Programmare la Qualità Educativa

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Angelo R. Pennella, Programmare la qualità educativa - 1 - PROGRAMMARE LA QUALITA’ EDUCATIVA Seminario di Aggiornamento per Insegnanti di Scuola dell'Infanzia Dispense a cura del Prof. Angelo Pennella

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La Qualità nella scuola non può essere considerata solo un caso particolare dell'applicazione di principi, metodi e strumenti elaborati in altri contesti produttivi, ma ...

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PROGRAMMARE LA QUALITA’ EDUCATIVA

Seminario di Aggiornamento per Insegnanti di Scuola dell'Infanzia

Dispense a cura del Prof. Angelo Pennella

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La Qualità nella Scuola non può essere considerata solo un caso particolare dell’applicazione di principi, metodi e strumenti elaborati in altri contesti produttivi, ma deve essere piuttosto considerata come una questione centrale per lo sviluppo economico e sociale del Paese.

Questo per almeno due motivi:

• il primo è riconducibile al fatto che oggi operiamo in una economia di rete, in cui il

successo di una organizzazione (si veda scheda di approfondimento n° 1) è direttamente

connesso non solo ai livelli di cooperazione che si realizzano all’interno dell’organizzazione

stessa ma anche alla capacità di correlarsi con il tessuto sociale ed economico in cui ci si

trova ad operare.

• Il secondo motivo è da ricondurre al fatto che la scuola è un sistema essenziale per

la società ma è anche particolarmente complesso e vulnerabile. Questo ci deve

spingere a riflettere sugli equilibri esistenti tra risorse tecniche e risorse umane, tra vincoli

ed opportunità offerte dalle attuali normative e capacità di ogni singola istituzione

scolastica di confrontarsi con esse.

Questioni in precedenza complementari rispetto alla buona organizzazione della produzione

si propongono come fattori decisivi per il successo: il rapporto con i fornitori, l’accesso al

credito, la disponibilità di servizi di rete e all’impresa, il sistema di opportunità e vincoli

definito dalle normative, il livello della ricerca tecnologica, la qualità delle risorse umane.

Il compito di ripensare la scuola nella prospettiva della Qualità (vedi scheda di

approfondimento 2) è certamente difficile, perché questa organizzazione non si è sviluppata

tanto come un servizio rivolto alla persona, quanto piuttosto come uno strumento di

integrazione nel sistema sociale, strumento governato e gestito in funzione di regole definite

dallo stato nazionale.

In questa prospettiva è la scuola a stabilire:

• i contenuti dell’insegnamento;

• gli standard di apprendimento;

• i criteri di valutazione degli allievi;

• la ‘certificazione’ di conformità degli allievi.

L'utilizzatore del servizio scolastico non è considerato come un cliente, ma come una materia

prima da plasmare.

Questo pone, tra l’altro, il problema di riflettere sulla definizione dei ruoli esistenti nell’ambito

dell’organizzazione scolastica:

• chi sono gli utenti del servizio? Chi sono i committenti? A chi risponde l’organizzazione?

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Si potrebbe comunque pensare che il fatto di considerare la scuola come una organizzazione

al servizio non della persona ma della collettività può risultare utile allo sviluppo sociale ed

economico del Paese.

Ma anche in questa prospettiva, la questione non cambia: la necessità è infatti sempre quella

di mantenersi in contatto con i propri interlocutori. L’aggiornamento dei contenuti offerti, ad

esempio, può essere fatta in funzione delle richieste dei ragazzi o dei genitori così come del

mondo culturale e produttivo: la questione è quella di evitare la

• autoreferenzialità

e di riorganizzare il sistema scolastico per recuperare efficacia ed efficienza, ma anche, a mio

avviso, per innalzare i livelli di congruenza tra le attività svolte e la mission istituzionale.

A questo proposito può essere interessante ricordare che Deming, a proposito delle

organizzazioni formative - scolastiche in particolare - riconosce che l’esistenza di una forte

spinta verso la competizione individuale (riferimento a standard di apprendimento predefiniti,

forte meritocrazia, ecc.) può indurre dei preoccupanti fenomeni di sotto-ottimizzazione, con

la conseguente emarginazione di gran parte della risorsa umana disponibile in un Paese,

attraverso un processo di selezione e di dispersione drammaticamente costoso.

