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2° CORSO PER TECNICI NAZIONALI DELLA FIT CON VALORE DI ALLENATORE DI QUARTO LIVELLO EUROPEO CONI - FIT Anni 2004/2005 PROJECT WORK SVILUPPO DELLE ABILITÀ PSICOLOGICHE PER IL GIOVANE TENNISTA DI ALTA PRESTAZIONE Autori: Riccardo Fortunati, Davide Majocchi, Vittorio Siligo, Gianluca Zaccara Tutor: Dott. Massimo Di Paolo Roma, 8-9 novembre 2005

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2° CORSO PER TECNICI NAZIONALI DELLA FIT CON VALORE DI ALLENATORE DI QUARTO LIVELLO EUROPEO CONI - FIT

Anni 2004/2005

PROJECT WORK

SVILUPPO DELLE ABILITÀ PSICOLOGICHE PER IL GIOVANE TENNISTA DI ALTA PRESTAZIONE

Autori:

Riccardo Fortunati, Davide Majocchi, Vittorio Siligo, Gianluca Zaccara

Tutor:

Dott. Massimo Di Paolo

Roma, 8-9 novembre 2005

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INDICE INTRODUZIONE 1) L’ASPETTO MENTALE NELLO SPORT pag 8 1.1. L’aspetto mentale nello sport 1.2. Qualità psicologiche nel tennis agonistico: abilità di prestazione concentrazione; l’arousal; le abilità immaginative; 2) ABILITÀ PSICOLOGICHE DEL GIOVANE TENNISTA: PROBLEMATICHE E IPOTESI DI INTERVENTO pag 32 2.1. Questionario sulle abilità mentali somministrato a tennisti agonisti

under 2.2. Abilità psicologiche del giovane tennista agonista self-confidence; auto-efficacy; self-efficacy; fiducia in sé/autostima 2.3. Motivazioni: abilità o vittoria goal- setting/motivazione; automotivazione/visualizzazione; self- talk 2.4. Il ruolo di Maestro-allenatore 2.5. Gestione delle pressioni esterne e interne: stress e ansia fattori di stress; gestione dell’ansia 3) MENTALITA’ VINCENTE pag 74

3.1 Autostima e mentalità vincente 3.2 Interviste a giocatori professionisti

3.3 Aggressività e agonismo; 3.4 L’interpretazione dell’agonismo 3.5 Mental Training: Problematiche ed applicabilità

bioenergetica; respirazione nel mental training; rilassamento muscolare analitico e esercizi; tecniche idiografiche; concentrazione nel mental training; dialogo interiore; abilità immaginative

3.6 Esempi di mental-training: prima della gara, durante la gara e esercizi training dopo la gara

4) I RISCHI DELL’IPERATTIVITÀ: IL BURN OUT pag 115 4.1. Burn-out: definizione e sue origini 4.2. Come riconoscerlo: sintomi e cause 4.3. Un malessere che non ha età 4.4. Conclusioni e osservazioni CONCLUSIONI pag 130 BIBLIOGRAFIA pag 132

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INTRODUZIONE

Il tennis è il tipico sport individuale per il quale si richiedono delle

abilità psicologiche particolarmente sviluppate.

Purtroppo pochissimo tempo e scarsa attenzione vengono dedicati

all’allenamento di questo aspetto fondamentale della preparazione anche

se, presso alcuni centri tecnici regionali e nazionali FIT e in alcuni centri

privati il lavoro di uno psicologo e le sedute di “psicologia applicata”

rientrano già da tempo nella programmazione annuale d’allenamento.

Si sta dunque comprendendo che la strada per la crescita del giovane

tennista non passa attraverso il solo processo di

insegnamento/apprendimento di abilità strategiche, tattiche, tecniche e

fisiche tradizionalmente affidato a maestro e preparatore fisico:

l’acquisizione di una certa dose di autoconsapevolezza potrà rendere il

giovane in grado di raggiungere e mantenere, con il giusto grado di

autonomia, un alto livello di prestazione auspicabilmente ricco di

vittorie.

Attraverso il rafforzamento del suo carattere egli dovrà adattarsi a

svariate difficoltà quali ad esempio la capacità di gestire ansia e stress

generati da aspettative e richieste che sono o che sembrano essere troppo

“importanti” rispetto alla percezione di efficacia delle proprie capacità.

Riconoscere il valore di una maggior padronanza di sé e di crescita

dell’autostima sono tappe fondamentali per la formazione di un

giocatore in grado di prendere autonomamente e rapidamente le decisioni

più appropriate (caratteristica precipua del tennista evoluto che deve

agire sotto pressioni interne ed esterne di vario tipo).

L’attenzione e la concentrazione in uno sport individuale come il

tennis, open skill e “non a tempo”, sono altre qualità indispensabili da

allenare con tecniche ormai consolidate di mental training.

La spinta fondamentale viene, come in ogni situazione di apprendimento,

dalla motivazione fondata su vari desideri e bisogni: successo, vittoria,

miglioramento delle proprie abilità, essere apprezzato e rispettato,

superare i propri limiti e/o quelli dell’avversario.

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Naturalmente tali motivazioni, di cui si tratterà in seguito, devono essere

supportate ed alimentate da sentimenti ed emozioni positive che solo un

goal-setting (formulazione di obiettivi) ed un locus of control

(attribuzione di causalità) adatti, regolati ed equilibrati possono creare e

mantenere.

Non solo quindi la vittoria, ma una buona prestazione, la gratificazione

dell’allenatore per un “colpo” ben riuscito o anche il puro divertimento

possono essere ragioni di efficace rinforzo motivazionale

Nell’affrontare tale argomento occorrerà quindi esplorare a 360° i

pensieri che possono essere presenti nella mente di un giovane tennista

quando si allena, prima, durante e dopo il match e nei suoi rapporti

interpersonali.

Allo stesso tempo il ragazzo deve essere consapevole della necessità e

possibilità di possedere queste componenti psicologiche per raggiungere

buoni risultati; infatti, così come tutte le abilità, anche quelle

psicologiche devono essere programmate e allenate adeguatamente oltre

che autovalutate.

Condividiamo l’opinione di Angela Burton, esperta di tennis, che ha

definito molto chiaramente, centrando forse l’obiettivo, l’attività

psicologica del tennista: “Il benessere mentale è davvero la cosa più

invidiata dal momento che è la più difficoltosa da conseguire e di

conseguenza la più difficile da abbattere quando ci si scontra con essa”.

Individuando e trattando le principali abilità psicologiche di un giovane

tennista agonista speriamo di fornire una guida a tutti gli operatori del

settore.

I questionari sulle abilità mentali da noi somministrati ad atleti agonisti

under si fondano sull’assunto che, insieme ad una serie di capacità

mentali, come ad esempio il grado di attivazione psicofisica ottimale,

l’attenzione, la memoria, la concentrazione, la visualizzazione ed

altre, convivono e interagiscono varie qualità psicologiche pertinenti alla

sfera emotiva e della personalità quali ad esempio autostima, fiducia in

sé, auto-efficacia, motivazione fondamentali per una buona prestazione.

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Altrettanto importanti sono le emozioni suscitate dalla percezione, spesso

inesatta, che gli allievi hanno della realtà e delle situazioni filtrate dalle

loro esperienze: le reazioni, spesso sproporzionate o inadeguate,

investono e travolgono i ragazzi sia dal punto di vista mentale che fisico.

La capacità di controllo delle emozioni quindi è una qualità

fondamentale se si vogliono gestire adeguatamente le difficoltà di una

vita da sportivo e trarne gratificazioni e vantaggi.

Si profila quindi un quadro generale molto complesso dal momento che

quantità e qualità delle abilità mentali e psicologiche variano a seconda

dei soggetti e dell’allenamento, interagendo fra di loro in maniera tale da

rinforzarsi o meno a vicenda.

Inoltre ad ogni ricordo o situazione stressogena (richieste ambientali)

corrisponde una reazione mentale, biochimica e muscolare che è diversa,

(piacevole o sgradevole, favorente o inibente) da soggetto a soggetto e

che aumenta o diminuisce le capacità di prestazione.

A questo proposito è molto interessante ricordare la scala di IZOF che,

se utilizzata correttamente, consente all’atleta di conoscere quale sia il

suo livello di attivazione o funzionamento ottimale già prima del match

in relazione alle emozioni favorevoli o inibenti la prestazione, aiutandolo

a far crescere la fiducia in se stesso e nelle proprie capacità di affrontare

le situazioni in gara.

Lo sviluppo e l’uso appropriato di queste qualità mentali potrebbero

consentire a ragazzi con alti livelli di abilità e preparazione tecnico-

tattico-fisica, la realizzazione di una peak performance.

Ad esempio un ragazzo che vive in un ambiente familiare e sportivo che

abbia promosso una serie di esperienze autonome, anche se sotto

controllo, potrebbe raggiungere piccoli obiettivi ricavandone

gratificazioni, fiducia e affetti, sviluppare un buon grado di autostima,

sentir crescere il desiderio di misurarsi con nuovi ed interessanti compiti

aumentando la percezione di auto-efficacia probabilmente utilizzando un

self-talk positivo.

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Il supporto di un allenatore “sensibile” a queste problematiche garantirà

la formulazione di raggiungibili obiettivi a vario termine consentendo

all’allievo di vivere serenamente la propria esperienza tennistica.

A proposito del turbinio di sensazioni che investe i giovani al solo

ricordo di una gara creando uno stato di ansia, ci preme sottolineare che,

in un soggetto “preparato” e consapevole dei valori da attribuire alla

sfida, l’immagine o il ricordo dello schema vincente è nitido così come è

grande la sensazione di potenza (“ce la posso fare, la sfida è avvincente,

stimolante e divertente”).

Anche l’attivazione fisiologica è nei giusti limiti, la corsa e i gesti si

mantengono fluidi e non c’è irrigidimento muscolare, il battito cardiaco è

regolare, la sudorazione normale e la concentrazione e l’attenzione sono

focalizzate.

Tutto questo a sua volta, come in un sistema circolare, svolge una

funzione di rinforzo della volontà, della sensazione di auto-efficacia e

della concentrazione.

Al contrario, il soggetto bloccato dall’ansia, a causa di un’attivazione

troppo alta, mostrerà irrigidimento muscolare e scarsa lucidità tattica

oltre che una propensione al linguaggio interno negativo che, se

sostenuto da ricordi e immagini di basse prestazioni fornite in precedenti

simili occasioni proprie e/o altrui, probabilmente si tradurrà non solo in

una sconfitta del momento ma anche in un successivo stato di impotenza

appresa.

Purtroppo (o per fortuna…) negli incontri giovanili di tennis, sport in cui

il match finisce solo “alla stretta di mano”, il punteggio ha spesso un

andamento altalenante e quindi c’è la possibilità di “veder rimbalzare” da

un lato all’altro del campo le tipologie psicologiche che abbiamo sopra

descritto.

Bisogna tuttavia ricordare che non è importante che i motivi dello stress

e dell’ansia siano reali perché è l’allievo a percepire la situazione come

pericolosa.

Infine qualità psicologiche e caratteriali personali quali perseveranza,

calma, umiltà, rispetto delle regole, capacità di sacrificio, volontà, grinta

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e determinazione sono componenti altrettanto importanti e qualità

fondamentali e complementari di quelle fin qui elencate.

Il primo capitolo verte su alcune qualità mentali quali attenzione,

concentrazione, attivazione e immaginazione.

Oggetto di trattazione del secondo capitolo sono invece qualità

psicologiche – in reciproche interazioni – quali fiducia, autostima,

percezione di auto-efficacia, goal-setting, self-talk, motivazioni e

gestione delle emozioni.

Il terzo capitolo è incentrato sullo sviluppo della mentalità vincente e

sulle tecniche di mental training; il quarto e ultimo capitolo affronta il

rischio del burn out pertinente al problema dell’iperattività in ambito

sportivo.

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CAPITOLO 1

L’ASPETTO MENTALE

NELLO SPORT

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1.1 L’aspetto mentale nello sport

La concentrazione di Carlton Myers nell'esecuzione dei tiri liberi nella

pallacanestro, la capacità di Totti nel saper mantenere la calma al tiro di

un calcio di rigore, la forte motivazione che ha sostenuto Valentina

Vezzali nella conquista dell’ennesimo oro mondiale , l'abilità di Isolde

Kostner di eliminare i fattori di distrazione e di prestare attenzione solo al

percorso nel super gigante dello sci alpino: queste sono solamente alcune

delle caratteristiche psico-fisiche che contribuiscono al successo di un

atleta o di un'intera squadra e che portano al risultato. Quali pensieri

attraversavano la mente di Marco Pantani mentre compiva lo scatto

decisivo all'inizio della salita ? In questo caso il dialogo interno è un

fattore determinante per il conseguimento del risultato: le gambe

"girano", come si dice in gergo ciclistico, ma i pensieri dell'atleta sono

pensieri positivi, pieni di fiducia nei propri mezzi fisici e mentali. E

quanto conta la coesione di gruppo nel mettere a punto "il muro" in una

partita di pallavolo della nostra nazionale azzurra? Il fattore-squadra,

cercato e ricercato in allenamento, non è soltanto uno schema tattico

applicabile automaticamente, ma è soprattutto un fattore umano che trova

la sua forza nelle adeguate relazioni interpersonali fra gli atleti del

gruppo. Per vincere ci vogliono gambe, cuore e testa: la condizione fisica

e le capacità tattiche e motorie dell'atleta sono il fondamento su cui

costruire una buona performance, ma se aggiungiamo ad esse il controllo

emotivo sulle situazioni ed abilità mentali sviluppate ed allenate, si

pongono le condizioni necessarie per ottenere un buon risultato. Ma non

bisogna mai perdere di vista il concetto di uomo - atleta ; l'agonista non è

un robot, non è un gigantesco meccanismo sostenuto dagli sponsor e da

complesse manovre di tipo economico. E' un uomo, un uomo che ha

scelto di sfidare sé e gli altri, con i suoi punti deboli e le sue illimitate

potenzialità.

Gli aspetti mentali della prestazione sono stati da sempre oggetto di

costante attenzione da parte di atleti ed allenatori la constatazione che in

gara alcuni atleti sono in grado di ottenere risultati migliori rispetto ad

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altri dotati di maggior talento fisico suscitava, e suscita tuttora, interesse

e sorpresa, come del resto la realizzazione di performance eccezionali.

Una considerazione importante nel lavoro psicologico con gli atleti é che

essi sono, in generale, persone fondamentalmente “sane”, con le quali è

possibile effettuare un proficuo lavoro di sviluppo di abilità per

affrontare con successo l’impegno agonistico. Gli atleti hanno bisogno di

capacità fisico-motorie e psichiche sicuramente superiori a quelle di

persone non praticanti sport, per rispondere adeguatamente a richieste

che, soprattutto ad alto livello, arrivano al limite delle potenzialità

umane.

Per rispondere alle richieste di un qualsiasi sport, l’atleta deve dunque

sviluppare, accanto alle specifiche capacità motorie, particolari abilità

mentali, come quelle necessarie per affrontare lo stress elevato della gara

o controllare pensieri distraesti. E’ questa la ragione che spinge Martens

ad affermare che uno dei compiti primari della psicologia dello sport è

aiutare atleti normali a diventare “psicologicamente superiori”. Secondo

Nideffer, però, vi è stata una tendenza eccessiva a considerare gli atleti di

alto livello come persone dotate di capacità superiori alla norma o

addirittura anormali. In realtà bisogna considerate ciò che si intende per

normale. Se la definizione si riferisce alla media della popolazione, allora

le capacità e i comportamenti degli atleti di èlite si collocano al di fuori

dei confini “normali”, non solo per gli aspetti mentali ma anche per quelli

fisico-motori. Se invece si considerano i comportamenti dello sportivo

come accomodamenti a richieste specifiche, allora emergono le

sorprendenti ma pur sempre normali di adattamento umano.

In una sintesi di varie ricerche, Williams rileva la presenza negli atleti di

successo un alto livello di fiducia nelle capacità personali. Gli atleti

migliori credono in se stessi in misura superiore rispetto a quelli di minor

successo ed hanno anche maggiori capacità di concentrazione essendo

meno distratti da preoccupazioni inerenti il risultato o eventuali errori;

riportano un gran numero di pensieri, immagini, fantasie e sogni relativi

al loro sport con contenuto generalmente positivo, che aiutano a risolvere

eventuali problemi (cognitivi ed emozionali) collegati alla prestazione;

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presentano un livello di ansia più basso immediatamente prima e durante

la competizione, ed hanno una maggiore capacità di recuperare

prontamente la concentrazione dopo aver commesso errori.

Abilità mentali efficaci sono spesso acquisite dagli atleti per prove ed

errori, attraverso anni di esperienza. Ciò ha attratto l’interesse di molti

ricercatori che hanno così indagato le strategie spontanee utilizzate per

far fronte alle richieste della prestazione e della gara. La presenza di

pratiche mentali spontanee per il controllo dell’ansia e della

concentrazione (pensieri positivi, frasi affermative, tecniche

immaginative e di rilassamento, ecc.) è stata osservata in atleti esperti in

differenti discipline. Intensificazione dello sforzo, concentrazione sul

compito, ricerca di sostegno sociale, ristrutturazione cognitiva

(riconsiderazione del problema, analisi degli aspetti positivi, ricerca della

soluzione) sono strategie spesso utilizzate per affrontare lo stress.

Risulta, pertanto , chiaro che molti atleti utilizzano già per proprio conto

e il più delle volte senza allenamento specifico tecniche di preparazione

mentale che loro stessi considerano molto importanti. Tali procedure

personali e idiosincrasiche sono spesso originali ed efficaci. Per questo,

prima di proporre un programma strutturato di allenamento mentale

vanno studiate le esigenze e le abitudini del singolo atleta; prima di

applicare le tecniche, cioè, bisogna cercare di cogliere le componenti

uniche della situazione e capire le differenze soggettive nelle modalità di

sentire e pensare degli atleti. Ogni individuo, infatti possiede una “vita

mentale” molto particolare, con modalità immaginative e stili di pensiero

unici. Gli atleti dedicano un considerevole ammontare di tempo a

fantasticare su vari aspetti della loro prestazione in particolare in

prossimità della gara, durante la quale una varietà di ostacoli (avversario,

spettatori, responsabilità personali, aspettative, informazioni dei mass

media) si traducono in tensione, ansia e disordini psicomotori. I sogni ad

occhi aperti (day dreams) permettono all’atleta di: sperimentare ipotesi di

problem solving, senza subire conseguenze percepire in maniera più

sensibile e flessibile i bisogni degli altri attraverso la proiezione nelle

altrui situazioni e difficoltà, incrementare le potenzialità del pensiero

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creativo attraverso l’esplorazione di una vasta gamma di soluzioni

possibili, apprendere abilità, inclusi i compiti sportivi,superare la noia ed

imparare qualcosa di più su se stessi,aumentare le sensazioni piacevoli

rievocando mentalmente le esperienze gratificanti (Cratty e Davis). Il

contenuto dei day dreams costituisce dunque una sorgente importante di

informazioni per aiutare gli atleti ad elaborare strategie personalizzate di

preparazione mentale.

Anche se alcuni sembrano gia capaci di applicare spontaneamente

tecniche mentali, per la maggior parte degli sportivi proficuo o comunque

perfezionare metodiche specifiche. Parallelamente all’acquisizione ed al

potenziamento delle strategie funzionali, vanno estinti comportamenti,

pensieri ed emozioni disadattivi che ostacolano la prestazione o che

costituiscono motivo di turbamento.

E’ compito dello psicologo dello sport individuare le strategie più

rispondenti alle esigenze del singolo atleta. Va tuttavia sottolineato come

una corretta individualizzazione richieda spesso adattamenti e modifiche

anche radicali delle procedure standard, o anche l’elaborazione di nuove

modalità di intervento mai sperimentate prima.

Qualunque approccio lo psicologo dello sport scelga per il proprio

intervento, alcune indicazioni generali nell’applicazione di procedure di

preparazione mentale finalizzate all’incremento della prestazione

risultano comunque utili:

stabilire un clima di fiducia, indispensabile per una buona qualità della

relazione tra psicologo dello sport ed atleta;

rilevare i “punti forti” ed i “punti deboli” dell’atleta considerato

globalmente in riferimento alla sua attività sportiva;

applicare modalità di intervento eclettiche ed individualizzate;

coinvolgere nell’intervento non solo l’atleta, ma anche l’allenatore ed

eventualmente altre figure importanti;

elaborare un piano di intervento che, fissati gli obiettivi, registri anche i

progressi relativamente all’allenamento mentale;

utilizzare il programma in maniera sistematica, costante e protratta nel

tempo;

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sollecitare l’applicazione delle abilità mentali acquisite in allenamento e

gara;

favorire nell’atleta l’autonomia esecutiva nell’applicazione delle strategie

personalizzate.

L’adeguato sviluppo delle abilità mentali e motorie, necessarie per far

fronte alle richieste dell’allenamento e della competizione, deve mirare

alla realizzazione delle potenzialità personali e ad una maggiore

soddisfazione per l’attività sportiva. Ciò dovrebbe idealmente tradursi in

sensazioni di appagamento, competenza ed autostima capaci di esercitare

un’influenza positiva sulla vita quotidiana, andando al di là delle

soddisfazioni che comunque derivano dalla realizzazione delle proprie

risorse in ambito sportivo (Taylor).

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1.2. Qualità psicologiche nel tennis agonistico: le abilità

mentali.

Pur essendo riconosciuta l’importante relazione tra stati mentali e

prestazione, per molto tempo il mental training venne trascurato per

mancanza di conoscenze specifiche, o per l’erronea convinzione le abilità

mentali fossero innate. Nel corso degli anni, però, l’analisi più

approfondita delle tematiche ed i risultati della ricerca hanno modificato

la situazione: è apparso evidente che le abilità mentali, similmente alle

motorie, possono essere apprese, sviluppate e perfezionate; gli psicologi

dello sport hanno messo a punto a tale scopo procedure e programmi di

allenamento.

Martens distingue nella preparazione mentale le fasi di educazione,

acquisizione ed allenamento: gli atleti, innanzitutto, dovrebbero essere

informati circa la natura delle abilità ed i loro influssi sulla prestazione;

dovrebbero successivamente seguire un programma strutturato per

acquisire ed affinare le abilità da integrare poi nelle routine personali di

allenamento e gara. E’ anche importante che imparino ad applicare le

abilità apprese in condizioni di affaticamento e stress.

Vealey propone un approccio olistico all’allenamento che enfatizzi la

crescita della persona nella sua globalità. Suddivide le abilità mentali

finalizzate a migliorare la performance sportiva in abilità di base, di

prestazione e facilitatorie, e di metodi per conseguirle in metodi di base e

di allenamento (fig. 1).

Abilità mentali

• Volizione

• volizione

• consapevolezza di sé

• autostima

Abilità di base

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Abilità di prestazione • fiducia in sé

• arousal fisico ottimale

• arousal mentale ottimale

• attenzione ottimale

• abilità interpersonali

• gestione dello stile di vita

Metodi

• allenamento fisico

• educazione

• goal setting

• imagery

• rilassamento fisico

• controllo dei pensieri

Abilità mentali e metodi per conseguirle (Vealey, 1988)

Fra le abilità di base, la volizione può essere definita come la

motivazione interna verso l’azione o il desiderio di conseguire il

successo, mentre la consapevolezza di sé si fonda sulla comprensione che

l’atleta ha del suo comportamento e delle sue percezioni inerenti la

pratica sportiva. In questa prospettiva quando gli atleti hanno sviluppato

sufficienti motivazioni e consapevolezza di sé possono incrementare la

stima e la fiducia nelle proprie capacità, fattori critici per la performance.

Le abilità di prestazione sono quelle tradizionali enfatizzate da molti

psicologi dello sport, ad esempio per ottimizzare l’arousal e l’attenzione.

Le abilità facilitatorie, infine, non influenzano direttamente la prestazione

ma una volta acquisite agevolano il comportamento nello sport così come

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nelle altre aree della vita. La pratica motoria e l’educazione sono incluse

nei metodi di base; le abilità mentali, infatti, sono stimolate

dall’allenamento fisico e dalla comprensione dei processi psichici e

corporei che influenzano la prestazione.

Tutte queste abilità sono strettamente collegate tra loro e interdipendenti:

lo sviluppo di una qualsiasi di esse si riflette positivamente sulle altre. Ad

esempio, per mezzo della visualizzazione di scene adeguate non solo si

incrementano le abilità immaginative, ma si impara anche a controllare lo

stress della gara, elevare o diminuire il livello di arousal, aumentare la

concentrazione e rafforzare l’impegno per conseguire gli obiettivi.

Martens sottolinea come i benefici che derivano dall’allenamento di

queste abilità mentali di base possano essere estesi agli altri settori della

vita quotidiana, per realizzare al meglio le proprie potenzialità.

La concentrazione

Le capacità di controllare i processi motori e di pensiero e di dirigere e

mantenere l’attenzione su di un compito per una corretta esecuzione, in

relazione alle richieste situazionali, sono riconosciute come importanti,

sono riconosciute come importanti fattori per la prestazione sportiva. In

particolare, per la gestione dei processi attentivi l’atleta deve imparare a:

selezionare gli stimoli a cui rivolgere l’attenzione trascurandone altri non

rilevanti, spostare l’attenzione al momento opportuno verso informazioni

appropriate, mantenere l’attenzione sugli stimoli importanti.

La concentrazione è sostanzialmente la capacità di focalizzare

l’attenzione su di un compito per un certo periodo di tempo, senza essere

disturbati o influenzati da stimoli esterni e interni non pertinenti. Una

delle maggiori differenze tra lo sport di oggi e quello di un tempo sta, a

livello cognitivo, nella complessità delle informazioni che l’atleta deve

elaborare, in particolare negli sport di situazione quale il tennis. Rispetto

ad un tempo, insomma, sono aumentate molto le richieste elaborative a

cui l’atleta deve rispondere. Le operazioni cognitive, in sintesi, sono

costituite da:

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a) Raccolta di informazioni esterne ed interne attraverso gli organi di senso

(analizzatori) importanti per il movimento (visivo, uditivo, cinestesico,

vestibolare e tattile);

b) Elaborazione delle informazioni (confronto delle informazioni in entrata

con quelle già depositate in memoria; attivazione di processi decisionali,

scelta e programmazione della risposta);

c) Esecuzione e controllo della risposta.

