ad essa riferirsi e delle conseguenze che ad essa, per effetto di tali vicende, possano imputarsi sul piano giuridico». Status, questo, che viene definito «soggettivistico, individualistico» o anche «personalistico». Cfr. A. CORASANITI, voce Stato delle persone, in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990, p. 948 e ss., cui si rinvia anche per opportuni ed ulteriori approfondimenti di natura bibliografica. In argomento, cfr., in particolare: P. RESCIGNO, voce Status (teoria generale), in Enc. giur., XXXII, 1993, p. 1 e ss.; Id., Situazione e «status» nell’esperienza del diritto, in Riv. dir. civ.,

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Lo statuto moderno della proprietà può dirsi determinato specialmente dai moti

rivoluzionari della Francia del 1789, culminati, per ciò che qui direttamente interessa,

prima, nell’adozione della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino, e,

successivamente, del Code civil del 1804, in ordine al quale pare utile ricordare la

reinterpretazione, ad opera di Napoleone, della triade «fratellanza, eguaglianza,

libertà», in «libertà, eguaglianza e proprietà»13. Nonché, dai moti rivoluzionari degli

Stati Uniti d’America, culminati nell’approvazione della Dichiarazione di Indipendenza

del 1776, pur non menzionando, questa, nell’ambito dei diritti fondamentali, il diritto

di proprietà, bensì, tra gli altri, il diritto al perseguimento della felicità: «noi riteniamo che

tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dotati dal loro Creatore di certi

inalienabili diritti, fra i quali quelli alla vita, alla libertà e la perseguimento della

felicità».

Inoltre, non può non osservarsi l’influenza esercitata dal modello socialista, con

particolare riferimento alla rivoluzione proletaria nella Russia del 1919 e nell’ambito di

1973, I, 209 ss.; A. CICU, Il concetto di status, 1917, ora in Scritti minori, I, 1, Milano, 1965, p 181; A. D’ANGELO, Il concetto giuridico di «status», Roma, 1938; V. PARLATO, voce Status (diritto

canonico), in Enc. giur., 1993; SARACENI, Il concetto di status e sua applicazione nel diritto

ecclesiastico, in Arch. giur., CXXXII, 1945, 107; D. COMPOSTA, Gli stati societari nella comunità

ecclesiale, in Jus, 1969, 250; A. VITALE, Diritto-Sacramenti, Freiburg-Roma, 1969; G. JELLINEK, La

dottrina generale dello Stato, trad. it., Milano, 1912, p. 23 e ss.; Id., Sistema dei diritti pubblici

soggettivi, trad. it., Milano, 1912, p. 60 e ss.; HÄBERLE, Grundrechte in Leistungsstaat, in Veröffentlichungen der Vereiningung der deutschen Staatsrechtslehrer, XXX, Berlino-New York, 1972, p. 80 e ss.; GRAVESON, Status in the common law, Londra, 1953, spec. p. 2. FRIEDMANN, Some

reflection on Status and Freedom. Essays in Jurisprudence in honor of R. Pound, Indianapolis (New York), 1962, p. 222 e ss.; M. REHBINDER, Status, contract and the Welfare-state, in Stanford law

review, 1971, XXIII, n. 5, p. 941 e ss., ma spec. 946. In proposito, E. QUADRI, in F. BOCCHINI e E. QUADRI, Diritto privato, Torino, 2011, spec. in nota 8, p. 77, osserva, inoltre, che: «il riferimento è al tipo di organizzazione della società – fino alla rivoluzione francese e al modello di Stato da essa tenuto a battesimo – fondato sulla diversificazione delle regole giuridiche applicabili in base alla condizione sociale del soggetto (anche senza arrivare alla più remota contrapposizione tra liberi e schiavi, si pensi alla rilevanza accordata alla situazione di nobile, ecclesiastico o mercante), con conseguente diversificazione dei diritti e degli obblighi di cui ciascuno era (e poteva essere) titolare. L’affermazione dell’unità del soggetto di diritto – come destinatario delle norme e, conseguentemente, potenziale titolare di situazioni giuridiche – risulta, in effetti, costituire il risultato, proprio quale reazione ai preesistenti assetti sociali (ed alle relative giustificazioni), di una elaborazione concettuale che, attraverso le ideologie giusnaturalistiche e razionalistiche del secolo XVIII, si pone alla base delle codificazioni civili (il cui modello di riferimento è il code civil del 1804)». 13 In proposito, cfr. RODOTA’, op. cit., 75 ss.

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un’ampia visione dello Stato come unico proprietario dei mezzi di produzione e,

dunque, di «ricchezza».

Ed infine, occorre aggiungere il riferimento alla costituzionalizzazione della

proprietà ad opera della Germania di Weimer del 1919 che, all’art. 153, utilizzava la

formula, definita «eretica»14: «la proprietà obbliga». Formula, questa, sensibilmente

modificata nell’ambito del vigente art. 14, co. 2, della Costituzione tedesca nel senso,

cioè, che: «la proprietà impone degli obblighi» e, prosegue la disposizione, «il suo uso

deve al tempo stesso servire al bene comune». La scelta del costituente tedesco sembra,

pur nella sua problematicità, espressione di una visione comunitarista del diritto

fondamentale di proprietà, al fine di assicurare preminente protezione agli interessi

della comunità, in abbandono, pertanto, di una logica esclusivamente individualistica.

Rilievo, questo, destinato ad assumere particolare significato, ove si convenga con il

ritenere che il riconoscimento dei diritti fondamentali ad opera del legislatore tedesco

sembra continuare a svolgere, essenzialmente, quella funzione di protezione

dell’individuo, soprattutto, nei confronti del potere statuale e, dunque, di limite

all’esercizio del potere pubblico, con ogni dovuta precisazione e distinzione. Postulato,

questo, dei noti e catastrofici eventi bellici della seconda guerra mondiale.

In Italia, come solo in parte sarà possibile osservare, la costituzionalizzazione del

diritto di proprietà, attraverso la sua funzione sociale, si manifesta come il prodotto del

compromesso tra le diverse forze politiche presenti nell’Assemblea Costituente, da una

parte propulsive dei principi cardine dello Stato liberale di diritto, dall’altro, assertrici di

una lettura in chiave sociale delle disposizioni costituzionali, come accade sin dall’art. 1

Cost., attraverso il riferimento al lavoro. Il riferimento alla funzione sociale del diritto di

proprietà costituisce complessa e, ove si ritenga, anche ambigua sintesi tra la visione

liberista della proprietà, anche in termini di diritto naturale dell’individuo, e la visione

socialista, in chiave marcatamente solidaristica ed egualitaria.

2. – In tempi relativamente recenti, le problematiche scaturenti dal diritto di

proprietà – diritto reale per eccellenza, in quanto pieno ed esclusivo, secondo la

14 Cfr., RODOTA’, op. cit., 11.

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definizione legislativa di cui all’art. 832 del cod. civ., che riprende la definizione

dell’art. 544 del Code civil del 1804 – si dipanano e si moltiplicano in relazione

all’oggetto del diritto ed alle diverse e nuove categorie di beni sui quali il potere di

disposizione può essere esercitato, ponendo frequenti e vivaci tensioni, a cominciare

dall’esercizio dei poteri di disposizione sul «corpo»15, proprio ed altrui, sino alla

disposizione della vita, propria o altrui16, dal suo inizio alla sua fine17.

Si considerino, inoltre, i servizi e, più in generale, i beni immateriali, ipotesi, queste

destinate ad assumere peculiare interesse, atteso che, come da più parti osservato, il

diritto privato, oggi, è al centro di una vera e propria rifondazione concettuale, numerosi

essendo i «nuovi diritti», i «nuovi istituti» e le «nuove categorie» che investono tale

ordinamento, dando luogo spesso ad asimmetrie sistematiche, specialmente con

riferimento alla pretesa dei diritti umani fondamentali. Sotto questo profilo, il tema del

diritto di proprietà e dei beni comuni ne è esempio significativo, vi è, difatti, una sottile,

sfuggente e fluida linea di unione tra questi, talvolta imperscrutabili, fenomeni, prima,

ed istituti giuridici, poi, i quali, insieme, contribuiscono ad adeguare metodologia e

sistema normativi al mutare della realtà fenomenologia. E, nei casi specifici, la realtà

risulta mutata grandemente, basti considerare la nozione giuridica negativa e residuale

di immaterialità e di servizi. Il Codice civile del 1865 è stato, difatti, al riguardo

considerato il Codice della proprietà; quello del 1942, il Codice delle obbligazioni.

Sicuramente entrambi i Codici possono, ragionevolmente, essere considerati i Codici

della «fisicità» e della «materialità» o, ove si preferisca, della ricchezza materiale.

Le numerose leggi complementari al Codice Civile del 1942, rappresentazione di

diverse nuove realtà fenomenologiche, che rendono necessarie ulteriori

regolamentazioni, consentono di riflettere sull’esistenza di un nuovo integrato codice

15 Sino a potersi parlare di giuridificazione del corpo (v. RODOTA’, Tecnologie e diritti, Bologna, 1995, 179 ss. 16 Il riferimento è non solo all’art. 5 del cod. civ., in materia di atti di disposizione del proprio corpo, ma anche ai diritti sulla vita nascente, ad esempio: diritto a nascere e a non nascere; potere di interruzione della gravidanza; potere di disposizione su gameti ed embrioni (si consideri il caso della crioconservazione e della fecondazione, specialmente post mortem). In argomento, v. F. RINALDI, La problematica soggettività giuridica del nascituro, con particolare riguardo al diritto a nascer sani: bioetica di un recente diritto, in questa Rivista, luglio 2013, spec. 1 ss. 17 Si consideri il tema dell’eutanasia, attiva o passiva (v. RINALDI, La «dignità umana» e la «vita»:

tra «volontà e rappresentazione». Note minime, in questa Rivista, gennaio 2014, spec. 23 ss.).

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civile, oggi vigente. In questa direzione, sembra porsi la spinta operata dalla

dematerializzazione della ricchezza, da un lato, e dalla «servilizzazione dell’economia»,

dall’altro. Tanto che, ci si chiede, se sia in atto, o solo in potenza, una transizione del

Codice civile dal «diritto delle cose» al «diritto dei servizi»; ed in una più ampia

prospettiva, se si vada in direzione di una «società dei servizi» e di un «diritto privato

del mercato», ed è il caso di aggiungere, dei «beni immateriali»18. Valgano i seguenti

18 La problematica dei beni immateriali meriterebbe ben altro approfondimento. La semantica dei beni immateriali muove dal concetto generale di bene giuridico, inteso come ogni «cosa che può formare oggetto di diritto». Una nozione ampia e non esclusiva, sotto il profilo ontologico, sicché può il bene giuridico essere individuato in «qualsiasi entità materiale o ideale giuridicamente rilevante» (così, B. BIONDI, I beni, Torino, 1956, spec. 9 ss.). Senza neppure doversi dimenticare che il «bene», nel senso di res, è pur sempre «l’oggetto del diritto

soggettivo» (così, C.M. BIANCA, Diritto civile, 6, La proprietà, Milano, 2004, spec. 50 ss.; l’a.

osserva, a tal riguardo, che «l’interesse è infatti bisogno di un bene, e l’interesse tutelato dal

diritto si concreta in relazione al bene idoneo a soddisfare tale interesse. La disciplina dei beni concorre quindi a disciplinare i diritti, e a segnarne la natura e il contenuto»). Inoltre, una nozione che, si ritiene, rifletta quella di bene in senso economico, pur manifestandosi, tuttavia, diversa, è la seguente: la «scienza economica (…) considera i beni in rapporto alla loro utilità e utilizzabilità da parte degli uomini; la scienza giuridica li considera sotto il profilo della tutela da parte dell’ordinamento» (così, S. PUGLIATTI, voce Beni (teoria generale), in Enc. dir., V, 164 ss., ma spec. 169; dell’a., si cfr. anche voce Cosa (teoria generale), in Enc. dir., XI, 19 ss.; in argomento, rileva BIANCA, op. cit., 50: «secondo l’opinione che lega la nozione di bene

giuridico a quella di bene economico, non sarebbero beni le cose disponibili liberamente in natura (le res communes omnium delle fonti romane). Tali cose non avrebbero il requisito della limitatezza»). In linea generale, e seppure con le dovute precisazioni e distinzioni, può, quindi, rilevarsi che i beni acquisiscono rilevanza giuridica ove siano utili, accessibili e limitati. E non possono, invece, essere considerati beni giuridici quei beni che il legislatore vieta possano essere «oggetto di diritti», non ritenendo meritevole di tutela un eventuale rapporto di appartenenza: si considerino, ad esempio, le spoglie umane ex art. 5 del cod. civ., e, più in generale, i diritti fondamentali, seppure con le dovute precisazioni e distinzioni, cui si è, nelle pagine che precedono, fatto cenno. Alla luce di queste brevi considerazioni può, dunque concludersi nel senso della piena ammissibilità, nell’ambito del novero dei beni giuridici, anche dei beni immateriali, la cui rilevanza giuridica – come di ogni altra categoria di bene – è pur sempre il risultato di una «qualificazione formale», nel senso, cioè, che «la stessa entità (ad esempio la cosa nella sua individualità oggettiva) può essere l’elemento materiale di diverse categorie di

beni» (così, MESSINETTI, Oggettività giuridica delle cose incorporali, Milano 1970, spec. 103 ss.; Id., voce Oggetto dei diritti, in Enc. dir., XXIX, 808 ss.). I beni immateriali – al pari della nozione di servizio e, si osservi, di consumatore –, sembra costituire una categoria di bene giuridico negativa e residuale, nel senso, cioè, che sono beni immateriali quei beni che non sono materiali o corporali, ma pur sempre «cose». Questa precisazione è parsa utile, atteso che secondo una diversa elaborazione del concetto di bene giuridico, meritevole di massima considerazione, il riferimento al concetto di «cosa» nell’ambito dell’art. 810 del cod. civ. avrebbe impedito di

includervi anche le res incorporales, appunto in quanto non materiali o corporali. In una simile prospettiva, si consideri anche il concetto di diritto personale o di credito, appunto, diritto non

reale; e si aggiunga la problematica della riconducibilità del software al concetto di cosa, in tal

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esempi: la legge sul diritto d’autore19, morale e patrimoniale; il Codice della proprietà

industriale20; il riferimento a beni e valori immateriali, quali l’ambiente ed il paesaggio,

beni comuni, questi, oggetto di significative evoluzioni soprattutto sotto il profilo

concettuale21.

modo ricollegandocisi anche al tema del Commercio elettronico. Dunque, il bene immateriale è «cosa» suscettibile di essere oggetto di diritto (art. 810 del cod. civ.), non in senso materiale, ossia come «parte della realtà fisicamente determinata»; ma lo è in senso di cosa incorporale, ossia «pur non essendo caratterizzata da una individualità in senso fisico, è tuttavia esistente come dato della realtà naturale» (così, BIANCA, op. cit., 51). Il bene immateriale è, dunque, una «entità» che ha una sua «realtà oggettiva» che conferisce al bene «rilevanza economica e giuridica» (BIANCA, op. ult. cit., 51). Nell’ambito dell’Ordinamento, sono considerati beni

immateriali, appunto, le invenzioni e le opere dell’ingegno, le quali hanno assunto una rilevanza tale da rendere necessario l’intervento legislativo (legge sul diritto d’autore, l. n. 633

del 1941, cit.). Inoltre, oggetto di discussione è, ad esempio, se, nell’ambito della proprietà

industriale e, segnatamente, nell’ambito della categoria dei beni immateriali, possa essere ricompreso il know-howw. Più che attuale che mai risulta, quindi, la nozione di bene giuridico proposta da Pugliatti, op. ult. cit., 169, secondo il quale il bene giuridico è ogni «entità materiale o ideale», nel senso cui si è fatto cenno. Non è dato, per ovvie ragioni di brevità, soffermarsi in ordine ad altre fattispecie problematiche in materia di beni immateriali, come, ad esempio, sempre nell’ambito del codice della proprietà industriale, in materia di azione di contraffazione del marchio registrato e azione di concorrenza sleale. Una proprietà, inoltre, che comunque apparirebbe diversa rispetto al concetto di proprietà tradizionale, incentrato appunto sulle res

corporalis (si considerino i modi di acquisto della proprietà, specialmente a titolo originario). 19 Legge 22.4.1941, n. 633, e s. m. e i. 20 D.lgs. 24.2.1998, n. 58, e s. m. e i. 21 La tutela paesistica sembra essere andata ben oltre la tradizionale concezione c. d. statica – del paesaggio, cioè, riconducibile al concetto di bellezza naturale –, in direzione di una concezione dinamica, costituendo il paesaggio costituisce la «forma del paese» (in argomento, v. L. R. PERFETTI, Premesse alle nozioni giuridiche di ambiente e paesaggio. Cose, beni, diritti e simboli, in Riv.

giur. ambiente, 2009, 1 ss.). Al riguardo, sembra utile richiamare la discussa natura di «bene materiale» dell’energia elettrica, in ragione della possibilità di un suo sfruttamento economico, arg. ex art. 814 cod. civ. In proposito, osserva PUGLIATTI, voce Beni (teoria generale), cit., 164 ss., che «la cosa, dunque, anche se prodotta dalla natura, è a disposizione dell'uomo». È la dinamica appropriativa dell'uomo sulla cosa a rendere quest'ultima tale in senso giuridico. Ed ecco, allora, che il paesaggio viene facilmente attratto nella sfera della «cosa», perché iscritto in realtà materiali suscettibili d'appropriazione, mentre «non si può certo - è troppo ovvio - considerare come cosa la realtà naturale (anche nel suo aspetto materiale) nella sua totalità; essa infatti non potrebbe formare oggetto di (un) diritto per nessun soggetto e nemmeno per tutti i soggetti esistenti» (Pugliatti, op. ult. cit., 164 ss.). E si ricordi anche la soluzione data da CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, Roma, 1946, 358 ss. alla natura dell'energia elettrica che sarà cosa per l'ordinamento giuridico in quanto oggetto di godimento da parte dell'uomo, indipendentemente dalla sua qualificazione nella scienza fisica. Non solo la natura, ma anche le «forze diffuse in natura, finché sono di generale utilizzazione» restano delle res communes

omnium, sicché non sono cose o beni, perché non possono formare oggetto di diritti, ed «operano egualmente per tutti e sono a disposizione di tutti, il che significa che non sono tecnicamente beni» (così, Biondi, I beni, cit., 9 ss.).

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La complessità delle questioni di teoria generale sottese, rendono opportuno un

richiamo alla prudenza ed al massimo rigore nel condurre ogni relativa indagine, a

cominciare dalla nozione di servizio (privato e pubblico)22, oggi, da considerarsi a tutti gli

effetti «bene giuridico». L’argomento meriterebbe ulteriore approfondimento anche in

relazione alla complessa e discussa figura del consumatore di servizi o utente, di

particolare interesse con riferimento al tema dei beni comuni, ove si consideri che questa

nozione è modellata nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali del consumatore-

22 In proposito, è da rilevare come complessa e controversa sia, in realtà, la delimitazione della nozione di «servizio pubblico», manifestandosi, da un lato, una tendenza a limitare, in linea generale, l’ambito di una concezione pubblica del «servizio» rivolto ai cittadini, e rilanciandosi

una concezione di tali servizi in chiave marcatamente privatistica, avendosi, cioè, riguardo alla relativa natura di contratto di diritto privato, nell’ambito del quale le parti contraenti si trovano in posizione paritetica. In tal senso, sembra intervenire CASS., SEZ. UN., 27.11.2002, n. 16831, in Urb. e app., 2003, 529, con commento di DE GIOIA, Le Sezioni Unite rilanciano la concezione cd.