Questa dispersione di risorse è in gran parte frutto di un atteggiamento che non è attento

alle esigenze ed ai bisogni, non facili da identificare, del destinatario, del cliente del servizio.

Quando si tenta di fare Qualità nella Scuola ci si incontra quindi con un’istituzione scolastica

in cui il cliente (possiamo parlare in modo forse più corretto di committente) è più facilmente

identificabile nello Stato che non in colui che fruisce del servizio (parleremo, in questo caso

di utente).

Lo Stato è per convenzione l’entità che recepisce una committenza sociale più o meno

definita e più o meno condivisa e che interpreta quindi quelli che sono i bisogni del Paese,

del contesto sociale e produttivo e li traduce in una serie di prescrizioni. Esso da un lato

definisce quali sono i contenuti che la scuola deve insegnare, dall'altro definisce quali sono i

livelli ai quali è considerato accettabile l’apprendimento da parte dell’utilizzatore della scuola,

da parte degli studenti (si pensi, in questo senso, al Servizio Nazionale per la Qualità

dell’Istruzione e all’Archivio Docimologico).

Da queste brevi osservazioni si può dedurre che chi opera seriamente all’interno della scuola

si pone due obiettivi:

• insegnare tecnicamente bene;

• valutare in modo equo i livelli di apprendimento raggiunti.

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Se si riflette tuttavia su questi obiettivi, su cui - per altri versi - potremmo certamente

concordare, ci si rende conto che l’atteggiamento che essi traducono è molto simile, come ha

osservato Vairetti, a quello che potrebbe avere un ingegnere. L’attenzione viene infatti

rivolta al compito che l’insegnante si propone di svolgere e alla correttezza (tecnica e

morale) dei criteri di valutazione utilizzati.

Quello che si rischia di perdere è la relazione, la partecipazione al processo educativo

dell’utente. Non si considera cioè che l’insegnamento è innanzitutto un fatto di

comunicazione, come ha dichiarato Titone, e che si tratta sempre e comunque di una

processo circolare.

Anche nella scuola troviamo situazioni di questo tipo, con l’insegnante tradizionale,

concentrato solo sulla buona trasmissione della propria disciplina. Una buona scuola

tradizionale funziona così. Ma perché si parla di scuola tradizionale? Perché questo è stato il

modello dominante, mai messo in discussione almeno fino alla riforma del 1974 con

l’introduzione degli organi collegiali nella scuola, di una Scuola dove c’era il Capo di Istituto

con potere di coordinamento, e gli insegnanti, ciascuno dedicato in quasi totale autonomia (e

sostanziale isolamento) al proprio campo specifico disciplinare. Si trattava di un’applicazione

particolarmente riuscita della divisione tayloristica del lavoro

Ciò che si è affermato dai decreti delegati in poi, anche sulla spinta del tentativo di dare una

risposta istituzionale alla contestazione studentesca, è stato lo sviluppo nella scuola di una

tendenza ad aprire le porte dell’organizzazione alle istanze sociali. L’occasione era tutt’altro

che irrilevante: si offriva infatti alla scuola la possibilità di dialogare con l’utenza e di

verificare le eventuali discrepanze esistenti tra i bisogni ed i desideri dell’utenza e quelli per

cui si riceveva la delega della committenza. Di fatto questa opportunità è stata perduta e la

scuola non ha posto in discussione le modalità di erogazione del proprio servizio ai cittadini.

Come è stato osservato da Piero Romei (“La Qualità nella Scuola”), le innovazioni dei decreti

delegati, in qualche modo imposte per legge ai singoli istituti, sono state depauperate dalla

cultura organizzativa della scuola che si fonda su una serie di elementi (si veda scheda di

approfondimento n° 2), tra cui ricordiamo:

• il forte individualismo del personale;

• l’assenza di effettivi controlli esterni;

• l’attenzione al cerimoniale.

Questa è la situazione che prevalentemente incontriamo oggi, per cui l’obiettivo del fare

bene scuola si traduce nel fissare obiettivi coerenti e di valutare la coerenza tra

apprendimento ed obiettivi. Non abbiamo più una assunzione sostanzialmente passiva delle

indicazioni dei programmi e della normativa nazionale all’interno della singola unità

scolastica, ma abbiamo una attenta elaborazione degli obiettivi, compito esclusivo degli

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operatori professionali della scuola, i docenti, e con la verifica della rispondenza

dell’utilizzatore del servizio ai livelli ed ai requisiti che questi obiettivi fissano.