L’atleta esperto è in grado di effettuare questi processi apparentemente

senza difficoltà, avendo imparato a controllare le operazioni cognitive,

stabilizzando il movimento nelle closed skill, adattando l’azione alle

circostanze relativamente non predicabili nelle open skill. Atleti abili

riescono senza sforzo, in maniera quasi passiva e automatica, a non

essere distratti e a non reagire a stimoli irrilevanti. Ciò dipende,

ovviamente, anche dal tipo di stimoli: distrattori predicibili e non inerenti

il compito sono più facili da affrontate rispetto ad altri inaspettati o non

familiari. La predicibilità dei distrattori permette il monitoraggio selettivo

dell’ambiente e la preparazione di una risposta di orientamento sensoriale

e motorio. Tale risposta è sostanzialmente una reazione automatica del

sistema nervoso per verificare se nell’ambiente vi sia qualcosa di

inusuale o inaspettato; si manifesta in particolare quando lo stimolo è

molto intenso o di dimensioni inusuali, è nuovo o in contrasto con quelli

prevalenti nell’ambiente, è in movimento.

L’attenzione è un fenomeno complesso, influenzato da molteplici fattori

che condizionano la capacità di utilizzare processi elaborativi: differenze

individuali, richieste specifiche della disciplina sportiva, livelli di

apprendimento e performance, situazioni ambientali, stati di arousal e

ansia. Uno stato ottimale di attenzione è conseguito quando l’atleta è in

grado di mantenere un adeguato equilibrio fra elaborazioni automatizzate

e controllate, in rapporto alle richieste del compito. Disturbi nei processi

attentivi si verificano quando fattori interni ed esterni determinano un

disequilibrio tra i due tipi di elaborazione. L’obiettivo dell’allenamento

delle abilità attentive è lo sviluppo di un’attenzione selettiva per gli

stimoli rilevanti, capace di ignorare le informazioni di disturbo, adattare

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il focus (nelle dimensioni ampiezza e direzione) e passare agevolmente

da elaborazioni controllate ed automatizzate (e viceversa) a seconda delle

necessità. L’atleta deve anche imparare a rifocalizzare rapidamente

l’attenzione quando necessario, evitando pensieri parassiti e distrazioni.

L’allenamento al controllo dell’attenzione è, secondo Nideffer, un

processo complesso che va favorito mediante:

1) il rilevamento delle capacità individuali di concentrazione;

2) l’analisi delle richieste particolari della prestazione è l’identificazione dei

problemi specifici ( ad esempio, la necessità di differenziare fra stimoli

rilevanti ed irrilevanti);

3) l’analisi delle caratteristiche situazionali o interpersonali che possono

interferire sulla concentrazione;

4) lo sviluppo di un programma di intervento appropriato che includa una

varietà di tecniche quali l’arresto dei pensieri, il centering, il

riorientamento dell’attenzione (modifiche cognitivo-comportamentali e

goal settino) e rehearsal mentale.

Il rilassamento somatico è spesso ritenuto un prerequisito per l’utilizzo di

tecniche immaginative e per l’incremento della concentrazione, dato che

i fattori di disturbo sono ridotti. L’orientamento dell’attenzione sulle

sensazioni corporee tende a sviluppare una certa sensibilità percettiva. La

rappresentazione mentale della performance in maniera vivida e

polisensoriale è tradizionalmente inserita in stato di rilassamento anche

per l’allenamento alla concentrazione; le visualizzazioni tendono a

canalizzare il focus attentivo su aspetti particolari della prestazione e su

informazioni rilevanti.

Le esercitazioni dirette a migliorare le capacità di concentrazione devono

essere proposte in base alle richieste particolari della disciplina sportiva:

se l’attenzione va focalizzata esternamente bisogna che l’atleta impari a

quali stimoli prestare attenzione e in quale ordine; se l’attenzione va

invece focalizzata internamente è utile sviluppare le percezioni corporee

inerenti il compito (rilevando ad esempio le sensazioni della muscolatura

in attività) ed individuare pensieri positivi indirizzati all’azione. Vanno

inoltre identificati, soprattutto negli sport di situazione, stimoli che

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facilitino l’interpretazione degli eventi e che condizionino la corretta

anticipazione delle risposte, la pianificazione e l’esecuzione delle

strategie.

Gauron propone una tecnica per aiutare gli atleti a sperimentare differenti

stili attentivi. Da seduti o distesi in una posizione confortevole sono

eseguiti, anche in sedute separate eseguenti passaggi:

1. focalizzare l’attenzione sugli atti respiratori. Respirare poi in maniera più

profonda e lenta, per qualche minuto, mantenendo petto, spalle e collo

rilassati. Ritornare alla respirazione normale e poi ancora a quella

profonda fin tanto che diventa confortevole, facile e regolare;

2. dirigere l’attenzione all’esterno a suoni e rumori, identificandoli e

classificandoli come passi, voci, ecc. Successivamente recepire i suoni

senza cercare di identificarli o etichettarli;

3. prendere coscienza delle sensazioni corporee, come i punti di contatto

con la sedia od il pavimento. Identificare o classificare le varie sensazioni

recepite, soffermandosi sulla qualità e sorgente di ognuna prima di

passare alla successiva. Registrare quindi tutte le sensazioni

simultaneamente, attraverso una consapevolezza corporea più ampia

possibile, senza identificarle o etichettarle;

4. riconoscere passivamente e senza sforzo emozioni, sensazioni e pensieri,

rimanendo in un atteggiamento di tranquillità. Riesaminare i vissuti, e poi

“svuotare la mente”. Se questa operazione risulta difficile, allora

sintonizzarsi su un solo contenuto mantenendo su questo l’attenzione;

5. aprire gli occhi ed osservare oggetti nell’ambiente utilizzando anche la

visione periferica. Ci si può raffigurare mentalmente l’apertura di un

ampio imbuto verso il quale dirigere lo sguardo per fissare un oggetto di

fronte a sé: gradualmente si restringe l’apertura in modo da percepire

solo l’oggetto, si espande quindi il focus percettivo molto lentamente in

modo da cogliere i particolari dell’ambiente. L’operazione è simile a

quella dello zoom di una macchina fotografica, attraverso il quale il focus

dell’obiettivo è ristretto o ampliato per fissare l’intera immagine o

solamente alcuni suoi dettagli.

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Schmid e Peper propongono attività per mantenere la concentrazione

suddividendole in strategie di controllo dei fattori distraesti esterni ed

interni. Tale divisione è piuttosto arbitraria, in quanto stimoli esterni ed

interni si influenzano continuamente; ma proprio a causa di questa

interazione il controllo di alcuni fattori distraesti può generalizzarsi ad

altri. Per la riduzione dei disturbi esterni è importante che l’atleta

sperimenti situazioni simulate analoghe a quelle riscontrabili durante la

gara, introducendo anche elementi apparentemente privi di rilievo, come

l’abbigliamento specifico, la voce dello speaker, le musiche, ecc. In

allenamento vanno inoltre proposte situazioni psicologicamente difficili

simili a quelle comunemente riscontrabili in gara o ancora più stressanti (

ad esempio, un calcio di rigore decisivo o un tiro libero dopo un time-

out). L’introduzione di fonti di disturbo, come rumori, spostamenti,

variazioni nell’illuminazione, ecc., è un altro modo per allenare

l’attenzione dissociandosi da stimoli distraenti esterni. Nel controllo di

segnali interni possono essere impiegati trigger attentivi, ossia stimoli

verbali e cinestesici prestabiliti finalizzati a dirigere e a rifocalizzare

l’attenzione. Essi vanno individualizzati e formulati in positivo,

ricercando cioè le attività da svolgere durante la prestazione piuttosto che

comportamenti o atteggiamenti da evitare. L’attenzione va inoltre rivolta

alle singole componenti della prestazione e alle operazioni da realizzare,

piuttosto che al risultato finale molto più arduo da controllare. Passare al

risultato è invece utile durante situazioni che stanno evolvendo

positivamente, per aumentare fiducia e motivazioni.

Una modalità per far fronte alla perdita di concentrazione dopo aver

commesso un errore è l’immediata correzione immaginativa,

trasformando mentalmente il fallimento in successo. In questo modo ci si

concentra non solo sui singoli elementi esecutivi da modificare, ma più in

generale su quello che deve essere fatto; vengono così ridotte le

possibilità di “ruminare” mentalmente sugli errori, con i giudizi di

svalutazione e biasimo che ne possono derivare.

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Fig.1 André Agassi

Ulteriori procedure di allenamento alla concentrazione derivano

dall’impiego di tecniche di visualizzazioni e rilassamento mediante le

quali le attenzione è diretta alle sensazioni corporee e alla produzione di

immagini mentali. Anche le tecniche di biofeedback offrono un notevole

contributo; Boutcher propone di combinare tecniche di biofeedback, per

conseguire un focus attentivo ottimale, con la contemporanea

osservazione di un filmato della prestazione sportiva (che in questo modo

andrebbe a sostituire alle visualizzazioni); il biofeedback poi, nelle

discipline in cui è possibile, andrebbe applicato in circostanze reali.

L’introduzione di situazioni stressanti simili a quelle di gara aiuta l’atleta

a controllare l’attenzione anche in condizioni di disturbo. Questo

determina ripercussioni favorevoli nella gestione dello stress; se da una

parte il controllo dello stress migliora l’attenzione, dall’altra l’incremento

delle abilità attentive aiuta a ridurre lo stress.

Rituali di gara, infine, impiegati da molti atleti per evocare sensazioni

collegate alla prestazione ideale e per ottenere una buona concentrazione.

E’ importante inizialmente individuare questi comportamenti tipici,

attraverso colloquio ed eventuale trascrizione; se poi risultano adatti

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vanno riprodotti in competizione al fine di aumentare le probabilità di

risposte ottimali. L’efficacia delle routine preparatorie dipende da almeno

tre fattori: miglioramento di controllo attentivo, attraverso orientamento

sugli indizi rilevanti e modulazione dell’arousal; “riscaldamento”

psichico e fisiologico (particolarmente importante in sport che prevedono

frequenti interruzioni); svolgimento automatico, riducendo il controllo

cosciente di ostacolo all’esecuzione motoria fluida e coordinata.

Boutcher propone di elaborare routine individualizzate prima, durante e

dopo la prestazione, capaci di stabilire condizioni mentali e fisiologiche

ottimali. Componenti singole fondamentali della routine sono le abilità di

rilassamento, immaginazione, percezione corporea,controllo dei pensieri,

ecc.; queste vanno combinate a formare strategie gradualmente più

efficienti e stabili, allenate in condizioni difficili e stressanti, applicate

con costanza. Altre procedure di preparazione sono presentate nella

seconda parte di questo libro.

L’arousal

E’ opinione diffusa fra atleti e allenatori che per affrontare

adeguatamente una prestazione sportiva sia necessario incrementare il

livello di attivazione dell’organismo, per ottenere, soprattutto in gara, la

“carica” indispensabile per rendere al massimo. Tale convinzione non

sempre risulta fondata: durante le competizioni, infatti, si può spesso

notare come atleti preparati e fiduciosi nelle proprie capacità siano

tranquilli e solo moderatamente attivati; essi sembrano anche in grado di

modificare il loro livello di attivazione psicofisiologica (arousal) per

rispondere adeguatamente alle richieste della situazione.

L’arousal viene considerato come una funzione che permette l’accesso

alle risorse energetiche dell’organismo per prepararlo in maniera ottimale

all’azione. In generale è stato riscontrato che qualsiasi sport o attività

motoria è necessario un livello di attivazione superiore a quello del

normale stato di riposo, ma non eccessivamente alto. Le prime riflessioni

teoriche riguardanti l’arousal erano centrate sull’idea di “mobilitazione di

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energia”, durante situazioni particolarmente stressanti o fortemente

emotive, per difendere l’organismo attraverso la lotta o la fuga (la

cosiddetta sindrome “fight or flight”). La massiccia reazione del sistema

nervoso autonomo al pericolo percepito, che originariamente generava

risposte per la sopravvivenza, può ancora risultare utile in situazioni di

rischio o di emergenza. Ma questo non è ciò che accade normalmente nel

contesto sportivo: anche se la reazione di intensa attivazione è talvolta

efficace in particolari momenti della gara, l’atleta ha normalmente

bisogno di mantenere il controllo dell’arousal e delle proprie risposte.

L’autoregolazione è appunto la capacità del soggetto di modulare in

modo adeguato il livello di attivazione necessario per eseguire con

successo una qualsiasi prestazione motoria e sportiva.

Martens preferisce distinguere fra arousal, inteso come attivazione

globale fisica e mentale, ed energia psichica, riferita a vigore, vitalità ed

intensità del funzionamento mentale. Riconosce similitudini fra energia

fisica e psichica: come ci si allena per incrementare le risorse energetiche

dell’organismo,così ci si può allenare per migliorare le disposizioni

mentali. L’energia fisica influenza quella psichica e viceversa: ad uno

stato psicofisico ottimale corrisponderà una elevata energia psichica (un

atleta in forma sente meno non solo la fatica fisica, ma anche quella

mentale). Va ricercato dunque il massimo incremento di questo fattore

per il conseguimento degli obiettivi della prestazione.

Considerando entrambi gli aspetti organici e mentali, l’arousal è definito

come uno stato di attivazione fisiologica e psichica dell’organismo che

varia lungo un continuum fra sonno profondo ed intensa eccitazione. E’

uno stato “neutrale” che riflette l’intensità delle risposte dell’organismo

indipendentemente dalle emozioni vissute. Dal punto di vista teorico,

alcuni autori distinguono concettualmente fra arousal ed attivazione:

l’arousal è considerato come risposta del sistema nervoso agli stimoli in

entrata per preparare i processi percettivi, l’attivazione, invece, come

preparazione della risposta motoria alla fine del processo di trattamento

delle informazioni. In genere i due termini vengono comunque usati

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come sinonimi, comprendendo i differenti livelli del processo elaborativi

nella risposta globale dell’organismo.

Il concetto di arousal va invece distinto da quello di ansia, anche se

queste due dimensioni indipendenti interagiscono tra loro. L’ansia può

essere considerata una dimensione cognitiva dello stato di attivazione:

definisce la sensazione soggettiva di tensione e di apprensione che si

accompagna ad un elevato arousal, con riferimento ad uno stato emotivo

negativo. Particolari richieste situazionali percepite come eccessive e

pericolose determinano reazioni emozionali negative, che si

accompagnano o associano facilmente all’attivazione del sistema nervoso

autonomo. L’ansia è considerata un costrutto multidimensionale con

componenti cognitive (preoccupazioni, pensieri ed immagini spiacevoli,

distrazioni attentive, ecc.) e/o somatiche (collegate direttamente

all’attivazione fisiologica).

Strutture organiche coinvolte nei meccanismi dell’arousal sono

localizzate a livello del sistema nervoso centrale (formazione reticolare,

ipotalamo, corteccia cerebrale, sistema libico, ipofisi), del sistema

nervoso autonomo e delle ghiandole surrenali. Sollecitazioni sensoriali

improvvise interpretate come segnali di pericolo o come stimoli

importanti ai quali reagire avviano risposte di attivazione a livello della

formazione reticolare. Il sistema reticolare agisce prontamente sulle

strutture corticali, che a loro volta attivano il sistema nervoso autonomo.

Questo determina il rilascio di catecolamine, adrenalina e noradrenalina

nel flusso sanguigno da parte della midollare surrenalica e quindi

l’attivazione generale dell’organismo. Le risposte di arousal sono

rilevabili attraverso misure elettrofilsiologiche (grado di tensione della

muscolatura scheletrica, frequenza cardiaca, ritmo del respiro, attività

elettrocorticale, conduttanza della pelle, ecc.), respiratorie,

cardiovascolari e biochimiche. In generale, uno stato di attivazione si

associa a: depressione elettroencefalografica delle onde alfa ed aumento

delle onde beta, aumento delle catecolamine nel sangue, incremento di

frequenza cardiaca, tensione muscolare, frequenza respiratoria, pressione

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arteriosa, diminuzione della resistenza elettrica cutanea, causata dalla

sudorazione, e quindi aumento della risposta psicogalvanica.

Per l’atleta è importante conoscere il proprio livello di arousal associato

al rendimento ottimale e le sue fluttuazioni durante la prestazione. Questo

si consegue con l’esperienza, le esercitazioni, l’identificazione di

percezioni, emozioni e comportamenti associati alla prestazione ideale.

L’atleta deve imparare a mantenere il controllo dei fattori cognitivi

tendenzialmente fluttuanti (che condizionano il suo livello di arousal),

quali la presa di informazioni, la concentrazione, l’elaborazione degli

stimoli rilevanti, la risoluzione di problemi tecnici e tattici, il controllo

dei pensieri. I segnali di elevato arousal associato all’ansia si riscontrano

a diversi livelli: cognitivo, affettivo e comportamentale. Dal punto di

vista cognitivo possono comparire, soprattutto in prossimità della gara,

segni di diminuzione delle capacità attentive, tendenza alla distrazione e

dubbi sulle capacità personali; sotto il profilo fisiologico si notano segni

di reattività emozionale (volto arrossato, palmi sudati, pupille dilatate),

mentre a livello comportamentale si ha un decadimento della prestazione.

E’ quindi importante che l’atleta sviluppi le abilità e le strategie

necessarie per regolare le proprie reazioni psicofisiologiche. Il primo

passo, comunque, è riconoscere il grado soggettivo di attivazione

ottimale associato alla massima prestazione. Bunker suggerisce di

provare ad accrescere o diminuire sistematicamente il livello di arousal,

anche con esercitazioni motorie, osservando i relativi cambiamenti nella

prestazione. Se la performance migliora con l’incremento dell’arousal,

allora il livello iniziale di attivazione è inferiore a quello ottimale; se

viceversa peggiora, significa che il grado iniziale di arousal è già di per

sé troppo elevato.

Varie procedure di regolazione dell’arousal vengono apprese in uno stato

di distensione psicofisica. Tecniche di rilassamento si rivelano utili per

prendere coscienza della tensione muscolate a riposo e in attività, a tutto

vantaggio della prestazione; infatti, maggiore è la tensione muscolare non

controllata e più difficile diventa l’esecuzione motoria coordinata.

Nell’apprendere a decontrarre la muscolatura gli atleti sviluppano una

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maggiore sensibilità verso le loro sensazioni e risposte corporee, così

importanti nell’attività motoria. Va ricordato, inoltre, come le tecniche di

rilassamento siano impiegate diffusamente dagli psicologi dello sport

anche per facilitare il conseguimento degli altri obiettivi della

preparazione mentale (miglioramento della concentrazione, sviluppo

delle abilità immaginative, incremento della fiducia nelle personali

capacità, ecc.)

Le abilità immaginative

Numerosi atleti di successo utilizzano le immagini mentali come aiuto

per la prestazione sportiva, riscontrando spesso che i lori risultati migliori

si verificano quando l’azione reale coincide esattamente con la relativa

rappresentazione.

Gli atleti utilizzano spesso e spontaneamente attività immaginative per

anticipare, rivedere, correggere la prestazione e per prepararsi al meglio

alla gara, anche senza che qualcuno abbia insegnato loro particolari

procedure.

Prima di un’esecuzione l’atleta può raffigurarsi le difficoltà, le

caratteristiche e le richieste del compito, ripetendo mentalmente tutte le

fasi dell’azione o solo alcuni fra le più salienti; se poi la durata della

prestazione è sufficientemente lunga, può concentrarsi su di uno stimolo

specifico o ripensare ad una strategia anche durante l’esecuzione stessa.

Al termine dell’azione, infine, le varie fasi del gesto possono essere

vissute mentalmente, rilevando eventuali errori da correggere oppure

ripetendo l’esecuzione esatta per rafforzarla in memoria a lungo termine.

L’impiego delle immagini è alla base di varie modalità di allenamento

mentale. La pratica mentale, cioè il “pensare” ripetutamente ad

un’attività, è variamente denominata come mental practice, mental

rehearsal, mental imagery, allenamento ideomotorio, ecc..

Diversi autori hanno individuato alcune specifiche condizioni che

facilitano l’allenamento all’imagery e rendono possibile un uso proficuo

delle visualizzazioni nello sport. Esse sono lividezza e controllabilità

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delle immagini, correttezza delle immagini tecniche, allenamento

sistematico, atteggiamento ed aspettative, esperienza precedente sul

compito, attenzione ricettiva, direzione dell’immaginazione. Nello

strutturare programmi di allenamento mentale bisognerà considerare tali

variabili, assieme ad altre, quali l’età, capacità intellettive, personalità,

motivazioni, che coagiscono nello sviluppo delle abilità immaginative.

Pur basata prevalentemente sul ricordo degli eventi, l’imagery consente

anche di creare nuove situazioni mai vissute precedentemente

assemblando in modi diversi le raffigurazioni interne. Attraverso

l’immaginazione si riproducono o creano esperienze che vanno a

sommarsi o a sostituirsi a quelle concrete. Programmi di allenamento

mentale fondati sull’utilizzo delle immagini mirano a diverse finalità.

Apprendimento e perfezionamento di abilità motorie e sportive. L’atleta

principiante può formare una “bozza mentale” del gesto richiesto,

un’immagine approssimativa dell’abilità tecnica che poi si rinforza e

precisa gradualmente al procedere delle acquisizioni. Nelle fasi iniziali è

importante alternare l’immagine all’esecuzione reale per garantire il

feedback. L’atleta esperto può utilizzare le visualizzazioni per esaminare

criticamente tutti gli aspetti della prestazione, scoprire le cause di

eventuali errori e problemi, anticipare possibili soluzioni. Sono appresi e

perfezionati non solo i gesti tecnici, ma anche le modalità della loro

acquisizione: lo sviluppo di strategie consente un maggiore transfer di

apprendimento ad abilità simili. L’affinamento della tecnica viene

ricercato in tutte le discipline e diventa tanto più importante quanto più le

caratteristiche del gesto condizionano o determinano la prestazione. Gli

obiettivi dell’atleta cambiano comunque anche nel corso della stagione

agonistica: inizialmente sono spesso prioritari l’apprendimento e

l’affinamento della tecnica, mentre in fase avanzata di preparazione può

divenire più importante la preparazione alla gara.

Incremento delle capacità percettive. L’immaginazione aiuta gli atleti a

prestare attenzione agli stimoli sensoriali importanti della situazione

sportiva, ad escludere le informazioni irrilevanti e, in definitiva, a

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diventare maggiormente consapevoli di quanto sta accadendo, per

rispondere in maniera sempre più adeguate alle circostanze.

Elaborazione e ripetizione di strategie di gara. Possono essere

visualizzate situazioni competitive, elaborate ed analizzate soluzioni di

tipo tattico. Ripetere mentalmente le strategie della gara, come ad

esempio la distribuzione dello sforzo nelle prove di fondo o una tattica

difensiva in un gioco sportivo, aiuta a rinforzarle e a consolidarle in

memoria, rendendole più efficacemente e rapidamente disponibili in

situazione reale.

Controllo delle risposte fisiologiche. Attraverso un allenamento

immaginativo adeguato vengono regolate funzioni corporee normalmente

involontarie, come il battito cardiaco, la pressione del sangue e la

temperatura della pelle. Il controllo di alcuni di questi parametri

fisiologici serve per modulare lo stato di attivazione prima e nel corso

della prestazione. Durante l’anticipazione mentale dell’evento il soggetto

può imparare a regolare il suo livello di arousal all’interno del range

ottimale; questo serve poi per facilitare la direzione dell’attenzione su

indizi e pensieri attinenti al compito, ed escludere distrazioni interne

(immagini e pensieri) ed esterne (stimoli ambientali). Il controllo delle

risposte fisiologiche favorisce, inoltre, il recupero di energie e capacità di

prestazioni dopo affaticamento fisico.

Allenamento di abilità mentali. Controllo dell’attenzione, gestione dello

stress, modulazione dello stato di attivazione, goal setting sono esempi di

abilità esercitabili con l’immaginazione. Effetti motivazionali, inoltre,

sono ottenuti attraverso scene di successo, nelle quali l’atleta immagina

vividamente se stesso eseguire in maniera ottimale e conseguire gli

obiettivi. I contenuti positivi delle scene gratificano il soggetto e ne

rinforzano il comportamento desiderato. Attraverso l’anticipazione

mentale è possibile prepararsi a qualsiasi evento, anche inatteso e non

familiare.

Recupero dagli infortuni. L’immaginazione può essere utilizzata per

controllare le sensazioni dolorose causate da un infortunio, nonché

accelerare i tempi del recupero e per mantenere le abilità tecnico-motorie

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fino al momento in cui si riprende l’attività. La pratica fisica è

sicuramente efficace rispetto alla sola pratica immaginativa, ma

quest’ultima determina risultati migliori rispetto all’assenza di pratica.

Quando le possibilità di allenarsi sono limitate, è dunque vantaggioso

continuare a farlo almeno a livello immaginativo.

Nel proporre un programma di allenamento all’imagery, Vealey

considera importanti esercitazione finalizzate a conseguire: sviluppo di

immagini vivide, controllo delle immagini, incremento della percezione

di sé durante la prestazione sportiva. Ogni programma deve

corrispondere ai bisogni dell’atleta, senza essere troppo complesso o

noioso, e la scelta delle immagini va effettuata in funzione delle finalità

dell’intervento.

È importante, innanzitutto, verificare la disponibilità dell’atleta ad

utilizzare le immagini. Dal punto di vista tecnico va considerato l’impatto

che visualizzazioni di movimenti possono avere sull’elaborazione e

sull’esecuzione degli stessi, con riferimento ai processi neuromuscolari

automatizzati; dal punto di vista emozionale va sempre tenuto presente

che le immagini acquisiscono per ognuno significati ed effetti particolari.

