PROJECT WORK SVILUPPO DELLE ABILITÀ PSICOLOGICHE … zaccara-siligo... · privati il lavoro di uno...
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2° CORSO PER TECNICI NAZIONALI DELLA FIT CON VALORE DI ALLENATORE DI QUARTO LIVELLO EUROPEO CONI - FIT
Anni 2004/2005
PROJECT WORK
SVILUPPO DELLE ABILITÀ PSICOLOGICHE PER IL GIOVANE TENNISTA DI ALTA PRESTAZIONE
Autori:
Riccardo Fortunati, Davide Majocchi, Vittorio Siligo, Gianluca Zaccara
Tutor:
Dott. Massimo Di Paolo
Roma, 8-9 novembre 2005
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INDICE INTRODUZIONE 1) L’ASPETTO MENTALE NELLO SPORT pag 8 1.1. L’aspetto mentale nello sport 1.2. Qualità psicologiche nel tennis agonistico: abilità di prestazione concentrazione; l’arousal; le abilità immaginative; 2) ABILITÀ PSICOLOGICHE DEL GIOVANE TENNISTA: PROBLEMATICHE E IPOTESI DI INTERVENTO pag 32 2.1. Questionario sulle abilità mentali somministrato a tennisti agonisti
under 2.2. Abilità psicologiche del giovane tennista agonista self-confidence; auto-efficacy; self-efficacy; fiducia in sé/autostima 2.3. Motivazioni: abilità o vittoria goal- setting/motivazione; automotivazione/visualizzazione; self- talk 2.4. Il ruolo di Maestro-allenatore 2.5. Gestione delle pressioni esterne e interne: stress e ansia fattori di stress; gestione dell’ansia 3) MENTALITA’ VINCENTE pag 74
3.1 Autostima e mentalità vincente 3.2 Interviste a giocatori professionisti
3.3 Aggressività e agonismo; 3.4 L’interpretazione dell’agonismo 3.5 Mental Training: Problematiche ed applicabilità
bioenergetica; respirazione nel mental training; rilassamento muscolare analitico e esercizi; tecniche idiografiche; concentrazione nel mental training; dialogo interiore; abilità immaginative
3.6 Esempi di mental-training: prima della gara, durante la gara e esercizi training dopo la gara
4) I RISCHI DELL’IPERATTIVITÀ: IL BURN OUT pag 115 4.1. Burn-out: definizione e sue origini 4.2. Come riconoscerlo: sintomi e cause 4.3. Un malessere che non ha età 4.4. Conclusioni e osservazioni CONCLUSIONI pag 130 BIBLIOGRAFIA pag 132
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INTRODUZIONE
Il tennis è il tipico sport individuale per il quale si richiedono delle
abilità psicologiche particolarmente sviluppate.
Purtroppo pochissimo tempo e scarsa attenzione vengono dedicati
all’allenamento di questo aspetto fondamentale della preparazione anche
se, presso alcuni centri tecnici regionali e nazionali FIT e in alcuni centri
privati il lavoro di uno psicologo e le sedute di “psicologia applicata”
rientrano già da tempo nella programmazione annuale d’allenamento.
Si sta dunque comprendendo che la strada per la crescita del giovane
tennista non passa attraverso il solo processo di
insegnamento/apprendimento di abilità strategiche, tattiche, tecniche e
fisiche tradizionalmente affidato a maestro e preparatore fisico:
l’acquisizione di una certa dose di autoconsapevolezza potrà rendere il
giovane in grado di raggiungere e mantenere, con il giusto grado di
autonomia, un alto livello di prestazione auspicabilmente ricco di
vittorie.
Attraverso il rafforzamento del suo carattere egli dovrà adattarsi a
svariate difficoltà quali ad esempio la capacità di gestire ansia e stress
generati da aspettative e richieste che sono o che sembrano essere troppo
“importanti” rispetto alla percezione di efficacia delle proprie capacità.
Riconoscere il valore di una maggior padronanza di sé e di crescita
dell’autostima sono tappe fondamentali per la formazione di un
giocatore in grado di prendere autonomamente e rapidamente le decisioni
più appropriate (caratteristica precipua del tennista evoluto che deve
agire sotto pressioni interne ed esterne di vario tipo).
L’attenzione e la concentrazione in uno sport individuale come il
tennis, open skill e “non a tempo”, sono altre qualità indispensabili da
allenare con tecniche ormai consolidate di mental training.
La spinta fondamentale viene, come in ogni situazione di apprendimento,
dalla motivazione fondata su vari desideri e bisogni: successo, vittoria,
miglioramento delle proprie abilità, essere apprezzato e rispettato,
superare i propri limiti e/o quelli dell’avversario.
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Naturalmente tali motivazioni, di cui si tratterà in seguito, devono essere
supportate ed alimentate da sentimenti ed emozioni positive che solo un
goal-setting (formulazione di obiettivi) ed un locus of control
(attribuzione di causalità) adatti, regolati ed equilibrati possono creare e
mantenere.
Non solo quindi la vittoria, ma una buona prestazione, la gratificazione
dell’allenatore per un “colpo” ben riuscito o anche il puro divertimento
possono essere ragioni di efficace rinforzo motivazionale
Nell’affrontare tale argomento occorrerà quindi esplorare a 360° i
pensieri che possono essere presenti nella mente di un giovane tennista
quando si allena, prima, durante e dopo il match e nei suoi rapporti
interpersonali.
Allo stesso tempo il ragazzo deve essere consapevole della necessità e
possibilità di possedere queste componenti psicologiche per raggiungere
buoni risultati; infatti, così come tutte le abilità, anche quelle
psicologiche devono essere programmate e allenate adeguatamente oltre
che autovalutate.
Condividiamo l’opinione di Angela Burton, esperta di tennis, che ha
definito molto chiaramente, centrando forse l’obiettivo, l’attività
psicologica del tennista: “Il benessere mentale è davvero la cosa più
invidiata dal momento che è la più difficoltosa da conseguire e di
conseguenza la più difficile da abbattere quando ci si scontra con essa”.
Individuando e trattando le principali abilità psicologiche di un giovane
tennista agonista speriamo di fornire una guida a tutti gli operatori del
settore.
I questionari sulle abilità mentali da noi somministrati ad atleti agonisti
under si fondano sull’assunto che, insieme ad una serie di capacità
mentali, come ad esempio il grado di attivazione psicofisica ottimale,
l’attenzione, la memoria, la concentrazione, la visualizzazione ed
altre, convivono e interagiscono varie qualità psicologiche pertinenti alla
sfera emotiva e della personalità quali ad esempio autostima, fiducia in
sé, auto-efficacia, motivazione fondamentali per una buona prestazione.
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Altrettanto importanti sono le emozioni suscitate dalla percezione, spesso
inesatta, che gli allievi hanno della realtà e delle situazioni filtrate dalle
loro esperienze: le reazioni, spesso sproporzionate o inadeguate,
investono e travolgono i ragazzi sia dal punto di vista mentale che fisico.
La capacità di controllo delle emozioni quindi è una qualità
fondamentale se si vogliono gestire adeguatamente le difficoltà di una
vita da sportivo e trarne gratificazioni e vantaggi.
Si profila quindi un quadro generale molto complesso dal momento che
quantità e qualità delle abilità mentali e psicologiche variano a seconda
dei soggetti e dell’allenamento, interagendo fra di loro in maniera tale da
rinforzarsi o meno a vicenda.
Inoltre ad ogni ricordo o situazione stressogena (richieste ambientali)
corrisponde una reazione mentale, biochimica e muscolare che è diversa,
(piacevole o sgradevole, favorente o inibente) da soggetto a soggetto e
che aumenta o diminuisce le capacità di prestazione.
A questo proposito è molto interessante ricordare la scala di IZOF che,
se utilizzata correttamente, consente all’atleta di conoscere quale sia il
suo livello di attivazione o funzionamento ottimale già prima del match
in relazione alle emozioni favorevoli o inibenti la prestazione, aiutandolo
a far crescere la fiducia in se stesso e nelle proprie capacità di affrontare
le situazioni in gara.
Lo sviluppo e l’uso appropriato di queste qualità mentali potrebbero
consentire a ragazzi con alti livelli di abilità e preparazione tecnico-
tattico-fisica, la realizzazione di una peak performance.
Ad esempio un ragazzo che vive in un ambiente familiare e sportivo che
abbia promosso una serie di esperienze autonome, anche se sotto
controllo, potrebbe raggiungere piccoli obiettivi ricavandone
gratificazioni, fiducia e affetti, sviluppare un buon grado di autostima,
sentir crescere il desiderio di misurarsi con nuovi ed interessanti compiti
aumentando la percezione di auto-efficacia probabilmente utilizzando un
self-talk positivo.
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Il supporto di un allenatore “sensibile” a queste problematiche garantirà
la formulazione di raggiungibili obiettivi a vario termine consentendo
all’allievo di vivere serenamente la propria esperienza tennistica.
A proposito del turbinio di sensazioni che investe i giovani al solo
ricordo di una gara creando uno stato di ansia, ci preme sottolineare che,
in un soggetto “preparato” e consapevole dei valori da attribuire alla
sfida, l’immagine o il ricordo dello schema vincente è nitido così come è
grande la sensazione di potenza (“ce la posso fare, la sfida è avvincente,
stimolante e divertente”).
Anche l’attivazione fisiologica è nei giusti limiti, la corsa e i gesti si
mantengono fluidi e non c’è irrigidimento muscolare, il battito cardiaco è
regolare, la sudorazione normale e la concentrazione e l’attenzione sono
focalizzate.
Tutto questo a sua volta, come in un sistema circolare, svolge una
funzione di rinforzo della volontà, della sensazione di auto-efficacia e
della concentrazione.
Al contrario, il soggetto bloccato dall’ansia, a causa di un’attivazione
troppo alta, mostrerà irrigidimento muscolare e scarsa lucidità tattica
oltre che una propensione al linguaggio interno negativo che, se
sostenuto da ricordi e immagini di basse prestazioni fornite in precedenti
simili occasioni proprie e/o altrui, probabilmente si tradurrà non solo in
una sconfitta del momento ma anche in un successivo stato di impotenza
appresa.
Purtroppo (o per fortuna…) negli incontri giovanili di tennis, sport in cui
il match finisce solo “alla stretta di mano”, il punteggio ha spesso un
andamento altalenante e quindi c’è la possibilità di “veder rimbalzare” da
un lato all’altro del campo le tipologie psicologiche che abbiamo sopra
descritto.
Bisogna tuttavia ricordare che non è importante che i motivi dello stress
e dell’ansia siano reali perché è l’allievo a percepire la situazione come
pericolosa.
Infine qualità psicologiche e caratteriali personali quali perseveranza,
calma, umiltà, rispetto delle regole, capacità di sacrificio, volontà, grinta
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e determinazione sono componenti altrettanto importanti e qualità
fondamentali e complementari di quelle fin qui elencate.
Il primo capitolo verte su alcune qualità mentali quali attenzione,
concentrazione, attivazione e immaginazione.
Oggetto di trattazione del secondo capitolo sono invece qualità
psicologiche – in reciproche interazioni – quali fiducia, autostima,
percezione di auto-efficacia, goal-setting, self-talk, motivazioni e
gestione delle emozioni.
Il terzo capitolo è incentrato sullo sviluppo della mentalità vincente e
sulle tecniche di mental training; il quarto e ultimo capitolo affronta il
rischio del burn out pertinente al problema dell’iperattività in ambito
sportivo.
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CAPITOLO 1
L’ASPETTO MENTALE
NELLO SPORT
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1.1 L’aspetto mentale nello sport
La concentrazione di Carlton Myers nell'esecuzione dei tiri liberi nella
pallacanestro, la capacità di Totti nel saper mantenere la calma al tiro di
un calcio di rigore, la forte motivazione che ha sostenuto Valentina
Vezzali nella conquista dell’ennesimo oro mondiale , l'abilità di Isolde
Kostner di eliminare i fattori di distrazione e di prestare attenzione solo al
percorso nel super gigante dello sci alpino: queste sono solamente alcune
delle caratteristiche psico-fisiche che contribuiscono al successo di un
atleta o di un'intera squadra e che portano al risultato. Quali pensieri
attraversavano la mente di Marco Pantani mentre compiva lo scatto
decisivo all'inizio della salita ? In questo caso il dialogo interno è un
fattore determinante per il conseguimento del risultato: le gambe
"girano", come si dice in gergo ciclistico, ma i pensieri dell'atleta sono
pensieri positivi, pieni di fiducia nei propri mezzi fisici e mentali. E
quanto conta la coesione di gruppo nel mettere a punto "il muro" in una
partita di pallavolo della nostra nazionale azzurra? Il fattore-squadra,
cercato e ricercato in allenamento, non è soltanto uno schema tattico
applicabile automaticamente, ma è soprattutto un fattore umano che trova
la sua forza nelle adeguate relazioni interpersonali fra gli atleti del
gruppo. Per vincere ci vogliono gambe, cuore e testa: la condizione fisica
e le capacità tattiche e motorie dell'atleta sono il fondamento su cui
costruire una buona performance, ma se aggiungiamo ad esse il controllo
emotivo sulle situazioni ed abilità mentali sviluppate ed allenate, si
pongono le condizioni necessarie per ottenere un buon risultato. Ma non
bisogna mai perdere di vista il concetto di uomo - atleta ; l'agonista non è
un robot, non è un gigantesco meccanismo sostenuto dagli sponsor e da
complesse manovre di tipo economico. E' un uomo, un uomo che ha
scelto di sfidare sé e gli altri, con i suoi punti deboli e le sue illimitate
potenzialità.
Gli aspetti mentali della prestazione sono stati da sempre oggetto di
costante attenzione da parte di atleti ed allenatori la constatazione che in
gara alcuni atleti sono in grado di ottenere risultati migliori rispetto ad
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altri dotati di maggior talento fisico suscitava, e suscita tuttora, interesse
e sorpresa, come del resto la realizzazione di performance eccezionali.
Una considerazione importante nel lavoro psicologico con gli atleti é che
essi sono, in generale, persone fondamentalmente “sane”, con le quali è
possibile effettuare un proficuo lavoro di sviluppo di abilità per
affrontare con successo l’impegno agonistico. Gli atleti hanno bisogno di
capacità fisico-motorie e psichiche sicuramente superiori a quelle di
persone non praticanti sport, per rispondere adeguatamente a richieste
che, soprattutto ad alto livello, arrivano al limite delle potenzialità
umane.
Per rispondere alle richieste di un qualsiasi sport, l’atleta deve dunque
sviluppare, accanto alle specifiche capacità motorie, particolari abilità
mentali, come quelle necessarie per affrontare lo stress elevato della gara
o controllare pensieri distraesti. E’ questa la ragione che spinge Martens
ad affermare che uno dei compiti primari della psicologia dello sport è
aiutare atleti normali a diventare “psicologicamente superiori”. Secondo
Nideffer, però, vi è stata una tendenza eccessiva a considerare gli atleti di
alto livello come persone dotate di capacità superiori alla norma o
addirittura anormali. In realtà bisogna considerate ciò che si intende per
normale. Se la definizione si riferisce alla media della popolazione, allora
le capacità e i comportamenti degli atleti di èlite si collocano al di fuori
dei confini “normali”, non solo per gli aspetti mentali ma anche per quelli
fisico-motori. Se invece si considerano i comportamenti dello sportivo
come accomodamenti a richieste specifiche, allora emergono le
sorprendenti ma pur sempre normali di adattamento umano.
In una sintesi di varie ricerche, Williams rileva la presenza negli atleti di
successo un alto livello di fiducia nelle capacità personali. Gli atleti
migliori credono in se stessi in misura superiore rispetto a quelli di minor
successo ed hanno anche maggiori capacità di concentrazione essendo
meno distratti da preoccupazioni inerenti il risultato o eventuali errori;
riportano un gran numero di pensieri, immagini, fantasie e sogni relativi
al loro sport con contenuto generalmente positivo, che aiutano a risolvere
eventuali problemi (cognitivi ed emozionali) collegati alla prestazione;
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presentano un livello di ansia più basso immediatamente prima e durante
la competizione, ed hanno una maggiore capacità di recuperare
prontamente la concentrazione dopo aver commesso errori.
Abilità mentali efficaci sono spesso acquisite dagli atleti per prove ed
errori, attraverso anni di esperienza. Ciò ha attratto l’interesse di molti
ricercatori che hanno così indagato le strategie spontanee utilizzate per
far fronte alle richieste della prestazione e della gara. La presenza di
pratiche mentali spontanee per il controllo dell’ansia e della
concentrazione (pensieri positivi, frasi affermative, tecniche
immaginative e di rilassamento, ecc.) è stata osservata in atleti esperti in
differenti discipline. Intensificazione dello sforzo, concentrazione sul
compito, ricerca di sostegno sociale, ristrutturazione cognitiva
(riconsiderazione del problema, analisi degli aspetti positivi, ricerca della
soluzione) sono strategie spesso utilizzate per affrontare lo stress.
Risulta, pertanto , chiaro che molti atleti utilizzano già per proprio conto
e il più delle volte senza allenamento specifico tecniche di preparazione
mentale che loro stessi considerano molto importanti. Tali procedure
personali e idiosincrasiche sono spesso originali ed efficaci. Per questo,
prima di proporre un programma strutturato di allenamento mentale
vanno studiate le esigenze e le abitudini del singolo atleta; prima di
applicare le tecniche, cioè, bisogna cercare di cogliere le componenti
uniche della situazione e capire le differenze soggettive nelle modalità di
sentire e pensare degli atleti. Ogni individuo, infatti possiede una “vita
mentale” molto particolare, con modalità immaginative e stili di pensiero
unici. Gli atleti dedicano un considerevole ammontare di tempo a
fantasticare su vari aspetti della loro prestazione in particolare in
prossimità della gara, durante la quale una varietà di ostacoli (avversario,
spettatori, responsabilità personali, aspettative, informazioni dei mass
media) si traducono in tensione, ansia e disordini psicomotori. I sogni ad
occhi aperti (day dreams) permettono all’atleta di: sperimentare ipotesi di
problem solving, senza subire conseguenze percepire in maniera più
sensibile e flessibile i bisogni degli altri attraverso la proiezione nelle
altrui situazioni e difficoltà, incrementare le potenzialità del pensiero
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creativo attraverso l’esplorazione di una vasta gamma di soluzioni
possibili, apprendere abilità, inclusi i compiti sportivi,superare la noia ed
imparare qualcosa di più su se stessi,aumentare le sensazioni piacevoli
rievocando mentalmente le esperienze gratificanti (Cratty e Davis). Il
contenuto dei day dreams costituisce dunque una sorgente importante di
informazioni per aiutare gli atleti ad elaborare strategie personalizzate di
preparazione mentale.
Anche se alcuni sembrano gia capaci di applicare spontaneamente
tecniche mentali, per la maggior parte degli sportivi proficuo o comunque
perfezionare metodiche specifiche. Parallelamente all’acquisizione ed al
potenziamento delle strategie funzionali, vanno estinti comportamenti,
pensieri ed emozioni disadattivi che ostacolano la prestazione o che
costituiscono motivo di turbamento.
E’ compito dello psicologo dello sport individuare le strategie più
rispondenti alle esigenze del singolo atleta. Va tuttavia sottolineato come
una corretta individualizzazione richieda spesso adattamenti e modifiche
anche radicali delle procedure standard, o anche l’elaborazione di nuove
modalità di intervento mai sperimentate prima.
Qualunque approccio lo psicologo dello sport scelga per il proprio
intervento, alcune indicazioni generali nell’applicazione di procedure di
preparazione mentale finalizzate all’incremento della prestazione
risultano comunque utili:
stabilire un clima di fiducia, indispensabile per una buona qualità della
relazione tra psicologo dello sport ed atleta;
rilevare i “punti forti” ed i “punti deboli” dell’atleta considerato
globalmente in riferimento alla sua attività sportiva;
applicare modalità di intervento eclettiche ed individualizzate;
coinvolgere nell’intervento non solo l’atleta, ma anche l’allenatore ed
eventualmente altre figure importanti;
elaborare un piano di intervento che, fissati gli obiettivi, registri anche i
progressi relativamente all’allenamento mentale;
utilizzare il programma in maniera sistematica, costante e protratta nel
tempo;
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sollecitare l’applicazione delle abilità mentali acquisite in allenamento e
gara;
favorire nell’atleta l’autonomia esecutiva nell’applicazione delle strategie
personalizzate.
L’adeguato sviluppo delle abilità mentali e motorie, necessarie per far
fronte alle richieste dell’allenamento e della competizione, deve mirare
alla realizzazione delle potenzialità personali e ad una maggiore
soddisfazione per l’attività sportiva. Ciò dovrebbe idealmente tradursi in
sensazioni di appagamento, competenza ed autostima capaci di esercitare
un’influenza positiva sulla vita quotidiana, andando al di là delle
soddisfazioni che comunque derivano dalla realizzazione delle proprie
risorse in ambito sportivo (Taylor).
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1.2. Qualità psicologiche nel tennis agonistico: le abilità
mentali.
Pur essendo riconosciuta l’importante relazione tra stati mentali e
prestazione, per molto tempo il mental training venne trascurato per
mancanza di conoscenze specifiche, o per l’erronea convinzione le abilità
mentali fossero innate. Nel corso degli anni, però, l’analisi più
approfondita delle tematiche ed i risultati della ricerca hanno modificato
la situazione: è apparso evidente che le abilità mentali, similmente alle
motorie, possono essere apprese, sviluppate e perfezionate; gli psicologi
dello sport hanno messo a punto a tale scopo procedure e programmi di
allenamento.
Martens distingue nella preparazione mentale le fasi di educazione,
acquisizione ed allenamento: gli atleti, innanzitutto, dovrebbero essere
informati circa la natura delle abilità ed i loro influssi sulla prestazione;
dovrebbero successivamente seguire un programma strutturato per
acquisire ed affinare le abilità da integrare poi nelle routine personali di
allenamento e gara. E’ anche importante che imparino ad applicare le
abilità apprese in condizioni di affaticamento e stress.
Vealey propone un approccio olistico all’allenamento che enfatizzi la
crescita della persona nella sua globalità. Suddivide le abilità mentali
finalizzate a migliorare la performance sportiva in abilità di base, di
prestazione e facilitatorie, e di metodi per conseguirle in metodi di base e
di allenamento (fig. 1).
Abilità mentali
• Volizione
• volizione
• consapevolezza di sé
• autostima
Abilità di base
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Abilità di prestazione • fiducia in sé
• arousal fisico ottimale
• arousal mentale ottimale
• attenzione ottimale
• abilità interpersonali
• gestione dello stile di vita
Metodi
• allenamento fisico
• educazione
• goal setting
• imagery
• rilassamento fisico
• controllo dei pensieri
Abilità mentali e metodi per conseguirle (Vealey, 1988)
Fra le abilità di base, la volizione può essere definita come la
motivazione interna verso l’azione o il desiderio di conseguire il
successo, mentre la consapevolezza di sé si fonda sulla comprensione che
l’atleta ha del suo comportamento e delle sue percezioni inerenti la
pratica sportiva. In questa prospettiva quando gli atleti hanno sviluppato
sufficienti motivazioni e consapevolezza di sé possono incrementare la
stima e la fiducia nelle proprie capacità, fattori critici per la performance.
Le abilità di prestazione sono quelle tradizionali enfatizzate da molti
psicologi dello sport, ad esempio per ottimizzare l’arousal e l’attenzione.
Le abilità facilitatorie, infine, non influenzano direttamente la prestazione
ma una volta acquisite agevolano il comportamento nello sport così come
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nelle altre aree della vita. La pratica motoria e l’educazione sono incluse
nei metodi di base; le abilità mentali, infatti, sono stimolate
dall’allenamento fisico e dalla comprensione dei processi psichici e
corporei che influenzano la prestazione.
Tutte queste abilità sono strettamente collegate tra loro e interdipendenti:
lo sviluppo di una qualsiasi di esse si riflette positivamente sulle altre. Ad
esempio, per mezzo della visualizzazione di scene adeguate non solo si
incrementano le abilità immaginative, ma si impara anche a controllare lo
stress della gara, elevare o diminuire il livello di arousal, aumentare la
concentrazione e rafforzare l’impegno per conseguire gli obiettivi.
Martens sottolinea come i benefici che derivano dall’allenamento di
queste abilità mentali di base possano essere estesi agli altri settori della
vita quotidiana, per realizzare al meglio le proprie potenzialità.
La concentrazione
Le capacità di controllare i processi motori e di pensiero e di dirigere e
mantenere l’attenzione su di un compito per una corretta esecuzione, in
relazione alle richieste situazionali, sono riconosciute come importanti,
sono riconosciute come importanti fattori per la prestazione sportiva. In
particolare, per la gestione dei processi attentivi l’atleta deve imparare a:
selezionare gli stimoli a cui rivolgere l’attenzione trascurandone altri non
rilevanti, spostare l’attenzione al momento opportuno verso informazioni
appropriate, mantenere l’attenzione sugli stimoli importanti.
La concentrazione è sostanzialmente la capacità di focalizzare
l’attenzione su di un compito per un certo periodo di tempo, senza essere
disturbati o influenzati da stimoli esterni e interni non pertinenti. Una
delle maggiori differenze tra lo sport di oggi e quello di un tempo sta, a
livello cognitivo, nella complessità delle informazioni che l’atleta deve
elaborare, in particolare negli sport di situazione quale il tennis. Rispetto
ad un tempo, insomma, sono aumentate molto le richieste elaborative a
cui l’atleta deve rispondere. Le operazioni cognitive, in sintesi, sono
costituite da:
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a) Raccolta di informazioni esterne ed interne attraverso gli organi di senso
(analizzatori) importanti per il movimento (visivo, uditivo, cinestesico,
vestibolare e tattile);
b) Elaborazione delle informazioni (confronto delle informazioni in entrata
con quelle già depositate in memoria; attivazione di processi decisionali,
scelta e programmazione della risposta);
c) Esecuzione e controllo della risposta.
