PROLOGO chiostro. -...

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9 PROLOGO Devo caurare l’aenzione del leore fin dal primo rigo di in- chiostro. Fosse questa storia una musica, potrei incominciare con un for- te colpo di tamburo. Oppure con un crescendo di violino, accompagnato da altri mille archi. L’aenzione può venire scossa anche da una parola andata in disuso o da un verbo sbagliato. Ma che direbbe l’Editore? Potrei incominciare con un requiem e con un carro funebre trainato da demoni o da angeli. Oggi va di moda il fantasy e l’horror. Una frase senza senso non sarebbe male, del tipo “pollocchian- do un percello ricado nel tiritallo“. Si, questa potrebbe essere un’idea ma, poi, come faccio a svi- luppare una trama col tiritallo? Sono quasi sicuro che il prologo può decidere della mia carrie- ra di scrivano. Ma quello che non posso sbagliare è il mio approccio con l’Edi- tore: il leore, nel prosieguo della storia, si può ararre in diversi modi, ma l’Editore è come un Boia e, dopo aver ben oliato la sua mannaia, la cala sul collo dell’aspirante narratore, senza alcuna compassione. E, quindi, ho da accalappiare sia l’uno sia l’altro. Non voglio che il leore sbadigli al decimo rigo, né voglio che l’Editore mi rediga il certificato di morte. Però questa non è una buona cosa. Quante volte ho scoperto incantevoli luoghi alla fine di un insi- gnificante vioolo e quante volte, girando l’angolo, mi si è presen- tata una sorprendente architeura, se non addiriura un autenti-

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PROLOGO

Devo catturare l’attenzione del lettore fin dal primo rigo di in-chiostro.

Fosse questa storia una musica, potrei incominciare con un for-te colpo di tamburo.

Oppure con un crescendo di violino, accompagnato da altri mille archi.

L’attenzione può venire scossa anche da una parola andata in disuso o da un verbo sbagliato.

Ma che direbbe l’Editore?Potrei incominciare con un requiem e con un carro funebre

trainato da demoni o da angeli.Oggi va di moda il fantasy e l’horror.Una frase senza senso non sarebbe male, del tipo “pollocchian-

do un percello ricado nel tiritallo“.Si, questa potrebbe essere un’idea ma, poi, come faccio a svi-

luppare una trama col tiritallo?Sono quasi sicuro che il prologo può decidere della mia carrie-

ra di scrivano.Ma quello che non posso sbagliare è il mio approccio con l’Edi-

tore: il lettore, nel prosieguo della storia, si può attrarre in diversi modi, ma l’Editore è come un Boia e, dopo aver ben oliato la sua mannaia, la cala sul collo dell’aspirante narratore, senza alcuna compassione.

E, quindi, ho da accalappiare sia l’uno sia l’altro.Non voglio che il lettore sbadigli al decimo rigo, né voglio che

l’Editore mi rediga il certificato di morte.Però questa non è una buona cosa.Quante volte ho scoperto incantevoli luoghi alla fine di un insi-

gnificante viottolo e quante volte, girando l’angolo, mi si è presen-tata una sorprendente architettura, se non addirittura un autenti-

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co capolavoro.Rinunciare a percorrere una via solo perché una carta la im-

bratta o un carretto ne intralcia il percorso, non credo sia la miglio-re delle decisioni.

Ti chiedo, lettore, di percorrere la via, anche se imbrattata da una cicca.

L’inizio è farraginoso ma è essenziale.Mi limiterò comunque e non avrò pietà per quelle frasi scritte

a bella posta per manipolare il pensiero – ma il pensiero può stare in una mano?

E quindi ti chiedo di proseguire nella lettura malgrado qualche impiccio iniziale.

La storia è bella che pronta.È qui, in questa Olivetti M40, ed è pronta a dispiegarsi in tutte

le centinaia di pagine che verranno.È una storia complicata e alquanto inverosimile, ma da qualche

parte deve pur essere capitata, se con la mente riesco a vederla.Solo il Creatore ha visione di quello che ancora non c’è. Noi ci

limitiamo a raccogliere quello che da qualche parte c’è o ci sarà.D’altronde, si raccolgono i residui delle menti e delle anime per

farne racconti: siamo un po’ gli operatori ecologici delle storie ri-maste ai margini del vissuto o di storie non vissute.

Diamo dignità a quello che non è stato partorito dal corpo di una donna, regalandoci così una dignità che non abbiamo per li-miti fisici.

E così, tra un pallocchiando e un tiritallo, devo catturare l’oc-chio che si vuole assopire, o la mannaia del chi per lui editore vuo-le cestinare.

La storia, come detto, è complicata, soprattutto nel capitolo primo, dove si vuole, cercando di non annoiare, dare un senso al macchinoso intreccio tra la realtà delle gioie e dei dolori, di perso-naggi che restano comunque irreali e l’irrazionale fantasioso luo-go che resta comunque reale.

Si è pescato quindi nelle numerose teorie che viaggiano di libro

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in libro, per poter ambientare in questo nostro caro mondo perso-naggi di altri mondi.

Si dice che la terra un tempo fosse disabitata e che gli esseri umani vi siano stati catapultati da esseri superiori.

Si dice che la vita o la coscienza siano state iniettate all’interno di sofisticati robot che, col tempo, si siano dapprima autoprodotti e di seguito autogenerati.

Si dice che il tiritallo sia il prodotto del pallocchiando.Mio straordinario e caro lettore, ed eccellentissimo Editore, e a

voi, esimi collaboratori dell’eccellentissimo, a cui spetta la prima impegnativa valutazione dello scritto, io chiedo, anche con la pi-roetta, di non affossare il capitolo seguente dove mi dilungherò in descrizioni alquanto insipide.

Vi chiedo di inforcare gli occhiali e di accendere la lucetta not-turna, lì, sul comodino a fianco del letto e di sfogliare le pagine senza pregiudizio.

Vi chiedo, ove aveste la scelta tra più libri, di sorvolare su quei nomi che tutti conoscono e di soffermarvi su ETROM.

E se, nella lettura del primo capitolo, la palpebra si appesantis-se e lo sbadiglio la facesse da padrone, vi prego di non richiudere il libro ma di saltare direttamente al secondo capitolo.

La storia non ne avrebbe gravi ripercussioni.Ti starai domandando il perché, allora, non ho eliminato del

tutto il primo capitolo.Non l’ho fatto perché il tappeto nel bosco non ne avesse a sof-

frire.Per chi volesse saltare direttamente al secondo capitolo faccio

un piccolo riassunto del primo.Sul pianeta Ativ la noia la faceva da padrone e tutto era terribil-

mente metodico e lineare.Alcuni Ativiani si ribellarono, ma furono immediatamente pre-

si, processati, condannati ed esiliati.Come nell’arca, si diedero a cercare una terra dove rivivere e,

per l’appunto, sbarcarono sulla Terra.

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Qui avvenne un fenomeno di sdoppiamento dell’essere e dell’individualità, che diede vita agli Etrommiti e agli stranieri, figli della stessa sostanza ma senza coscienza del fenomeno.

Oggigiorno potremmo definirli uno clone dell’altro.Prendo spunto da questo e da altro ameno fantasticare, per

giocare anch’io.

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CAPITOLO I

Milioni di secoli fa o anche di meno, decidi tu, caro lettore.Il mio tempo è diverso dal tuo e il tuo è diverso dal mio, quindi

lascio a te la scelta: anche perché, magari, hai comprato il libro e non l’hai scaricato da internet in modo illegale.

Dunque, nel tempo che hai deciso, la terra era simile a un de-serto con sporadiche oasi, dove i pochi fili d’erba e qualche pian-ticella andavano a nascondersi e dove nessuno che avesse avuto un briciolo di cervello, poteva mai lontanamente immaginare di abitarla, un giorno.

A diversi anni luce di distanza la vita, invece, c’era, eccome!Aveva però il difetto di essere una vita geometrica, inquadrata,

incanalata: insomma, una noia mortale.Lo spazio che racchiudeva questa vita era formato da diversi

pianeti, uniti in una fratellanza anch’essa noiosa e senza nemme-no una pietra fuori posto.

Si era solito dire che, se una farfalla avesse sbattuto le ali sul pianeta vicino, nessuno se ne sarebbe accorto, né, tantomeno, qualcuno avrebbe preso l’ombrello.

