PROGRAMMA STORIA ITI INFORMATICA INDICE … Giovanni Tenorio, Il Rinaldo, Giustino e varie altre...

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PROGRAMMA STORIA ITI INFORMATICA INDICE UNITA’ 1 Carlo Goldoni…………………………………p.2 UNITA’ 2 Galileo Galilei………………………………...p.7 UNITA’ 3 Gaspare Stampa……………………………….p.9 UNITA’ 4 Gerusalemme liberata di Tasso……………….p.11 UNITA’ 5 Giuseppe Parini……………………………….p.12 UNITA’ 6 Il Principe…………………………………….p.15 UNITA’ 7 Il Rinascimento……………………………….p.17 UNITA’ 8 Illuminismo…………………………………...p.22 UNITA’ 9 L’ Orlando Furioso……………………………p.24 UNITA’ 10 Ludovico Ariosto……………………………...p.26 UNITA’ 11 Nicolo’ Macchiavelli………………………….p.29 UNITA’ 12 Tarquato Tasso………………………………...p.31 UNITA’ 13 Vittorio Alfieri…………………………………p.35

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PROGRAMMA STORIA

ITI INFORMATICA

INDICE

UNITA’ 1 Carlo Goldoni…………………………………p.2

UNITA’ 2 Galileo Galilei………………………………...p.7

UNITA’ 3 Gaspare Stampa……………………………….p.9

UNITA’ 4 Gerusalemme liberata di Tasso……………….p.11

UNITA’ 5 Giuseppe Parini……………………………….p.12

UNITA’ 6 Il Principe…………………………………….p.15

UNITA’ 7 Il Rinascimento……………………………….p.17

UNITA’ 8 Illuminismo…………………………………...p.22

UNITA’ 9 L’ Orlando Furioso……………………………p.24

UNITA’ 10 Ludovico Ariosto……………………………...p.26

UNITA’ 11 Nicolo’ Macchiavelli………………………….p.29

UNITA’ 12 Tarquato Tasso………………………………...p.31

UNITA’ 13 Vittorio Alfieri…………………………………p.35

CARLO GOLDONI

Carlo Goldoni (Venezia, 25 febbraio 1707 – Parigi, 6 febbraio 1793) è stato un drammaturgo, scrittore e librettista italiano.

Goldoni è considerato uno dei padri della commedia italiana, come recita una targa affissa su Palazzo Poli, a Chioggia, città nella quale visse per qualche tempo e nella quale ambientò una delle sue opere più conosciute: Le baruffe chiozzotte.

È stato autore anche di numerosissimi libretti di opera lirica.

Carlo Goldoni

Il Goldoni è un intellettuale di origine borghese che seppe dar voce attraverso le sue opere agli ideali della borghesia italiana del 700. Egli visse nel periodo in cui l' Illuminismo stava affermando i suoi principi e spingeva intellettuale a dedicarsi alla realtà sociale.In questo periodo la borghesia capitalistica si stava affermando come classe sociale a scapito del ceto nobiliare in crisi.

L' idea moderna del mercante veneziano che appare come un misto di onesta furbizia, intraprendenza, buon senso e semplicità, è presa dal Goldoni a modello della nuova moralità che entra in contrasto con i valori della vecchia nobiltà decaduta, sulla quale l' autore ironizza nelle sue commedie. La sua ironia è comunque sempre discreta e tipica di chi è dotato di realismo e un senso della misura. L' osservazione della realtà e la sua rappresentazione in maniera comica sono la base della sua poetica. Il Goldoni è un osservatore del mondo che gli sta intorno e cerca di riportare tutti gli aspetti di questa realtà