L’atleta esperto è in grado di effettuare questi processi apparentemente
senza difficoltà, avendo imparato a controllare le operazioni cognitive,
stabilizzando il movimento nelle closed skill, adattando l’azione alle
circostanze relativamente non predicabili nelle open skill. Atleti abili
riescono senza sforzo, in maniera quasi passiva e automatica, a non
essere distratti e a non reagire a stimoli irrilevanti. Ciò dipende,
ovviamente, anche dal tipo di stimoli: distrattori predicibili e non inerenti
il compito sono più facili da affrontate rispetto ad altri inaspettati o non
familiari. La predicibilità dei distrattori permette il monitoraggio selettivo
dell’ambiente e la preparazione di una risposta di orientamento sensoriale
e motorio. Tale risposta è sostanzialmente una reazione automatica del
sistema nervoso per verificare se nell’ambiente vi sia qualcosa di
inusuale o inaspettato; si manifesta in particolare quando lo stimolo è
molto intenso o di dimensioni inusuali, è nuovo o in contrasto con quelli
prevalenti nell’ambiente, è in movimento.
L’attenzione è un fenomeno complesso, influenzato da molteplici fattori
che condizionano la capacità di utilizzare processi elaborativi: differenze
individuali, richieste specifiche della disciplina sportiva, livelli di
apprendimento e performance, situazioni ambientali, stati di arousal e
ansia. Uno stato ottimale di attenzione è conseguito quando l’atleta è in
grado di mantenere un adeguato equilibrio fra elaborazioni automatizzate
e controllate, in rapporto alle richieste del compito. Disturbi nei processi
attentivi si verificano quando fattori interni ed esterni determinano un
disequilibrio tra i due tipi di elaborazione. L’obiettivo dell’allenamento
delle abilità attentive è lo sviluppo di un’attenzione selettiva per gli
stimoli rilevanti, capace di ignorare le informazioni di disturbo, adattare
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il focus (nelle dimensioni ampiezza e direzione) e passare agevolmente
da elaborazioni controllate ed automatizzate (e viceversa) a seconda delle
necessità. L’atleta deve anche imparare a rifocalizzare rapidamente
l’attenzione quando necessario, evitando pensieri parassiti e distrazioni.
L’allenamento al controllo dell’attenzione è, secondo Nideffer, un
processo complesso che va favorito mediante:
1) il rilevamento delle capacità individuali di concentrazione;
2) l’analisi delle richieste particolari della prestazione è l’identificazione dei
problemi specifici ( ad esempio, la necessità di differenziare fra stimoli
rilevanti ed irrilevanti);
3) l’analisi delle caratteristiche situazionali o interpersonali che possono
interferire sulla concentrazione;
4) lo sviluppo di un programma di intervento appropriato che includa una
varietà di tecniche quali l’arresto dei pensieri, il centering, il
riorientamento dell’attenzione (modifiche cognitivo-comportamentali e
goal settino) e rehearsal mentale.
Il rilassamento somatico è spesso ritenuto un prerequisito per l’utilizzo di
tecniche immaginative e per l’incremento della concentrazione, dato che
i fattori di disturbo sono ridotti. L’orientamento dell’attenzione sulle
sensazioni corporee tende a sviluppare una certa sensibilità percettiva. La
rappresentazione mentale della performance in maniera vivida e
polisensoriale è tradizionalmente inserita in stato di rilassamento anche
per l’allenamento alla concentrazione; le visualizzazioni tendono a
canalizzare il focus attentivo su aspetti particolari della prestazione e su
informazioni rilevanti.
Le esercitazioni dirette a migliorare le capacità di concentrazione devono
essere proposte in base alle richieste particolari della disciplina sportiva:
se l’attenzione va focalizzata esternamente bisogna che l’atleta impari a
quali stimoli prestare attenzione e in quale ordine; se l’attenzione va
invece focalizzata internamente è utile sviluppare le percezioni corporee
inerenti il compito (rilevando ad esempio le sensazioni della muscolatura
in attività) ed individuare pensieri positivi indirizzati all’azione. Vanno
inoltre identificati, soprattutto negli sport di situazione, stimoli che
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facilitino l’interpretazione degli eventi e che condizionino la corretta
anticipazione delle risposte, la pianificazione e l’esecuzione delle
strategie.
Gauron propone una tecnica per aiutare gli atleti a sperimentare differenti
stili attentivi. Da seduti o distesi in una posizione confortevole sono
eseguiti, anche in sedute separate eseguenti passaggi:
1. focalizzare l’attenzione sugli atti respiratori. Respirare poi in maniera più
profonda e lenta, per qualche minuto, mantenendo petto, spalle e collo
rilassati. Ritornare alla respirazione normale e poi ancora a quella
profonda fin tanto che diventa confortevole, facile e regolare;
2. dirigere l’attenzione all’esterno a suoni e rumori, identificandoli e
classificandoli come passi, voci, ecc. Successivamente recepire i suoni
senza cercare di identificarli o etichettarli;
3. prendere coscienza delle sensazioni corporee, come i punti di contatto
con la sedia od il pavimento. Identificare o classificare le varie sensazioni
recepite, soffermandosi sulla qualità e sorgente di ognuna prima di
passare alla successiva. Registrare quindi tutte le sensazioni
simultaneamente, attraverso una consapevolezza corporea più ampia
possibile, senza identificarle o etichettarle;
4. riconoscere passivamente e senza sforzo emozioni, sensazioni e pensieri,
rimanendo in un atteggiamento di tranquillità. Riesaminare i vissuti, e poi
“svuotare la mente”. Se questa operazione risulta difficile, allora
sintonizzarsi su un solo contenuto mantenendo su questo l’attenzione;
5. aprire gli occhi ed osservare oggetti nell’ambiente utilizzando anche la
visione periferica. Ci si può raffigurare mentalmente l’apertura di un
ampio imbuto verso il quale dirigere lo sguardo per fissare un oggetto di
fronte a sé: gradualmente si restringe l’apertura in modo da percepire
solo l’oggetto, si espande quindi il focus percettivo molto lentamente in
modo da cogliere i particolari dell’ambiente. L’operazione è simile a
quella dello zoom di una macchina fotografica, attraverso il quale il focus
dell’obiettivo è ristretto o ampliato per fissare l’intera immagine o
solamente alcuni suoi dettagli.
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Schmid e Peper propongono attività per mantenere la concentrazione
suddividendole in strategie di controllo dei fattori distraesti esterni ed
interni. Tale divisione è piuttosto arbitraria, in quanto stimoli esterni ed
interni si influenzano continuamente; ma proprio a causa di questa
interazione il controllo di alcuni fattori distraesti può generalizzarsi ad
altri. Per la riduzione dei disturbi esterni è importante che l’atleta
sperimenti situazioni simulate analoghe a quelle riscontrabili durante la
gara, introducendo anche elementi apparentemente privi di rilievo, come
l’abbigliamento specifico, la voce dello speaker, le musiche, ecc. In
allenamento vanno inoltre proposte situazioni psicologicamente difficili
simili a quelle comunemente riscontrabili in gara o ancora più stressanti (
ad esempio, un calcio di rigore decisivo o un tiro libero dopo un time-
out). L’introduzione di fonti di disturbo, come rumori, spostamenti,
variazioni nell’illuminazione, ecc., è un altro modo per allenare
l’attenzione dissociandosi da stimoli distraenti esterni. Nel controllo di
segnali interni possono essere impiegati trigger attentivi, ossia stimoli
verbali e cinestesici prestabiliti finalizzati a dirigere e a rifocalizzare
l’attenzione. Essi vanno individualizzati e formulati in positivo,
ricercando cioè le attività da svolgere durante la prestazione piuttosto che
comportamenti o atteggiamenti da evitare. L’attenzione va inoltre rivolta
alle singole componenti della prestazione e alle operazioni da realizzare,
piuttosto che al risultato finale molto più arduo da controllare. Passare al
risultato è invece utile durante situazioni che stanno evolvendo
positivamente, per aumentare fiducia e motivazioni.
Una modalità per far fronte alla perdita di concentrazione dopo aver
commesso un errore è l’immediata correzione immaginativa,
trasformando mentalmente il fallimento in successo. In questo modo ci si
concentra non solo sui singoli elementi esecutivi da modificare, ma più in
generale su quello che deve essere fatto; vengono così ridotte le
possibilità di “ruminare” mentalmente sugli errori, con i giudizi di
svalutazione e biasimo che ne possono derivare.
21
Fig.1 André Agassi
Ulteriori procedure di allenamento alla concentrazione derivano
dall’impiego di tecniche di visualizzazioni e rilassamento mediante le
quali le attenzione è diretta alle sensazioni corporee e alla produzione di
immagini mentali. Anche le tecniche di biofeedback offrono un notevole
contributo; Boutcher propone di combinare tecniche di biofeedback, per
conseguire un focus attentivo ottimale, con la contemporanea
osservazione di un filmato della prestazione sportiva (che in questo modo
andrebbe a sostituire alle visualizzazioni); il biofeedback poi, nelle
discipline in cui è possibile, andrebbe applicato in circostanze reali.
L’introduzione di situazioni stressanti simili a quelle di gara aiuta l’atleta
a controllare l’attenzione anche in condizioni di disturbo. Questo
determina ripercussioni favorevoli nella gestione dello stress; se da una
parte il controllo dello stress migliora l’attenzione, dall’altra l’incremento
delle abilità attentive aiuta a ridurre lo stress.
Rituali di gara, infine, impiegati da molti atleti per evocare sensazioni
collegate alla prestazione ideale e per ottenere una buona concentrazione.
E’ importante inizialmente individuare questi comportamenti tipici,
attraverso colloquio ed eventuale trascrizione; se poi risultano adatti
22
vanno riprodotti in competizione al fine di aumentare le probabilità di
risposte ottimali. L’efficacia delle routine preparatorie dipende da almeno
tre fattori: miglioramento di controllo attentivo, attraverso orientamento
sugli indizi rilevanti e modulazione dell’arousal; “riscaldamento”
psichico e fisiologico (particolarmente importante in sport che prevedono
frequenti interruzioni); svolgimento automatico, riducendo il controllo
cosciente di ostacolo all’esecuzione motoria fluida e coordinata.
Boutcher propone di elaborare routine individualizzate prima, durante e
dopo la prestazione, capaci di stabilire condizioni mentali e fisiologiche
ottimali. Componenti singole fondamentali della routine sono le abilità di
rilassamento, immaginazione, percezione corporea,controllo dei pensieri,
ecc.; queste vanno combinate a formare strategie gradualmente più
efficienti e stabili, allenate in condizioni difficili e stressanti, applicate
con costanza. Altre procedure di preparazione sono presentate nella
seconda parte di questo libro.
L’arousal
E’ opinione diffusa fra atleti e allenatori che per affrontare
adeguatamente una prestazione sportiva sia necessario incrementare il
livello di attivazione dell’organismo, per ottenere, soprattutto in gara, la
“carica” indispensabile per rendere al massimo. Tale convinzione non
sempre risulta fondata: durante le competizioni, infatti, si può spesso
notare come atleti preparati e fiduciosi nelle proprie capacità siano
tranquilli e solo moderatamente attivati; essi sembrano anche in grado di
modificare il loro livello di attivazione psicofisiologica (arousal) per
rispondere adeguatamente alle richieste della situazione.
L’arousal viene considerato come una funzione che permette l’accesso
alle risorse energetiche dell’organismo per prepararlo in maniera ottimale
all’azione. In generale è stato riscontrato che qualsiasi sport o attività
motoria è necessario un livello di attivazione superiore a quello del
normale stato di riposo, ma non eccessivamente alto. Le prime riflessioni
teoriche riguardanti l’arousal erano centrate sull’idea di “mobilitazione di
23
energia”, durante situazioni particolarmente stressanti o fortemente
emotive, per difendere l’organismo attraverso la lotta o la fuga (la
cosiddetta sindrome “fight or flight”). La massiccia reazione del sistema
nervoso autonomo al pericolo percepito, che originariamente generava
risposte per la sopravvivenza, può ancora risultare utile in situazioni di
rischio o di emergenza. Ma questo non è ciò che accade normalmente nel
contesto sportivo: anche se la reazione di intensa attivazione è talvolta
efficace in particolari momenti della gara, l’atleta ha normalmente
bisogno di mantenere il controllo dell’arousal e delle proprie risposte.
L’autoregolazione è appunto la capacità del soggetto di modulare in
modo adeguato il livello di attivazione necessario per eseguire con
successo una qualsiasi prestazione motoria e sportiva.
Martens preferisce distinguere fra arousal, inteso come attivazione
globale fisica e mentale, ed energia psichica, riferita a vigore, vitalità ed
intensità del funzionamento mentale. Riconosce similitudini fra energia
fisica e psichica: come ci si allena per incrementare le risorse energetiche
dell’organismo,così ci si può allenare per migliorare le disposizioni
mentali. L’energia fisica influenza quella psichica e viceversa: ad uno
stato psicofisico ottimale corrisponderà una elevata energia psichica (un
atleta in forma sente meno non solo la fatica fisica, ma anche quella
mentale). Va ricercato dunque il massimo incremento di questo fattore
per il conseguimento degli obiettivi della prestazione.
Considerando entrambi gli aspetti organici e mentali, l’arousal è definito
come uno stato di attivazione fisiologica e psichica dell’organismo che
varia lungo un continuum fra sonno profondo ed intensa eccitazione. E’
uno stato “neutrale” che riflette l’intensità delle risposte dell’organismo
indipendentemente dalle emozioni vissute. Dal punto di vista teorico,
alcuni autori distinguono concettualmente fra arousal ed attivazione:
l’arousal è considerato come risposta del sistema nervoso agli stimoli in
entrata per preparare i processi percettivi, l’attivazione, invece, come
preparazione della risposta motoria alla fine del processo di trattamento
delle informazioni. In genere i due termini vengono comunque usati
24
come sinonimi, comprendendo i differenti livelli del processo elaborativi
nella risposta globale dell’organismo.
Il concetto di arousal va invece distinto da quello di ansia, anche se
queste due dimensioni indipendenti interagiscono tra loro. L’ansia può
essere considerata una dimensione cognitiva dello stato di attivazione:
definisce la sensazione soggettiva di tensione e di apprensione che si
accompagna ad un elevato arousal, con riferimento ad uno stato emotivo
negativo. Particolari richieste situazionali percepite come eccessive e
pericolose determinano reazioni emozionali negative, che si
accompagnano o associano facilmente all’attivazione del sistema nervoso
autonomo. L’ansia è considerata un costrutto multidimensionale con
componenti cognitive (preoccupazioni, pensieri ed immagini spiacevoli,
distrazioni attentive, ecc.) e/o somatiche (collegate direttamente
all’attivazione fisiologica).
Strutture organiche coinvolte nei meccanismi dell’arousal sono
localizzate a livello del sistema nervoso centrale (formazione reticolare,
ipotalamo, corteccia cerebrale, sistema libico, ipofisi), del sistema
nervoso autonomo e delle ghiandole surrenali. Sollecitazioni sensoriali
improvvise interpretate come segnali di pericolo o come stimoli
importanti ai quali reagire avviano risposte di attivazione a livello della
formazione reticolare. Il sistema reticolare agisce prontamente sulle
strutture corticali, che a loro volta attivano il sistema nervoso autonomo.
Questo determina il rilascio di catecolamine, adrenalina e noradrenalina
nel flusso sanguigno da parte della midollare surrenalica e quindi
l’attivazione generale dell’organismo. Le risposte di arousal sono
rilevabili attraverso misure elettrofilsiologiche (grado di tensione della
muscolatura scheletrica, frequenza cardiaca, ritmo del respiro, attività
elettrocorticale, conduttanza della pelle, ecc.), respiratorie,
cardiovascolari e biochimiche. In generale, uno stato di attivazione si
associa a: depressione elettroencefalografica delle onde alfa ed aumento
delle onde beta, aumento delle catecolamine nel sangue, incremento di
frequenza cardiaca, tensione muscolare, frequenza respiratoria, pressione
25
arteriosa, diminuzione della resistenza elettrica cutanea, causata dalla
sudorazione, e quindi aumento della risposta psicogalvanica.
Per l’atleta è importante conoscere il proprio livello di arousal associato
al rendimento ottimale e le sue fluttuazioni durante la prestazione. Questo
si consegue con l’esperienza, le esercitazioni, l’identificazione di
percezioni, emozioni e comportamenti associati alla prestazione ideale.
L’atleta deve imparare a mantenere il controllo dei fattori cognitivi
tendenzialmente fluttuanti (che condizionano il suo livello di arousal),
quali la presa di informazioni, la concentrazione, l’elaborazione degli
stimoli rilevanti, la risoluzione di problemi tecnici e tattici, il controllo
dei pensieri. I segnali di elevato arousal associato all’ansia si riscontrano
a diversi livelli: cognitivo, affettivo e comportamentale. Dal punto di
vista cognitivo possono comparire, soprattutto in prossimità della gara,
segni di diminuzione delle capacità attentive, tendenza alla distrazione e
dubbi sulle capacità personali; sotto il profilo fisiologico si notano segni
di reattività emozionale (volto arrossato, palmi sudati, pupille dilatate),
mentre a livello comportamentale si ha un decadimento della prestazione.
E’ quindi importante che l’atleta sviluppi le abilità e le strategie
necessarie per regolare le proprie reazioni psicofisiologiche. Il primo
passo, comunque, è riconoscere il grado soggettivo di attivazione
ottimale associato alla massima prestazione. Bunker suggerisce di
provare ad accrescere o diminuire sistematicamente il livello di arousal,
anche con esercitazioni motorie, osservando i relativi cambiamenti nella
prestazione. Se la performance migliora con l’incremento dell’arousal,
allora il livello iniziale di attivazione è inferiore a quello ottimale; se
viceversa peggiora, significa che il grado iniziale di arousal è già di per
sé troppo elevato.
Varie procedure di regolazione dell’arousal vengono apprese in uno stato
di distensione psicofisica. Tecniche di rilassamento si rivelano utili per
prendere coscienza della tensione muscolate a riposo e in attività, a tutto
vantaggio della prestazione; infatti, maggiore è la tensione muscolare non
controllata e più difficile diventa l’esecuzione motoria coordinata.
Nell’apprendere a decontrarre la muscolatura gli atleti sviluppano una
26
maggiore sensibilità verso le loro sensazioni e risposte corporee, così
importanti nell’attività motoria. Va ricordato, inoltre, come le tecniche di
rilassamento siano impiegate diffusamente dagli psicologi dello sport
anche per facilitare il conseguimento degli altri obiettivi della
preparazione mentale (miglioramento della concentrazione, sviluppo
delle abilità immaginative, incremento della fiducia nelle personali
capacità, ecc.)
Le abilità immaginative
Numerosi atleti di successo utilizzano le immagini mentali come aiuto
per la prestazione sportiva, riscontrando spesso che i lori risultati migliori
si verificano quando l’azione reale coincide esattamente con la relativa
rappresentazione.
Gli atleti utilizzano spesso e spontaneamente attività immaginative per
anticipare, rivedere, correggere la prestazione e per prepararsi al meglio
alla gara, anche senza che qualcuno abbia insegnato loro particolari
procedure.
Prima di un’esecuzione l’atleta può raffigurarsi le difficoltà, le
caratteristiche e le richieste del compito, ripetendo mentalmente tutte le
fasi dell’azione o solo alcuni fra le più salienti; se poi la durata della
prestazione è sufficientemente lunga, può concentrarsi su di uno stimolo
specifico o ripensare ad una strategia anche durante l’esecuzione stessa.
Al termine dell’azione, infine, le varie fasi del gesto possono essere
vissute mentalmente, rilevando eventuali errori da correggere oppure
ripetendo l’esecuzione esatta per rafforzarla in memoria a lungo termine.
L’impiego delle immagini è alla base di varie modalità di allenamento
mentale. La pratica mentale, cioè il “pensare” ripetutamente ad
un’attività, è variamente denominata come mental practice, mental
rehearsal, mental imagery, allenamento ideomotorio, ecc..
Diversi autori hanno individuato alcune specifiche condizioni che
facilitano l’allenamento all’imagery e rendono possibile un uso proficuo
delle visualizzazioni nello sport. Esse sono lividezza e controllabilità
27
delle immagini, correttezza delle immagini tecniche, allenamento
sistematico, atteggiamento ed aspettative, esperienza precedente sul
compito, attenzione ricettiva, direzione dell’immaginazione. Nello
strutturare programmi di allenamento mentale bisognerà considerare tali
variabili, assieme ad altre, quali l’età, capacità intellettive, personalità,
motivazioni, che coagiscono nello sviluppo delle abilità immaginative.
Pur basata prevalentemente sul ricordo degli eventi, l’imagery consente
anche di creare nuove situazioni mai vissute precedentemente
assemblando in modi diversi le raffigurazioni interne. Attraverso
l’immaginazione si riproducono o creano esperienze che vanno a
sommarsi o a sostituirsi a quelle concrete. Programmi di allenamento
mentale fondati sull’utilizzo delle immagini mirano a diverse finalità.
Apprendimento e perfezionamento di abilità motorie e sportive. L’atleta
principiante può formare una “bozza mentale” del gesto richiesto,
un’immagine approssimativa dell’abilità tecnica che poi si rinforza e
precisa gradualmente al procedere delle acquisizioni. Nelle fasi iniziali è
importante alternare l’immagine all’esecuzione reale per garantire il
feedback. L’atleta esperto può utilizzare le visualizzazioni per esaminare
criticamente tutti gli aspetti della prestazione, scoprire le cause di
eventuali errori e problemi, anticipare possibili soluzioni. Sono appresi e
perfezionati non solo i gesti tecnici, ma anche le modalità della loro
acquisizione: lo sviluppo di strategie consente un maggiore transfer di
apprendimento ad abilità simili. L’affinamento della tecnica viene
ricercato in tutte le discipline e diventa tanto più importante quanto più le
caratteristiche del gesto condizionano o determinano la prestazione. Gli
obiettivi dell’atleta cambiano comunque anche nel corso della stagione
agonistica: inizialmente sono spesso prioritari l’apprendimento e
l’affinamento della tecnica, mentre in fase avanzata di preparazione può
divenire più importante la preparazione alla gara.
Incremento delle capacità percettive. L’immaginazione aiuta gli atleti a
prestare attenzione agli stimoli sensoriali importanti della situazione
sportiva, ad escludere le informazioni irrilevanti e, in definitiva, a
28
diventare maggiormente consapevoli di quanto sta accadendo, per
rispondere in maniera sempre più adeguate alle circostanze.
Elaborazione e ripetizione di strategie di gara. Possono essere
visualizzate situazioni competitive, elaborate ed analizzate soluzioni di
tipo tattico. Ripetere mentalmente le strategie della gara, come ad
esempio la distribuzione dello sforzo nelle prove di fondo o una tattica
difensiva in un gioco sportivo, aiuta a rinforzarle e a consolidarle in
memoria, rendendole più efficacemente e rapidamente disponibili in
situazione reale.
Controllo delle risposte fisiologiche. Attraverso un allenamento
immaginativo adeguato vengono regolate funzioni corporee normalmente
involontarie, come il battito cardiaco, la pressione del sangue e la
temperatura della pelle. Il controllo di alcuni di questi parametri
fisiologici serve per modulare lo stato di attivazione prima e nel corso
della prestazione. Durante l’anticipazione mentale dell’evento il soggetto
può imparare a regolare il suo livello di arousal all’interno del range
ottimale; questo serve poi per facilitare la direzione dell’attenzione su
indizi e pensieri attinenti al compito, ed escludere distrazioni interne
(immagini e pensieri) ed esterne (stimoli ambientali). Il controllo delle
risposte fisiologiche favorisce, inoltre, il recupero di energie e capacità di
prestazioni dopo affaticamento fisico.
Allenamento di abilità mentali. Controllo dell’attenzione, gestione dello
stress, modulazione dello stato di attivazione, goal setting sono esempi di
abilità esercitabili con l’immaginazione. Effetti motivazionali, inoltre,
sono ottenuti attraverso scene di successo, nelle quali l’atleta immagina
vividamente se stesso eseguire in maniera ottimale e conseguire gli
obiettivi. I contenuti positivi delle scene gratificano il soggetto e ne
rinforzano il comportamento desiderato. Attraverso l’anticipazione
mentale è possibile prepararsi a qualsiasi evento, anche inatteso e non
familiare.
Recupero dagli infortuni. L’immaginazione può essere utilizzata per
controllare le sensazioni dolorose causate da un infortunio, nonché
accelerare i tempi del recupero e per mantenere le abilità tecnico-motorie
29
fino al momento in cui si riprende l’attività. La pratica fisica è
sicuramente efficace rispetto alla sola pratica immaginativa, ma
quest’ultima determina risultati migliori rispetto all’assenza di pratica.
Quando le possibilità di allenarsi sono limitate, è dunque vantaggioso
continuare a farlo almeno a livello immaginativo.
Nel proporre un programma di allenamento all’imagery, Vealey
considera importanti esercitazione finalizzate a conseguire: sviluppo di
immagini vivide, controllo delle immagini, incremento della percezione
di sé durante la prestazione sportiva. Ogni programma deve
corrispondere ai bisogni dell’atleta, senza essere troppo complesso o
noioso, e la scelta delle immagini va effettuata in funzione delle finalità
dell’intervento.
È importante, innanzitutto, verificare la disponibilità dell’atleta ad
utilizzare le immagini. Dal punto di vista tecnico va considerato l’impatto
che visualizzazioni di movimenti possono avere sull’elaborazione e
sull’esecuzione degli stessi, con riferimento ai processi neuromuscolari
automatizzati; dal punto di vista emozionale va sempre tenuto presente
che le immagini acquisiscono per ognuno significati ed effetti particolari.
Inizialmente è opportuno richiamare immagini di scene familiari
all’atleta, anche non sportive, per sollecitare le capacità immaginative.
Diviene così più facile introdurre visualizzazioni sportive specifiche,
scegliendo dapprima abilità o strategie agevoli da controllare, riferite ad
un ambiente stabile piuttosto che mutevole, e passando quindi a
concatenazioni di movimenti, abilità complesse, situazioni di
competizione.