Su Ativ (un nome vale l’altro per iniziare la storia), su Ativ, il pianeta di cui ci stiamo occupando in questo preciso istante, la vita, il quotidiano vissuto, non erano un granché, così come non era un granché niente di quello che c’era.

Tutto procedeva con metodo e matematica. Cento passi per andare al parco, dieci per andare a mangiare e cinque per andare a fare la cacca. L’ozio e la noia dominavano incontrastati. Quello che bisognava fare appena alzati dal letto era scritto su dei file pdf che ognuno leggeva sui tablet in dotazione. Le virgole, i punti, perfino il punto e virgola, erano disposti con una perfezione che, personalmente, ritengo indegna. Per dire, finanche le strade non avevano curve. Perfette, senza nemmeno una buca o un lavoro in corso: che schifo!

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Insomma, la mattina, uno si svegliava ed era già tutto pronto: era programmato anche il saluto al vicino di casa o al collega d’uf-ficio.

E, oltre tutto ciò, per non farsi mancare proprio nulla, su Ativ non esisteva la parola morte. Non esisteva né la parola, né tan-tomeno la sua applicazione. E, non esistendo la morte, di conse-guenza, non esisteva nemmeno la parola tempo. Niente rughe, niente muscoli appesantiti, niente acciacchi, niente osteoporosi, niente lifting.

I cittadini di Ativ erano come in una bolla di sapone e il mondo circostante non emetteva rumori. E tutto questo non era uno stile di vita unicamente di Ativ ma era un modello adottato in tutta la galassia di Yensid. Ma quanto poteva durare un sistema di vita così scemo? Chi lo sa? Certo è che persone di vari pianeti si erano ribellati a tutto questo. Avevano incominciato a creare disordini. Qualcuno persino mangiò il pesce di giovedì. No. Non poteva du-rare nemmeno la ribellione. Così, in men che non si dica, il Con-siglio Superiore del Vacuo deliberò la cacciata da tutti i pianeti di questi facinorosi: furono presi, giudicati, condannati ed esiliati.

Amico lettore, non fasciarti la testa per questo turbinio di spie-gazioni che ti stanno cadendo addosso.

Anche se non comprese, non hanno molta importanza.Dunque, dicevo che furono presi, giudicati, condannati ed esi-

liati.Gli fu lasciata in dote e a uso compassionevole, un’astronave in

grado di viaggiare e oltrepassare le galassie. Si misero dunque alla ricerca di un pianetino a modo. E, gira

che ti rigira, indovinate un po’? Dove andarono a parare? Combi-nazione! La Terra, tra tutte, era il posto meno lontano e più facile da raggiungere con quel tipo di astronave.

Raggiunta che fu la terra, si verificò uno strano avvenimento non previsto dalle conoscenze conosciute, e cioè ci fu un fenome-no di sdoppiamento che peraltro nessuno avvertì.

Si sdoppiarono in due. Gli ex cittadini della Galassia Yensid subirono il fenomeno di sdoppiamento restando l’uno uguale e

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l’altro diverso. Uguali e diversi nel pensiero e nel modo di essere. Ma, a creare comunque grande confusione (e lo si capirà più avan-ti), fu il fatto che le caratteristiche somatiche erano le stesse per tutte e due le esistenze. E nessuna delle due avvertiva la sostanza dell’altra, né tantomeno era a conoscenza dello strano fenomeno.

Così per anni, e tutt’ora, gli sdoppiati conducono la loro vita l’uno lontano dall’altro e l’uno inconsapevole dell’altro, anche se non di rado avvertono una strana sensazione di dejà vu: di un altro io.

Tu che, all’inizio di questo capitolo, anche in considerazione delle mie raccomandazioni, hai incominciato la visione di questo scritto senza apparente astio nei miei confronti, spero che ancora mi riservi un occhio benevolo e abbia, senza sbadigliare, colto una significativa chiave di lettura nella composizione dei nomi di Ga-lassie e Pianeti, e a proseguire di fiumi e altro.

Quale chiave?Amico mio, ma leggi al contrario questi nomi e ti verrà incon-

tro un altro mondo.Ho ricatturato l’attenzione? Bene. Riprendo il racconto.Per poter distinguere gli sdoppiati, daremo loro una cataloga-

zione, una nomenclatura originale e mai utilizzata: li chiameremo cioè esistenza madre ed esistenza figlia.

Quella madre si caratterizza per alcune regole principali e qualche regoluccia secondaria.

Una delle regole principali prevede, per gravi reati, la pena di morte del pensiero, che viene attuata con lo gettare i colpevoli nel fiume che attraversa la città, un fiume che li rimanda, non mi chie-dete come, indietro nel loro pianeta di provenienza, a vivere di nuovo la noia di una volta.

Altra differenza con l’esistenza figlia è la clessidra della vita che rallenta il tempo e consente, una volta giunti all’età di ottant’anni, di ritornare indietro fino a rinascere e percorrere un’altra esistenza con un’altra generazione.

Questo affinché essi possano, generazione dopo generazione, raggiungere la perfezione, annullando tutti i difetti dei vari passati

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vissuti.L’esistenza figlia, invece è un po’ più simile alla nostra visione

di vita, nel senso che più o meno le regole sono uguali alle nostre e la clessidra del tempo scorre veloce come la nostra: l’usura e la vetustà corrodono i loro corpi e le loro menti fino a provocarne la morte. Ed è a questo punto che l’esistenza figlia si ricongiunge con l’esistenza madre: tutto avviene, ancora una volta, senza che nessu-no si accorga di niente.

A questo punto, il primo capitolo, prosieguo della prefazione, è bello che terminato.

Certo, a rileggerlo, non è molto lineare né chiaro. Nemmeno chi scrive è sicuro di aver compreso il proprio pensiero.

Lettore mio, come va la soglia di attenzione? Caduta del tutto? Ci vorrebbe un - patapunfete! -

Un – patapunfete - colorato di rosso che stimoli l’occhio, o un odore acre che si sprigioni dall’inchiostro e ti riavii i sensi assopiti.

La soglia si ricatapulterebbe di nuovo in alto, riassaporando l’a-ria fresca delle vette.

Non credo però che questo sia, almeno in questo lasso di tempo che mi è concesso, attuabile in questo secolo che cammina a mo’ di gambero.

Questo libro non ha il colore e l’odore acre dell’inchiostro: an-cora non è stato inventato; mi accontento e vi accontento con un semplice e dimesso – patapunfete – di colore nero.

Dunque, dicevo che in fondo non è molto grave ch’io non abbia compreso appieno il mio pensiero.

Non è molto grave, anche e soprattutto in considerazione che la “mia” scrittura non “mi” appartiene: è frutto di una medianità che si manifesta, di solito dopo un buon bicchiere di vino.

Un’ultima cosa. Tutto quello che andremo a scrivere si svolge a Etrom e riguarda la quattrocentesima generazione.

Iammo, ià

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CAPITOLO II

Una città di fantasmi e un fiume che l’attraversa tagliandola in due parti: così si presenta Etrom, la capitale delle ombre rimaste a metà. Una lunga fila di croci posizionate come soldatini allineati e coperti, arricchite e abbellite da lapidi di marmo lavorato, su cui sono apposte le generalità dei residenti.

Ai lati delle case sono disposte corone di fiori avvizziti.Al centro della città, il Municipio (all’occhio distratto, appare

come un edificio, tuttora esistente, di una cittadina campana): la casa comune dove tutti i cittadini si riuniscono nelle occasioni di un certo rilievo.

Grosse mura circondano Etrom a cui si accede attraverso un grande cancello. Un custode ha la sua casetta all’ingresso.

Nell’insieme, Etrom si può definire una cittadina carina.Grandi giardini, grandi alberi, perlopiù cipressi; passeri e nidi

sui rami; panchine disposte un po’ ovunque a ristoro del corpo e della mente. Panchine diverse da quelle che ci sono a Verona. Vi si può sedere e anche sdraiare; chiunque abbia bisogno di riposare le terga lo può fare.

A rendere tutto più suggestivo, una collina si staglia sullo sfon-do di questo bel paesaggio.

E i divertimenti? C’è una sala giochi frequentata da tutti, ma proprio tutti i cittadini.