Nel 1734 inizia la vera carriera teatrale di Carlo Goldoni, come lui stesso ha testimoniato non poteva entrare nello spettacolo come guitto anche per il rispetto delle "sue vestimenta", allora iniziò con un genere ibrido, ma nel '700 molto gradito, che era la tragicommedia. Proprio l'incontro con la Compagnia di Imer Goldoni poté accedere al vasto repertorio delle tragicommedie dell'arte che la compagnia metteva in scena in genere per mettere in burla storie tragiche d'ambito antico o pastorale attraverso i lazzi degli zanni. Il giovane Goldoni giunto al teatro con idee rivoluzionarie non poteva tollerare che quest'insieme di lazzi slegati dalla trama, che servivano soltanto a mettere in luce i vari talenti degli attori, desse un effetto così disorganico alla storia rappresentata da farla sparire tra i lazzi e le buffonerie.

Goldoni iniziò un ampio lavoro di ripulitura con la sua prima tragicommedia Il Belisario che fu un vero e proprio trionfo scenico per Goldoni, ben 40

rappresentazioni continuative soltanto nel carnevale del 1734, mai nessun'altra opera di Goldoni avrà un successo così unanime, Venezia aveva scoperto un giovane talento. Dopo Il Belisario Goldoni mise in scena altre tragicommedie riformate come Don Giovanni Tenorio, Il Rinaldo, Giustino e varie altre prima di iniziare la sua carriera di commediografo. Ma la sua inclinazione alla tragicommedia dopo il periodo della commedia riformata si fece di nuovo impellente e nacquero tragicommedie romanzesche come la Trilogia Persiana nata anche per tamponare gli attacchi dell'Abate Chiari, ma anche tragicommedie già di stampo pre-illuminista come La Peruviana e La Bella selvaggia.

Le prime tre commedie

Nel 1738, Goldoni scrisse la sua prima commedia, Il Momolo cortesan, Il Momolo sul Brenta e Il mercante fallito. Ristampate successivamente con i titoli: Uomo di mondo, Il prodigo, La bancarotta. Tali commedie costituiscono un concreto tentativo di regolamentazione della commedia.

Le prime tre commedie contenevano parti recitate "a soggetto", ma con limitazioni sempre più forti e parti scritte, nel tentativo di educare sia gli attori professionisti, sia il pubblico generico ad una commedia di carattere e di costume regolamentata nella sua forma. Tali commedie, in un secondo tempo, furono riscritte per intero. La donna di garbo, del 1743, è la prima commedia scritta in ogni sua parte e con veri caratteri. Nonostante il successo della nuova commedia, il Goldoni, nel 1745, con Il servitore di due padroni, tornò al compromesso tra parti scritte e "a soggetto" ed alle maschere della commedia dell'arte, pur mantenendo l'apertura sulla realtà. Anche nella redazione completamente scritta del Servitore di due padroni (1753) il Goldoni conserva l'essenzialità della forma originale che sfrutta l'azione mimica e scenica, traducendola in un dialogo rapidissimo in cui le parole indicano il movimento, recuperando il meglio della commedia dell'arte per riproporlo nella commedia scritta organica nel suo ritmo di scena e nello studio sociale e personale dei caratteri dei personaggi.

La putta onorata e La buona moglie

Nel 1748 scrisse La putta onorata e La buona moglie (continuazione della precedente) in cui compare un maggior impegno morale e sentimentale (a tratti lievemente retorico). Nelle due commedie la realtà è essenziale e meno pittoresca e supera decisamente il leggiadro gioco scenico del Servitore di due padroni.

La famiglia dell'antiquario

L'equilibrio è raggiunto ne La famiglia dell'antiquario (1749) in cui la situazione è ben determinata e ricca di riferimenti alla vita contemporanea (urto fra generazioni, tensione fra suocera e nuora di differente estrazione sociale: la giovane, figlia di un

ricco mercante e la matura dama orgogliosa e sprezzante. La linea secondaria è giocata sulle figure dello sciocco antiquario e del suo servo truffatore). Tra il 1749 ed il 1750, Goldoni precisò la propria poetica e difese la propria consapevole opera di riforma.