Soggettiva di servizio pubblico?, secondo cui, con riferimento al servizio di smaltimento dei rifiuti di cui al D.P.R. 10.9.1992, n. 915, «soltanto lo smaltimento di quelli urbani, in quanto obbligatoriamente riservato ai comuni in privativa, è espressamente definito «servizio pubblico», mentre tale natura non può riconoscersi – stante la concezione c.d. soggettiva di servizio pubblico seguita da detto D.P.R. – all’attività di smaltimento dei rifiuti speciali

nell’ipotesi in cui essi siano «dai produttori conferiti ai soggetti esercenti il servizio pubblico relativo ai rifiuti urbani, sicché la convenzione al riguardo stipulata, ad onta della denominazione di concessione attribuita dalle parti, deve essere riguardata come un contratto di diritto privato, nel quale le parti stesse sono poste su un piano paritetico». Il concetto di «servizio pubblico» meriterebbe di essere approfondito, in considerazione della pronunzia della CORTE COST., 5.7.2004, n. 204, in Riv. giur. edil., 2004, I, 1211. A questa tendenza si accompagna, sotto altro profilo, una dubbia ed ambigua concezione in senso «soggettivo» o in senso «oggettivo» di servizio pubblico. Nel primo senso, comunemente inteso come «attività produttiva di utilità sociale, di carattere prestazionale, rivolta ai cittadini» (cfr. VOLPE, La

giurisdizione esclusiva. I servizi pubblici, in AA.VV., Verso il nuovo processo amministrativo a cura di Cerulli Irelli, Torino, 2000, 94 ss.), ed in quanto attività non autoritativa esercitata da un pubblico potere, può essere assunto sia dalla Pubblica amministrazione sia da un privato attraverso un provvedimento concessorio; in senso «oggettivo», invece, dovrebbe aversi riguardo al fine di interesse pubblico perseguito di volta in volta, in relazione al quale riconoscere come pubblico il servizio assunto. In questa diversa direzione, v., in particolare, PROTOTSCHING, I servizi pubblici, Padova, 1964, 37. Concezione oggettiva, questa, adottata dall’AD. PLEN. CONS. STATO, con il parere n. 30 del 1998, in relazione all’art. 33 del D. lgs. n.

80/98, secondo cui il servizio pubblico comprenderebbe «tutte le attività svolte da qualsiasi soggetto, riconducibili ad un ordinamento di settore, sottoposte cioè a controllo, vigilanza o a mera autorizzazione da parte di una amministrazione pubblica». Ed in favore della quale propende parte della giurisprudenza: CASS., Sez. Un., 30.3.2000, n. 71, in Urb. e app., 2000, 602, con nota di GAROFOLI, per la quale il servizio pubblico «è caratterizzato da un elemento funzionale (soddisfacimento diretto dei bisogni di interesse sociale) che non si rinviene nell’attività imprenditoriale, anche se indirizzata e coordinata a fini sociali».

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utente23, tradizionale categoria di soggetto debole; ed ove si rifletta sulla circostanza che la

stessa tutela del consumatore sembra avere origine nell’ambito di un più generale

diritto alla conoscenza, che assume il complesso significato di diritto alla sicurezza24.

3. – In una prospettiva pure di tipo comparativo25, l’evoluzione che si registra in

materia di oggetto del diritto di proprietà, determinata dalla diversità delle categorie di

beni sui quali, più o meno intensamente, il potere di disposizione proprietario può

23 Ci si riferisce alla legge n. 281 del 1998, il cui contenuto è oggi confluito nel Codice del consumo (d.lgs. n. 206 del 2005), spec. art. 2, co. 2: «ai consumatori e agli utenti sono riconosciuti come fondamentali i diritti di: a) alla tutela della salute; b) alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi; c) ad una adeguata informazione e ad una corretta pubblicità; c-bis) all’esercizio

delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà; d) all’educazione al consumo; e) alla correttezza, alla trasparenza ed all’equità nei rapporti

contrattuali; f) alla promozione e allo sviluppo dell’associazionismo libero, volontario e democratico tra i consumatori e gli utenti; g) all’erogazione di servizi pubblici secondo

standard di qualità ed efficienza». Approfondendo il concetto di «servizio», ci si accorge, come in parte accennato, sin da subito dell’assenza di una definizione di «servizio», sia nell’ambito

della normativa speciale sul consumatore, se si eccettua il citata riferimento della legge 281/1998, oggi spec. art. 2, co. 2, Codice del consumo, sia nell’ambito della parte generale del

codice civile. Può, in proposito, venire in soccorso la collaudata definizione di «servizio» in materia di appalti sia pubblici che privati, alla quale si è fatto cenno. Colpisce, a tal riguardo, che, sia in ambito privatistico (artt. 1655 ss. c. c.), sia in quello pubblicistico (oggi, il Codice dei contratti pubblici; prima il d.lgs. 157/1995 e succ. modif.), il concetto di «servizio», al pari della nozione di consumatore, risulti una nozione «negativa» e «residuale», nel senso, cioè, che è «servizio» ciò che non può essere qualificato «opera»: «i servizi sono costituiti da attività (utili in senso economico) diverse dalle opere». Secondo una nota definizione, la quale prosegue: «per opera deve intendersi una modificazione dello stato materiale di cose esistenti. Gli appalti di opere si distinguono in appalti di costruzione, riparazione, modificazione (in senso stretto), demolizione, manutenzione etc.» (v. RUBINO, voce Appalto, in Enc. giur., III, 1999, 4; nonché, RUBINO-IUDICA, voce Appalto, in Comm. cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, Torino, 1992, 106 ss.). Tradizionali esempi di appalti di servizi sono considerati: il trasporto; le prestazioni sanitarie; il contratto di somministrazione di energia elettrica, prevalendo in esso l’attività

necessaria alla produzione di energia sull’obbligo di dare energia all’utente/consumatore; le

prestazioni in materia di sicurezza e vigilanza; il servizio di pulizia in generale e di smaltimento dei rifiuti in particolare. E, nell’ambito di questa categoria di consumatori-utenti, particolare debolezza si riscontra nell’ambito dei consumatori di «servizi sanitari» (cfr., in proposito, GALGANO, op. ult. cit., 75 ss; ed inoltre, particolarmente significativa è la ricostruzione sia della nozione di consumatore di simili servizi che la responsabilità degli operatori e delle strutture sanitarie effettuata da A. LEPRE, La responsabilità civile delle strutture sanitarie. Ospedali pubblici,

case di cura private e attività intramuraria, Milano, 2011, spec. 21 e 130 ss., cui si rinvia anche per ogni opportuno approfondimento di natura bibliografica). In argomento, v. RINALDI, Aspetti

problematici di una tutela del consumatore come «contraente debole», cit., 778 ss. 24 In argomento, v. F. RINALDI, La sicurezza nell’informazione del consumatore, in Sicurezza e stato

di diritto: problematiche costituzionali, a cura di V. Baldini, Cassino, 2005, 335 ss. 25 Con particolare attenzione ai sistemi di Common law.

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essere esercitato, ha determinato l’emersione di diverse forme di dominio, tanto da

consentire di affermare l’esistenza non di un’unica forma di «proprietà», bensì di

diverse forme di «proprietà» e, di conseguenza, di diversi statuti proprietari26.

Dalle brevi riflessioni sin qui svolte è, tuttavia, possibile trarre una

considerazione di carattere generale, ovvero le declinazioni della proprietà sono

illimitate, come infinite sono le prospettive di ricerca e le angolazioni di analisi, a

cominciare dall’analisi politica, da quella giuridica, economica, sociale, storica e

filosofica. A titolo indicativo, è possibile proporre alcuni esempi: proprietà umana e

proprietà economica; proprietà e società o proprietà sociale, che pare evocare direttamente la

problematica dei beni comuni, come effetto della costituzionalizzazione della proprietà e

della persona sociale e degna, in carne et corpore27, che soddisfa bisogni essenziali di vita e

che sembra segnare la definitiva affermazione di uno status personae universale, in

chiave egualitaria e solidaristica ed in quanto appartenenza al genus umanità.

In una simile direzione, la proprietà è, dunque, deputata a confrontarsi e

relazionarsi con beni, principi e valori fondamentali ed ordinanti quali: dignità,

eguaglianza, libertà e solidarietà.

Profonda si manifesta, dunque, la diversità tra proprietà pubblica o privata e beni

comuni, logica inclusiva e non di mercato – nel senso di una proprietà o, meglio, di una

non proprietà individuale, bensì accessibile a tutti –, quest’ultima, opposta a quella

esclusiva e di mercato, che caratterizza, invece, il diritto di proprietà, almeno

tradizionalmente inteso28. I beni comuni, «beni non proprietari», sembrano superare

confini territoriali e «gabbie degli status»29, quale, ad esempio, lo status civitatis,

evocando, così, la relazione tra proprietà e sovranità, essendo, al riguardo, la proprietà

da considerare una forma di sovranità del singolo verso l’altro singolo30. Il

26 Citando S. PUGLIATTI, La proprietà e le proprietà (con riguardo particolare alla proprietà terriera), in La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1954, 145 ss., le cui riflessioni restano fondamentali in argomento. 27 Cfr., specialmente, A. BALDASSARRE, Diritti della persona e valori costituzionali, Torino, 1997, 3 ss.; e S. RODOTA’, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012, spec. 140 ss. 28 Almeno nell’ambito delle legislazioni più moderne e liberali. Si ricordi la definizione del diritto di proprietà nell’ambito dell’art. 832 del cod. civ. e nell’ambito del suo antecedente

storico, ovvero art. 544 del Code civil del 1804. 29 L’espressione «gabbia degli status» è di RODOTA’, Il diritto di avere diritti, cit., 144. 30 Cfr. RODOTA’, Il terribile diritto, cit., 21.

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superamento dei confini nazionali, con riferimento alla pretesa inclusiva dei beni

comuni, sembra rendere possibile l’edificazione di una «cittadinanza» e di una

«personalità umana universale», al fine di assicurare completa ed effettiva

soddisfazione della pretesa dei diritti umani fondamentali31.

In una simile direzione, un ruolo indiscutibilmente significativo è stato svolto

dall’emersione di nuovi interessi non riconducibili esclusivamente al modello

proprietario, in termini di gestione e godimento. Si considerino, in tal senso beni comuni

fondamentali quali: l’acqua; il cibo; la conoscenza, con particolare attenzione

all’istruzione; l’ambiente e l’aria; la salute ed il diritto di curarsi; le risorse energetiche;

e, si potrebbe aggiungere, il genoma umano, in quest’ultimo caso, con ogni

comprensibile reazione e dovuta precisazione.

Nell’ambito di questi nuovi interessi, per effetto specialmente della rivoluzione

industriale, ha assunto un ruolo decisivo la valorizzazione del lavoro, da un lato, come

strumento di produzione della ricchezza e, dall’altro, di accesso dell’individuo a

sempre più ampie categorie di beni, e, così, strumento di affermazione della dignità

della persona, tanto da rendere, addirittura, insopportabile la logica proprietaria,

sicuramente con riferimento alla proprietà, come definirla, «statica», troppe volte

rivelatrice di disparità di trattamento e di diseguaglianze sociali, dando, così, impulso

a noti e diffusi fenomeni rivoluzionari. Valga un esempio per tutti: il riconoscimento, in

origine, dei diritti di elettorato attivo e passivo solo in favore dei proprietari della casa

di abitazione, presupposto anche della cittadinanza, in tempi non troppo lontani e con

ogni dovuta precisazione.

31 In argomento, cfr. B. CONFORTI, Protezione internazionale dei diritti umani, in Sviluppo dei diritti

dell’uomo e protezione giuridica a cura di L. D’Avack, Napoli, 2003, 21 ss., il quale osserva che:

«(…) il rapporto tra lo Stato e il suddito era considerato un rapporto di cui il diritto

internazionale si disinteressava e che rientrava nel dominio riservato dello Stato: una specie di riserva di caccia. E ciò in quanto lo Stato poteva fare del proprio suddito ciò che voleva: poteva impiccarlo, processarlo, metterlo in prigione senza processo, poteva torturarlo (…). L’unico

rispetto per l’individuo derivava dalle norme sul trattamento degli stranieri; ma la protezione dello straniero non era tanto frutto di un dovere verso la persona, bensì verso lo Stato a cui la persona apparteneva, perché si considerava che l’individuo fosse una cosa, oggetto di un vero e proprio diritto di proprietà dello Stato nazionale». L’a. pone, altresì, l’attenzione sul controverso

«tema della personalità internazionale dell’individuo» (spec. p. 26).

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Le possibili declinazioni della proprietà non si esauriscono affatto nelle ipotesi, per

quanto di ampia dimensione, qui riassuntivamente proposte, molte altre potendo

essere effettuate: a cominciare dalla diversificazione tra proprietà pubblica non statale,

proprietà capitalistica, proprietà collettiva ed impresa, che evoca il complesso rapporto

tra proprietà e controllo32.

Le infinite relazioni, che riconducono alla proprietà, la rendono, in effetti, il

«cuore» dell’ordinamento, specialmente nel momento in cui ci si accorge della

Costituzione33.

4. – Più attuale che mai, dunque, si manifesta il pensiero di Tocqueville34, che può

essere riassunto nella nota espressione: la proprietà, «il grande campo di battaglia tra

chi possiede e chi non possiede», in continuità con l’antico brocardo rivoluzionario

francese, «dove c’è proprietà c’è guerra»35, specialmente ideologica. Riflessione, questa,

che pare utile porre in relazione al diverso pensiero di Marx36, che, così, efficacemente

riassume le diverse problematiche scaturenti dal diritto di proprietà in epoca

successiva: «nessun soggetto viene liberato dalla proprietà».

Per quanto la logica proprietaria dell’esclusività, come dianzi accennato, abbia

subito un ridimensionamento, tuttavia, il perenne conflitto tra logiche proprietarie e

non proprietarie sembra mantenere intatto il suo vigore. Un esempio di «tendenza

restauratrice» della logica proprietaria, che passa attraverso la valorizzazione del

requisito dell’esclusività, può essere ritrovato nell’ambito della tutela del diritto

fondamentale della persona alla «riservatezza» o «intimità». Al riguardo, il diritto di

proprietà diventa utile strumento attraverso il quale proteggere la «solitudine» della

32 In proposito, v. RODOTA’, Il terribile diritto, cit., 32 ss. 33 Cfr. RODOTA’, op. ult. cit., 477 ss. 34 A. DE TOCQUEVILLE, Souvenirs, Paris, 1893, p. 32: «bientôt ce sera entre ceux qui possèdent et

ceux qui ne possèdent pas que s’établira la lutte politique; le grand champ de bataille sera la propriété» (la traduzione italiana reca il titolo Ricordi, a cura di A. Salmon Vivanti, Roma, 1991, 14 ss.). La citazione è tratta da RODOTA’, Il terribile diritto, cit., spec. 14 e 76. 35 Cf. RODOTA’, op. ult. cit., 101. 36 K. MARX, La questione ebraica (1844), trad. it. a cura di R. PANZIERI, Roma, 1969, 77 ss. La citazione è tratta da RODOTA’, Il terribile diritto, cit., 36.

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persona, intesa quale intimo «spazio materiale e immateriale» dell’individuo,

coinvolgendo anche la problematica tutela della dignità della persona umana37.

Il diritto di proprietà rappresenta il fulcro di una «costellazione d’interessi»38,

oggetto di protezione giuridica, molto spesso in conflitto tra di loro. Il conflitto tra

interessi proprietari e non proprietari, oltre a rendere necessaria l’individuazione di un

fondamento etico e di una giustificazione economica del diritto di proprietà, sembra

aver determinato l’ingresso nell’ordinamento di una pluralità di statuti proprietari,

come dianzi accennato, a seconda della funzione concreta e dell’oggetto del diritto.

Scrive, in proposito, Salvatore Pugliatti: «la parola proprietà non ha oggi, se mai ha

avuto, un significato univoco. Anzi troppe cose essa designa perché possa essere

adoperata con la pretesa di essere facilmente intesi. In ogni caso, l’uso di essa, con le

cautele e i chiarimenti necessari, anche se si protrarrà ancora nel prossimo futuro, non

può ormai mantenere l’illusione che all’unicità del termine corrisponda la reale unità di

un saldo e compatto istituto»39.

La proprietà, dunque, piuttosto che astratto concetto giuridico, sembra da

considerare un «τόπος, intorno al quale una stratificazione secolare è venuta

raccogliendo problemi, i cui nessi, però, non possono essere arbitrariamente recisi»40. A

voler imporre all’interprete di tenere sempre in debita considerazione la

fenomenologia concreta e la dinamica storica dell’istituto, stante la sua funzione di

rappresentazione e protezione anche di interessi non proprietari, come accade proprio

con riferimento alla fenomenologia dei beni comuni. Si considerino alcuni esempi: la

complessa ed articolata tutela dell’ambiente e del paesaggio41; più in generale, la

disciplina urbanistica ed edilizia, con particolare riferimento alla tutela del territorio ed

alle espropriazioni, ablative e non ablative42, ed alle occupazioni, usurpative, acquisitive e

sananti43.

37 Cfr. RODOTA’, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2012, spec. 102. 38 L’espressione è tratta da RODOTA’, Il terribile diritto, cit., 41. 39 Così, PUGLIATTI, La proprietà e le proprietà, cit., 309. 40 Così, RODOTA’, op. ult. cit., 56. 41 Cfr. il precedente § 2, e spec. nt. 21. 42 Ad esempio, attraverso l’imposizione, attraverso gli strumenti urbanistici, di vincoli di in

edificabilità, anche ricorrendo allo strumento negoziale o convenzionale (ad es., cessioni di cubatura, atti d’obbligo o di asservimento). Si consideri anche la complessa disciplina dei «parcheggi»,

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Nell’ambito dell’«oceano di opinioni»44 intorno al diritto di proprietà, sembra qui

utile ricordare un’altra definizione della proprietà proveniente da una diversa

angolatura, e intesa come «l’insieme dei rapporti economici e sociali che definiscono la

posizione di ciascuno rispetto all’utilizzazione di risorse scarse»45. Questa definizione

appare particolarmente significativa in quanto, da un lato, sembra porre l’attenzione

sulla concretezza del diritto di proprietà, dall’altro, sembra rilanciare la questione

relativa alla natura del diritto di proprietà in termini di diritto naturale dell’individuo46.

L’ingresso della proprietà nell’ambito dell’archetipo costituzionale radicalizza il

dibattito sulla sua funzione sociale (art. 42, co. 2, Cost.), ed è il risultato del periodo

storico che va dalla rivoluzione francese del 1789 alla codificazione napoleonica del

1804, che meriterebbe ben altro approfondimento al fine di potersi comprendere il

verificarsi di un radicale mutamento di tendenza sociale: dalla preoccupazione per la

particolarmente diversificata e tale da modificare lo stesso concetto unitario di pertinenza, sia in ambito privatistico che urbanistico. In materia di parcheggi, particolarmente significative le riflessioni di L. MAIONE, Considerazioni sul regime delle eccedenze in materia di parcheggi alla luce

delle innovazioni legislative, in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, 721 ss., in commento a CASS., 3.2.2012, n. 1664, secondo cui: «i parcheggi realizzati in eccedenza rispetto allo spazio minimo richiesto dall’art. 2 l. 24.3.1989, n. 122, non sono soggetti a vicolo pertinenziale a favore delle

unità immobiliari del fabbricato, conseguentemente l’originario proprietario-costruttore dell’edificio può legittimamente riservarsi o cedere a terzi la proprietà di tali parcheggi, purché

nel rispetto del vincolo di destinazione nascente da atto d’obbligo». 43 Si ricordino le vicende dell’art. 43 del D.P.R. 8.6.2001, n. 327, meglio noto come Testo unico

sulle espropriazioni, dichiarato incostituzionale da CORTE COST., 8.10.2010, n. 293 (in seguito anche ad alcune significative decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo). La disciplina

delle acquisizioni sine titulo d pare della P.A. è rifluita nell’art. 42-bis del citato Testo unico. In argomento, per una attenta e significativa ricostruzione, cfr. G. CERISANO, La procedura di

espropriazione per pubblica utilità, Padova, 2013, spec. 459 e 472 ss. 44 Già nel 1828, P. LIBERATORE, Osservazioni sul titolo secondo di C.E. Delvincourt, Corso di diritto

civile, trad. it., Napoli, 1828, spec. 177, registrava un «oceano di opinioni» intorno al diritto di proprietà, come disciplinato nell’ambito dell’art. 544 del Code civil. 45 Così, E. FURUTBON - S. PEJOVICH, Property Rights and Economic Theory: A Survey of Recent

Literature, in Jour. Econ. Liter., 10, 1972, 1137 ss., ma spec. 1139. La citazione è tratta da RODOTA’, op. ult. cit., 61. In argomento, cfr. M. S. GIANNINI, Ambiente, in Riv. trim. pubbl., 1973, 15 ss. 46 In argomento, si ricordi la storica decisione di CORTE COST. n. 55 del 1968, annotata da RODOTA’, in Il terribile diritto, cit., 68, il quale così ne sintetizza il contenuto: «abbandono della nozione unitaria e formale della proprietà; sua scomposizione nella molteplicità degli statuti delle varie «categorie di beni»; ricomposizione del nesso tra aspettative economiche e tutela proprietaria».