Inizialmente è opportuno richiamare immagini di scene familiari

all’atleta, anche non sportive, per sollecitare le capacità immaginative.

Diviene così più facile introdurre visualizzazioni sportive specifiche,

scegliendo dapprima abilità o strategie agevoli da controllare, riferite ad

un ambiente stabile piuttosto che mutevole, e passando quindi a

concatenazioni di movimenti, abilità complesse, situazioni di

competizione.

Per l’apprendimento ed il perfezionamento tecnico è fondamentale che i

soggetti visualizzino i gesti in modo corretto, rispettando i parametri

esecutivi specifici e gli esiti positivi dell’azione. Si possono aiutare gli

atleti ad elaborare immagini appropriate, vivide e precise fornendo

istruzioni verbali chiare e dettagliate (adattate alle capacità di

comprensione individuali) e modelli esecutivi (filmati, fotografie,

osservazione diretta di altri, in particolare esperti). Con abilità complesse

è utile visualizzare il movimento a rallentatore, per isolare particolari

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della prestazione, analizzarli ed eventualmente correggerli; non appena il

soggetto dimostra di aver compreso il movimento, la rappresentazione

mentale va riportata alla velocità reale. Se un atleta incontra difficoltà a

vedere se stesso eseguire, gli si può suggerire di visualizzare l’attività di

qualcun altro finché non sarà in grado di sostituirla con la propria

immagine. È importante che l’atleta in allenamento, durante l’azione

reale, impari a prestare attenzione a sensazioni corporee, soprattutto in

closed skill complesse, in modo da rafforzare l’immagine cinestesica

dell’azione. Vanno utilizzate visualizzazioni sia interne, vissute in prima

persona, sia esterne, come osservandosi dal di fuori. Le prime consentono

all’atleta di sperimentare percezioni simili a quelle della prestazione

sportiva, facilitando il transfer dall’immaginazione alla situazione reale;

le seconde favoriscono concentrazione, fiducia nelle capacità personali,

controllo degli stati ansiosi. In attività con elevate componenti

cinestesiche, dove è determinante la perfezione del gesto secondo precisi

parametri esecutivi, le sensazioni relative al movimento sono

fondamentali e va privilegiata l’imagery interna; negli sport situazionali,

nei quali la presa di informazioni esterne gioca un ruolo determinante e

di gesti tecnici vanno continuamente adattati a condizioni mutevoli, è più

conveniente un maggiore utilizzo di imagery esterna. Lo stato di

attivazione nel quale inserire le attività immaginative è, come si è visto,

in funzione delle caratteristiche del compito: per attività di precisione e

coordinazione fine, che necessitano di un basso livello di arousal, il

rilassamento può risultare la situazione più adeguata; per attività a

prevalente impegno condizionale, le visualizzazioni possono

accompagnarsi ad uno stato di attivazione. Infine, le visualizzazioni

devono coinvolgere le caratteristiche emozionali delle situazioni

immaginate, per controllare gli stati emotivi che condizionano, a volte in

modo determinante, la prestazione in allenamento e soprattutto in gara.

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CAPITOLO 2

ABILITÀ PSICOLOGICHE

DEL GIOVANE TENNISTA:

PROBLEMATICHE ED

IPOTESI DI INTERVENTO

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2.1. Questionario sulle abilità mentali somministrato a

tennisti agonisti under

Abbiamo pensato di sottoporre ottanta tennisti agonisti under di vario

livello, maschi e femmine, tra i dodici e i sedici anni appartenenti a

diverse regioni italiane ad un questionario elaborato dalla dottoressa

Gerin Birsa, psicologa dello sport dell’Università del Friuli.

Ci preme ricordare che hanno risposto al questionario non solo ragazzi

classificati ma anche i migliori under 16 maschi d’Italia quali Fioravante

e Intermoia, freschi vincitori con la Nazionale Italiana del “Torneo ad

Equipe” di Siviglia 2005, Papasidero, Abbondanzieri, Della Tommasina,

Crepaldi, Volta, Giannessi, Valletta e molti under 14 di spicco come

Speronello, Maiorano e Santonastaso.

Il questionario è formato da quarantadue domande a risposta multipla che

consente sia di rilevare dati interessanti sulla percezione che i giovani

hanno della loro vita sportiva e delle abilità psicologiche che ritengono di

possedere, sia di calcolare, assegnando dei valori numerici alle risposte,

quali sono le abilità mentali già sviluppate o da allenare delle 7 ritenute

fondamentali .

Presentiamo i risultati nei grafici 1, 2, 3 e 4 e in allegato 1 il

questionario somministrato, la raccolta dei dati, l’elaborazione delle

percentuali e i risultati sia dei singoli allievi che generali.

Come si può notare molte domande riguardano le fasi del pre-gara, della

gara e del post-gara incentrandosi a volte sugli aspetti mentali, quali

memoria, attenzione, concentrazione, attivazione, immaginazione, altre

volte su abilità psicologiche più legate alla sfera della personalità, quali

autostima, fiducia in sé, percezione di auto-efficacia, motivazioni di vario

tipo, controllo delle emozioni, self-talk positivo, gestione di ansia o di

stress.

Alcuni items sottolineano l’importanza della passione e del divertimento

durante l’attività sportiva giovanile che se fossero sempre presenti

potrebbero risolvere da soli tanti problemi che nascono da un’errata

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percezione della realtà che altera il comportamento dei ragazzi rispetto

alle richieste ambientali.

Molto importanti ancora sono quelli che riguardano i rapporti

interpersonali con i compagni, con i genitori e con il maestro che, se

solidi, moralmente sani e rispettosi dei ruoli, risultano essere essenziali

per la crescita del giocatore.

Anche alcune domande riguardanti la volontà di adattarsi alle difficoltà o

di affrontarle con determinazione secondo il proprio modo di essere

(grado di assertività/aggressività) risultano essere molto interessanti

perché le risposte caratterizzano fortemente la personalità e il carattere di

un tennista giovane.

Si può evincere dai grafici che i tennisti under maschi non posseggono

ancora molta autostima forse per uno scarso controllo delle emozioni ma

si dimostrano, inaspettatamente, molto predisposti ad affrontare le

difficoltà e a resistere alle richieste ambientali.

I ragazzi che hanno già conquistato punti nelle classifiche F.I.T. o E.T.A.

pur non riuscendo a mantenere attenzione e concentrazione sempre

focalizzate dimostrano forti motivazioni alla pratica sportiva agonistica

mostrando carenze soprattutto nella gestione dell’ansia e nelle capacità

immaginative.

Interessante e curioso notare l’andamento a scalini del grafico 3 che

riporta i punteggi delle abilità mentali che posseggono i ragazzi rispetto

alla loro età e ci conferma le fasi di crescita.

Nei grafici 5 e 6, per completezza di informazione, riportiamo anche i

dati relativi alle femmine under e le differenze per sesso che contengono,

per chi fosse interessato, informazioni molto interessanti.

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34

PROFILO GENERALE M/F

Gestione dell'ansia13%

Attenzione14%

Capacità immaginativa

13%

Livello motivazionale

16%

Assertività - aggressività

14%

Gestione dello stress16%

Autostima14%

Autostima

Gestione dell'ansia

Attenzione

Capacità immaginativa

Livello motivazionale

Assertività - aggressività

Gestione dello stress

Grafico 1

7 15 28 3U12 U14 U16 U16 U16 tot U18

Autostima 147 303 487 90 577 61Gestione dell'ansia 130 272 442 93 535 62Attenzione 152 269 443 124 567 66Capacità immaginativa 137 265 393 127 520 60Livello motivazionale 146 348 489 158 647 69Assertività - aggressività 138 285 432 147 579 63Gestione dello stress 162 345 498 150 648 77

0,867925 0,716981 0,471698 0,943396

7 15 28 3 53U12 U14 U16 tot U18 TOTALE

Autostima 147 303 577 61 1088Gestione dell'ansia 130 272 535 62 999Attenzione 152 269 567 66 1054Capacità immaginativa 137 265 520 60 982Livello motivazionale 146 348 647 69 1210Assertività - aggressività 138 285 579 63 1065Gestione dello stress 162 345 648 77 1232

Grafico 2

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PROFILO MASCHI PER ETA'

05

101520253035404550

Autosti

ma

Gestio

ne de

ll'ans

ia

Attenz

ione

Livell

o moti

vazio

nale

Gestio

ne de

llo st

ress

Perc

entu

ale

u.12u.14u.16 / u.18

Grafico 3

PROFILO MASCHI CON CLASSIFICA F.I.T. E/O E.T.A.

Gestione dell'ansia

13%

Attenzione13%

Capacità immaginativa

13%

Livello motivazionale

17%

Assertività - aggressività

14%

Gestione dello stress16%

Autostima14%

Autostima

Gestione dell'ansia

Attenzione

Capacità immaginativa

Livello motivazionale

Assertività -aggressivitàGestione dello stress

Grafico 4

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36

PROFILO FEMMINE

Gestione dell'ansia

13%

Attenzione15%

Capacità immaginativa

12%

Livello motivazionale

15%

Assertività - aggressività

14%

Gestione dello stress17%

Autostima14%

Autostima

Gestione dell'ansia

Attenzione

Capacità immaginativa

Livello motivazionale

Assertività -aggressivitàGestione dello stress

Grafico 5

Grafico 6

45

46

47

48

49

50

51

52

53

Autosti

ma

Gestio

ne de

ll'ans

ia

Attenz

ione

Livell

o moti

vazio

nale

Gestio

ne de

llo st

ress

Perc

entu

ale

MASCHIFEMMINE

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37

2.2 Abilità psicologiche del giovane tennista agonista

L’approccio di Weinberger e Gould (1995), che parte dal modello di

Vealey (1988), propone di differenziare le abilità mentali vere e proprie

da strumenti e metodi.

Secondo tale approccio le abilità mentali risultano suddivise in tre

sottogruppi:

1. abilità mentali di base

motivazione;

auto-consapevolezza;

autostima;

fiducia in sé stessi;

2. abilità mentali di prestazione

ottimizzazione del livello di attivazione psicofisica;

gestione ottimale dell’attenzione;

3. abilità mentali facilitatorie

capacità di relazione interpersonale;

gestione dello stile di vita.

Va inoltre ricordato che ogni disciplina sportiva richiede, oltre a quelle

indicate, ulteriori abilità mentali specifiche del contesto situazionale.

Tali variabili possono essere considerate capacità secondarie, basate

sull’utilizzo di quelle primarie.

A titolo esemplificativo, la capacità di gestione della frustrazione - a

seguito, ad esempio, di una decisione arbitrale non condivisa - può

avvalersi dell’abilità di controllo del pensiero, delle emozioni e della

capacità di riorientare rapidamente la propria attenzione sull’azione

focalizzandosi sul punto successivo in maniera “positiva”.

Abbiamo preferito indicare sotto la denominazione di “abilità

psicologiche” quelle elencate qui di seguito:

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38

- auto-efficacy o autostima

- self-confidence o fiducia in sé

- self-efficacy o percezione di auto-efficacia

- motivazioni

- locus of control o attribuzione di causalità

- goal setting o formulazione di obiettivi

- pensare positivo e self-talk

- gestione dello stress e dell’ansia

- controllo delle emozioni

- focusing o concentrazione

- arousal control o controllo dell’attivazione

- imagery o visualizzazione

- monitoraggio delle sensazioni

Autostima e Fiducia in sé

Autoefficacia percepita

Motivazioni e Locus of control

Feed-back sensoriale

C o n t r o l lod e i p e n s ie r i

Contr o l l o de ll ‘ att e n z i o n e

F o r m u l a z io n e d e g l i o b i e tt i v i

G e s t ioned e l l o str e ss

M o d u l a z i one d e l l ‘ a r o u sal

Contr o l l o de ll e imm a g i n i

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Self-confidence

Il concetto di self-confidence (fiducia in sé) viene collocato dai teorici

dell’attaccamento (Bowlby, 1982) in un continuum di sviluppo, che

origina dal concetto di "base sicura".

La fiducia in sé comporta la capacità di conservare la fiducia in

condizioni che sembrano tali da suscitare il contrario o, ancora, di sentirsi

a proprio agio quando è necessario dipendere da altri.

È parte dell’esperienza dell’atleta il confronto ripetuto con situazioni

frustranti e la collaborazione con figure diverse: dagli eventuali

compagni di squadra, ai tecnici, ai dirigenti della società, al rapporto con

il pubblico.

La self-confidence assume un ruolo maggiore nel caso del campione

poiché si amplificano le aspettative e le attribuzioni di responsabilità.

In ambito sportivo, i presupposti della teoria dell’attaccamento possono

fornire una griglia attraverso cui comprendere determinate modalità di

relazione tra i giocatori di una squadra e, in particolare, tra giocatore e

maestro o allenatore.

Un atleta che ha costruito nella propria vita una modalità di attaccamento

sicuro, con conseguente formazione di una fiducia di base, sarà in grado

di collaborare efficacemente con il tecnico e con eventuali compagni di

allenamento.

Un atleta con un attaccamento ansioso resistente tollererà meno bene i

cambiamenti o le separazioni e potrà facilmente entrare in competizione

con i compagni e con il tecnico al fine di mantenere il controllo della

situazione e, quindi, di tutelarsi rispetto a novità o imprevisti.

Un atleta con un attaccamento ansioso ambivalente, con un senso di sé

instabile, richiederà più conferme, oscillando tra un’immagine idealizzata

dell’allenatore e un’altra deludente.

Nel caso di un atleta con uno stile di attaccamento evitante,

l’autosufficienza forzata, costruita in relazione a esperienze di vita,

renderà difficile la cooperazione; infine, nell’attaccamento doppio si

evidenzieranno le esigenze perfezionistiche del soggetto.

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Allievi con dubbi su di sé tendono in genere a diminuire il proprio

impegno e a evitare il compito proposto; al contrario, chi ha fiducia in sé

intensifica i propri sforzi, mirando tenacemente al raggiungimento

dell’obiettivo.

I soggetti con scarsa fiducia in sé, inoltre, tendono più facilmente ad

attribuire i propri successi a cause esterne e gli insuccessi a proprie

incapacità personali, in una sorta di meccanismo a catena che negativizza

sempre più l’immagine di sé e il riconoscimento del senso di competenza

personale.

Fiducia in sé e nella valutazione delle proprie capacità, autostima e

flessibilità sono elementi fondamentali non solo per favorire la vittoria o

il raggiungimento di obiettivi elevati ma anche per tollerare e integrare il

"peso" del successo.

Auto-efficacy

Con il termine auto-efficacy (o autostima) si definisce l’insieme delle

opinioni e valutazioni che riguardano il Sé, il sé fisico e psicologico.

L’autostima è un tratto della personalità che consiste nel dare un

giudizio di valore a se stessi.

Essere stimati è fondamentale per la crescita della persona.

Le persone che si valutano positivamente affrontano i compiti e la stessa

vita in modo sereno, aspettandosi con fiducia dei successi mentre coloro

che hanno una bassa autostima sono ansiosi e prevedono eventi negativi.

La scarsa autostima può anche portare a comportamenti di disagio, di

devianza e di dipendenza.

Il livello di autostima dipende dalla relazione tra fattori personali -

personalità, carattere - e fattori sociali.

Il giovane giocatore che possiede una stima realistica ed equilibrata di sé

conosce i propri pregi e difetti ed è in grado di porsi degli obiettivi

adeguati alle proprie capacità, avrà buone probabilità di ottenere successi

e manterrà alta la motivazione al tennis, in quanto saprà superare le

inevitabili difficoltà che l’attività agonistica comporta.

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Occorre considerare anche il pericolo di un’autostima gonfiata di coloro i

quali sopravalutano eccessivamente le proprie capacità e competenze.

Col tempo questa autostima può risultare svantaggiosa e dannosa perché

l’individuo non si conosce in modo obiettivo ed ha un immagine di sé

contorta e disorientante, non vicina alla realtà.

Per favorire l’autostima il giovane tennista deve essere messo nella

condizione di:

1. conoscersi in modo critico: l’allievo deve sapere quali sono i propri

pregi e difetti.

2. porsi obiettivi raggiungibili e traguardi adeguati e realistici in

modo tale che le proprie capacità siano correlate con le proprie

potenzialità (si devono evitare obiettivi “ troppo elevati” ed

impossibili da raggiungere: il rischio di uno stress negativo è sempre

presente quando una situazione viene percepita come una richiesta

ritenuta superiore alle proprie capacità).

3. sperimentare successi personali per cui essere fiero e

soddisfatto di ciò che raggiunge in quanto il successo personale mira

al superamento di difficoltà e al miglioramento delle capacità

personali.

Il giovane tennista potrà disputare partite davvero importanti ed osare

un po’ grazie alla grinta ed alla determinazione, fondamentali per il

successo in ogni ambito (vita privata, scuola, sport…).

4. essere sicuri di se stessi e non avere timore di compiere errori

5. capire la differenza tra vittoria e successo.

6. avere garanzia, da parte del maestro, di allenamenti o attività

individualizzate.

7. autovalutarsi tramite test precedentemente preparati.

8. essere incoraggiato e gratificato dal maestro anche quando sbaglia o

commette errori tecnici e tattici.

9. poter contare su un intervento efficace in caso di errore

10. partecipare ad allenamenti non per forza competitivi

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Da parte sua il maestro deve usare un linguaggio positivo per creare un

clima sereno e rilassato: è importante che non insulti il “suo” giocatore

perché le offese danneggiano le relazioni.

Il nostro obiettivo psicopedagogico sarà quello di favorire l’acquisizione

dell’autostima e di creare condizioni ottimali di vita e di autovalutazione.

L’autostima può essere sostenuta migliorando in vari modi

l’autoefficacia con:

ricostruire la propria autobiografia sulla base di successi.

anticipare gli eventi a rischio pensando di poterli padroneggiare e

sdrammatizzare.

affrontare le situazioni con un paracadute emotivo (il maestro come

air-bag psicologico).

evitare di coltivare un ideale di sé che, se troppo elevato, produce

sentimenti di colpa.

evitare di incorrere in sequenze negative prima di impegni a rischio o

importanti (impotenza appresa, profezie che si avverano da sé).

Self-efficacy

Fiducia in sé e autostima si correlano positivamente con il concetto di

fiducia nelle capacità personali o self-efficacy.

La fiducia che l’allievo ripone nei propri mezzi e nelle capacità personali

influenza fortemente la sua prestazione.

Giocatori di basso valore che credono in se stessi e si dimostrano risoluti

nel conseguire i propri obiettivi sono spesso in grado di ottenere,

soprattutto in gara, risultati migliori di soggetti più dotati sotto il profilo

tecnico-fisico ma che presentano scarsa fiducia e minore determinazione.

Sensazioni di adeguatezza, sicurezza e ottimismo agiscono positivamente

sulla prestazione, mentre percezioni di inadeguatezza, incertezza e

pessimismo agiscono negativamente.

In genere, le persone temono ed evitano situazioni ritenute al di fuori

delle capacità personali mentre sono disposte ad affrontare compiti

giudicati alla propria portata.

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La self-efficacy è proprio la fiducia che l’individuo ripone nelle capacità

personali di fronte a un compito specifico che richiede l’espressione di

abilità (Bandura, 1977), ma non è un tratto globale di personalità,

potendo variare in relazione alla situazione, alle richieste e all’esperienza.

Le aspettative di efficacia condizionano non solo la scelta di affrontare o

meno una particolare situazione ma, una volta iniziata l’attività, anche la

quantità di sforzo profuso, l’impegno e la persistenza pur di fronte a

difficoltà, esperienze sfavorevoli o sconfitte.

Per conseguire il successo, ovviamente, non sono sufficienti le sole

aspettative ma devono essere presenti capacità, abilità, interesse e

motivazione.

La self-efficacy ha un ruolo importante anche nella regolazione dei

processi cognitivi (Bandura, 1989).

Mantenere la concentrazione focalizzata sul compito, anche in condizioni

di stress e di timore di sbagliare, richiede un forte senso di efficacia

(Bandura e Wood, 1989).

La self-efficacy influenza anche la rappresentazione mentale anticipatoria

dell’incontro. Scene di successo sono visualizzate con più frequenza da

giocatori con elevato senso di efficacia: l’allievo analizza mentalmente il

problema, esplora le alternative e applica le soluzioni.

Scenari di fallimento sono più probabili in chi si valuta incapace: il

ragazzo è già perdente in partenza poiché tende a “rimuginare” su errori e

sconfitte.

Per incrementare la fiducia nelle capacità personali l’allievo potrà servirsi

di informazioni provenienti da diverse fonti.

L’impatto sulle aspettative di efficacia dipenderà quindi dal modo in cui

l’atleta elabora, valuta, integra e trasforma cognitivamente

l’informazione in relazione a fattori contestuali e situazionali.

Informazioni inerenti la self-efficacy sono ricavate da quattro fonti

principali: realizzazione di prestazioni, esperienze sostitutive,

persuasione, arousal emozionale (Bandura, 1989; Feltz, 1992).

La self-efficacy, a sua volta, influenza comportamenti, pensieri ed

emozioni e in diverse attività motorie e sportive è stato riscontrato che

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rappresentarsi invece il successo (grazie ad un elevato senso di

autoefficacia) migliora la prestazione.

Situazioni inerenti alla self-efficacy che possono incidere positivamente

sulla prestazione sono:

1. i precedenti successi in quanto esperienze positive che aumentano le

aspettative di efficacia.

È importante perciò programmare nella fase di allenamento una serie di

obiettivi a breve termine che permettano un feedback positivo sui propri

progressi.

Si possono considerare nel contempo alcuni fattori significativi: difficoltà

del compito, impegno profuso, aiuto ricevuto, attribuzione di successo

interna o esterna.

2. il modeling cioè l’utilizzare come modello un altro allievo che esegue

con successo il compito (questo procedimento però è meno incisivo

dell’esperienza diretta).

3. il rinforzo verbale nel senso di incoraggiamento e incitamento da parte

del maestro.

È importante un rapporto di fiducia con il tecnico e un uso moderato e

congruo del rinforzo, al fine di mantenere la credibilità (è una situazione

poco incisiva perché priva di esperienza personale; inoltre si estingue

rapidamente se è assente una conferma positiva).

4. l’arousal emozionale cioè il livello di attivazione emozionale in

situazioni stressanti ma, soprattutto, la modalità esplicativa dello stesso

utilizzata dall’atleta.

Se l’attivazione viene letta come paura e spiegata come prova di una

presunta inadeguatezza personale, è probabile che ciò incida

negativamente sulla percezione di efficacia personale.

Nel caso in cui l’emozione venga interpretata come congrua in una

situazione altamente stressante da un soggetto con sufficiente fiducia in

sé, è probabile che non ci siano ripercussioni negative a livello di self-

efficacy.

Metodi per incrementare la self-efficacy potrebbero essere:

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selezionare obiettivi adeguati, difficili ma realistici: obiettivi

troppo semplici infatti non contribuiscono a incrementare la

fiducia poiché il successo potrebbe essere attribuito alla facilità

del compito mentre obiettivi eccessivamente difficili potrebbero

determinare insuccesso e sfiducia.

utilizzare sussidi esterni per facilitare la prestazione (per esempio

piccoli trucchi per diminuire la difficoltà e ridurre lo scarto fra

prestazione reale e ideale).

fornire esperienze di successo attraverso esercitazioni

gradualmente più complesse.

ridurre progressivamente l’aiuto esterno, in modo da facilitare

un’esecuzione sempre più autonoma.

ripetere mentalmente la prestazione corretta.

offrire rinforzi verbali e incoraggiamenti che esprimano fiducia

nelle capacità dell’allievo.

avvalersi della dimostrazione di un’altra persona che esegua con

successo la risposta desiderata.

Fig . 1 Un giovane tennista

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Fiducia in sé/autostima

L’immagine del vincente corrisponde a quella di un tennista nel quale la

preparazione atletica, il desiderio del successo e le doti particolari

coesistono con un buon livello di autostima e una sufficiente fiducia in sé

e nelle proprie capacità.

Un atleta con problemi di calo di rendimento o di insuccessi ripetuti potrà

convincersi che tutto ciò è dovuto a stanchezza, sfortuna, propria

incapacità oppure non spiegarselo affatto.

Utilizzando test per l’autosservazione dei principali sentimenti ed

emozioni che caratterizzano un giovane sportivo, potranno emergere

elementi interessanti sul “perché e come” avvengano ripetutamente

cattive prestazioni, prescindendo ovviamente da fattori tecnico-tattici e

fisici.

Egli potrà, per esempio, cogliere il dato relativo alla rabbia, trascriverlo

in un’apposita griglia con una scala di valori prefissati e accorgersi del

significato personale che attribuisce a questa emozione.

Se arrabbiarsi significa perdere il controllo, e di conseguenza avere una

percezione di fragilità personale e l’immagine di un avversario forte,

prepotente o ingiusto, il ragazzo avrà a propria disposizione una diversa

prospettiva attraverso cui rapportarsi al problema presentato e potrà,

quindi, cogliere nuove informazioni su di sé in grado di innescare un

cambiamento positivo.

In situazioni di tipo competitivo esistono modalità di reazione congrue al

grado di significatività, all’attivazione emozionale e al livello esplicativo

propri del singolo giocatore.

Nel caso di un evento particolarmente pregnante, si possono ipotizzare

due tipi di reazione: quando l’attivazione emozionale viene decodificata

dal sistema, può essere assimilata e utilizzata nella ricerca di nuove

strategie atte ad affrontare meglio la situazione temuta; in caso contrario,

quando ciò non può avvenire perché l’emozione è troppo intensa o

estranea al modello interpretativo utilizzato, è possibile la presenza di

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sensazioni percepite come incontrollabili o, ancora, di una sintomatologia

fisica sgradevole o allarmante.

Si può verificare inoltre un irrigidimento del modello di

rappresentazione della realtà, che comporta l’uso di procedure di

problem-solving anch’esse rigide e stereotipate, con conseguente

diminuzione della capacità di assimilare l’esperienza.