Nel grande caseggiato che ospita la sala giochi, al lato oppo-sto, c’è un grosso salone dove si tengono spettacoli di musica e di teatro e, nelle salette laterali, ci sono locali adibiti a sale lettura o anche di sole conversazioni.

E non finisce qui. O, meglio, forse è meglio finirla qui. Non so più dove aggrapparmi.

Caso mai, poi, nel prosieguo della trama, mi venisse in mente qualche altra cosa, la scriverò per benino.

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A dispetto dei fiori avvizziti, delle croci e del bianco marmo lavorato, Etrom è una cittadina allegra.

In questo preciso istante, ad esempio, si svolge una festa all’a-perto, e le danze, senza interruzioni, allietano i presenti.

A proposito di cose che mi possono venire in mente mano a mano che scrivo, vi rendo partecipi di un’altra peculiarità di que-sta città: dovete sapere che, nello stesso istante che leggete, le cose avvengono: assistete in diretta agli avvenimenti e, credo, sia la pri-ma volta che un autore spruzzi questo tipo di magia in un testo. Voi siete i fortunati lettori.

Elisa, graziosa ragazza, vestita con una leggera gonna a fiori, con una camicia bianca e il colletto alzato, si lascia trasportare dal-le note che l’orchestrina posta sul palco suona con vivace ritmo, seppure romantico, sensuale.

Una luna birichina irradia i suoi raggi ruffiani sul suo corpo avvenente, e i ragazzi, tutti, stanno lì come baccalà ad ammirare Elisa e i suoi armoniosi movimenti.

Qualche decina di metri in là, seduta sotto di un cipresso, Laura, diciottenne in fioritura, fresca, romantica, capelli biondi, malinconica, bella come bello è il giardino dei fiori in bocciolo o sbocciati. Le lacrime calde di un’età ancora acerba inumidiscono le rosse gote di Laura. Gli occhi sono belli davvero quando la piog-gia dell’anima scivola lungo il viso. Il suo cuore ha aperto la porta a nuove emozioni e queste, come cavalli impazziti, si sono lanciate in una folle corsa nell’anima indifesa.

Sarà questo l’amore? A quest’età, si sa, il sangue scorre più ve-loce ed è difficile rallentarne il ritmo. A quest’età, c’è il desiderio di non restare più affacciati alla finestra della vita e di spalancare le porte, e di correre, finalmente, a perdifiato nelle affascinanti diste-se dove, all’orizzonte, s’intravedono luci e colori da scoprire e da vivere. Laura è lì, seduta sotto il cipresso, e lì la lasciamo perché di lei ci occuperemo più in là.

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Ritorniamo alla festa. Cosa si sta festeggiando? Si festeggia l’ar-rivo di un nuovo rinato. Antonio è il suo nome e anche di lui avre-mo modo di parlare in seguito. Si sa, la festa nasce sempre da un motivo, ma dopo poco tutte le feste, compresa questa, vivono di moto proprio e non hanno più bisogno di un motivo.

Il vino spesso si siede insieme agli invitati e con questi si con-fonde, fino a tendere tranelli ai discorsi alle frasi e infine alle pa-role. Nascono così i discorsi senza senso e, a proposito di discorsi senza senso, il sindaco, pacioccone cinquantenne dagli occhietti poco vispi e in possesso di un vocabolario ridotto, si sta comun-que producendo in un noiosissimo saluto di benvenuto a cui la cittadinanza risponde con un vocio continuo, con risate e con tutto quello che possa distrarli dal logorroico primo cittadino.

Il Sindaco con lo sguardo implora una partecipazione seppure minima: basta un piccolo segnale, un applauso ed egli è ben felice di terminare quello che non può essere terminato, felice cioè di terminare il suo discorso senza senso.

Qualcuno tra la folla si dà uno schiaffetto sulla nuca per libe-rarsi di una fastidiosissima zanzara, e il suono prodotto inganna i presenti, per cui viene scambiato lo schiaffetto per l’inizio di un applauso e il contagio è immediato: tutti applaudono e il sindaco, ringraziando, dà finalmente e ufficialmente inizio alla festa vera e propria che, comunque, i cittadini avevano già ampiamente ini-ziato.

Elisa sa di avere un bel corpo, sa di piacere e sa anche come pe-scare nel lago degli stoccafissi: dai suoi bei occhi partono sguardi che sembrano rivolti a tutti, anche se, in verità, sono sguardi che non conoscono indirizzi e che, liberi, viaggiano senza meta e sen-za sosta. Sguardi che gli stoccafissi, i giovanottoni, credono rivolti in particolare a loro, a ognuno di loro in particolare. E tossiscono. Cercano di attirare l’attenzione. Prenotano il ballo successivo. Una scena buffa, se vogliamo. Ma, tant’è, l’amore è sempre un po’ buf-fo.

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Elisa, d’improvviso, si accorge che non tutti sono presi dal suo amo; c’è un’esca ancora intatta. Un bel giovane, vestito casual, ca-pelli neri (amico lettore, facciamo un patto. Dai tu i tratti somatici che preferisci ai vari personaggi che via via tratteggerò. Te lo dico perché, se poco poco mi somigli, lo farai comunque, e non mi va di scrivere cose di cui non terrai conto). Dunque, poco distante, se-duto su di una panca comprata a Verona prima dell’avvento della lega, il nostro giovane legge un libro.

Tutto il vociare, tutta l’allegria, tutte le musiche e le danze, si-lenziate da un libro con copertina morbida.

E, goccia che travasa, ignora Elisa.Elisa si stacca da tutti e da tutto, e si avvicina, tra il curioso e

l’arrabbiato, al giovane incosciente.Attende, nella speranza che questi si avveda della sua presen-

za. Finge un paio di movimenti. Fa cadere un fazzoletto. Recita un eccesso di calore. Infine, si siede sulla panca. Il giovane continua a leggere.

«Ciao. Mi chiamo Elisa e tu?»«Io mi chiamo Paolo. Ciao».«È un po’ che ti osservo. Sei qui a perdere tempo con questo

libro. Tutti qui siamo in allegria e stiamo festeggiando un nuovo rinato. Tu non vuoi dare il benvenuto al rinato?»

«Sono stato il primo a dargli il benvenuto. Ero presente nell’at-timo della rinascita. Siamo amici da diverse generazioni».

Elisa resta spiazzata. Non si aspettava una risposta del genere. Pensa che non ha fatto una bella figura con questo ragazzo. Anche per questo è un po’ arrabbiata. E infatti, quasi infastidita, riprende con una punta di astio:

«Che leggi? Come può la carta sporca d’inchiostro distrarti dal-la vita? Non vedi? Siamo in molti e ci divertiamo. Cosa te ne viene da una lettura con personaggi e storie irreali?»

Paolo chiude il libro e lo adagia con cura sull’erba.«Elisa, quello che dici è vero. I personaggi e le storie sono irreali

ma i vissuti che sono descritti appartengono alla grande anima

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universale. L’autore non è altro che un cronista. Qui -indicando il libro - vi sono le storie di ognuno».

«Sarà così», ribatte Elisa, «ma a che serve che la storia di ognu-no sia lì, quando possiamo viverla qui? In fondo, il libro, una volta letto, viene riposto sugli scaffali di una biblioteca e lì rimane, come affacciato a una finestra».

«Come i ricordi?»«Ecco, vedi? Hai afferrato il senso. Lascia stare il libro e vieni

con me», dice Elisa, mentre si aggiusta una ciocca di capelli che il vento sta schiaffeggiando senza violenza.

Paolo riprende il libro che aveva riposto sull’erba, lo apre, ne carezza le pagine, riprende la lettura; poi, con molta calma e sop-pesando le parole, dice a Elisa:

«Un saggio disse che il passato è composto da fogli di diario strappati che nessuno può più leggere».

«Quel saggio bevve troppo Fiano di Avellino», ribatte pron-tamente Elisa. «Perché continuiamo a battibeccare come galletti? Siamo giovani. Andiamo a divertirci».

«No, grazie. Preferisco il mio autore». Così dicendo, Paolo si alza, si spolvera e si toglie di dosso qual-

che filo d’erba, si ricompone, si dà una schiarita alla voce e, rivolto a Elisa, la saluta con garbo e forse un filo d’ironia.