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libertà alla preoccupazione per l’eguaglianza sociale47. Si spiega meglio, in tal senso, il

perché la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789 non solo

annoveri il diritto di proprietà nell’ambito dei diritti fondamentali, al pari, dunque, dei

diritti di libertà e di eguaglianza, ma, in quanto strumento di concreta attuazione di

questi, lo definisca espressamente «diritto inviolabile e sacro»48.

La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, antecedente

storico dell’art. 42, co. 2, Cost.,introduce, così, un primo rilevante riferimento alla

funzione sociale della proprietà, soprattutto nella dichiarata prospettiva dell’eguaglianza

sociale, in considerazione del contesto storico di riferimento. Non più, dunque, una

logica esclusivamente individualistica, nel senso, cioè, che senza proprietà non potrebbe

esserci libertà, perché non vi sarebbe negozialità – nel senso privatistico, di autonomia –,

ammettendosi, già nel Diritto delle Pandette di Windscheid, «restrizioni» al diritto di

proprietà49; ed osservando, con straordinaria efficacia, Savigny, che la proprietà è

«l’illimitato ed esclusivo dominio di una persona sopra una cosa», ma «ha per effetto la

possibilità della ricchezza e della povertà entrambe senza limiti»50.

Il pensiero di Savigny sembra introdurre nell’ambito della ricostruzione dello

statuto proprietario un elemento di assoluta modernità, ossia il riferimento alla

responsabilità, che sembra trascendere il singolo, per assumere dimensione sociale51.

47 Attraverso il passaggio dall’«esprit philosophique» all’«esprit juridique»; ma soprattutto attraverso un redistribuzione della proprietà «da una classe all’altra», osserva RODOTA’, op.

ult. cit., 91, nel fare riferimento anche al pensiero di Sagnac, Solari e Garaud. 48 Così, l’art. 17. 49 «La proprietà come tale è illimitata; ma ammette restrizioni» (così, B. WINDSCHEID, Diritto

delle Pandette, trad. it. a cura di C. Fadda e P.E. Bensa, I, Torino, 1930, 591 ss.). 50 Così, F. K. SAVIGNY, Sistema del diritto romano attuale, trad. it. di a cura di V. Scialoja, I, Torino, 1886, 368. 51 Ad esempio, si consideri il complesso fenomeno dei rifiuti, nell’ambito della responsabilità

civile ed ambientale, e conseguenti principi e doveri della proprietà e dell’industria. In argomento, utile punto di riferimento può essere considerata la disciplina delle immissioni, appunto, dettata in materia di diritto di proprietà, di cui all’art. 844 del cod. civ., oggetto di interpretazioni

evolutive ad opera di alcune decisioni particolarmente significative della Corte Costituzionale, ed in applicazione del principio di ragionevolezza. In argomento, cfr. E. QUADRI, Problemi di

diritto privato, Napoli, 2002, 75 ss., ove sono riportate anche alcune significative decisioni della Corte, ad esempio: CORTE COST., 23.7.1974, n. 247, nell’ambito della quale la tutela viene

estesa – a dispetto della lettera normativa – non solo al proprietario ma anche a chi è titolare di diritti personali di godimento sul bene, in considerazione di una corretta individuazione del bene protetto dalla disciplina giuridica, che non è esclusivamente la proprietà, bensì la salute e, quindi, anche il diritto di vivere in un ambiente salubre.

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Questo elemento – determinato specialmente dalla rivoluzione industriale del XIX secolo –

ha, indubbiamente, prodotto un ulteriore mutamento di direzione e di funzione delle

logiche proprietarie dell’esclusività, unitamente alla valorizzazione dei beni produttivi,

del lavoro e delle energie creative52.

5. – Concetto giuridico, più di ogni altro, storicamente relativo, la proprietà

dimostra una straordinaria capacità di autoderminazione in maniera davvero innovativa

e in aperta rottura con il passato. Ciò si verifica specialmente attraverso la sua

costituzonalizzazione, che avviene per effetto dell’attribuzione della funzione sociale, al

fine di «renderla accessibile a tutti». Scrive, al riguardo, Jemolo: «alla vera linea di

frattura si arriva quando, abbandonata l’idea del godimento pro se, si entra nel concetto

di funzione di carattere sociale»53, in attuazione di doveri di solidarietà sociale ed

imponendo un uso sociale del diritto54.

Il concetto giuridico della funzione sociale o anche utilità sociale è di particolare

complessità, registrando opposte opinioni e, spesso, violente reazioni55: dalla

considerazione di carattere generale per cui «l’attributo della socialità può essere inteso

dal potere pubblico in senso concretamente vario»56, al rilievo che dalla Costituzione

sarebbe possibile desumere solo «ciò che è socialmente giusto, e non già ciò che è

52 Un significativo esempio, in tal senso, può essere riscontrato nell’ambito della proprietà

enfiteutica, di origine medievale. Sin dalla sua origine, sino ad oggi, è oggetto di discussione la sussistenza sul medesimo bene, sostanzialmente, di due forme di proprietà. Ci si chiede, cioè, se, «in considerazione delle prerogative accordategli, il proprietario in senso sostanziale (in quanto titolare della situazione soggettiva preminente sul bene) possa essere identificato nel concedente o nell’enfiteuta, non a caso ambedue definiti come titolari di un vero e proprio

dominio sulla cosa (dominio diretto il proprietario concedente, denominato anche direttario, dominio utile l’enfiteuta, denominato anche utilista)» (così, E. QUADRI, in F. BOCCHINI e E. QUADRI, Diritto privato, Torino, 2011, 457). Si considerino, in tal senso, gli artt. 971 e 972 del cod. civ. rispettivamente in materia di diritto di affrancazione e di devoluzione, con prevalenza accordata al primo. 53 Così, A. C. JEMOLO, Intervento, in Atti del III Congresso nazionale di diritto agrario, Milano, 1954, 230 ss. 54 Nelle pagine che precedono si è fatto riferimento alla teoria dell’abuso del diritto (cfr. il precedente § 1, e nt. 5). 55 Per una ricostruzione particolarmente significativa, v. RODOTA’, Il terribile diritto, cit., spec. 195 e 273 ss. 56 In tal senso, G. MIELE, Esperienze e prospettive giuridiche della pianificazione, in Justitia, 1955, 271 ss.

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socialmente utile»57; dall’affermazione della indeterminabilità del concetto di utilità o

funzione sociale58, ad una sua possibile identificazione in termini di «benessere sociale»,

caro agli economisti, pure di difficile definizione59; dall’affermazione di una «piena

rivincita liberista»60, all’affermazione che le disposizioni costituzionali sulla proprietà

sarebbero, addirittura, «povere di contenuto»61; ed infine, alla considerazione di una

diversa identità socialista, attraverso una «sorta di degradazione del diritto di

proprietà» ed una opposta valorizzazione della dignità del lavoro62.

In ogni caso, sembra possibile, anche con riguardo a questa categoria ordinante

della funzione o utilità sociale, cogliere la presenza di quelle due anime ideologiche

viventi in Costituzione, espressione di quel compromesso politico che caratterizza e

pervade la nostra straordinaria Carta costituzionale: da un lato, la visione socialista, nel

caso specifico, attraverso la rappresentazione e la volontà di giustizia sociale, dall’altro,

quella che è, forse, preferibile definire non semplicemente liberale, bensì cattolica,

affermazione del «bene comune»63, con ogni dovuta precisazione e distinzione e, sia

consentito osservare, incertezza, anche di natura descrittiva.

Con le premesse difficoltà, è, forse, da preferirsi il tentativo di definizione

dell’interesse sociale – che caratterizza questa funzione o utilità – come la «risultante degli

interessi degli appartenenti ad una categoria o ad un gruppo sociale. Si tratta di un

57 Così, M. MAZZIOTTI, Il diritto al lavoro, Milano, 1956, 154 ss. 58 In tal senso, G. MINERVINI, Contro la «funzionalizzazione» dell’impresa privata, in Riv. dir. civ., 1958, I, 622 ss. 59 Cfr. F. CAFFE’, voce Benessere (Economia del), in Dizionario di economia politica, a cura di Napoleoni, Milano, 1956, 65 ss. 60 In questa direzione, specialmente: V. CASTRONOVO, La storia economica, in La storia d’Italia a cura di Aa. Vv., IV, Dall’unità ad oggi, I, Torino, 1975, 375 ss.; P. CAFFE’, Recensione a P. Saraceno, in Critica economica, 1946, 95 ss.; P. CRAVERI, Sindacato e istituzioni nel dopoguerra, Bologna, 1977, 119 ss. 61 Così, R. SACCO, La proprietà. Lezioni , Torino, 1968, 72 ss., il quale aggiunge che: «sarebbe fuori di luogo dire che i redattori degli artt. 42 e ss. della Costituzione si siano resi conto della complessità dei problemi della proprietà». 62 Cfr., in particolare: C. MORTATI, Ispirazione democratica della Costituzione, in Il secondo

Risorgimento a cura di Aa. Vv., Roma, 1955, 415 ss.; U. NATOLI, La proprietà, I, Milano, 1965, 27 ss.; C. LAVAGNA, Costituzione e socialismo, Bologna, 1977, 73 ss. Per ogni ulteriore e necessario approfondimento, sia consentito rinviare, anche per ragioni di sintesi, ai lavori della I e III Sottocommissione dell’Assemblea Costituente. 63 In argomento, v. RODOTA’, op. ult. cit., 198, cui si rinvia per opportuni riferimenti bibliografici (v. spec. nt. 67).

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interesse collettivo, ma non generale: che, quindi, pur essendo particolaristico, si

distingue dagli interessi individuali, ma che, ciononostante, non si confonde con

l’interesse dell’intera collettività, impersonificata nello Stato»64.

Senza alcuna pretesa di completezza, né tanto meno di assicurare definizioni

soddisfacenti e, soprattutto, univoche, tuttavia, può risultare utile, in chiave euristica e

ricostruttiva del concetto di funzione o utilità sociale, indicare le principali disposizioni

costituzionali nell’ambito delle quali questa categoria ordinante viene utilizzata, ebbene:

l’art. 2 Cost., che fa riferimento alle «formazioni sociali» ed alla «solidarietà sociale»;

l’art. 3 Cost., in materia di «dignità sociale», di «condizioni sociali» e di «ostacoli di

ordine sociale»; l’art. 4 Cost., che menziona il «progresso della società»; l’art. 29 Cost.,

che definisce la famiglia «società naturale», oggetto di recenti e significative

reinterpretazioni65; l’art. 30, in materia di «tutela sociale»; l’art. 38, in materia di

64 Così, U. NATOLI, Limiti costituzionali all’autonomia privata nel rapporto di lavoro, I, Milano, 1955, 87 ss. 65 Il riferimento è, in particolare, al complesso e conflittuale dialogo tra famiglia legittima e unioni solidali tra eterosessuali ed omosessuali. In proposito, basti rinviare a E. QUADRI, Il

diritto di famiglia: evoluzione storica e prospettive di riforma, in Studi in onore di G. Benedetti, Roma-Bari, 2002, p. 1511 e ss. Si ricordi il Pacte civil de solidarieté (l. n. 99-924 del 15.11.1999) che, in Francia, rappresenta un primo riconoscimento significativo delle coppie di fatto eterosessuali; ed il noto e fortemente dibattuto modello olandese che ha aperto l’accesso al matrimonio anche

alle coppie omosessuali; e la recente legge tedesca in materia di convivenza (Lebenspartnerschaft del 16.2.2001). Modelli, specialmente quello francese, ai quali si è fatto riferimento in Italia nei diversi tentativi di regolamentazione del fenomeno della convivenza. (da ultimo, la proposta di legge sui Pacs). La diversità di situazioni soggettive consiglierebbe, forse, quanto meno un intervento legislativo separato, ad hoc, per ciascun fenomeno di convivenza, dovendosi pure considerare la diversa funzione svolta dalle diverse ipotesi di convivenza: i conviventi eterosessuali, difatti, almeno tendenzialmente, scelgono questo modello al fine proprio di sottrarsi al vincolo matrimoniale; quelli omosessuali, al contrario, almeno comunemente, aspirano, invece, al massimo riconoscimento del vincolo al pari dei coniugi. In argomento, cfr. QUADRI, op. cit., spec. p. 1521. L’invito alla diversificazione sembra, peraltro, trovare riscontro nell’ambito della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che, all’art. 9, distingue il

«diritto di sposarsi» da quello di «costituire una famiglia». In argomento, è intervenuta la recente, controversa decisione di CASS., 15.3.2012, n. 4184, in Riv. it. costituzionalisti, 2012, 1 ss., che, rigettando il ricorso di due cittadini italiani dello stesso sesso, che avevano contratto matrimonio all’estero (in Olanda) ed i quali ne chiedevano la trascrizione nell’atto dei registri

dello stato civile, ha affermato, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale ed europea, che un simile matrimonio non è, tuttavia, da considerarsi «inesistente» per l’ordinamento italiano,

ma soltanto inidoneo a produrre effetti giuridici rilevanti; ed ha, altresì, affermato che le coppie omosessuali, stabilmente conviventi, sono titolari del «diritto alla vita familiare» ed hanno, di conseguenza, il diritto ad agire per la tutela di «specifiche situazioni» al fine di poter ottenere un «trattamento omogeneo» rispetto ai «conviventi matrimoniali». Si cfr., inoltre, CASS.,

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«assistenza sociale»; l’art. 41 Cost., che prende in considerazione l’iniziativa economica,

nella prospettiva della «utilità sociale» e dei «fini sociali»; l’art. 42 Cost., qui annotato,

in materia di proprietà e funzione sociale; l’art. 44, che fa riferimento ad «equi rapporti

sociali»; l’art. 45, che valorizza la «funzione sociale della cooperazione»; l’art. 46, in

materia di «elevazione sociale»; l’art. 99, che fa riferimento alla «legislazione sociale»; si

aggiunga, inoltre, l’utilizzazione negli artt. 35, 42 e 43 Cost., del riferimento all’

«utilità» e all’«interesse generale»; l’art. 32 Cost., che collega il diritto alla salute

all’«interesse della collettività»; ed il riferimento al «pubblico interesse» nell’ambito

dell’art. 82 Cost.66.

Una utilizzazione, dunque, non univoca del riferimento alla funzione o utilità

sociale – per le indicate ragioni, sinonimo di benessere o interesse o fine sociale, e con

diverse possibili letture67 –, che, riferita alla proprietà, sembra, però, confermare il venir

meno di quella logica esclusivamente individualistica, cioè, del godimento pro sé, per

favorire, in chiave solidaristica ed egualitaria, interessi umani comuni e generali. In tal

senso, si usa discorrere anche di proprietà funzionalizzata, a voler sottolineare che l’art.

42, co. 2, Cost., attraverso la funzione sociale, ha introdotto una «riserva di legge» in

favore del «legislatore futuro», nel senso, cioè, di imporre dei limiti all’intervento

legislativo in materia di diritto di proprietà, legittimando solo interventi legislativi che

11.1.2013, n. 601, in Federalismi.it, che, rigettando il ricorso di un genitore avverso la decisione della Corte di Appello di Brescia – che disponeva l’affido esclusivo del minore alla madre

convivente con altra donna –, ha condiviso quella impostazione (formatasi negli ultimi anni) per la quale, in materia di affidamento di figli, appare irrilevante l’«orientamento sessuale» del

genitore al fine della valutazione dell’idoneità dello stesso a prendersi cura della prole, seppure

con ogni dovuta distinzione e precisazione. 66 Per questa sintesi, v. RODOTA’, op. ult. cit., spec. 202, il quale osserva che: «appare immediatamente evidente che l’uso del qualificativo sociale, senza essere contraddittorio, non è però univoco». 67 Si osserva: una prima lettura «descrittiva», nel senso, cioè, di essere finalizzata alla individuazione di alcuni dati obiettivi (in tal senso, si indicano, ad esempio, gli artt. 2, 3 e 29 Cost.); una seconda lettura si ritiene «comprensiva», nel senso, cioè, del riconoscimento della necessità e, dunque, del diritto, ad una effettiva integrazione dell’individuo nella società,

attraverso l’adozione di determinate misure in presenza di determinate condizioni (si indicano, in tal senso, gli artt. 2, 3, 4, 30, 38, 46); una terza lettura, infine, definita in termini di «criterio di valutazione di situazioni giuridiche connesse a determinate attività economiche, delle quali sono indicate ambito ed eventuali forme di coordinamento» (si indicano gli artt. 41, 42, 44 e 45 Cost.). nell’ambito di quest’ultima lettura rientrerebbe, dunque, la problematica della proprietà.

In proposito, v. RODOTA’, op. ult. cit., 207 ss.

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rispettino detta funzione sociale, con conseguente sindacato sull’attività legislativa al

riguardo68.

La possibilità di funzionalizzare la proprietà non sembra sollevare particolari

questioni, atteso che, a differenza di altre esperienze normative, la Costituzione

annovera il diritto di proprietà nell’ambito dei diritti fondamentali69, ma senza

affermarne l’inviolabilità70. Circostanza, questa, che non deve destare incertezze, in

quanto, al pari di ogni altro diritto fondamentale, anche la proprietà è un diritto

«limitabile», naturalmente a determinate condizioni, ma che, per volontà del

Costituente non può essere cancellato. Al riguardo assume, altresì, rilievo la ritenuta

possibile esistenza di due modelli di proprietà costituzionale: uno, di cui in Costituzione,

ed un altro, ad opera della Corte Costituzionale, in applicazione degli artt. 3 e 42

Cost.71.

68 Al riguardo, cfr. RODOTA’, op. ult. cit., 315 ss., il quale osserva come la funzione sociale

costituisca, nel senso di cui nel testo, lo strumento «concettuale» offerto alla Corte Costituzionale per sindacare gli interventi legislativi in materia di proprietà. L’a. pone, però, la questione relativa all’individuazione dei «parametri» da utilizzare a tal fine e riporta un brano

particolarmente significativo della sentenza della Corte Costituzionale n. 14, del 7.3.1964 (v. p. 319), rilevando che, affinchè possa affermarsi l’illegittimità costituzionale di una legge di funzionalizzazione della proprietà privata, sembra necessario che: «l’organo legislativo non

abbia compiuto un apprezzamento di tali fini (di utilità generale) e dei mezzi per raggiungerli o che questo apprezzamento sia stato inficiato da criteri illogici, arbitrari o contraddittori ovvero che l’apprezzamento stesso si manifesti in palese contrasto con i presupposti di fatto. Ci sarebbe

anche vizio di legittimità se si accertasse che la legge abbia predisposto mezzi assolutamente inidonei o contrastanti con lo scopo che essa doveva conseguire ovvero se risultasse che gli organi legislativi si siano serviti della legge per realizzare una finalità diversa da quella di utilità generale che la norma costituzionale addita». In proposito, si consideri anche l’esempio

dell’acquisizione sanante (ex 43 TUE, ora 42 bis), di cui si è detto in precedenza (v. § 4, e nt. 42). 69 In tal senso, specialmente CORTE COST., 22.12.1977, n. 153, in Giur. costituz., 1977, 1469 ss., secondo cui: «la legge riconosce e garantisce la proprietà privata e in particolare aiuta la piccola e media proprietà terriera, alla quale può bensì imporre obblighi e vincoli, ma per il duplice fine del razionale sfruttamento del suolo e del conseguimento di equi rapporti sociali, senza incidere eccessivamente sulla sostanza del diritto di proprietà, a beneficio di altri soggetti privati, pur meritevoli di particolare tutela». 70 Ci si riferisce, in particolare, alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789 che, come indicato, espressamente affermava che il diritto di proprietà era «inviolabile e sacro»; nonché all’art. 29 dello Statuto Albertino, che attribuiva al diritto di proprietà

prevalenza anche sul diritto di libertà (v. Rodotà, op. ult. cit., spec. 331). 71 Ci si riferisce alla citata decisione n. 55 del 1968 della Corte Costituzionale, dalla quale sembra, in effetti, risultare un rinvigorimento della tutela proprietaria. La decisione è annotata da RODOTA’, op. ult. cit., spec. 336: «a) estensione della garanzia prevista dall’art. 42, comma 2,

della Costituzione alle cosiddette espropriazioni di valore; b) utilizzazione di (sia pur generici)

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Le istanze egualitarie e solidaristiche presenti nell’Ordinamento sembrano

svolgere un ruolo significativo nell’edificazione del diritto di proprietà in termini di

diritto fondamentale della persona, attraverso il quale si manifesta la personalità

dell’individuo (v. artt. 2 e 3 Cost.) ed è possibile accedere a determinate forme di

proprietà c.d. «favorite». Ci si riferisce, specialmente, all’abitazione ed alla proprietà

coltivatrice diretta, che soddisfano necessarie esigenze di vita72. Senza neppure doversi

omettere il riferimento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che, pare il

caso di ricordare, colloca il diritto di proprietà nell’ambito dei diritti fondamentali di

libertà73.