Il Teatro Comico e le sedici commedie

Il teatro comico, fu la prima delle sedici nuove commedie promesse all'impresario Gerolamo Medebach per il 1750. Ne Il bugiardo e ne La bottega del caffè il personaggio centrale è messo in evidenza dalla coralità dei personaggi minori che ne sottolineano la caratterizzazione. Le altre commedie del 1750 sono invece più ripetitive, farsesche o improntate a ricordi autobiografici.

La bottega del caffè

Quest'opera delinea il ritratto di una piazzetta veneziana, animata dalla presenza di una bottega di caffè e di altri locali che permettono ai personaggi un vivace gioco di entrate e di uscite. Questo movimento assume un significato opposto per i due personaggi principali: il caffettiere Ridolfo, uomo onorato, ed il nobile spiantato don Marzio. La vicenda si conclude con la vittoria del bene e l'espulsione di don Marzio dalla scena.

La locandiera

Il capolavoro degli anni fra il 1750 ed il 1753, e forse la sua opera più famosa, è La locandiera. Mirandolina, esuberante, complessa, affascinante, sempre lucida e sincera, capace di autocontrollo, domina la commedia superando ogni ostacolo per fare a proprio modo, badare ai propri affari di locandiera, assicurandosi tranquillità, agi, reputazione e libertà, senza andare in sposa ai tanti uomini rimasti da lei affascinati. Gli altri personaggi, più semplici, ma ben individuati, fanno risaltare la figura della protagonista. La locandiera chiude una fase dell'arte goldoniana.

Le tragedie romanzesche

Il Goldoni, in concorrenza con il Chiari produsse alcune tragedie romanzesche in versi, di tipo letterario ed accademico, anche se i risultati più felici del periodo sono le commedie, soprattutto Il campiello (in settenari più endecasillabi) del 1755, denotato dal realismo borghese, anche se eccessivamente pittoresco e dispersivo.

Il campiello

Commedia corale che narra i diversi momenti della vita quotidiana del popolo in una piccola piazza veneziana.

Gl'innamorati

Con Gl'innamorati del 1759, si apre un nuovo periodo in cui il Goldoni approfondisce le sfumature psicologiche che ruotano intorno all'inquietudine d'amore che turba l'idillio smorzando la linea apertamente comica. La gelosia tra Eugenia e Fulgenzio (i due giovani protagonisti) è il motore dell'opera. Ricca di situazioni comiche tipiche della commedia dell'arte il testo non dispensa critiche alla società, mettendone in risalto la mediocrità e le ipocrisie, attraverso la caratterizzazione degli altri personaggi.

La Trilogia della villeggiatura e i temi dominanti

Il tema dell'inquietudine, dell'amore, della gelosia è ampliato da Goldoni nella Trilogia della villeggiatura (Le smanie per la villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura), assai impegnativa per impianto, azione e temi. Nella trilogia l'amore rischia di travolgere l'onore e le norme morali. Goldoni rappresenta un nucleo familiare messo in pericolo dalla passione amorosa e dalla dissipazione economica, causata dal fatuo desiderio di ben figurare in società, a cui oppone una saggezza concreta e la consapevolezza dei propri limiti economici e della propria condizione sociale, in una complessa struttura di situazioni, comportamenti, caratteri, ambienti, rappresentando così l'evoluzione del sentimento amoroso, in un crescendo passionale, riportando poi la situazione nei limiti del buon senso.

Le commedie di ambientazione veneziana

Tra il 1760 ed il 1762, Goldoni scrisse alcune commedie di ambientazione veneziana che costituiscono dei veri capolavori: I rusteghi (1760), La casa nova (1760), Il sior Todero brontolon (1762), Le baruffe chiozzotte (1762) e Una delle ultime sere di carnovale (1762). In tali commedie, l'esperienza artistica di Goldoni è ormai matura nel rappresentare, con misura ed acume, lo scontro tra generazioni e tra caratteri e la ricerca di un ordine improntato ad una ragionevole moralità. In queste grandi commedie di carattere e di ambiente la realtà si concretizza, i caratteri si precisano.