Per l’apprendimento ed il perfezionamento tecnico è fondamentale che i
soggetti visualizzino i gesti in modo corretto, rispettando i parametri
esecutivi specifici e gli esiti positivi dell’azione. Si possono aiutare gli
atleti ad elaborare immagini appropriate, vivide e precise fornendo
istruzioni verbali chiare e dettagliate (adattate alle capacità di
comprensione individuali) e modelli esecutivi (filmati, fotografie,
osservazione diretta di altri, in particolare esperti). Con abilità complesse
è utile visualizzare il movimento a rallentatore, per isolare particolari
30
della prestazione, analizzarli ed eventualmente correggerli; non appena il
soggetto dimostra di aver compreso il movimento, la rappresentazione
mentale va riportata alla velocità reale. Se un atleta incontra difficoltà a
vedere se stesso eseguire, gli si può suggerire di visualizzare l’attività di
qualcun altro finché non sarà in grado di sostituirla con la propria
immagine. È importante che l’atleta in allenamento, durante l’azione
reale, impari a prestare attenzione a sensazioni corporee, soprattutto in
closed skill complesse, in modo da rafforzare l’immagine cinestesica
dell’azione. Vanno utilizzate visualizzazioni sia interne, vissute in prima
persona, sia esterne, come osservandosi dal di fuori. Le prime consentono
all’atleta di sperimentare percezioni simili a quelle della prestazione
sportiva, facilitando il transfer dall’immaginazione alla situazione reale;
le seconde favoriscono concentrazione, fiducia nelle capacità personali,
controllo degli stati ansiosi. In attività con elevate componenti
cinestesiche, dove è determinante la perfezione del gesto secondo precisi
parametri esecutivi, le sensazioni relative al movimento sono
fondamentali e va privilegiata l’imagery interna; negli sport situazionali,
nei quali la presa di informazioni esterne gioca un ruolo determinante e
di gesti tecnici vanno continuamente adattati a condizioni mutevoli, è più
conveniente un maggiore utilizzo di imagery esterna. Lo stato di
attivazione nel quale inserire le attività immaginative è, come si è visto,
in funzione delle caratteristiche del compito: per attività di precisione e
coordinazione fine, che necessitano di un basso livello di arousal, il
rilassamento può risultare la situazione più adeguata; per attività a
prevalente impegno condizionale, le visualizzazioni possono
accompagnarsi ad uno stato di attivazione. Infine, le visualizzazioni
devono coinvolgere le caratteristiche emozionali delle situazioni
immaginate, per controllare gli stati emotivi che condizionano, a volte in
modo determinante, la prestazione in allenamento e soprattutto in gara.
31
CAPITOLO 2
ABILITÀ PSICOLOGICHE
DEL GIOVANE TENNISTA:
PROBLEMATICHE ED
IPOTESI DI INTERVENTO
32
2.1. Questionario sulle abilità mentali somministrato a
tennisti agonisti under
Abbiamo pensato di sottoporre ottanta tennisti agonisti under di vario
livello, maschi e femmine, tra i dodici e i sedici anni appartenenti a
diverse regioni italiane ad un questionario elaborato dalla dottoressa
Gerin Birsa, psicologa dello sport dell’Università del Friuli.
Ci preme ricordare che hanno risposto al questionario non solo ragazzi
classificati ma anche i migliori under 16 maschi d’Italia quali Fioravante
e Intermoia, freschi vincitori con la Nazionale Italiana del “Torneo ad
Equipe” di Siviglia 2005, Papasidero, Abbondanzieri, Della Tommasina,
Crepaldi, Volta, Giannessi, Valletta e molti under 14 di spicco come
Speronello, Maiorano e Santonastaso.
Il questionario è formato da quarantadue domande a risposta multipla che
consente sia di rilevare dati interessanti sulla percezione che i giovani
hanno della loro vita sportiva e delle abilità psicologiche che ritengono di
possedere, sia di calcolare, assegnando dei valori numerici alle risposte,
quali sono le abilità mentali già sviluppate o da allenare delle 7 ritenute
fondamentali .
Presentiamo i risultati nei grafici 1, 2, 3 e 4 e in allegato 1 il
questionario somministrato, la raccolta dei dati, l’elaborazione delle
percentuali e i risultati sia dei singoli allievi che generali.
Come si può notare molte domande riguardano le fasi del pre-gara, della
gara e del post-gara incentrandosi a volte sugli aspetti mentali, quali
memoria, attenzione, concentrazione, attivazione, immaginazione, altre
volte su abilità psicologiche più legate alla sfera della personalità, quali
autostima, fiducia in sé, percezione di auto-efficacia, motivazioni di vario
tipo, controllo delle emozioni, self-talk positivo, gestione di ansia o di
stress.
Alcuni items sottolineano l’importanza della passione e del divertimento
durante l’attività sportiva giovanile che se fossero sempre presenti
potrebbero risolvere da soli tanti problemi che nascono da un’errata
33
percezione della realtà che altera il comportamento dei ragazzi rispetto
alle richieste ambientali.
Molto importanti ancora sono quelli che riguardano i rapporti
interpersonali con i compagni, con i genitori e con il maestro che, se
solidi, moralmente sani e rispettosi dei ruoli, risultano essere essenziali
per la crescita del giocatore.
Anche alcune domande riguardanti la volontà di adattarsi alle difficoltà o
di affrontarle con determinazione secondo il proprio modo di essere
(grado di assertività/aggressività) risultano essere molto interessanti
perché le risposte caratterizzano fortemente la personalità e il carattere di
un tennista giovane.
Si può evincere dai grafici che i tennisti under maschi non posseggono
ancora molta autostima forse per uno scarso controllo delle emozioni ma
si dimostrano, inaspettatamente, molto predisposti ad affrontare le
difficoltà e a resistere alle richieste ambientali.
I ragazzi che hanno già conquistato punti nelle classifiche F.I.T. o E.T.A.
pur non riuscendo a mantenere attenzione e concentrazione sempre
focalizzate dimostrano forti motivazioni alla pratica sportiva agonistica
mostrando carenze soprattutto nella gestione dell’ansia e nelle capacità
immaginative.
Interessante e curioso notare l’andamento a scalini del grafico 3 che
riporta i punteggi delle abilità mentali che posseggono i ragazzi rispetto
alla loro età e ci conferma le fasi di crescita.
Nei grafici 5 e 6, per completezza di informazione, riportiamo anche i
dati relativi alle femmine under e le differenze per sesso che contengono,
per chi fosse interessato, informazioni molto interessanti.
34
PROFILO GENERALE M/F
Gestione dell'ansia13%
Attenzione14%
Capacità immaginativa
13%
Livello motivazionale
16%
Assertività - aggressività
14%
Gestione dello stress16%
Autostima14%
Autostima
Gestione dell'ansia
Attenzione
Capacità immaginativa
Livello motivazionale
Assertività - aggressività
Gestione dello stress
Grafico 1
7 15 28 3U12 U14 U16 U16 U16 tot U18
Autostima 147 303 487 90 577 61Gestione dell'ansia 130 272 442 93 535 62Attenzione 152 269 443 124 567 66Capacità immaginativa 137 265 393 127 520 60Livello motivazionale 146 348 489 158 647 69Assertività - aggressività 138 285 432 147 579 63Gestione dello stress 162 345 498 150 648 77
0,867925 0,716981 0,471698 0,943396
7 15 28 3 53U12 U14 U16 tot U18 TOTALE
Autostima 147 303 577 61 1088Gestione dell'ansia 130 272 535 62 999Attenzione 152 269 567 66 1054Capacità immaginativa 137 265 520 60 982Livello motivazionale 146 348 647 69 1210Assertività - aggressività 138 285 579 63 1065Gestione dello stress 162 345 648 77 1232
Grafico 2
35
PROFILO MASCHI PER ETA'
05
101520253035404550
Autosti
ma
Gestio
ne de
ll'ans
ia
Attenz
ione
Livell
o moti
vazio
nale
Gestio
ne de
llo st
ress
Perc
entu
ale
u.12u.14u.16 / u.18
Grafico 3
PROFILO MASCHI CON CLASSIFICA F.I.T. E/O E.T.A.
Gestione dell'ansia
13%
Attenzione13%
Capacità immaginativa
13%
Livello motivazionale
17%
Assertività - aggressività
14%
Gestione dello stress16%
Autostima14%
Autostima
Gestione dell'ansia
Attenzione
Capacità immaginativa
Livello motivazionale
Assertività -aggressivitàGestione dello stress
Grafico 4
36
PROFILO FEMMINE
Gestione dell'ansia
13%
Attenzione15%
Capacità immaginativa
12%
Livello motivazionale
15%
Assertività - aggressività
14%
Gestione dello stress17%
Autostima14%
Autostima
Gestione dell'ansia
Attenzione
Capacità immaginativa
Livello motivazionale
Assertività -aggressivitàGestione dello stress
Grafico 5
Grafico 6
45
46
47
48
49
50
51
52
53
Autosti
ma
Gestio
ne de
ll'ans
ia
Attenz
ione
Livell
o moti
vazio
nale
Gestio
ne de
llo st
ress
Perc
entu
ale
MASCHIFEMMINE
37
2.2 Abilità psicologiche del giovane tennista agonista
L’approccio di Weinberger e Gould (1995), che parte dal modello di
Vealey (1988), propone di differenziare le abilità mentali vere e proprie
da strumenti e metodi.
Secondo tale approccio le abilità mentali risultano suddivise in tre
sottogruppi:
1. abilità mentali di base
motivazione;
auto-consapevolezza;
autostima;
fiducia in sé stessi;
2. abilità mentali di prestazione
ottimizzazione del livello di attivazione psicofisica;
gestione ottimale dell’attenzione;
3. abilità mentali facilitatorie
capacità di relazione interpersonale;
gestione dello stile di vita.
Va inoltre ricordato che ogni disciplina sportiva richiede, oltre a quelle
indicate, ulteriori abilità mentali specifiche del contesto situazionale.
Tali variabili possono essere considerate capacità secondarie, basate
sull’utilizzo di quelle primarie.
A titolo esemplificativo, la capacità di gestione della frustrazione - a
seguito, ad esempio, di una decisione arbitrale non condivisa - può
avvalersi dell’abilità di controllo del pensiero, delle emozioni e della
capacità di riorientare rapidamente la propria attenzione sull’azione
focalizzandosi sul punto successivo in maniera “positiva”.
Abbiamo preferito indicare sotto la denominazione di “abilità
psicologiche” quelle elencate qui di seguito:
38
- auto-efficacy o autostima
- self-confidence o fiducia in sé
- self-efficacy o percezione di auto-efficacia
- motivazioni
- locus of control o attribuzione di causalità
- goal setting o formulazione di obiettivi
- pensare positivo e self-talk
- gestione dello stress e dell’ansia
- controllo delle emozioni
- focusing o concentrazione
- arousal control o controllo dell’attivazione
- imagery o visualizzazione
- monitoraggio delle sensazioni
Autostima e Fiducia in sé
Autoefficacia percepita
Motivazioni e Locus of control
Feed-back sensoriale
C o n t r o l lod e i p e n s ie r i
Contr o l l o de ll ‘ att e n z i o n e
F o r m u l a z io n e d e g l i o b i e tt i v i
G e s t ioned e l l o str e ss
M o d u l a z i one d e l l ‘ a r o u sal
Contr o l l o de ll e imm a g i n i
39
Self-confidence
Il concetto di self-confidence (fiducia in sé) viene collocato dai teorici
dell’attaccamento (Bowlby, 1982) in un continuum di sviluppo, che
origina dal concetto di "base sicura".
La fiducia in sé comporta la capacità di conservare la fiducia in
condizioni che sembrano tali da suscitare il contrario o, ancora, di sentirsi
a proprio agio quando è necessario dipendere da altri.
È parte dell’esperienza dell’atleta il confronto ripetuto con situazioni
frustranti e la collaborazione con figure diverse: dagli eventuali
compagni di squadra, ai tecnici, ai dirigenti della società, al rapporto con
il pubblico.
La self-confidence assume un ruolo maggiore nel caso del campione
poiché si amplificano le aspettative e le attribuzioni di responsabilità.
In ambito sportivo, i presupposti della teoria dell’attaccamento possono
fornire una griglia attraverso cui comprendere determinate modalità di
relazione tra i giocatori di una squadra e, in particolare, tra giocatore e
maestro o allenatore.
Un atleta che ha costruito nella propria vita una modalità di attaccamento
sicuro, con conseguente formazione di una fiducia di base, sarà in grado
di collaborare efficacemente con il tecnico e con eventuali compagni di
allenamento.
Un atleta con un attaccamento ansioso resistente tollererà meno bene i
cambiamenti o le separazioni e potrà facilmente entrare in competizione
con i compagni e con il tecnico al fine di mantenere il controllo della
situazione e, quindi, di tutelarsi rispetto a novità o imprevisti.
Un atleta con un attaccamento ansioso ambivalente, con un senso di sé
instabile, richiederà più conferme, oscillando tra un’immagine idealizzata
dell’allenatore e un’altra deludente.
Nel caso di un atleta con uno stile di attaccamento evitante,
l’autosufficienza forzata, costruita in relazione a esperienze di vita,
renderà difficile la cooperazione; infine, nell’attaccamento doppio si
evidenzieranno le esigenze perfezionistiche del soggetto.
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Allievi con dubbi su di sé tendono in genere a diminuire il proprio
impegno e a evitare il compito proposto; al contrario, chi ha fiducia in sé
intensifica i propri sforzi, mirando tenacemente al raggiungimento
dell’obiettivo.
I soggetti con scarsa fiducia in sé, inoltre, tendono più facilmente ad
attribuire i propri successi a cause esterne e gli insuccessi a proprie
incapacità personali, in una sorta di meccanismo a catena che negativizza
sempre più l’immagine di sé e il riconoscimento del senso di competenza
personale.
Fiducia in sé e nella valutazione delle proprie capacità, autostima e
flessibilità sono elementi fondamentali non solo per favorire la vittoria o
il raggiungimento di obiettivi elevati ma anche per tollerare e integrare il
"peso" del successo.
Auto-efficacy
Con il termine auto-efficacy (o autostima) si definisce l’insieme delle
opinioni e valutazioni che riguardano il Sé, il sé fisico e psicologico.
L’autostima è un tratto della personalità che consiste nel dare un
giudizio di valore a se stessi.
Essere stimati è fondamentale per la crescita della persona.
Le persone che si valutano positivamente affrontano i compiti e la stessa
vita in modo sereno, aspettandosi con fiducia dei successi mentre coloro
che hanno una bassa autostima sono ansiosi e prevedono eventi negativi.
La scarsa autostima può anche portare a comportamenti di disagio, di
devianza e di dipendenza.
Il livello di autostima dipende dalla relazione tra fattori personali -
personalità, carattere - e fattori sociali.
Il giovane giocatore che possiede una stima realistica ed equilibrata di sé
conosce i propri pregi e difetti ed è in grado di porsi degli obiettivi
adeguati alle proprie capacità, avrà buone probabilità di ottenere successi
e manterrà alta la motivazione al tennis, in quanto saprà superare le
inevitabili difficoltà che l’attività agonistica comporta.
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Occorre considerare anche il pericolo di un’autostima gonfiata di coloro i
quali sopravalutano eccessivamente le proprie capacità e competenze.
Col tempo questa autostima può risultare svantaggiosa e dannosa perché
l’individuo non si conosce in modo obiettivo ed ha un immagine di sé
contorta e disorientante, non vicina alla realtà.
Per favorire l’autostima il giovane tennista deve essere messo nella
condizione di:
1. conoscersi in modo critico: l’allievo deve sapere quali sono i propri
pregi e difetti.
2. porsi obiettivi raggiungibili e traguardi adeguati e realistici in
modo tale che le proprie capacità siano correlate con le proprie
potenzialità (si devono evitare obiettivi “ troppo elevati” ed
impossibili da raggiungere: il rischio di uno stress negativo è sempre
presente quando una situazione viene percepita come una richiesta
ritenuta superiore alle proprie capacità).
3. sperimentare successi personali per cui essere fiero e
soddisfatto di ciò che raggiunge in quanto il successo personale mira
al superamento di difficoltà e al miglioramento delle capacità
personali.
Il giovane tennista potrà disputare partite davvero importanti ed osare
un po’ grazie alla grinta ed alla determinazione, fondamentali per il
successo in ogni ambito (vita privata, scuola, sport…).
4. essere sicuri di se stessi e non avere timore di compiere errori
5. capire la differenza tra vittoria e successo.
6. avere garanzia, da parte del maestro, di allenamenti o attività
individualizzate.
7. autovalutarsi tramite test precedentemente preparati.
8. essere incoraggiato e gratificato dal maestro anche quando sbaglia o
commette errori tecnici e tattici.
9. poter contare su un intervento efficace in caso di errore
10. partecipare ad allenamenti non per forza competitivi
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Da parte sua il maestro deve usare un linguaggio positivo per creare un
clima sereno e rilassato: è importante che non insulti il “suo” giocatore
perché le offese danneggiano le relazioni.
Il nostro obiettivo psicopedagogico sarà quello di favorire l’acquisizione
dell’autostima e di creare condizioni ottimali di vita e di autovalutazione.
L’autostima può essere sostenuta migliorando in vari modi
l’autoefficacia con:
ricostruire la propria autobiografia sulla base di successi.
anticipare gli eventi a rischio pensando di poterli padroneggiare e
sdrammatizzare.
affrontare le situazioni con un paracadute emotivo (il maestro come
air-bag psicologico).
evitare di coltivare un ideale di sé che, se troppo elevato, produce
sentimenti di colpa.
evitare di incorrere in sequenze negative prima di impegni a rischio o
importanti (impotenza appresa, profezie che si avverano da sé).
Self-efficacy
Fiducia in sé e autostima si correlano positivamente con il concetto di
fiducia nelle capacità personali o self-efficacy.
La fiducia che l’allievo ripone nei propri mezzi e nelle capacità personali
influenza fortemente la sua prestazione.
Giocatori di basso valore che credono in se stessi e si dimostrano risoluti
nel conseguire i propri obiettivi sono spesso in grado di ottenere,
soprattutto in gara, risultati migliori di soggetti più dotati sotto il profilo
tecnico-fisico ma che presentano scarsa fiducia e minore determinazione.
Sensazioni di adeguatezza, sicurezza e ottimismo agiscono positivamente
sulla prestazione, mentre percezioni di inadeguatezza, incertezza e
pessimismo agiscono negativamente.
In genere, le persone temono ed evitano situazioni ritenute al di fuori
delle capacità personali mentre sono disposte ad affrontare compiti
giudicati alla propria portata.
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La self-efficacy è proprio la fiducia che l’individuo ripone nelle capacità
personali di fronte a un compito specifico che richiede l’espressione di
abilità (Bandura, 1977), ma non è un tratto globale di personalità,
potendo variare in relazione alla situazione, alle richieste e all’esperienza.
Le aspettative di efficacia condizionano non solo la scelta di affrontare o
meno una particolare situazione ma, una volta iniziata l’attività, anche la
quantità di sforzo profuso, l’impegno e la persistenza pur di fronte a
difficoltà, esperienze sfavorevoli o sconfitte.
Per conseguire il successo, ovviamente, non sono sufficienti le sole
aspettative ma devono essere presenti capacità, abilità, interesse e
motivazione.
La self-efficacy ha un ruolo importante anche nella regolazione dei
processi cognitivi (Bandura, 1989).
Mantenere la concentrazione focalizzata sul compito, anche in condizioni
di stress e di timore di sbagliare, richiede un forte senso di efficacia
(Bandura e Wood, 1989).
La self-efficacy influenza anche la rappresentazione mentale anticipatoria
dell’incontro. Scene di successo sono visualizzate con più frequenza da
giocatori con elevato senso di efficacia: l’allievo analizza mentalmente il
problema, esplora le alternative e applica le soluzioni.
Scenari di fallimento sono più probabili in chi si valuta incapace: il
ragazzo è già perdente in partenza poiché tende a “rimuginare” su errori e
sconfitte.
Per incrementare la fiducia nelle capacità personali l’allievo potrà servirsi
di informazioni provenienti da diverse fonti.
L’impatto sulle aspettative di efficacia dipenderà quindi dal modo in cui
l’atleta elabora, valuta, integra e trasforma cognitivamente
l’informazione in relazione a fattori contestuali e situazionali.
Informazioni inerenti la self-efficacy sono ricavate da quattro fonti
principali: realizzazione di prestazioni, esperienze sostitutive,
persuasione, arousal emozionale (Bandura, 1989; Feltz, 1992).
La self-efficacy, a sua volta, influenza comportamenti, pensieri ed
emozioni e in diverse attività motorie e sportive è stato riscontrato che
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rappresentarsi invece il successo (grazie ad un elevato senso di
autoefficacia) migliora la prestazione.
Situazioni inerenti alla self-efficacy che possono incidere positivamente
sulla prestazione sono:
1. i precedenti successi in quanto esperienze positive che aumentano le
aspettative di efficacia.
È importante perciò programmare nella fase di allenamento una serie di
obiettivi a breve termine che permettano un feedback positivo sui propri
progressi.
Si possono considerare nel contempo alcuni fattori significativi: difficoltà
del compito, impegno profuso, aiuto ricevuto, attribuzione di successo
interna o esterna.
2. il modeling cioè l’utilizzare come modello un altro allievo che esegue
con successo il compito (questo procedimento però è meno incisivo
dell’esperienza diretta).
3. il rinforzo verbale nel senso di incoraggiamento e incitamento da parte
del maestro.
È importante un rapporto di fiducia con il tecnico e un uso moderato e
congruo del rinforzo, al fine di mantenere la credibilità (è una situazione
poco incisiva perché priva di esperienza personale; inoltre si estingue
rapidamente se è assente una conferma positiva).
4. l’arousal emozionale cioè il livello di attivazione emozionale in
situazioni stressanti ma, soprattutto, la modalità esplicativa dello stesso
utilizzata dall’atleta.
Se l’attivazione viene letta come paura e spiegata come prova di una
presunta inadeguatezza personale, è probabile che ciò incida
negativamente sulla percezione di efficacia personale.
Nel caso in cui l’emozione venga interpretata come congrua in una
situazione altamente stressante da un soggetto con sufficiente fiducia in
sé, è probabile che non ci siano ripercussioni negative a livello di self-
efficacy.
Metodi per incrementare la self-efficacy potrebbero essere:
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selezionare obiettivi adeguati, difficili ma realistici: obiettivi
troppo semplici infatti non contribuiscono a incrementare la
fiducia poiché il successo potrebbe essere attribuito alla facilità
del compito mentre obiettivi eccessivamente difficili potrebbero
determinare insuccesso e sfiducia.
utilizzare sussidi esterni per facilitare la prestazione (per esempio
piccoli trucchi per diminuire la difficoltà e ridurre lo scarto fra
prestazione reale e ideale).
fornire esperienze di successo attraverso esercitazioni
gradualmente più complesse.
ridurre progressivamente l’aiuto esterno, in modo da facilitare
un’esecuzione sempre più autonoma.
ripetere mentalmente la prestazione corretta.
offrire rinforzi verbali e incoraggiamenti che esprimano fiducia
nelle capacità dell’allievo.
avvalersi della dimostrazione di un’altra persona che esegua con
successo la risposta desiderata.
Fig . 1 Un giovane tennista
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Fiducia in sé/autostima
L’immagine del vincente corrisponde a quella di un tennista nel quale la
preparazione atletica, il desiderio del successo e le doti particolari
coesistono con un buon livello di autostima e una sufficiente fiducia in sé
e nelle proprie capacità.
Un atleta con problemi di calo di rendimento o di insuccessi ripetuti potrà
convincersi che tutto ciò è dovuto a stanchezza, sfortuna, propria
incapacità oppure non spiegarselo affatto.
Utilizzando test per l’autosservazione dei principali sentimenti ed
emozioni che caratterizzano un giovane sportivo, potranno emergere
elementi interessanti sul “perché e come” avvengano ripetutamente
cattive prestazioni, prescindendo ovviamente da fattori tecnico-tattici e
fisici.
Egli potrà, per esempio, cogliere il dato relativo alla rabbia, trascriverlo
in un’apposita griglia con una scala di valori prefissati e accorgersi del
significato personale che attribuisce a questa emozione.
Se arrabbiarsi significa perdere il controllo, e di conseguenza avere una
percezione di fragilità personale e l’immagine di un avversario forte,
prepotente o ingiusto, il ragazzo avrà a propria disposizione una diversa
prospettiva attraverso cui rapportarsi al problema presentato e potrà,
quindi, cogliere nuove informazioni su di sé in grado di innescare un
cambiamento positivo.
In situazioni di tipo competitivo esistono modalità di reazione congrue al
grado di significatività, all’attivazione emozionale e al livello esplicativo
propri del singolo giocatore.
Nel caso di un evento particolarmente pregnante, si possono ipotizzare
due tipi di reazione: quando l’attivazione emozionale viene decodificata
dal sistema, può essere assimilata e utilizzata nella ricerca di nuove
strategie atte ad affrontare meglio la situazione temuta; in caso contrario,
quando ciò non può avvenire perché l’emozione è troppo intensa o
estranea al modello interpretativo utilizzato, è possibile la presenza di
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sensazioni percepite come incontrollabili o, ancora, di una sintomatologia
fisica sgradevole o allarmante.
Si può verificare inoltre un irrigidimento del modello di
rappresentazione della realtà, che comporta l’uso di procedure di
problem-solving anch’esse rigide e stereotipate, con conseguente
diminuzione della capacità di assimilare l’esperienza.
I concetti di autostima e di flessibilità ipotizzati nella mentalità vincente
prevedono, pertanto, la congruenza tra cosa il soggetto percepisce e come
se lo spiega; ciò è alla base della fiducia in sé, e la possibilità di
apprendere dall’esperienza, anche in termini di crescita personale, è
l’elemento necessario per affrontare, elaborare e assumere informazioni
importanti anche da situazioni negative quale un insuccesso.