Vi siete mai accorti del cambio delle stagioni e del conseguente mutamento dei colori? Vi siete mai accorti di quelle nuvole ripiene di acqua in tempesta? O dell’approssimarsi di un vento improvvi-so? Bene, se siete stati testimoni di queste immagini, sappiate che non sono nulla in confronto all’improvviso cambio dei colori sul viso di Elisa.

Tutto questo avviene mentre dietro a una finestra, in fondo al viale principale, un vecchio ride in modo inusuale.

Ride come un ventenne, osservando i ballerini che si scontrano o si calpestano i piedi l’un l’altro.

In effetti, a ben considerare, solo dietro le persiane si può riderecosì di gusto. Invidio questo vecchio.

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Fermi tutti. Ho una considerazione da fare: se sono io l’auto-re di questo libro, mi domando… ma da dove cavolo sbuca fuori questo personaggio?

Nei miei appunti non c’è nessun vecchio e le mie dita non han-no digitato lo schizzo di questo vecchio.

Io non l’ho abbozzato, né lo sto abbozzando,Sto scrivendo di Paolo ed Elisa. Non ho memoria nemmeno di

averlo pensato o descritto a qualche amico.Comunque, è inutile che stia qui a pormi domande.Questo è un romanzo di fantascienza e tutto può accadere, an-

che che un vecchio compaia e scompaia senza chiedere il permes-so a chicchessia.

Io riprendo la mia storia come se nulla fosse accaduto all’infuo-ri di quello che sto trascrivendo.

Ritorno quindi a scrivere di Paolo il quale passeggia lentamen-te lungo uno dei viali alberati di Etrom, osservando le pietre del sentiero sterrato che, poco distante, s’inerpica fino a salire sulla collina della città. Guarda il movimento dei rami e la danza delle foglie mosse da un leggero vento. Di tanto in tanto, alza lo sguar-do al cielo e, come a voler bere tutta l’aria fresca della sera, tira su dei gran sospiri.

Un’ombra, ogni tanto, viene rischiarata dalla luce lunare e se ne intravede la figura. Sicuramente è Elisa. È strano che Elisa stia seguendo Paolo. Non c’è filo logico apparente, a meno che non si voglia disturbare i proverbi del tipo “chi batte ama”. Che faccio? Li disturbo?

Elisa ha tutto: bellezza, giovinezza, un corpo splendido, una innata simpatia e un sorriso che, a volerlo descrivere, non si tro-vano parole. Perché mai Elisa, quatta quatta, lemme lemme, sta pedinando Paolo? Il giorno che io o altri si riesca a svolgere il cru-civerba delle donne, buona parte dei misteri dell’universo si ridur-ranno a una sgroppata su di un cavallo a dondolo.

Elisa sta dunque seguendo Paolo che sta tornando a casa.Paolo è appena entrato in casa, accende le luci dello studio e,

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qui sotto, in strada, posso vederlo mentre va a sedersi alla scri-vania. Accanto a me, anzi, un po’ in disparte, vicino al cancello d’ingresso, c’è Elisa e ha una strana luce negli occhi. Una luce che, se ricordo bene, ho già intravisto in personaggi di altri libri e di altri autori. Per intenderci, quella luce che fa rimbambire l’anima e rincitrullire il cuore.

Non molto lontano da qui, dietro a una finestra che non do-vrebbe appartenere a questo libro, il solito vecchio continua a ri-dere come un ventenne.

La città dorme. Domani, lo sanno tutti, sarà una giornata dif-ficile.

Oggi Etrom è invasa dagli stranieri e i cittadini si sono rintanati o, se volete, rifugiati nelle loro case.

I turisti, gli stranieri, sono sempre i soliti. Arrivano di mattino presto dei giorni feriali e, sedendosi vicino alle porte degli abitanti di Etrom, piangono e si lamentano. Li chiamano per nome; acca-rezzano le pareti delle loro case; mettono fiori dappertutto, rico-prendo le loro targhette, i loro civici e, talvolta, anche i motti delle loro casate. Quello che però dà veramente fastidio è il chiasso che fanno. Dopo poche lacrime e molti lamenti, incominciano a parla-re ad alta voce, chi per il sugo del ragù che si deve ancora cuocere, chi per un calcio di rigore assegnato alla solita squadra nota, chi per quella legge che non è uguale.

Un bailamme che diventa fastidioso come il ronzio di una zan-zara. E i giardini? Immancabilmente, gli stranieri calpestano l’er-ba curata con tanto amore. Perché? Perché questa gente riesce a passare dai confini colabrodo? Basta con questi extra-etrommiani! Che se ne restino a casa loro! Bisogna costruire le panchine come nella città di Verona.

Ma la sera, come tutte le sere, finalmente è arrivata e, dal balco-ne del palazzo comunale, si affaccia benedicente il sindaco.

«Concittadini!», grida, non prima di essersi schiarito la voce «Tutti voi sapete della mia onesta e indiscussa capacità di risolve-re i problemi della nostra città. Io vi prometto che legifereremo in

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modo che questa gente non possa più entrare senza permesso di soggiorno. Creeremo il reato di clandestinità e di diversità. Non tollereremo più che vengano a calpestare le nostre aiuole, né che vengano a sedersi sulle nostre panchine.

«Concittadini, penserò, dedurrò e provvederò.«Io e i miei consiglieri comunali, già da adesso, studieremo

ogni iniziativa che possa servire allo scopo».Così dicendo, guarda compiaciuto i consiglieri che, a loro vol-

ta, sorridono e chinano la testa, in segno di assenso e di complicità.Poi riprende a parlare, facendo in modo che i gesti delle mani

coincidano e s’intonino con le vibrazioni della voce, in un matri-monio di gesta e suoni mai celebrato prima.

«Abbiate fiducia in me: non vi pentirete di avermi eletto sin-daco. Io vi prometto solennemente che, finché non avrò trovato il giusto rimedio, non chiuderò occhio, né orecchio e né, tantomeno, bocca».

Si incomincia a udire, tra lo sguardo imbarazzato del sindaco, qualche fischio che proviene dalla folla. E il sindaco, che fesso non è del tutto, capisce che è il momento di cercare una conclusione, anche affrettata, e di levare le ancore.

E quindi conclude. Non riceve però nemmeno lo straccio di un applauso.

Insieme ai consiglieri si reca in tutta fretta nello studio comu-nale e, dopo aver letto e riletto il discorso così meticolosamente preparato insieme a tutta la giunta, e non riscontrando nessun difetto nell’impostazione sia del testo, sia della gestualità, e non trovando nessuna incertezza nelle virgole e nei punti, conclude dopo attenta analisi:

«La cittadinanza è impazzita!»Ma lasciamo il sindaco alle prese coi suoi ragionamenti un

poco insipidi e giriamo un po’ per le strade di Etrom.Gli innamorati, mano nella mano, passeggiano lungo le rive

del fiume. Alcuni si siedono sulle panchine e amoreggiano. Altri si accontentano di vedere qualche rana gracidare. Altri ancora si

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addormentano, uno con la testa sulla spalla dell’altro. E molti altri invece tirano calci a un pallone.

I lampioni della città illuminano viali, strade e stradine, e i ri-flessi delle luci colorano l’erba dei prati.

Nelle case, la gente è affaccendata chi con pentole e tegami, chi con la pagina che non si piega di un giornale, chi con i bottoni di una camicia. Sono immagini di un quotidiano sereno. In tutte le case, in varia misura e con varia intensità, comunque vengono donate carezze e qualche bacio. Anche l’allegria e la musica non mancano.

Soltanto sulla collina c’è qualcosa che non va. Come un vento di tristezza giunge un lamentoso canto d’amo-

re.In Etrom i suoni non hanno bisogno di essere suonati ma na-

scono spontanei come fiori nei campi.Sulla collina c’è un giovane poeta che accartoccia foglietti scara-

bocchiati con uno o due versi e poi cassati con inchiostro doloroso. Sta piangendo una ragazza che sembra abbia smarrito l’anima e l’abbia abbandonato.

Tutto questo accade mentre, nella casa del vecchio senza nome, un gatto attende silenzioso, acquattato. È in posizione di assalto e con gli occhi luccicanti ammira un topolino timido che fa capolino da un buchetto della parete di legno.

È una breve attesa: un guizzo, una zampata veloce come la lama di un fioretto, e il topolino timido si ritrova il corpicino scom-posto in due parti.