Se l’esperienza ci deve essere da guida, possiamo quindi a buon titolo chiederci come

potrebbe essere integrata (fagocitata?) la Qualità nella cultura organizzativa della scuola.

Dobbiamo porci, in altri termini, il problema di come sia possibile promuovere un

cambiamento nella scuola che non sia puramente formale come è stato quello - almeno per

molte realtà scolastiche - dei Decreti Delegati: ecco quindi emergere il tema delle teorie e

delle tecniche del cambiamento. In questo senso possiamo parlare di un:

• cambiamento trasformativo

• cambiamento esplorativo,

ma anche di quelle tecniche che, ampiamente utilizzate in altri ambiti organizzativi, possono

agevolare la promozione del cambiamento, faccio riferimento al brainstorming e al problem

solvine (si veda la scheda di approfondimento n° 3).

Nel momento in cui si affronta il tema della Qualità nella scuola si ha quindi a che fare con

un tema difficile, molto più difficile di quanto non sia produrre la condivisione di obiettivi

quali l’efficacia o l’efficienza, più difficile che far condividere la necessità del controllo. Si

tratta cioè di arrivare a capire la scuola come servizio. L’obiettivo diventa progettare il

servizio a partire dalla verifica dei bisogni e da una attenta rilevazione della domanda.

Il vantaggio della scuola rispetto ad altre organizzazioni di servizio (si pensi alla sanità o alle

ferrovie) è forse identificabile nel fatto che l’utente si trova ad interagire per un lungo

periodo di tempo e per molte ore ogni giorno con la struttura di servizio e propone ad essa

una domanda molto complessa ed articolata.

Si è infatti sempre più consapevoli sia della articolazione dei bisogni che l’utenza rivolge alla

scuola sia della necessità di prendere in considerazione non solo il cosiddetto core service

proposto dalla struttura scolastica ma anche il pacchetto di servizi che essa può affiancare al

servizio principale.

Per la scuola questa costituisce una grande sfida, che rivela facilmente la non funzionalità

del tentativo di rispondere al bisogno complessivo dell’individuo attraverso un modello

astratto: l’esperienza dell’inadeguatezza e dell’inefficacia è quotidiana, almeno per gli

operatori più avveduti. In molti casi, di fronte a questo disagio non si sa cosa fare, ma

almeno la ricerca di strategie adattive è continua. Un insegnante che sa fare il proprio

mestiere ha immediatamente la consapevolezza che la semplice trasposizione di un modello

rigido non produce risultati adeguati proprio per le differenze individuali degli utenti del

servizio scolastico.

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Questa consapevolezza porta a capire che la tecnologia tipica del fare scuola, come per

qualunque altra azienda di servizi, deve essere pensata essa stessa come un servizio: cioè la

capacità di programmare il processo di erogazione del servizio scolastico (la competenza

professionale) non può essere fine a sé stessa, non può essere una scelta a priori, frutto di

un’opzione istituzionale o pedagogica, o ideologica. Il possesso di requisiti, di competenze e

professionalità, di tecniche operative, deve essere posto al servizio delle persone.

Una strategia adeguata per la qualità della scuola richiede un percorso che parta dall’ascolto

e dall’analisi dei bisogni per elaborare una proposta educativa e formativa. Anche la scuola,

come ogni azienda, deve partire da una ricerca di mercato.

In questo senso è necessario che il servizio scolastico si organizzi in funzione dei bisogni

dell’utenza e sia in grado di programmare e realizzare un percorso che consenta la

produzione di un apprendimento, di uno sviluppo professionale, di una crescita per le

persone.

Certamente questo si declina in modi diversi in funzione della fascia di età degli utenti (se

consideriamo gli allievi) e del loro rapporto con le famiglie ed il contesto sociale e lavorativo

in cui sono inseriti.

La programmazione del servizio mette in sequenza una serie di attività e operazioni,

arrivando a costruire un processo complesso e articolato, ad identificare le responsabilità che

ciascuno degli attori (insegnante, coordinatore/dirigente scolastico, genitore, studente...) ha

nelle diverse parti di questo processo, a definire quali metodi e quali mezzi permettono la

realizzazione delle singole operazioni.