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2.3. Motivazioni: abilità o vittoria
La motivazione è uno degli elementi più importanti quando si va a
preparare un piano di allenamento, per qualunque livello di prestazione.
Secondo Salvini in psicologia la motivazione è “l’agente fisiologico,
emotivo e cognitivo che organizza il comportamento individuale verso
uno scopo.”
Per Bertolini la motivazione è “ciò che sollecita l’individuo ad assumere
ogni suo atteggiamento e a mettere in atto ogni suo comportamento”.
Secondo Singer la motivazione “influisce su ciò che facciamo (quando vi
è la possibilità di scelta), su quanto tempo ci mettiamo e su come lo
facciamo.”
Thomas riporta le motivazioni a quattro desideri fondamentali:
1. di sicurezza
2. di ottenere il riconoscimento delle proprie qualità
3. di ricevere risposte adeguate da parte dei propri simili
4. di nuove esperienze
Si tratta di un fenomeno molto complesso, poiché è difficile capirne
l’effettiva incidenza sul comportamento di un individuo: non esistono
infatti persone pigre e non motivate ma solo persone che hanno obiettivi
deboli che non suscitano emozioni forti.
Una forte motivazione è strettamente correlata ad un forte desiderio di
raggiungere un obiettivo che possa appagare dei bisogni da cui consegue
una grande volontà nella ricerca del raggiungimento dello scopo.
Nella piramide dei bisogni di Maslow le motivazioni sono riferite a
bisogni fondamentali distinti gerarchicamente in:
- autorealizzazione (qualità spirituali, giustizia, bontà, bellezza)
- bisogni di base:
bisogni fisiologici (cibo, acqua)
bisogni di sicurezza (protezione, mancanza di pericolo)
bisogni di amore e di appartenenza (accettazione, essere apprezzati,
affiliazione)
bisogni di stima (autoapprezzamento, successo, vittoria).
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Un’altra classificazione indica tre categorie di motivazioni:
- psicofisiologiche
fondamentali in quanto dipendono da esigenze biologiche (sete, fame,
sonno)
proprie dell’organizzazione nervosa antropomorfa (bisogno di
esplorazione percettiva, bisogno di attività, di manipolazione, ecc.)
- psicodinamiche come traduzioni delle pulsioni sessuali ed aggressive
(la motivazione è il risultato del rapporto tra la scarica pulsionale
originaria e la mediazione con la realtà da parte della personalità)
- psicosociali che sono il riflesso dei valori, dei modelli di
comportamento, delle opinioni che l’individuo acquisisce durante il
processo di socializzazione.
Il termine “motivazione” può essere inteso come “l’insieme dei fattori
che promuovono l’attività del soggetto, orientandola verso certe mete e
consentendole di prolungarsi qualora tali mete non vengano raggiunte
immediatamente, per poi fermarla al conseguimento dell’obiettivo”
(Reuchlin, 1957).
Preliminarmente va specificato come lo sport sia un’attività che viene
praticata per libera scelta, la quale si viene a definire in tre momenti
successivi: la scelta - caratterizzata dalla valutazione da parte del
soggetto dei diversi elementi sia favorevoli che contrari alla pratica
sportiva, prendendo in considerazione tutte le alternative possibili -, la
decisione - di praticare un determinato sport a partire dalla suddetta
valutazione - e l’attuazione - cioè la pratica concreta dello sport prescelto
(Giovannini, Savoia, 2002).
I giovani, sia i ragazzi che le ragazze, possono intraprendere un’attività
sportiva spinti da un insieme piuttosto ampio di ragioni, che sono state
ricercate ed esaminate dettagliatamente da vari studiosi tra i quali occorre
ricordare il lavoro particolarmente interessante di Gill, Gross e
Huddleston (1983).
Attraverso analisi successive è stato possibile individuare otto fattori,
rappresentativi delle categorie generali della motivazione allo sport:
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- il fattore riuscita/status, che fa riferimento al desiderio di vincere, di
essere popolari, di migliorare il proprio status, di fare qualcosa in cui si è
capaci e ricevere premi;
- il fattore squadra, relativo al desidero di essere parte di un gruppo
sportivo;
- il fattore forma fisica;
- il fattore spendere energia, comprendente ragioni che riguardano il
desiderio di scaricare le tensioni, di muoversi e di stare fuori casa;
- il fattore legato a quei rinforzi estrinseci che possono sostenere la
motivazione del soggetto, come le persone per lui significative e il
piacere derivante dall’uso del materiale sportivo;
- lo sviluppo e il miglioramento delle abilità sportive;
- l’amicizia e il desiderio di coltivare delle amicizie, nuove e vecchie;
- il divertimento.
Tra tutte le suddette motivazioni, è apparsa maggiormente determinante
quella legata allo sviluppo e al miglioramento delle proprie abilità
sportive; è necessario comunque che l’acquisizione di questa competenza
avvenga in un contesto che contempli anche le altre motivazioni (Cei,
1998), soprattutto al fine di evitare l’abbandono sportivo.
Tra i processi motivazionali va menzionata la motivazione legata alla
riuscita, particolarmente approfondita dagli studi di Murray, McClelland
e Atkinson, i quali l’hanno definita in termini di motivazione alla riuscita
e motivazione ad evitare l’insuccesso.
In particolare, con riferimento agli sportivi di sesso maschile, sembra che
un elevato desiderio di successo e una scarsa paura dell’insuccesso
comportino un livello di abilità più elevato durante la competizione; al
contrario, una limitata predisposizione al successo associata ad una
marcata paura dell’insuccesso comporta prestazioni migliori durante
l’allenamento.
Ulteriori ricerche hanno messo in evidenza come un livello intenso di
paura dell’insuccesso associato ad un elevato desiderio di successo può
invece favorire prestazioni positive; questo dato può essere interpretato
come capacità del soggetto di utilizzare efficacemente i processi di
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autoregolazione, consentendogli di utilizzare questa ansia pre-gara in
termini positivi per la competizione.
In generale, il modello proposto suggerisce che un elevato desiderio di
successo comporta prestazioni migliori in confronto ad una bassa attesa
di successo (Cei, 1998).
La critica che però può essere avanzata a questo modello fa riferimento
all’eccessiva enfasi che questo pone sulla personalità del soggetto, intesa
come forza relativamente stabile che determina le caratteristiche
motivazionali; vero è invece che, oltre alle caratteristiche strettamente
individuali, una notevole importanza va riconosciuta anche a quelle
situazionali, in una reciproca azione sinergica.
Ad esempio, non tutti attribuiscono lo stesso significato al concetto di
successo nello sport ovvero quando si parla di senso di riuscita alcuni
potranno intenderlo come la realizzazione di prestazioni che manifestano
un elevato grado di competenza, altri come vittoria nel confronto con gli
altri.
In particolare, questo esempio fornisce l’occasione per distinguere due
ulteriori orientamenti motivazionali specifici: cioè l’orientamento al
compito (per cui il soggetto è interessato a dimostrare un certo grado di
competenza/padronanza) e l’orientamento al Sé (per cui il soggetto vuole
dimostrare il proprio grado di abilità nel confronto con gli altri).
La predominanza dell’uno o dell’altro stile motivazionale è determinata
non solo dalla disposizione individuale ma anche da fattori situazionali,
come possono essere ad esempio i rinforzi provenienti dagli adulti
oppure il modo in cui è strutturato l’ambiente.
In quest’ultimo caso è chiaro come una competizione caratterizzata dal
confronto interpersonale e da una valutazione pubblica promuoverà un
orientamento al Sé, mentre una maggiore enfasi posta sull’apprendimento
e sulla dimostrazione di un certo grado di maestria stimolerà un
orientamento al compito (Cei, 1998).
È importante quindi non trascurare quelle che possono essere delle
determinanti di carattere contestuale tra cui :
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le strutture di ricompensa, che qualora siano legate alla
prestazione contro l’avversario o alla prestazione contro uno
standard determineranno diverse modalità competitive a cui si
assoceranno dei corrispondenti orientamenti motivazionali quali
ad esempio
l’orientamento del maestro, che a sua volta può essere basato
sul controllo oppure sull’informazione, modificando la percezione
di sé del soggetto nonché la sua motivazione;
le differenze legate al tipo di sport, che possono attirare alcuni
soggetti e non altri;
i fattori socio-culturali (classe sociale, razza, etnia)
che possono esercitare una certa influenza sul grado di coinvolgimento
del soggetto nello sport stesso (Giovannini, Savoia, 2002).
Il risultato di una certa prestazione non va quindi letto solo in termini di
vittoria o sconfitta, ma soprattutto di percezioni individuali di successo o
di fallimento: coloro che sono maggiormente interessati al livello di
padronanza si focalizzeranno maggiormente sui miglioramenti rilevati
durante la prestazione confrontandoli con gli standard precedenti,
attribuendo ad essi maggiore valore rispetto alla vittoria in sé; al
contrario coloro che gareggiano focalizzandosi sul confronto con gli altri
definiranno il successo o il fallimento soprattutto in relazione alla
prestazione degli altri e quindi all’esito della competizione (Giovannini,
Savoia, 2002).
Questi due orientamenti sono dimensioni indipendenti per cui, non
essendo legati tra loro, possono essere presenti entrambi nello stesso
soggetto in misure diverse: un individuo può essere fortemente orientato
tanto verso il sé quanto verso il compito, oppure un altro potrebbe essere
maggiormente focalizzato sul compito e meno sul sé, o viceversa
(Nicholls, 1992).
È stato inoltre messo in evidenza come l’orientamento al compito sia in
relazione positiva con la percezione dello sport come attività divertente,
mentre al contrario l’orientamento al sé ridurrebbe l’interesse intrinseco
per lo stesso (Duda, Nicholls, 1992).
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Anche le valutazioni del soggetto sul proprio livello di competenza
esercitano una notevole influenza sulle prestazioni dello stesso (Harter,
1978; 1985): il sentimento di autoefficacia si struttura nella continua
sperimentazione delle proprie capacità e, mentre queste ultime si
affermano e si stabilizzano, il soggetto si pone continuamente nuovi
obiettivi che lo metteranno nuovamente alla prova.
In questo processo di strutturazione, particolarmente importanti
sembrano essere le risposte fornite dal contesto esterno, in particolare
dal maestro: il feedback di quest’ultimo influenza notevolmente la
percezione della propria abilità e la prestazione sportiva, soprattutto nei
giovani adolescenti (Weiss, Chaumenton, 1992).
I risultati di Weiss e Chaumenton (1992) evidenziano da un lato come i
giovani prediligano dei rinforzi che non solo li incoraggino ma
soprattutto forniscano loro suggerimenti di carattere tecnico volti a farli
migliorare, dall’altro come questi stessi messaggi stimolino la loro
percezione di competenza.
Relativamente ai processi motivazionali è importante citare anche la
cosiddetta teoria dell’attribuzione, per cui gli individui cercano di dare
un senso agli eventi che accadono a loro e all’ambiente circostante
attraverso delle relazioni causali (il cosidetto locus of control che
identifica la causa della prestazione come interna o esterna).
In tale ambito altrettanto importante è il concetto di stabilità, per cui le
cause di un certa prestazione vengono identificate come stabili o instabili
(Weiner, 1972, 1979).
Il primo concetto permette di determinare se l’individuo interpreta le
cause come più o meno suscettibili di controllo da parte sua: è evidente
come l’attribuzione di un successo a cause interne agisca positivamente
sulla propria autostima, incrementando l’interesse verso il tennis; così
come, al contrario, attribuire un insuccesso a cause interne può
comportare una diminuzione del senso di autoefficacia con una
conseguente riduzione del coinvolgimento nel proprio sport.
Anche la stabilità, d’altro canto, può influenzare le aspettative future di
successo agendo anche sul vissuto emotivo: associare un insuccesso a
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cause stabili comporterà aspettative di fallimento anche in relazione alle
prestazioni future, mentre in caso di successo si svilupperà
l’atteggiamento opposto.
Se un soggetto, al contrario, attribuisce un eventuale fallimento a delle
cause instabili, coltiverà aspettative positive in relazione alle situazioni
future; invece, associare costantemente un successo a cause instabili può
indurre aspettative negative in relazione alle prestazioni successive.
Approfondendo il legame tra interpretazione dei risultati, formulazione di
nuove aspettative e prestazioni è emerso come i giovani - soprattutto allo
scopo di preservare la propria autostima - tenderebbero a fornire
interpretazioni causali di tipo difensivo nel caso di insuccessi e ad
attribuire i propri successi ad abilità e impegno, riconoscendo quindi una
maggiore responsabilità personale nel caso di prestazioni positive, in
confronto a quelle negative.
Al di là della particolare enfasi posta nel locus of control interno, è
emerso che i successi vengono attribuiti in misura maggiore anche a
cause stabili e controllabili (McAuley, Gross, 1983).
È interessante infine considerare anche lo stato emotivo come fonte di
influenza del comportamento emotivo e della prestazione stessa: se un
soggetto è caratterizzato da uno stato emozionale di felicità,
divertimento, piacere e orgoglio tenderà a mantenere e ad aumentare il
proprio livello di motivazione e quindi di padronanza; al contrario uno
stato negativo espresso da ansia, tristezza, vergogna o imbarazzo
diminuisce la motivazione e il desiderio di partecipazione (Giovannini,
Savoia, 2002).
Goal-setting/ motivazione
La programmazione con il ragazzo o con il team di mete chiare a
breve, medio e lungo periodo è un’operazione che porta una catena di
benefici da cui un allenatore di alto livello non può prescindere.
Essa è strettamente legata all’equilibrio tra sfida ed abilità in quanto
serve una riprogrammazione degli obiettivi ogni qualvolta, in base ai
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risultati acquisiti, ci rendiamo conto che la sfida che avevamo previsto
per il nostro allievo è diventata troppo ardua per le sue capacità, oppure
troppo semplice da affrontare.
Gli aspetti da considerare sono i seguenti:
individualizzare gli obiettivi
stabilire obiettivi specifici e misurabili
identificare obiettivi significativi per il soggetto
individuare obiettivi difficili ma realistici
identificare obiettivi a breve, a medio e a lungo termine
sostenere l’atleta nel conseguimento degli obiettivi
progettare strategie di raggiungimento degli obiettivi
formulare gli obiettivi in termini positivi
privilegiare obiettivi di prestazione
fornire una valutazione degli obiettivi
Stabilire mete chiare costituisce una delle dimensioni dello stato di flow
con maggior punteggio: garantisce infatti una forte motivazione
intrinseca al lavoro in virtù del fatto di avere chiari nella mente gli
obiettivi a breve, medio e lungo periodo da raggiungere, nonché il
processo di conseguimento degli stessi nel suo sviluppo.
Facilita inoltre l’insorgenza e la gestione di un’altra sensazione
importantissima come la concentrazione sul compito, stabilendo un
preciso oggetto su cui dirigere questa risorsa mentale.
Bisogna quindi rendere partecipi gli allievi di quali siano gli obiettivi che
ci si vuole porre durante la stagione agonistica e, successivamente,
attraverso quale tipo di programma raggiungerli, l’allenamento infatti è
un programma strutturato, orientato verso una meta principale, e non può
essere improvvisato.
Il goal-setting (individuazione e formulazione degli obiettivi) è
un’operazione già molto sperimentata nel mondo sportivo di alto livello
(atleti olimpici); la sua efficacia è stata sottolineata da R. Burton (1993)
che ne ha rilevato un’incidenza pari al 75% sul miglioramento delle
prestazioni olimpioniche.
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Nasce dalla definizione secondo cui “un obiettivo è ciò che una persona
cerca coscientemente di fare”, non l’eseguire un ordine.
Ogni obiettivo deve avere una direzione (come dirigere una propria
azione verso un obiettivo specifico), una qualità (quanto tempo dovrà
essere impiegato per raggiungere il risultato desiderato), e deve essere
definito in base all’equilibrio tra sfida ed abilità.
Chiaramente le mete più a lungo termine dovranno essere rimisurate a
seconda dei risultati che si acquisiscono durante il lavoro.
È opportuno distinguere il goal-setting in 4 tipi relativamente alla durata:
breve (la singola sessione d’allenamento o il match)
medio (la settimana)
lungo (qualche ciclo di settimane)
stagionale.
Goal- setting a breve termine
Si intende per goal-setting a breve termine quello che riguarda l’arco di
un match o di un allenamento.
Bisogna gestire questo momento fornendo al giocatore degli obiettivi
individuali cui far particolarmente attenzione.
Il momento migliore per svolgere questo tipo di lavoro è poco prima di
entrare in campo.
Sia prima di una partita che prima di un allenamento è bene ricordare gli
obiettivi che ci si è posti per quell’occasione e su cui occorre lavorare.
Se si tratta del match probabilmente saranno obiettivi strategico-tattici
oltre che tecnici prefissati nell’arco della settimana, mentre se si tratta di
un allenamento saranno obiettivi inseriti nel quadro della
programmazione della settimana (medio termine) o di un ciclo di
settimane (lungo termine).
L’importante è che le mete fissate siano chiare, possibili e facilmente
identificabili e misurabili (in questo caso poi ci si dovrà avvalere dell’uso
di un “diario di bordo”).
Il riscaldamento (per chi lo fa…) sarà poi il momento in cui il ragazzo
può dirigere l’attenzione su queste precise richieste, adottando tecniche
di concentrazione ed attivandosi in virtù delle richieste stesse.
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Goal-setting a medio termine
Può venir fatto per tutti gli aspetti dell’allenamento (tecnica, tattica,
preparazione atletica e mentale), sia a livello individuale che di gruppo,
in collaborazione con i responsabili dello staff tecnico (tecnico, maestro,
preparatore fisico, preparatore mentale).
L’obiettivo è il miglioramento della prestazione in vista di un torneo e
perciò il tipo di lavoro è strettamente vincolato ad essa.
Al termine della gara bisognerà valutare quali siano stati i risultati del
lavoro settimanale e decidere quindi un’adeguata attività per la settimana
successiva.
Goal-setting a lungo termine
Ogni maestro programma l’attività degli allievi in modo che possano
sviluppare le proprie caratteristiche di gioco il più efficacemente
possibile.
Questa programmazione deve essere mostrata agli atleti, così da renderli
consapevoli della direzione in cui dovranno dirigere la propria
attenzione.
È inoltre necessario programmare con ogni singolo giocatore un lavoro
per obiettivi a lungo termine sia da un punto di vista tecnico che fisico e
mentale.
Goal- setting stagionale
È quello i cui obiettivi sono più difficili da raggiungere ma più facili a
variare.
Dipende ad esempio dal risultato che un circolo richiede (vittoria, final-
four, salvezza, punti per il Trofeo FIT…) ad un allenatore, in virtù del
quale egli deve programmare la stagione, ma può però riguardare anche i
miglioramenti di ogni singolo giocatore.
Automotivazione/visualizzazione
In allenamento molti ragazzi giocano con un buon rendimento ma
quando sono in gara, o più spesso quando devono giocare incontri o
punti cosiddetti “importanti”, accade che questi registrino un brusco calo
58
Fig. 2 Vittorio, Carlo, Paolo e Nicola
di rendimento e non riescano a dare il meglio di sé incolpando la dieta, il
metodo di preparazione, il clima inadatto, l’arbitro, il pubblico o peggio
ancora sempre e solo se stessi per la sconfitta o la cattiva prestazione con
l’unica e solita frase: “Non mettevo una palla”.
Tutto ciò spesso, invece, può dipendere dal fatto che questi ragazzi pur
avendo lavorato con regolarità ed impegno sul piano fisico, tecnico e
tattico, non hanno addestrato la mente a vincere.
Hanno cioè sottovalutato il ruolo fondamentale che, accanto all’abituale
training, la psiche esercita nel raggiungimento di una peak performance.
Una strada vincente può essere quella dell’automotivazione: un distillato
di pensiero orientale e occidentale che, aumentando la fiducia e la stima
in se stessi, rimuove blocchi psicologici e cicatrici mentali, spesso le
autentiche cause di tante prestazioni di modesto livello.
Quando un nostro allievo deve disputare un incontro, che sia la finale di
un torneo internazionale o un incontro di quarta categoria, occorre
preparare il match anche dal punto di vista mentale per attivare
insospettate energie attraverso il potenziamento della fiducia in se stessi e
nelle proprie capacità.
59
Le mete ambiziose richiedono una crescita interiore, non solo quella della
“tecnica esecutiva”, dell’elasticità di piedi e gambe o dell’efficienza
fisiologica.
Quando le risorse interiori si mescolano magicamente agli stimoli esterni,
il giovane ingrana una marcia in più e gli diventa più facile realizzare
importanti progressi.
L’automotivazione è un mosaico di esercizi e tecniche basato sulla
visualizzazione, cioè sul potere delle immagini mentali evocate
dall’inconscio, in grado di mettere in luce le forze psicologiche nascoste
e, per questa via, di restituire entusiasmo e fiducia rimuovendo le
influenze negative e lasciando emergere il meglio di ciascun atleta.
Lo sforzo più grande consiste nel far esperienza e pratica di nuovi modi
di pensare, grazie ai quali è possibile cambiare in positivo l’immagine del
proprio io.
Innanzitutto bisogna imparare a neutralizzare i pensieri negativi che sono
come una fattura di magia nera: fanno perdere forza, energia, vitalità.
Un giocatore che scende in campo con in testa il dubbio di non avere i
numeri per vincere ha già perso in partenza mentre per uscire vincitore
dall’incontro è necessario pensare in positivo cioè vedersi vincitore.
Poiché occorre un chiaro disegno mentale della partita prima di poterla
vivere con successo, conviene attivare la tecnica della visualizzazione
che consiste nell’esercitarsi a rivederla più volte con l’immaginazione.
A questo proposito Edberg, intervistato da Kenny (Barazzutti-Kenny
1998), afferma che una delle principali cause di ansia e tensione deriva
da un’inadeguata preparazione della strategia e dei vari piani “di riserva”
nella fase pre-gara.
Molto spesso nel tennis agonistico giovanile la scarsa esperienza, la
limitata conoscenza dei giocatori avversari insieme a mancanza di valide
strategie e tattiche di gioco determinano una preparazione molto
approssimativa del match che invece andrebbe ricreato nei più minuti
dettagli in quel laboratorio che è la mente, fino a pianificare come
comportarsi in campo.
60
Il nostro allievo durante la settimana che precede un torneo dovrà provare
per dieci minuti al giorno a ripetere mentalmente le azioni che dovrà
svolgere durante la gara: si “vedrà” nella sua posizione in campo,
“avvertirà” il momento di scattare, “sentirà” il contatto con la palla nel
momento di colpire.
Cervello, sistema nervoso e massa muscolare funzionano come una
macchina automatica volta ad un fine con lo scopo che genera l’azione.
Quando la mente “vede” con chiarezza ciò che si vuole fare comincerà a
funzionare eseguendo il lavoro con risultati più apprezzabili di quelli
ottenibili con i soli mezzi fisici.
Un’azione pensata è come se fosse realizzata perché il cervello non riesce
a stabilire differenze tra un’esperienza reale e una immaginata con
grande intensità e nei minimi particolari.
Non devono tuttavia esserci malintesi: lo sviluppo della capacità di
visualizzazione è un’abilità psicologica molto importante ma non
sostitutiva dell’allenamento.
Essa rimane però un’utile integrazione in fase didattica, nei giorni che
precedono la gara e durante la gara stessa e un sostituto temporaneo
dell’allenamento nel caso di malattia, infortunio o lunghi trasferimenti.
La visualizzazione, ossia le immagini mentali, prevede esercizi di
rilassamento e di respirazione che servono a caricare di energia i muscoli
più impegnati nello sforzo durante la gara, mentre il relax fisico aiuta ad
“incassare” con più disinvoltura i colpi emotivi.
Molti ragazzi a torto pensano che rilassarsi sia negativo perché temono di
non avere più la grinta necessaria per affrontare la gara ma chi è rilassato
e disteso pompa adrenalina dove serve e riesce a concentrare l’energia
solo nei muscoli sotto pressione.
Tecniche di allenamento mentale quali rilassamento, visualizzazione,
bioenergetica ed altre saranno oggetto di trattazione specifica del capitolo
seguente.
61
Self- talk
Normalmente ogni individuo passa una grande quantità di tempo a
parlare a se stesso.
Non sempre vi è la consapevolezza di questo dialogo interiore molto
personale e del suo contenuto; ciononostante i pensieri sono in grado di
influenzare direttamente le sensazioni, le azioni e più in generale il modo
soggettivo di concepire e vedere il mondo.
Ma se da un lato pensieri positivi favoriscono sentimenti di adeguatezza
al compito e facilitano di conseguenza una buona prestazione, dall’altro
pensieri inappropriati e negativi suscitano percezioni di inadeguatezza e
apprensione che condizionano sfavorevolmente l’esito delle attività
anche in ambito sportivo.
È importante quindi giungere ad una tecnica per il controllo di pensieri
sviluppando apprendimento di abilità, promozione di emozioni positive,
incremento della fiducia in sé, capacità di dirigere e mantenere
l’attenzione sugli obiettivi e sugli elementi importanti escludendo quelli
irrilevanti e disturbanti.
Se un giocatore non spera di essere “pro-attivo” per mettere a segno
azioni e strategie positive (la tattica e il buon gioco che si sono
concordati) e teme la vittoria degli altri subendo la loro strategia
(mettendosi quindi in una posizione di difesa piuttosto che di padronanza
della prestazione), significa che si aspetta di essere sconfitto “smettendo
di giocare”.
Questo processo mentale ed emotivo inibisce e raffredda la muscolatura,
interferisce con la capacità di coordinazione ed impedisce che circoli un
libero flusso di energia.
È una posizione di debolezza mentale, emotiva e fisica, è una forma di
impotenza.
Le situazioni di gara migliorano davvero quando ci si aspetta il meglio
anziché il peggio, per la semplice ragione che il tennista, libero da dubbi
riguardo se stesso e sicuro sul da farsi nel momento presente (quando si
gioca un punto non dovrebbe esistere né futuro né passato!), può
62
dedicarsi senza conflitti a ciò che accade in quel preciso istante
dell’incontro senza alcun ostacolo ed è in grado di tradurre tutte le
componenti interne ed esterne in una serie di azioni efficaci.