Il gatto ha un nome. Anche il topo ne possiede uno. Il vecchio conosce i nomi di entrambi e… scoppia a ridere in quel suo modo inusuale.

È un mattacchione. Mi piace questo vecchio.

Il giorno dopo, cioè adesso, Etrom, tralasciando le ore del solito assalto degli stranieri, è vissuta al solito modo; tuttavia, la picco-la campana del municipio suona i rintocchi della chiamata, quelli

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cioè che si usano per radunare i cittadini, dopo averli assicurati che gli stranieri sono andati via.

Li vedo radunarsi sotto il balcone del Municipio. Sembrano i Montecchi quando vanno dai Capuleti. Il sindaco legge il consue-to discorso giornaliero che non riporto perché è inutile come tutti gli altri discorsi. Dico solo che, al solito, egli cerca di far collimare i movimenti delle mani con i suoni che gli escono dalla bocca. E, al solito, in questo momento, attende con un cattivo presentimento che gli tormenta l’anima e gli scava buche nel cuore, attende che qualche applauso si stacchi dalla folla e corra verso le sue parole.

Ma, ancora una volta, per un’oscura e inspiegabile causa, gli applausi restano fermi e immobili tra le palme delle mani.

I cittadini, parlottando del più e del meno, si stanno allonta-nando e, formando gruppi, prendono ognuno direzioni diverse.

Paolo, seduto sull’erba (il fatto è che sono arrivate le panchine da Verona, e molti cittadini non sono d’accordo con questa politica dei respingimenti) perché contrario alle nuove panchine e sotto il solito albero secolare, legge il libro, quel libro, il suo libro. Fortuna o sfortuna vuole che Elisa si trovi a passare (sempre e solo per unfortuito caso) da queste parti.

«Ciao, Paolo», dice e non gli sfugge il libro. «Il tuo libro mi sta diventando antipatico. Le pagine sono dure, le scritte poco nitide: leggi di cose che sarebbe meglio vivere. Misura pure la carezza di una mano e la rudezza della carta. Non c’è paragone».

«Non dire sciocchezze», risponde, seccato, Paolo. «Le carezze, spesso, non hanno bisogno del calore di una mano: possono di-scendere nell’anima anche attraverso un rigo di poesia».

«Credi siano sciocchezze le impronte dei baci? Credi che sia stupido ascoltare, vedere e vivere il fremito di un attimo d’amo-re?», insiste Elisa.

«Non ho mai detto questo», ribatte Paolo. «Dico solo che l’amo-re non è né un ciondolo, né un accessorio del corpo. L’amore non è un gioco. L’amore è un verbo da coniugare con rispetto. Non come fai tu che lo impoverisci con immagini che non gli appartengono».

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«Può darsi che io non sappia cos’è l’amore, ma tu non sai cos’è la vita», risponde prontamente Elisa. «Perdi tempo con l’inchio-stro di un autoruncolo da strapazzo. Cosa credi possa darti un po’ di macchioline appuntate su quelle righe?

«Credi a me, Paolo, la vita può fare a meno delle teorie. Io vivo e questo è il mio credo, la mia religione».

«Un po’ di lettura e qualche verso di poesia non sottraggono niente alla vita; anzi, credo l’arricchiscano. L’autoruncolo è dentro e fuori queste pagine. Bussa alla nostra porta, ci recapita un po’ della sua fantasia, ma lascia a noi il compito di elaborare le parole e trasformarle in immagini vive e pulsanti».

«Ma che dici?» Elisa sbottona appena un po’ la camicetta colo-rata e si lamenta per il caldo. «La vita va vissuta attimo per attimo. La vita è nel sangue che fluisce lungo il corpo. Nei fremiti e negli appagamenti. Nell’incontro tra due corpi e nei suoni che ne nasco-no. Non posso darti ragione, né ascolto. Quello che tu pensi della vita a me arriva come un fumetto dai tratti scolastici, infantili, in bianco e nero: accennato e non finito».

Elisa comincia a slacciarsi del tutto la camicetta per poterla sfi-lare ma Paolo non gliene dà il tempo e, facendosi forza, trattiene le violenti pulsazioni che gli percorrono il corpo.

Rimanda indietro un sì strozzato, e lascia Elisa con la camicetta tra le mani e una smorfia di desiderio dipinta sulle labbra. Abban-dona il prato e l’albero e si dirige verso il centro del paese.

Elisa resta sola. Non sa se piangere o gridare. Gli occhi comun-que hanno strane umidità affacciate sulla soglia delle ciglia. S’in-cammina quindi verso la piazza. In piazza, un gruppo di giovani si è impadronito del busto di gesso del sindaco. Lo ha posizionato su di una pietra e lo usa a mo’ di bersaglio: un fitto lancio di ver-dure, le più disparate, da carote a melanzane, da cetrioli a pomo-dorini pachino.

E, adesso che è arrivata Elisa, l’euforia aumenta e si alzano di conseguenza anche i decibel delle grida di esultanza ogni qualvol-ta viene centrato il bersaglio.

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Il Sindaco, suo malgrado, si alza dal letto, indossa la vestaglia color rosa con su disegnati pupazzetti e si affaccia alla finestra di casa. La prima ad accorgersi di questa stupida tattica adottata dal sindaco è Elisa e, in men che non si dica, giudicando molto più divertente sostituire la statua di gesso con l’originale di carne, prende un pomodoro san marzano, mira con cura e… splash. Il pomodoro s’infila in quella gola che si preparava a partorire una o due parole di biasimo.

Il sindaco sospira, deduce e sospira: «Benedetta gioventù!»Dopodiché ritorna a russare nel suo gran lettone arrivato ap-

posta dalla Russia.

Tutto questo accade mentre, nella casa del vecchio senza nome, questi ride in modo inusuale. Steso per terra, si contorce come un ventenne, tenendosi la pancia con le mani e coprendosi gli occhi col cuscino.

Questo vecchio mi preoccupa.Non si ride così a ottant’anni, neanche se si è cittadini di Etrom.

Elisa, conclusosi così il siparietto con le autorità, corre, guida e indirizza tutti lungo le strade della città.

E, corri che corri, arriva sotto casa di Paolo (la solita combina-zione) e, da lì, dirige come un direttore d’orchestra cori da stadio, da ultras dell’amore, senza orpelli e senza limitazioni.

Paolo da dietro la finestra la guarda tristemente.

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CAPITOLO III

La città trasborda di manifestanti urlanti che agitano cartelli come fossero randelli.

Etrom è un mare in tempesta e le onde/orde si accavallano, in-gigantendosi a dismisura.

Sui volti dei cittadini è colorata la rabbia, e sembra chiazzata come una tuta mimetica da combattimento.

Persino le mura delle case partecipano alla manifestazione: sono tappezzate da slogan e scritte.

«Basta!», tutti gridano. «Basta con gli stranieri! Così non si va avanti. Troppa confusione per le strade. Troppi clandestini. Via! Via la gente senza fotografia!»

Uno dice: «Devono essere quelli di Ativ a mandarci gli stranieri»Un altro rinforza: «Sì, che sono loro. È da quando siamo atterrati sulla Terra, che

questa gente è sbucata fuori».Un altro ancora: «Quelli di Ativ vogliono che ritorniamo agli antichi schemi, fa-

cendo in modo di trarre vantaggi per il sistema. Diverremo come una pubblicità sui cartelloni di Ativ».

Ognuno ha la propria teoria a riguardo ma tutti concordano che c’è lo zampino del pianeta madre.

Il sindaco, seduto dietro la scrivania, all’udire il frastuono che giunge dalle strada, pensa che i concittadini abbiano sempre vo-glia di scherzare e giocare.

«Chissà cosa si sono inventati, stavolta? Forse esagerano in questo continuo festeggiare. Va bene essere allegri ma, se questo diviene l’unico obiettivo della vita… Dai, mo’, ché ci sono anche cose più serie: il pesciolino rosso, ad esempio, ha bisogno di un acquario un po’ più grandicello».

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La folla nelle strade diventa sempre più numerosa e si snoda, come in una processione, a formare un lungo corteo di protesta.

D’improvviso accade l’imprevisto. Quello che non è scritto. Il vecchio senza nome, il personaggio fuori dalla trama, sorprenden-do tutti e manifestando una vitalità che non gli daresti, con uno scatto da centometrista, agitando un cartello, si mette a capo della colonna.