Le difficoltà esegetiche per l’interprete, nel conferire adeguato contenuto, di volta

in volta e di epoca in epoca, a questa complessa e delicata funzione sociale, si

manifestano anche in considerazione del fatto che essa sconta, al pari di altre c.d.

clausole generali dell’ordinamento – quali sono, ad esempio, la buona fede, il buon

costume e l’ordine pubblico –, un alto grado di indeterminatezza, a cominciare dalla

lettera stessa del comma 2 dell’art. 42 Cost., secondo cui: la proprietà «ha» e non «è»

una funzione sociale74.

Naturalmente non mancano neppure concezioni negazioniste dell’ammissibilità di

una funzione sociale con riguardo alla proprietà, ripugnando l’idea stessa di funzione in

criteri economici per identificare le specifiche espropriazioni di valore a cui la ricordata garanzia sarebbe applicabile; c) utilizzazione della teoria delle «più proprietà», attraverso il riferimento ad una nozione di «categoria di beni» individuata sostanzialmente in base ad una comune funzione economica, per circoscrivere formalmente i casa di applicabilità della nuova garanzia apprestata per le espropriazioni di valore; d) controllo della legittimità costituzionale degli interventi legislativi riguardanti il diritto di proprietà alla luce del principio di eguaglianza affermato dall’art. 3 della Costituzione; e) irrigidimento del rapporto tra attività legislativa e attività amministrativa, con evidenti riflessi sulla portata della riserva di legge in materia proprietaria». 72 Cfr. gli artt. 42 e 47 Cost. 73 Cfr. l’art. 17, per il quale. «ogni persona ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquisito legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità. Nessuna persona può essere privata della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa. L’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse generale»,

prosegue, il comma 2, «la proprietà intellettuale è protetta». 74 Cfr., al riguardo, RODOTA’, op. ult. cit., 217, cui si rinvia anche per opportuni riferimenti bibliografici.

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termini di vincolo alla proprietà intesa, appunto, come diritto di libertà75. Discutendosi,

poi, su quale sia «la proprietà chiamata ad assolvere la funzione sociale», che potrebbe

non essere «la proprietà-diritto soggettivo, ossia in quanto diritto soggettivo», bensì «la

proprietà come istituto giuridico»76. Termine, questo, pure di difficile definizione,

indicando entità diverse: «ora un complesso di fattispecie, ora un complesso di materie,

ora un complesso di norme, ora un complesso di rapporti giuridici»77. La distinzione

tra la funzione sociale del diritto soggettivo di proprietà e la funzione sociale dell’istituto,

espone, però, al «rischio di introdurre una duplicazione assai pericolosa, già palese in

quegli autori che ritengono di salvaguardare la purezza del concetto tradizionale

contrapponendo una proprietà effettiva ad una giuridica»78. E con l’aggiunta, pare il

caso di precisare, della funzione sociale dei singoli beni, determinante della relativa

categoria (ad esempio, beni privati, pubblici, del patrimonio disponibile, indisponibile,

demaniale)79.

La funzionalizzazione sociale della proprietà ha, indubbiamente, determinato, come

pure significativamente osservato, da un lato, l’«erosione del diritto di proprietà, per

quanto riguarda il contenuto», attraverso, cioè, «una riduzione dei poteri riconosciuti

al proprietario»; dall’altro, l’«erosione della sfera riservata alla proprietà individuale»

e, dunque, la «riduzione degli oggetti sui quali ammettesi il diritto di proprietà nei

privati»80.

Con una ulteriore riflessione in relazione al dogma del numerus clausus dei diritti

reali, oggetto, com’è noto, di vivace discussione, potendosi in questa sede solo

osservare come si tratti di un limite all’esercizio dell’autonomia privata (arg. ex art.

75 In argomento, cfr., in particolare, R. ORESTANO, Diritti soggettivi e diritti senza soggetto, in Jus, 1960, 150 ss., ma spec. 172 ss. 76 In tal senso, v. F. SANTORO PASSARELLI, Proprietà e lavoro in agricoltura, in Libertà economica

e proprietà fondiaria, Atti del IV Convegno dell’Unione dei giuristi cattolici italiani, Roma, 1953, 64 ss.; nonché MAZZIOTTI, Il diritto del lavoro, cit., 198 ss. 77 Così, P. VIRGA, Libertà giuridica e diritti fondamentali, Milano, 1947, 218 ss. 78 In tal senso, RODOTA’, Il terribile diritto, cit., 247 e nt. 227, il quale prosegue: «si tornerebbe, così, nella polemica che divise la dottrina tedesca della metà dell’’800 e che oggi appare tanto lontana (…)». 79 Cfr. l’art. 42 Cost. e gli artt. 810 e ss. e, con riferimento ai beni pubblici, artt. 822 e ss. del cod.

civ. 80 Così, F. VASSALLI, Il diritto di proprietà, in Studi giuridici, II, Milano, 1960, 417 ss.

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1372 cod. civ., dal principio di relatività degli effetti del contratto81), ma non per il

legislatore, in potere, dunque, di ampliare il catalogo dei diritti reali82, dunque, non

immodificabile, ma solo storicamente condizionato83.

6. – Dalle fugaci indicazioni proposte, la dimensione della «proprietà accessibile a

tutti» – dunque, una non proprietà individuale – sembra destinata a svolgere un ruolo di

assoluta centralità al fine di dare attuazione a quella funzione sociale, in chiave

solidaristica ed egualitaria, destinata ad assicurare la soddisfazione di necessità umane

essenziali di vita, adempimento di imperative esigenze di «sicurezza» e «dignità» della

persona umana e sociale di cui in Costituzione, che trascende ogni possibile confine

geografico e di mercato, immaginario od effettivo. Irrilevanti, pertanto, sembrano da

doversi considerare forme di appartenenza individuali relative alla pretesa del

godimento di simili beni, appunto, comuni, che si caratterizzano per logiche inclusive e

non di mercato, ma, soprattutto, non proprietarie, pur determinando in favore degli aventi

diritto al godimento le medesime prerogative della proprietà in termini di accesso e tutela

al bene. Ed indifferenti possono risultare le modalità organizzative del godimento dei

beni comuni o non proprietari, costituendo una «terza dimensione», rispetto alla

proprietà pubblica o privata, proprio in quanto «accesso e proprietà» agiscono, in tal

caso, come «categorie autonome»84.

81 In argomento, sia consentito rinviare a F. RINALDI, La donazione di beni altrui, Napoli-Roma, 2012, spec. 78 ss. 82 Si considerino, tra le diverse discusse ipotesi di diritti reali atipici, le seguenti: la multiproprietà (oggi disciplinata nell’ambito del Codice del Consumo, d.lgs. n. 205 del 2006, artt. 69-81-bis); la fattispecie del super condominio; il trust. E, si possono aggiungere le controverse ipotesi delle proprietà risolubili (ad esempio, la vendita con patto di riscatto, artt. 1500 e ss. del cod. civ.); la vendita con riserva di proprietà (artt. 1523 ss. del cod. civ.); e le altrettanto discusse ipotesi di servitù atipiche. 83 In argomento, cfr., in particolare: L. BARASSI, Diritti reali limitati, Milano, 1937, spec. 50 ss.; F. MESSINEO, Tratt. dir. civ. e comm., Milano, 1966, spec. 567 ss.; M. GIORGIANNI, voce Diritti

reali (diritto civile), in Noviss. dig. it., 1971, 752 ss.; U. MORELLO, Multiproprietà e autonomia

privata, Milano, 1984, spec. 71 ss.; G. ALPA - M. BESSONE – A. FUSARO, Tipicità e numero chiuso

dei diritti reali. Posizioni della dottrina, orientamenti giurisprudenziali, in Poteri dei privati e statuto

della proprietà a cura di A. Fusaro, Roma, 2004, 5 ss.; QUADRI, Diritto privato, cit., spec. 453 ss. 84 Cfr. RODOTA’, op. ult. cit., 462. L’a. indica, come riferimento normativo per la «categoria» dei beni comuni, l’art. 43 Cost., laddove prevede anche la possibilità di affidare «a comunità di

lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio che abbiano carattere di

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L’«accesso», difatti, trova il suo presupposto nell’umana ed universale necessità,

che caratterizza il bene comune, sottraendolo, dunque, non solo a logiche di appartenenza

proprietarie, ma anche a logiche di appartenenza statuali, in una prospettiva di

superamento dello status civitatis, tradizionalmente inteso in senso identitario e di

appartenenza alla Nazione.

La «non categoria» dei beni comuni è destinata a produrre effetti dirompenti su

tradizionali forme concettuali e categoriche, divenendo strumento di affermazione

della dignità della persona in opposizione a logiche foriere di diseguaglianze sociali85,

favorendo l’affermarsi di uno status personae, non riducibile nell’ambito di angusti

confini territoriali, se si vuole, in una logica anti status ed egualitaria, non potendo

risultare ammissibile la negazione di beni primari ed essenziali dell’umanità a persone

in ragione di una diversa appartenenza geografica.

Senza l’assicurazione di beni primari – quali: acqua, cibo, aria, conoscenza – non

sembra, difatti, poter esservi alcun effettivo riconoscimento di diritti fondamentali ed

umani, destinati, altrimenti, a restare un «catalogo di buone intenzioni, piuttosto che di

conquiste effettive»86, come diffusamente sostenuto. I beni comuni, preziosissimi, sono

beni primari che appartengono o, meglio dovrebbe dirsi, non appartengono a tutti in

quanto appartengono al genus umanità. In questa definizione dei beni comuni in termini di

diritti umani e fondamentali dell’individuo, si manifesta la necessità della edificazione di

una cittadinanza umana globale ed universale, ricordando le straordinarie parole di

Montesquieu, poste ad epigrafe di questo lavoro, il quale ci ricorda, inoltre che: «la

società è l’unione degli uomini, non gli uomini: il cittadino può perire, e l’uomo

sopravvivere»87.

Al riguardo, pure è da considerare l’impulso delle Istituzioni comunitarie, ed in

particolare, della Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, che riconducono all’art. 3

preminente interesse generale». In argomento, particolarmente significative le riflessioni di: J. RIFKIN, L’età dell’accesso. La rivoluzione della New Economy, trad it. a cura di P. Canton, Milano, 2000; e di D. BOLLIER - S. HELFRICH, The Wealth of the Commons. A World beyond Market &

State, Amherst, Mass., 2012. 85 Cfr., in particolare, BAUMANN, Danni collaterali, cit., 6 ss. 86 Così, F. SAVATER, Etica per un figlio, Roma-Bari, 2000, spec. 105. L’a. fa particolare riferimento

a «libertà, giustizia, assistenza». 87 MOSTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, Ginevra, 1748, trad. it., Milano, 1999, p. 293.

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del Trattato di Lisbona, per il quale: «l’Unione combatte l’esclusione sociale e le

discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociale, la parità tra uomini e

donne, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore». Con

riferimento a questi ultimi, i rifletta sulla sorte di milioni di minori sfollati e rifugiati a

causa dei gravi disordini nei loro Paesi, sorte, questa, che, in caso di default di uno

Stato, potrebbe toccare a tutti ed ai figli di tutti88.

Il «catalogo» dei beni comuni è ampio, a titolo semplicemente indicativo: acqua;

cibo; assistenza, specialmente sanitaria89 e, dunque, salute; giustizia; libertà;

conoscenza, con particolare attenzione all’istruzione ed agli strumenti tecnologici di

informazione (quali, ad esempio, internet90); la casa di abitazione, con particolare

riferimento all’abitazione familiare; il lavoro; il genoma umano, con ogni comprensibile ed

opposta reazione e dovuta precisazione; l’aria e, dunque, l’ambiente, il paesaggio e la

Terra (nel senso di pianeta). Con riferimento alla Terra, bene comune, Hanna Arendt

osserva, in maniera particolarmente efficace, che: «non l’Uomo ma gli esseri umani

abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra»91. Un invito, dunque, alla

prudenza, a non saccheggiare, depredare, inquinare le risorse di questo pianeta,

potendo risultare difficile per l’umanità, almeno per adesso, immaginare una vita

altrove92.

In effetti, la questione non sembra tanto dover essere quella di fornire un catalogo

di beni comuni, quanto, piuttosto, quella di acquisire consapevolezza in relazione ad una

situazione che riguarda la sopravvivenza stessa dell’umanità93 e, di conseguenza,

quella di assicurare effettiva attuazione e concretizzazione del diritto al godimento dei

88 In argomento, cfr. G. CHIAPPETTA, Gli status personae e familae nella giurisprudenza delle

Corti sovranazionali, Napoli, 2012, spec. 74 ss. 89 Si consideri l’assistenza sanitaria gratuita o, comunque, a costi ragionevoli. 90 In proposito, si ricordi la proposta di modifica dell’art. 21 della Costituzione, nel senso di:

«tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete Internet, in condizioni di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale». Proposta, questa, formulata dal RODOTA’, Il terribile diritto, cit., spec. 468 e nt. 18. 91 Cfr. H. ARENDT, La vita della mente, Bologna, 1987, 7 ss. 92 Fin troppo ovvio è il riferimento al sistema di gestione di rifiuti pericolosi specialmente in alcune regioni. 93 Si considerino le guerre per l’acqua, in diversi continenti (con particolare riferimento all’Africa,

l’Asia, l’America Latina).

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beni comuni, attraverso il riconoscimento di livelli prestazionali essenziali, altrimenti,

correndo il rischio di un mero e poco significativo riconoscimento formale.

Si consideri, ad esempio, l’acqua, potendo risultare significativa, sotto il profilo

della consapevolezza, la necessità di una recente Risoluzione dell’Assemblea Generale

delle Nazioni Unite del 28.7.2010, che afferma «l’importanza di un’equa disponibilità

di acqua potabile sicura e pulita e di servizi igienici come parte integrante della

realizzazione di tutti i diritti umani»94. Non, dunque, un livello congruo di

disponibilità di acqua, ma un livello minimo di sopravvivenza per gran parte del

genere umano95. Ed inoltre, il cibo e, dunque, la lotta alla fame nel mondo, che può

essere attuata attraverso diversi strumenti anche di ordine legislativo. Pare, in

proposito, il caso di ricordare la «proposta di introdurre nella Costituzione indiana una

misura concreta di cosa sia il diritto al cibo (una quantità mensile di riso)»96. Ed infine,

la conoscenza, in tal caso, ricordando la straordinaria efficacia dell’art. 5, co. 1, della

Costituzione tedesca, secondo cui: «ognuno ha il diritto di (…) informarsi senza

impedimenti da fonti accessibili a tutti».

Dunque, il «campo di battaglia» dei beni comuni è la loro concretizzazione, da

intendersi come «pratica quotidiana garantita da una precisa strategia e un effettivo

impegno ‘anche’ economico degli Stati, del mondo produttivo (delle imprese

multinazionali in particolare) e della generalità dei cittadini. Ciò che colpisce di più è

che al continuo discorso sui diritti non corrisponde spesso l’indispensabile accento sui

doveri sia degli Stati, che dei singoli cittadini, mentre è evidente che, per un’effettiva

tutela e direi promozione dei diritti umani, oltre all’impegno culturale (nel senso

dell’educazione alla pace e al rispetto della vita e dei diritti inviolabili della persona) è

94 Si tratta della Risoluzione A/64/L.63/Rev. 1, dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, del

28.7.2010. 95 In proposito, sarebbero da discutere sia i meccanismi di gestione di questo preziosissimo bene, sia le tariffe, forse, eccessive per un bene primario, che andrebbero graduate in relazione al reddito (sino all’esenzione per determinate fasce reddituali), sia gli sprechi. Ci si riferisce anche ai Referendum contro la privatizzazione del servizio; nonché alla complessità della disciplina normativa di settore che, in numerose ipotesi, sembra essere caratterizzata da una sovrapposizione di enti e discipline. 96 L’esempio è tratto da RODOTA’, Il terribile diritto, cit., 485.

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assolutamente irrinunciabile una concreta strategia sia istituzionale che economica e

sociale»97.

7. – I beni comuni sono, dunque, destinati a svolgere un’essenziale funzione di

concretizzazione dei diritti umani fondamentali e, al pari della dignità umana, non

sembrano costituire una categoria giuridica, trattandosi, piuttosto, di un concetto

aspecifico ed anfibologico.

Essi si caratterizzano in quanto non tollerano discriminazioni o diseguaglianze

sociali nell’accesso e nel godimento del bene, «se non a prezzo di una drammatica

caduta in divisioni che disegnano davvero una società castale, dove ritorna la

cittadinanza censitaria, visto che beni fondamentali per la vita, come la stessa salute,

stanno divenendo, o rimangono, più o meno accessibili a seconda delle disponibilità

finanziarie di ciascuno. Intorno ai beni comuni si propone così la questione della

democrazia e della dotazione di diritti d’ogni persona»98.

Un «dilemma sociale»99, quindi, tra libertà e solidarietà, il cui valore pare poter

essere meglio compreso attraverso il riferimento al drammatico «diario» di un ebreo e

del suo «fortunato» ritorno dal campo di annientamento di Auschwitz. Questi ricorda la

scritta presente sul «poco invitante lavatoio» del campo, in «dubbio francese ma in

caratteri gotici»: «La proprietè, c’est la santé»; e, prosegue, «dobbiamo, quindi,

certamente, lavarci la faccia senza sapone, nell’acqua sporca, e asciugarci nella giacca.

Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché così prescrive il regolamento, ma per

dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare diritti, senza strascicare gli zoccoli, non

97 Così, C. AMIRANTE, I diritti umani tra dimensione normativa e dimensione giurisdizionale?, in Sviluppo dei diritti dell’uomo e protezione giuridica a cura di L. D’Avack, Napoli, 2003, spec. 30 ss.

In una simile prospettiva, l’a. ricorda anche l’importanza degli Enti del Terzo settore (del Volontariato), che, a livello internazionale ed interno, possono svolgere in materia un ruolo decisivo. Inoltre, si osserva, si potrebbe destinare una % del PIL al fine di soddisfare determinate categorie di beni comuni in favore di determinate categorie di persone sprovviste di sufficienti risorse finanziarie. L’a. ricorda, altresì, la Tassa sull’Europa, per assicurare l’ingresso in

Europa del nostro Paese. 98 Così, RODOTA’, op. ult. cit., 474 ss. 99 L’espressione è di RODOTA’, op. ult. cit., 498.

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già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non cominciare a

morire»100.