Così mentre i pensieri positivi si trasformano in azioni positive, i pensieri
negativi e catastrofici tendono a paralizzare l’azione o a creare azioni
corrispondentemente negative o comunque deboli ed è per questo che
vanno al più presto trasformati.
Se si pensa in negativo è necessario cambiare percezione e
interpretazione di ciò che si vede e di ciò che si sente: il bicchiere è
mezzo pieno, non mezzo vuoto!
La metodologia del problem solving mira a migliorare la qualità della
prestazione e a sviluppare la competitività dell’allievo e del gruppo di
lavoro.
Il modo intelligente perché ciò avvenga sta nell’affrontare tutti i problemi
che impediscono alle persone, a tutti i livelli, di svolgere il proprio lavoro
in modo efficiente e dinamico.
Attendersi e ricercare il meglio nello sport significa dedicare tutte le
risorse individuali e collettive all’obiettivo che si vuole perseguire: la
realizzazione della prestazione ottimale.
Per raggiungere quest’ultima, è opportuno, in seguito alla rilevazione
della situazione di partenza degli allievi, individuare e formulare obiettivi
che prevedano la presa di coscienza dell’esistenza di abilità mentali
favorenti l’alta prestazione e la convinzione di doverle allenare.
Questa ricerca di una prestazione di alta qualità è la ricerca del meglio
sotto tutti gli aspetti ed è importante saper smontare la prestazione in tutti
i particolari, saper svilupparli e saper riprodurli.
Si fallisce nello sport come nella vita non per mancanza di abilità ma
perché manca la capacità di pensare, di desiderare, di sperare, di
credere e di agire con passione e con coraggio.
La tendenza comune è quella di mantenere un certo equilibrio piuttosto
che andare alla ricerca di un costante e continuo miglioramento
preferendo rimanere nel campo del noto piuttosto che esplorare quelo
dell’ignoto.
63
Il coraggio invece è stato considerato una delle principali virtù umane, il
giusto mezzo tra la temerarietà e la paura in quanto tiene conto delle
condizioni di realizzabilità dello scopo o di superamento del pericolo.
Il coraggio è l’emozione che permette di osare, di affrontare i fantasmi e
andare avanti per raggiungere gli obiettivi.
Oltre al coraggio, l’ottimismo è un’altra forza emotiva che facilita il
passaggio dal pensiero positivo all’azione ed è definito come attitudine
psicologica a valutare favorevolmente la realtà e a guardare al futuro con
fiduciosa attesa anche nei momenti difficili.
Allievi e maestri di successo, quando perdono o falliscono, puntano
anche sull’ottimismo per raggiungere gli obiettivi prefissi con rinnovati
impegno e motivazioni.
Avere l’abitudine di parlare a se stesso ripetendo frasi di coraggio ed
ottimismo è una tecnica efficace per affrontare positivamente compiti
difficili e per gestire l’ansia di prestazione.
L’attività mentale di un giovane tennista di alta prestazione deve quindi
fondarsi su un linguaggio interiore che evochi pensieri, emozioni e
sentimenti positivi a beneficio della fiducia in sé, dell’autostima e della
percezione di autoefficacia.
64
2.4. Il ruolo di Maestro-allenatore
Abbiamo approfittato della nostra esperienza ultraventennale in qualità di
insegnanti di tennis oltre che di quella degli oltre quaranta maestri
partecipanti al “Corso per Tecnici Nazionali della FIT”, di un’indagine
svolta dalla nota psicologa Dott. Marcone durante il Torneo
Internazionale di Milano 2005 e pubblicata sulla rivista specializzata “O-
15” e di un’altra simile svolta da me durante il Torneo Internazionale di
Napoli 2005 per capire se e quanto maestri, coaches, allievi e giocatori
italiani e stranieri ritengano importante il ruolo della psicologia dello
sport nella crescita del tennista e nel miglioramento della prestazione.
La risposta è stata concorde (grafico 7) nel definire le abilità mentali
come i fattori discriminanti tra un buon giocatore ed un ottimo giocatore
e nell’affermare che vanno individuate ed allenate.
Poca attenzione è stata data alla divulgazione delle conoscenze di
psicologia sportiva.
Sembra però che i maestri di tennis non siano del tutto disinteressati alla
psicologia dello sport, anzi mostrano spesso entusiasmo quando le
relative nozioni teoriche acquisite si rivelano utili alla loro attività.
Perciò il problema principale sembra non consistere nello scarso interesse
verso la disciplina ma forse nella difficoltà di utilizzare praticamente
l’informazione per la cronica mancanza di fondi che non consente
l’inserimento della figura professionale dello psicologo sportivo
all’interno dello staff tecnico.
Spesso un maestro è un ex-giocatore, che per amore del tennis e per il
piacere di rimanere inserito in un determinato contesto sportivo, decide di
dedicarsi all’allenamento di gruppi agonistici e di singoli allievi delle
categorie giovanili.
Questo settore, ed in particolare modo quello delle fasce di età più bassa,
è costituito da una vasta tipologia di ragazzi, alcuni dei quali già
dispongono di buone doti fisiche e tecnico-tattiche accanto ad altri da
poco avviati alla pratica sportiva.
65
Grafico 7
Nello sport giovanile si riconosce grande importanza alle potenzialità
formative ed educative che dovrebbero contribuire a sostenere lo
sviluppo psico-fisico del giovane tennista, oltre che naturalmente indurlo
a sviluppare autostima, consapevolezza e capacità di collaborare con gli
altri.
Sarà compito del “bravo” maestro promuovere queste influenze positive,
in abbinamento all’allenamento specifico e tecnico, scegliendo le
modalità di interazione con gli allievi che si ritengano più appropriate,
individualmente e collettivamente.
Il maestro può rivestire anche i ruoli di educatore e leader del gruppo,
miscelandoli sapientemente al fine di evitare di influenzare
negativamente l’esperienza sportiva del ragazzo che in casi estremi
potrebbe sentirsi demotivato fino all’abbandono dell’attività.
Dovrà essere capace inoltre di infondere una giusta dose di stress, tale da
incrementare l’agonismo ma da non gettare l’allievo in stati ansiosi che
gli precluderebbero il piacere del divertimento derivante dalla pratica
sportiva.
94%
4% 2%0%
10%20%30%40%50%60%70%80%90%
100%
Maestri e giocatori
Molta Poca Nessuna
Importanza delle abilità psicologiche e del mental training
66
Spesso i giovani atleti hanno una considerazione non totalmente
soddisfacente del proprio maestro nel caso che faccia prevalere
maggiormente gli aspetti tecnici e di risultato su quelli ludici e ricreativi.
Per questi motivi alla figura del maestro moderno, dei settori giovanili in
particolar modo, viene richiesta un’adeguata preparazione in strategie di
tipo motivazionale, tale da trasformare in esperienza gratificante anche
una prestazione di scarso valore, sdrammatizzandola e riconducendola al
gioco e al divertimento.
Il maestro riveste, o dovrebbe rivestire, il ruolo di leader istituzionale
all’interno del circolo, essendo stato designato all’incarico direttamente
dal gruppo sportivo, ma deve disporre anche della capacità di proporsi
come guida e punto di riferimento per i propri ragazzi.
Dovrebbe evitare di esercitare la propria leadership con eccessiva autorità
o eccessivo paternalismo e sarebbe auspicabile che condividesse anche
con altri elementi dello staff la leadership di relazione, concedendo
spazio a quanti lo richiedano e che abbiano una spiccata tendenza a
manifestare la loro personalità, magari assumendo il ruolo del leader dei
leader.
Tutto ciò contribuirà indubbiamente a consolidare lo spirito di gruppo e a
favorire il raggiungimento di comuni obiettivi, in un clima divertente,
rilassato e collaborativo.
67
2.5. Gestione delle pressioni esterne e interne: stress e ansia
L’atteggiamento mentale ottimistico serve per sostenere le azioni nelle
situazioni di difficoltà, nutrendo la mente di pensieri e obiettivi positivi.
Nonostante ciò, lo stress in quanto risposta fisica e mentale ad una
richiesta ambientale non può e non deve essere evitato perché
costituisce il giusto stimolo alla vita.
Non è quindi una condizione patologica dell’organismo, anche se in
alcune circostanze può produrre patologia come nel caso in cui lo stimolo
agisce con grande intensità e per lunghi periodi.
Molti credono che stress e tensione siano la stessa cosa ma la tensione è
una reazione fisiologica di stress caratterizzata da sensazioni di ansia, di
preoccupazione e di pressione quando la gestione dello stress non ha
funzionato.
Fattori di stress
1. fattori di stress psicologico:
- livello tecnico: implica differenti gradi di responsabilità, di richieste
ambientali
- ruolo: ruolo in campo (leader di una squadra, giocatore a sinistra nel
doppio), giocatore ruolo (turnover, panchina nelle gare a squadra)
- supporto sociale da parte della famiglia e dello staff
- evento importante
- scarso utilizzo da parte del maestro
- eccessiva pressione esterna (media, presidente del circolo)
- noia durante gli allenamenti e i ritiri pre-gara
- pubblico ostile e/o invadente
- infortuni
- basso livello di prestazione e/o sconfitte nonostante grossi sacrifici in
allenamento
- scadimento delle motivazioni dovuto a un errato goal-setting:
68
rapporto tra abilità ed obiettivo: quando un atleta valuta se stesso
non sufficientemente capace di raggiungerlo difficilmente sarà
motivato a impegnarsi in un’attività frustrante
relazione tra difficoltà dell’obiettivo e la fiducia in se stesso: la
fiducia in se stesso influenza direttamente la percezione della
difficoltà del compito e la successiva prestazione
obiettivi troppo facili e poco incentivanti: giocare contro un
giocatore nettamente inferiore
locus of control eccessivamente interno a fronte di reiterate basse
prestazioni
- clima organizzativo della società: comunicazione e organizzazione tra i
membri della staff e tra questi e la dirigenza
- pressioni esterne: da parte degli sponsor, dei mass media, della società e
dei tifosi
2. fattori di stress in allenamento e in gara
- logistica: tipo o terreno, luci, materiali
- condizioni climatiche: vento, pioggia, freddo, umidità ecc.
- carichi di lavoro: es. allenamento aerobico e anaerobico
- partita importante: finali, incontri decisivi, campionati a squadre sono
partite in cui è necessario mantenere un ottimale livello d’ansia e
occasioni in cui difficilmente si riesce a controllare la paura
- disagi e stanchezza durante lunghi trasferimenti e trasferte
Tali fattori di stress possono dare origine nell’atleta ad una serie sintomi
psicofisici, a loro volta destinati a causare scarso rendimento.
Segni di stress sono:
- irritabilità generica, ipereccitazione o depressione
- secchezza della bocca e della gola
- comportamento impulsivo e instabilità emotiva
- incapacità di concentrazione
- predominio del senso di stanchezza
69
- ansietà fluttuante: sensazione di paura senza sapere esattamente di che
- insonnia derivante dalla difficoltà di conciliare il sonno
- mancanza o eccesso di appetito
- riso nervoso o senza motivo
- arrotondamento dei denti per abitudine di digrignarli.
Gestione dell’ansia
Ben più difficile è il compito di affrontare l’ansia di un allievo che ha la
percezione di una situazione troppo ardua da gestire.
L’ansia in sé non è un elemento negativo per il rendimento, in quanto
entro certi livelli favorisce l’attività sportiva.
Il fattore determinante è invece come il ragazzo percepisce le
manifestazioni ansiose e come indirizza questo tipo di attivazione e di
energia: se un giocatore riesce o impara ad interpretare le proprie
manifestazioni somatiche d’ansia come energia che circola nel corpo e
non come qualcosa di negativo la conseguenza sarà l’assenza dei disturbi
cognitivi e la focalizzazione di questa energia di attivazione.
L’effetto negativo che l’ansia può avere sul rendimento sportivo è dovuto
spesso allo spostamento della motivazione dall’avere successo all’evitare
la sconfitta.
Nel soggetto bloccato dall’ansia di non farcela, di non essere abile, di
deludere le aspettative proprie e quelle dei genitori, del maestro e del
circolo la paura rende i pensieri e le decisioni lenti e inadatti.
Nella fase pre-gara sono sintomi inequivocabili di uno stato ansioso il
manifestarsi di variazioni del ciclo sonno-veglia, delle funzioni
fisiologiche espulsive così come le continue richieste di “aiuto tecnico”
spesso accompagnate da nervosismo e mancanza di attenzione.
Ad un’attivazione troppo alta con aumento della frequenza respiratoria,
ritmo cardiaco accelerato e sudorazione accentuata, la tensione muscolare
quasi corrisponde a quella psicologica e nella mente del giovane tennista
si affacciano presagi o ricordi minacciosi di vergognose sconfitte che a
loro volta, accompagnati spesso da un linguaggio interno negativo, come
70
in un circolo vizioso aumenteranno l’ansia che da un lato renderà i
movimenti lenti ed impacciati, dall’altro farà diminuire la lucidità tattica
e il livello di prestazione.
Il solo accorgersi di non essere capaci di gestire questa situazione, la
paura di non riuscirci, il ricordo di non esserci riuscito in altre occasioni
o le immagini di un compagno che perde nelle stesse circostanze possono
essere motivo di forte ansia di stato che purtroppo può trasformarsi, a
lungo andare, in ansia di tratto.
Soggetti motivati al successo infatti dimostrano un’elevata persistenza al
compito, forniscono prestazioni di alto livello, sono rapidi nelle
esecuzioni, sono orientati maggiormente sull’abilità e meno sulle
persone, assumono una certa dose di rischio e con soddisfazione le
responsabilità delle proprie azioni.
Soggetti motivati ad evitare la sconfitta perché “in ostaggio” della
propria ansia presentano modificazioni complesse e personali a carico del
sistema nervoso vegetativo (pulsazioni, respiro, tensioni e tremori
muscolari…), modificazioni comportamentali personali nel senso della
fuga (riscaldamento blando e senza impegno, continuo lamento per
presunti problemi fisici…) che lo isolano dal gruppo per l’atteggiamento
espresso, modificazioni dei processi mentali e psicologici (rigidità degli
schemi ideativi, senso di confusione, insicurezza, difficoltà a
concentrarsi…).
Fig. 3 Allievi under durante una premiazione
71
Come può un maestro far sì che i suoi allievi utilizzino l’ansia in quanto
forma energetica senza lasciarsene travolgere?
Egli può spostare l’obiettivo dalla vittoria al progresso nell’abilità
prestativa in modo da mantenere il più possibile l’equilibrio tra sfida ed
abilità, cercando di far fluire quest’energia interiore in direzione di
quest’obiettivo equilibrato.
È chiaro che occorre, in precedenza, un lavoro sul riconoscimento e
l’utilizzazione di questa risorsa.
Un processo stressante deriva dalla percezione di uno squilibrio tra le
richieste ambientali e capacità di risposta del soggetto, e l’inadeguatezza
ad affrontare tali richieste è percepita come potenzialmente pericolosa
(Robazza, Bortoli e Gramaccioni 1994).
Per molto tempo gli psicologi hanno considerato questi stati ansiosi come
un aspetto che influenza negativamente la prestazione, agendo
quindi nel tentativo di ridurli.
Negli ultimi anni, invece, si è diffusa l’opinione che un moderato livello
di ansia possa comportare un giusto grado di attivazione fisiologica, che
può, a sua volta, tradursi in uno stimolo energizzante utile per il
miglioramento della prestazione.
Spesso, nel considerare le situazioni stressanti cui tennisti di giovane età
sono sottoposti, si sono confusi, o usati impropriamente, i termini di
attivazione ed ansia.
Il primo indica esclusivamente l’attivazione dell’organismo
rappresentando una situazione neutra che riflette solamente l’intensità dei
cambiamenti del sistema nervoso autonomo.
L’ansia, invece, esprime l’interpretazione cognitiva del soggetto che si
accompagna ad un elevato grado di attivazione, in presenza anche di uno
stato d’animo negativo (Bortoli, Robazza e Gramaccioni 1994).
Come si può intuire non si può quindi considerare uno di questi due
aspetti senza prendere in esame anche l’altro, e tale legame si può meglio
comprendere distinguendo l’ansia in cognitiva e somatica.
72
L’ansia cognitiva rappresenta la componente mentale dell’ansia, che può
originare da varie valutazioni negative quali la paura del fallimento, la
scarsa fiducia nei propri mezzi, ecc.
L’ansia somatica, invece, è la componente legata all’attivazione
dell’organismo, ed in particolare rappresenta la percezione della risposta
fisiologica ad uno stimolo stressante mal gestito.
In letteratura c’è anche un’altra importante distinzione tra ansia di stato e
ansia di tratto: la prima esprime uno stato emozionale transitorio,
caratterizzato da vissuti soggettivi negativi di apprensione e tensione,
accompagnati da attivazione dell’organismo; la seconda invece è una
caratteristica relativamente stabile, una sorta di predisposizione a reagire
a molti stimoli ambientali con un’elevata ansia di stato.
Quest’ultima distinzione è stata utile per constatare che generalmente
atleti che presentano alti livelli di ansia di tratto evidenziano, nella
competizione, maggiore ansia di stato rispetto a quelli con bassa ansia di
tratto.
Fra i primi autori che cercarono di studiare l’ansia ipotizzandone anche
un effetto facilitante, e non solo inibente, ai fini della prestazione furono
Graham Jones e Austin Swain (1994).
Il test utilizzato per i loro rilevamenti fu lo CSAI-2 (Competitive State
Anxiety Inventory) che misura l’intensità dei sintomi indicatori della
presenza di uno stato ansiogeno, quali la tensione (ansia somatica) e la
preoccupazione (ansia cognitiva) misurando inoltre anche il livello di
fiducia in relazione alla competizione (self-confidence).
I risultati dei loro studi li portarono ad affermare che non esistono
differenze sostanziali tra atleti di vertice e atleti mediocri in termini di
ansia: ciò che li differenzia è invece l’interpretazione di questi sintomi
ansiogeni nel senso che gli atleti di vertice li considerano più facilitanti di
quanto non facciano gli atleti mediocri ai fini della performance.
I suddetti autori affermano, inoltre, che questa interpretazione positiva
dell’ansia è correlata ad una maggior fiducia in se stessi e nei propri
mezzi (self-confidence); chi invece presenta scarsa autostima tende a
riportare alti livelli di ansia in relazione alla competizione.
73
Quindi le due parole chiave che ci permettono di comprendere meglio la
dimensione dell’ansia sono il livello di attivazione e l’autostima di un
individuo.
Le persone fanno in parte riferimento al grado di attivazione fisiologica
per giudicare il proprio stato di ansia e difficoltà; poiché in genere
un’eccessiva attivazione incide negativamente sulla prestazione è
probabile che un soggetto si senta più sicuro delle proprie capacità
quando non si percepisce troppo teso ed agitato.
Ansia e paura non sono caratteristiche fisse di eventi situazionali;
derivano piuttosto dal divario che si percepisce fra potenziali aspetti
avversativi dell’ambiente e proprie capacità di farvi fronte.
74
CAPITOLO 3
MENTALITÀ VINCENTE
75
PREMESSA
La mentalità vincente è a nostro avviso, l’ingrediente più importate della
ricetta di successo elaborata dall’atleta capace di vincere più degli altri.
Ciò detto vale per la pratica sportiva e metaforicamente estensibile ad
ogni situazione di vita.
Essa è causa prima e, nel contempo, conseguenza di vittorie a catena; non
va mescolata o confusa con strafottenza, fanatismo, faciloneria.
Con l’aiuto di uno studio di Bruna Rossi analizziamo le dinamiche che
muovono l’atleta in relazione alle forze che provocano la sua eccezionale
attitudine alla vittoria .
Egli è self-centered. Vale a dire determinato nel pensare più a se stesso
che agli altri. L’approvazione che l’ambiente può concedergli è un
gradevole accessorio che, nel caso sia sostituito da un contesto ostile,
risulta utile nella stessa misura.
Shakesperare faceva declamare al suo Giulio Cesare: “Dite di me quel
che volete purché diciate” ed egli fu indubbiamente un vincente
Il self-centered utilizza il sentimento di approvazione da parte degli altri
come semplice “referente” nel personale processo di auto-valutazione
che desume prevalentemente da dati obiettivi.
Egli s’impegna in ogni competizione con serietà e al massimo di ogni
possibilità,non rinunciando tuttavia all’eccitazione del divertimento con
l’aggiunta di spirito di rischio e sfida.
Costantemente orientato durante la gara al presente, presta grande
attenzione e concentrazione nell’esecuzione perché consapevole che il
successo ne è la logica conseguenza.
Affronta le situazioni avverse senza drammatizzare:le considera come
facenti parte della realtà .
Nel prefiggersi mete reali e possibili utilizza buone capacità di analisi ed
è in grado di selezionare gli stimoli rilevanti nella situazione di gara. Li
riconosce e si concentra su di loro senza lasciarsi distrarre. Prevede il
programma,i tempi di gara senza rigidità, sicché è capace di modificare la
76
propria condotta tecnica e tattica adattandosi flessibilmente a condizioni
inaspettate senza lasciarsi in alcun modo intimorire.
Il self-centered sa attendere, non “tira le somme” prima che la gara sia
finita,così da avere maggiori chances di recupero e di rimonta..
In altre parole non si dà mai per vinto prima di esserlo davvero!
In termini di esperienza sa mettere a frutto il successo quanto
l’insuccesso valutando a posteriori, nell’analisi causa-effetto, il perché
della vittoria o della sconfitta.
Nel tennis l’atleta è unico attore in scena, l’unico responsabile del
risultato; non può condividere con dei compagni di squadra la gioia di
una vittoria e la rabbia negativa di una sconfitta.
Tutto ciò logora la mente e proprio per questo richiede una forte
mentalità vincente.
Il famoso psicologo americano B. Ogilvie incitò la squadra maschile di
nuoto del suo paese prima di una importante competizione così: “ Guai a
voi se, sui blocchi date la mano agli avversari, se familiarizzate, se
sorridete, voi dovete odiarli, dovete pensare che vi hanno rubato la
ragazza; pensatele tutte perché, se non li odiate, non potete vincere:
perché per vincere ci vuole “l’istinto dell’assassino” o meglio
denominato “killer istinct”.
Modulando quanto su citato alla competizione riportiamo come l’atleta
Kris Evert definiva a suo modo l’espressione Killer istinct: “ la
sensazione che in un dato momento non c’è nulla di più importante che
vincere il prossimo punto”.
E ancora un esempio di comportamento in campo da tennista dotato di
mentalità vincente è sicuramente quello tenuto in campo da Lleyton
Hewitt nella finale degli Australian open 2005 che si concluse con la sua
sconfitta. Egli lottò in ogni momento della partita, tanto che a pieno
titolo lo possiamo definire un vero “fighter” e volendo interpretare il suo
body language e il suo sguardo, dall’inizio alla fine di questo match ne
leggiamo il messaggio positivo di chi ha la consapevolezza di aver dato il
100% vivendo il continuo “piacere” del gioco: nella vittoria e nella
sconfitta.
77
Questo è per noi l’atleta dotato di mentalità vincente con l’istinto del
Killer, la consapevolezza che un atleta di tal levatura sa trarre dalla
vittoria e dalla sconfitta strumenti per migliorare e per poter scalare un
altro gradino alla ricerca della pur impalpabile perfezione.
Pertanto il tennista moderno per poter raggiungere “un mentalità
vincente”, comune soltanto ai migliori giocatori del mondo, deve quanto
prima imparare a sviluppare queste capacità: tenacia, concentrazione, il
self control nelle fasi di difficoltà di gioco, la padronanza e la sicurezza
di sé, l’autostima, il self-talk positivo e infine, ma non per ultima,
l’abilità ad isolare e a lottare per ogni singolo punto, per il
raggiungimento dell’obiettivo finale.
78
3.1. Autostima e mentalità vincente
La maggior parte degli atleti di grande successo crede fermamente nelle
proprie risorse e capacità, impegnandosi ad utilizzare tutti i mezzi a
disposizione.
Alcuni giocatori partono già sconfitti prima di entrare in campo, pensano
errori fatti nelle precedenti gare, si stimano incapaci, fermano il loro
pensiero su aspetti negativi.
Bisogna abbandonare le ”credenze limitanti” (non sarò mai un campione,
le gare importanti le ho sempre perse, ecc.) e sostituirle con le ”credenze
potenzianti” (con l’allenamento e l’impegno diventerò più bravo) per
acquisire forza, determinazione, convinzione di potercela fare. (Livio
Sgarbi).
La condizione psicofisica sopra ogni aspettativa, rappresentata da un
senso di benessere, da uno stato psicologico ottimale, è strettamente
correlata ad abilità e a componenti psicologiche quali, fiducia pre-gara,
pensiero positivo, motivazione, livello di attivazione psicofisiologica,
ecc. e non può essere sperimentata in una situazione di ansia o di scarsa
autostima.
Per favorire questa situazione, oltre alle capacità, all’abilità e alla
motivazione, si necessita di ottimismo e di convinzione di essere
all’altezza della situazione. Chi pensa di non farcela, di non essere
capace, è perdente in partenza. Chi ha scarsa fiducia in sé tende a
diminuire il proprio impegno, evitare il compito proposto, attribuire gli
insuccessi a incapacità personali e i successi a cause esterne. Viceversa
chi ha fiducia in sé e autostima, ha voglia di impegnarsi e di raggiungere
gli obiettivi. Rappresentare il successo migliora la prestazione.
E’ importante allenare la capacità di conservare la fiducia in sé in
situazioni che la escluderebbero. ”Il vero successo non consiste nel non
cadere, ma nel rialzarsi ogni volta che si cade”. (Vince Lombardi)
E’ rilevante sviluppare un pensiero positivo eliminando tutte le cose
negative, che in genere si caratterizzano con delle espressioni ben
79
precise: “ sull’erba non giocherò mai bene “, “ il rovescio non lo
imparerò mai ”, ” penso di non farcela ”, ecc.