Mi avvicino per leggere meglio il cartello. C’è scritto:- Prova sfilata Carnevale -Grande sorpresa generale che assume proporzioni ancora più

esagerate, quando il vecchio, umettando le labbra e accostando l’indice e il pollice alla bocca, si produce in un rumorosissimo suo-no con molte p e diverse r.

Credo che in questo frangente nasca lo sberleffo che prende il nome di pernacchia.

Prima che la folla si riprenda dallo sbigottimento, il vecchio senza nome si dilegua nei vicoli di Etrom e fa ritorno a casa. Si affaccia alla finestra protetta dalle note persiane e incomincia a ri-dere a più non posso, in modo inusuale.

Intanto, il corteo prosegue il suo cammino, minaccioso seppu-re lento, verso il Municipio, e il sindaco, in un raro attimo di lu-cidità, realizza che il vociare non è per niente festoso e quindi, di conseguenza, decide d’intervenire.

Chiama a gran voce i consiglieri comunali: nessuno risponde. Sono tutti rintanati nelle case. Chiama allora le guardie municipa-li: nessuno risponde. Il corpo di guardia è un deserto nel deserto. Il Municipio è avvolto da una eclissi di corpi: non ce n’è uno nean-che a volerlo disegnare.

Lento, va verso il balcone e da lì osserva la folla che si avvici-na: ne avverte i rumori di guerra o, se volete, il chiasso sguaiato. Quindi suda freddo: lo vedo col suo grosso fazzolettone asciugar-si la fronte. La folla avanza, avanza, avanza, e questo fa paura. Fa spavento il fatto che la folla avanzi per davvero. Mille paure, cento balbettii, decine di sospiri a voler rubare l’aria che manca, e

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numerose sillabe mozzate all’origine, come a voler costruire una frase. Sembra quasi che nei cespugli d’erba si annidino i pensieri più violenti di Etrom. Il sindaco si paralizza e incomincia a temere per la propria vita: il fiume Oreisnep, lì vicino, scorre nel suo lento rinnovarsi e pronto ad aprire le porte che riconducono ad Ativ.

Ecco. Tutto sta per compiersi. D’improvviso, però, come da prassi scritturale, il cielo si fa cupo. La natura cambia umore. Un fulmine, seguito dal solito tuono, irrompe in questo teatro di guer-ra civile.

Ed ecco la pioggia: scende bella copiosa. La folla si disperde rapidamente e, in un battibaleno, tutto ritorna tranquillo come se niente fosse mai accaduto. Nelle case accadono le solite cose. Un padre che riprende il figlio per i voti scolastici al di sotto delle aspettative. Una moglie che chiede collaborazione per le faccen-de domestiche e un marito che continua a leggere il giornale. E il sindaco? Cavolo! È rimasto per un bel po’ pietrificato; poi, grazie ad alcune gocce di pioggia che si son messe a picchiettare sul suo naso, piano piano, come a risvegliarsi da un sogno poco piacevole, riprende coscienza di sé e, lemme lemme, si dirige verso la camera da letto, dove s’accascia nel lettone regalatogli da un suo amico russo.

Le ore son trascorse e il giorno lascia il posto alla notte. Etrom si addormenta.

I cittadini si svestono degli accadimenti della giornata e si ap-prestano a riposare anima e corpo, tra le bianche lenzuola di mor-feo.

Solo un vecchio resta sveglio. Forse pensa.

Ma ecco che giunge il cinguettio del mattino: le strade sono de-serte. Ancora nessuno s’intravede nelle vie: ne percorro una e mi ritrovo (per la verità ci sono andato di proposito) a casa di Paolo.

Il tempo, nei libri, non ha tempo: è veramente poca cosa. È mutevole come un elastico: corto o lungo, come più conviene. Un autore può giocare con esso come meglio crede. Perché divago su

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questo? Perché in quest’istante di scrittura sono stanco e ho caldo, e non mi va di proseguire a lungo con i preamboli di un innamo-ramento; per cui, così, di punto in bianco, scrivo di Paolo innamo-rato di Elisa.

Tralascio le cose risapute che accompagnano la nascita dei sen-timenti. Tralascio i vuoti che si creano nei respiri e l’ansietà delle attese. Tralascio l’andirivieni dei ragionamenti amorosi. Tralascio tutto quello che s’accompagna alla gestazione e al parto di un amore.

Paolo è innamorato ma non vuole assolutamente che il mondo leggero di Elisa prevalga sul suo: la vita non può ridursi a un cas-setto dove, alla rinfusa, vengono gettati i valori, i baci e le carezze. La vita si veste coi vestiti che vogliamo e, più questi hanno il pro-fumo di pulito, più le complicazioni si dileguano lungo i canali della sofferenza inutile.

È un assioma di assoluta semplicità, eppure di difficile attua-zione. Si preferisce sconocchiare i propri affetti e renderli simili a brandelli, per poi curarli e rappezzarli.

Si percorrono sentieri ripidi, impervi, strani, e il cuore spesso va in confusione dando, a volte, interpretazioni fuorvianti e che nulla hanno a che vedere con la verità di un bacio tenero e dolce.

Paolo si ritrova Elisa in ogni angolo d’anima.La vede anche nei pensieri più brevi.La sente anche nei rumori del quotidiano: nella porta che si

apre, nel fruscio della tenda, nei passi di uno sconosciuto vian-dante, nell’improvviso comparire del mattino e nel lento apparire della sera.

Ne ascolta la voce in ogni nota musicale.Eppure… eppure sa che non basta.Non basta a che l’amore possa vivere.Elisa ha l’anima in costruzione: mattoni e calce non ancora spo-

sati, e confusi o accatastati.Pareti con abbozzi di finestre da dove poter accogliere luce e

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calore, nonché vento e freddo, fino a quando non vi sia il filtro degli infissi e delle tende.

Elisa è a quel bivio di strada che spesso confonde e smarrisce l’orientamento.

E Paolo? Paolo l’ama già di un tenero amore ma sa che non basta.

Attenderà che Elisa, come crisalide, trasmuti e divenga, rina-scendo, cosciente della propria straordinaria e preziosa individua-lità.

Paolo guarda a lungo l’orizzonte, cercando di valicarlo col pen-siero e scorgere, di là, storie simili alla sua, con la speranza che ci sia un lieto fine per tutte le storie che percorrono l’universo.

Prende il suo libro riposto nello scaffale di legno e un brivido gli percorre il corpo.

Siede sulla vecchia poltrona e incomincia a leggere.

A qualche isolato in là e comunque non distante, Elisa si ap-presta a pettinare i lunghi capelli e, nel guardarsi allo specchio, si accorge di un sorriso affatto malizioso, anzi tutt’altro.

Un sorriso lieve, fresco come l’acqua che zampilla da una fonte di montagna; accennato e bello come l’acquarello di un artista.

Subito dopo aver provato queste strane sensazioni, d’improv-viso, la fronte si corruga e l’espressione del viso si corruga anch’es-sa.

Decine di pensieri spintonano per varcare per primi la porta del suo cuore ma, più o meno, tutti hanno il medesimo messaggio di fragilità.

Soffre nello scoprirsi disorientata e confusa, ma avverte nel contempo che qualcosa in Lei sta cambiando, che non è più la stes-sa, che le sue certezze di una volta sono diventate labili: sperdutesi in un tempo senza ritorno.

E tutto questo le si era rivelato in quel sorriso affatto malizioso; anzi, tutt’altro.

La fragilità le appare con le vesti più antiche e più nuove, dac-

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ché il tempo ha iniziato a esistere.La fragilità si chiama ancora amore.Ora tutti i contrasti le appaiono nella crudezza della loro sem-

plice evidenza.La maschera indossata cade e, insieme a essa, cade anche la pe-

sante armatura: sfrontatezza, ambiguità e carezze sperperate sono tutte lì, ai piedi di un’anima rinata e bella.

Elisa si ritrova Paolo in ogni angolo d’anima.Lo vede anche nei pensieri più brevi.Lo sente anche nei rumori del quotidiano: nella porta che si

apre, nel fruscio della tenda, nei passi di uno sconosciuto vian-dante, nell’improvviso comparire del mattino e nel lento apparire della sera.