100 Così, P. LEVI, Se questo è un uomo (1958), rist. 2005, Torino, spec. pp. 34 e 36.

federalismi.it n. 5/2011

NOTE SUL DIRITTO FONDAMENTALE ALL’ACQUA. PROPRIETÀ DEL BENE, GESTIONE DEL SERVIZIO, IDEOLOGIE DELLA

PRIVATIZZAZIONE

di

Sandro Staiano

(Professore ordinario di Diritto costituzionale

nell’Università di Napoli Federico II)

9 marzo 2011

SOMMARIO: 1. Diritto all’acqua e previsioni costituzionali. – 2. L’acqua come bene non

sostituibile. – 3. Il diritto all’acqua come “nuovo diritto”. – 4. Il diritto all’acqua come “diritto

fondamentale”. – 5. Il diritto all’acqua nel contesto internazionale. – 6. Il diritto all’acqua nel

contesto europeo. – 7. Il caso italiano. – 7.1. Gli oscillanti orientamenti legislativi. – 7.2.

L’ideologia della privatizzazione. – 7.3. L’iniziativa referendaria. – 7.4. Regolazione e

vigilanza.

1. Diritto all’acqua e previsioni costituzionali. – Il diritto all’acqua – il suo riproporsi come

problema, per la negazione di cui soffre in forza degli stati di crisi e di conflitto armato, mai

sopiti ovunque e del tutto, e per essere la sua violazione l’indicatore di perduranti

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diseguaglianze tra singoli o gruppi sociali e tra parti del mondo – è lo “scandalo”, la pietra

d’inciampo in ogni percorso, teorico o dogmatico, rivolto a costruire ordinate tassonomie dei

diritti fondamentali. Uno scandalo rimosso, sembrerebbe: la Costituzione italiana, come altre

Costituzioni, non contiene alcun autonomo riferimento al diritto all’acqua; né formule

normative intese a qualificare un diritto soggettivo o collettivo all’acqua si rinvengono nei

testi del diritto internazionale .

Il tema del diritto all’acqua viene, dunque, quasi naturalmente attratto nel contesto del

dibattito – non risolto e forse, in qualche caso, un po’ consunto – sulla lettura dell’art. 2 Cost.

come norma a “fattispecie aperta” o, all’opposto, a “fattispecie chiusa”; o anche – essendo

pressoché inevitabile che, nel sedimentarsi del confronto, si creino posizioni “terze” – come

norma, per così dire, a “fattispecie semipermeabile” al processo storico di espansione delle

garanzie dei diritti (un modo per richiamare l’opportunità di non pervenire ad eccessi, nella

ricostruzione del tessuto dei diritti costituzionalmente protetti).

Sono noti i problemi e le posizioni sottese a questi diversi approcci: inutilità di nuove

previsioni (i “nuovi diritti” potrebbero – senza soverchio sforzo interpretativo – essere

rinvenuti in norme costituzionali esistenti); rischi di irrigidimento (meglio lasciare che il

legislatore ordinario contemperi opportunamente le posizioni implicate, senza che occorra, e

anzi essendo controindicata, ogni pietrificazione normativa); eccesso di capacità deontica dei

nuovi diritti, coinvolti in una valutazione di bilanciamento con diritti espressi o anche

specificamente disciplinati dalla Costituzione, che ne risulterebbero necessariamente

diminuiti.

Ora, la mancata espressa previsione, a livello costituzionale, del diritto all’acqua condurrebbe

tuttavia a desumerlo agevolmente dalla tutela del diritto alla vita, come prima e fondamentale

garanzia della persona (dall’art. 2 Cost., anzitutto, ma anche dall’assolutezza del ripudio della

pena di morte, in forza dell’art. 27, c. 4, nel testo risultante dalla legge di revisione

costituzionale 2 ottobre 2007, n. 2); e dal diritto alla salute, che è “fondamentale diritto

dell’individuo e interesse della collettività”, secondo l’art. 32. E, quanto alle Carte

internazionali, si potrebbe ricavare dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del

1948, che, all’art. 3, enuncia il diritto alla vita, e, all’art. 25, il diritto alla salute. Potrebbe non

ritenersi, dunque, utile discostarsi dalle consuete linee di ricerca del fondamento di un diritto

non espressamente previsto, così come esse si dispongono nell’alternativa fattispecie

aperte/chiuse (e terze vie).

Ma ricostruzioni siffatte sarebbero troppo riduttive, innanzi alle peculiari modalità secondo le

quali l’accesso all’acqua si manifesta come “nuovo” diritto.

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2. L’acqua come bene non sostituibile. – Che l’acqua fosse un “bene non sostituibile” era nel

novero delle conoscenze possibili anche al costituente italiano del 1947: la mancata

considerazione di questo dato, proprio della scienza economica, potrebbe essere, dunque, la

manifestazione di una certa scarsa apertura della cultura del diritto e delle istituzioni in quel

tempo a concetti propri di contesti disciplinari diversi da quello giuridico.

Ma non si tratta di un difetto di percezione del costituente italiano. Il diritto all’acqua, nella

sua configurazione attuale, è un dato recente nella intera esperienza costituzionale, nei singoli

Paesi e nei processi sovranazionali come nel diritto internazionale. Si potrebbe ritenere che

“nuova” sia la scarsità del bene, anche in forza delle vulnerazioni crescenti inferte agli

equilibri naturali. Tuttavia, tale scarsità è bensì cresciuta, tanto da indurre taluni a prospettare

esiti catastrofici, ma non è esperienza nuova: la scarsità d’acqua è un dato consolidato in

molte parti del mondo e in parti di singoli Paesi, anche nell’Occidente maturo, anche in

Europa (si pensi alle condizioni di tante parti del Mezzogiorno d’Italia).

La domanda che ha maggiore fondamento è, allora, quella intorno alle ragioni per le quali,

benché l’esperienza della “non sostituibilità” e della scarsità non sia nuova, solo in questo

tempo congiunturale si affermi la necessità di concepire un diritto all’acqua come fattispecie

autonoma, e si affermi così intensamente da spingere a richiederne la codificazione

costituzionale.

3. Il diritto all’acqua come “nuovo diritto”. – La definizione normativa di un nuovo diritto,

nell’osservazione che se ne è potuta compiere, deriva dalla pressione del processo storico,

quando in esso assumano rilievo posizioni soggettive ritenute corrispondenti a valori

meritevoli di tutela. La novità può consistere nella imprevedibilità, o comunque nella mancata

previsione, nelle Carte dei diritti, di una fattispecie della quale si riveli poi necessaria la

regolazione; ovvero nella diversa valutazione nel tempo di una posizione che non si era

ritenuto di garantire e della quale maturi una diversa considerazione assiologia, tale da

fondarne la disciplina costituzionale. Sul versante del modo di produzione normativa:

estensione delle previsioni vigenti a fattispecie non disciplinate; nuova disciplina

costituzionale. Nel primo caso, si fa assegnamento sull’elasticità delle disposizioni

costituzionali, dando soprattutto campo all’interpretazione giudiziale; nel secondo, si segue la

via dell’innovazione conformativa. In entrambi, le implicazioni sistematiche delle nuove

norme – si formino esse come diritto giurisprudenziale o come prodotto nelle sedi della

decisione politica – conducono a nuove architetture interpretative, e a nuovi equilibri

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nell’impiego delle tecniche di bilanciamento e nella definizione dei limiti dei diritti

“preesistenti”.

In questo scenario di possibili profili ricostruttivi, il diritto all’acqua presenta una sua non

riducibile specificità, proponendo in termini nuovi le ragioni della propria genesi: quello

all’acqua non è un diritto “nuovo” in ragione del mutare delle condizioni fattuali al cospetto

della situazione originariamente presente ai costituenti, ai legislatori costituzionali e agli

stipulatori dei trattati internazionali, ai quali tutti, nell’ambito delle democrazie occidentali del

secondo dopoguerra nell’area euro-americana, erano ben presenti i caratteri di “non

sostituibilità” e di “scarsità” dell’acqua (e, invero, la menzione di un diritto all’acqua non si

rinviene nelle costituzioni europee più recenti). Il diritto all’acqua come problema irrisolto si

manifesta, invece, per i connotati di quella che è stata definita “terza globalizzazione” (dopo

la prima, tra l’ultima parte dell’Ottocento e la prima guerra mondiale, e la seconda, nel

quarantennio successivo alla seconda guerra mondiale: periodizzazione utile, benché

convenzionale, e riferita, ovviamente, alle globalizzazioni della modernità, poiché di quelle

antiche, probabili e più difficili da ricostruire, non è dato far conto nel discorso presente).

Anche questa globalizzazione, come quelle che l’hanno preceduta, è segnata da una

rivoluzione tecnologica, stavolta nel campo delle comunicazioni: e allora il problema della

scarsità e della non sostituibilità, acuito dal degrado dell’ambiente, che induce timori

escatologici, entra nell’immediata percezione generale; la necessità di garantire il diritto

all’acqua diviene un valore globale condiviso.

Soprattutto, nella terza globalizzazione si rivelano non lievi disparità tra attori economici,

all’interno di ciascun Paese e tra Paesi; aumentano asimmetrie di reddito, di ricchezza, di

istruzione, di capacità di investimento; si aggravano le esternalità, anche con lo

stravolgimento degli equilibri ecologici (al caso americano, si aggiungono quello cinese e

quelli di altri Paesi usciti di minorità e interessati da una crescita economica tumultuosa).

L’acqua diviene, allora, un elemento di disparità – uno dei maggiori, certo il più eclatante, il

più “scandaloso” – all’interno dei singoli Paesi e tra Paesi: tra chi la possiede e chi non la

possiede, tra chi vi può accedere e chi non vi può accedere, tra chi ha “diritti di acquisizione”

e chi non li ha. Il grado della sua disponibilità è conseguenza e fattore di asimmetrie

economiche; è un’esternalità di rilievo crescente.

E matura la consapevolezza che l’equa distribuzione dell’acqua non può essere affidata alle

logiche di un “mercato concorrenziale perfetto”, poiché, proprio con riferimento allo

“scandalo” dell’acqua negata o ingiustamente distribuita, di quel mercato – che si conferma

esistere solo come astrazione ideologica – risultano alterate le regole “naturali”.

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Affinché vi sia equa distribuzione e vi siano conservazione e uso razionale della risorsa acqua,

è necessaria regolazione. Anzitutto occorre disciplina costituzionale in senso proprio:

limitazione del potere e del libero dispiegarsi dei rapporti di forza attraverso l’affermazione di

un diritto; attuazione di questo diritto anche con la garanzia di prestazioni da parte degli Stati.

4. Il diritto all’acqua come “diritto fondamentale”. – Si è proposta l’opportunità di stabilire

preliminarmente di quale tipo di diritto si tratti, per poter valutare le modalità della tutela e il

grado delle norme che la assicurino. E si è escluso che si tratti di un “diritto naturale”,

adducendo che l’acqua non è un “bene naturale” e “tantomeno un bene universale”, ma è un

“prodotto” scarso, conteso e “vulnerabile” (“vulnerabilità” potrebbe intendersi come

particolare esposizione alla degradazione, alla contaminazione, dunque all’ulteriore scarsità).

Tuttavia, la coppia concettuale bene naturale-diritto naturale non sembra perfettamente

simmetrica, poiché il carattere naturale di un diritto non può essere fatto derivare dal carattere

naturale del suo oggetto, ma solo dal contesto etico e giuridico in cui il diritto si svolge, ben

potendo esso avere a oggetto un bene-prodotto piuttosto che un bene naturale (peraltro,

sarebbe ancora più difficile porre a fondamento della connessione tra tipo di bene e tipo di

diritto, il riconoscimento della qualità del bene – naturale/artificiale; pubblica/privata –

ritenendo che l’attribuzione di questa sia sottratta al legislatore in ragione della “natura delle

cose” : resterebbe, infatti, da stabilire quali possano essere i modi di accertamento della

“natura delle cose”).

Forse conduce, allora, a migliori risultati teorici e dogmatici considerare che, se il diritto

all’acqua chiama in causa molto direttamente il diritto alla vita, se ne deve ritenere la natura

“fondamentale”, cioè l’appartenenza a una sfera sottratta ai detentori della forza, intangibile

dalla pura decisione politica. Per un diritto siffatto, come per tutti i diritti dello stesso ambito,

occorre apprestare garanzie di effettività e di giustiziabilità: ciò che può avvenire solo con la

positivizzazione costituzionale. La sua radice originaria – il carattere “naturale”, nella

indissolubilità con il “naturale” diritto alla vita, o anche, se si vuole adottare altro angolo

visuale, la corrispondenza a valori storicamente ed eticamente condivisi – lo riconduce al

novero di quelle norme intangibili nella loro essenza, in cui consiste l’identità di ogni singola

Costituzione.

Fino a questo punto, il percorso ricostruttivo si può muovere entro uno scenario noto,

utilizzando strumenti concettuali consolidati: si tratta di un modo di produzione (in sede di

decisione politica, anche per la via della revisione del testo della Costituzione, o in sede di

interpretazione costituzionale) di una norma a garanzia di un nuovo diritto fondamentale;

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“nuovo” in quanto non emerso o non percepito come diritto fondamentale fino a una

determinata scansione nel processo storico.

Le letture di tale fenomeno di produzione giuridica saranno diverse in ragione dei diversi

approcci di metodo.

L’approccio positivista porrà in luce la rilevanza dominante del processo politico di

produzione della norma che incorpora il nuovo diritto fondamentale e inviterà a interpretarla

secondo neutralità, escludendo di assumere un punto di vista morale, anche quando la norma

manifesti un “valore”, poiché anche il valore deve essere considerato dall’interprete da un

punto di vista solo conoscitivo . E incontrerà, vedendo così messi in gioco i propri capisaldi,

l’apparato concettuale del costituzionalismo, incentrato sulla limitazione del potere politico di

decisione proprio quando si tratti di produzione normativa nei “piani alti” del sistema, ove

incontrerà, senza poterla incorporare, l’irriducibile “non neutralità” del costituzionalismo

quanto ai valori.

Ma questi punti di tensione si collocano pur sempre all’interno dei moduli logici delle

tradizioni e delle scuole giuridiche.

Né diversamente – quanto a siffatta linea di continuità – può dirsi della qualificazione del

diritto all’acqua come posizione soggettiva che legittima una richiesta, da parte dei suoi

titolari, di prestazioni a carico dello Stato e che obbliga quest’ultimo a erogarle. Vale, invero,

la solida categoria dei “diritti fondamentali sociali”: l’acqua dev’essere resa fruibile,

trasportata, distribuita, in condizioni di scarsità crescente; a tanto è tenuto lo Stato, affinché il

diritto non sia compromesso e negato dalla riduzione del suo oggetto a semplice merce, con il

libero dispiegarsi di una pura legge della domanda e dell’offerta nella sua forma più brutale e

deregolata .

Anche da questo punto di vista, il diritto all’acqua si potrebbe definire in conformità ai tratti

dei più generali processi di positivizzazione che l’esperienza rende disponibili. In presenza di

fattori di crisi dei sistemi nazionali di welfare, nel processo costituente europeo si afferma il

principio di indivisibilità dei diritti fondamentali: non vi può essere tutela effettiva dei diritti

civili e politici se non vi è contestuale garanzia dei diritti sociali. Già il Trattato

costituzionale, che non ha superato la fase delle ratifiche, qualificava entrambe le categorie di

diritti come “fondamentali” e prospettava un’affermazione del principio di indivisibilità

attraverso l’incorporazione della Carta di Nizza: un modo di valorizzazione delle “tradizioni

costituzionali comuni” (nel senso proprio di traduzione in valori affermati attraverso la

scrittura in un testo costituzionale). Poi, a Lisbona, nel 2007, è stato riconosciuto alla Carta di

Nizza – e dunque al principio di indivisibilità in essa contenuto – lo stesso valore giuridico del

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Trattato . E proprio la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea prevede, al Titolo

IV, tra i doveri di solidarietà (cui corrispondono tipicamente diritti sociali), l’accesso ai

servizi di interesse economico generale (art. 36), categoria alla quale deve ritenersi ascritto il

servizio idrico. Tale previsione non può che conferire a rendere più stringenti gli interventi

regolativi di livello europeo, per assicurare l’effettività del diritto quanto ai criteri di

erogazione del servizio (universalità, qualità, accessibilità) e alla tutela degli utenti.

Si apre, dunque, una nuova fase nei modi di garanzia dei diritti sociali, e, tra essi, del “nuovo”

diritto sociale all’acqua.

Tuttavia, da una parte, la migliore garanzia giuridica del diritto all’acqua in Europa rende

ancora più evidente la diseguaglianza con altre parti del mondo, rivelando un’asimmetria

tanto poco tollerabile da aprire o rendere più aspri tensioni e conflitti regionali.

Dall’altra, proprio in ordine a questa potenzialità conflittuale – che configura pienamente il

diritto all’acqua come l’obiettivo di un faticoso processo acquisitivo e come oggetto di

necessaria tutela intesa a conservarlo – si riproducono alcuni possibili equivoci nella

definizione del contenuto di tali diritti sociali e nella ricostruzione del rapporto con altre

posizioni soggettive nel più complessivo tessuto di diritti costituzionalmente protetti. Il

processo stesso di positivizzazione è osservato talvolta sovrapponendo concetti sociologici a

concetti giuridici. Si riprende, epigonalmente, la classica ripartizione di Thomas H. Marshall,

che, distinguendo “tre parti o elementi” della cittadinanza – “il civile, il politico e il sociale” –

intende per “elemento sociale … tutta la gamma che va da un minimo di benessere e sicurezza

economica fino al diritto a partecipare pienamente al retaggio sociale e a vivere la vita di

persona civile, secondo i canoni vigenti nella società” . Ma nella visione di Marshall è

appunto tendenzialmente assente la percezione del conflitto nel processo di sviluppo dei diritti

(ciò che ha attratto sulla sua costruzione critiche radicali, specie quella di Anthony Giddens,

dal punto di vista di una teoria della globalizzazione ). E il diritto all’acqua – o, più

esattamente, la lotta per il riconoscimento del diritto all’acqua e per la sua conservazione –

dimostra quanto sia, invece, fondata una visione secondo la quale nessun diritto fondamentale

si afferma senza conflitto sociale .

Anche da questo punto di vista, tuttavia, il quadro problematico in cui si inscrive il diritto

all’acqua non è, nella sostanza, diverso da quello che ha segnato e segna l’affermarsi di tutti i

diritti fondamentali.

Altra, dunque, potrebbe essere la peculiarità di questo “nuovo” diritto, la pietra d’inciampo

che il processo di emersione in cui si colloca oppone ai consueti itinerari di ricostruzione

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teorica e dommatica dei diritti: esso è un diritto del singolo, in continuità con la tradizione del

costituzionalismo, ma si propone altresì come diritto di intere comunità ; e non solo diritto

fatto valere collettivamente nell’ambito di un ordinamento nazionale verso lo Stato, ma altresì

diritto che deve poter essere fatto valere da una comunità verso un’altra comunità e

nell’ambito dei rapporti tra ordinamenti. La ragione per la quale il diritto all’acqua tende ad

assumere questa dimensione è nell’evidenza dei modi della sua negazione e dunque del

conflitto aperto per il suo riconoscimento: il diritto all’acqua viene precluso anzitutto a intere

comunità, talvolta a interi popoli, sicché prevederne esclusivamente la tutela per il singolo,

nei confronti del potere di decisione politica in un determinato ordinamento, sarebbe

fuorviante e, in molti casi, condurrebbe a previsioni prive di oggetto.

Tuttavia, se si accetta questa nozione di “diritto sociale collettivo” per il diritto all’acqua – in

tal modo dando conto della qualificazione di “nuovo diritto”, nuovo per struttura e per

dimensione, non solo per ordine temporale di introduzione nell’ordinamento – occorre

affrontare problemi inediti quanto alle implicazioni nel rapporto con i diritti individuali; e

occorre meglio precisare la sede e il livello della garanzia giuridica.