I concetti di autostima e di flessibilità ipotizzati nella mentalità vincente

prevedono, pertanto, la congruenza tra cosa il soggetto percepisce e come

se lo spiega; ciò è alla base della fiducia in sé, e la possibilità di

apprendere dall’esperienza, anche in termini di crescita personale, è

l’elemento necessario per affrontare, elaborare e assumere informazioni

importanti anche da situazioni negative quale un insuccesso.

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2.3. Motivazioni: abilità o vittoria

La motivazione è uno degli elementi più importanti quando si va a

preparare un piano di allenamento, per qualunque livello di prestazione.

Secondo Salvini in psicologia la motivazione è “l’agente fisiologico,

emotivo e cognitivo che organizza il comportamento individuale verso

uno scopo.”

Per Bertolini la motivazione è “ciò che sollecita l’individuo ad assumere

ogni suo atteggiamento e a mettere in atto ogni suo comportamento”.

Secondo Singer la motivazione “influisce su ciò che facciamo (quando vi

è la possibilità di scelta), su quanto tempo ci mettiamo e su come lo

facciamo.”

Thomas riporta le motivazioni a quattro desideri fondamentali:

1. di sicurezza

2. di ottenere il riconoscimento delle proprie qualità

3. di ricevere risposte adeguate da parte dei propri simili

4. di nuove esperienze

Si tratta di un fenomeno molto complesso, poiché è difficile capirne

l’effettiva incidenza sul comportamento di un individuo: non esistono

infatti persone pigre e non motivate ma solo persone che hanno obiettivi

deboli che non suscitano emozioni forti.

Una forte motivazione è strettamente correlata ad un forte desiderio di

raggiungere un obiettivo che possa appagare dei bisogni da cui consegue

una grande volontà nella ricerca del raggiungimento dello scopo.

Nella piramide dei bisogni di Maslow le motivazioni sono riferite a

bisogni fondamentali distinti gerarchicamente in:

- autorealizzazione (qualità spirituali, giustizia, bontà, bellezza)

- bisogni di base:

bisogni fisiologici (cibo, acqua)

bisogni di sicurezza (protezione, mancanza di pericolo)

bisogni di amore e di appartenenza (accettazione, essere apprezzati,

affiliazione)

bisogni di stima (autoapprezzamento, successo, vittoria).

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Un’altra classificazione indica tre categorie di motivazioni:

- psicofisiologiche

fondamentali in quanto dipendono da esigenze biologiche (sete, fame,

sonno)

proprie dell’organizzazione nervosa antropomorfa (bisogno di

esplorazione percettiva, bisogno di attività, di manipolazione, ecc.)

- psicodinamiche come traduzioni delle pulsioni sessuali ed aggressive

(la motivazione è il risultato del rapporto tra la scarica pulsionale

originaria e la mediazione con la realtà da parte della personalità)

- psicosociali che sono il riflesso dei valori, dei modelli di

comportamento, delle opinioni che l’individuo acquisisce durante il

processo di socializzazione.

Il termine “motivazione” può essere inteso come “l’insieme dei fattori

che promuovono l’attività del soggetto, orientandola verso certe mete e

consentendole di prolungarsi qualora tali mete non vengano raggiunte

immediatamente, per poi fermarla al conseguimento dell’obiettivo”

(Reuchlin, 1957).

Preliminarmente va specificato come lo sport sia un’attività che viene

praticata per libera scelta, la quale si viene a definire in tre momenti

successivi: la scelta - caratterizzata dalla valutazione da parte del

soggetto dei diversi elementi sia favorevoli che contrari alla pratica

sportiva, prendendo in considerazione tutte le alternative possibili -, la

decisione - di praticare un determinato sport a partire dalla suddetta

valutazione - e l’attuazione - cioè la pratica concreta dello sport prescelto

(Giovannini, Savoia, 2002).

I giovani, sia i ragazzi che le ragazze, possono intraprendere un’attività

sportiva spinti da un insieme piuttosto ampio di ragioni, che sono state

ricercate ed esaminate dettagliatamente da vari studiosi tra i quali occorre

ricordare il lavoro particolarmente interessante di Gill, Gross e

Huddleston (1983).

Attraverso analisi successive è stato possibile individuare otto fattori,

rappresentativi delle categorie generali della motivazione allo sport:

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- il fattore riuscita/status, che fa riferimento al desiderio di vincere, di

essere popolari, di migliorare il proprio status, di fare qualcosa in cui si è

capaci e ricevere premi;

- il fattore squadra, relativo al desidero di essere parte di un gruppo

sportivo;

- il fattore forma fisica;

- il fattore spendere energia, comprendente ragioni che riguardano il

desiderio di scaricare le tensioni, di muoversi e di stare fuori casa;

- il fattore legato a quei rinforzi estrinseci che possono sostenere la

motivazione del soggetto, come le persone per lui significative e il

piacere derivante dall’uso del materiale sportivo;

- lo sviluppo e il miglioramento delle abilità sportive;

- l’amicizia e il desiderio di coltivare delle amicizie, nuove e vecchie;

- il divertimento.

Tra tutte le suddette motivazioni, è apparsa maggiormente determinante

quella legata allo sviluppo e al miglioramento delle proprie abilità

sportive; è necessario comunque che l’acquisizione di questa competenza

avvenga in un contesto che contempli anche le altre motivazioni (Cei,

1998), soprattutto al fine di evitare l’abbandono sportivo.

Tra i processi motivazionali va menzionata la motivazione legata alla

riuscita, particolarmente approfondita dagli studi di Murray, McClelland

e Atkinson, i quali l’hanno definita in termini di motivazione alla riuscita

e motivazione ad evitare l’insuccesso.

In particolare, con riferimento agli sportivi di sesso maschile, sembra che

un elevato desiderio di successo e una scarsa paura dell’insuccesso

comportino un livello di abilità più elevato durante la competizione; al

contrario, una limitata predisposizione al successo associata ad una

marcata paura dell’insuccesso comporta prestazioni migliori durante

l’allenamento.

Ulteriori ricerche hanno messo in evidenza come un livello intenso di

paura dell’insuccesso associato ad un elevato desiderio di successo può

invece favorire prestazioni positive; questo dato può essere interpretato

come capacità del soggetto di utilizzare efficacemente i processi di

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autoregolazione, consentendogli di utilizzare questa ansia pre-gara in

termini positivi per la competizione.

In generale, il modello proposto suggerisce che un elevato desiderio di

successo comporta prestazioni migliori in confronto ad una bassa attesa

di successo (Cei, 1998).

La critica che però può essere avanzata a questo modello fa riferimento

all’eccessiva enfasi che questo pone sulla personalità del soggetto, intesa

come forza relativamente stabile che determina le caratteristiche

motivazionali; vero è invece che, oltre alle caratteristiche strettamente

individuali, una notevole importanza va riconosciuta anche a quelle

situazionali, in una reciproca azione sinergica.

Ad esempio, non tutti attribuiscono lo stesso significato al concetto di

successo nello sport ovvero quando si parla di senso di riuscita alcuni

potranno intenderlo come la realizzazione di prestazioni che manifestano

un elevato grado di competenza, altri come vittoria nel confronto con gli

altri.

In particolare, questo esempio fornisce l’occasione per distinguere due

ulteriori orientamenti motivazionali specifici: cioè l’orientamento al

compito (per cui il soggetto è interessato a dimostrare un certo grado di

competenza/padronanza) e l’orientamento al Sé (per cui il soggetto vuole

dimostrare il proprio grado di abilità nel confronto con gli altri).

La predominanza dell’uno o dell’altro stile motivazionale è determinata

non solo dalla disposizione individuale ma anche da fattori situazionali,

come possono essere ad esempio i rinforzi provenienti dagli adulti

oppure il modo in cui è strutturato l’ambiente.

In quest’ultimo caso è chiaro come una competizione caratterizzata dal

confronto interpersonale e da una valutazione pubblica promuoverà un

orientamento al Sé, mentre una maggiore enfasi posta sull’apprendimento

e sulla dimostrazione di un certo grado di maestria stimolerà un

orientamento al compito (Cei, 1998).

È importante quindi non trascurare quelle che possono essere delle

determinanti di carattere contestuale tra cui :

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le strutture di ricompensa, che qualora siano legate alla

prestazione contro l’avversario o alla prestazione contro uno

standard determineranno diverse modalità competitive a cui si

assoceranno dei corrispondenti orientamenti motivazionali quali

ad esempio

l’orientamento del maestro, che a sua volta può essere basato

sul controllo oppure sull’informazione, modificando la percezione

di sé del soggetto nonché la sua motivazione;

le differenze legate al tipo di sport, che possono attirare alcuni

soggetti e non altri;

i fattori socio-culturali (classe sociale, razza, etnia)

che possono esercitare una certa influenza sul grado di coinvolgimento

del soggetto nello sport stesso (Giovannini, Savoia, 2002).

Il risultato di una certa prestazione non va quindi letto solo in termini di

vittoria o sconfitta, ma soprattutto di percezioni individuali di successo o

di fallimento: coloro che sono maggiormente interessati al livello di

padronanza si focalizzeranno maggiormente sui miglioramenti rilevati

durante la prestazione confrontandoli con gli standard precedenti,

attribuendo ad essi maggiore valore rispetto alla vittoria in sé; al

contrario coloro che gareggiano focalizzandosi sul confronto con gli altri

definiranno il successo o il fallimento soprattutto in relazione alla

prestazione degli altri e quindi all’esito della competizione (Giovannini,

Savoia, 2002).

Questi due orientamenti sono dimensioni indipendenti per cui, non

essendo legati tra loro, possono essere presenti entrambi nello stesso

soggetto in misure diverse: un individuo può essere fortemente orientato

tanto verso il sé quanto verso il compito, oppure un altro potrebbe essere

maggiormente focalizzato sul compito e meno sul sé, o viceversa

(Nicholls, 1992).

È stato inoltre messo in evidenza come l’orientamento al compito sia in

relazione positiva con la percezione dello sport come attività divertente,

mentre al contrario l’orientamento al sé ridurrebbe l’interesse intrinseco

per lo stesso (Duda, Nicholls, 1992).

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Anche le valutazioni del soggetto sul proprio livello di competenza

esercitano una notevole influenza sulle prestazioni dello stesso (Harter,

1978; 1985): il sentimento di autoefficacia si struttura nella continua

sperimentazione delle proprie capacità e, mentre queste ultime si

affermano e si stabilizzano, il soggetto si pone continuamente nuovi

obiettivi che lo metteranno nuovamente alla prova.

In questo processo di strutturazione, particolarmente importanti

sembrano essere le risposte fornite dal contesto esterno, in particolare

dal maestro: il feedback di quest’ultimo influenza notevolmente la

percezione della propria abilità e la prestazione sportiva, soprattutto nei

giovani adolescenti (Weiss, Chaumenton, 1992).

I risultati di Weiss e Chaumenton (1992) evidenziano da un lato come i

giovani prediligano dei rinforzi che non solo li incoraggino ma

soprattutto forniscano loro suggerimenti di carattere tecnico volti a farli

migliorare, dall’altro come questi stessi messaggi stimolino la loro

percezione di competenza.

Relativamente ai processi motivazionali è importante citare anche la

cosiddetta teoria dell’attribuzione, per cui gli individui cercano di dare

un senso agli eventi che accadono a loro e all’ambiente circostante

attraverso delle relazioni causali (il cosidetto locus of control che

identifica la causa della prestazione come interna o esterna).

In tale ambito altrettanto importante è il concetto di stabilità, per cui le

cause di un certa prestazione vengono identificate come stabili o instabili

(Weiner, 1972, 1979).

Il primo concetto permette di determinare se l’individuo interpreta le

cause come più o meno suscettibili di controllo da parte sua: è evidente

come l’attribuzione di un successo a cause interne agisca positivamente

sulla propria autostima, incrementando l’interesse verso il tennis; così

come, al contrario, attribuire un insuccesso a cause interne può

comportare una diminuzione del senso di autoefficacia con una

conseguente riduzione del coinvolgimento nel proprio sport.

Anche la stabilità, d’altro canto, può influenzare le aspettative future di

successo agendo anche sul vissuto emotivo: associare un insuccesso a

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cause stabili comporterà aspettative di fallimento anche in relazione alle

prestazioni future, mentre in caso di successo si svilupperà

l’atteggiamento opposto.

Se un soggetto, al contrario, attribuisce un eventuale fallimento a delle

cause instabili, coltiverà aspettative positive in relazione alle situazioni

future; invece, associare costantemente un successo a cause instabili può

indurre aspettative negative in relazione alle prestazioni successive.

Approfondendo il legame tra interpretazione dei risultati, formulazione di

nuove aspettative e prestazioni è emerso come i giovani - soprattutto allo

scopo di preservare la propria autostima - tenderebbero a fornire

interpretazioni causali di tipo difensivo nel caso di insuccessi e ad

attribuire i propri successi ad abilità e impegno, riconoscendo quindi una

maggiore responsabilità personale nel caso di prestazioni positive, in

confronto a quelle negative.

Al di là della particolare enfasi posta nel locus of control interno, è

emerso che i successi vengono attribuiti in misura maggiore anche a

cause stabili e controllabili (McAuley, Gross, 1983).

È interessante infine considerare anche lo stato emotivo come fonte di

influenza del comportamento emotivo e della prestazione stessa: se un

soggetto è caratterizzato da uno stato emozionale di felicità,

divertimento, piacere e orgoglio tenderà a mantenere e ad aumentare il

proprio livello di motivazione e quindi di padronanza; al contrario uno

stato negativo espresso da ansia, tristezza, vergogna o imbarazzo

diminuisce la motivazione e il desiderio di partecipazione (Giovannini,

Savoia, 2002).

Goal-setting/ motivazione

La programmazione con il ragazzo o con il team di mete chiare a

breve, medio e lungo periodo è un’operazione che porta una catena di

benefici da cui un allenatore di alto livello non può prescindere.

Essa è strettamente legata all’equilibrio tra sfida ed abilità in quanto

serve una riprogrammazione degli obiettivi ogni qualvolta, in base ai

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risultati acquisiti, ci rendiamo conto che la sfida che avevamo previsto

per il nostro allievo è diventata troppo ardua per le sue capacità, oppure

troppo semplice da affrontare.

Gli aspetti da considerare sono i seguenti:

individualizzare gli obiettivi

stabilire obiettivi specifici e misurabili

identificare obiettivi significativi per il soggetto

individuare obiettivi difficili ma realistici

identificare obiettivi a breve, a medio e a lungo termine

sostenere l’atleta nel conseguimento degli obiettivi

progettare strategie di raggiungimento degli obiettivi

formulare gli obiettivi in termini positivi

privilegiare obiettivi di prestazione

fornire una valutazione degli obiettivi

Stabilire mete chiare costituisce una delle dimensioni dello stato di flow

con maggior punteggio: garantisce infatti una forte motivazione

intrinseca al lavoro in virtù del fatto di avere chiari nella mente gli

obiettivi a breve, medio e lungo periodo da raggiungere, nonché il

processo di conseguimento degli stessi nel suo sviluppo.

Facilita inoltre l’insorgenza e la gestione di un’altra sensazione

importantissima come la concentrazione sul compito, stabilendo un

preciso oggetto su cui dirigere questa risorsa mentale.

Bisogna quindi rendere partecipi gli allievi di quali siano gli obiettivi che

ci si vuole porre durante la stagione agonistica e, successivamente,

attraverso quale tipo di programma raggiungerli, l’allenamento infatti è

un programma strutturato, orientato verso una meta principale, e non può

essere improvvisato.

Il goal-setting (individuazione e formulazione degli obiettivi) è

un’operazione già molto sperimentata nel mondo sportivo di alto livello

(atleti olimpici); la sua efficacia è stata sottolineata da R. Burton (1993)

che ne ha rilevato un’incidenza pari al 75% sul miglioramento delle

prestazioni olimpioniche.

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Nasce dalla definizione secondo cui “un obiettivo è ciò che una persona

cerca coscientemente di fare”, non l’eseguire un ordine.

Ogni obiettivo deve avere una direzione (come dirigere una propria

azione verso un obiettivo specifico), una qualità (quanto tempo dovrà

essere impiegato per raggiungere il risultato desiderato), e deve essere

definito in base all’equilibrio tra sfida ed abilità.

Chiaramente le mete più a lungo termine dovranno essere rimisurate a

seconda dei risultati che si acquisiscono durante il lavoro.

È opportuno distinguere il goal-setting in 4 tipi relativamente alla durata:

breve (la singola sessione d’allenamento o il match)

medio (la settimana)

lungo (qualche ciclo di settimane)

stagionale.

Goal- setting a breve termine

Si intende per goal-setting a breve termine quello che riguarda l’arco di

un match o di un allenamento.

Bisogna gestire questo momento fornendo al giocatore degli obiettivi

individuali cui far particolarmente attenzione.

Il momento migliore per svolgere questo tipo di lavoro è poco prima di

entrare in campo.

Sia prima di una partita che prima di un allenamento è bene ricordare gli

obiettivi che ci si è posti per quell’occasione e su cui occorre lavorare.

Se si tratta del match probabilmente saranno obiettivi strategico-tattici

oltre che tecnici prefissati nell’arco della settimana, mentre se si tratta di

un allenamento saranno obiettivi inseriti nel quadro della

programmazione della settimana (medio termine) o di un ciclo di

settimane (lungo termine).

L’importante è che le mete fissate siano chiare, possibili e facilmente

identificabili e misurabili (in questo caso poi ci si dovrà avvalere dell’uso

di un “diario di bordo”).

Il riscaldamento (per chi lo fa…) sarà poi il momento in cui il ragazzo

può dirigere l’attenzione su queste precise richieste, adottando tecniche

di concentrazione ed attivandosi in virtù delle richieste stesse.

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Goal-setting a medio termine

Può venir fatto per tutti gli aspetti dell’allenamento (tecnica, tattica,

preparazione atletica e mentale), sia a livello individuale che di gruppo,

in collaborazione con i responsabili dello staff tecnico (tecnico, maestro,

preparatore fisico, preparatore mentale).

L’obiettivo è il miglioramento della prestazione in vista di un torneo e

perciò il tipo di lavoro è strettamente vincolato ad essa.

Al termine della gara bisognerà valutare quali siano stati i risultati del

lavoro settimanale e decidere quindi un’adeguata attività per la settimana

successiva.

Goal-setting a lungo termine

Ogni maestro programma l’attività degli allievi in modo che possano

sviluppare le proprie caratteristiche di gioco il più efficacemente

possibile.

Questa programmazione deve essere mostrata agli atleti, così da renderli

consapevoli della direzione in cui dovranno dirigere la propria

attenzione.

È inoltre necessario programmare con ogni singolo giocatore un lavoro

per obiettivi a lungo termine sia da un punto di vista tecnico che fisico e

mentale.

Goal- setting stagionale

È quello i cui obiettivi sono più difficili da raggiungere ma più facili a

variare.

Dipende ad esempio dal risultato che un circolo richiede (vittoria, final-

four, salvezza, punti per il Trofeo FIT…) ad un allenatore, in virtù del

quale egli deve programmare la stagione, ma può però riguardare anche i

miglioramenti di ogni singolo giocatore.

Automotivazione/visualizzazione

In allenamento molti ragazzi giocano con un buon rendimento ma

quando sono in gara, o più spesso quando devono giocare incontri o

punti cosiddetti “importanti”, accade che questi registrino un brusco calo

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Fig. 2 Vittorio, Carlo, Paolo e Nicola

di rendimento e non riescano a dare il meglio di sé incolpando la dieta, il

metodo di preparazione, il clima inadatto, l’arbitro, il pubblico o peggio

ancora sempre e solo se stessi per la sconfitta o la cattiva prestazione con

l’unica e solita frase: “Non mettevo una palla”.

Tutto ciò spesso, invece, può dipendere dal fatto che questi ragazzi pur

avendo lavorato con regolarità ed impegno sul piano fisico, tecnico e

tattico, non hanno addestrato la mente a vincere.

Hanno cioè sottovalutato il ruolo fondamentale che, accanto all’abituale

training, la psiche esercita nel raggiungimento di una peak performance.

Una strada vincente può essere quella dell’automotivazione: un distillato

di pensiero orientale e occidentale che, aumentando la fiducia e la stima

in se stessi, rimuove blocchi psicologici e cicatrici mentali, spesso le

autentiche cause di tante prestazioni di modesto livello.

Quando un nostro allievo deve disputare un incontro, che sia la finale di

un torneo internazionale o un incontro di quarta categoria, occorre

preparare il match anche dal punto di vista mentale per attivare

insospettate energie attraverso il potenziamento della fiducia in se stessi e

nelle proprie capacità.

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Le mete ambiziose richiedono una crescita interiore, non solo quella della

“tecnica esecutiva”, dell’elasticità di piedi e gambe o dell’efficienza

fisiologica.

Quando le risorse interiori si mescolano magicamente agli stimoli esterni,

il giovane ingrana una marcia in più e gli diventa più facile realizzare

importanti progressi.

L’automotivazione è un mosaico di esercizi e tecniche basato sulla

visualizzazione, cioè sul potere delle immagini mentali evocate

dall’inconscio, in grado di mettere in luce le forze psicologiche nascoste

e, per questa via, di restituire entusiasmo e fiducia rimuovendo le

influenze negative e lasciando emergere il meglio di ciascun atleta.

Lo sforzo più grande consiste nel far esperienza e pratica di nuovi modi

di pensare, grazie ai quali è possibile cambiare in positivo l’immagine del

proprio io.

Innanzitutto bisogna imparare a neutralizzare i pensieri negativi che sono

come una fattura di magia nera: fanno perdere forza, energia, vitalità.

Un giocatore che scende in campo con in testa il dubbio di non avere i

numeri per vincere ha già perso in partenza mentre per uscire vincitore

dall’incontro è necessario pensare in positivo cioè vedersi vincitore.

Poiché occorre un chiaro disegno mentale della partita prima di poterla

vivere con successo, conviene attivare la tecnica della visualizzazione

che consiste nell’esercitarsi a rivederla più volte con l’immaginazione.

A questo proposito Edberg, intervistato da Kenny (Barazzutti-Kenny

1998), afferma che una delle principali cause di ansia e tensione deriva

da un’inadeguata preparazione della strategia e dei vari piani “di riserva”

nella fase pre-gara.

Molto spesso nel tennis agonistico giovanile la scarsa esperienza, la

limitata conoscenza dei giocatori avversari insieme a mancanza di valide

strategie e tattiche di gioco determinano una preparazione molto

approssimativa del match che invece andrebbe ricreato nei più minuti

dettagli in quel laboratorio che è la mente, fino a pianificare come

comportarsi in campo.

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Il nostro allievo durante la settimana che precede un torneo dovrà provare

per dieci minuti al giorno a ripetere mentalmente le azioni che dovrà

svolgere durante la gara: si “vedrà” nella sua posizione in campo,

“avvertirà” il momento di scattare, “sentirà” il contatto con la palla nel

momento di colpire.

Cervello, sistema nervoso e massa muscolare funzionano come una

macchina automatica volta ad un fine con lo scopo che genera l’azione.

Quando la mente “vede” con chiarezza ciò che si vuole fare comincerà a

funzionare eseguendo il lavoro con risultati più apprezzabili di quelli

ottenibili con i soli mezzi fisici.

Un’azione pensata è come se fosse realizzata perché il cervello non riesce

a stabilire differenze tra un’esperienza reale e una immaginata con

grande intensità e nei minimi particolari.

Non devono tuttavia esserci malintesi: lo sviluppo della capacità di

visualizzazione è un’abilità psicologica molto importante ma non

sostitutiva dell’allenamento.

Essa rimane però un’utile integrazione in fase didattica, nei giorni che

precedono la gara e durante la gara stessa e un sostituto temporaneo

dell’allenamento nel caso di malattia, infortunio o lunghi trasferimenti.

La visualizzazione, ossia le immagini mentali, prevede esercizi di

rilassamento e di respirazione che servono a caricare di energia i muscoli

più impegnati nello sforzo durante la gara, mentre il relax fisico aiuta ad

“incassare” con più disinvoltura i colpi emotivi.

Molti ragazzi a torto pensano che rilassarsi sia negativo perché temono di

non avere più la grinta necessaria per affrontare la gara ma chi è rilassato

e disteso pompa adrenalina dove serve e riesce a concentrare l’energia

solo nei muscoli sotto pressione.

Tecniche di allenamento mentale quali rilassamento, visualizzazione,

bioenergetica ed altre saranno oggetto di trattazione specifica del capitolo

seguente.

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Self- talk

Normalmente ogni individuo passa una grande quantità di tempo a

parlare a se stesso.

Non sempre vi è la consapevolezza di questo dialogo interiore molto

personale e del suo contenuto; ciononostante i pensieri sono in grado di

influenzare direttamente le sensazioni, le azioni e più in generale il modo

soggettivo di concepire e vedere il mondo.

Ma se da un lato pensieri positivi favoriscono sentimenti di adeguatezza

al compito e facilitano di conseguenza una buona prestazione, dall’altro

pensieri inappropriati e negativi suscitano percezioni di inadeguatezza e

apprensione che condizionano sfavorevolmente l’esito delle attività

anche in ambito sportivo.

È importante quindi giungere ad una tecnica per il controllo di pensieri

sviluppando apprendimento di abilità, promozione di emozioni positive,

incremento della fiducia in sé, capacità di dirigere e mantenere

l’attenzione sugli obiettivi e sugli elementi importanti escludendo quelli

irrilevanti e disturbanti.

Se un giocatore non spera di essere “pro-attivo” per mettere a segno

azioni e strategie positive (la tattica e il buon gioco che si sono

concordati) e teme la vittoria degli altri subendo la loro strategia

(mettendosi quindi in una posizione di difesa piuttosto che di padronanza

della prestazione), significa che si aspetta di essere sconfitto “smettendo

di giocare”.

Questo processo mentale ed emotivo inibisce e raffredda la muscolatura,

interferisce con la capacità di coordinazione ed impedisce che circoli un

libero flusso di energia.

È una posizione di debolezza mentale, emotiva e fisica, è una forma di

impotenza.