Ne ascolta la voce in ogni nota musicale.Eppure… eppure sa che non basta.Non basta a che l’amore possa vivere.E allora bisogna che dalle sue labbra prendano vita i sorrisi

veri, e s’incamminino lungo i sentieri fioriti, quelli che anche altri sorrisi percorrono, gli stessi che s’incontrano per (come dice il po-eta) affinità elettive.

Sa che Paolo l’attende nella strada buona di quel bivio.Lei l’ama già di un tenero amore ma sa che non basta.E allora guarda l’orizzonte, cercando di valicarlo col pensiero

e scorgere, di là, storie simili alla sua, con la speranza che ci sia un lieto fine per tutte le storie che percorrono l’universo.

Siede sul divano rosso e lascia che una lacrima, piccola ma im-portante, scenda a inumidire le labbra.

Che baraonda in Etrom.Stamattina, per l’ennesima volta, gli stranieri invadono le stra-

de e i giardini.Vestiti per lo più con abiti scuri, fumano, discorrono, piangono,

sorridono, ridono, imprecano, ramazzano, sbranano panini, sbuc-ciano frutta, armeggiano coi tablet, conversano con gli smartpho-

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ne.Alcuni, persino, fanno lavori di manutenzione, come fossero

loro i padroni delle case.Gli Etrommiti, come si suol dire, ne hanno le sacche piene.Questi extrapaesani non hanno permessi di soggiorno, profes-

sano strane religioni, hanno carnagioni rosee, usi e costumi assur-damente diversi.

Arrivano a frotte e sono numerosi, troppo numerosi.Invadono gli spazi, siedono sulle panchine (per fortuna che ab-

biamo acquistate, da poco, quelle veronesi), bivaccano e… quella musica… quella musica assordante che ferisce le orecchie educate dei cittadini di Etrom.

Quella musica etnica e tribale, così lontana dalle melodie clas-siche.

Quel vocio incessante, continuo, lamentoso, simile al ronzio delle api.

Quell’assurda pretesa di essere figli della stessa terra.Un qualsiasi cervello acceso al minimo può costatare che si è

troppo diversi per essere uguali.Questo è lapalissiano ed è legge universale, per cui non si capi-

sce l’ostinazione di chi, contravvenendo alle regole, passa e spassa sotto quei balconi.

Cosa fare? I confini di Etrom vengono costantemente spertugiati.Non c’è controllo che tenga e gli stranieri entrano ed escono

con la stessa facilità con cui uno starnuto ti sorprende mentre reciti una poesia.

Cosa fare?Questi portano malattie infettive da tempo debellate.Che ne sappiamo dei loro veri intendimenti?Che ne sappiamo di come impiegano il tempo?Ci vorrebbe un’operazione di intelligence condotta con perizia

dagli SCIO SCIO (Servizi Coordinati Intelligence Oggi) che sbirci nei cervelli degli stranieri e che tragga informazioni utili al contra-

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sto e alla difesa contro la diversità.A lungo gli Etrommiti si sono illusi che con il silenzio e la non-

curanza si poteva sconfiggere l’invadenza degli stranieri.A lungo si è creduto che questi, prima o dopo, con la dignità

che è propria dei popoli evoluti, sospinti dai divieti, piano piano ma non troppo, ritornassero nei loro pertugi.

Bisogna agire.Terminato lo “sbarco” (sempre agli stessi orari) e giunta l’ora

solita dello sgattaiolare, gli stranieri si conducono, nemmeno or-dinati, all’uscita del grosso cancello come all’uscita dal supermer-cato: con passo svogliato e senza fretta.

(MOZART - Piano Sonatas KV 332-333-457 è la musica che per-corre la stesura di queste pagine del libro).

Allorché gli intrusi si sono dissolti oltre la cortina, si sparge si-lenziosa (il sindaco non deve sapere) la voce di riunirsi tutti in un piazzale poco distante dalla casa comunale.

L’assemblea si è formata in men che non si dica e ognuno espo-ne il proprio pensiero o convincimento.

Taluni fanno proposte.Altri si compiacciono di tali proposte.Altri ancora cincischiano con quello che sentono.Molti interrompono per dire:«Certo! Bene! Senz’altro! È così che si fa! L’avevo detto! Abbas-

so i rami degli alberi e viva il principio democratico! Non ci sono più le mezze stagioni! Con la luce si vede. Senza luce è buio pro-fondo!»

Ma le ore passano e l’inconcludenza regna sovrana.Ci vorrebbe un lampo.Un pensiero normale che travalichi l’ovvietà.Paolo è in disparte, con pollice e indice a coprire la bocca.Poi il pollice si attesta sotto il mento e l’indice copre un lato

del naso (Andrea docet), mentre l’altro braccio, piegato, si attesta

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a metà busto.È pronto.Schiarisce la voce.Prende la parola.«Amici.«C’è un solo modo, a mio parere, per sconfiggere l’invadenza

dei “carnerosa”.«Combatterli sul loro stesso campo.«Usare i loro sistemi.«Ho studiato a fondo questa gente e ho il convincimento che

essi, seguendo una bislacca teoria, credono di doverci cure e paro-le per aver contratto, in un passato che non esiste, debiti di affetto nei nostri confronti.

«Credono di avere avuto, in quel passato che non esiste, legami più o meno forti con ciascuno di noi.

«E molti pensano di non essere riusciti, in quel passato, a dire e a fare quello che comunque non possono più fare.

«Capite da soli che sono strane creature: quando avrebbero avuto la possibilità, se fosse esistito quel passato, di fare qualcosa, di avere cura di noi, non l’hanno fatto e, adesso che non possono più farlo, vorrebbero farlo».

«È proprio così. Paolo ha ragione», grida un paesano.«Certo che è così», grida un altro.«È indubbio che sia così», grida un terzo.Molte teste si muovono come a voler annuire e a confermare

la tesi.«Amici», riprende Paolo.«Questi hanno litigato col presente.«Nel loro sangue scorre la pazzia e, contro la pazzia, le armi

convenzionali si spuntano e non hanno efficacia.«Bisogna, come dicevo, combatterli sul loro stesso campo e

usare la loro stessa tecnica».«È proprio così. Paolo ha ragione», grida un altro paesano.«Certo che è così», grida un altro ancora.

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«È indubbio che sia così», afferma un sesto.Pacche sulle spalle e labbra compiaciute ancora una volta sotto-

lineano il consenso dei presenti.Riprende Paolo: «Gli extrapaesani sono, probabilmente, stati inviati da quelli di

Ativ, per corrompere il nostro sistema e farci rimpiangere la tran-quilla, moscia esistenza del loro modello di vita.

«Ma questo non accadrà.«La libertà scorre nel nostro sangue come la pioggia: inarresta-

bile, potente, senza catene.«Nessuno può deviarne il cammino né sospenderne le gocce.«Noi lotteremo con queste anime negligenti e faremo in modo

che ritornino su Ativ con i loro rumorosi suoni.«Canteremo e suoneremo musiche rumorosamente allegre e

imprevedibili: questo li stordirà, e confonderà ogni loro certezza.«Non sono pronti a sentirci esistere.«Oltrepasseremo i nostri confini e invaderemo a turno i loro

territori, le loro città, i loro giardini: questo per loro è follia e i folli temono la follia.

«Ci mostreremo in tutta la nostra consistenza: questo per loro è terribilmente pauroso, in quanto ci avvertono come immateriali e incorporei.

«Sono sicuro che, in questo modo, otterremo di allontanarli per sempre dalla nostra città».

«Ma per fare questo dovremmo uscire dalla città. Come è pos-sibile?», obbietta un cittadino dall’aria leggermente intellettuale.

Paolo si guarda intorno, dapprima incredulo, poi, scuotendo leggermente il capo e facendo riposare le mani sui fianchi, sorride al cittadino dall’aria leggermente intellettuale ed esclama, diver-tito:

«Apriamo il cancello e usciamo».Tutti ridono soddisfatti. L’indole degli Etrommiti. La loro fi-

losofia. La loro esagerata propensione all’ottimismo. Tutti i secoli di civiltà che scorrono nelle loro vene, come colpi di scalpello di

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uno scultore, tracciano i lineamenti di questa porzione di mondo sfuggita da Ativ. Ridono e sono felici. Basta aprire il cancello: sem-bra facile ma è come l’uovo di Colombo. Nessuno, fino a questo momento, aveva mai neppure prospettato una simile eventualità.