I rusteghi

È una commedia in dialetto veneziano. Fu rappresentata per la prima volta a Venezia al teatro San Luca verso la fine del carnevale del 1760 e pubblicata nello stesso anno. Rappresenta il piccolo e sereno mondo borghese composto da quattro vecchi rustici, ostili al presente e legati agli antichi valori del mondo mercantile. In contrapposizione, un gruppo di donne e di giovani che sentono il richiamo del presente, della gioia di vivere e della felicità, rappresentato dal carnevale. Tutto è giocato sul conflitto generazionale, che vede il trionfo dei giovani.

La casa nova

Commedia perfettamente equilibrata ed elegante dove emerge la profonda simpatia del Goldoni per i personaggi comuni ed antieroici. Anzoletto, giovane borghese preda di una forte crisi economica, ha una sorella, Meneghina, e una moglie, Cecilia, che si scontrano violentemente; tutta la scena è giocata sui due piani di un palazzo, nel quale convivono due abitazioni borghesi.

Le baruffe chiozzotte

Goldoni presenta la vita dei pescatori di Chioggia, i loro amori, i loro problemi quotidiani, i loro scontri e le loro tenerezze; l'esatta imitazione della natura si regge qui sull'uso dello stesso dialetto di Chioggia e si anima di un'intensa nostalgia: segna il trionfo del popolo minuto, delle sue tradizioni, del suo linguaggio fatto di battute brevi e semplici, solo apparentemente casuali, nel giro arioso di pettegolezzi che si addensano in tempesta fino al prorompere della baruffa fra le donne.

Il ritorno forzato alla recitazione a soggetto

A Parigi il Goldoni fu costretto, dall'identificazione francese della commedia italiana con la farsa e l'intreccio puro, a tornare alla recitazione a soggetto e a ripercorrere il processo di rinnovamento già attuato in Italia, tornando al compromesso tra parti scritte e a soggetto, ripresa delle maschere e forte gioco d'intreccio con effetti grotteschi e facili caricature, equivoci, sorprese.

Il ventaglio

In tale ambito nacque Il ventaglio, opera di singolare finezza compositiva, che nel 1764 fu totalmente scritta in italiano ed inviata a Venezia per essere rappresentata. Nella commedia l'azione si materializza nel ventaglio che passa di mano in mano e si risolve nel fragile fuoco d'artificio di brevissime battute. La commedia veneziana, scritta a Parigi, segna l'abbandono da parte del Goldoni del teatro dei comici italiani in Francia.

Due commedie in francese

Solo nel 1771 e nel 1772, Goldoni tornò al teatro, con due commedie in francese: Le bourru bienfaisant e L'avare fastueux, dignitose ma grigie.

GALILEO GALILEI

Galileo fu uno dei maggiori protagonisti del dibattito cosmologico che si sviluppò agli inizi del ‘600. In ambito scientifico il suo contributo all’ipotesi copernicana fu di duplice natura, teorica e sperimentale. Da una parte egli mostrò, con il principio di composizione dei movimenti, che il moto di rotazione della Terra (conseguenza inevitabile di ogni sistema eliocentrico) era conciliabile con le evidenze sperimentali del moto dei corpi sulla sua superficie, eliminando così una grave obiezione al modello copernicano; dall’altra sviluppò un tipico lavoro da astronomo, mediante i cannocchiali da lui stesso realizzati. Proprio con l’uso di questi strumenti, Galileo pervenne a due risultati fondamentali:

a)la scoperta che la Luna ha un aspetto simile alla Terra, con valli e montagne. Ciò smentiva l’ipotesi, ancora presente nella cultura del suo tempo, della perfezione e immutabilità dei corpi celesti, in forza della quale la loro natura fisica doveva essere completamente diversa da quella della Terra;

b)la scoperta che Giove possiede dei satelliti(che Galileo battezzò satelliti medicei). Questa osservazione costituì la prima dimostrazione diretta che non tutto gira intorno alla Terra, e che può esistere un "sistema planetario", il sistema gioviano appunto, indipendente dalla Terra.