Le situazioni di gara migliorano davvero quando ci si aspetta il meglio

anziché il peggio, per la semplice ragione che il tennista, libero da dubbi

riguardo se stesso e sicuro sul da farsi nel momento presente (quando si

gioca un punto non dovrebbe esistere né futuro né passato!), può

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dedicarsi senza conflitti a ciò che accade in quel preciso istante

dell’incontro senza alcun ostacolo ed è in grado di tradurre tutte le

componenti interne ed esterne in una serie di azioni efficaci.

Così mentre i pensieri positivi si trasformano in azioni positive, i pensieri

negativi e catastrofici tendono a paralizzare l’azione o a creare azioni

corrispondentemente negative o comunque deboli ed è per questo che

vanno al più presto trasformati.

Se si pensa in negativo è necessario cambiare percezione e

interpretazione di ciò che si vede e di ciò che si sente: il bicchiere è

mezzo pieno, non mezzo vuoto!

La metodologia del problem solving mira a migliorare la qualità della

prestazione e a sviluppare la competitività dell’allievo e del gruppo di

lavoro.

Il modo intelligente perché ciò avvenga sta nell’affrontare tutti i problemi

che impediscono alle persone, a tutti i livelli, di svolgere il proprio lavoro

in modo efficiente e dinamico.

Attendersi e ricercare il meglio nello sport significa dedicare tutte le

risorse individuali e collettive all’obiettivo che si vuole perseguire: la

realizzazione della prestazione ottimale.

Per raggiungere quest’ultima, è opportuno, in seguito alla rilevazione

della situazione di partenza degli allievi, individuare e formulare obiettivi

che prevedano la presa di coscienza dell’esistenza di abilità mentali

favorenti l’alta prestazione e la convinzione di doverle allenare.

Questa ricerca di una prestazione di alta qualità è la ricerca del meglio

sotto tutti gli aspetti ed è importante saper smontare la prestazione in tutti

i particolari, saper svilupparli e saper riprodurli.

Si fallisce nello sport come nella vita non per mancanza di abilità ma

perché manca la capacità di pensare, di desiderare, di sperare, di

credere e di agire con passione e con coraggio.

La tendenza comune è quella di mantenere un certo equilibrio piuttosto

che andare alla ricerca di un costante e continuo miglioramento

preferendo rimanere nel campo del noto piuttosto che esplorare quelo

dell’ignoto.

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Il coraggio invece è stato considerato una delle principali virtù umane, il

giusto mezzo tra la temerarietà e la paura in quanto tiene conto delle

condizioni di realizzabilità dello scopo o di superamento del pericolo.

Il coraggio è l’emozione che permette di osare, di affrontare i fantasmi e

andare avanti per raggiungere gli obiettivi.

Oltre al coraggio, l’ottimismo è un’altra forza emotiva che facilita il

passaggio dal pensiero positivo all’azione ed è definito come attitudine

psicologica a valutare favorevolmente la realtà e a guardare al futuro con

fiduciosa attesa anche nei momenti difficili.

Allievi e maestri di successo, quando perdono o falliscono, puntano

anche sull’ottimismo per raggiungere gli obiettivi prefissi con rinnovati

impegno e motivazioni.

Avere l’abitudine di parlare a se stesso ripetendo frasi di coraggio ed

ottimismo è una tecnica efficace per affrontare positivamente compiti

difficili e per gestire l’ansia di prestazione.

L’attività mentale di un giovane tennista di alta prestazione deve quindi

fondarsi su un linguaggio interiore che evochi pensieri, emozioni e

sentimenti positivi a beneficio della fiducia in sé, dell’autostima e della

percezione di autoefficacia.

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2.4. Il ruolo di Maestro-allenatore

Abbiamo approfittato della nostra esperienza ultraventennale in qualità di

insegnanti di tennis oltre che di quella degli oltre quaranta maestri

partecipanti al “Corso per Tecnici Nazionali della FIT”, di un’indagine

svolta dalla nota psicologa Dott. Marcone durante il Torneo

Internazionale di Milano 2005 e pubblicata sulla rivista specializzata “O-

15” e di un’altra simile svolta da me durante il Torneo Internazionale di

Napoli 2005 per capire se e quanto maestri, coaches, allievi e giocatori

italiani e stranieri ritengano importante il ruolo della psicologia dello

sport nella crescita del tennista e nel miglioramento della prestazione.

La risposta è stata concorde (grafico 7) nel definire le abilità mentali

come i fattori discriminanti tra un buon giocatore ed un ottimo giocatore

e nell’affermare che vanno individuate ed allenate.

Poca attenzione è stata data alla divulgazione delle conoscenze di

psicologia sportiva.

Sembra però che i maestri di tennis non siano del tutto disinteressati alla

psicologia dello sport, anzi mostrano spesso entusiasmo quando le

relative nozioni teoriche acquisite si rivelano utili alla loro attività.

Perciò il problema principale sembra non consistere nello scarso interesse

verso la disciplina ma forse nella difficoltà di utilizzare praticamente

l’informazione per la cronica mancanza di fondi che non consente

l’inserimento della figura professionale dello psicologo sportivo

all’interno dello staff tecnico.

Spesso un maestro è un ex-giocatore, che per amore del tennis e per il

piacere di rimanere inserito in un determinato contesto sportivo, decide di

dedicarsi all’allenamento di gruppi agonistici e di singoli allievi delle

categorie giovanili.

Questo settore, ed in particolare modo quello delle fasce di età più bassa,

è costituito da una vasta tipologia di ragazzi, alcuni dei quali già

dispongono di buone doti fisiche e tecnico-tattiche accanto ad altri da

poco avviati alla pratica sportiva.

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Grafico 7

Nello sport giovanile si riconosce grande importanza alle potenzialità

formative ed educative che dovrebbero contribuire a sostenere lo

sviluppo psico-fisico del giovane tennista, oltre che naturalmente indurlo

a sviluppare autostima, consapevolezza e capacità di collaborare con gli

altri.

Sarà compito del “bravo” maestro promuovere queste influenze positive,

in abbinamento all’allenamento specifico e tecnico, scegliendo le

modalità di interazione con gli allievi che si ritengano più appropriate,

individualmente e collettivamente.

Il maestro può rivestire anche i ruoli di educatore e leader del gruppo,

miscelandoli sapientemente al fine di evitare di influenzare

negativamente l’esperienza sportiva del ragazzo che in casi estremi

potrebbe sentirsi demotivato fino all’abbandono dell’attività.

Dovrà essere capace inoltre di infondere una giusta dose di stress, tale da

incrementare l’agonismo ma da non gettare l’allievo in stati ansiosi che

gli precluderebbero il piacere del divertimento derivante dalla pratica

sportiva.

94%

4% 2%0%

10%20%30%40%50%60%70%80%90%

100%

Maestri e giocatori

Molta Poca Nessuna

Importanza delle abilità psicologiche e del mental training

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Spesso i giovani atleti hanno una considerazione non totalmente

soddisfacente del proprio maestro nel caso che faccia prevalere

maggiormente gli aspetti tecnici e di risultato su quelli ludici e ricreativi.

Per questi motivi alla figura del maestro moderno, dei settori giovanili in

particolar modo, viene richiesta un’adeguata preparazione in strategie di

tipo motivazionale, tale da trasformare in esperienza gratificante anche

una prestazione di scarso valore, sdrammatizzandola e riconducendola al

gioco e al divertimento.

Il maestro riveste, o dovrebbe rivestire, il ruolo di leader istituzionale

all’interno del circolo, essendo stato designato all’incarico direttamente

dal gruppo sportivo, ma deve disporre anche della capacità di proporsi

come guida e punto di riferimento per i propri ragazzi.

Dovrebbe evitare di esercitare la propria leadership con eccessiva autorità

o eccessivo paternalismo e sarebbe auspicabile che condividesse anche

con altri elementi dello staff la leadership di relazione, concedendo

spazio a quanti lo richiedano e che abbiano una spiccata tendenza a

manifestare la loro personalità, magari assumendo il ruolo del leader dei

leader.

Tutto ciò contribuirà indubbiamente a consolidare lo spirito di gruppo e a

favorire il raggiungimento di comuni obiettivi, in un clima divertente,

rilassato e collaborativo.

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2.5. Gestione delle pressioni esterne e interne: stress e ansia

L’atteggiamento mentale ottimistico serve per sostenere le azioni nelle

situazioni di difficoltà, nutrendo la mente di pensieri e obiettivi positivi.

Nonostante ciò, lo stress in quanto risposta fisica e mentale ad una

richiesta ambientale non può e non deve essere evitato perché

costituisce il giusto stimolo alla vita.

Non è quindi una condizione patologica dell’organismo, anche se in

alcune circostanze può produrre patologia come nel caso in cui lo stimolo

agisce con grande intensità e per lunghi periodi.

Molti credono che stress e tensione siano la stessa cosa ma la tensione è

una reazione fisiologica di stress caratterizzata da sensazioni di ansia, di

preoccupazione e di pressione quando la gestione dello stress non ha

funzionato.

Fattori di stress

1. fattori di stress psicologico:

- livello tecnico: implica differenti gradi di responsabilità, di richieste

ambientali

- ruolo: ruolo in campo (leader di una squadra, giocatore a sinistra nel

doppio), giocatore ruolo (turnover, panchina nelle gare a squadra)

- supporto sociale da parte della famiglia e dello staff

- evento importante

- scarso utilizzo da parte del maestro

- eccessiva pressione esterna (media, presidente del circolo)

- noia durante gli allenamenti e i ritiri pre-gara

- pubblico ostile e/o invadente

- infortuni

- basso livello di prestazione e/o sconfitte nonostante grossi sacrifici in

allenamento

- scadimento delle motivazioni dovuto a un errato goal-setting:

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rapporto tra abilità ed obiettivo: quando un atleta valuta se stesso

non sufficientemente capace di raggiungerlo difficilmente sarà

motivato a impegnarsi in un’attività frustrante

relazione tra difficoltà dell’obiettivo e la fiducia in se stesso: la

fiducia in se stesso influenza direttamente la percezione della

difficoltà del compito e la successiva prestazione

obiettivi troppo facili e poco incentivanti: giocare contro un

giocatore nettamente inferiore

locus of control eccessivamente interno a fronte di reiterate basse

prestazioni

- clima organizzativo della società: comunicazione e organizzazione tra i

membri della staff e tra questi e la dirigenza

- pressioni esterne: da parte degli sponsor, dei mass media, della società e

dei tifosi

2. fattori di stress in allenamento e in gara

- logistica: tipo o terreno, luci, materiali

- condizioni climatiche: vento, pioggia, freddo, umidità ecc.

- carichi di lavoro: es. allenamento aerobico e anaerobico

- partita importante: finali, incontri decisivi, campionati a squadre sono

partite in cui è necessario mantenere un ottimale livello d’ansia e

occasioni in cui difficilmente si riesce a controllare la paura

- disagi e stanchezza durante lunghi trasferimenti e trasferte

Tali fattori di stress possono dare origine nell’atleta ad una serie sintomi

psicofisici, a loro volta destinati a causare scarso rendimento.

Segni di stress sono:

- irritabilità generica, ipereccitazione o depressione

- secchezza della bocca e della gola

- comportamento impulsivo e instabilità emotiva

- incapacità di concentrazione

- predominio del senso di stanchezza

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- ansietà fluttuante: sensazione di paura senza sapere esattamente di che

- insonnia derivante dalla difficoltà di conciliare il sonno

- mancanza o eccesso di appetito

- riso nervoso o senza motivo

- arrotondamento dei denti per abitudine di digrignarli.

Gestione dell’ansia

Ben più difficile è il compito di affrontare l’ansia di un allievo che ha la

percezione di una situazione troppo ardua da gestire.

L’ansia in sé non è un elemento negativo per il rendimento, in quanto

entro certi livelli favorisce l’attività sportiva.

Il fattore determinante è invece come il ragazzo percepisce le

manifestazioni ansiose e come indirizza questo tipo di attivazione e di

energia: se un giocatore riesce o impara ad interpretare le proprie

manifestazioni somatiche d’ansia come energia che circola nel corpo e

non come qualcosa di negativo la conseguenza sarà l’assenza dei disturbi

cognitivi e la focalizzazione di questa energia di attivazione.

L’effetto negativo che l’ansia può avere sul rendimento sportivo è dovuto

spesso allo spostamento della motivazione dall’avere successo all’evitare

la sconfitta.

Nel soggetto bloccato dall’ansia di non farcela, di non essere abile, di

deludere le aspettative proprie e quelle dei genitori, del maestro e del

circolo la paura rende i pensieri e le decisioni lenti e inadatti.

Nella fase pre-gara sono sintomi inequivocabili di uno stato ansioso il

manifestarsi di variazioni del ciclo sonno-veglia, delle funzioni

fisiologiche espulsive così come le continue richieste di “aiuto tecnico”

spesso accompagnate da nervosismo e mancanza di attenzione.

Ad un’attivazione troppo alta con aumento della frequenza respiratoria,

ritmo cardiaco accelerato e sudorazione accentuata, la tensione muscolare

quasi corrisponde a quella psicologica e nella mente del giovane tennista

si affacciano presagi o ricordi minacciosi di vergognose sconfitte che a

loro volta, accompagnati spesso da un linguaggio interno negativo, come

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in un circolo vizioso aumenteranno l’ansia che da un lato renderà i

movimenti lenti ed impacciati, dall’altro farà diminuire la lucidità tattica

e il livello di prestazione.

Il solo accorgersi di non essere capaci di gestire questa situazione, la

paura di non riuscirci, il ricordo di non esserci riuscito in altre occasioni

o le immagini di un compagno che perde nelle stesse circostanze possono

essere motivo di forte ansia di stato che purtroppo può trasformarsi, a

lungo andare, in ansia di tratto.

Soggetti motivati al successo infatti dimostrano un’elevata persistenza al

compito, forniscono prestazioni di alto livello, sono rapidi nelle

esecuzioni, sono orientati maggiormente sull’abilità e meno sulle

persone, assumono una certa dose di rischio e con soddisfazione le

responsabilità delle proprie azioni.

Soggetti motivati ad evitare la sconfitta perché “in ostaggio” della

propria ansia presentano modificazioni complesse e personali a carico del

sistema nervoso vegetativo (pulsazioni, respiro, tensioni e tremori

muscolari…), modificazioni comportamentali personali nel senso della

fuga (riscaldamento blando e senza impegno, continuo lamento per

presunti problemi fisici…) che lo isolano dal gruppo per l’atteggiamento

espresso, modificazioni dei processi mentali e psicologici (rigidità degli

schemi ideativi, senso di confusione, insicurezza, difficoltà a

concentrarsi…).

Fig. 3 Allievi under durante una premiazione

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Come può un maestro far sì che i suoi allievi utilizzino l’ansia in quanto

forma energetica senza lasciarsene travolgere?

Egli può spostare l’obiettivo dalla vittoria al progresso nell’abilità

prestativa in modo da mantenere il più possibile l’equilibrio tra sfida ed

abilità, cercando di far fluire quest’energia interiore in direzione di

quest’obiettivo equilibrato.

È chiaro che occorre, in precedenza, un lavoro sul riconoscimento e

l’utilizzazione di questa risorsa.

Un processo stressante deriva dalla percezione di uno squilibrio tra le

richieste ambientali e capacità di risposta del soggetto, e l’inadeguatezza

ad affrontare tali richieste è percepita come potenzialmente pericolosa

(Robazza, Bortoli e Gramaccioni 1994).

Per molto tempo gli psicologi hanno considerato questi stati ansiosi come

un aspetto che influenza negativamente la prestazione, agendo

quindi nel tentativo di ridurli.

Negli ultimi anni, invece, si è diffusa l’opinione che un moderato livello

di ansia possa comportare un giusto grado di attivazione fisiologica, che

può, a sua volta, tradursi in uno stimolo energizzante utile per il

miglioramento della prestazione.

Spesso, nel considerare le situazioni stressanti cui tennisti di giovane età

sono sottoposti, si sono confusi, o usati impropriamente, i termini di

attivazione ed ansia.

Il primo indica esclusivamente l’attivazione dell’organismo

rappresentando una situazione neutra che riflette solamente l’intensità dei

cambiamenti del sistema nervoso autonomo.

L’ansia, invece, esprime l’interpretazione cognitiva del soggetto che si

accompagna ad un elevato grado di attivazione, in presenza anche di uno

stato d’animo negativo (Bortoli, Robazza e Gramaccioni 1994).

Come si può intuire non si può quindi considerare uno di questi due

aspetti senza prendere in esame anche l’altro, e tale legame si può meglio

comprendere distinguendo l’ansia in cognitiva e somatica.

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L’ansia cognitiva rappresenta la componente mentale dell’ansia, che può

originare da varie valutazioni negative quali la paura del fallimento, la

scarsa fiducia nei propri mezzi, ecc.

L’ansia somatica, invece, è la componente legata all’attivazione

dell’organismo, ed in particolare rappresenta la percezione della risposta

fisiologica ad uno stimolo stressante mal gestito.

In letteratura c’è anche un’altra importante distinzione tra ansia di stato e

ansia di tratto: la prima esprime uno stato emozionale transitorio,

caratterizzato da vissuti soggettivi negativi di apprensione e tensione,

accompagnati da attivazione dell’organismo; la seconda invece è una

caratteristica relativamente stabile, una sorta di predisposizione a reagire

a molti stimoli ambientali con un’elevata ansia di stato.

Quest’ultima distinzione è stata utile per constatare che generalmente

atleti che presentano alti livelli di ansia di tratto evidenziano, nella

competizione, maggiore ansia di stato rispetto a quelli con bassa ansia di

tratto.

Fra i primi autori che cercarono di studiare l’ansia ipotizzandone anche

un effetto facilitante, e non solo inibente, ai fini della prestazione furono

Graham Jones e Austin Swain (1994).

Il test utilizzato per i loro rilevamenti fu lo CSAI-2 (Competitive State

Anxiety Inventory) che misura l’intensità dei sintomi indicatori della

presenza di uno stato ansiogeno, quali la tensione (ansia somatica) e la

preoccupazione (ansia cognitiva) misurando inoltre anche il livello di

fiducia in relazione alla competizione (self-confidence).

I risultati dei loro studi li portarono ad affermare che non esistono

differenze sostanziali tra atleti di vertice e atleti mediocri in termini di

ansia: ciò che li differenzia è invece l’interpretazione di questi sintomi

ansiogeni nel senso che gli atleti di vertice li considerano più facilitanti di

quanto non facciano gli atleti mediocri ai fini della performance.

I suddetti autori affermano, inoltre, che questa interpretazione positiva

dell’ansia è correlata ad una maggior fiducia in se stessi e nei propri

mezzi (self-confidence); chi invece presenta scarsa autostima tende a

riportare alti livelli di ansia in relazione alla competizione.

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Quindi le due parole chiave che ci permettono di comprendere meglio la

dimensione dell’ansia sono il livello di attivazione e l’autostima di un

individuo.

Le persone fanno in parte riferimento al grado di attivazione fisiologica

per giudicare il proprio stato di ansia e difficoltà; poiché in genere

un’eccessiva attivazione incide negativamente sulla prestazione è

probabile che un soggetto si senta più sicuro delle proprie capacità

quando non si percepisce troppo teso ed agitato.

Ansia e paura non sono caratteristiche fisse di eventi situazionali;

derivano piuttosto dal divario che si percepisce fra potenziali aspetti

avversativi dell’ambiente e proprie capacità di farvi fronte.

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CAPITOLO 3

MENTALITÀ VINCENTE

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PREMESSA

La mentalità vincente è a nostro avviso, l’ingrediente più importate della

ricetta di successo elaborata dall’atleta capace di vincere più degli altri.

Ciò detto vale per la pratica sportiva e metaforicamente estensibile ad

ogni situazione di vita.

Essa è causa prima e, nel contempo, conseguenza di vittorie a catena; non

va mescolata o confusa con strafottenza, fanatismo, faciloneria.

Con l’aiuto di uno studio di Bruna Rossi analizziamo le dinamiche che

muovono l’atleta in relazione alle forze che provocano la sua eccezionale

attitudine alla vittoria .

Egli è self-centered. Vale a dire determinato nel pensare più a se stesso

che agli altri. L’approvazione che l’ambiente può concedergli è un

gradevole accessorio che, nel caso sia sostituito da un contesto ostile,

risulta utile nella stessa misura.

Shakesperare faceva declamare al suo Giulio Cesare: “Dite di me quel

che volete purché diciate” ed egli fu indubbiamente un vincente

Il self-centered utilizza il sentimento di approvazione da parte degli altri

come semplice “referente” nel personale processo di auto-valutazione

che desume prevalentemente da dati obiettivi.

Egli s’impegna in ogni competizione con serietà e al massimo di ogni

possibilità,non rinunciando tuttavia all’eccitazione del divertimento con

l’aggiunta di spirito di rischio e sfida.

Costantemente orientato durante la gara al presente, presta grande

attenzione e concentrazione nell’esecuzione perché consapevole che il

successo ne è la logica conseguenza.

Affronta le situazioni avverse senza drammatizzare:le considera come

facenti parte della realtà .

Nel prefiggersi mete reali e possibili utilizza buone capacità di analisi ed

è in grado di selezionare gli stimoli rilevanti nella situazione di gara. Li

riconosce e si concentra su di loro senza lasciarsi distrarre. Prevede il

programma,i tempi di gara senza rigidità, sicché è capace di modificare la

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propria condotta tecnica e tattica adattandosi flessibilmente a condizioni

inaspettate senza lasciarsi in alcun modo intimorire.

Il self-centered sa attendere, non “tira le somme” prima che la gara sia

finita,così da avere maggiori chances di recupero e di rimonta..

In altre parole non si dà mai per vinto prima di esserlo davvero!

In termini di esperienza sa mettere a frutto il successo quanto

l’insuccesso valutando a posteriori, nell’analisi causa-effetto, il perché

della vittoria o della sconfitta.

Nel tennis l’atleta è unico attore in scena, l’unico responsabile del

risultato; non può condividere con dei compagni di squadra la gioia di

una vittoria e la rabbia negativa di una sconfitta.

Tutto ciò logora la mente e proprio per questo richiede una forte

mentalità vincente.

Il famoso psicologo americano B. Ogilvie incitò la squadra maschile di

nuoto del suo paese prima di una importante competizione così: “ Guai a

voi se, sui blocchi date la mano agli avversari, se familiarizzate, se

sorridete, voi dovete odiarli, dovete pensare che vi hanno rubato la

ragazza; pensatele tutte perché, se non li odiate, non potete vincere:

perché per vincere ci vuole “l’istinto dell’assassino” o meglio

denominato “killer istinct”.

Modulando quanto su citato alla competizione riportiamo come l’atleta

Kris Evert definiva a suo modo l’espressione Killer istinct: “ la

sensazione che in un dato momento non c’è nulla di più importante che

vincere il prossimo punto”.

E ancora un esempio di comportamento in campo da tennista dotato di

mentalità vincente è sicuramente quello tenuto in campo da Lleyton

Hewitt nella finale degli Australian open 2005 che si concluse con la sua

sconfitta. Egli lottò in ogni momento della partita, tanto che a pieno

titolo lo possiamo definire un vero “fighter” e volendo interpretare il suo

body language e il suo sguardo, dall’inizio alla fine di questo match ne

leggiamo il messaggio positivo di chi ha la consapevolezza di aver dato il

100% vivendo il continuo “piacere” del gioco: nella vittoria e nella

sconfitta.

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Questo è per noi l’atleta dotato di mentalità vincente con l’istinto del

Killer, la consapevolezza che un atleta di tal levatura sa trarre dalla

vittoria e dalla sconfitta strumenti per migliorare e per poter scalare un

altro gradino alla ricerca della pur impalpabile perfezione.

Pertanto il tennista moderno per poter raggiungere “un mentalità

vincente”, comune soltanto ai migliori giocatori del mondo, deve quanto

prima imparare a sviluppare queste capacità: tenacia, concentrazione, il

self control nelle fasi di difficoltà di gioco, la padronanza e la sicurezza

di sé, l’autostima, il self-talk positivo e infine, ma non per ultima,

l’abilità ad isolare e a lottare per ogni singolo punto, per il

raggiungimento dell’obiettivo finale.

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3.1. Autostima e mentalità vincente

La maggior parte degli atleti di grande successo crede fermamente nelle

proprie risorse e capacità, impegnandosi ad utilizzare tutti i mezzi a

disposizione.

Alcuni giocatori partono già sconfitti prima di entrare in campo, pensano

errori fatti nelle precedenti gare, si stimano incapaci, fermano il loro

pensiero su aspetti negativi.

Bisogna abbandonare le ”credenze limitanti” (non sarò mai un campione,

le gare importanti le ho sempre perse, ecc.) e sostituirle con le ”credenze

potenzianti” (con l’allenamento e l’impegno diventerò più bravo) per

acquisire forza, determinazione, convinzione di potercela fare. (Livio

Sgarbi).

La condizione psicofisica sopra ogni aspettativa, rappresentata da un

senso di benessere, da uno stato psicologico ottimale, è strettamente

correlata ad abilità e a componenti psicologiche quali, fiducia pre-gara,

pensiero positivo, motivazione, livello di attivazione psicofisiologica,

ecc. e non può essere sperimentata in una situazione di ansia o di scarsa

autostima.

Per favorire questa situazione, oltre alle capacità, all’abilità e alla

motivazione, si necessita di ottimismo e di convinzione di essere

all’altezza della situazione. Chi pensa di non farcela, di non essere

capace, è perdente in partenza. Chi ha scarsa fiducia in sé tende a

diminuire il proprio impegno, evitare il compito proposto, attribuire gli

insuccessi a incapacità personali e i successi a cause esterne. Viceversa

chi ha fiducia in sé e autostima, ha voglia di impegnarsi e di raggiungere

gli obiettivi. Rappresentare il successo migliora la prestazione.

E’ importante allenare la capacità di conservare la fiducia in sé in

situazioni che la escluderebbero. ”Il vero successo non consiste nel non

cadere, ma nel rialzarsi ogni volta che si cade”. (Vince Lombardi)

E’ rilevante sviluppare un pensiero positivo eliminando tutte le cose

negative, che in genere si caratterizzano con delle espressioni ben

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precise: “ sull’erba non giocherò mai bene “, “ il rovescio non lo

imparerò mai ”, ” penso di non farcela ”, ecc.