Fare qualità nella scuola significa dunque anzitutto ricostruire il processo di progettazione,

organizzazione, produzione e erogazione del servizio: si tratta di modificare la cultura

organizzativa.

Ma questo implica, tra l’altro, affrontare il tema della leadership delle singole istituzioni

scolastiche perché è possibile promuovere la qualità solo quando la direzione di una

organizzazione è in prima persona coinvolta nel processo di cambiamento. Lo stile nella

gestione del personale si affianca, d’altro canto, a quello di un cambiamento nelle modalità

di lavoro. Sebbene la scuola sia una organizzazione in cui si tende spesso ad utilizzare il

gruppo come contesto del cambiamento, il personale della scuola è forse tra quelli meno

preparato ad affrontare il tema del gruppo di lavoro.

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SCHEDA 1

Il termine organizzazione può essere facilmente associato a parole come ordine,

efficienza, gerarchia, obiettivi, struttura, divisione del lavoro, ruoli, coordinamento. Queste

parole tendono a farci considerare il fare organizzazione come un mezzo per ottenere un

buon risultato proprio grazie ad una organizzazione delle caratteristiche suddette.

Probabilmente, in ambito aziendale, il termine “organizzazione” viene utilizzato per definire le

funzioni presenti nella società ed il loro rapporto con il compito ed il ruolo.

Il termine organizzazione può essere però utilizzato anche per indicare alcuni sistemi

complessi come gli ospedali, la scuola, gli enti pubblici, ecc.: in questo caso si parla spesso

di organizzazione complessa o di organizzazione formale. In questa accezione una

organizzazione formale può essere considerata come un “gruppo organizzato con obiettivi,

regole e regolamenti formalmente fissati e con un sistema di ruoli specificamente definiti,

con diritti e doveri chiaramente stabiliti” (Theodorson, 1975).

Essa si distingue dal gruppo formale in quanto, a differenza di quest’ultimo, possiede non

solo dimensioni ma anche livelli di formalizzazione maggiori. Rientrano nella categoria delle

organizzazioni formali le scuole, gli ospedali, le associazioni volontarie, gli enti governativi, le

società private, ecc.

Pur nella loro diversità, possiamo rilevare in tutte queste prospettive una serie di elementi

comuni che ci consentono di affermare che l’organizzazione e:

• un sistema complesso di persone

• associate per il conseguimento di uno scopo unitario

• fra cui si dividono le attività da svolgere

• secondo certe norme

• stabilendo a tal fine dei ruoli

• collegati fra loro in modo gerarchico

• in rapporto dinamico con l’ambiente esterno.

Sebbene possa sembrare una notevole semplificazione della realtà, si può comunque

affermare che un insieme di persone costituiscono una organizzazione quando sono in grado

di:

• assicurare una serie di processi comunicativi a livello intersoggettivo e

istituzionale;

•••• mostrare una disponibilità a fornire il proprio contributo in funzione di un fine comune.

Una organizzazione si caratterizza quindi dalla presenza di tre elementi:

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1. la comunicazione;

2. la disponibilità dei suoi membri a contribuire alle attività svolte

dall’organizzazione in rapporto ai propri obiettivi;

3. un fine comune.

Mentre i primi due elementi possono essere considerati come delle condizioni necessarie e

sufficienti per la costituzione di una organizzazione, il fatto di avere un fine comune viene

dato solitamente per scontato, sebbene, come avremo modo di osservare più avanti, questo

implica spesso l’impossibilità di analizzare le discrepanze che i singoli soggetti o i sottogruppi

che costituiscono l’organizzazione possono avere rispetto ad esso.

Affinché una organizzazione possa avere una esistenza prolungata nel tempo, essa deve far

si che la propria attività si caratterizzi come un valido mix tra efficacia ed efficienza (1).

Nella nostra prospettiva, la vitalità di un’organizzazione è strettamente legata alla

disponibilità dei suoi membri a contribuire al conseguimento del fine comune. Tale

disponibilità si fonda da un lato nel convincimento che il fine possa essere concretamente

raggiunto, dall’altro nel fatto che si sia sufficientemente motivati ad assicurare nel tempo la

propria partecipazione alle attività svolte dall’organizzazione.