Tutte queste auto-svalutazioni ,limitazioni , paura di cosa accadrà, dubbi
su di sé, timore di deludere gli altri non consentono di esprimersi al
meglio.
Il maestro deve essere attento nel percepire queste difficoltà espresse
dall’allievo e aiutarlo a superarle, in primo luogo facendo sostituire le
affermazioni negative con quelle positive.
I pensieri positivi sono legati anche alla fiducia che l’allievo ha di sé,
come consapevolezza di riuscire ad eseguire un compito prima di
metterlo in atto (Mildred McCoy 1977). Il successo aumenterà la fiducia
in sé e l’autostima, l’insuccesso la farà diminuire (Bandura).
La fiducia in sé può essere anche stimolata da esperienze sostitutive,
come ad esempio vedere gli altri vincere un match, può fare scaturire la
convinzione di essere capaci, da incitamenti e incoraggiamenti verbali
(sei bravo , forza , dai che puoi farcela, sei il più forte, ecc.), come
tecniche persuasive suggestionanti per convincere l’allievo che può
esprimersi con successo. Va detto che tuttavia, queste tecniche persuasive
sono più deboli e meno incisive rispetto all’esperienza del successo in
precedenti occasioni.
Un esercizio che porta alla consapevolezza di un atteggiamento positivo,
si chiama “inquadramento positivo della mente”. Esso consiste
nell’invitare l’allievo a descrivere tre aspetti che lo caratterizzano in
relazione a degli argomenti guida come:
- colpi vincenti e punti di forza;
- miglioramenti fatti negli ultimi sei mesi;
- tornei di cui si sente soddisfatto;
-aspetti dell’allenamento che sono stati curati particolarmente;
- prossimi obiettivi.
80
Fig. 2 Roger Federer
In caso di sconfitta o insuccesso, un atteggiamento negativo è
rappresentato dall’attribuzione del proprio esito negativo a fattori interni
e stabili (“sono un buono a nulla”, “non migliorerò mai”, ecc.).
Il maestro e lo psicologo, in questi casi, devono intervenire per
migliorare l’immagine di sé, attribuendo situazioni realistiche e positive.
Si deve fare di tutto per migliorare la stima dell’allievo, in modo tale che
la prestazione sia affrontata con la massima fiducia. A tal proposito, due
studiosi (Deborah Feltz, Dan Goul) suggeriscono un insieme di proposte
per incrementare la fiducia nell’allievo:
esaltare e incoraggiare sempre in positivo, dopo l’esecuzione di un
compito (sei migliorato parecchio, hai un ottimo diritto, ecc.);
dare suggerimenti su quello che va fatto e non su quello che non si deve
fare (sostituire la frase “ non tirare con le gambe diritte “ con “ piegati
bene sulle gambe “, “ stai basso appena colpisci “); le frasi su cosa non
va fatto trasportano l’informazione in senso negativo e creano dubbi;
proporre all’allievo di auto-elogiarsi con delle frasi sulle proprie capacità
(“sono forte”, “sono bravo”, “ho un diritto micidiale”, ecc.);
convincere l’atleta che i risultati ottenuti sono dovuti alle proprie capacità
e che sta seguendo un allenamento completo;
81
abituare l’allievo ad analizzare e valutare la prestazione specialmente
dopo una vittoria, dandosi anche un punteggio;
spiegare all’allievo che, prima della gara, i segnali che potrà avvertire
(aumento del battito cardiaco, respiro affannoso, sudorazione, ecc.),
prepareranno il corpo ad affrontare l’incontro;
incoraggiare il successo della prestazione in virtù delle precedenti
esperienze e al fatto che in allenamento sono stati curati tutti i particolari.
82
3.2. Interviste a giocatori professionisti
Le interviste, rivolte a 20 professionisti del circuito maschile (A.T.P.) di
cui ci piace ricordare Adrian Voinea, Leonardo Azzaro, Potito Storace,
Oliver Marach, Hicham Arazi, Uros Vico, hanno avuto l’obiettivo
principale di risalire alle principali abilità mentali del tennista e quali
fossero le principali tecniche di mental training.
A tale scopo i grafici che seguono mostrano i risultati ottenuti dalle
interviste effettuate.
Hai mai fatto mental training?
35%
65%
si
no
Grafico 1
83
Grafico 2
Abilità mentali che un tennista deve sviluppare per migliorare il proprio
ranking
19%
10%
16%
18%
11%
15%
11%
Concentrazione Determinazione Aggressività Autostima
Motivazioni Positività Controllo Emozioni
Grafico 3
84
Grafico 4
Da questa indagine si evince che, nonostante la grande importanza che in
quest’ultimi anni riveste la preparazione mentale di un tennista, soltanto
il 65% dei nostri intervistati è stato allenato con tecniche di mental
training, ma la quasi totalità degli atleti ha ormai raggiunto la
consapevolezza di quanto le proprie prestazione possano migliorare
allenando l’aspetto mentale da juniores.
Qua nto p e n si che avresti potuto migliorare il tu o ra n k ing a lle nando l'aspetto mentale da junior e s ?
9 0%
10%
0% 0
0 , 1
0 , 2
0 , 3
0 , 4
0 , 5
0 , 6
0 , 7
0 , 8
0 , 9
1
m o l t o abbastanza po c o
85
3.3. Aggressività e agonismo
Gli aspetti psicologici nel tennis sono molteplici e differenti. Essi sono
basati sia sulle motivazioni proprie di ogni individuo, sia sulla disciplina
sportiva praticata. I più importanti sono: la dominanza,
l’autorealizzazione, la socializzazione, il narcisismo e l’esibizione,
l’aggressività e la rivalità particolarmente evidenti nell’agonismo, in cui
l’obiettivo consiste nel prevalere sull’avversario, inteso come limite da
superare. Nell’agonismo, inoltre, l’aggressività viene sublimata ed
incanalata per raggiungere la vittoria.
Chi vive nel mondo del tennis sa che è uso comune distinguere l’attività
in agonistiche e non agonistiche. Da un punto di vista psicologico, questo
non è corretto, perchè non esiste concettualmente uno sport che non sia
agonistico; l’agonismo è alla base dello sport; se togliamo il gioco e
togliamo l’agonismo, noi facciamo dell’attività sportiva soltanto
un’attività motoria.
Questo però non significa che l’agonismo sia inteso solo come desiderio
di superare l’avversario; ci può essere un “agonismo” anche nei confronti
di se stessi, per esempio come nel caso dell’individuo che riesce a fare il
giro dell’isolato in qualche secondo di meno di quanto egli stesso no
l’abbia fatto il giorno prima.
L’agonismo è una forma di aggressività socializzata. L’aggressività può
avere delle cariche anche negative, cioè con una potenzialità asociale.
L’agonismo no, perché è una istituzionalizzazione dell’aggressività entro
limiti socialmente accettabili.
Quando a primavera i grandi ghiacciai alpini cominciano a sciogliersi,
masse ingenti di acqua si rovesciano a valle e costituiscono un pericolo.
L’uomo che sa di questo appuntamento annuale, ha alzato degli argini
attorno a questi fiumi alpini e, magari, giù a valle ha costruito un bacino
idroelettrico (letture, Roma, E. Luigi Pozzi, F. Antonelli, 1987) . Ecco il
rapporto che esiste fra questa forza bruta, potenzialmente pericolosa,
della natura e l’incanalamento di questa forza, addirittura la sua
86
utilizzazione a fini pratici, è paragonabile al rapporto che esiste fra
aggressività ed agonismo.
È una paura giustificata dal fatto che la parola aggressività ha un etimo in
comune con un’altra parola che ha un significato indubbiamente
negativo: mi riferisco all’aggressione; l’etimo è lo stesso, ma la
differenza è sostanziale perché aggressione è l’atto di aggredire,
aggressività è la capacità o potenzialità di compiere un’aggressione, nel
caso che ciò venga deciso. L’aggressività è una energia e, come tale, non
può essere decretata immediatamente come negativa, perché non
esistono energie negative., L’aggressività appartiene alla personalità di
ciascuno di noi, quindi a tutta l’umanità, per migliorarsi, per prevalere
sull’avversario, ed è per questo che nessuna conquista umana è possibile
senza una certa aggressività. Ecco perché l’aggressività sia una energia
“naturale” che non ha nulla di pericoloso, purché canalizzata da certe
normative.
Aggressività o “grinta” come la chiamano i tecnici sono sinonimi che
esprimono la stessa cosa e sanno che gli atleti di oggi non hanno più
l’anima del famoso De Coubertain, “l’importante è partecipare” è stato
ridicolizzato. I giovani tennisti non sono affatto disposti a fare un’attività
sportiva soltanto per partecipare, il loro desiderio, la loro speranza è
soltanto vincere.
Fig. 3 Rafael Nadal
87
L’importante è mettere il massimo dell’aggressività non nel disturbare
l’avversario, bensì nel gestirla come energia tesa al raggiungimento di un
successo, canalizzando questa energia verso una vittoria,
un’affermazione, verso la sensazione di aver fatto del nostro meglio.
88
3.4. L’interpretazione dell’agonismo
Lo sport esige la componente agonistica, cioè non può fare a meno del
momento della sfida, qualunque cosa sia in palio.
Senza l’agonismo lo sport si snatura, cioè perde la sua natura originale,
non è più sport, lo si può fare a tanti livelli, ma senza mai rinunciare alla
sua sostanza agonistica. “Uno sport senza agonismo equivale ad una
compravendita senza denaro” (letture, Roma, E. Luigi Pozzi, F.
Antonelli, 1987). Chi raccoglie i suoi risparmi e li investe nell’acquisto di
un appartamento fa un “affare” anche senza essere, perciò stesso, un
“uomo d’affari”, però, come l’uomo d’affari, deve rispettare certe regole
come il notaio, il versamento di una somma di denaro, il pagamento di
certe regole come il notaio, il versamento di una somma di denaro, il
pagamento di certe tasse, l’assunzione di determinate responsabilità. Così
il tennis, comunque venga fatto, rispetta sempre certe regole:
preparazione, programmazione, sfida, impegno, rischio; in una parola
sola: agonismo. Tutto finalizzato all’affermazione.
Va precisato che “affermazione” non è necessariamente sinonimo di
vittoria. In effetti significa sforzarsi per ottenere un successo.
Vittoria e successo non sono sinonimi, come non lo sono sconfitta e
insuccesso. Si può conseguire un grande successo anche se si perde, così
come si può vincere male, cioè ottenere una vittoria immeritata che
equivale ad un insuccesso.
In realtà l’agonismo è parte integrante di ogni essere umano. Non è frutto
dello sport, semmai è lo sport ad essere frutto dell’agonismo come
modalità salutare di gestirlo in termini socialmente accettabili.
Non dobbiamo temere l’agonismo, anzi dobbiamo favorirlo; graduatoria,
frustrazioni, inflazione, sogni, sono pane quotidiano per i bambini, sia in
famiglia che a scuola. Lo sport ripropone le stesse possibilità ma col
vantaggio di un clima di libera scelta, di autentica individualità, di
rimediabilità. Qualcuno teme che lo sport possa nuocere alla salute
psichica di qualche bambino, dall’altra parte c’è l’esperienza generale
che ritiene sospetto e pericoloso che un bambino non faccia sport.
89
Nello sport si incontra sempre qualcuno più fortunato o più forte, si
comprende quali sono i propri limiti e come potersela cavare da soli,
l’esperienza sportiva è maestra di vita. E questa è la vera educazione alla
vita, ecco, forse una buona definizione dell’agonismo: “Educazione alla
vita”.( F. Antonelli, 1987).
90
3.5. Il mental-training: problematiche ed applicabilità
Il Mental training è nato in Cecoslovacchia dove Vanek invitava i
calciatori della sua nazionale, alla vigilia di un incontro, a prevedere la
partita e a pensare che tutto andasse in modo catastrofico. L’indomani
erano pronti ad accettare qualunque avversità, mal che andasse, non
poteva mai andare così male come era stato ipotizzato.
Poi il mental training si è affinato e generalizzato attraverso una serie di
tecniche di allenamento mentale che hanno la capacità di migliorare
l’atteggiamento mentale in riferimento alla prestazione. Precisamente,
trasmettono rilassamento, sicurezza, grinta, calma, voglia di vincere,
concentrazione, visualizzare idealmente il gesto atletico e perfezionarlo,
attenzione, attenua le tensioni e dominio di sé.
Il Mental trainig è un buon sistema per tenere l’ansia sotto controllo e
cioè per lasciarla salire di giorno in giorno, ma a livelli più bassi, affinché
l’inevitabile impennata finale non raggiunga un’entità patologica e quindi
non diventi un disturbo.
È pur vero che alla vigilia della gara l’atleta rischia più che nella gara
stessa: non è sbagliato sostenere che certe gare si vincono (o si perdono)
il giorno prima. L’eccesso di concentrazione è deleterio quanto la sua
carenza: la performance ottimale si realizza solo se la concentrazione (o
attivazione o vigilanza, termini con cui è traducibile l’intraducibile
termine inglese arousal) è nella media, lontano da entrambi gli eccessi
opposti, nel classico grafico ad U rovesciata.
Alcuni giocatori, le suddette capacità, le possiedono per un fattore
genetico, ma è pur vero che qualsiasi individuo con l’aiuto di determinate
tecniche psicologiche, può migliorare il comportamento in campo e di
conseguenza la qualità della prestazione tecnica, fisica e mentale.
Uno degli obiettivi fondamentali è di aiutare atleti normali a diventare
psicologicamente migliori (Martens 1987). Non ha il compito di curare
gli atleti che hanno problemi psicologici, ma si orienta verso la crescita
dell’individuo sano attraverso l’ottimizzazione delle sue risorse emotivo-
cognitive. (Orlick, 1989; Ferraro & Rush, 2000).
91
Una convinzione errata, dimostrata da numerosi studi in merito, pensare
che le abilità psicologiche siano innate e immodificabili, che il training
mentale non è utile, che il training mentale è riservato agli atleti d’elite.
I primi ad approfondire lo studio del rilassamento in ambito sportivo
furono i sovietici, in particolare lo psicologo sportivo Alexander Romen,
che notò il miglioramento della performance più di qualsiasi altro
metodo.
L’approfondimento di tali tematiche nasce dalla consapevolezza che
effettivamente quello che fa la differenza fra un giocatore e l’altro è
proprio l’approccio mentale e psicologico con cui si affronta una gara.
Numerosi studi (Mahoney, Gabriel, Perkins), confermano che gli atleti di
alto livello si rendono diversi, rispetto agli altri, per livelli più alti di
concentrazione, di controllo dell’ansia, di fiducia nelle proprie capacità,
di preparazione mentale e motivazione.
Fra i differenti compiti del maestro, la preparazione psicologica degli
allievi assume un carattere rilevante per fornire i mezzi necessari ai fini
di un’adeguata preparazione alla competizione.
L’allenamento mentale può servire per perfezionare strategie mentali già
presenti nell’atleta o crearne delle nuove, che devono essere
personalizzate in base ai gradi di comprensione, di capacità, di tempo
disponibile, ecc.
Qualsiasi prestazione sportiva necessita di diversi elementi propedeutici.
Per allenarli al meglio, si richiede spirito di sacrificio, volontà,
motivazione, predisposizione fisica atletica, capacità tecniche, una
determinata intensità di allenamento, una adeguata alimentazione, regole
di vita ben definite, preparazione mentale.
È necessario dedicare uno spazio all’allenamento mentale con continuità
in base all’età e al livello di gioco. È fondamentale inserire il mental-
training soprattutto nelle situazioni reali dell’allenamento specifico.
L’allievo deve essere motivato, si deve impegnare, avere fiducia
nell’allenatore e nei metodi applicati.
Alcuni esercizi di Bioenergetica danno dei risultati da quanto vi si
investe, se vengono praticati meccanicamente si otterrà ben poco. Se
92
verranno eseguiti in modo coercitivo ne diminuirà l’efficacia, se infine
eseguiti in modo competitivo non si proverà nulla.
Bisogna stabilire chiaramente per prima cosa che il mental training non è
un sostituto delle terapie, non potrà risolvere profondi problemi emotivi,
per cui generalmente si richiede un intervento terapeutico competente.
Sicuramente ognuno nasconde molto di sé sotto la propria armatura
caratteriale che non emerge o che stenta ad emergere: genitori, cultura,
religione, società, spesso limitano l’espressione e la creatività.
Il mental-training cerca di allentare per quanto possibile questi freni e di
far partecipare più pienamente alla vita e alle gare.
La Bioenergetica
Il corpo parla, ma pochi lo ascoltano perché pochi conoscono il suo
linguaggio. Per farsi sentire è costretto a urlare, i muscoli del volto si
contraggono, il sorriso si spegne, gli occhi perdono la loro lucentezza. Un
corpo inascoltato prima o poi è destinato a difendersi, costruendo una
corazza muscolare e bloccando il respiro, segno che l’energia non scorre
più liberamente, a discapito della possibilità di provare piacere.
La Bioenergetica fondata dallo psicanalista Alexander Lowen, è in grado
di decifrare i messaggi del corpo e può andare così a rimuovere quei
blocchi fisici, che sono solo l’aspetto esteriore di blocchi emotivi più
profondi.
La Bioenergetica è anche una forma di terapia che associa il lavoro sul
corpo con quello sulla mente per aiutare le persone a risolvere i propri
problemi emotivi e realizzare in misura più ampia il proprio potenziale di
provare piacere e gioia di vivere.
Una tesi fondamentale è che il corpo e la mente funzionalmente sono
identici , quello che succede nella mente riflette quello che succede nel
corpo e viceversa. La relazione tra questi tre elementi, corpo, mente e
processi energetici, è espressa nel migliore dei modi da una formulazione
dialettica. “La personalità di un individuo si esprime attraverso il suo
93
corpo tanto quanto attraverso la sua mente. Non si può dividere un essere
umano in corpo e mente”, scrive A. Lowen.
Fig. 4 Alexander Lowen
Ciò che si pensa può influenzare il modo in cui si sente e il contrario è
ugualmente vero. Questa interazione tuttavia è limitata agli aspetti consci
o superficiali della personalità. A un livello più profondo, cioè al livello
dell’inconscio, sia pensare che sentire sono condizionati da fattori
energetici. Per esempio, è quasi impossibile a una persona depressa
emergere dalla sua depressione con l’ausilio di pensieri ottimisti. Questo
perché il suo livello di energia è depresso. Quando il livello energetico
aumenta tramite la respirazione profonda e la liberazione del sentire,
allora la persona esce dal suo stato depressivo (la depressione e il corpo,
Roma, Astrolabio, 1979).
Più si è vivi, più energia si ha e viceversa. Il lavoro della bioenergetica
sul corpo comprende trattamenti con le mani e particolari esercizi. I primi
consistono in massaggi, pressione controllata e leggeri contatti per
rilassare i muscoli contratti. Gli esercizi intendono aiutare chi li pratica a
entrare in contatto con le proprie tensioni e a rilasciarle tramite
movimenti appropriati. È importante sapere che ogni muscolo contratto
sta bloccando qualche movimento. La bioenergetica aiuta ad acquisire
una maggiore padronanza di se stessi con tutto quello che ciò comporta:
- Aumenta lo stato di vibrazione del corpo
- Aumenta la percezione delle gambe
- Rende più profonda la respirazione
- Rende più consapevoli di se stessi
- Amplia gli orizzonti della auto-espressione
94
Molti tennisti si preoccupano, solitamente, di eseguire in modo perfetto
preciso e meccanico i loro gesti motori a scapito delle percezioni e delle
emozioni ad essi legate. L’obiettivo della bioenergetica deve essere,
quindi, il sentire e non lo sforzo. Si differenzia dalla ginnastica in quanto
mira ad aiutare il tennista a lasciarsi andare, ad abbandonarsi anziché
sviluppare forza muscolare.
Per la bioenergetica fare è meno importante che sentire, il giovane
tennista capace di percepirsi, a parità di potenzialità tecniche ed atletiche,
è avvantaggiato rispetto a colui che esegue il gesto senza sentirsi, senza
percepirsi, senza stare in contatto con tutto il proprio corpo. Questi
esercizi non vogliono sostituire l’allenamento che viene fatto con il
preparatore fisico o con il maestro, in quanto diversi sono gli obiettivi,
ancorché tutti con un solo scopo: migliorare il rendimento del giovane
tennista.
La respirazione nel Mental Training
Una buona respirazione è essenziale ai fini di una buona salute,
attraverso la respirazione, riceviamo l’ossigeno necessario per alimentare
la fiamma delle nostre combustioni metaboliche e queste a loro volta ci
forniscono l’energia di cui abbiamo bisogno. Aumentando l’ossigeno
aumentano il calore della combustione e la produzione d’energia.
Gli esercizi di respirazione sono di un certo aiuto, ma nulla fanno per
alleviare le tensioni e ripristinare le modalità della respirazione naturale.
Perché ciò avvenga, si devono capire tali modalità, si deve sapere perché
vengono alterate e imparare ad allentare le tensioni che ne danneggiano il
funzionamento naturale.
La respirazione sana è un’azione di tutto il corpo, tutti i muscoli vi sono
impegnati in qualche misura. Ciò è particolarmente vero per quanto
riguarda i muscoli profondi che fanno ruotare il bacino leggermente
all’interno e verso il basso durante l’inspirazione, aumentano la capacità
del ventre, e quindi lo fanno ruotare in avanti e verso l’alto per diminuire
la cavità addominale durante l’espirazione.
95
Questo movimento in avanti della zona pelvica è favorito da una
contrazione dei muscoli addominali. L’espirazione è soprattutto un
processo passivo che può essere esemplificato ottimamente da un
sospiro.
Una respirazione inadeguata produce ansia, irritabilità e tensione. Ogni
difficoltà di respirazione causa ansietà.
Perché tanti tennisti incontrano difficoltà nel respirare appieno e
agevolmente? La risposta sta nel fatto che la respirazione crea delle
sensazioni che le persone temono di provare. Hanno paura di percepire
tristezza nell’errore o nella sconfitta, timori ecc… Parallelamente, dalla
repressione di una qualsiasi sensazione risulta qualche inibizione della
respirazione.
Generalizzando, è importante comprendere il meccanismo che blocca la
respirazione, perché la repressione non può venir eliminata finché non si
ristabilisce una respirazione normale.
I tipici disturbi della respirazione sono confinati nel torace, con la
relativa esclusione dell’addome, nell’altro la respirazione è per la
maggior parte diaframmatica, con movimenti relativamente lievi del
torace.
Per non trattenere il respiro vi sono due norme:
1) lasciare che la respirazione si sviluppi spontaneamente, senza forzare
il respiro, cercando di “sentire” quando non si sta respirando.
2) emettere un suono. Se emettete un sospiro, fate che sia udibile.
Il rilassamento muscolare analitico
Questa forma di rilassamento si rifà al metodo usato da Edmund
Jacobson; rappresenta una rielaborazione del training autogeno e si
differenza da quest’ultimo perché non comporta suggestione o ipnosi.
Si parte dall’idea che si può attuare il rilassamento, se si conosce il
vissuto della tensione muscolare.
Questo metodo alterna momenti di contrazione a momenti di
decontrazione muscolare che hanno il compito di eliminare la tensione.
96
Sono previsti sei esercizi da svolgere in un’unica seduta per circa 15
minuti al giorno. Dopo circa un mese i risultati possono essere
soddisfacenti per regolare la tensione emotiva e il rilassamento generale.
Anche in questi esercizi, come nel training autogeno, ci devono essere i
requisiti relativi all’ambiente, alla postura e alla disponibilità
psicologica. Va attuata la ripresa ad ogni fine esercizio inoltre si farà
riferimento a parti singole del corpo e a parti più estese.
ESERCIZI:
PRIMO ESERCIZIO
In posizione seduta, portare le braccia tese in avanti; flettere il dorso delle
mani verso il corpo rimanendo con le braccia tese; raccogliere la
sensazione di pesantezza delle braccia, dei polsi, delle mani e delle
spalle; dopo qualche minuto rilasciare le braccia sopra le cosce e ripetere
per altre tre volte.
SECONDO ESERCIZIO
Da posizione seduta, sollevare il braccio dominante e rilassare l’altro;
percepire la sensazione di pesantezza, di contrazione e di rilassamento;
dopo qualche minuto rilasciare e ripetere per altre tre volte.
TERZO ESERCIZIO
Da posizione seduta, sollevare le gambe tese in avanti; lentamente
flettere il dorso del piede verso il corpo rimanendo con le gambe tese;
sentire la pesantezza; contare lentamente fino a 15 e ripetere per altre tre
volte, effettuando una pausa fra un esercizio e l’altro di 10 secondi.
QUARTO ESERCIZIO
Da posizione seduta, fare delle lunghe inspirazioni alzando le spalle e
contando fino a 10; espirare rapidamente rilassando le spalle.
Fra un esercizio e l’altro, rispettare delle pause di circa 6 secondi e
ripetere una decina di volte.
97
QUINTO ESERCIZIO
Posizione da seduto, braccia appoggiate sulle cosce, contare lentamente
da uno a cinque facendo corrispondere ad ogni dito della mano un
numero iniziando dal quinto dito.
Ripeterlo per entrambe le mani per circa 8 volte con una pausa di circa 5
secondi fra un esercizio e l’altro.
SESTO ESERCIZIO
Questo esercizio differisce dagli altri, perché fa riferimento allo schema
corporeo o schema motorio nel suo complesso, e non a singole parti del
corpo come negli esercizi precedenti.
Da posizione disteso sul materassino, cuscino basso sotto la testa, braccia
distese lungo i fianchi con il palmo della mano rivolto verso il basso,
gambe rilassate con la punta dei piedi che cade verso l’esterno.