Tutte queste auto-svalutazioni ,limitazioni , paura di cosa accadrà, dubbi

su di sé, timore di deludere gli altri non consentono di esprimersi al

meglio.

Il maestro deve essere attento nel percepire queste difficoltà espresse

dall’allievo e aiutarlo a superarle, in primo luogo facendo sostituire le

affermazioni negative con quelle positive.

I pensieri positivi sono legati anche alla fiducia che l’allievo ha di sé,

come consapevolezza di riuscire ad eseguire un compito prima di

metterlo in atto (Mildred McCoy 1977). Il successo aumenterà la fiducia

in sé e l’autostima, l’insuccesso la farà diminuire (Bandura).

La fiducia in sé può essere anche stimolata da esperienze sostitutive,

come ad esempio vedere gli altri vincere un match, può fare scaturire la

convinzione di essere capaci, da incitamenti e incoraggiamenti verbali

(sei bravo , forza , dai che puoi farcela, sei il più forte, ecc.), come

tecniche persuasive suggestionanti per convincere l’allievo che può

esprimersi con successo. Va detto che tuttavia, queste tecniche persuasive

sono più deboli e meno incisive rispetto all’esperienza del successo in

precedenti occasioni.

Un esercizio che porta alla consapevolezza di un atteggiamento positivo,

si chiama “inquadramento positivo della mente”. Esso consiste

nell’invitare l’allievo a descrivere tre aspetti che lo caratterizzano in

relazione a degli argomenti guida come:

- colpi vincenti e punti di forza;

- miglioramenti fatti negli ultimi sei mesi;

- tornei di cui si sente soddisfatto;

-aspetti dell’allenamento che sono stati curati particolarmente;

- prossimi obiettivi.

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Fig. 2 Roger Federer

In caso di sconfitta o insuccesso, un atteggiamento negativo è

rappresentato dall’attribuzione del proprio esito negativo a fattori interni

e stabili (“sono un buono a nulla”, “non migliorerò mai”, ecc.).

Il maestro e lo psicologo, in questi casi, devono intervenire per

migliorare l’immagine di sé, attribuendo situazioni realistiche e positive.

Si deve fare di tutto per migliorare la stima dell’allievo, in modo tale che

la prestazione sia affrontata con la massima fiducia. A tal proposito, due

studiosi (Deborah Feltz, Dan Goul) suggeriscono un insieme di proposte

per incrementare la fiducia nell’allievo:

esaltare e incoraggiare sempre in positivo, dopo l’esecuzione di un

compito (sei migliorato parecchio, hai un ottimo diritto, ecc.);

dare suggerimenti su quello che va fatto e non su quello che non si deve

fare (sostituire la frase “ non tirare con le gambe diritte “ con “ piegati

bene sulle gambe “, “ stai basso appena colpisci “); le frasi su cosa non

va fatto trasportano l’informazione in senso negativo e creano dubbi;

proporre all’allievo di auto-elogiarsi con delle frasi sulle proprie capacità

(“sono forte”, “sono bravo”, “ho un diritto micidiale”, ecc.);

convincere l’atleta che i risultati ottenuti sono dovuti alle proprie capacità

e che sta seguendo un allenamento completo;

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abituare l’allievo ad analizzare e valutare la prestazione specialmente

dopo una vittoria, dandosi anche un punteggio;

spiegare all’allievo che, prima della gara, i segnali che potrà avvertire

(aumento del battito cardiaco, respiro affannoso, sudorazione, ecc.),

prepareranno il corpo ad affrontare l’incontro;

incoraggiare il successo della prestazione in virtù delle precedenti

esperienze e al fatto che in allenamento sono stati curati tutti i particolari.

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3.2. Interviste a giocatori professionisti

Le interviste, rivolte a 20 professionisti del circuito maschile (A.T.P.) di

cui ci piace ricordare Adrian Voinea, Leonardo Azzaro, Potito Storace,

Oliver Marach, Hicham Arazi, Uros Vico, hanno avuto l’obiettivo

principale di risalire alle principali abilità mentali del tennista e quali

fossero le principali tecniche di mental training.

A tale scopo i grafici che seguono mostrano i risultati ottenuti dalle

interviste effettuate.

Hai mai fatto mental training?

35%

65%

si

no

Grafico 1

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Grafico 2

Abilità mentali che un tennista deve sviluppare per migliorare il proprio

ranking

19%

10%

16%

18%

11%

15%

11%

Concentrazione Determinazione Aggressività Autostima

Motivazioni Positività Controllo Emozioni

Grafico 3

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Grafico 4

Da questa indagine si evince che, nonostante la grande importanza che in

quest’ultimi anni riveste la preparazione mentale di un tennista, soltanto

il 65% dei nostri intervistati è stato allenato con tecniche di mental

training, ma la quasi totalità degli atleti ha ormai raggiunto la

consapevolezza di quanto le proprie prestazione possano migliorare

allenando l’aspetto mentale da juniores.

Qua nto p e n si che avresti potuto migliorare il tu o ra n k ing a lle nando l'aspetto mentale da junior e s ?

9 0%

10%

0% 0

0 , 1

0 , 2

0 , 3

0 , 4

0 , 5

0 , 6

0 , 7

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0 , 9

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m o l t o abbastanza po c o

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3.3. Aggressività e agonismo

Gli aspetti psicologici nel tennis sono molteplici e differenti. Essi sono

basati sia sulle motivazioni proprie di ogni individuo, sia sulla disciplina

sportiva praticata. I più importanti sono: la dominanza,

l’autorealizzazione, la socializzazione, il narcisismo e l’esibizione,

l’aggressività e la rivalità particolarmente evidenti nell’agonismo, in cui

l’obiettivo consiste nel prevalere sull’avversario, inteso come limite da

superare. Nell’agonismo, inoltre, l’aggressività viene sublimata ed

incanalata per raggiungere la vittoria.

Chi vive nel mondo del tennis sa che è uso comune distinguere l’attività

in agonistiche e non agonistiche. Da un punto di vista psicologico, questo

non è corretto, perchè non esiste concettualmente uno sport che non sia

agonistico; l’agonismo è alla base dello sport; se togliamo il gioco e

togliamo l’agonismo, noi facciamo dell’attività sportiva soltanto

un’attività motoria.

Questo però non significa che l’agonismo sia inteso solo come desiderio

di superare l’avversario; ci può essere un “agonismo” anche nei confronti

di se stessi, per esempio come nel caso dell’individuo che riesce a fare il

giro dell’isolato in qualche secondo di meno di quanto egli stesso no

l’abbia fatto il giorno prima.

L’agonismo è una forma di aggressività socializzata. L’aggressività può

avere delle cariche anche negative, cioè con una potenzialità asociale.

L’agonismo no, perché è una istituzionalizzazione dell’aggressività entro

limiti socialmente accettabili.

Quando a primavera i grandi ghiacciai alpini cominciano a sciogliersi,

masse ingenti di acqua si rovesciano a valle e costituiscono un pericolo.

L’uomo che sa di questo appuntamento annuale, ha alzato degli argini

attorno a questi fiumi alpini e, magari, giù a valle ha costruito un bacino

idroelettrico (letture, Roma, E. Luigi Pozzi, F. Antonelli, 1987) . Ecco il

rapporto che esiste fra questa forza bruta, potenzialmente pericolosa,

della natura e l’incanalamento di questa forza, addirittura la sua

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utilizzazione a fini pratici, è paragonabile al rapporto che esiste fra

aggressività ed agonismo.

È una paura giustificata dal fatto che la parola aggressività ha un etimo in

comune con un’altra parola che ha un significato indubbiamente

negativo: mi riferisco all’aggressione; l’etimo è lo stesso, ma la

differenza è sostanziale perché aggressione è l’atto di aggredire,

aggressività è la capacità o potenzialità di compiere un’aggressione, nel

caso che ciò venga deciso. L’aggressività è una energia e, come tale, non

può essere decretata immediatamente come negativa, perché non

esistono energie negative., L’aggressività appartiene alla personalità di

ciascuno di noi, quindi a tutta l’umanità, per migliorarsi, per prevalere

sull’avversario, ed è per questo che nessuna conquista umana è possibile

senza una certa aggressività. Ecco perché l’aggressività sia una energia

“naturale” che non ha nulla di pericoloso, purché canalizzata da certe

normative.

Aggressività o “grinta” come la chiamano i tecnici sono sinonimi che

esprimono la stessa cosa e sanno che gli atleti di oggi non hanno più

l’anima del famoso De Coubertain, “l’importante è partecipare” è stato

ridicolizzato. I giovani tennisti non sono affatto disposti a fare un’attività

sportiva soltanto per partecipare, il loro desiderio, la loro speranza è

soltanto vincere.

Fig. 3 Rafael Nadal

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L’importante è mettere il massimo dell’aggressività non nel disturbare

l’avversario, bensì nel gestirla come energia tesa al raggiungimento di un

successo, canalizzando questa energia verso una vittoria,

un’affermazione, verso la sensazione di aver fatto del nostro meglio.

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3.4. L’interpretazione dell’agonismo

Lo sport esige la componente agonistica, cioè non può fare a meno del

momento della sfida, qualunque cosa sia in palio.

Senza l’agonismo lo sport si snatura, cioè perde la sua natura originale,

non è più sport, lo si può fare a tanti livelli, ma senza mai rinunciare alla

sua sostanza agonistica. “Uno sport senza agonismo equivale ad una

compravendita senza denaro” (letture, Roma, E. Luigi Pozzi, F.

Antonelli, 1987). Chi raccoglie i suoi risparmi e li investe nell’acquisto di

un appartamento fa un “affare” anche senza essere, perciò stesso, un

“uomo d’affari”, però, come l’uomo d’affari, deve rispettare certe regole

come il notaio, il versamento di una somma di denaro, il pagamento di

certe regole come il notaio, il versamento di una somma di denaro, il

pagamento di certe tasse, l’assunzione di determinate responsabilità. Così

il tennis, comunque venga fatto, rispetta sempre certe regole:

preparazione, programmazione, sfida, impegno, rischio; in una parola

sola: agonismo. Tutto finalizzato all’affermazione.

Va precisato che “affermazione” non è necessariamente sinonimo di

vittoria. In effetti significa sforzarsi per ottenere un successo.

Vittoria e successo non sono sinonimi, come non lo sono sconfitta e

insuccesso. Si può conseguire un grande successo anche se si perde, così

come si può vincere male, cioè ottenere una vittoria immeritata che

equivale ad un insuccesso.

In realtà l’agonismo è parte integrante di ogni essere umano. Non è frutto

dello sport, semmai è lo sport ad essere frutto dell’agonismo come

modalità salutare di gestirlo in termini socialmente accettabili.

Non dobbiamo temere l’agonismo, anzi dobbiamo favorirlo; graduatoria,

frustrazioni, inflazione, sogni, sono pane quotidiano per i bambini, sia in

famiglia che a scuola. Lo sport ripropone le stesse possibilità ma col

vantaggio di un clima di libera scelta, di autentica individualità, di

rimediabilità. Qualcuno teme che lo sport possa nuocere alla salute

psichica di qualche bambino, dall’altra parte c’è l’esperienza generale

che ritiene sospetto e pericoloso che un bambino non faccia sport.

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Nello sport si incontra sempre qualcuno più fortunato o più forte, si

comprende quali sono i propri limiti e come potersela cavare da soli,

l’esperienza sportiva è maestra di vita. E questa è la vera educazione alla

vita, ecco, forse una buona definizione dell’agonismo: “Educazione alla

vita”.( F. Antonelli, 1987).

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3.5. Il mental-training: problematiche ed applicabilità

Il Mental training è nato in Cecoslovacchia dove Vanek invitava i

calciatori della sua nazionale, alla vigilia di un incontro, a prevedere la

partita e a pensare che tutto andasse in modo catastrofico. L’indomani

erano pronti ad accettare qualunque avversità, mal che andasse, non

poteva mai andare così male come era stato ipotizzato.

Poi il mental training si è affinato e generalizzato attraverso una serie di

tecniche di allenamento mentale che hanno la capacità di migliorare

l’atteggiamento mentale in riferimento alla prestazione. Precisamente,

trasmettono rilassamento, sicurezza, grinta, calma, voglia di vincere,

concentrazione, visualizzare idealmente il gesto atletico e perfezionarlo,

attenzione, attenua le tensioni e dominio di sé.

Il Mental trainig è un buon sistema per tenere l’ansia sotto controllo e

cioè per lasciarla salire di giorno in giorno, ma a livelli più bassi, affinché

l’inevitabile impennata finale non raggiunga un’entità patologica e quindi

non diventi un disturbo.

È pur vero che alla vigilia della gara l’atleta rischia più che nella gara

stessa: non è sbagliato sostenere che certe gare si vincono (o si perdono)

il giorno prima. L’eccesso di concentrazione è deleterio quanto la sua

carenza: la performance ottimale si realizza solo se la concentrazione (o

attivazione o vigilanza, termini con cui è traducibile l’intraducibile

termine inglese arousal) è nella media, lontano da entrambi gli eccessi

opposti, nel classico grafico ad U rovesciata.

Alcuni giocatori, le suddette capacità, le possiedono per un fattore

genetico, ma è pur vero che qualsiasi individuo con l’aiuto di determinate

tecniche psicologiche, può migliorare il comportamento in campo e di

conseguenza la qualità della prestazione tecnica, fisica e mentale.

Uno degli obiettivi fondamentali è di aiutare atleti normali a diventare

psicologicamente migliori (Martens 1987). Non ha il compito di curare

gli atleti che hanno problemi psicologici, ma si orienta verso la crescita

dell’individuo sano attraverso l’ottimizzazione delle sue risorse emotivo-

cognitive. (Orlick, 1989; Ferraro & Rush, 2000).

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Una convinzione errata, dimostrata da numerosi studi in merito, pensare

che le abilità psicologiche siano innate e immodificabili, che il training

mentale non è utile, che il training mentale è riservato agli atleti d’elite.

I primi ad approfondire lo studio del rilassamento in ambito sportivo

furono i sovietici, in particolare lo psicologo sportivo Alexander Romen,

che notò il miglioramento della performance più di qualsiasi altro

metodo.

L’approfondimento di tali tematiche nasce dalla consapevolezza che

effettivamente quello che fa la differenza fra un giocatore e l’altro è

proprio l’approccio mentale e psicologico con cui si affronta una gara.

Numerosi studi (Mahoney, Gabriel, Perkins), confermano che gli atleti di

alto livello si rendono diversi, rispetto agli altri, per livelli più alti di

concentrazione, di controllo dell’ansia, di fiducia nelle proprie capacità,

di preparazione mentale e motivazione.

Fra i differenti compiti del maestro, la preparazione psicologica degli

allievi assume un carattere rilevante per fornire i mezzi necessari ai fini

di un’adeguata preparazione alla competizione.

L’allenamento mentale può servire per perfezionare strategie mentali già

presenti nell’atleta o crearne delle nuove, che devono essere

personalizzate in base ai gradi di comprensione, di capacità, di tempo

disponibile, ecc.

Qualsiasi prestazione sportiva necessita di diversi elementi propedeutici.

Per allenarli al meglio, si richiede spirito di sacrificio, volontà,

motivazione, predisposizione fisica atletica, capacità tecniche, una

determinata intensità di allenamento, una adeguata alimentazione, regole

di vita ben definite, preparazione mentale.

È necessario dedicare uno spazio all’allenamento mentale con continuità

in base all’età e al livello di gioco. È fondamentale inserire il mental-

training soprattutto nelle situazioni reali dell’allenamento specifico.

L’allievo deve essere motivato, si deve impegnare, avere fiducia

nell’allenatore e nei metodi applicati.

Alcuni esercizi di Bioenergetica danno dei risultati da quanto vi si

investe, se vengono praticati meccanicamente si otterrà ben poco. Se

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verranno eseguiti in modo coercitivo ne diminuirà l’efficacia, se infine

eseguiti in modo competitivo non si proverà nulla.

Bisogna stabilire chiaramente per prima cosa che il mental training non è

un sostituto delle terapie, non potrà risolvere profondi problemi emotivi,

per cui generalmente si richiede un intervento terapeutico competente.

Sicuramente ognuno nasconde molto di sé sotto la propria armatura

caratteriale che non emerge o che stenta ad emergere: genitori, cultura,

religione, società, spesso limitano l’espressione e la creatività.

Il mental-training cerca di allentare per quanto possibile questi freni e di

far partecipare più pienamente alla vita e alle gare.

La Bioenergetica

Il corpo parla, ma pochi lo ascoltano perché pochi conoscono il suo

linguaggio. Per farsi sentire è costretto a urlare, i muscoli del volto si

contraggono, il sorriso si spegne, gli occhi perdono la loro lucentezza. Un

corpo inascoltato prima o poi è destinato a difendersi, costruendo una

corazza muscolare e bloccando il respiro, segno che l’energia non scorre

più liberamente, a discapito della possibilità di provare piacere.

La Bioenergetica fondata dallo psicanalista Alexander Lowen, è in grado

di decifrare i messaggi del corpo e può andare così a rimuovere quei

blocchi fisici, che sono solo l’aspetto esteriore di blocchi emotivi più

profondi.

La Bioenergetica è anche una forma di terapia che associa il lavoro sul

corpo con quello sulla mente per aiutare le persone a risolvere i propri

problemi emotivi e realizzare in misura più ampia il proprio potenziale di

provare piacere e gioia di vivere.

Una tesi fondamentale è che il corpo e la mente funzionalmente sono

identici , quello che succede nella mente riflette quello che succede nel

corpo e viceversa. La relazione tra questi tre elementi, corpo, mente e

processi energetici, è espressa nel migliore dei modi da una formulazione

dialettica. “La personalità di un individuo si esprime attraverso il suo

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corpo tanto quanto attraverso la sua mente. Non si può dividere un essere

umano in corpo e mente”, scrive A. Lowen.

Fig. 4 Alexander Lowen

Ciò che si pensa può influenzare il modo in cui si sente e il contrario è

ugualmente vero. Questa interazione tuttavia è limitata agli aspetti consci

o superficiali della personalità. A un livello più profondo, cioè al livello

dell’inconscio, sia pensare che sentire sono condizionati da fattori

energetici. Per esempio, è quasi impossibile a una persona depressa

emergere dalla sua depressione con l’ausilio di pensieri ottimisti. Questo

perché il suo livello di energia è depresso. Quando il livello energetico

aumenta tramite la respirazione profonda e la liberazione del sentire,

allora la persona esce dal suo stato depressivo (la depressione e il corpo,

Roma, Astrolabio, 1979).

Più si è vivi, più energia si ha e viceversa. Il lavoro della bioenergetica

sul corpo comprende trattamenti con le mani e particolari esercizi. I primi

consistono in massaggi, pressione controllata e leggeri contatti per

rilassare i muscoli contratti. Gli esercizi intendono aiutare chi li pratica a

entrare in contatto con le proprie tensioni e a rilasciarle tramite

movimenti appropriati. È importante sapere che ogni muscolo contratto

sta bloccando qualche movimento. La bioenergetica aiuta ad acquisire

una maggiore padronanza di se stessi con tutto quello che ciò comporta:

- Aumenta lo stato di vibrazione del corpo

- Aumenta la percezione delle gambe

- Rende più profonda la respirazione

- Rende più consapevoli di se stessi

- Amplia gli orizzonti della auto-espressione

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Molti tennisti si preoccupano, solitamente, di eseguire in modo perfetto

preciso e meccanico i loro gesti motori a scapito delle percezioni e delle

emozioni ad essi legate. L’obiettivo della bioenergetica deve essere,

quindi, il sentire e non lo sforzo. Si differenzia dalla ginnastica in quanto

mira ad aiutare il tennista a lasciarsi andare, ad abbandonarsi anziché

sviluppare forza muscolare.

Per la bioenergetica fare è meno importante che sentire, il giovane

tennista capace di percepirsi, a parità di potenzialità tecniche ed atletiche,

è avvantaggiato rispetto a colui che esegue il gesto senza sentirsi, senza

percepirsi, senza stare in contatto con tutto il proprio corpo. Questi

esercizi non vogliono sostituire l’allenamento che viene fatto con il

preparatore fisico o con il maestro, in quanto diversi sono gli obiettivi,

ancorché tutti con un solo scopo: migliorare il rendimento del giovane

tennista.

La respirazione nel Mental Training

Una buona respirazione è essenziale ai fini di una buona salute,

attraverso la respirazione, riceviamo l’ossigeno necessario per alimentare

la fiamma delle nostre combustioni metaboliche e queste a loro volta ci

forniscono l’energia di cui abbiamo bisogno. Aumentando l’ossigeno

aumentano il calore della combustione e la produzione d’energia.

Gli esercizi di respirazione sono di un certo aiuto, ma nulla fanno per

alleviare le tensioni e ripristinare le modalità della respirazione naturale.

Perché ciò avvenga, si devono capire tali modalità, si deve sapere perché

vengono alterate e imparare ad allentare le tensioni che ne danneggiano il

funzionamento naturale.

La respirazione sana è un’azione di tutto il corpo, tutti i muscoli vi sono

impegnati in qualche misura. Ciò è particolarmente vero per quanto

riguarda i muscoli profondi che fanno ruotare il bacino leggermente

all’interno e verso il basso durante l’inspirazione, aumentano la capacità

del ventre, e quindi lo fanno ruotare in avanti e verso l’alto per diminuire

la cavità addominale durante l’espirazione.

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Questo movimento in avanti della zona pelvica è favorito da una

contrazione dei muscoli addominali. L’espirazione è soprattutto un

processo passivo che può essere esemplificato ottimamente da un

sospiro.

Una respirazione inadeguata produce ansia, irritabilità e tensione. Ogni

difficoltà di respirazione causa ansietà.

Perché tanti tennisti incontrano difficoltà nel respirare appieno e

agevolmente? La risposta sta nel fatto che la respirazione crea delle

sensazioni che le persone temono di provare. Hanno paura di percepire

tristezza nell’errore o nella sconfitta, timori ecc… Parallelamente, dalla

repressione di una qualsiasi sensazione risulta qualche inibizione della

respirazione.

Generalizzando, è importante comprendere il meccanismo che blocca la

respirazione, perché la repressione non può venir eliminata finché non si

ristabilisce una respirazione normale.

I tipici disturbi della respirazione sono confinati nel torace, con la

relativa esclusione dell’addome, nell’altro la respirazione è per la

maggior parte diaframmatica, con movimenti relativamente lievi del

torace.

Per non trattenere il respiro vi sono due norme:

1) lasciare che la respirazione si sviluppi spontaneamente, senza forzare

il respiro, cercando di “sentire” quando non si sta respirando.

2) emettere un suono. Se emettete un sospiro, fate che sia udibile.

Il rilassamento muscolare analitico

Questa forma di rilassamento si rifà al metodo usato da Edmund

Jacobson; rappresenta una rielaborazione del training autogeno e si

differenza da quest’ultimo perché non comporta suggestione o ipnosi.

Si parte dall’idea che si può attuare il rilassamento, se si conosce il

vissuto della tensione muscolare.

Questo metodo alterna momenti di contrazione a momenti di

decontrazione muscolare che hanno il compito di eliminare la tensione.

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Sono previsti sei esercizi da svolgere in un’unica seduta per circa 15

minuti al giorno. Dopo circa un mese i risultati possono essere

soddisfacenti per regolare la tensione emotiva e il rilassamento generale.

Anche in questi esercizi, come nel training autogeno, ci devono essere i

requisiti relativi all’ambiente, alla postura e alla disponibilità

psicologica. Va attuata la ripresa ad ogni fine esercizio inoltre si farà

riferimento a parti singole del corpo e a parti più estese.

ESERCIZI:

PRIMO ESERCIZIO

In posizione seduta, portare le braccia tese in avanti; flettere il dorso delle

mani verso il corpo rimanendo con le braccia tese; raccogliere la

sensazione di pesantezza delle braccia, dei polsi, delle mani e delle

spalle; dopo qualche minuto rilasciare le braccia sopra le cosce e ripetere

per altre tre volte.

SECONDO ESERCIZIO

Da posizione seduta, sollevare il braccio dominante e rilassare l’altro;

percepire la sensazione di pesantezza, di contrazione e di rilassamento;

dopo qualche minuto rilasciare e ripetere per altre tre volte.

TERZO ESERCIZIO

Da posizione seduta, sollevare le gambe tese in avanti; lentamente

flettere il dorso del piede verso il corpo rimanendo con le gambe tese;

sentire la pesantezza; contare lentamente fino a 15 e ripetere per altre tre

volte, effettuando una pausa fra un esercizio e l’altro di 10 secondi.

QUARTO ESERCIZIO

Da posizione seduta, fare delle lunghe inspirazioni alzando le spalle e

contando fino a 10; espirare rapidamente rilassando le spalle.

Fra un esercizio e l’altro, rispettare delle pause di circa 6 secondi e

ripetere una decina di volte.

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QUINTO ESERCIZIO

Posizione da seduto, braccia appoggiate sulle cosce, contare lentamente

da uno a cinque facendo corrispondere ad ogni dito della mano un

numero iniziando dal quinto dito.

Ripeterlo per entrambe le mani per circa 8 volte con una pausa di circa 5

secondi fra un esercizio e l’altro.

SESTO ESERCIZIO

Questo esercizio differisce dagli altri, perché fa riferimento allo schema

corporeo o schema motorio nel suo complesso, e non a singole parti del

corpo come negli esercizi precedenti.

Da posizione disteso sul materassino, cuscino basso sotto la testa, braccia

distese lungo i fianchi con il palmo della mano rivolto verso il basso,

gambe rilassate con la punta dei piedi che cade verso l’esterno.