La prosa scientifica, genere letterario che ha avuto come fondatore e massimo esponente Galileo Galilei, si fondò sulla base della trattatistica umanistica-rinascimentale.Il trattato comporta l'esposizione dei dati acquisiti ed interpretati secondo criteri assoluti che vengono trasmessi ma non creano conoscenza. La trattatistica si proponeva di affrontare e dare spiegazioni in diversi campi : quello politico, quello storico, quello giuridico e quello scientifico, e proprio di questa trattazione scientifica Galileo Galilei propone una radicale innovazione delle forme. La creazione della prosa scientifica mobilita contemporaneamente le facoltà della creazione letteraria e quelle della conoscenza sistematica e concettuale del mondo : un nuovo metodo di esposizione che ha il fine di persuadereemotivamente gli altri uomini, oltre che convincerli con la forza del ragionamento, costringendoli progressivamente con la forza a una presa di posizione attiva. L'impostazione dialettica della nuova scienza fonda la veridicità delle sue affermazioni sul confronto tra ipotesi e dati sperimentali, sul confronto e sullo scontro di ipotesi provvisorie. Galileo Galilei intende comunicare con persone colte ed attente al progresso della conoscenza, ma non con specialisti ; sceglie per questo il volgare, abbandonando il latino filosofico-scientifico allora ancora predominante nelle università e nella comunità scientifica internazionale, mostrandosi così di rivolgersi ad un pubblico più

vasto di quello degli accademici e degli studiosi. La parola della scienza appunto non deve chiudersi in un tecnicismo indifferente alla comunicazione e alle scelte espressive, ma contribuisce a creare una letteratura basata sul linguaggio razionale e concreto. La prosa di Galilei si caratterizza per la ricerca di un'estrema precisione : la nuova scienza non può fermarsi all'indeterminatezza, deve descrivere la realtà con termini rigorosi e deve rendersi conto allo stesso tempo dello scarto che esiste tra i nomi e la realtà oggettiva. Galilei si impegna a definire un linguaggi quanto più esatto possibile ; ma, coerentemente con il suo atteggiamento, rifiuta di introdurre nuovi termini specialistici, e preferisce trasferire in ambiti tecnico parole del linguaggio comune, riferite alla vita quotidiana. Per conseguire il suo intento Galilei utilizza anche un particolare strumento retorico : l'ironia, che crea momenti di distacco e sospensione, intacca le false credenze e le false teorie, e si traduce in una rappresentazione del distacco tra le supposizioni degli uomini e la realtà delle cose.

GASPARE STAMPA

Nacque a Padova intorno al 1523 da una famiglia di origine milanese e di condizione borghese: alla morte del padre orologiaio, la vedova Cecilia, con Gaspara e i fratelli Baldassare e Cassandra, si trasferì a Venezia. Cassandra era cantante e Baldassare poeta: quest'ultimo morì molto giovane, a venti o ventitré anni, e di lui restano i sonetti stampati con quelli della ben più nota sorella.

Sufficientemente colta nella letteratura e nella musica, Gaspara fu portata dalla forte carica della sua personalità a vivere in modo libero diverse esperienze amorose, che segnano profondamente la sua vita e la sua produzione poetica. I romantici videro in lei una novella Saffo, anche per la sua breve esistenza, vissuta in maniera intensamente passionale. La vicenda della poetessa va però ridimensionata e collocata nel quadro della vita mondana del tempo, dove le relazioni sociali, comprese quelle amorose, rispondono spesso a un cerimoniale e ad una serie di convenzioni precise. Fra queste è da segnalare l'amore per il conte Collaltino di Collalto, che durò circa tre anni (1548-1551) e si concluse con l'abbandono della poetessa, che attraversò anche una profonda crisi religiosa.