Quanto al rapporto con il complessivo quadro dei diritti, se il carattere collettivo del diritto

all’acqua implica il riconoscimento di esso a una collettività come tale, e la possibilità di farlo

valere ai “rappresentanti” di questa, la sua previsione normativa conduce a una espansione

della sfera di garanzia dei diritti e a una riduzione della diseguaglianza, se essi sono riguardati

dal punto di vista del rapporto tra comunità e gruppi sociali; ma tale previsione entra in

naturale tensione con la garanzia del diritto all’acqua come diritto individuale. Infatti, una

volta riconosciuta una collettività come titolare del diritto, senza riferimento al modo in cui

tale collettività è organizzata e al rapporto tra i suoi “organi” e i singoli che la compongono

quanto all’esercizio del diritto riconosciuto, si sottraggono al campo della disciplina le

garanzie dei singoli nei rapporti di potere all’interno della collettività medesima. Irragionevoli

diversità nell’accesso al bene che è oggetto del “diritto sociale collettivo” possono riprodursi

all’interno della collettività; e anzi la circostanza che il diritto ascritto in astratto alla

collettività sia in concreto esercitato dai “rappresentanti” o dagli “esponenti” di questa, senza

alcuna influenza sulla spettanza collettiva del modo in cui tali “rappresentanti” ed “esponenti”

sono designati e rispondono ai singoli componenti della collettività medesima, non può non

rafforzare i rapporti di dominio in atto, per quanto essi possano essere ingiusti. L’attribuzione

del diritto collettivo può, allora, condurre all’affievolimento o all’irrilevanza del diritto

individuale.

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Si rende, dunque, necessaria una doppia tutela del diritto all’acqua – come diritto sociale

collettivo e come diritto sociale individuale – e ciò conduce al secondo problema qui

segnalato, quello della sede e del livello della garanzia: il diritto all’acqua come diritto sociale

collettivo, infatti, chiama in causa la sovranità “esterna” degli Stati, quando esso sia

riconosciuto a comunità statali, di tale sovranità costituendo una limitazione; chiama in causa

la sovranità “interna” degli Stati, quando la garanzia riguardi collettività infrastatali; chiama

egualmente in causa tale sovranità “interna”, limitandola, il diritto all’acqua come diritto

sociale individuale.

Da ciò si inferisce il tipo e il livello della norma a garanzia del diritto.

5. Il diritto all’acqua nel contesto internazionale. – Non sembra dubbia la necessità di norme

internazionali di tipo pattizio, rivolte a garantire il diritto all’acqua a intere comunità nazionali

in condizioni di debolezza nell’uso della risorsa idrica: debolezza che può derivare da

posizioni dominanti di singoli Stati nell’accesso all’acqua, tali da precluderlo o da limitarlo

nei confronti di popolazioni limitrofe o variamente interagenti con lo Stato dominante ; ma

può anche derivare dalla condizione di particolare svantaggio economico di comunità statali,

non dotate degli strumenti necessari all’uso dell’acqua, pur potenzialmente accessibile o

almeno suscettibile di essere impiegata più efficacemente e meglio distribuita. In questa

seconda ipotesi, dovrebbe essere riconosciuto un diritto sociale collettivo all’acqua, cui

dovrebbero corrispondere obblighi di prestazione a carico della comunità internazionale: in

concreto, l’obbligo a carico dei Paesi più favoriti di dislocare risorse verso i Paesi meno

favoriti per correggere un’asimmetria tra quelle che possono produrre i più gravi effetti di

destabilizzazione nei rapporti economici globali.

Queste stesse norme pattizie dovrebbero prevedere anche garanzie per le collettività

infrastatali e per i singoli cittadini quanto all’equa distribuzione della risorsa idrica, poiché

non sembra eludibile, a nessun livello di normazione, la richiamata necessità di una doppia

garanzia del diritto all’acqua: garanzia delle collettività e garanzia dei singoli nelle

collettività.

Ora, nello scenario internazionale, si sono venute stratificando iniziative di notevole rilevanza

culturale e politica, che hanno posto l’accento sui fattori che suggeriscono un compiuto e

specifico riconoscimento del diritto all’acqua. Non breve può esserne l’elenco . Ma occorre

rilevare come, benché in sedi siffatte si producano documenti privi di efficacia normativa

diretta, quando si trascorra dalle generiche dichiarazioni di largo principio alla più

impegnativa definizione degli strumenti necessari a contrastare in modo più specifico le

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iniquità nella distribuzione dell’acqua, l’intesa diviene molto difficile, ed è frequente il

ripiegamento su formule vaghe e dilatorie.

La difficoltà a stabilire regole conformative è dimostrata anche dal mancato conseguimento

dell’obiettivo di tradurre in norme convenzionali, in tal modo imponendole all’osservanza

degli Stati, principî enunciati in documenti elaborati in sedi di studio e di ricerca, meritorie,

ma al più idonee a produrre proposte interpretative o raccolte “private” di diritto

consuetudinario: così, le “Regole di Helsinki”, dichiarate dall’ILA , “associazione di diritto

internazionale” avente per scopo sociale “the study, clarification and development of

international law, both public and private, and the furtherence of international understanding

and respect for International law”, sono state bensì riprodotte nella Convenzione ONU del

1997 sul diritto d’uso dei corsi d’acqua internazionali a fini diversi dalla navigazione , ma poi

questa non ha ottenuto il numero di ratifiche necessario a renderla vincolante. E alla mancata

ratifica non sembra estranea la potenziale, temuta, attitudine del Trattato a determinare con un

rimarchevole grado di specificazione, e dunque di efficacia, i comportamenti degli Stati,

nonostante una certa, non riducibile elasticità delle direttive enunciate in applicazione del

principio di “equa e ragionevole utilizzazione” , che ispira, nel suo complesso, la

Convenzione.

La proposta, poi, di far approvare una Convenzione globale per il diritto all’acqua in sede

ONU, per attribuire a esso la qualificazione di “diritto umano fondamentale”, è stata accolta

con molto scetticismo, con l’argomento, invero di tono generale, di un eccesso di

politicizzazione troppo unilaterale della questione dei diritti umani, “usati selettivamente

come un’arma”; e si è ritenuto che essa possa avere assai difficilmente sbocco .

È venuta, perciò, maturando l’idea che la protezione del diritto all’acqua nei trattati, per

quanto indiretta e non pienamente definita, si possa considerare adeguata, o almeno si possa

ritenere un’acquisizione non ulteriormente migliorabile, e che, semmai, il vero problema

innanzi alla comunità internazionale sia quello di dare corso a politiche corrispondenti a tali

indicazioni di principio, politiche che invece mancano o sono molto carenti e lontane dal

corrispondere alle necessità del momento storico, mentre il problema della carenza di acqua si

aggrava secondo un’allarmante progressione .

In questo ambito, dunque, non sembra realistico attendersi un nuovo quadro normativo

internazionale.

6. Il diritto all’acqua nel contesto europeo. – Nell’ambito dell’Unione Europea, il diritto

all’acqua trova anzitutto garanzia indiretta nelle norme della Carta dei diritti fondamentali

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dell’Unione europea : nell’art. 2, che tutela il diritto alla vita; nell’art. 35, specie ove è

stabilito che “nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche e attività dell’Unione è

garantito un livello elevato di protezione delle salute umana”; nell’art. 36, secondo il quale

“l’Unione … riconosce e rispetta l’accesso ai servizi di interesse economico generale quale

previsto dalle legislazioni e prassi nazionali, conformemente ai trattati”; nell’art. 37, ove è

affermato che “un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità

devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio

dello sviluppo sostenibile”; nell’art. 38, secondo cui “nelle politiche dell’Unione è garantito

un livello elevato di protezione dei consumatori”.

Quanto alla produzione normativa degli organi dell’Unione, essa si muove lungo due linee,

distinte ma segnate da punti di intersezione: da una parte, è perseguito l’obiettivo di tutelare

l’acqua – concepita non come “prodotto commerciale al pari degli altri”, bensì come

“patrimonio che va protetto, difeso e trattato come tale” – verso i fattori di degradazione e

contaminazione derivanti da abusi e sfruttamento abnorme, nel quadro più generale del

deterioramento degli ecosistemi; dall’altra, rileva la disciplina in materia di servizi pubblici,

che tocca in modo concreto e diretto l’esercizio del diritto all’acqua da parte di comunità e di

singoli, e rileva la giurisprudenza della Corte di giustizia che si è formata in tema.

Sotto questo secondo profilo, i principî a garanzia della concorrenza e del mercato – che

sostanziano il complessivo assetto dell’Unione Europea, e ne segnano la genesi e il

consolidamento – sono bilanciati, mediante il riconoscimento del principio di autonomia

istituzionale, con l’esigenza di porre in essere particolari forme di gestione di servizi, tra i

quali il servizio idrico, in cui si possa ritenere di far prevalere la presenza di soggetti

pubblici, a miglior tutela di beni e di diritti ritenuti fondamentali: possono dunque prevedersi

deroghe alla regola generale delle procedure di aggiudicazione a evidenza pubblica; e le

amministrazioni pubbliche possono produrre direttamente il servizio o anche affidarlo a

soggetti diversi, ma sottoponendo gli affidatari a controlli così penetranti da essere assimilati

a quelli che il soggetto pubblico esercita su propri organi o articolazioni organizzative

(“controllo analogo”).

7. Il caso italiano. – In tale quadro normativo europeo – che è tanto aperto da offrire la scelta

tra diversi modelli nazionali di gestione della risorsa idrica – il caso italiano si è venuto

caratterizzando per rimarchevoli oscillazioni nelle soluzioni legislative, orientate talvolta da

assunti ideologici e da compromessi provvisori.

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L’Italia appartiene al novero dei Paesi dotati di disponibilità di acqua (per connotazioni

fisiche e geografiche) e caratterizzati da elevato consumo (come nell’intero Nord del mondo).

Anche in Italia, dunque, si propongono i problemi della competizione tra i diversi impieghi

delle risorse idriche (agricolo, industriale, civile), ciascuno dei quali ha effetti diversi sulla

dotazione complessiva di acqua e sulla sua qualità; e dell’efficienza nell’impiego di esse, se si

considera che lo spreco di acqua, cioè il rapporto tra acqua che residua e viene dismessa dopo

i processi di consumo e acqua prelevata, è sempre molto alto, nei vari impieghi, arrivando

fino a punte del novantacinque per cento. Problemi che debbono essere affrontati con

meccanismi regolativi e di controllo più severi e consapevoli.

Ma, in Italia, v’è anche un problema molto specifico: le asimmetrie economiche e sociali –

specie lungo la linea di demarcazione Nord-Sud – si manifestano anche nella gestione delle

risorse idriche.

Il controllo dell’acqua è, storicamente, un fattore genetico e di consolidamento della mafia in

Sicilia, regione assai ricca di risorse idriche, tuttavia sottratte, dapprima specie nell’impiego

agricolo, poi anche negli usi civili, al controllo pubblico, attraverso la proprietà privata dei

pozzi, la speculazione fondiaria in vista della realizzazione di infrastrutture e il

condizionamento degli appalti dei lavori, la presenza distorsiva nel “mercato” dei servizi

idrici . Considerazioni analoghe possono valere per altre regioni interessate da fenomeni

assimilabili alla mafia. In tali casi è chiamata in causa la sovranità interna dello Stato, al

cospetto di ordinamenti antistatali, per i quali il controllo dell’acqua è un fattore di dominio

del territorio.

Anche questi caratteri peculiari – l’orientamento ad agire su di essi con scelte normative forti,

idonee a contrastarli, rimodellando il sistema delle relazioni tra i titolari del diritto all’acqua e

i soggetti che ne governano l’uso – danno conto dell’affermarsi del principio della proprietà

pubblica dell’acqua, bene identificato con la maggiore latitudine: appartengono al demanio

dello Stato tutte le acque “superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo”,

afferma ora l’art. 144, c. 1, d.lgs. 3 aprile 2006, n.152 (ma, già oltre un decennio innanzi, l’art.

1, c. 1, l. 5 gennaio 1994, n. 36 – poi abrogata con l’art. 175, lett. u, di tale d.lgs. n. 152 del

2006 – aveva stabilito che “tutte le acque superficiali e sotterranee, anche non estratte dal

sottosuolo, sono pubbliche e costituiscono una risorsa che è salvaguardata e utilizzata secondo

criteri di solidarietà”). E anche tutte le infrastrutture idriche, a qualsiasi soggetto pubblico

appartengano, sono qualificate come demaniali, e dunque assoggettate a un regime di ristretta

alienabilità, nei limiti fissati dalla legge (art. 143, c. 1, d.lgs. n. 152 del 2006).

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Tuttavia, siffatte previsioni di principio non sembrano offrire soluzioni nuove o stabili alla

questione maggiore innanzi al legislatore, che è nella ricerca di un modello di gestione delle

risorse idriche in cui trovino contemperamento: efficienza, anche secondo logica di impresa,

nel quadro dei vincoli europei; garanzia degli utenti, che sono titolari di un diritto

fondamentale; irrinunciabile universalità del servizio, e dunque tutela delle posizioni deboli a

rischio di esclusione sociale, esclusione di cui la preclusione del pieno accesso all’acqua

sarebbe forse l’indicatore di maggior rilievo.

7.1. Gli oscillanti orientamenti legislativi. – Nella legislazione, il tema dell’impiego razionale

delle risorse idriche trova una prima declinazione nel concetto di “servizio pubblico

integrato”, che, introdotto con la legge n. 36 del 1994, è improntato all’esigenza di porre fine

alla frammentazione del servizio idrico tra “captazione, adduzione e distribuzione di acqua a

usi civili”, “fognatura e depurazione delle acque reflue”. E, se, in coerenza con l’obbligo

costituzionalmente fondato di promuovere le autonomie locali, “alla gestione del demanio

idrico provvedono le regioni e gli enti locali competenti per territorio” (art. 86, d.lgs. 31

marzo 1998, n. 112), sono tuttavia perseguiti obiettivi di razionalizzazione funzionale e

dimensionale. In un quadro ispirato al principio di sussidiarietà, invero, anche la gestione

delle acque chiamerà in causa competenze esclusive dello Stato, nella determinazione “dei

livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere

garantiti su tutto il territorio nazionale” (art. 117, c. 2, lett. m, Cost.); e non potrà essere

escluso l’esercizio dei poteri sostitutivi previsti dall’art. 120, c. 2, Cost.

A fini di efficienza dimensionale sono intese anche la definizione di ambiti territoriali ottimali

e la costituzione, in ciascuno di essi, di un’Autorità d’ambito, “struttura dotata di personalità

giuridica … alla quale gli enti locali partecipano obbligatoriamente e alla quale è trasferito

l’esercizio delle competenze a essi spettanti in materia di gestione delle risorse idriche …”

(art. 148, c. 1, d.lgs. n. 152 del 2006). Il motore della costruzione della gestione unica del

servizio idrico integrato è la Regione, che delimita l’ambito territoriale ottimale, e cui è

commesso, al pari delle Province autonome, il potere di disciplinare “le forme e i modi della

cooperazione tra gli enti locali” nell’ambito; alle Autorità d’ambito “è demandata

l’organizzazione, l’affidamento e il controllo della gestione” del servizio in discorso (art. 148,

c. 2, d.lgs. n. 152 del 2006) .

Ma il tema forte – che chiama in causa il più difficile contemperamento tra rilevanza sociale

dei servizi idrici ed efficienza “imprenditoriale” nella erogazione di essi nell’osservanza dei

vincoli europei – è quello del modello di gestione. E, infatti, su questo versante si sono

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manifestate le maggiori oscillazioni nelle scelte legislative; e il sovraccarico ideologico del

processo di integrazione politica che a esse ha condotto provoca un elevato conflitto sociale e

un’accentuata tensione tra sedi della rappresentanza e iniziativa popolare, fino alla

presentazione di una proposta di referendum abrogativo nell’intendimento di ridefinire,

intaccandone radicalmente le basi, l’attuale assetto normativo.

Il modello di gestione dei servizi pubblici “di rilevanza economica” – tra i quali è compreso il

servizio idrico – è contenuto originariamente nell’art. 22 della legge 8 giugno 1990, n. 142,

poi nell’art. 113 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (“Testo unico delle leggi sull’ordinamento

degli enti locali”), che ne riprende i contenuti, e si incentra sulla scelta, commessa alla

discrezionalità delle amministrazioni competenti, tra gestione in economia, concessione a

terzi mediante procedura concorsuale, affidamento diretto ad azienda speciale o a società per

azioni a prevalente capitale pubblico.

Ma già a poco più di un anno dall’emanazione del Testo Unico – ed è questa la prima

oscillazione del legislatore quanto all’affermarsi della logica di impresa nella gestione dei

servizi, sia pure nel contemperamento con la natura pubblica di essi – l’art. 35, cc. 8 e 9, legge

28 dicembre 2001, n. 448 impone agli enti locali di trasformare le aziende speciali in società

di capitale, e di scorporare le reti e le infrastrutture, conferendole a società a capitale pubblico

non cedibile, ove di esse siano proprietarie società per la gestione dei servizi pubblici a

prevalente partecipazione degli stessi enti locali. Il nuovo assetto, segnato dalla soppressione

del modo di gestione attraverso aziende speciali, non resiste a lungo: il d.l. 30 settembre 2003,

n. 269, convertito nella legge 24 novembre 2003, n. 326, modifica nuovamente il richiamato

art. 113 del Testo Unico, consentendo tre modelli: concessione a società di capitali scelta

attraverso procedura concorsuale (lett. a); società mista pubblica-privata, con scelta del socio

privato attraverso gara (lett. b); società a totale capitale pubblico, che nella sua ragione sociale

abbia lo svolgimento prevalente delle sue attività a favore degli enti pubblici soci (società in

house). Poi il citato d.lgs. n. 152 del 2006, quanto alla gestione del servizio idrico integrato,

stabilisce una graduazione tra i modelli di gestione previsti dal novellato art. 113 del Testo

Unico, affermando la preferenza per la concessione a società di capitali. Ancora, per tutti i

servizi pubblici a rilevanza economica, di nuovo a breve distanza di tempo, interviene la

norma che impone agli enti locali la scelta tra due soli modelli: concessione a imprese

individuate con procedura concorsuale, oppure società miste con gara sia per la scelta del

socio privato sia per l’attribuzione a esso delle attività; mentre l’in house diventa una

soluzione eccettiva (art. 23 bis, inserito nel d.l. 25 giugno 2008, n. 112 dalla legge di

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conversione 6 agosto 2008, n. 113, poi modificato dall’art. 15 d.l. 25 settembre 2009, n. 135,

convertito con modificazioni nella legge 20 novembre 2009, n. 166).

7.2. L’ideologia della privatizzazione. – L’irresolutezza del legislatore – nel tentativo di

aggredire i nodi del sistema di gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica,

individuabili nell’opacità dei procedimenti e nell’inefficienza degli apparati, specie per la

pressione del contesto politico, incidente anche sugli operatori privati concessionari – ha

dunque posto in essere un quadro normativo stratificato e contraddittorio, segnato da

ripensamenti e dall’alternarsi di soluzioni estreme o non necessitate dai vincoli europei e da

attenuazioni, a ciascuna delle quali non è dato il tempo di consolidarsi nell’organicità

dell’applicazione e in compiuti orientamenti giurisprudenziali.

A tale incertezza si è sovrapposto, per poi collidere con le soluzioni normative, un approccio

ideologizzante al tema della gestione delle risorse idriche, nell’ambito del quale

l’argomentazione giuridica si è venuta intrecciando con la difesa militante del diritto

fondamentale all’acqua, fino a prospettare il pericolo di una “privatizzazione” della risorsa.

Del concetto di “privatizzazione” – formula assai efficace sul piano della mobilitazione

politica – andrebbero forse meglio definiti i contorni.

Invero, come si è notato, la tendenza che si rivela come univoca è alla non reversibile

pubblicizzazione dell’acqua, con l’ascrizione di essa al demanio. Discorrere di

“privatizzazione dell’acqua”, in senso stretto, con riferimento al bene, è dunque improprio.

Tuttavia, si assume che, guardando alla sostanza delle cose, si dovrebbe ritenere che “il

proprietario reale” sia chi gestisce il bene ed eroga il servizio . Ed è dunque l’affidamento,

totale o parziale, della gestione a privati che dovrebbe essere precluso per poter contrastare la

privatizzazione “sostanziale” dell’acqua .