Respiro lento e profondo, rimango con gli occhi aperti; mi concentro sul
mio corpo, in particolare sul mio viso, sui i miei occhi, mantengo
l’attenzione sul battito delle mie palpebre; ora le mie palpebre diventano
pesanti, si abbassano, si chiudono e sposto la mia attenzione sulla mia
bocca; stringo i miei denti, sento la tensione, rilascio e i denti non si
toccano più; sollevo leggermente la testa da terra, sento il peso del mio
capo e poi lentamente la riappoggio; sposto l’attenzione sulle mie mani,
stringo forte i pugni, rilascio lentamente e distendo con forza le dita a
ventaglio, sento la tensione e rilascio; ora cercherò di contrarre tutti
insieme i muscoli degli arti superiori chiudendo i pugni e spingendoli con
forza verso il pavimento con le braccia lungo i fianchi, sento la
contrazione dei polsi, dei gomiti, delle braccia, delle spalle, rilascio
lentamente, ripeto; ora mi concentro sul bacino staccandolo da terra con
una anteroversione, sento la zona lombare staccata da terra e la tensione,
lo rilascio lentamente; faccio il movimento opposto portando il bacino in
retroversione, sento la zona lombare ben aderente al suolo, la contrazione
degli addominali e dei glutei, rilascio lentamente; cerco di contrarre tutti
insieme i muscoli degli arti inferiori, lentamente le mie gambe si
98
irrigidiscono, sento la contrazione dei glutei, dei muscoli che avvolgono
le cosce, dei polpacci, aumento la tensione e lentamente rilascio, ripeto.
Ora cerco di immaginare e di sentire la decontrazione dopo la
contrazione, la calma dopo la tensione, il calore dopo il movimento; tutti
i muscoli sono rilassati, la calma si diffonde lentamente in tutto il mio
corpo; dopo aver sentito i miei muscoli quando sono contratti e quando
rilassati li potrò controllare meglio; ora mi sveglio lentamente, stringo e
rilascio i pugni delle mie mani, contraggo i muscoli delle gambe e
rilascio, apro gli occhi, mi stiro come quando mi alzo al mattino, mi
rialzo e faccio dei piegamenti delle gambe, delle braccia, ecc., per
riattivarmi al meglio.
Le tecniche idiografiche
Prima di iniziare un programma di allenamento mentale per sviluppare
tutte le abilità necessarie è indispensabile conoscere l’atleta attraverso
diversi strumenti instaurando un rapporto di fiducia con l’allievo,
evidenziando i punti forti e i punti deboli, applicando dei programmi
personalizzati in maniera costante, stabilendo degli obiettivi,
monitorizzando i progressi, proponendo in allenamento e in partita delle
tecniche specifiche, rendendo l’allievo autonomo nell’applicazione delle
tecniche.
I diversi test esistenti non sono molto attendibili ma comunque possono
servire per motivare l’atleta.
Di particolare interesse si presentano le tecniche idiografiche come il
colloquio e il profilo di prestazione.
Il colloquio è la tecnica idiografica più importante e più difficile, dove
bisogna stabilire i seguenti obiettivi:
- identificazione delle strategie spontanee della preparazione mentale per
vedere su cosa lavorare;
- punti forti e deboli;
- miglioramento della consapevolezza;
- vissuti pre-gara;
99
- obiettivi;
- reazioni fisiologiche (ansia, ecc.);
- rappresentazione mentale;
- concentrazione e distrazione;
- valutazione prestazione e reazione all’errore;
- emozioni;
- rapporto con l’allenatore;
- canali sensoriali prevalenti (si notano da come l’atleta si racconta).
Il profilo di prestazione dell’atleta serve ad avere la consapevolezza dei
punti di forza e di debolezza, conoscere i bisogni del giocatore, sapere
ciò che l’atleta reputa importante per poter gareggiare, valutare i
progressi, esaminare la prestazione dopo la gara, rendere più motivante
l’allenamento, poiché è l’atleta stesso che collabora a evidenziare
l’importanza di lavorare su un aspetto piuttosto che un altro (Butler,
1989).
Una volta illustrate tutte le qualità più importanti, l’allievo deve valutare
il suo livello attuale in riferimento a ciascuna qualità con un voto da 0 a
10 usando il grafico del profilo di prestazione. Per conoscere l’atleta
bisogna innanzi tutto delineare gli aspetti che sono necessari per una
prestazione ottimale, incoraggiando l’atleta all’auto-valutazione, tramite
un punteggio da attribuire ad ogni aspetto qualitativo. Può essere l’atleta
stesso ad illustrare quali sono, a suo giudizio, le qualità specifiche che
intervengono per aumentare la prestazione; oppure è il maestro che
propone una serie di aspetti (fisiche, coordinative, strategiche, psiche,
tecniche, caratteriali, alimentari) dove l’allievo può scegliere quelle che
sono le più importanti. Il punteggio massimo va segnato nell’anello più
esterno della figura, tutti gli altri a scalare; i punteggi inferiori a 4 vanno
messi nel cerchietto centrale.
Per ogni qualità, l’anello corrispondente al voto, si può evidenziare in
qualsiasi modo (segno particolare, colore, ecc.).
Altri tipi di test per portare l’allievo alla auto-consapevolezza (conoscere
i propri punti forti e deboli, le cose da migliorare come tennista e come
persona), come capacità imprescindibile per chi vuole diventare un atleta
100
di alto livello, si possono avere in merito all’immagine di sé, chiedendo
all’allievo di rappresentarsi scegliendo, da una apposita lista, degli
aggettivi che lo possono rappresentare più di altri. Questo serve a capire
come l’allievo si percepisce e aiutarlo a migliorare la stima di sé nelle
parti in cui è carente.
Fig. 4 Profilo di prestazione
La concentrazione nel Mental Training
Per concentrazione si fa riferimento a quella energia psicofisica che
consente ad un giocatore di astrarsi da tutti quegli elementi che durante
una partita possono arrecare disturbo. “Il segreto delle concentrazione
consiste nel non registrare i fattori esterni, esserne consapevoli ma tenerli
fuori dalla bolla mentale dentro la quale stai operando”.
Concentrarsi significa incanalare la tua mente in un’area specifica mentre
orienti le tue energie in una sola direzione” Geoff Boycott. Per la
101
gestione dei processi attentivi è importante imparare a selezionare gli
stimoli rilevanti trascurando tutti gli altri.
Attivare l’attenzione al momento opportuno e mantenerla nei momenti
importanti. Bjorn Borg disse “ogni colpo deve essere giocato come se
fosse un match point”.
La capacità di dirigere l’attenzione dipende anche dalla motivazione, dal
desiderio interiore di riuscire in una determinata cosa e dall’autostima
(“hai tutto il tempo per pensare….sei laggiù da solo e devi pensare e
cambiare le cosa da te” Stefan Edberg) . Nonostante ci possa essere
l’interesse e la motivazione a concentrarsi, pensieri estranei non lo
permettono.
Anche bassi livelli di zuccheri nel sangue, disidratazione, mancanza di
sonno possono determinare insufficiente concentrazione, agitazione,
irritabilità, scarsa reazione, incapacità di prendere decisioni.
Soprattutto quando si è sotto pressione, la concentrazione può venire
meno e in questo caso possono essere di aiuto alcune regole (illustrate da
Tom Gullikson) che aiuteranno ad esprimersi al meglio:
- gestire bene il tempo prima dei punti importanti, concentrandosi sul
controllo del respiro per recuperare energia;
- utilizzare la visualizzazione prima del servizio o della risposta per
immaginare e vedere nella propria mente lo sviluppo del punto;
- pianificare una tipologia di gioco e metterla in atto;
- giocare un punto per volta senza pensare a quello che succederà dopo;
- curare la mobilità dei piedi e la posizione in campo per essere più
precisi;
- non stringere molto l’impugnatura per rilassare il braccio ed esprimere
la massima velocità;
- focalizzare la palla senza mai perderla di vista;
- pensare alla tattica e non alla tecnica;
- credere nelle proprie capacità pensando solo di dare il massimo;
- manifestare un linguaggio del corpo positivo e in forma.
La concentrazione rappresenta un elemento fondamentale nella
preparazione di un giovane tennista , come anche in altri sport, in quanto
102
permette di giocare al meglio tutti i colpi, di impostare la partita con
lucidità, circa gli interventi tecnici da attuare momento per momento.
L’atleta riuscirà a concentrarsi, nel momento in cui saprà mettere a fuoco
la sua attenzione su tutti i segnali che possono derivare dalla gara (rete,
avversario, palline, posizione del proprio corpo e dell’avversario). Deve
essere in grado anche di estraniarsi da tutti i segnali oggetto di
distrazione (pubblico, rumori, vento, ecc.).
I nemici della concentrazione sono:
- distrazioni e interruzioni;
- difficoltà a tollerare le frustrazioni;
- stress, percezione della fatica;
- emozioni, atteggiamento mentale negativo, dubbi sulle proprie capacità;
- basso livello di attivazione che lascia spazio anche a stimoli irrilevanti.
Per allenare questa capacità è importante che in allenamento vengano
dati all’allievo obiettivi ben precisi in campo, spostando il centro di
attenzione, adottate tecniche di rilassamento, meditazione, gestire bene le
pause, favorire il dialogo interiore.
Ogni giocatore dovrebbe impostare un gioco sempre vario, per
costringere l’avversario a processi elaborativi sempre diversi, che
ritardino i processi decisionali di risposta. Nel contempo deve essere in
grado di selezionare ed elaborare solo i processi o gli stimoli più rilevanti
trascurando gli altri, poiché il sistema nervoso non è capace di elaborare
molti stimoli.
I giocatori più esperti utilizzano:
- processi di elaborazione automatizzati, che sono meno dispendiosi, più
rapidi, economici, non coscienti, diminuiscono le richieste attentive e
permettono di concentrarsi su altro;
- processi consapevoli quando gli stimoli derivanti sono più difficili e
vari, ma più lenti, dispendiosi, coscienti.
103
Dialogo interiore
Indirizzare in un modo positivo il contenuto del proprio pensiero è
indispensabile ai fini della prestazione.
Il dialogo interiore (self-talk) serve per parlare con sé stessi, i pensieri
possono influenzare il comportamento attraverso il linguaggio interno:
quelli positivi favoriscono le capacità prestative, quelli negativi sono
fortemente condizionanti.
E’ chiaro però che bisogna programmare un allenamento affinché siano
controllati i pensieri: dialogo interno attraverso parole stimolo,
rinforzanti, auto suggestionanti per una percezione di autocontrollo e
autoinduzione emotiva, favorendo anche la concentrazione, aiutando
l’atleta a focalizzare l’attenzione sugli elementi rilevanti per la
prestazione.
Il dialogo interiore dovrebbe essere sostanziale, perché una eccessiva
verbalizzazione può disorientare.
L’argomento delle dichiarazioni va riferito agli obiettivi desiderati e non
agli errori da annullare. Il dialogo interiore deve essere sicuro, deciso e
potenziante per infondere fiducia e certezza, per attivare una maggiore
fiducia nelle capacità personali.
Un nuotatore olimpico deve mettersi sul blocco e ripetersi una delle
affermazioni forse più terribili e arroganti che possono esistere: “sono il
migliore del mondo!” E crederci al centodieci per cento. (Dunca
Goodhev, medaglia d’oro olimpica di stile rana)
Può essere rappresentato da brevi parole stimolo (forza, dai, su, andiamo,
ecc.), monologhi e frasi (questo game sarà mio, fallo correre, attaccalo
appena puoi, guarda la pallina, ecc.).
Abilità immaginative Le abilità immaginative fanno riferimento alle capacità di anticipare,
rivedere, correggere la prestazione, prepararsi alla gara. È essenziale però
che la pratica mentale sia associata a quella fisica (Howe 1993).
104
Le immagini possono essere di tre tipi: riproduttive quando fanno
riferimento ad un’azione già eseguita; creative quando si crea una
situazione nuova; emotive quando richiamano situazioni associate ad
altre, come per esempio la determinazione che si può leggere negli occhi
di una tigre, la velocità del ghepardo, ecc.
Secondo molti autori (Jacobson, Avener, Shaw, Mahoney), le immagini
si suddividono in interne ed esterne.
Quelle interne, chiamate anche cinestetiche, sono le più efficaci per
migliorare le prestazioni soprattutto di atleti evoluti. Consistono
nell’immaginare una attività come se la si stesse eseguendo realmente; ad
esempio concentrarsi sul lancio della pallina nella battuta, immaginarla in
tutti i canali sensoriali motori (visivo, uditivo, cinestetico, tattile),
imparando a sentire il movimento durante l’esercizio.
Le immagini esterne (più utili ai principianti e comunque meno efficaci
perché più soggette a situazioni distraenti), comportano il vedersi
dall’esterno durante la prestazione come se si vedesse in televisione da
spettatore. È bene utilizzarle entrambe, preferendo all’inizio quelle
esterne e in una fase più avanzata quelle interne. Sembra tuttavia, che
quelle esterne siano adatte agli sport di situazione come il tennis, dove è
presente una maggiore presa di informazione esterna; quelle interne sono
più adeguate agli sport dove le sensazioni del movimento assumono un
ruolo determinante.
La durata dello schema immaginativo si deve aggirare intorno ai
tre/cinque minuti perché superando questa soglia si rischia la decadenza
dell’immagine. L’immagine deve essere sempre preceduta da un
rilassamento, mediante il quale si riduce la funzione dell’emisfero
sinistro, dimora del pensiero logico-verbale, per favorire la funzione
dell’emisfero destro dove risiedono il pensiero e le immagini (Martens
1987); per renderla più reale deve essere rappresentata in maniera
controllata e nitida, con più modalità sensoriali. Deve essere specifica e
personalizzata per ogni sport e individuo poiché può avere un effetto
positivo per alcuni e non produrre nessun risultato o addirittura essere
nociva per altri. Deve avere valore positivo affinché sia efficace, bisogna
105
che sia esercitata fisicamente prima della visualizzazione e alla fine
quando la visualizzazione è riuscita.
L’immaginazione può avere applicazione nella pratica sportiva per
acquisire nuove abilità dove per esempio il maestro dimostra un
determinato gesto tecnico e l’allievo lo immagina eseguito da se stesso.
Lo scopo è di codificare il movimento attraverso l’immagine (teoria
dell’apprendimento simbolico) per facilitarne la messa in pratica.
Le finalità immaginative sono:
- apprendimento e perfezionamento delle abilità;
- incremento delle abilità-capacità percettive (canali sensoriali);
- elaborazione e ripetizione delle strategie di gara;
- controllo delle risposte fisiologiche (attivazione, disattivazione);
- allenamento delle abilità mentali (per es. immaginare di conseguire
determinati obiettivi);
- recupero infortuni.
Le immagini per essere efficaci devono avere:
-nitidezza e controllabilità (chiare, reali, precise, dinamiche);
- correttezza (il movimento deve essere immaginato correttamente nei
punti fondamentali, i principianti sono meno precisi dei giocatori esperti,
per la precisione delle immagini sono utili istruzioni verbali,
dimostrazione pratica, fotografie, filmati, disegni, ecc.);
- allenamento sistematico e continuo con cadenze determinate;
- esperienze precedenti (nei soggetti esperti sono più efficaci);
- attenzione ricettiva dell’allievo (deve credere in quello che sta facendo);
- direzione dell’immagine (immaginazione dissociativa per distrarsi come
fanno i fondisti nella corsa, ecc.);
- età, capacità intellettive, personalità, motivazione. (Robazza, Chevalier,
Denis, Hall, Smith)
L’immagine può servire anche per rendere più fluidi e automatici per
migliorare movimenti già presenti. Ulteriori impieghi delle immagini
possono avvenire per apprendere strategie di gioco, per familiarizzare
con ambienti sconosciuti (campo di gioco) dove bisogna competere, al
fine di contenere il livello di ansia; esaminare dei problemi di
106
prestazione; attivare o disattivare un particolare stato d’animo; regolare il
battito cardiaco, la temperatura corporea, il ritmo respiratorio, ecc.;
padroneggiare la fatica, il dolore con immagini dissociative riferite a
situazioni piacevoli; sicurezza e fiducia in sé, controllo emotivo,
rimanere concentrati.
Mentre i giovani possono utilizzare le immagini per apprendere o
migliorare la tecnica, gli atleti di alto livello le possono impiegare per
ulteriori impegni.
Le immagini interne possono servire anche ad attivare dei meccanismi di
motivazione verso il raggiungimento di particolari obiettivi (prima della
gara immaginare la vittoria, la premiazione, ecc.) e possono servire
durante l’allenamento, durante e dopo la gara.
Il tipo di visualizzazione più usata dagli atleti è quella dell’anticipazione
mentale preparandosi alla gara immaginando e scorrendo nella mente nei
giorni precedenti i seguenti aspetti: luogo, spogliatoi, campo di gioco,
tipo di superficie, modello di avversario, riscaldamento, tattica da
adottare, schemi di gioco.
John Newcombe dichiarò : “Mi immaginavo mentre camminavo sul
campo, tirando a sorte per il servizio, fotografi intorno; la notte
precedente scorrevo mentalmente e facevo un elenco di ogni cosa che
sapevo sull’incordatura e di ogni frammento di informazione, poi andavo
a dormire”.
Dal punto di vista scientifico, l’efficacia delle abilità immaginative
sembra che inneschi e predisponga , tramite dei piccoli impulsi, le stesse
vie nervose coinvolte nel momento in cui vi è il trasferimento di un
impulso motorio attraverso la pratica (teoria psiconeuromuscolare con
l'aiuto dell’analisi elettromiografica). (Harris, Robinson, Jowdy, Zecher)
Va ricordato che la mente stenta a distinguere cose nitide immaginate da
cose realmente vissute.
Le immagini sono più efficaci quando sono polisensoriali coinvolgendo
tutti i sensi come sensazioni visive, cinestetiche, tattili, uditive,
vestibolari vivendo le stesse sensazioni che si vivono in quella situazione
visualizzata (visualizzazione associata).
107
3.6. Esempi di mental-training:
prima della gara e dopo la gara
Le ore che precedono una gara sono molto importanti e delicate. Da una
parte, vi è l’esigenza di completare la preparazione dell’evento (strategia,
tattica, dieta specifica) , dall’altra quella di non “caricare troppo l’atleta
per evitare che arrivi troppo scarico al momento del match.
Questo è possibile se viene instaurato un rapporto interpersonale con
ogni allievo, in modo tale da favorire la comunicazione delle sensazioni,
delle impressioni e delle emozioni vissute.
Le sensazioni che ciascun atleta prova nelle ore che precedono la gara
sono molteplici, personali, differenti (pertanto, il maestro dovrà avviare
un processo conoscitivo che gli permetterà di dare ad ognuno quello che
gli serve), ma tutte sono accomunate dal loro graduale crescere di
intensità, man a mano che si avvicina l’inizio. L’esperienza comune è che
non sempre si arriva mentalmente nella maniera desiderata all’inizio
dell’incontro, ma spesso il tennista si sente pronto qualche minuto prima
o dopo la gara .
È essenziale che le tecniche, oltre che prima della gara, siano messi in
pratica anche negli allenamenti affinché abbiano una buona efficacia.
Le esercitazioni trattate sono diverse e appartenenti a differenti metodi.
Esercizi – prima della gara
PRIMO ESERCIZIO
L’allievo, con la forza dell’immaginazione, si
vede giocare analizzando con la mente situazioni
e tattiche di gioco: chiude gli occhi e gioca il
punto mentalmente.
SECONDO ESERCIZIO
Formulare con la voce la sequenza del gesto
108
tecnico, in riferimento a colpi da migliorare; se
per esempio l’allievo ha un rovescio debole o si
sente insicuro dirà a voce alta: aprirò cambiando
impugnatura, piegherò le gambe, impatterò
avanti e scaricherò il peso del corpo in avanti.
Vale lo stesso per altri colpi. Questo esercizio
può essere svolto da distesi ad occhi chiusi o in
piedi con la racchetta. Le ripetizioni dipendono
dalla situazione interna di ogni individuo; in
genere bastano 3-4 ripetizioni.
TERZO ESERCIZIO
Per ottenere la carica essenziale per affrontare la
gara, si usa anche la musica con brani scelti
dall’allievo in base allo stato d’animo del
momento.
QUARTO ESERCIZIO
L’autosuggestione, attraverso la formulazione di
frasi orali, si utilizza per superare un ostacolo
psicologico o situazioni di inferiorità tecnica. Le
frasi possono essere: io sono forte, io vincerò, il
mio avversario ha paura di me, il mio rovescio
sarà veloce e lungo.
QUINTO ESERCIZIO
Immaginare delle scene negative che provocano
ansia e tensione, cercando di pensare a tutto
quello che di negativo può avvenire nell’incontro
che si andrà a disputare. La durata di questo
esercizio è di circa 10 minuti, trascorsi i quali,
verranno fatti alcuni esercizi di ripresa
(inspirazioni-espirazioni, flessioni-estensioni
109
degli arti inferiori) e si andrà ad affrontare la
gara.
SESTO ESERCIZIO
Immaginare una azione conclusiva vincente della
gara, gli applausi, il podio, ecc.
SETTIMO ESERCIZIO
Avere come obiettivo quello di esprimersi al
meglio senza pensare al risultato, concentrandosi
su quello che va fatto e non su quello da non
fare.
Esempi di mental-training durante la gara
Se si prova a chiedere ad un tennista qual è stata la sua partita migliore, si
scoprirà che egli di quella partita ricorda tutto. Il campo, la temperatura,
la città, l’avversario, l’arbitro, ma soprattutto le sensazioni interne.
Sensazioni positive che da quel giorno sono scolpite nella sua memoria.
Nel momento della sua partita migliore (Peak Performance è una
prestazione superiore allo standard individuale ed è caratterizzata da forti
contenuti emozionali di gioia e di profondo appagamento), ha
sperimentato delle sensazioni interne così diverse, coinvolgenti e
particolari che hanno reso quella esperienza di gara diversa da tutte. In
quel match il tennista si trova a rendere tutte le sue azioni naturali,
piacevoli, facili, molto probabilmente durante quella competizione egli è
andato incontro ad uno stato di Flow ( lo stato di flow può essere definito
l’esperienza ottimale in cui si è così immersi in ciò che si sta facendo,
che tutto il resto sembra non avere importanza. È un esperienza
entusiasmante, caratterizzato da un equilibrio tra sfida ed abilità, unione
tra azione e coscienza, mete chiare, feedback immediato, concentrazione
sul compito, perdita dell’autoconsapevolezza, destrutturazione del tempo,
senso di controllo).
110
Durante la gara possono essere utilizzati alcune esercitazioni di mental-
training nelle pause ai cambi di campo nella classica posizione del
cocchiere, per recuperare le forze psichiche, la concentrazione, la fiducia
in sè stessi, la motivazione, controllare l’ansia; oppure durante le pause
tra un punto e l’altro.
Esercizi durante la gara
PRIMO ESERCIZIO
Regolazione della respirazione con la ripetizione di profonde
inspirazioni e espirazioni, concentrando l’attenzione sulla durata
dell’inspirazione e pronunciando delle formule auto suggestionanti
mentre si espira.
SECONDO ESERCIZIO
Visualizzare nella mente delle possibili azioni di gioco come ad
esempio: seconda palla lenta dell’avversario, attacco e conquista
del punto; tiro angolato sul diritto dell’avversario per aprire il
campo e chiusura del punto sul rovescio; ecc.
TERZO ESERCIZIO
Visualizzare parti del corpo, partendo per esempio dalle caviglie,
proseguendo verso la parte alta del corpo (ginocchia, ecc.).
QUARTO ESERCIZIO
Pronunciare frasi auto suggestionanti con formule caricanti: in
questo game farò due ace; risponderò profondo e angolato;
strapperò il servizio perché sono più forte. Le formule variano in
base allo stato d’animo. Chi ha paura della sconfitta può
pronunciare per esempio: perdere mi insegnerà a vincere; mi
batterò fino all’ultimo punto e non importa se perderò. In caso di
calo di concentrazione si può ripetere la frase: sono calmo e
concentrato. Se ci si sente osservati si può dire la formula: il
111
giudizio degli altri non mi interessa.
QUINTO ESERCIZIO
Ascoltare della musica a scelta con degli auricolari, in grado di
suscitare emozioni che danno grinta, voglia di vincere e
determinazione.
SESTO ESERCIZIO
Contare tre atti respiratori tra un punto e l’altro, o un atto
respiratorio ogni tre battiti cardiaci.
SETTIMO ESERCIZIO
Leggere delle istruzioni precedentemente scritte su un foglio di
carta, su strategie e tattiche da attuare, comportamenti da seguire,
ecc. Philippoussis usa mettersi dei cerotti sulle dita con scritte
come: comportati da uomo, muovi velocemente i piedi, ecc.
OTTAVO ESERCIZIO
Visualizzare prima di ogni servizio la direzione voluta; contare i
rimbalzi della pallina prima di servire.
NONO ESERCIZIO
Dopo qualche errore tecnico, visualizzare ed eseguire nuovamente
il colpo a vuoto o il movimento desiderato.
DECIMO ESERCIZIO
Durante la pausa ai cambi di campo, chiudere gli occhi e giocare il
punto nella mente visualizzandolo.
Training dopo la gara Cosa avviene quando la partita è conclusa? La scarica di adrenalina è
ormai esaurita e finalmente ci si rilassa completamente: Si ripercorre in
ogni sequenza il match e ci si giudica.
112
Se l’atleta ha sconfitto senza possibilità di replica l’avversario, non è
detto che il giudizio che esprime su se stesso, sia positivo.
L’unico interrogativo che dovrebbe attraversare la mente del tennista
dovrebbe essere quello dell’aver dato il massimo in ogni momento. In
caso di risposta affermativa un senso di serenità appagherà finalmente
l’atleta che potrà trarre strumenti per un futuro miglioramento in ogni
nuovo match.
Pensiamo che a furia di chiedersi questo, il giovane tennista può
acquisire una mentalità vincente e il massimo lo si dà davvero. E se,
realmente, un atleta arriva a pensare a se stesso che, in quella determinata
occasione, ha dato il meglio di sé, allora giunge puntuale la serenità.
Serenità che saprà trarre dalla vittoria e dalla sconfitta, strumenti per
migliorare, per preparare una nuova gara e per poter scalare un altro
gradino nella sua crescita tennistica come nella vita.
113
CAPITOLO 4
BURN OUT
114
Introduzione
Come istruttore, allenatore, coach, abbiamo sempre un unico
denominatore: per mezzo dell’allenamento arrivare a produrre risultati
didattici apprezzabili.