Le Rime

A Collaltino è dedicata la maggior parte delle rime della Stampa (pubblicate dalla sorella nel medesimo anno della morte), che, concepite secondo il modello petrarchesco, costituiscono una delle più interessanti raccolte liriche del Cinquecento. Daniele Ponchiroli ha definito così queste rime: «Umanamente complesso, ricco di "moderna" psicologia, il canzoniere della Stampa, che la nostra romantica sensibilità ha visto soprattutto come un "ardente diario" amoroso, risente dell'inquieta originalità di una vicenda umana "confessata" con femminile espansione. Nessun altro canzoniere cinquecentesco ci offre un così vivo interesse documentario e psicologico».

L'originalità coincide con i limiti stessi di una versificazione che tende a risolversi nelle forme immediate e quasi discorsive di una confessione autobiografica, rifiutando una più complessa elaborazione tecnico-formale del discorso poetico. Luigi Baldacci ha detto: «Il valore della sua poesia, la sua possibilità di suscitare un'eco, consistono nell'aver saputo quasi sempre rifiutare l'esperienza retorica dei contemporanei e nell'essersi umiliata il più delle volte, secondo un'elezione istintiva, a un uso della poesia che certo quel secolo non conobbe mai così immediato, o se conobbe si preoccupò di schermare perché lo stesso elemento biografico si portasse a un più alto grado di mito petrarchesco e di rievocazione di quella paradigmatica vicenda. E per questo a proposito di Gasparina si è parlato, anche ai nostri tempi, di diario: definizione che trova conferma in un intervento di troppo immediata biografia in quello che dovrebbe essere il dominio più sacro della poesia. Questo, si sa, fu il

suo limite, ma anche la ragione della sua positiva eccentricità di fronte alla cultura poetica del suo tempo, della quale le era ignoto il calcolo e la tecnica del dettare».

GERUSALEMME LIBERATA DI TASSO

Goffredo di Buglione nel sesto anno di guerra santa, viene eletto comandante supremo e stringe d'assedio Gerusalemme. Uno dei guerrieri musulmani decide di sfidare a duello il crociato Tancredi. Chi vince il duello vince la guerra. Il duello però viene sospeso per il sopraggiungere della notte e rinviato. I diavoli decidono di aiutare i musulmani a vincere la guerra. Uno strumento di Satana è la maga Armida che con uno stratagemma riesce a rinchiudere tutti i migliori eroi cristiani in un castello incantato tra cui Tancredi. L'eroe Rinaldo per aver ucciso un altro crociato che lo aveva offeso fu cacciato via dal campo. Il giorno del duello arriva e poiché Tancredi è scomparso viene sostituito da un altro crociato aiutato da un angelo. I diavoli aiutano il musulmano e trasformano il duello in una battaglia generale. I crociati sembrano perdere la guerra quando arrivano gli eroi imprigionati, liberati da Rinaldo, che rovesciano la situazione e fanno vincere la battaglia ai cristiani. Goffredo ordina ai suoi di costruire una torre per dare all'assalto Gerusalemme ma Argante e Clorinda (di cui Tancredi è innamorato) la incendiano di notte. Clorinda non riesce a entrare nelle mura e viene uccisa in duello proprio da colui che la ama, Tancredi, che non l'aveva riconosciuta. Tancredi è addolorato per aver ucciso la donna che amava e solo l'apparizione in sogno di Clorinda gli impedisce di suicidarsi. Il mago Ismeno lancia un incantesimo sul bosco in modo che i crociati non possano ricostruire la torre. L'unico in grado di spezzare l'incantesimo è Rinaldo, prigioniero della maga Armida. Due guerrieri vengono inviati da Goffredo per cercarlo e alla fine lo trovano e lo liberano. Rinaldo vince gli incantesimi della selva e permette ai crociati di assalire e conquistare Gerusalemme.