7.3. L’iniziativa referendaria. – Su tale fondamento – che può essere sottoposto a critica – è

stata condotta un’iniziativa referendaria intesa a destrutturare il quadro normativo, nell’intento

esplicitato di escludere in ogni caso i tre modelli di gestione previsti dall’originario art. 113

del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, ritenuti “due dichiaratamente

privatistici e il terzo «falsamente pubblicistico»” , lasciando in campo soltanto la possibilità di

gestione “attraverso un soggetto di diritto pubblico” . L’obiettivo è stato perseguito

proponendo l’abrogazione dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 e, con separato quesito,

dell’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006: la cancellazione del primo sarebbe orientata a

sopprimere i modelli di gestione ritenuti tutti di tipo privatistico; espungendo il secondo si

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vorrebbe impedire la paventata ipotesi della reviviscenza, in conseguenza di tale abrogazione,

del vecchio art. 113 del richiamato Testo unico o, in alternativa, il medesimo effetto di

conservazione di modelli di gestione in ragione della prevalenza di norma speciale, sia pure

precedente . L’effetto di rimodulazione del sistema, anche nei suoi fondamenti di principio,

sarebbe pieno con l’abrogazione – proposta con un terzo quesito – della parte del primo

comma dell’art. 1 d.lgs. n. 152 del 2006, secondo la quale la tariffa costituisce il corrispettivo

del servizio idrico ed è determinata tenendo conto dell’adeguatezza della remunerazione del

capitale investito, con ciò volendo “rafforzare il modello pubblicistico estraneo alle logiche

mercantili”, in modo da impedire “al gestore di fare profitti sulla tariffa e quindi sulla

bolletta” .

La condizione affinché tali conseguenze sistematiche si producessero era che i tre quesiti si

tenessero in un quadro unitario, sostenuto dal tessuto connettivo dell’intento complessivo dei

promotori, enunciabile come volontà di impedire la “privatizzazione dell’acqua” o di produrre

la sua ripubblicizzazione, ove la privatizzazione si debba ritenere già compiuta. Ma proprio

siffatto approccio è stato disatteso dalla Corte costituzionale in sede di giudizio di

ammissibilità.

La Corte si è attestata, infatti, su due capisaldi, enunciati con formule pressoché identiche in

tre sentenze sull’ammissibilità delle richieste referendarie : ciascuno dei quesiti referendari

proposti deve essere valutato “indipendentemente dagli altri e, in particolare dagli effetti che

l’esito degli altri referendum potrebbe avere sulla cosiddetta normativa di risulta. In altri

termini, esula dall’esame della Corte ogni valutazione circa la complessiva coerenza dei

diversi quesiti incidenti sulla stessa materia e, quindi, non ha alcun rilievo neppure

l’eventualità che essi siano stati proposti (in tutto o in parte) dai medesimi promotori”;

l’obiettivo dei sottoscrittori del referendum “va desunto non dalle dichiarazioni eventualmente

rese dai promotori …, ma esclusivamente dalla finalità «incorporata nel quesito», cioè dalla

finalità obiettivamente ricavabile in base alla sua formulazione e all’incidenza del referendum

nel quadro normativo di riferimento”, essendo dunque “irrilevanti, o comunque non decisive,

le eventuali dichiarazioni rese dai promotori”.

In forza di queste premesse di metodo, benché due quesiti referendari – sui tre proposti nel

richiamato quadro organico – siano stati dichiarati ammissibili, l’obiettivo politico dei

promotori e dei sostenitori (o, almeno, l’obiettivo che si evince dalla richiamata Relazione

introduttiva) risulterà in ogni caso disatteso. Dall’esito positivo della consultazione

deriverebbe, infatti, non la soppressione dei modelli di gestione oggi consentiti dall’art. 23-bis

del d.l. n. 112 del 2008, ma, senza necessità di chiamare in causa una paventata ma assai

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difficilmente prospettabile reviviscenza della normativa preesistente, “l’applicazione

immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria … relativa alle regole

concorrenziali minime in tema di gara a evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di

servizi pubblici di rilevanza economica”, con la conseguente ammissione di “ipotesi di

affidamento diretto e, in particolare, quelle di gestione in house di pressoché tutti i servizi

pubblici locali di rilevanza economica (ivi compreso il servizio idrico)”. Esito, dunque, assai

distante dai quei fini politici, non componibili, secondo la Corte, con “l’obiettiva ratio del

quesito” .

In coerenza con tale approccio, la Corte ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum

per l’abrogazione dell’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, essendo essa inidonea a conseguire

la “finalità incorporata nel quesito”, individuata dalla Corte nell’obiettivo di “rendere

inapplicabile al servizio idrico integrato la disciplina concernente le modalità di affidamento

della gestione dei servizi pubblici locali (ivi compreso il servizio idrico integrato) dall’art. 23-

bis del d.l. n. 112 del 2008”, norma, quest’ultima, oggetto della separata richiesta di

referendum dichiarata invece ammissibile. La Corte, infatti, ferma nella posizione di

considerare ciascun quesito referendario indipendentemente dagli altri, ha ritenuto di non

potere compiere un giudizio anticipato e ipotetico, cioè riferito al caso dell’abrogazione

referendaria di tale disposizione .

Nel complesso, gli scopi politici maggiori dei promotori della complessiva “vicenda

referendaria” concernente il diritto all’acqua, si sono mostrati impossibili da conseguire.

Tanto più perché la stessa Corte ha dichiarato inammissibile un quarto quesito referendario ,

inteso a intaccare l’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 per la via laterale della soppressione di

frammenti di disposizioni, dalla quale forse si pensava conseguisse l’inapplicabilità, per

alcuni profili, della norma generale sui servizi pubblici di rilevanza economica al solo servizio

idrico integrato (che non è tra i settori “esclusi” dalla medesima legge). Ma la Corte rileva che

l’effetto sarebbe distante da tale intendimento soggettivo, poiché consisterebbe nell’ostacolare

“l’armonica applicazione al servizio idrico della normativa generale concernente

l’affidamento mediante gara pubblica” della gestione dei servizi in discorso; e in due

conseguenze contraddittorie: da una parte la soppressione dell’obbligo a carico dell’ente

pubblico locale di conformarsi al principio di autonomia del soggetto gestore del servizio

idrico integrato, dall’altra l’esclusione, per tale servizio, della “operatività dei principi della

piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, nonché della riserva esclusiva alle

istituzioni pubbliche del governo di tali risorse”. Un effetto – quest’ultimo – perfettamente

opposto allo scopo dichiarato dai proponenti.

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Ma le modalità della “guerra per l’acqua” sul fronte nazionale interno, e i contenuti a essa

ascritti, hanno ingenerato alcuni equivoci concettuali, oscurando i termini di un problema che

invece dovrebbe impegnare severamente il legislatore a introdurre nel sistema soluzioni

stabili e coerenti.

Per comprenderlo, occorre anzitutto superare il convincimento, diffuso quanto privo di saldo

fondamento, secondo il quale gestione delle risorse idriche da parte di imprese private

equivalga a privatizzazione dell’acqua come bene e come risorsa: l’acqua rimane in ogni caso

bene pubblico, così qualificato dalla legge, e ciò non può non produrre conseguenza sui modi

della gestione, chiunque sia il gestore, pubblico o privato . Occorre, poi, considerare che la

gestione pubblica – quale che ne sia la forma: diretta in economia, o mediante azienda

speciale – non può essere ritenuta affatto garanzia, in termini generali e assoluti, come pure si

assume, della migliore tutela e della maggiore estensione del diritto fondamentale all’acqua:

le amministrazioni locali sono connotate spesso da inefficienze pronunciate, di tipo funzionale

e dimensionale (non sempre facilmente correggibili – queste seconde – attraverso le forme di

aggregazione incentivate dalla legge; né possono essere ritenute certe – considerata la fase

genetica e in mancanza di dati di esperienza ricavabili da un’applicazione sufficientemente

protratta nel tempo – le virtù razionalizzanti degli “ambiti territoriali ottimali”); le aziende

locali sono conformate assai di frequente secondo esigenze di presenza politica e da modalità

delle nomine che a tali esigenze strettamente corrispondono. E le scelte secondo logica di

impresa sono impedite o limitate da vincoli pubblicistici, con riferimento sia al regime

giuridico dei bilanci, sia all’assunzione del personale. Nulla assicura, dunque, che il gestore

pubblico sia in grado di conseguire qualità delle prestazioni ed economie di scala, e di mettere

conseguentemente in opera piani di investimento improntati all’innovazione tecnologica, di

cui vi è urgente necessità, data la situazione in cui versano le retri idriche in Italia, con gli

sprechi non più tollerabili che ne derivano. Ancora, non è affatto detto che l’affidamento della

gestione a un soggetto pubblico locale assicuri l’equità delle tariffe, poiché anche le aziende

pubbliche possono tendere (e spesso tendono, come la vicenda delle imprese “di Stato” o

locali in Italia si è incaricata di dimostrare) a lucrare rendite dalle entrate tariffarie, per

impieghi diversi, non necessariamente legittimi, data la permeabilità al contesto politico, che,

nei casi più gravi, è segnato dalla presenza pervasiva della criminalità organizzata.

Naturalmente, non si potrebbe sostenere, con opposto ideologismo, che la privatizzazione sia

soluzione automatica e generalizzabile a questi problemi. La gestione dei servizi idrici è,

infatti, segnata dalla circostanza, non eludibile, che il gestore opera in regime di monopolio

“naturale” nel rapporto con l’utente, ciò che non incentiva, sotto il profilo strettamente

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economico, né interventi di manutenzione degli impianti né investimenti. E non sembra sicura

l’efficacia di vincoli a tali fini derivanti dai capitolati e dai regolamenti connessi, vincoli che,

ammessa la possibilità di stabilire adeguate clausole nei bandi in un mercato ormai dominato

da poche grandi imprese, potrebbe conseguire solo dalla perfetta trasparenza del rapporto tra

stazioni appaltanti e privato gestore, sia nella fase di scelta del contraente, sia, soprattutto, in

quella di messa in opera dei controlli.

Ancora, se si riguardano i problemi in chiave dinamica, senza troppo indulgere nel raffronto

modellistico, sono da considerare le conseguenze del passaggio dalla gestione pubblica a

quella privata, cioè dal soggetto pubblico erogatore al soggetto pubblico regolatore e

controllore, passaggio che non è affatto agevole, poiché esso avviene in condizioni di

debolezza dei meccanismi giuridici secondo i quali la regolazione e la vigilanza possano

avvenire. Ma sono appunto questi, controllo e vigilanza, i problemi maggiori. Essi sono – o

dovrebbe essere, se ve ne fosse adeguata consapevolezza – innanzi al legislatore. Ma la loro

centralità è oscurata dalla grande nuvola sollevata dallo scontro ideologico, per molti versi

fuorviante, tra fautori della gestione pubblica a ogni costo dei servizi idrici e fautori della

gestione privata sempre e in ogni luogo.

7.4. Regolazione e vigilanza. – In realtà, il tema è sempre quello della regolazione e della

vigilanza, sia che si tratti di gestione pubblica sia che si tratti di gestione privata, in un

universo in cui entrambe possono, e forse debbono, poter coesistere, affinché il modello

prescelto sia conformato su specifiche esigenze di contesto politico, economico, territoriale,

perfino culturale: il sistema istituzionale italiano è segnato da forti cesure, differenze,

asimmetrie, che producono rimarchevoli diversità di rendimento della legislazione per ambiti,

in particolare quando sia in gioco l’impiego di ingenti risorse e a essere chiamati in causa

siano, direttamente o indirettamente, i poteri locali. E questa diversità richiede

differenziazione; che è criterio per conformare l’esercizio delle funzioni amministrative

secondo sussidiarietà.

Ora, proprio questo tema, la regolazione e la vigilanza in materia di gestione delle risorse

idriche, è stato sempre sostanzialmente eluso, in Italia ; e il convincimento di poter tagliare il

nodo aggredendo la legislazione che – si assume – sarebbe intesa alla “privatizzazione

dell’acqua” rischia di rendere ancora più opaco lo scenario dei fatti e dunque non chiara la

prospettiva degli interventi necessari. E, tra gli interventi in ogni caso necessari, v’è di certo la

definizione di efficienti meccanismi regolativi e di vigilanza.

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Nell’esperienza, il sistema di regolazione dei servizi idrici è nato debole, ed è stato

ulteriormente indebolito nel tempo.

Debole è anzitutto l’intero quadro delle funzioni regolative: quelle normative statali e

regionali, poiché la legislazione si è mostrata ondivaga e contraddittoria, segnata da

ravvicinati ripensamenti, trascinando in una spirale di incertezza anche il livello

regolamentare statale, e quello legislativo e regolamentare regionale; quelle normative e

pianificatorie di livello locale, poiché le Autorità di ambito hanno subito la pressoché

generalizzata “cattura” da parte degli enti territoriali di riferimento, specie da parte dei

Comuni, perdendo autonoma capacità di decisione; quelle giurisdizionali, poiché, incerto il

quadro legislativo, difficilmente possono consolidarsi corpi di giurisprudenza stabili e

conformativi.

Debole è stato ed è il tentativo di istituire soggetti di regolazione e vigilanza esterni al

rapporto tra ente concedente e gestore.

La legge n. 36 del 1994 istituì il Comitato di vigilanza sulle risorse idriche, che ha avuto vita

asfittica, per la scarsità delle risorse di cui ha potuto fruire, per la flebilità dei poteri e per la

sudditanza ai soggetti della decisione politica; e ha concluso la sua parabola con la

soppressione, disorganica e piuttosto inconsulta, in forza del d.l. 28 aprile 2009, n. 39,

“Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici nella regione

Abruzzo nel mese di aprile 2009 e ulteriori interventi urgenti di protezione civile”, convertito

nella legge 24 giugno 2009, n. 77, che lo ha sostituito con una Commissione nazionale di

vigilanza sulle risorse idriche, alla quale sono state ascritte anche le funzioni

dell’Osservatorio sui servizi idrici: se possibile, la prospettiva è quella di un indebolimento

ulteriore di indipendenti funzioni regolative e di vigilanza .

Allo stato dei fatti, dunque, la regolazione rimane un problema aperto.

In ragione della marcata articolazione territoriale del sistema italiano, e dunque della necessità

di soluzioni diverse, conformemente al principio di differenziazione, una volta acquisita

l’opportunità di consentire scelte autonome, soprattutto tra gestione diretta e attribuzione in

varia forma a privati (scelte che potrebbero essere contenute in una griglia conformativa,

specie con riferimento al criterio dimensionale, sembrando poco accorto formare piccole o

piccolissime aziende pubbliche, destinate a vita grama, per l’incapacità di conseguire

economie di scala), una parte della regolazione dovrebbe svolgersi a livello locale,

tipicamente attraverso il contratto di servizio, e il controllo sulla sua osservanza. Il soggetto

titolare di questo potere di regolazione sarebbe l’Autorità d’ambito territoriale, o il soggetto

che ne prenderà il posto, che certo dovrà avere dimensione adeguata. Sembra, invece,

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problematico l’affidamento a questo stesso soggetto di altri compiti di regolazione , diversi

da quelli contrattuali, poiché non sono facilmente superabili le obiezioni mosse a una tale

soluzione: la regolazione locale non si esaurisce nella regolazione contrattuale, poiché, una

volta definite in termini necessariamente non troppo conformativi ma sufficientemente aperti

le clausole contrattuali, poi occorre stabilire chi compia il controllo nella fase applicativa; i

due strumenti di regolazione – il contratto e la statuizione di regole da altra fonte – “sono

antitetici, nel primo essendo il soggetto pubblico una controparte, nel secondo un arbitro

super partes” .

Peraltro, l’opzione per la regolazione centralizzata è ancora preliminare rispetto alla scelta tra

modelli. Non sembra, in proposito, che si possa puntare con certezza a un’Autorità

indipendente di livello nazionale, specificamente preposta ai servizi idrici , senza prima

considerare adeguatamente la più generale esperienza italiana di questo tipo di soggetti e aver

valutato esperienze analoghe in chiave comparata. Infatti, da una parte, in Italia, il rendimento

di queste istituzioni presenta un quadro disomogeneo quanto, in ispecie, all’efficacia

dell’opera di vigilanza e ai pericoli di “cattura” da parte dei regolati; dall’altra, la regolazione

del settore idrico attraverso Autorità indipendenti in senso proprio è opzione molto limitata

nel panorama internazionale, e sembra assai legata alle peculiarità ordinamentali complessive

di ciascun Paese, e alla storia e ai connotati specifici della gestione di questo tipo di servizi .

Sembra, invece, certo che i temi del dibattito italiano sulla “privatizzazione dell’acqua” siano

eccentrici dalle questioni in campo; e che lo strumento referendario potrebbe valere al più

come stimolo a un legislatore finora contraddittorio e irresoluto. L’opera di razionalizzazione

da parte della Corte costituzionale, in sede di giudizio di ammissibilità dei referendum, pare

rivolta in questo senso.

1

DARE UN DIRITTO AGLI ASSETATI*

Tommaso Edoardo Frosini

1. Premessa. Chiare, fresche e giuridiche acque…

L’acqua è vita. E’ il brodo primordiale delle nostre origini, il sistema

circolatorio del mondo, il precario composto di molecole che ci consente di

sopravvivere. Il nostro corpo è fatto per due terzi di acqua, come la terra; i

nostri fluidi vitali sono salini, come l’oceano. A volere declinare questa

affermazione in punto di diritto, non può non riconoscersi che l’acqua è un

diritto umano, anzi un diritto naturale fondamentale. Il diritto all’acqua

come diritto naturale scaturisce da un dato contesto ecologico dell’esistenza

umana: essendo un dono della natura, l’acqua può essere oggetto di un

“diritto naturale” del quale sono titolari tutti i membri dell’umanità.

Ogni individuo ha diritto ad avere l’acqua: da bere, e quindi potabile;

per soddisfare bisogni elementari come lavarsi, cucinare, pulire le

abitazioni; per irrigare i campi, abbeverare gli animali e anche come mezzo

di produzione; poi, quale materia prima da usare per produrre energia, e

assicurare così sviluppo e benessere. Fonte del diritto alla vita, quindi; ma

anche flagello biblico, che si abbatte sulla terra sotto forma di uragani,

inondazioni, tempeste, maremoti, portando morte e distruzione.

L’acqua è di tutti. Chiunque può prenderla dal mare, dai fiumi, dai

torrenti, dalle fontane. E’ un bene comune, ovvero una proprietà collettiva

tutelata dallo stato. E così è in ogni parte del mondo. Ovunque ci troviamo

possiamo prendere l’acqua senza che nessuno ce lo possa vietare. Nessun

bene, insieme all’aria, gode di questa fruibilità gratuita globale.

Certo: c’è l’acqua per la vita, ovvero per la sopravvivenza sia agli

esseri umani che a tutti gli altri esseri viventi in natura, e quindi deve essere

garantita efficacemente dal punto di vista dei diritti umani; c’è l’acqua per

* Destinato alla pubblicazione sulla rivista “Analisi Giuridica dell’Economia” (n.1, 2010, ed. il Mulino, fascicolo monografico dedicato all’acqua)

2

scopi di interesse generale, ovvero per preservare la salute e la coesione

sociale, e quindi deve essere affidata a una gestione responsabile e

socialmente efficiente, in relazione ai diritti sociali dei cittadini e

all’interesse generale della società; c’è l’acqua per la crescita economica,

ovvero per sviluppo economico in relazione alla produzione e all’interesse

privato, in connessione con il diritto individuale di tutti di migliorare la

propria qualità di vita, e deve essere gestita efficacemente secondo principi

di razionalità economica.

Questa triplice distinzione e classificazione è metodologicamente

utile. Ma può valere in assoluto? Cioè può valere anche per la maggioranza

dei paesi in via di sviluppo dove l’acqua, oltre a scarseggiare, è diventata il

principale vettore di malattie?

Altra questione: se è vero che l’acqua è di tutti, chi ha diritto di

appropriarsi dei benefici economici che essa genera? E’ giusto che un

privato possa impossessarsi di un bene comune per venderlo e ricavarci un

profitto?

A queste domande proverò a dare risposta; prima, voglio svolgere

una riflessione sull’acqua come diritto fondamentale, che è propedeutica a

ogni questione.

2. Costituzionalizzare due atomi di idrogeno e uno di ossigeno?

L’acqua è un diritto fondamentale; ma se lo cerchiamo nel catalogo

dei diritti costituzionali non lo troviamo. Né in Italia né in nessuna carta

costituzionale europea. E nemmeno nella più recente carta dei diritti

fondamentali europei, varata a Nizza e ora codificata nel Trattato di

Lisbona. Per cercare e trovare l’acqua nella fonte del diritto costituzionale

occorre rifarsi al ragionamento interpretativo, attraverso il quale possiamo

estrapolare diritti dalle norme costituzionali “a fattispecie aperta”.