Respiro lento e profondo, rimango con gli occhi aperti; mi concentro sul

mio corpo, in particolare sul mio viso, sui i miei occhi, mantengo

l’attenzione sul battito delle mie palpebre; ora le mie palpebre diventano

pesanti, si abbassano, si chiudono e sposto la mia attenzione sulla mia

bocca; stringo i miei denti, sento la tensione, rilascio e i denti non si

toccano più; sollevo leggermente la testa da terra, sento il peso del mio

capo e poi lentamente la riappoggio; sposto l’attenzione sulle mie mani,

stringo forte i pugni, rilascio lentamente e distendo con forza le dita a

ventaglio, sento la tensione e rilascio; ora cercherò di contrarre tutti

insieme i muscoli degli arti superiori chiudendo i pugni e spingendoli con

forza verso il pavimento con le braccia lungo i fianchi, sento la

contrazione dei polsi, dei gomiti, delle braccia, delle spalle, rilascio

lentamente, ripeto; ora mi concentro sul bacino staccandolo da terra con

una anteroversione, sento la zona lombare staccata da terra e la tensione,

lo rilascio lentamente; faccio il movimento opposto portando il bacino in

retroversione, sento la zona lombare ben aderente al suolo, la contrazione

degli addominali e dei glutei, rilascio lentamente; cerco di contrarre tutti

insieme i muscoli degli arti inferiori, lentamente le mie gambe si

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irrigidiscono, sento la contrazione dei glutei, dei muscoli che avvolgono

le cosce, dei polpacci, aumento la tensione e lentamente rilascio, ripeto.

Ora cerco di immaginare e di sentire la decontrazione dopo la

contrazione, la calma dopo la tensione, il calore dopo il movimento; tutti

i muscoli sono rilassati, la calma si diffonde lentamente in tutto il mio

corpo; dopo aver sentito i miei muscoli quando sono contratti e quando

rilassati li potrò controllare meglio; ora mi sveglio lentamente, stringo e

rilascio i pugni delle mie mani, contraggo i muscoli delle gambe e

rilascio, apro gli occhi, mi stiro come quando mi alzo al mattino, mi

rialzo e faccio dei piegamenti delle gambe, delle braccia, ecc., per

riattivarmi al meglio.

Le tecniche idiografiche

Prima di iniziare un programma di allenamento mentale per sviluppare

tutte le abilità necessarie è indispensabile conoscere l’atleta attraverso

diversi strumenti instaurando un rapporto di fiducia con l’allievo,

evidenziando i punti forti e i punti deboli, applicando dei programmi

personalizzati in maniera costante, stabilendo degli obiettivi,

monitorizzando i progressi, proponendo in allenamento e in partita delle

tecniche specifiche, rendendo l’allievo autonomo nell’applicazione delle

tecniche.

I diversi test esistenti non sono molto attendibili ma comunque possono

servire per motivare l’atleta.

Di particolare interesse si presentano le tecniche idiografiche come il

colloquio e il profilo di prestazione.

Il colloquio è la tecnica idiografica più importante e più difficile, dove

bisogna stabilire i seguenti obiettivi:

- identificazione delle strategie spontanee della preparazione mentale per

vedere su cosa lavorare;

- punti forti e deboli;

- miglioramento della consapevolezza;

- vissuti pre-gara;

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- obiettivi;

- reazioni fisiologiche (ansia, ecc.);

- rappresentazione mentale;

- concentrazione e distrazione;

- valutazione prestazione e reazione all’errore;

- emozioni;

- rapporto con l’allenatore;

- canali sensoriali prevalenti (si notano da come l’atleta si racconta).

Il profilo di prestazione dell’atleta serve ad avere la consapevolezza dei

punti di forza e di debolezza, conoscere i bisogni del giocatore, sapere

ciò che l’atleta reputa importante per poter gareggiare, valutare i

progressi, esaminare la prestazione dopo la gara, rendere più motivante

l’allenamento, poiché è l’atleta stesso che collabora a evidenziare

l’importanza di lavorare su un aspetto piuttosto che un altro (Butler,

1989).

Una volta illustrate tutte le qualità più importanti, l’allievo deve valutare

il suo livello attuale in riferimento a ciascuna qualità con un voto da 0 a

10 usando il grafico del profilo di prestazione. Per conoscere l’atleta

bisogna innanzi tutto delineare gli aspetti che sono necessari per una

prestazione ottimale, incoraggiando l’atleta all’auto-valutazione, tramite

un punteggio da attribuire ad ogni aspetto qualitativo. Può essere l’atleta

stesso ad illustrare quali sono, a suo giudizio, le qualità specifiche che

intervengono per aumentare la prestazione; oppure è il maestro che

propone una serie di aspetti (fisiche, coordinative, strategiche, psiche,

tecniche, caratteriali, alimentari) dove l’allievo può scegliere quelle che

sono le più importanti. Il punteggio massimo va segnato nell’anello più

esterno della figura, tutti gli altri a scalare; i punteggi inferiori a 4 vanno

messi nel cerchietto centrale.

Per ogni qualità, l’anello corrispondente al voto, si può evidenziare in

qualsiasi modo (segno particolare, colore, ecc.).

Altri tipi di test per portare l’allievo alla auto-consapevolezza (conoscere

i propri punti forti e deboli, le cose da migliorare come tennista e come

persona), come capacità imprescindibile per chi vuole diventare un atleta

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di alto livello, si possono avere in merito all’immagine di sé, chiedendo

all’allievo di rappresentarsi scegliendo, da una apposita lista, degli

aggettivi che lo possono rappresentare più di altri. Questo serve a capire

come l’allievo si percepisce e aiutarlo a migliorare la stima di sé nelle

parti in cui è carente.

Fig. 4 Profilo di prestazione

La concentrazione nel Mental Training

Per concentrazione si fa riferimento a quella energia psicofisica che

consente ad un giocatore di astrarsi da tutti quegli elementi che durante

una partita possono arrecare disturbo. “Il segreto delle concentrazione

consiste nel non registrare i fattori esterni, esserne consapevoli ma tenerli

fuori dalla bolla mentale dentro la quale stai operando”.

Concentrarsi significa incanalare la tua mente in un’area specifica mentre

orienti le tue energie in una sola direzione” Geoff Boycott. Per la

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gestione dei processi attentivi è importante imparare a selezionare gli

stimoli rilevanti trascurando tutti gli altri.

Attivare l’attenzione al momento opportuno e mantenerla nei momenti

importanti. Bjorn Borg disse “ogni colpo deve essere giocato come se

fosse un match point”.

La capacità di dirigere l’attenzione dipende anche dalla motivazione, dal

desiderio interiore di riuscire in una determinata cosa e dall’autostima

(“hai tutto il tempo per pensare….sei laggiù da solo e devi pensare e

cambiare le cosa da te” Stefan Edberg) . Nonostante ci possa essere

l’interesse e la motivazione a concentrarsi, pensieri estranei non lo

permettono.

Anche bassi livelli di zuccheri nel sangue, disidratazione, mancanza di

sonno possono determinare insufficiente concentrazione, agitazione,

irritabilità, scarsa reazione, incapacità di prendere decisioni.

Soprattutto quando si è sotto pressione, la concentrazione può venire

meno e in questo caso possono essere di aiuto alcune regole (illustrate da

Tom Gullikson) che aiuteranno ad esprimersi al meglio:

- gestire bene il tempo prima dei punti importanti, concentrandosi sul

controllo del respiro per recuperare energia;

- utilizzare la visualizzazione prima del servizio o della risposta per

immaginare e vedere nella propria mente lo sviluppo del punto;

- pianificare una tipologia di gioco e metterla in atto;

- giocare un punto per volta senza pensare a quello che succederà dopo;

- curare la mobilità dei piedi e la posizione in campo per essere più

precisi;

- non stringere molto l’impugnatura per rilassare il braccio ed esprimere

la massima velocità;

- focalizzare la palla senza mai perderla di vista;

- pensare alla tattica e non alla tecnica;

- credere nelle proprie capacità pensando solo di dare il massimo;

- manifestare un linguaggio del corpo positivo e in forma.

La concentrazione rappresenta un elemento fondamentale nella

preparazione di un giovane tennista , come anche in altri sport, in quanto

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permette di giocare al meglio tutti i colpi, di impostare la partita con

lucidità, circa gli interventi tecnici da attuare momento per momento.

L’atleta riuscirà a concentrarsi, nel momento in cui saprà mettere a fuoco

la sua attenzione su tutti i segnali che possono derivare dalla gara (rete,

avversario, palline, posizione del proprio corpo e dell’avversario). Deve

essere in grado anche di estraniarsi da tutti i segnali oggetto di

distrazione (pubblico, rumori, vento, ecc.).

I nemici della concentrazione sono:

- distrazioni e interruzioni;

- difficoltà a tollerare le frustrazioni;

- stress, percezione della fatica;

- emozioni, atteggiamento mentale negativo, dubbi sulle proprie capacità;

- basso livello di attivazione che lascia spazio anche a stimoli irrilevanti.

Per allenare questa capacità è importante che in allenamento vengano

dati all’allievo obiettivi ben precisi in campo, spostando il centro di

attenzione, adottate tecniche di rilassamento, meditazione, gestire bene le

pause, favorire il dialogo interiore.

Ogni giocatore dovrebbe impostare un gioco sempre vario, per

costringere l’avversario a processi elaborativi sempre diversi, che

ritardino i processi decisionali di risposta. Nel contempo deve essere in

grado di selezionare ed elaborare solo i processi o gli stimoli più rilevanti

trascurando gli altri, poiché il sistema nervoso non è capace di elaborare

molti stimoli.

I giocatori più esperti utilizzano:

- processi di elaborazione automatizzati, che sono meno dispendiosi, più

rapidi, economici, non coscienti, diminuiscono le richieste attentive e

permettono di concentrarsi su altro;

- processi consapevoli quando gli stimoli derivanti sono più difficili e

vari, ma più lenti, dispendiosi, coscienti.

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Dialogo interiore

Indirizzare in un modo positivo il contenuto del proprio pensiero è

indispensabile ai fini della prestazione.

Il dialogo interiore (self-talk) serve per parlare con sé stessi, i pensieri

possono influenzare il comportamento attraverso il linguaggio interno:

quelli positivi favoriscono le capacità prestative, quelli negativi sono

fortemente condizionanti.

E’ chiaro però che bisogna programmare un allenamento affinché siano

controllati i pensieri: dialogo interno attraverso parole stimolo,

rinforzanti, auto suggestionanti per una percezione di autocontrollo e

autoinduzione emotiva, favorendo anche la concentrazione, aiutando

l’atleta a focalizzare l’attenzione sugli elementi rilevanti per la

prestazione.

Il dialogo interiore dovrebbe essere sostanziale, perché una eccessiva

verbalizzazione può disorientare.

L’argomento delle dichiarazioni va riferito agli obiettivi desiderati e non

agli errori da annullare. Il dialogo interiore deve essere sicuro, deciso e

potenziante per infondere fiducia e certezza, per attivare una maggiore

fiducia nelle capacità personali.

Un nuotatore olimpico deve mettersi sul blocco e ripetersi una delle

affermazioni forse più terribili e arroganti che possono esistere: “sono il

migliore del mondo!” E crederci al centodieci per cento. (Dunca

Goodhev, medaglia d’oro olimpica di stile rana)

Può essere rappresentato da brevi parole stimolo (forza, dai, su, andiamo,

ecc.), monologhi e frasi (questo game sarà mio, fallo correre, attaccalo

appena puoi, guarda la pallina, ecc.).

Abilità immaginative Le abilità immaginative fanno riferimento alle capacità di anticipare,

rivedere, correggere la prestazione, prepararsi alla gara. È essenziale però

che la pratica mentale sia associata a quella fisica (Howe 1993).

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Le immagini possono essere di tre tipi: riproduttive quando fanno

riferimento ad un’azione già eseguita; creative quando si crea una

situazione nuova; emotive quando richiamano situazioni associate ad

altre, come per esempio la determinazione che si può leggere negli occhi

di una tigre, la velocità del ghepardo, ecc.

Secondo molti autori (Jacobson, Avener, Shaw, Mahoney), le immagini

si suddividono in interne ed esterne.

Quelle interne, chiamate anche cinestetiche, sono le più efficaci per

migliorare le prestazioni soprattutto di atleti evoluti. Consistono

nell’immaginare una attività come se la si stesse eseguendo realmente; ad

esempio concentrarsi sul lancio della pallina nella battuta, immaginarla in

tutti i canali sensoriali motori (visivo, uditivo, cinestetico, tattile),

imparando a sentire il movimento durante l’esercizio.

Le immagini esterne (più utili ai principianti e comunque meno efficaci

perché più soggette a situazioni distraenti), comportano il vedersi

dall’esterno durante la prestazione come se si vedesse in televisione da

spettatore. È bene utilizzarle entrambe, preferendo all’inizio quelle

esterne e in una fase più avanzata quelle interne. Sembra tuttavia, che

quelle esterne siano adatte agli sport di situazione come il tennis, dove è

presente una maggiore presa di informazione esterna; quelle interne sono

più adeguate agli sport dove le sensazioni del movimento assumono un

ruolo determinante.

La durata dello schema immaginativo si deve aggirare intorno ai

tre/cinque minuti perché superando questa soglia si rischia la decadenza

dell’immagine. L’immagine deve essere sempre preceduta da un

rilassamento, mediante il quale si riduce la funzione dell’emisfero

sinistro, dimora del pensiero logico-verbale, per favorire la funzione

dell’emisfero destro dove risiedono il pensiero e le immagini (Martens

1987); per renderla più reale deve essere rappresentata in maniera

controllata e nitida, con più modalità sensoriali. Deve essere specifica e

personalizzata per ogni sport e individuo poiché può avere un effetto

positivo per alcuni e non produrre nessun risultato o addirittura essere

nociva per altri. Deve avere valore positivo affinché sia efficace, bisogna

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che sia esercitata fisicamente prima della visualizzazione e alla fine

quando la visualizzazione è riuscita.

L’immaginazione può avere applicazione nella pratica sportiva per

acquisire nuove abilità dove per esempio il maestro dimostra un

determinato gesto tecnico e l’allievo lo immagina eseguito da se stesso.

Lo scopo è di codificare il movimento attraverso l’immagine (teoria

dell’apprendimento simbolico) per facilitarne la messa in pratica.

Le finalità immaginative sono:

- apprendimento e perfezionamento delle abilità;

- incremento delle abilità-capacità percettive (canali sensoriali);

- elaborazione e ripetizione delle strategie di gara;

- controllo delle risposte fisiologiche (attivazione, disattivazione);

- allenamento delle abilità mentali (per es. immaginare di conseguire

determinati obiettivi);

- recupero infortuni.

Le immagini per essere efficaci devono avere:

-nitidezza e controllabilità (chiare, reali, precise, dinamiche);

- correttezza (il movimento deve essere immaginato correttamente nei

punti fondamentali, i principianti sono meno precisi dei giocatori esperti,

per la precisione delle immagini sono utili istruzioni verbali,

dimostrazione pratica, fotografie, filmati, disegni, ecc.);

- allenamento sistematico e continuo con cadenze determinate;

- esperienze precedenti (nei soggetti esperti sono più efficaci);

- attenzione ricettiva dell’allievo (deve credere in quello che sta facendo);

- direzione dell’immagine (immaginazione dissociativa per distrarsi come

fanno i fondisti nella corsa, ecc.);

- età, capacità intellettive, personalità, motivazione. (Robazza, Chevalier,

Denis, Hall, Smith)

L’immagine può servire anche per rendere più fluidi e automatici per

migliorare movimenti già presenti. Ulteriori impieghi delle immagini

possono avvenire per apprendere strategie di gioco, per familiarizzare

con ambienti sconosciuti (campo di gioco) dove bisogna competere, al

fine di contenere il livello di ansia; esaminare dei problemi di

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prestazione; attivare o disattivare un particolare stato d’animo; regolare il

battito cardiaco, la temperatura corporea, il ritmo respiratorio, ecc.;

padroneggiare la fatica, il dolore con immagini dissociative riferite a

situazioni piacevoli; sicurezza e fiducia in sé, controllo emotivo,

rimanere concentrati.

Mentre i giovani possono utilizzare le immagini per apprendere o

migliorare la tecnica, gli atleti di alto livello le possono impiegare per

ulteriori impegni.

Le immagini interne possono servire anche ad attivare dei meccanismi di

motivazione verso il raggiungimento di particolari obiettivi (prima della

gara immaginare la vittoria, la premiazione, ecc.) e possono servire

durante l’allenamento, durante e dopo la gara.

Il tipo di visualizzazione più usata dagli atleti è quella dell’anticipazione

mentale preparandosi alla gara immaginando e scorrendo nella mente nei

giorni precedenti i seguenti aspetti: luogo, spogliatoi, campo di gioco,

tipo di superficie, modello di avversario, riscaldamento, tattica da

adottare, schemi di gioco.

John Newcombe dichiarò : “Mi immaginavo mentre camminavo sul

campo, tirando a sorte per il servizio, fotografi intorno; la notte

precedente scorrevo mentalmente e facevo un elenco di ogni cosa che

sapevo sull’incordatura e di ogni frammento di informazione, poi andavo

a dormire”.

Dal punto di vista scientifico, l’efficacia delle abilità immaginative

sembra che inneschi e predisponga , tramite dei piccoli impulsi, le stesse

vie nervose coinvolte nel momento in cui vi è il trasferimento di un

impulso motorio attraverso la pratica (teoria psiconeuromuscolare con

l'aiuto dell’analisi elettromiografica). (Harris, Robinson, Jowdy, Zecher)

Va ricordato che la mente stenta a distinguere cose nitide immaginate da

cose realmente vissute.

Le immagini sono più efficaci quando sono polisensoriali coinvolgendo

tutti i sensi come sensazioni visive, cinestetiche, tattili, uditive,

vestibolari vivendo le stesse sensazioni che si vivono in quella situazione

visualizzata (visualizzazione associata).

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3.6. Esempi di mental-training:

prima della gara e dopo la gara

Le ore che precedono una gara sono molto importanti e delicate. Da una

parte, vi è l’esigenza di completare la preparazione dell’evento (strategia,

tattica, dieta specifica) , dall’altra quella di non “caricare troppo l’atleta

per evitare che arrivi troppo scarico al momento del match.

Questo è possibile se viene instaurato un rapporto interpersonale con

ogni allievo, in modo tale da favorire la comunicazione delle sensazioni,

delle impressioni e delle emozioni vissute.

Le sensazioni che ciascun atleta prova nelle ore che precedono la gara

sono molteplici, personali, differenti (pertanto, il maestro dovrà avviare

un processo conoscitivo che gli permetterà di dare ad ognuno quello che

gli serve), ma tutte sono accomunate dal loro graduale crescere di

intensità, man a mano che si avvicina l’inizio. L’esperienza comune è che

non sempre si arriva mentalmente nella maniera desiderata all’inizio

dell’incontro, ma spesso il tennista si sente pronto qualche minuto prima

o dopo la gara .

È essenziale che le tecniche, oltre che prima della gara, siano messi in

pratica anche negli allenamenti affinché abbiano una buona efficacia.

Le esercitazioni trattate sono diverse e appartenenti a differenti metodi.

Esercizi – prima della gara

PRIMO ESERCIZIO

L’allievo, con la forza dell’immaginazione, si

vede giocare analizzando con la mente situazioni

e tattiche di gioco: chiude gli occhi e gioca il

punto mentalmente.

SECONDO ESERCIZIO

Formulare con la voce la sequenza del gesto

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tecnico, in riferimento a colpi da migliorare; se

per esempio l’allievo ha un rovescio debole o si

sente insicuro dirà a voce alta: aprirò cambiando

impugnatura, piegherò le gambe, impatterò

avanti e scaricherò il peso del corpo in avanti.

Vale lo stesso per altri colpi. Questo esercizio

può essere svolto da distesi ad occhi chiusi o in

piedi con la racchetta. Le ripetizioni dipendono

dalla situazione interna di ogni individuo; in

genere bastano 3-4 ripetizioni.

TERZO ESERCIZIO

Per ottenere la carica essenziale per affrontare la

gara, si usa anche la musica con brani scelti

dall’allievo in base allo stato d’animo del

momento.

QUARTO ESERCIZIO

L’autosuggestione, attraverso la formulazione di

frasi orali, si utilizza per superare un ostacolo

psicologico o situazioni di inferiorità tecnica. Le

frasi possono essere: io sono forte, io vincerò, il

mio avversario ha paura di me, il mio rovescio

sarà veloce e lungo.

QUINTO ESERCIZIO

Immaginare delle scene negative che provocano

ansia e tensione, cercando di pensare a tutto

quello che di negativo può avvenire nell’incontro

che si andrà a disputare. La durata di questo

esercizio è di circa 10 minuti, trascorsi i quali,

verranno fatti alcuni esercizi di ripresa

(inspirazioni-espirazioni, flessioni-estensioni

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degli arti inferiori) e si andrà ad affrontare la

gara.

SESTO ESERCIZIO

Immaginare una azione conclusiva vincente della

gara, gli applausi, il podio, ecc.

SETTIMO ESERCIZIO

Avere come obiettivo quello di esprimersi al

meglio senza pensare al risultato, concentrandosi

su quello che va fatto e non su quello da non

fare.

Esempi di mental-training durante la gara

Se si prova a chiedere ad un tennista qual è stata la sua partita migliore, si

scoprirà che egli di quella partita ricorda tutto. Il campo, la temperatura,

la città, l’avversario, l’arbitro, ma soprattutto le sensazioni interne.

Sensazioni positive che da quel giorno sono scolpite nella sua memoria.

Nel momento della sua partita migliore (Peak Performance è una

prestazione superiore allo standard individuale ed è caratterizzata da forti

contenuti emozionali di gioia e di profondo appagamento), ha

sperimentato delle sensazioni interne così diverse, coinvolgenti e

particolari che hanno reso quella esperienza di gara diversa da tutte. In

quel match il tennista si trova a rendere tutte le sue azioni naturali,

piacevoli, facili, molto probabilmente durante quella competizione egli è

andato incontro ad uno stato di Flow ( lo stato di flow può essere definito

l’esperienza ottimale in cui si è così immersi in ciò che si sta facendo,

che tutto il resto sembra non avere importanza. È un esperienza

entusiasmante, caratterizzato da un equilibrio tra sfida ed abilità, unione

tra azione e coscienza, mete chiare, feedback immediato, concentrazione

sul compito, perdita dell’autoconsapevolezza, destrutturazione del tempo,

senso di controllo).

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Durante la gara possono essere utilizzati alcune esercitazioni di mental-

training nelle pause ai cambi di campo nella classica posizione del

cocchiere, per recuperare le forze psichiche, la concentrazione, la fiducia

in sè stessi, la motivazione, controllare l’ansia; oppure durante le pause

tra un punto e l’altro.

Esercizi durante la gara

PRIMO ESERCIZIO

Regolazione della respirazione con la ripetizione di profonde

inspirazioni e espirazioni, concentrando l’attenzione sulla durata

dell’inspirazione e pronunciando delle formule auto suggestionanti

mentre si espira.

SECONDO ESERCIZIO

Visualizzare nella mente delle possibili azioni di gioco come ad

esempio: seconda palla lenta dell’avversario, attacco e conquista

del punto; tiro angolato sul diritto dell’avversario per aprire il

campo e chiusura del punto sul rovescio; ecc.

TERZO ESERCIZIO

Visualizzare parti del corpo, partendo per esempio dalle caviglie,

proseguendo verso la parte alta del corpo (ginocchia, ecc.).

QUARTO ESERCIZIO

Pronunciare frasi auto suggestionanti con formule caricanti: in

questo game farò due ace; risponderò profondo e angolato;

strapperò il servizio perché sono più forte. Le formule variano in

base allo stato d’animo. Chi ha paura della sconfitta può

pronunciare per esempio: perdere mi insegnerà a vincere; mi

batterò fino all’ultimo punto e non importa se perderò. In caso di

calo di concentrazione si può ripetere la frase: sono calmo e

concentrato. Se ci si sente osservati si può dire la formula: il

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giudizio degli altri non mi interessa.

QUINTO ESERCIZIO

Ascoltare della musica a scelta con degli auricolari, in grado di

suscitare emozioni che danno grinta, voglia di vincere e

determinazione.

SESTO ESERCIZIO

Contare tre atti respiratori tra un punto e l’altro, o un atto

respiratorio ogni tre battiti cardiaci.

SETTIMO ESERCIZIO

Leggere delle istruzioni precedentemente scritte su un foglio di

carta, su strategie e tattiche da attuare, comportamenti da seguire,

ecc. Philippoussis usa mettersi dei cerotti sulle dita con scritte

come: comportati da uomo, muovi velocemente i piedi, ecc.

OTTAVO ESERCIZIO

Visualizzare prima di ogni servizio la direzione voluta; contare i

rimbalzi della pallina prima di servire.

NONO ESERCIZIO

Dopo qualche errore tecnico, visualizzare ed eseguire nuovamente

il colpo a vuoto o il movimento desiderato.

DECIMO ESERCIZIO

Durante la pausa ai cambi di campo, chiudere gli occhi e giocare il

punto nella mente visualizzandolo.

Training dopo la gara Cosa avviene quando la partita è conclusa? La scarica di adrenalina è

ormai esaurita e finalmente ci si rilassa completamente: Si ripercorre in

ogni sequenza il match e ci si giudica.

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Se l’atleta ha sconfitto senza possibilità di replica l’avversario, non è

detto che il giudizio che esprime su se stesso, sia positivo.

L’unico interrogativo che dovrebbe attraversare la mente del tennista

dovrebbe essere quello dell’aver dato il massimo in ogni momento. In

caso di risposta affermativa un senso di serenità appagherà finalmente

l’atleta che potrà trarre strumenti per un futuro miglioramento in ogni

nuovo match.

Pensiamo che a furia di chiedersi questo, il giovane tennista può

acquisire una mentalità vincente e il massimo lo si dà davvero. E se,

realmente, un atleta arriva a pensare a se stesso che, in quella determinata

occasione, ha dato il meglio di sé, allora giunge puntuale la serenità.

Serenità che saprà trarre dalla vittoria e dalla sconfitta, strumenti per

migliorare, per preparare una nuova gara e per poter scalare un altro

gradino nella sua crescita tennistica come nella vita.