Una qualsiasi modificazione in queste due condizioni tenderà ad incidere sull’efficacia o

sull’efficienza dell’organizzazione. Se si dovesse perdere, ad esempio, la convinzione che il

fine comune possa essere effettivamente raggiunto, l’efficacia tenderebbe a crollare mentre,

se venisse intaccata la disponibilità del personale a prolungare nel tempo la propria

compartecipazione al fine dell’organizzazione, quello che si perderebbe sarebbe l’efficienza

dell’organizzazione stessa.

In sostanza, possiamo affermare che, se al momento della sua costituzione è necessario

assicurare la presenza di tutti e tre gli elementi da noi segnalati (comunicazione, disponibilità

a partecipare e fine comune), si può tuttavia sperare che l’organizzazione resista nel tempo

solo a condizione che si mantenga un equilibrio tra questi elementi.

(1) Mentre per efficacia si indica la capacità di un singolo o di una organizzazione a raggiungere gli obiettivi che

ci si è proposti di ottenere con la propria azione, per efficienza ci si riferisce alla capacità di raggiungere gli obiettivi con il minore costo possibile.

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SCHEDA 2

E’ certamente difficile dare una definizione esaustiva del concetto di qualità. In passato si

tendeva ad associare ad esso l’idea del lusso, di una “eccedenza” spesso non legata al

necessario. In un secondo momento, il termini è stato utilizzato per indicare il rispetto o, per

meglio dire, la conformità dell’oggetto/prodotto con determinate specifiche (fornite a volte

dal progettista, a volte dallo stato). Il Department of Defense statunitense definiva la qualità

come la “somma di tutti gli attributi o caratteristiche comprese le prestazioni di un prodotto”.

In una fase successiva, il concetto si è esteso dal prodotto/servizio al processo produttivo e

all’organizzazione che lo produceva. L’attenzione si è cioè spostata dall’output fisico a quello

organizzativo, ma si è anche introdotta l’idea che la qualità non potesse essere considerata

come una caratteristica “oggettiva”, indipendente dalle caratteristiche e dai bisogni del

consumatore/utente, ma dovesse essere considerata in funzione di questi ultimi. Evidente, in

questo senso, la definizione di Feigenbaum che considera la qualità “non la migliore in senso

assoluto, bensì la migliore per certe condizioni del cliente”.

Questo cambiamento di prospettiva risultò determinante quando si estese il concetto di

qualità dall’ambito merceologico a quello dei servizi. Per questi ultimi, la qualità non si

riferisce a standard numerici quantificabili/misurabili (ad es. la resistenza di una corda ad

una determinata forza di trazione), ma anche e specialmente a bisogni, attese, desideri.

Nell’ambito dei servizi – e la scuola è ovviamente una organizzazione che offre

essenzialmente un servizio alla propria utenza – la qualità può quindi essere espressa con il

seguente rapporto:

Sebbene possa apparire scontato, c’è anche da aggiungere che un importante elemento da

considerare è il rapporto tra costi e qualità del servizio. E’ infatti evidente che la

soddisfazione del cliente debba avvenire utilizzando al meglio le risorse (umane e

strumentali) disponibili.

La qualità si configura, infine, come la sommatoria di una serie di dimensioni, tra cui:

� la qualità tecnica (riguarda il prodotto/servizio offerto e la sua capacità di rispondere

ai bisogni del cliente/utente);

� la qualità relazionale (riguarda il come viene offerto il prodotto/servizio e si riferisce

agli aspetti comunicazionali e relazionali della transazione);

� la qualità ambientale (riguarda il dove si può fruire del prodotto/servizio e si riferisce

all’accessibilità e al confort);

� la qualità economica (riguarda il quanto si deve pagare per un determinato

prodotto/servizio)

� la qualità organizzativa (riguarda il modo con cui il prodotto/servizio può essere

fruito dal cliente/utente e si riferisce alla funzionalità, semplicità, ecc.).

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SCHEDA 3

Il primo tratto che ha caratterizzato per decenni la cultura organizzativa della scuola è

l’individualismo. Il singolo insegnante, in modo particolare dalle elementari in poi, ha

sempre svolto un lavoro fondato su una competenza disciplinare specifica, posseduta in

maniera esclusiva rispetto al gruppo dei colleghi della medesima classe. Tale competenza,

esercitata in situazioni operative – le classi – caratterizzate da dinamiche particolari

agevolava lo sviluppo di una azione educativa e didattica individuale e praticamente

insindacabile. Gli insegnanti si sono quindi abituati a lavorare da soli, rispettando l’esclusività

delle competenze distintive reciproche, decidendo autonomamente come impostare e gestire

il proprio ruolo operativo, i contenuti e le modalità didattiche da utilizzare.