Prendiamo la Costituzione italiana, e vediamo quali articoli ci permettono

3

di far emergere un diritto fondamentale all’acqua: innanzitutto l’art. 2 sui

diritti inviolabili dell’uomo; l’art. 3 sulla dignità sociale; l’art. 9 sulla tutela

del paesaggio; l’art. 33 sulla tutela della salute come fondamentale diritto

dell’individuo e interesse della collettività; l’art. 44 sulla legge che

promuove e impone la bonifica delle terre; l’art. 117 sulla tutela

dell’ambiente e dell’ecosistema (quale materia esclusiva statale). Insomma,

una messe di norme costituzionali che, in combinato disposto fra loro,

farebbe emergere un diritto all’acqua come diritto fondamentale,

enunciabile sulla base di un’interpretazione evolutiva dell’ordito

costituzionale. A sostegno di una siffatta ricostruzione può citarsi anche

una sentenza della Corte costituzionale, la n. 259 del 2006, nella quale

l’acqua viene definita «bene primario della vita dell’uomo […] in quadro

complessivo caratterizzato dalla natura di diritto fondamentale a mantenere

integro il patrimonio ambientale»; e poi, ancora «“risorsa salvaguardata ed

utilizzata secondo criteri di solidarietà” […] riconnessa al diritto

fondamentale dell’uomo (e delle generazioni future) all’integrità del

patrimonio ambientale, nel quale devono essere inseriti gli usi delle risorse

idriche». Ma, evidentemente, il ragionamento interpretativo costituzionale

e le affermazioni della Corte non devono essere stati ritenuti

sufficientemente validi a quel legislatore che, il 22 luglio 2008, ha

presentato una proposta di legge costituzionale intitolata: «Modifica

all’articolo 2 della Costituzione, concernente il riconoscimento del diritto

all’acqua», e consistente nell’aggiunta di un comma finale all’art. 2 Cost.,

che dovrebbe così recitare: «La Repubblica riconosce, tra i diritti inviolabili

dell’uomo, il diritto all’acqua». Debbo dire che il limite proprio di questa

proposta è in ciò che propone, perché chiedendo che venga codificato

costituzionalmente il diritto all’acqua ne disconosce la sua intrinseca

costituzionalizzazione. Perché vuole imporre la letteralità in luogo

dell’effettività. Direi che invece si può prescindere dalla sua

4

formalizzazione testuale perché il diritto all’acqua è, innanzitutto e

soprattutto, una declinazione del diritto alla vita, che trova in svariate

norme costituzionali un suo naturale svolgimento, come prima riferito.

Se il livello costituzionale nazionale riconosce sostanzialmente ma

non formalmente il diritto fondamentale all’acqua, alcune dichiarazioni

sovranazionali lo affissano nelle loro carte. Faccio solo l’esempio per

quanto riguarda l’accesso all’acqua potabile e alle misure igieniche, che è

stato riconosciuto esplicitamente come diritto fondamentale nel

Commentario Generale no.15 del Comitato dei Diritti Economici, Sociali e

Culturali delle Nazioni Unite (2002), che chiarisce o rafforza precedenti

considerazioni apparse su: il Piano d’Azione del Mar del Plata (1977); La

Convenzione delle Nazioni Unite per l’Eliminazione di tutte le Forme di

Discriminazione contro la Donna (1979); La Convenzione sui Diritti dei

Bambini (1989); e La Dichiarazione di Dublino sull’Acqua e lo Sviluppo

Sostenibile (1992). Questi principi hanno ispirato il proponimento degli

Obiettivi di Sviluppo del Millennio delle Nazioni Unite di dimezzare la

popolazione mondiale senz’acqua e misure igieniche per il 2015. Certo, il

diritto all’acqua non è riconosciuto e protetto dall’ordinamento

internazionale come diritto dell’uomo: né come diritto soggettivo da

rivendicare all’interno di una comunità politica, né come diritto collettivo

da far valere nei rapporti internazionali.

Altri documenti internazionali da ricordare, in tema di acqua sia pure

non strettamente intese come diritto, sono la Convenzione di Helsinki del

1992 sui fiumi e laghi internazionali, e la Convenzione di New York del

1997 sui corsi d’acqua internazionali, che ha recepito i principi della prima

trasformandoli in un trattato internazionale. Su quest’ultima, in particolare,

merita citare l’art. 6, che parla di “equa e ragionevole utilizzazione”

dell’acqua.

5

Se volgiamo lo sguardo al continente latinoamericano, allora,

troviamo, in alcune carte costituzionali, l’espresso riconoscimento

costituzionale del diritto all’acqua come diritto fondamentale. La nuova

Costituzione della Bolivia (approvata nel 2009) è quella che meglio di altre

lo scrive e lo afferma all’art. 20: «Ciascuna persona ha diritto all’accesso

universale e uguale al servizio di acqua potabile […]. L’accesso all’acqua

costituisce un diritto umano e non può essere oggetto di concessione e

privatizzazione […]». Certo, appare ragionevole supporre che il contributo

a codificare il diritto all’acqua sia venuto anche a seguito della rivolta di

Cochabamba, avvenuta nel 2000, nella quale la popolazione locale aveva

reclamato il diritto allo sfruttamento delle risorse idriche del territorio. Si

possono altresì ricordare, con declinazioni diverse, anche la Costituzione

del Guatemala (art. 128), del Panama (art.118), dell’Ecuador (art. 23) e del

Messico, il cui lungo art. 27 richiama più volte e in più occasioni l’acqua e

il suo utilizzo equo e garantito; vale la pena citare almeno questa

disposizione (comma terzo): «I nuclei di popolazione che mancano di terre

e di acque, o che non ne hanno in quantità sufficiente per soddisfare i loro

bisogni, hanno il diritto di esserne dotate prendendole dalle proprietà

circostanti, nel rispetto, comunque, della piccola proprietà rurale in

sfruttamento». Più in generale, la prospettiva del costituzionalismo

latinoamericano è quella di tutelare i “diritti della natura”: fiumi e foreste

(si pensi, tra l’altro, all’Amazzonia…) non sono semplici proprietà ma

hanno diritto a prosperare, anche per garantire l’equilibrio dell’ecosistema.

Da ciò ne discende che un cittadino può promuovere un recurso de amparo

contro l’amministrazione e a difesa dei propri diritti nel caso, per esempio,

di un bacino idrico danneggiato, perché le sue condizioni sono

fondamentali per il bene di tutti.

6

3. Liscia, gassata o privatizzata?

Allora, l’acqua è un diritto fondamentale –sostanzialmente e/o

formalmente– sia di qua che di là del globo. Subito una notazione: lo

dovrebbe essere anche di giù del globo, nelle zone sud del mondo: ma

questa, per adesso, è un’altra storia, che chiama in causa drammatici

problemi sulla povertà e il sottosviluppo; valga un solo, tristissimo dato:

secondo l’Onu 3.900 bambini, prevalentemente africani, muoiono ogni

giorno per mancanza d’acqua.

I diritti, anche e forse soprattutto quelli fondamentali, costano. E per

goderne della piena tutela ci vuole qualcuno che li paghi. Benché sgorghi

naturalmente dalla terra, l’acqua deve essere ricondotta attraverso

condutture e pompe al fine di essere utilizzata e distribuita. E i macchinari

costano. A chi spetta organizzare e gestire la distribuzione? A chi compete

costruire acquedotti e garantirne l’efficienza? A chi tocca la governance

della società idraulica (per dirla con il filosofo Wittfogel)?

Sulle questioni poc’anzi sollevate, che richiamano le domande

inizialmente poste, conviene provare a “raggomitolarsi” intorno

all’esperienza italiana per vedere, dal nostro piccolo mondo antico, come

stanno andando le cose. Inizio con un breve excursus storico. In base al

codice civile del 1865, le acque venivano distinte tra pubbliche e private: le

prime erano i fiumi e i torrenti, mentre le altre acque appartenevano ai

privati. La limitata pubblicizzazione era dovuta allo scarso interesse per

l’acqua come bene pubblico: l’interesse alla fruizione collettiva era limitato

solamente ai trasporti fluviali e alla fluitazione. Durante il fascismo, invece

si assiste a una crescita di interesse: dapprima, con il t.u. sulle acque (R.d.

n. 1775 del 1933) e, poi, con il nuovo codice civile, perché viene stabilito

che appartengono al demanio dello stato «i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre

acque definite pubbliche dalle leggi in materia» (art. 822, comma primo,

c.c.). E soprattutto venne individuato il criterio per la distinzione tra acque

7

pubbliche e private, che viene a essere fondato sull’attinenza del bene al

«pubblico generale interesse». L’uso estensivo di questa clausola, come ha

fatto nel tempo la giurisprudenza, ha portato nei fatti a un ampliamento

delle acque pubbliche, riducendo le private a quelle con scarsa portata o di

minima importanza idrografica, rientrando in tali fattispecie, per esempio,

un lago non pescoso o l’acqua di un pozzo. Nella prima metà degli anni

Novanta, e in particolare a seguito della “legge Galli” (n. 36 del 1994) si

accentua la pubblicizzazione della acque, allorché si afferma e si dispone

che «tutte le acque superficiali e sotterranee, anche non estratte dal

sottosuolo, sono pubbliche e costituiscono una risorsa che è salvaguardata

ed utilizzata secondo criteri di solidarietà» (art. 1, comma primo). Viene

meno, cioè, la distinzione tra acque pubbliche e private, con la definitiva

acquisizione del patrimonio idrico alla sfera pubblica. Va detto però che

nella legge si utilizza la definizione di “servizio idrico integrato” in luogo

di “acquedotti”, e si apre così –per il tramite di una scelta affidata agli

Ambiti territoriali ottimali (Ato)– alla gestione “in affidamento” in favore

di una spa a totale capitale pubblico, oppure attraverso una gara aperta a

concorrenti europei, per scegliere un partner privato da affiancare al

gestore pubblico. Inoltre, la legge definisce le modalità per determinare le

tariffe del servizio idrico integrato, all’art. 13, comma secondo: «La tariffa

è determinata tenendo conto della qualità della risorsa idrica e del servizio

fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari, dell’entità dei costi di

gestione delle opere, dell’adeguatezza della remunerazione del capitale

investito e dei costi di gestione delle aree di salvaguardia, in modo che sia

assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio».

Con il codice ambientale (d.lgs. n. 152 del 2006), infine, si è

proceduto a includere le acque nel demanio idrico statale, stabilendo che

«tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal

sottosuolo, appartengono al demanio dello stato» (art. 144, comma primo).

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Il riferimento alla demanialità vuole segnalare la centralità dell’acqua

nell’ambito delle proprietà pubbliche. Nonostante sia riservato in capo allo

stato l’appartenenza del bene, il legislatore ha tuttavia lasciato uno spazio

di libertà ai privati, consentendogli la libera fruizione sia delle acque

piovane raccolte in invasi o cisterne al servizio di fondi agricoli o di singoli

edifici (art. 167, comma terzo), che l’utilizzazione delle acque sotterranee

per usi domestici, purché non comprometta l’equilibrio del bilancio idrico

(art. 167, comma quinto). Ancora: sono altresì sottratte dal regime di

riserva le acque piovane non ancora convogliate in un corso d’acqua,

ovvero non ancora raccolte in un invaso o cisterne (v. art. 1, comma

secondo, d.P.R. n. 238 del 1999). In tutte le altre ipotesi l’utilizzazione

delle acque da parte dei privati deve essere previamente autorizzata o

concessa. Infine, va altresì detto, che l’imputazione in via esclusiva al

demanio idrico statale va ora coordinata, sul piano delle competenze

legislative e delle funzioni amministrative, con le Regioni e le autonomie

territoriali, a seguito della riforma del titolo quinto della Costituzione. Che

rappresenta una sorta di “rompicapo” costituzionale la cui soluzione è

affidata, caso per caso, alla giurisprudenza della Corte costituzionale (vedi

da ultimo, proprio con riferimento a un giudizio su una legge regionale sul

sistema idrico integrato, Corte cost., sent. n.142 del 2010).

La novità più recente è quella dovuta all’approvazione del “decreto

Ronchi”: la legge (che converte un decreto) n. 166 del 2009, e in

particolare l’art. 15 intitolato «Adeguamento alla disciplina comunitaria in

materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica». Questo articolo,

però, introduce alcune modificazioni all’art. 23 bis della legge n.133 del

2008, che sostanzialmente rimane quello che disciplina la materia. Sono

dodici commi nei quali si stabilisce come modalità ordinarie di gestione del

servizio idrico l’affidamento a soggetti privati attraverso gara o

l’affidamento a soggetti a capitale misto pubblico-privato, all’interno delle

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quali il privato sia scelto attraverso gara e detenga almeno il 40 per cento

delle quote societarie. Le società a capitale pubblico cessano di esistere

entro il dicembre del 2011, ovvero possono trasformarsi in società miste

con capitale privato al 40 per cento.

Di privatizzazione dell’acqua si tratta? L’acqua non è più bene

pubblico, o meglio come oggi usa dire bene comune, il cui utilizzo e

approvvigionamento è un diritto fondamentale? Sul punto, mi limito a

evidenziare la distinzione fra bene e servizio: il primo rimane pubblico, il

secondo può essere dato in affidamento a una spa controllata dal pubblico o

dal privato, ovvero mista; è comunque la parte pubblica che stabilisce le

condizioni dell’affidamento e fissa le tariffe. Il privato, laddove dovesse

esserci, prende il servizio in affidamento, operando in nome e per conto del

pubblico e, soprattutto, alle condizioni stabilite dal pubblico. Si possono,

secondo una schematica ricostruzione comparatistica, individuare tre

diversi modelli gestionali: a) quello del monopolio territoriale vitalizio,

privatizzato e regolato (Gran Bretagna); b) quello della titolarità pubblica

con affidamento temporaneo a privati attraverso meccanismi di gara

(Francia); c) quello della titolarità e gestione pubblica, con acquisizione del

mercato di beni, servizi e input necessari alla produzione del servizio

(Germania e Usa).

L’acqua è e rimane un diritto fondamentale saldamente nelle mani

della collettività; ciò che (può)cambia(re) è la gestione dei servizi idrici,

ovvero la gestione delle infrastrutture fisiche necessarie per utilizzare (al

meglio) l’acqua, che può essere affidata a un’impresa pubblica o a

un’impresa privata attraverso combinazioni contrattuali. Sia chiaro: la

natura di diritto fondamentale non sottrae all’acqua la possibilità di essere

gestita da privati. Lo stesso vale per la salute e per l’istruzione. Anzi, oggi

il principio costituzionale di sussidiarietà favorisce «l’autonoma iniziativa

dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse

10

generale» (art. 118 Cost.). Si potrebbe altresì richiamare la teoria della

“sostituzione”, laddove cioè un’attività di pertinenza dello stato viene

affidata a un altro soggetto, dove il primo è titolare della funzione, mentre

il secondo ne ha in cura l’esercizio. Certo, l’acqua quale diritto

fondamentale deve essere erogata a prezzi sostenibili, ovvero con tariffe

eque e ragionevoli, magari stabilendo una quantità massima di utilizzo oltre

il quale vi potrebbe essere un aumento crescente del prezzo. Certo, la

stabilità del quadro regolatorio dovrebbe essere affidata a un organismo di

controllo, in grado di vigilare sulla corretta applicazione dei livelli di

servizio (penso a un organismo snello e competente, non alla “solita”

Authority di derivazione politica…).

Nei confronti del modello italiano elaborato dal “decreto Ronchi” si

è appuntata una critica radicale, senza se e senza ma. Che è sfociata da

ultimo nella promozione di un referendum abrogativo ex art. 75 Cost. per

eliminare, chirurgicamente, una serie di norme, e consentire che la

cosiddetta “normativa di risulta” mantenga in vita la legge asciugata nella

sua parte propositiva di governo societario del servizio idrico. Un gruppo di

giuristi ha elaborato i quesiti e ha motivato analiticamente la finalità e

l’ammissibilità dei (tre) referendum, in un manifesto intitolato Invertire la

rotta. Per un governo pubblico dell’acqua. Non entro nel merito –come per

esempio la questione delle “leggi comunitariamente necessarie” sottratte a

giudizio referendario (Corte cost., sent. nn. 31, 41, 45 del 2000)– mi limito

però a osservare come la “sovrana” arma del referendum oggi, ahimè,

appare spuntata, anche per l’uso e l’abuso che è stato fatto negli ultimi anni

(l’ultimo referendum tenutosi in Italia ha raggiunto solo il 23,31 per cento

dei votanti). L’astensionismo e la disaffezione militano contro la

democrazia referendaria, che impone la regola costituzionale del quorum

maggioritario per la sua validità.

11

La richiesta referendaria, inoltre e a prescindere dagli esiti di

ammissibilità e poi di validità del quorum, radicalizza e ideologicizza la

questione. Spostare il dibattito su “pubblico contro privato” nel settore

dell’acqua rischia di indebolire una delle maggiori preoccupazioni, e cioè le

prestazioni inadeguate dei fornitori idrici ai fini del superamento della

carenza idrica. Un dato, su tutti: gli acquedotti italiani perdono fino a 60

litri ogni 100 distribuiti, e servono circa 60 miliardi di euro per riparare la

rete. L’attuazione del diritto all’acqua passa attraverso una sua piena tutela

e garanzia, che consiste, innanzitutto, nell’accesso a tutti dell’acqua e del

suo uso equo e ragionevole.

4. Conclusioni, senza lavarsene le mani…

Al diritto fondamentale all’acqua corrisponde il dovere, direi

altrettanto fondamentale, di farci carico dei costi necessari. In termini di

spesa ma soprattutto in termini di impegno solidale a favore dei più deboli,

dei più bisognosi. In un contesto internazionale, allora, ci vorrebbe

un’azione strategia e un piano concreto dei governi nazionali per affrontare

la crisi idrica e igienico-sanitaria. Per rendere veramente l’acqua un diritto

fondamentale bisognerebbe che, come livello minimo, tutti i cittadini

avessero almeno 20 litri di acqua pulita al giorno e i poveri potessero

riceverla gratuitamente. Si calcola che l’1 per cento degli attuali bilanci

militari sarebbe sufficiente per finanziare il progetto di acqua potabile per

tutti. La distribuzione di acqua pulita, lo smaltimento delle acque reflue e la

fornitura di impianti igienico-sanitari sono tre elementi cardine per il

progresso umano. E’ inaccettabile che al mondo ci sono persone che non

hanno diritto all’acqua. E’ scandaloso che ci sono interi popoli che non

hanno accesso all’acqua pulita e vivono in una situazione di privazione

radicale. E’ una vergogna per l’umanità che ci sono bambini che muoiono

di sete.

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E allora, insieme al messaggio cristiano misericordioso “dare da bere

agli assetati”, bisogna sostenere quello laico, costituzionale e globale “dare

un diritto agli assetati”.

NOTA BIBLIOGRAFICA

La lettura di alcuni testi mi hanno aiutato nella riflessione critica, e

voglio perciò qui citarli. Tra i libri, V. SHIVA, Le guerre dell’acqua, tr. it.,

Feltrinelli, Milano, 2004; A. MASSARUTTO, L’acqua, il Mulino,

Bologna, 2008; G. MARINO, La casta dell’acqua, Nuovi Mondi, Modena,

2010; ma va senz’altro ricordato anche il numero monografico sull’acqua

della rivista Parole Chiave, n. 27, 2002. Tra gli articoli, sul piano giuridico,

A. BARTOLINI, Le acque tra beni pubblici e pubblici servizi, in

www.giustamm.it; sul piano giusfilosofico: D. ZOLO, Il diritto all’acqua

come diritto sociale e come diritto collettivo, in Diritto pubblico, 2005, 125

ss.; M. VARANO, Il diritto all’acqua, in Ragion pratica, 2009, 491 ss.

Interessantissimo, poi, è il fascicolo speciale dedicato all’acqua di National

Geographic Italia, aprile 2010.