Abbiamo il compito di aiutare i nostri allievi a migliorare i processi
d’apprendimento; il modo migliore per raggiungere questi risultati è di
creare delle condizioni favorevoli all’apprendimento, ovvero essere dei
facilitatori di questi processi.
Dobbiamo avere sempre ben presente l’elemento fondamentale: la
motivazione, che rimane in ogni modo e ad ogni livello alla base di
qualsiasi successo sportivo. È senza dubbio la chiave d’accesso al lavoro
di tutti i giorni, attraverso il quale l’atleta soddisfa i suoi bisogni, gli
stimoli positivi, l’interesse e il divertimento, la ricerca di affiliazione
verso l’allenatore ed i compagni di allenamento e, non ultimo, il bisogno
di affermazione e di riuscita.
A volte però proprio la motivazione, troppo spesso indotta e canalizzata
tramite una specializzazione precoce, porta ad un abbandono anticipato
da parte dei giovani atleti, fenomeno questo conosciuto con il nome di
“burn out”.
115
4.1 Il burn out: definizione e sue origini
Il termine burn out, traducibile in italiano con “bruciato”, “esaurito”,
“scoppiato”, esprime con un' efficace metafora il bruciarsi di tutti quei
soggetti che generalmente ruotano attorno ad un’attività sportiva
agonistica di alto livello (atleta, allenatore, coach). Esso esprime il non
farcela più, il malumore e l’irritazione quotidiana, la prostrazione e lo
svuotamento, il senso di delusione e d’impotenza di cui è vittima l’atleta,
che, dopo un periodo di successi, non è più in grado di ripetere gli stessi
risultati pur essendo in perfetta forma fisica. Del burn out se ne parla dal
1974, mentre la sua specifica identificazione come malattia professionale
risale al 1975 per opera di Cristina Maslach; si tratta dunque di una
particolare forma di reazione al sovraccarico di lavoro ed allo stress.
Allenare è una professione che può candidare al burn out considerando
che il lavoro si svolge in un ambiente che presenta altro stressors, come
l’alta tensione per l’esecuzione delle prestazioni e della competizione,
interferenze ed indifferenze di amministratori, genitori e pubblico,
problemi disciplinari, eterogeneità dei soggetti da gestire, molteplicità dei
ruoli da svolgere.
Le prime ricerche, sugli allenatori sono state condotte (Caccese e
Mayerberg, 1984) rivolgendo l'attenzione alla potenziale relazione burn
out-sesso, mediante lo strumento d'indagine messo a punto da Maslach e
Jackson, ed hanno dato differenti risultati nei tre fattori: gli allenatori di
sesso femminile hanno raggiunto un punteggio più alto dei maschi nella
scala dell'esaurimento emotivo e più basso nella scala della realizzazione
personale. Le spiegazioni di tali risultati sono state molteplici: minore
esperienza, meno tempo a disposizione per gestire lo stress, essere troppo
idealiste ed avere un alto livello d’attesa.
Haggerty (1982), ha individuato un più alto livello di burn out negli
allenatori di sesso femminile e un sentimento di realizzazione personale
116
più basso che negli allenatori di sesso maschile.
Wilson e Bird (1984) nell'individuare alti livelli di burn out in allenatori
che lavorano a tempo pieno, vivevano una stagione perdente e stavano
lunghe ore a contatto con gli atleti, hanno indicato come prevalenti le
variabili ambientali su quelle di personalità nonostante la loro
interazione.
Bird (1986) ha definito il burn out degli allenatori il “risultato cumulativo
di un processo complesso in cui la forza e la fragilità di diversi aspetti
psichici (struttura della personalità, motivazione, livelli di ansia di tratto
ed altri), sono messi in gioco con diversi fattori ambientali (ruoli,
ricompense, e responsabilità) associati con l'attività di lavoro”.
Capel, Sisley e Desertrain (1987) hanno indicato l'ambiguità nel ruolo e il
conflitto di ruolo come predittivi della depersonalizzazione negli
allenatori delle squadre di basket di studenti liceali. È stata anche studiata
la variabile demografica relativa al numero di anni nel ruolo di allenatore
principale, come indicativo del livello di realizzazione personale.
Dale & Weinberg (1989) hanno condotto una ricerca su allenatori di
squadre di studenti di scuole superiori e di università per valutare la
variabile dello stile di leadership.
Essi hanno indicato che gli allenatori dallo stile di conduzione
amichevole e sensibilmente orientato verso gli atleti hanno raggiunto un
punteggio significativamente più alto nelle dimensioni d’intensità e di
frequenza alle scale della depersonalizzazione e d’esaurimento emotivo
che gli allenatori principianti, il cui comportamento tende ad essere
orientato verso la meta e il cui stile autoritario non permette che essi
stabiliscano legami personali con i loro atleti. In questa ricerca anche le
variabili demografiche dell'età e del sesso hanno dato risultati più alti per
gli allenatori maschi e di maggiore età rispetto alle più giovani, alla scala
della depersonalizzazione, in contrasto con i risultati della ricerca di
Caccese e Mayerberg (1984) e di Haggerty (1982) e della ricerca di
117
Wilson e All. (1986) che annulla ogni differenza di livello di burn out nei
due sessi.
Un altro problema metodologico è costituito dal periodo della stagione
sportiva in cui è condotta la ricerca: alcune sono condotte all'inizio della
stagione, altre a metà, altre alla fine, altre ancora fuori stagione, poiché il
tempo della somministrazione delle scale del burn out può influenzare
significativamente il risultato. Anche per quanto riguarda l'età è possibile
che se l'allenatore non soffre il burn out rimane nella sua attività
professionale, mentre i giovani, che già né accusano i sintomi,
abbandonano l'attività non potendo gestire lo stress.
Le ricerche dj Capel (1986), Fender (1989), Maslach (1982) inducono ad
una ricerca dedotta da una definizione operativa di burn out che
coinvolga sintomi, reazioni, stress, ambiente e l'interazione di tutti questi,
fattori, in relazione alla duplice radice causale del fenomeno stesso: la
struttura di personalità dell’individuo, la sua capacità di gestire lo stress,
il conflitto di ruolo, il sesso, il locus of control, l’età e l’ambiente, cioè le
condizioni di lavoro, la tensione dovuta al tempo o ad alti livelli di
aspettativa. Shank (1983) ha indicato alcuni comportamenti come
suscettibili di burn out: essere perfezionista, mancanza di capacità
assertive, essere insoddisfatti, eccessivamente motivati o troppo dediti.
Tali caratteristiche sono rilevanti nelle ricerche condotte in genere sui
protagonisti dello sport, sia allenatori che atleti ed assistenti. Così è stato
rilevato un più alto livello di burn out negli atleti di sport individuali che
in quelli sport di squadra (Smith, 1986).
118
4.2 Come riconoscerlo: sintomi e cause
Come già ricordato al paragrafo 4.1 il termine burn out, traducibile con
“bruciato, esaurito, scoppiato”, esprime il cedimento psico-fisico e
l’esaurimento delle risorse del lavoratore nel tentativo di adattarsi alle
difficoltà del confronto quotidiano con la propria attività lavorativa.
Questa sindrome interessa principalmente i lavoratori delle “professioni
d’aiuto” e si manifesta, con sintomi fisici e psichici, attraverso tre
caratteristiche principali:
1. l’esaurimento emotivo, che consiste nella sensazione di essere in
continua tensione, emotivamente inariditi nel rapporto con gli altri;
2. la depersonalizzazione, che consiste nella presa di distanza, e determina
atteggiamenti e comportamenti negativi e sgarbati nei confronti delle
persone che richiedono o che rivedono la prestazione professionale, il
servizio o la cura;
3. la ridotta realizzazione personale, che si manifesta con la sensazione
che, nel lavoro a contatto con gli altri, la propria competenza ed il proprio
desiderio di successo stiano venendo meno.
Il soggetto colpito da burn out manifesta sintomi aspecifici
(irrequietezza, senso di stanchezza ed esaurimento, apatia, nervosismo,
insonnia), sintomi somatici con insorgenza di vere e proprie patologie
(ulcere, cefalee, aumento o diminuzione ponderale, disturbi
cardiovascolari, difficoltà sessuali ecc.), sintomi psicologici (depressione,
bassa stima di sé, senso di colpa, sensazione di fallimento, rabbia,
risentimento, irritabilità, aggressività, alta resistenza ad andare al lavoro
ogni giorno, indifferenza, negativismo, isolamento, sensazione di
immobilismo, sospetto e paranoia, rigidità di pensiero e resistenza al
cambiamento, difficoltà nelle relazioni con gli utenti, cinismo,
atteggiamento colpevolizzante nei confronti degli utenti e critico nei
confronti dei colleghi). Tale situazione di disagio molto spesso induce il
soggetto ad abuso d’alcool, di psicofarmaci o fumo.
Dal punto di vista clinico e psicopatologico la sindrome del burn out va
differenziata dalla già nota sindrome da disadattamento: sociale,
119
lavorativo, familiare, relazionale. La sua originalità è rappresentata dal
fatto che essa si verifica all’interno del mondo emozionale della persona
ed è spesso scatenata da una vicenda esterna. La sindrome del burn out
potrebbe essere paragonata ad una sorta di virus dell’anima, perché
sottile, invisibile, penetrante, continua, ingravescente. Se non si
interviene determina l’exitus volitivo ed energetico, non solo lavorativo,
della persona.
Si può inoltre affermare che la sindrome del burn out si sviluppa
attraverso diverse fasi che riguardano:
1. fase dello stress lavorativo, nella quale vi è un accresciuto impegno
verso gli obiettivi lavorativi;
2. fase dell’esaurimento, nella quale si assiste ad una riduzione
dell’impegno lavorativo ed a, varie reazioni emotive negative,
psicosomatiche e disperazione;
3. fase della conclusione difensiva, caratterizzata dal distacco emotivo e
dal cinismo nei confronti del lavoro.
Le cause del burn out vanno ricercate nell’interazione fra le
caratteristiche del singolo soggetto e la specificità dell’ambiente;
quest’interazione determina una condizione di perfetto adattamento o ad
una condizione di disadattamento o sindrome del burn out appunto.
Si può pertanto dire che lo stress ed il burn out sono scatenati
dall’interazione tra:
1. la personalità del soggetto, le sue motivazioni ed i suoi interessi. Il burn
out può colpire chiunque. Sono più esposte le persone molto meticolose,
quelle che hanno sempre bisogno d’approvazione i soggetti empatici,
umanitari, disponibili, impegnati, idealisti, ma anche soggetti ansiosi,
introversi, ossessivi, molto entusiasti, suscettibili e molti altri.
2. La struttura dell’organizzazione e della scala gerarchica. Diversi fattori
ambientali possono favorire l’insorgenza del burn out; si tratta di quei
fattori organizzativi che sono difficilmente modificabili dal singolo
individuo e possono essere modificati solo attraverso specifici interventi
e strategie organizzative; quelli comunemente riconosciuto sono:
sovraccarico di lavoro, mancanza di controllo, ricompense insufficienti,
120
mancanza di equità, crollo del senso di appartenenza ad una comunità,
conflitto di valori.
3. Il tipo d’attività che è svolto (stress addizionale). Alcune categorie
professionali sono più a rischio di altre perché il contatto con l’utenza è
più carico d’emotività e la relazione è più difficile da gestire; ad altre
categorie cui appartengono, ad esempio, gli operatori della salute
mentale, delle tossicodipendenze, dell’emergenza urgenza, di terapia
intensiva, d’assistenza alle patologie croniche ed invalidanti
121
4.3 Un malessere che non ha età
Per l’insorgenza del burn out possono avere importanza fattori socio-
organizzativi quali le attese connesse al ruolo, le relazioni interpersonali,
le caratteristiche dell’ambiente di lavoro, l’organizzazione stessa del
lavoro; sono state studiate le relazioni tra variabili anagrafiche quali
sesso, età, stato civile ma tra queste l’età è quella che ha dato luogo a
maggiori discussioni tra i diversi autori che si sono occupati
dell’argomento. Alcuni sostengono che l’età avanzata costituisca uno dei
principali fattori di rischio di burn out mentre altri ritengono che i
sintomi di burn out siano più frequenti nei giovani, le cui aspettative sono
deluse e stroncate dalla rigidezza delle organizzazioni lavorative.
Nella revisione critica delle ricerche sul burn out nello sport agonistico,
sono indicate le ricerche su bambini che lasciano le attività atletiche sia
per fattori personali che situazionali, come variabili discriminanti nella
continuazione o abbandono (clima del gruppo, atteggiamenti verso la
competizione, fattori di socializzazione, localizzazione dell' attribuzione,
ruolo di leader dell’allenatore) anche se la motivazione più comune
all'interruzione della partecipazione agli sports è: altre cose da fare,
hobbies, lavoro ed altri impedimenti. Smith (1986) osserva che i motivi
per cui gli atleti abbandonano lo sport possono essere molteplici, ma il
burn out può essere considerato un elemento determinante.
Il burn out nel vissuto dei giovani atleti è reso ancor più drammatico
dalla loro fragilità. Fra i diversi manuali che ho consultato per la
realizzazione di questo breve manoscritto , un caso in particolare mi ha
colpito: la storia del piccolo Matteo.
Matteo è un bambino di 10 anni, ha buone capacità coordinative e ha una
grande passione per lo sport del tennis, o forse è meglio dire aveva.
Ha iniziato a 6 anni a frequentare dei corsi di tennis presso il circolo
tennistico più importante della sua città; proseguendo nella crescita il
bambino dimostrava anche buona attitudine allo sport del tennis fino a
portarlo già a 8 anni a partecipare a gare di tennis contro suoi coetanei
122
Con l’accrescere dell’età crescevano anche i tornei e arrivati ai 10 anni
l’allenatore di Matteo gli dice che visti i buoni risultati, passerà ad
allenarsi con i ragazzi under 12, quindi un pochino più grandi di Matteo.
Questa notizia è un’esplosione di carica e di motivazione grandissima per
Matteo che si sente importante agli occhi del suo allenatore e dei
compagni.
Passano le settimane ma il passaggio al gruppo promesso tarda ad
arrivare, Matteo ogni settimana chiede al suo allenatore quando inizierà
con il nuovo gruppo, l’allenatore continua a tergiversare dicendogli che
sta organizzando “il passaggio” e di avere pazienza. Le settimane
passano ma il passaggio di gruppo no; dopo mesi d’altalenanti promesse,
l’allenatore dice a Matteo che è meglio che resti nel gruppo dove si trova
adesso, perché forse è ancora presto per un gruppo più avanzato.
Per Matteo questa notizia ha un effetto devastante; si sente tradito e preso
in giro dal suo allenatore che era “il modello assoluto”, una guida
visualizzata non solo nello sport.
Una settimana dopo la comunicazione dell’allenatore, Matteo abbandona
il tennis: le insistenze dei genitori, dell’allenatore, dei compagni, non
servono a nulla, non vuole più vedere la racchetta e non vuole più andare
su un campo da tennis; l’effetto delusione non si ferma e anche a scuola
Matteo (che era sempre tra i più bravi della sua classe) non riesce più a
stare attento, non studia ed è molto triste.
Dopo vari mesi di lavoro dei genitori con l’aiuto di uno psicologo, si è
riusciti a fare accettare la situazione a Matteo ma non tutto è tornato
come prima.
Ho conosciuto Matteo e ora del tennis non ne vuole proprio sapere, è un
ragazzo molto insicuro quando sente nominare la parola “tennis” anche
se mi piacerebbe poterlo riportare a giocare e a divertirsi, ma l’impresa è
molto difficile, dipenderà molto da lui.
123
Il gioco infatti serve ad incuriosire il bambino, ovvero offrire la
possibilità di soddisfare il bisogno di movimento, di immaginazione, di
creatività, di affermazione e socialità.
A tal proposito, la psicologia dello sport, ha svolto ricerche sulla natura
psicodinamica, cognitiva e sociale del gioco, in questo campo deve
essere ricercata la molla del piacere del gioco stesso.
L’agonismo è la “manifestazione matura, costruttiva, e creativa
dell’aggressività “.
A livello agonistico i soggetti mettono in campo una grossa fetta
d’aggressività, è importante che l’agonismo rimanga entro canoni
socializzanti di sublimazione degli istinti aggressivi, rispettando le regole
della ritualizzazione sportiva.
Dobbiamo in ogni caso riconoscere che gioco e agonismo riveste un
passaggio fondamentale nello sviluppo del bambino, anche se in
prospettiva dinamica abbiamo variazioni legate a seconda dell’età del
sesso, della personalità, della situazione, ecc.
L’agonismo sorge dopo, rispetto alla funzione ludica e molto spesso
influenzato da modelli sociali esterni che per bisogni istintuali.
Dobbiamo rilevare con forza che mentre nel gioco troviamo un azione
dell’organizzazione dell’io nel discorso agonistico si deve predisporre un
io già organizzato.
In molti testi vari autori, scrivono che non si dovrebbe praticare un
attività agonistica nella fascia d’ età dai nove ai tredici anni se non con
funzioni ludiche generali, nella realtà la tendenza esattamente il
contrario; una preconizzazione che a dodici anni porta a giocare in un
anno un numero di incontri pari a quelli di un professionista, il rischio è
di danneggiare l’equilibrio psico-fisico del ragazzo, utilizzando un modo
errato per prepararlo all’agonismo.
Dobbiamo ricordare che il periodo della pre-adolescenza è caratterizzato
da instabilità psicologica, quindi sarà molto svantaggioso sottoporre
124
l’allievo a situazioni di stress competitivo non sufficientemente bilanciate
da un io forte che consenta un’elaborazione sportiva di una sconfitta o di
una vittoria.
Le statistiche in merito all’abbandono sportivo, registrano in questa
fascia d’età le punte più alte.
A questo punto il ruolo pedagogico dell’istruttore è di fondamentale
importanza, per evitare l’insorgere di reazioni negative nei confronti
dell’allievo, cercando di non esporlo ad una serie d’insuccessi che
portano inevitabilmente ad una compromissione dell’attività
motivazionale.
Nell’allenamento di tutti i giorni, l’istruttore deve evitare accuratamente
la noia e la monotonia, cambiando e modificando gli scenari delle
esperienze didattiche, per renderle più motivanti e stimolanti.
Un esempio di quanto appena citato potrebbe essere un esperimento fatto
su di un gruppo d’operai: apportando delle semplici modifiche al luogo
di lavoro; (furono infatti, dipinte le pareti con colori diversi e fu
cambiato il sistema illuminante), il risultato fu una migliore produzione,
una maggior voglia di recarsi al lavoro, ma la cosa più interessante fu che
agli operai sembrò che finalmente qualcuno si occupasse di loro.
A livello psicologico, il periodo adolescenziale è quello della massima
spinta ad appartenere ad un gruppo, le motivazioni possono essere
ricercate in: assicurazione, accettazione, essere stimato, questo serve al
ragazzo per bilanciare in sicurezze personali atteggiamenti d’impegno,
abnegazione, cooperazione.
Una volta inserito in un gruppo il giovane tende ad assimilare lo schema
ideologico (norme, mete, valori) del proprio gruppo di riferimento,
divenendone parte attiva.
Nel periodo dai dieci ai quattordici anni l’appartenenza ad un gruppo
rappresenta una delle motivazioni allo sport più importanti, sia nello
sport di squadra che in quello singolo; gli allenamenti sono auto
125
motivanti e vengono realizzati più facilmente se svolti con la complicità
del gruppo.
Lo sport può servire come meccanismo di difesa nel nascondere o
superare sentimenti di inferiorità (a livello fisico o psichico),
nell’espressione di desideri infantili di tipo affermativo di aggressività
latente, desiderio di potenza dovuta ad un carico di frustrazioni non
elaborate.
Questi tipi di sconpensi della personalità vanno osservati con attenzione e
superati con opportuni orientamenti. (si trovano piuttosto frequentemente
in soggetti in età evolutiva).
126
4.4 Conclusioni ed osservazioni
Ricollegandoci al sopra citato caso di “Matteo” possiamo dire che si
tratta di un tipico esempio di burn out che si presenta con una
depersonalizzazione che arriva fino ad atteggiamenti ostili nei confronti
delle persone del proprio ambiente (allenatore, prep. fisico ecc.).
Importante da considerare in questa fase di crescita dei ragazzi
l’attenzione ed i bisogni di soddisfazione, di gratificazione,
riconoscimento, sentirsi importanti e approvazione del gruppo.
Altrettanto importante ma da evitare è la paura del fallimento, oppure i
cattivi rapporti nei confronti dell’allenatore, dei compagni, pressione
psicologica elevata noia e frustrazione .
Questo tipo di disagio che frequentemente si trova negli atleti adolescenti
in evoluzione fisica e tecnica soprattutto dopo un periodo lungo
d’allenamenti e gare, può indurre all’abbandono precoce per diversi
motivi come:
- Crisi adolescenziali ( il rapido cambiamento dei parametri fisici, e il
mancato riconoscimento del proprio corpo, sono la conseguenza di una
modifica anche nelle prestazioni e relazioni)
- Difficoltà scolastiche ( il binomio scuola-sport è un impegno che molti
adolescenti non riescono a sopportare adeguatamente)
- Bisogno d’esperienze ( diverse e nuove nella costruzione del proprio io).
- L’ansia e lo stress ( in fase agonistica e pre-agonistica come capacità di
gestire le emozioni)
- Rapporto con il coach ( probabilmente una delle cause più importanti il
ragazzo, infatti, spesso vede valenze genitoriali ottimali con il proprio
maestro e altrettanto spesso si sente “tradito”, non capito, sente
fortemente una mancanza di possibilità di crescita e di autonomia).
Molto spesso ci troviamo di fronte al bimbo atleta di soli nove anni di
fronte al quale mi sento solo di pensare che in questi casi l’impegno
127
dell’istruttore deve essere ricondotto a fargli il piacere del gioco del
tennis.
Partendo dal gioco si arriverà ad elaborare un percorso di formazione
riguardante l’organizzazione del proprio io; a quel punto possiamo
inserire la parte concernente l’agonismo.
Se nel bambino si sfrutteranno le giuste motivazioni avremo atleti che
faranno un’ attivista agonistica nata per il gusto di farla, per migliorare e
progredire le proprie capacita, o per sfruttarle al meglio.
128
CONCLUSIONI
Realizzando questo project ci siamo posti come primo obiettivo di
scrivere una guida che mettesse in evidenza le più importanti abilità
psicologiche del giovane tennista .
In fase di ricerca abbiamo raccolto alcuni dati interessanti rilevati da
interviste cui abbiamo sottoposto rispettivamente maestri e tennisti adulti
professionisti.
Intervistati sull’importanza e sull’uso della preparazione mentale nel
tennis agonistico hanno risposto unanimemente che il mental training è
un aspetto fondamentale per raggiungere alti livelli di qualificazione, ma
che la maggioranza non utilizza queste tecniche, pur essendoci grande
interesse sull’argomento ma scarsa informazione e formazione specifica.
Successivamente attraverso indagini bibliografiche, articoli su riviste
specializzate, interviste a giocatori professionisti, questionari
somministrati a giocatori under agonisti e esperienza personale pensiamo
di aver individuato le principali abilità psicologiche da sviluppare
accanto alla normale preparazione tennistica.
Soprattutto interviste e questionari sulle abilità psicologiche hanno
fornito risposte concrete che evidenziano alcune qualità psicologiche di
spicco rispetto ad altre, con alcune differenze tra giocatori adulti e under,
così come riguardo al sesso.
Sicuramente il primo dato che risulta evidente è quantità e qualità di
attenzione e concentrazione, apparse palesi negli adulti ma da allenare
negli atleti under.
Qualità fondamentali dei giocatori professionisti sono autostima,
determinazione e aggressività, doti che nei ragazzi under sono ancora in
via di sviluppo pur sembrando a tutti abilità psicologiche senza le quali
non si possono raggiungere alti livelli di prestazione.
Siamo del parere che non deve meravigliare la differenza che emerge
sugli aspetti motivazionali e di gestione delle emozioni tra giocatori
professionisti e under.
129
Riteniamo infatti che mentre i giovani sentono vivo l’interesse, il
desiderio e la volontà di sviluppare le proprie abilità, di avere successo,
di realizzare un sogno, i giocatori professionisti considerano spontanea la
motivazione a dare il massimo nel proprio lavoro orientando il concetto
di motivazione verso quello di determinazione e spirito di sacrificio.
Le tecniche di Mental Training della visualizzazione (e relative capacità
immaginative) e della respirazione risultano abilità psicologiche
indispensabili per i giocatori professionisti, quindi da allenare
accuratamente nei giovani.
Per quanto riguarda il controllo emozionale, che comprende anche
gestione dell’ansia e dello stress, mentre gli under hanno positività e
linguaggio interno ancora da formare, i giocatori di alto livello non la
considerano fra le abilità psicologiche principali forse perché hanno già
sviluppato ed acquisito questa abilità.
Gli atleti under sono atleti giovani o molto giovani caratterizzati da
autostima, fiducia in sé e percezione di auto-efficacia ancora troppo
dipendenti dallo scarso controllo emozionale pur dimostrando grandi
doti negli aspetti motivazionali.
Per concludere pensiamo che una programmazione di alta
specializzazione tecnica debba essere affiancata dal lavoro di uno
psicologo dello sport che dia continuità ed equilibrio alla crescita
personale degli allievi affinché sviluppino una “mentalità vincente”,
somma di tutte le abilità psicologiche trattate, che li aiuti da un lato a
raggiungere e mantenere un alto livello di prestazione, dall’altro a
crescere prima come uomini e poi come atleti nel rispetto di sé e degli
altri.
Cogliamo l’occasione per ringraziare per il loro aiuto i Tecnici Federali
Giampaolo Coppo e Renato Vavassori, i Tecnici Federali Giancarlo
Palumbo e Renzo Furlan del Centro F.I.T. di Tirrenia per la loro
collaborazione e tutti i coaches, maestri e giocatori che ci hanno fornito
o si sono sottoposti a interviste e questionari.
130
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