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CAPITOLO 4

BURN OUT

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Introduzione

Come istruttore, allenatore, coach, abbiamo sempre un unico

denominatore: per mezzo dell’allenamento arrivare a produrre risultati

didattici apprezzabili.

Abbiamo il compito di aiutare i nostri allievi a migliorare i processi

d’apprendimento; il modo migliore per raggiungere questi risultati è di

creare delle condizioni favorevoli all’apprendimento, ovvero essere dei

facilitatori di questi processi.

Dobbiamo avere sempre ben presente l’elemento fondamentale: la

motivazione, che rimane in ogni modo e ad ogni livello alla base di

qualsiasi successo sportivo. È senza dubbio la chiave d’accesso al lavoro

di tutti i giorni, attraverso il quale l’atleta soddisfa i suoi bisogni, gli

stimoli positivi, l’interesse e il divertimento, la ricerca di affiliazione

verso l’allenatore ed i compagni di allenamento e, non ultimo, il bisogno

di affermazione e di riuscita.

A volte però proprio la motivazione, troppo spesso indotta e canalizzata

tramite una specializzazione precoce, porta ad un abbandono anticipato

da parte dei giovani atleti, fenomeno questo conosciuto con il nome di

“burn out”.

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4.1 Il burn out: definizione e sue origini

Il termine burn out, traducibile in italiano con “bruciato”, “esaurito”,

“scoppiato”, esprime con un' efficace metafora il bruciarsi di tutti quei

soggetti che generalmente ruotano attorno ad un’attività sportiva

agonistica di alto livello (atleta, allenatore, coach). Esso esprime il non

farcela più, il malumore e l’irritazione quotidiana, la prostrazione e lo

svuotamento, il senso di delusione e d’impotenza di cui è vittima l’atleta,

che, dopo un periodo di successi, non è più in grado di ripetere gli stessi

risultati pur essendo in perfetta forma fisica. Del burn out se ne parla dal

1974, mentre la sua specifica identificazione come malattia professionale

risale al 1975 per opera di Cristina Maslach; si tratta dunque di una

particolare forma di reazione al sovraccarico di lavoro ed allo stress.

Allenare è una professione che può candidare al burn out considerando

che il lavoro si svolge in un ambiente che presenta altro stressors, come

l’alta tensione per l’esecuzione delle prestazioni e della competizione,

interferenze ed indifferenze di amministratori, genitori e pubblico,

problemi disciplinari, eterogeneità dei soggetti da gestire, molteplicità dei

ruoli da svolgere.

Le prime ricerche, sugli allenatori sono state condotte (Caccese e

Mayerberg, 1984) rivolgendo l'attenzione alla potenziale relazione burn

out-sesso, mediante lo strumento d'indagine messo a punto da Maslach e

Jackson, ed hanno dato differenti risultati nei tre fattori: gli allenatori di

sesso femminile hanno raggiunto un punteggio più alto dei maschi nella

scala dell'esaurimento emotivo e più basso nella scala della realizzazione

personale. Le spiegazioni di tali risultati sono state molteplici: minore

esperienza, meno tempo a disposizione per gestire lo stress, essere troppo

idealiste ed avere un alto livello d’attesa.

Haggerty (1982), ha individuato un più alto livello di burn out negli

allenatori di sesso femminile e un sentimento di realizzazione personale

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più basso che negli allenatori di sesso maschile.

Wilson e Bird (1984) nell'individuare alti livelli di burn out in allenatori

che lavorano a tempo pieno, vivevano una stagione perdente e stavano

lunghe ore a contatto con gli atleti, hanno indicato come prevalenti le

variabili ambientali su quelle di personalità nonostante la loro

interazione.

Bird (1986) ha definito il burn out degli allenatori il “risultato cumulativo

di un processo complesso in cui la forza e la fragilità di diversi aspetti

psichici (struttura della personalità, motivazione, livelli di ansia di tratto

ed altri), sono messi in gioco con diversi fattori ambientali (ruoli,

ricompense, e responsabilità) associati con l'attività di lavoro”.

Capel, Sisley e Desertrain (1987) hanno indicato l'ambiguità nel ruolo e il

conflitto di ruolo come predittivi della depersonalizzazione negli

allenatori delle squadre di basket di studenti liceali. È stata anche studiata

la variabile demografica relativa al numero di anni nel ruolo di allenatore

principale, come indicativo del livello di realizzazione personale.

Dale & Weinberg (1989) hanno condotto una ricerca su allenatori di

squadre di studenti di scuole superiori e di università per valutare la

variabile dello stile di leadership.

Essi hanno indicato che gli allenatori dallo stile di conduzione

amichevole e sensibilmente orientato verso gli atleti hanno raggiunto un

punteggio significativamente più alto nelle dimensioni d’intensità e di

frequenza alle scale della depersonalizzazione e d’esaurimento emotivo

che gli allenatori principianti, il cui comportamento tende ad essere

orientato verso la meta e il cui stile autoritario non permette che essi

stabiliscano legami personali con i loro atleti. In questa ricerca anche le

variabili demografiche dell'età e del sesso hanno dato risultati più alti per

gli allenatori maschi e di maggiore età rispetto alle più giovani, alla scala

della depersonalizzazione, in contrasto con i risultati della ricerca di

Caccese e Mayerberg (1984) e di Haggerty (1982) e della ricerca di

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Wilson e All. (1986) che annulla ogni differenza di livello di burn out nei

due sessi.

Un altro problema metodologico è costituito dal periodo della stagione

sportiva in cui è condotta la ricerca: alcune sono condotte all'inizio della

stagione, altre a metà, altre alla fine, altre ancora fuori stagione, poiché il

tempo della somministrazione delle scale del burn out può influenzare

significativamente il risultato. Anche per quanto riguarda l'età è possibile

che se l'allenatore non soffre il burn out rimane nella sua attività

professionale, mentre i giovani, che già né accusano i sintomi,

abbandonano l'attività non potendo gestire lo stress.

Le ricerche dj Capel (1986), Fender (1989), Maslach (1982) inducono ad

una ricerca dedotta da una definizione operativa di burn out che

coinvolga sintomi, reazioni, stress, ambiente e l'interazione di tutti questi,

fattori, in relazione alla duplice radice causale del fenomeno stesso: la

struttura di personalità dell’individuo, la sua capacità di gestire lo stress,

il conflitto di ruolo, il sesso, il locus of control, l’età e l’ambiente, cioè le

condizioni di lavoro, la tensione dovuta al tempo o ad alti livelli di

aspettativa. Shank (1983) ha indicato alcuni comportamenti come

suscettibili di burn out: essere perfezionista, mancanza di capacità

assertive, essere insoddisfatti, eccessivamente motivati o troppo dediti.

Tali caratteristiche sono rilevanti nelle ricerche condotte in genere sui

protagonisti dello sport, sia allenatori che atleti ed assistenti. Così è stato

rilevato un più alto livello di burn out negli atleti di sport individuali che

in quelli sport di squadra (Smith, 1986).

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4.2 Come riconoscerlo: sintomi e cause

Come già ricordato al paragrafo 4.1 il termine burn out, traducibile con

“bruciato, esaurito, scoppiato”, esprime il cedimento psico-fisico e

l’esaurimento delle risorse del lavoratore nel tentativo di adattarsi alle

difficoltà del confronto quotidiano con la propria attività lavorativa.

Questa sindrome interessa principalmente i lavoratori delle “professioni

d’aiuto” e si manifesta, con sintomi fisici e psichici, attraverso tre

caratteristiche principali:

1. l’esaurimento emotivo, che consiste nella sensazione di essere in

continua tensione, emotivamente inariditi nel rapporto con gli altri;

2. la depersonalizzazione, che consiste nella presa di distanza, e determina

atteggiamenti e comportamenti negativi e sgarbati nei confronti delle

persone che richiedono o che rivedono la prestazione professionale, il

servizio o la cura;

3. la ridotta realizzazione personale, che si manifesta con la sensazione

che, nel lavoro a contatto con gli altri, la propria competenza ed il proprio

desiderio di successo stiano venendo meno.

Il soggetto colpito da burn out manifesta sintomi aspecifici

(irrequietezza, senso di stanchezza ed esaurimento, apatia, nervosismo,

insonnia), sintomi somatici con insorgenza di vere e proprie patologie

(ulcere, cefalee, aumento o diminuzione ponderale, disturbi

cardiovascolari, difficoltà sessuali ecc.), sintomi psicologici (depressione,

bassa stima di sé, senso di colpa, sensazione di fallimento, rabbia,

risentimento, irritabilità, aggressività, alta resistenza ad andare al lavoro

ogni giorno, indifferenza, negativismo, isolamento, sensazione di

immobilismo, sospetto e paranoia, rigidità di pensiero e resistenza al

cambiamento, difficoltà nelle relazioni con gli utenti, cinismo,

atteggiamento colpevolizzante nei confronti degli utenti e critico nei

confronti dei colleghi). Tale situazione di disagio molto spesso induce il

soggetto ad abuso d’alcool, di psicofarmaci o fumo.

Dal punto di vista clinico e psicopatologico la sindrome del burn out va

differenziata dalla già nota sindrome da disadattamento: sociale,

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lavorativo, familiare, relazionale. La sua originalità è rappresentata dal

fatto che essa si verifica all’interno del mondo emozionale della persona

ed è spesso scatenata da una vicenda esterna. La sindrome del burn out

potrebbe essere paragonata ad una sorta di virus dell’anima, perché

sottile, invisibile, penetrante, continua, ingravescente. Se non si

interviene determina l’exitus volitivo ed energetico, non solo lavorativo,

della persona.

Si può inoltre affermare che la sindrome del burn out si sviluppa

attraverso diverse fasi che riguardano:

1. fase dello stress lavorativo, nella quale vi è un accresciuto impegno

verso gli obiettivi lavorativi;

2. fase dell’esaurimento, nella quale si assiste ad una riduzione

dell’impegno lavorativo ed a, varie reazioni emotive negative,

psicosomatiche e disperazione;

3. fase della conclusione difensiva, caratterizzata dal distacco emotivo e

dal cinismo nei confronti del lavoro.

Le cause del burn out vanno ricercate nell’interazione fra le

caratteristiche del singolo soggetto e la specificità dell’ambiente;

quest’interazione determina una condizione di perfetto adattamento o ad

una condizione di disadattamento o sindrome del burn out appunto.

Si può pertanto dire che lo stress ed il burn out sono scatenati

dall’interazione tra:

1. la personalità del soggetto, le sue motivazioni ed i suoi interessi. Il burn

out può colpire chiunque. Sono più esposte le persone molto meticolose,

quelle che hanno sempre bisogno d’approvazione i soggetti empatici,

umanitari, disponibili, impegnati, idealisti, ma anche soggetti ansiosi,

introversi, ossessivi, molto entusiasti, suscettibili e molti altri.

2. La struttura dell’organizzazione e della scala gerarchica. Diversi fattori

ambientali possono favorire l’insorgenza del burn out; si tratta di quei

fattori organizzativi che sono difficilmente modificabili dal singolo

individuo e possono essere modificati solo attraverso specifici interventi

e strategie organizzative; quelli comunemente riconosciuto sono:

sovraccarico di lavoro, mancanza di controllo, ricompense insufficienti,

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mancanza di equità, crollo del senso di appartenenza ad una comunità,

conflitto di valori.

3. Il tipo d’attività che è svolto (stress addizionale). Alcune categorie

professionali sono più a rischio di altre perché il contatto con l’utenza è

più carico d’emotività e la relazione è più difficile da gestire; ad altre

categorie cui appartengono, ad esempio, gli operatori della salute

mentale, delle tossicodipendenze, dell’emergenza urgenza, di terapia

intensiva, d’assistenza alle patologie croniche ed invalidanti

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4.3 Un malessere che non ha età

Per l’insorgenza del burn out possono avere importanza fattori socio-

organizzativi quali le attese connesse al ruolo, le relazioni interpersonali,

le caratteristiche dell’ambiente di lavoro, l’organizzazione stessa del

lavoro; sono state studiate le relazioni tra variabili anagrafiche quali

sesso, età, stato civile ma tra queste l’età è quella che ha dato luogo a

maggiori discussioni tra i diversi autori che si sono occupati

dell’argomento. Alcuni sostengono che l’età avanzata costituisca uno dei

principali fattori di rischio di burn out mentre altri ritengono che i

sintomi di burn out siano più frequenti nei giovani, le cui aspettative sono

deluse e stroncate dalla rigidezza delle organizzazioni lavorative.

Nella revisione critica delle ricerche sul burn out nello sport agonistico,

sono indicate le ricerche su bambini che lasciano le attività atletiche sia

per fattori personali che situazionali, come variabili discriminanti nella

continuazione o abbandono (clima del gruppo, atteggiamenti verso la

competizione, fattori di socializzazione, localizzazione dell' attribuzione,

ruolo di leader dell’allenatore) anche se la motivazione più comune

all'interruzione della partecipazione agli sports è: altre cose da fare,

hobbies, lavoro ed altri impedimenti. Smith (1986) osserva che i motivi

per cui gli atleti abbandonano lo sport possono essere molteplici, ma il

burn out può essere considerato un elemento determinante.

Il burn out nel vissuto dei giovani atleti è reso ancor più drammatico

dalla loro fragilità. Fra i diversi manuali che ho consultato per la

realizzazione di questo breve manoscritto , un caso in particolare mi ha

colpito: la storia del piccolo Matteo.

Matteo è un bambino di 10 anni, ha buone capacità coordinative e ha una

grande passione per lo sport del tennis, o forse è meglio dire aveva.

Ha iniziato a 6 anni a frequentare dei corsi di tennis presso il circolo

tennistico più importante della sua città; proseguendo nella crescita il

bambino dimostrava anche buona attitudine allo sport del tennis fino a

portarlo già a 8 anni a partecipare a gare di tennis contro suoi coetanei

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Con l’accrescere dell’età crescevano anche i tornei e arrivati ai 10 anni

l’allenatore di Matteo gli dice che visti i buoni risultati, passerà ad

allenarsi con i ragazzi under 12, quindi un pochino più grandi di Matteo.

Questa notizia è un’esplosione di carica e di motivazione grandissima per

Matteo che si sente importante agli occhi del suo allenatore e dei

compagni.

Passano le settimane ma il passaggio al gruppo promesso tarda ad

arrivare, Matteo ogni settimana chiede al suo allenatore quando inizierà

con il nuovo gruppo, l’allenatore continua a tergiversare dicendogli che

sta organizzando “il passaggio” e di avere pazienza. Le settimane

passano ma il passaggio di gruppo no; dopo mesi d’altalenanti promesse,

l’allenatore dice a Matteo che è meglio che resti nel gruppo dove si trova

adesso, perché forse è ancora presto per un gruppo più avanzato.

Per Matteo questa notizia ha un effetto devastante; si sente tradito e preso

in giro dal suo allenatore che era “il modello assoluto”, una guida

visualizzata non solo nello sport.

Una settimana dopo la comunicazione dell’allenatore, Matteo abbandona

il tennis: le insistenze dei genitori, dell’allenatore, dei compagni, non

servono a nulla, non vuole più vedere la racchetta e non vuole più andare

su un campo da tennis; l’effetto delusione non si ferma e anche a scuola

Matteo (che era sempre tra i più bravi della sua classe) non riesce più a

stare attento, non studia ed è molto triste.

Dopo vari mesi di lavoro dei genitori con l’aiuto di uno psicologo, si è

riusciti a fare accettare la situazione a Matteo ma non tutto è tornato

come prima.

Ho conosciuto Matteo e ora del tennis non ne vuole proprio sapere, è un

ragazzo molto insicuro quando sente nominare la parola “tennis” anche

se mi piacerebbe poterlo riportare a giocare e a divertirsi, ma l’impresa è

molto difficile, dipenderà molto da lui.

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Il gioco infatti serve ad incuriosire il bambino, ovvero offrire la

possibilità di soddisfare il bisogno di movimento, di immaginazione, di

creatività, di affermazione e socialità.

A tal proposito, la psicologia dello sport, ha svolto ricerche sulla natura

psicodinamica, cognitiva e sociale del gioco, in questo campo deve

essere ricercata la molla del piacere del gioco stesso.

L’agonismo è la “manifestazione matura, costruttiva, e creativa

dell’aggressività “.

A livello agonistico i soggetti mettono in campo una grossa fetta

d’aggressività, è importante che l’agonismo rimanga entro canoni

socializzanti di sublimazione degli istinti aggressivi, rispettando le regole

della ritualizzazione sportiva.

Dobbiamo in ogni caso riconoscere che gioco e agonismo riveste un

passaggio fondamentale nello sviluppo del bambino, anche se in

prospettiva dinamica abbiamo variazioni legate a seconda dell’età del

sesso, della personalità, della situazione, ecc.

L’agonismo sorge dopo, rispetto alla funzione ludica e molto spesso

influenzato da modelli sociali esterni che per bisogni istintuali.

Dobbiamo rilevare con forza che mentre nel gioco troviamo un azione

dell’organizzazione dell’io nel discorso agonistico si deve predisporre un

io già organizzato.

In molti testi vari autori, scrivono che non si dovrebbe praticare un

attività agonistica nella fascia d’ età dai nove ai tredici anni se non con

funzioni ludiche generali, nella realtà la tendenza esattamente il

contrario; una preconizzazione che a dodici anni porta a giocare in un

anno un numero di incontri pari a quelli di un professionista, il rischio è

di danneggiare l’equilibrio psico-fisico del ragazzo, utilizzando un modo

errato per prepararlo all’agonismo.

Dobbiamo ricordare che il periodo della pre-adolescenza è caratterizzato

da instabilità psicologica, quindi sarà molto svantaggioso sottoporre

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l’allievo a situazioni di stress competitivo non sufficientemente bilanciate

da un io forte che consenta un’elaborazione sportiva di una sconfitta o di

una vittoria.

Le statistiche in merito all’abbandono sportivo, registrano in questa

fascia d’età le punte più alte.

A questo punto il ruolo pedagogico dell’istruttore è di fondamentale

importanza, per evitare l’insorgere di reazioni negative nei confronti

dell’allievo, cercando di non esporlo ad una serie d’insuccessi che

portano inevitabilmente ad una compromissione dell’attività

motivazionale.

Nell’allenamento di tutti i giorni, l’istruttore deve evitare accuratamente

la noia e la monotonia, cambiando e modificando gli scenari delle

esperienze didattiche, per renderle più motivanti e stimolanti.

Un esempio di quanto appena citato potrebbe essere un esperimento fatto

su di un gruppo d’operai: apportando delle semplici modifiche al luogo

di lavoro; (furono infatti, dipinte le pareti con colori diversi e fu

cambiato il sistema illuminante), il risultato fu una migliore produzione,

una maggior voglia di recarsi al lavoro, ma la cosa più interessante fu che

agli operai sembrò che finalmente qualcuno si occupasse di loro.

A livello psicologico, il periodo adolescenziale è quello della massima

spinta ad appartenere ad un gruppo, le motivazioni possono essere

ricercate in: assicurazione, accettazione, essere stimato, questo serve al

ragazzo per bilanciare in sicurezze personali atteggiamenti d’impegno,

abnegazione, cooperazione.

Una volta inserito in un gruppo il giovane tende ad assimilare lo schema

ideologico (norme, mete, valori) del proprio gruppo di riferimento,

divenendone parte attiva.

Nel periodo dai dieci ai quattordici anni l’appartenenza ad un gruppo

rappresenta una delle motivazioni allo sport più importanti, sia nello

sport di squadra che in quello singolo; gli allenamenti sono auto

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motivanti e vengono realizzati più facilmente se svolti con la complicità

del gruppo.

Lo sport può servire come meccanismo di difesa nel nascondere o

superare sentimenti di inferiorità (a livello fisico o psichico),

nell’espressione di desideri infantili di tipo affermativo di aggressività

latente, desiderio di potenza dovuta ad un carico di frustrazioni non

elaborate.

Questi tipi di sconpensi della personalità vanno osservati con attenzione e

superati con opportuni orientamenti. (si trovano piuttosto frequentemente

in soggetti in età evolutiva).

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4.4 Conclusioni ed osservazioni

Ricollegandoci al sopra citato caso di “Matteo” possiamo dire che si

tratta di un tipico esempio di burn out che si presenta con una

depersonalizzazione che arriva fino ad atteggiamenti ostili nei confronti

delle persone del proprio ambiente (allenatore, prep. fisico ecc.).

Importante da considerare in questa fase di crescita dei ragazzi

l’attenzione ed i bisogni di soddisfazione, di gratificazione,

riconoscimento, sentirsi importanti e approvazione del gruppo.

Altrettanto importante ma da evitare è la paura del fallimento, oppure i

cattivi rapporti nei confronti dell’allenatore, dei compagni, pressione

psicologica elevata noia e frustrazione .

Questo tipo di disagio che frequentemente si trova negli atleti adolescenti

in evoluzione fisica e tecnica soprattutto dopo un periodo lungo

d’allenamenti e gare, può indurre all’abbandono precoce per diversi

motivi come:

- Crisi adolescenziali ( il rapido cambiamento dei parametri fisici, e il

mancato riconoscimento del proprio corpo, sono la conseguenza di una

modifica anche nelle prestazioni e relazioni)

- Difficoltà scolastiche ( il binomio scuola-sport è un impegno che molti

adolescenti non riescono a sopportare adeguatamente)

- Bisogno d’esperienze ( diverse e nuove nella costruzione del proprio io).

- L’ansia e lo stress ( in fase agonistica e pre-agonistica come capacità di

gestire le emozioni)

- Rapporto con il coach ( probabilmente una delle cause più importanti il

ragazzo, infatti, spesso vede valenze genitoriali ottimali con il proprio

maestro e altrettanto spesso si sente “tradito”, non capito, sente

fortemente una mancanza di possibilità di crescita e di autonomia).

Molto spesso ci troviamo di fronte al bimbo atleta di soli nove anni di

fronte al quale mi sento solo di pensare che in questi casi l’impegno

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dell’istruttore deve essere ricondotto a fargli il piacere del gioco del

tennis.

Partendo dal gioco si arriverà ad elaborare un percorso di formazione

riguardante l’organizzazione del proprio io; a quel punto possiamo

inserire la parte concernente l’agonismo.

Se nel bambino si sfrutteranno le giuste motivazioni avremo atleti che

faranno un’ attivista agonistica nata per il gusto di farla, per migliorare e

progredire le proprie capacita, o per sfruttarle al meglio.

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CONCLUSIONI

Realizzando questo project ci siamo posti come primo obiettivo di

scrivere una guida che mettesse in evidenza le più importanti abilità

psicologiche del giovane tennista .

In fase di ricerca abbiamo raccolto alcuni dati interessanti rilevati da

interviste cui abbiamo sottoposto rispettivamente maestri e tennisti adulti

professionisti.

Intervistati sull’importanza e sull’uso della preparazione mentale nel

tennis agonistico hanno risposto unanimemente che il mental training è

un aspetto fondamentale per raggiungere alti livelli di qualificazione, ma

che la maggioranza non utilizza queste tecniche, pur essendoci grande

interesse sull’argomento ma scarsa informazione e formazione specifica.

Successivamente attraverso indagini bibliografiche, articoli su riviste

specializzate, interviste a giocatori professionisti, questionari

somministrati a giocatori under agonisti e esperienza personale pensiamo

di aver individuato le principali abilità psicologiche da sviluppare

accanto alla normale preparazione tennistica.

Soprattutto interviste e questionari sulle abilità psicologiche hanno

fornito risposte concrete che evidenziano alcune qualità psicologiche di

spicco rispetto ad altre, con alcune differenze tra giocatori adulti e under,

così come riguardo al sesso.

Sicuramente il primo dato che risulta evidente è quantità e qualità di

attenzione e concentrazione, apparse palesi negli adulti ma da allenare

negli atleti under.

Qualità fondamentali dei giocatori professionisti sono autostima,

determinazione e aggressività, doti che nei ragazzi under sono ancora in

via di sviluppo pur sembrando a tutti abilità psicologiche senza le quali

non si possono raggiungere alti livelli di prestazione.

Siamo del parere che non deve meravigliare la differenza che emerge

sugli aspetti motivazionali e di gestione delle emozioni tra giocatori

professionisti e under.

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Riteniamo infatti che mentre i giovani sentono vivo l’interesse, il

desiderio e la volontà di sviluppare le proprie abilità, di avere successo,

di realizzare un sogno, i giocatori professionisti considerano spontanea la

motivazione a dare il massimo nel proprio lavoro orientando il concetto

di motivazione verso quello di determinazione e spirito di sacrificio.

Le tecniche di Mental Training della visualizzazione (e relative capacità

immaginative) e della respirazione risultano abilità psicologiche

indispensabili per i giocatori professionisti, quindi da allenare

accuratamente nei giovani.

Per quanto riguarda il controllo emozionale, che comprende anche

gestione dell’ansia e dello stress, mentre gli under hanno positività e

linguaggio interno ancora da formare, i giocatori di alto livello non la

considerano fra le abilità psicologiche principali forse perché hanno già

sviluppato ed acquisito questa abilità.

Gli atleti under sono atleti giovani o molto giovani caratterizzati da

autostima, fiducia in sé e percezione di auto-efficacia ancora troppo

dipendenti dallo scarso controllo emozionale pur dimostrando grandi

doti negli aspetti motivazionali.

Per concludere pensiamo che una programmazione di alta

specializzazione tecnica debba essere affiancata dal lavoro di uno

psicologo dello sport che dia continuità ed equilibrio alla crescita

personale degli allievi affinché sviluppino una “mentalità vincente”,

somma di tutte le abilità psicologiche trattate, che li aiuti da un lato a

raggiungere e mantenere un alto livello di prestazione, dall’altro a

crescere prima come uomini e poi come atleti nel rispetto di sé e degli

altri.

Cogliamo l’occasione per ringraziare per il loro aiuto i Tecnici Federali

Giampaolo Coppo e Renato Vavassori, i Tecnici Federali Giancarlo

Palumbo e Renzo Furlan del Centro F.I.T. di Tirrenia per la loro

collaborazione e tutti i coaches, maestri e giocatori che ci hanno fornito

o si sono sottoposti a interviste e questionari.

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