Ed Elisa? Elisa è turbata da questo ragazzo dalle doti non co-muni. È evidente che Paolo è una spanna sopra gli altri. E questo non è una buona cosa per un amore ancora non nato. Elisa si ri-trae, non crede di essere all’altezza.

Sciolta l’assemblea, i cittadini, dopo aver, almeno per cento vol-te, ripassato i concetti base del piano d’azione, si danno da fare e mettono in pratica per filo e per segno quanto trascritto sui fogliet-ti degli appunti che Paolo ha consegnato loro.

I carnerosa, dapprima pensano agli effetti di alcune medicine non proprio per la quale, ma, poi, rassicurati dalle case farmaceu-tiche, propendono più per l’effetto dello stress di vite condotte sempre di corsa. Le loro testoline, come contenitori ripieni oltre la loro capacità, vanno in crisi profonde. Nei loro libri di storia, in se-guito, racconteranno di menti fuoriuscite dai binari: di lettini con corpi in analisi. Molti psichiatri e qualche psicologo, si racconta, costruirono, col guadagno di quei giorni, palazzi quasi principe-schi. Fatto sta che i carnerosa da quel giorno non hanno più messo piedi in Etrom. A volte, è vero, se ne vede qualcuno, al di là dei cancelli rigorosamente chiusi, sventolare il fazzoletto in segno di saluto: tutto sommato, un modestissimo prezzo da pagare.

La vita è dunque ripresa a scorrere tranquilla. A volte, c’è il sole che, bussando alle prime luci del mattino, dà il buongiorno alla città. A volte, no. Adesso, per esempio, è la pioggia a farla da pa-drone. L’acqua piovana scivola lungo i canali e lenta percorre le stradine deserte. La natura segue lo stesso cammino dell’acqua. Foglie cadute, come barche, navigano fino a ormeggiarsi sotto un improvviso portico.

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Gli occhi dei cittadini, incollati ai vetri delle finestre, seguono, anche loro lenti, i cento piccoli rivoli che scendono lungo queste trasparenti mura.

Le anime fanno fatica a divincolarsi dalla tristezza.Gli occhi, poi: chi non confonde i cento piccoli rivoli con le la-

crime? Nella pioggia spesso viaggiano gli amori consunti o quel-li che son durati lo spazio di una notte. Spesso in queste gocce si ripara la morte. Quanti pensieri percorrono, come panni stesi tra una finestra e l’altra, il breve cammino che separa il cervello dall’occhio, rendendo entrambi tristi.

Perché piangi, Etrom?

Il vecchio burlone non è dissimile dagli altri ed è triste.Il sindaco, per la prima volta, scopre nei lineamenti che intra-

vede nello specchio l’espressione corrugata di un pensiero malin-conico.

I consiglieri comunali scoprono di avere un viso.I cittadini si accorgono che la loro città, alla luce del sole, ha

colori diversi e più allegri. Elisa, rinchiusa dentro casa, col men-to sorretto dal palmo della mano, rincorre immagini sospese tra sogno e realtà. Vede le proprie labbra baciare quelle di Paolo e, subito dopo, le vede cadere a terra per aver abbracciato il vuoto.

Il cuscino non è molto morbido ed è stranamente svogliato: ac-coglie senza calore un’anima stanca e delusa. Elisa si addormenta, stanca.

Paolo lascia cadere la penna sul tavolo e accartoccia il foglio su cui ha inchiostrato pensieri e meditazioni, e infine lo getta nel ce-stino, insieme ad altri fogli similmente accartocciati. Condannato dalla pioggia a passeggiare nervoso nei pochi metri quadri del suo studiolo, gli par di vedere sui muri ombre cattive che lo deridono e, come don Chisciotte, combatte contro di esse, non ottenendo risultato.

Perché piangi, Etrom?

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Ma eccolo! Arriva il vento. Spazza via il grigiore. Fa rotolare sul selciato

delle strade i barattoli vuoti.Si accorda con la pioggia e anch’esso dirige l’orchestra. I suoni

non sono più solamente quelli noiosi come nenie, ma si arricchi-scono con lo schiocco dei fulmini e il tambureggiare dei tuoni. Sì, è senz’altro meglio della pioggia lamentosa, questa piccola tempe-sta. Adesso molti possono anche addormentarsi. È meglio, molto meglio, il chiasso di una natura viva che il silenzio di una natura morta.

Il sindaco, tronfio per il grande successo sugli stranieri, si elo-gia e intanto si vede, novello condottiero, in ogni dipinto della sala consiliare e come statua a cavallo di futuri monumenti.

Mentre si appresta a entrare trionfalmente nella grande sala, provvisoriamente non ancora dedicatagli, tende l’orecchio in cer-ca di belle frasi su di lui: è sicuro che troverà una sala predisposta alla magnificenza.

E, d’altronde, come potrebbe non essere così? Anche i consi-glieri comunali, per via del principio di appartenenza, si conside-rano strateghi e generali al pari del sindaco.

La vittoria, indubbiamente, è dovuta all’azione comune del Co-mune.

Eccolo, pone piede sull’uscio. Entra. È vestito con la toga. Strin-ge tra le mani la spada della giustizia e della vittoria. Ha il capo cinto con la corona d’alloro. Con passo lento e maestoso, accom-pagnato dal suono di tromba di tre solisti, percorre i passi che lo separano dal trono: pardon, i passi che lo separano dallo scranno. Siede con studiato cerimoniale e con l’imponenza di un dio mino-re, pur se con qualche acciacco non dissimulabile.

Fumo e profumo d’incenso, insieme a coriandoli blu e rosa, svolazzano in festa.

Il sindaco guarda compiaciuto l’immensa folla. Il sindaco ri-guarda compiaciuto l’immensa folla.

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Il sindaco si accorge che la grande sala è vuota.Guarda i suoi consiglieri e cerca nei loro sguardi qualcosa che

lo possa tranquillizzare ma da quei visi non traspare nessuna emozione. Probabilmente sono presi da problemi più grossi. Di certo, comunque, non sembrano capire la tragedia in atto.

La cerimonia, a prescindere, procede solenne e, infine, giunge, appunto, alla fine.

Bisogna dire che i consiglieri, nessuno escluso, hanno applau-dito con forza e convintamente ma il sindaco è triste. Vuole il con-senso dei suoi cittadini e aspetta. Aspetta senza smettere di aspet-tare.

«Verranno. Certo che verranno», pensa e ripensa, si dice e ridi-ce. «Verranno sicuramente».

Ma passano i minuti e le ore.Passano la notte, il giorno. Ritornano la notte, il giorno.Egli è sempre lì, sullo scranno, che aspetta, a dispetto di minu-

scole ma fastidiose ulcerazioni che gli rivestono il deretano.Il tempo che si vive nei libri, come abbiamo già detto, ha un’im-

portanza relativa. Sappiamo tutti che in due parole, e anche meno se si vuole, si possono far trascorrere senza affanno per il lettore, ore, giorni, secoli, però… però le situazioni possono appesantire e dar fastidio. Quindi, per non tirarla per le lunghe, d’improvviso, il sindaco scoppiò in un pianto dirotto e rumoroso.

Alcune incrostazioni, causate dalla spending review, si stacca-no dai muri, e qualche vetro si frantuma a causa dello straziante pianto. A nulla valgono le rassicurazioni dei consiglieri.

A nulla valgono le barzellette piccantine.A nulla servono le capriole e le piroette di qualche guitto occa-

sionale.Il sindaco piange senza ritegno e implora la morte come quelle

figure epiche delle nostre letture scolastiche.E, per procurarsela, si getta giù dallo scranno.Si tuffa nella fontana della piazzetta antistante il municipio.Ingoia dieci pasticche di caramelle al latte.

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Fa di tutto ma la morte non l’accoglie.Allora si dispera ancora di più e i consiglieri, non sapendo più

che pesci pigliare, gli costruiscono degli aereoplanini di carta, que-gli aereoplanini che essi stessi, nei momenti più drammatici delle situazioni più tese, usano per distrarsi dagli affanni e dalle fatiche.

E, finalmente, il sindaco sorride. Si asciuga i grossi lacrimoni dal suo bel faccione e, sorridendo, regala una sua perla di saggez-za:

«In fondo, tutti i grandi sono stati incompresi. Nemo profeta in patriae sunt. Ai posteri l’ardua sentenza».