Il secondo tratto tipico della scuola come organizzazione formale è individuabile nella

convinzione della natura essenzialmente qualitativa del proprio lavoro. Da tale

convinzione viene spesso fatta discendere l’affermazione secondo cui il lavoro educativo e

didattico svolto dal docente – a volte anche quello del discente – non può essere sottoposto

a valutazione perché non quantificabile.

In qualche modo correlato al precedente, nella scuola è forte la tendenza ad accettare

con difficoltà qualsiasi controllo esterno in ordine ai contenuti, alle modalità operative

e ai risultati conseguiti attraverso l’azione didattica svolta, cosa che si traduce in una sorta di

autoreferenzialità del singolo docente. Sebbene sia ovvia la necessità di garantire la

libertà dell’insegnamento, è però utile ricordare che questo tratto è alla base della scarsa

abitudine degli insegnanti a condividere e a confrontarsi con i colleghi rispetto al lavoro

svolto.

Un altro tratto distintivo della cultura organizzativa della scuola è l’attenzione al

“cerimoniale”, cioè agli adempimenti formali che i singoli docenti sono tenuti a rispettare.

Essi scandiscono burocraticamente il rapporto di appartenenza di insegnanti ed allievi alla

struttura scolastica nonché le condizioni per lo sviluppo del processo didattico, fissando

requisiti, tempi, procedure ed atti dovuti. Di fatto, questi adempimenti burocratici sono i soli

comportamenti attuati dagli insegnanti sottoposti a controllo esterno e a eventuali sanzioni.

L’ultimo tratto della cultura organizzativa della scuola – peraltro ampiamente condivisa da

tutta la Pubblica Amministrazione – è l’abitudine degli insegnanti a considerarsi

socialmente, normativamente ed economicamente garantiti dallo Stato (la

situazione si è comunque molto modificato in questi ultimi anni).

C’è da aggiungere che i tratti indicati si inseriscono in uno scenario culturale e sociale che ha

subito, dagli anni ’70 ad oggi, un notevole cambiamento. Sono stati, infatti, messi in

discussione gli assunti secondo cui la scuola consentiva:

� l’acquisizione di conoscenze e competenze direttamente spendibili nel mondo del lavoro;

� l’accesso agevolato e rapido alla vita produttiva.

Proprio il cambiamento dello scenario sembra aver agevolato le riflessioni sulle

caratteristiche della cultura organizzativa della scuola.

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SCHEDA 4

Il brainstorming (“tempesta delle idee”) è una tecnica messa a punto da Alex Osborn

prima della seconda guerra mondiale ed è un metodo semplice ed efficace se si intendono

ricercare soluzioni innovative ed originale ai problemi.

Il brainstorming si basa sul principio del giudizio posticipato, ciò significa che la ricerca di

soluzioni si attua in due fasi temporali nettamente distinte:

1. la ricerca di idee (fase divergente);

2. la critica e la valutazione delle idee (fase convergente).

Nel corso della prima fase non bisogna esprimere nessun giudizio o valutazione (ad es. di

fattibilità) sulle idee espresse: i partecipanti devono accogliere qualsiasi proposta con la

massima apertura e disponibilità. Solo quando le idee sono state tutte esplicitate, annotate e

raccolte il gruppo passerà alla seconda fase. E’ necessario che il conduttore mantenga

nettamente distinte le due fasi.

Osborn ha indicato alcune semplici regole per il buon funzionamento della prima fase del

brainstorming:

1. è proibita la critica sia delle idee altrui che delle proprie;

2. è gradita l’immaginazione più sfrenata; tutte le idee, anche le più sfrenate o folli non

solo sono autorizzate ma desiderate ed auspicate;

3. è necessario giocare con le idee, nel senso di farle “rimbalzare” all’interno del gruppo

al fine di elaborarle e combinarle in ulteriori idee/proposte;

4. è opportuno ricercare il maggior numero di idee possibili per avere molto materiale

per la fase di critica e valutazione.