GIUSEPPE PARINI (1729-1799)

Nasce nel 1729 in Brianza da modesti filatori di seta. Dopo aver frequentato le scuole dei Barnabiti senza molto impegno (perché afflitto da problemi economici) può proseguire gli studi usufruendo di una piccola rendita lasciatagli da una zia, a condizione però che diventasse sacerdote. E così fece. Non ci fu quindi vera vocazione, anche se il Parini non si discosterà mai dagli insegnamenti della Chiesa, se non palesando qualche nostalgia per il matrimonio (cfr. Oh beato colui che può innocente).

Gli anni dal '41 al '54 furono di faticosa miseria. Dopo esser diventato sacerdote (nel '54) entra nella casa dei duchi Serbelloni come precettore. Intanto, nel '52, la sua prima raccolta di poesie gli permette di entrare nell'Accademia aristocratica dei Trasformati, di tendenza politico-culturale moderata (essa conciliava il vecchio stile-lingua-idee col nuovo). Durante gli 8 anni passati presso i Serbelloni, difende il dialetto milanese e l'utilità pratica della lingua, scrive tre odi civili (La vita rustica, La salubrità dell'aria e L'impostura), nonché Il dialogo sopra la nobiltà, ispirato alla critica del diritto di nascita e improntato al motivo egualitario (Parini critica l'ozio e il consumo improduttivo della nobiltà, ovvero la sua vanità e i pregiudizi di casta).

Insofferente allo stile di vita aristocratico e aperto alle idee illuministiche francesi, decide di abbandonare il suo lavoro nel '62, tornando a vivere nella miseria. Nel '63 acquista particolare fama pubblicando il Giorno, poema satirico anti-aristocratico, in endecasillabi sciolti, diviso in quattro parti: Mattino, Mezzogiorno, Vespro e Notte. I primi due riflettono il cauto riformismo dell'autore; gli ultimi due invece, che usciranno postumi, riflettono le perplessità dell'autore di fronte alla crisi dell'esperienza riformatrice della borghesia filo-napoleonica. Nel poema il Parini finge di essere precettore di un giovane nobile, al quale deve insegnare come trascorrere bene il tempo secondo il costume e la moda aristocratica. Attraverso questa finzione egli mette in luce l'ozio, la corruzione, il vuoto spirituale, la vanità della casta nobiliare.

La pubblicazione della prima parte del Giorno gli procurò non solo gli entusiastici consensi del mondo letterario, ma anche la protezione del governo austriaco, il quale, accortosi del moderatismo del poeta, decise, a nome del rappresentante di Maria Teresa a Milano, il conte di Firmian, di affidargli la direzione della Gazzetta di Milano, al fine di promuovere una politica di "illuminate riforme" in Lombardia. Dopodiché il Parini venne chiamato ad insegnare eloquenza nelle Scuole Palatine (oggi Ginnasio di Brera). L'attività d'insegnante la continuò per molti anni, aggiungendovi nel '91 quella di sovrintendente alle scuole pubbliche.

Quando nel '96 i francesi entrarono a Milano per diffondere gli ideali della Rivoluzione cacciando gli austriaci, Parini accetta di far parte della nuova repubblica, ma il radicalismo dei giacobini poco si confaceva alla sua mentalità politicamente conciliante. Erano soprattutto le motivazioni religiose a distaccarlo dall'illuminismo e dall'avventura napoleonica. Famosa, in tal senso, è la sua reazione al provvedimento

col quale si volevano togliere i crocifissi da tutte le aule pubbliche: egli dichiarò che dove non poteva entrare il "cittadino-Cristo" non sarebbe entrato neanche il "cittadino-Parini". Nel '99, quando ormai tornavano gli austriaci, e poco prima di morire, compose un sonetto anti-rivoluzionario dal titolo Predaro i Filistei l'arca di Dio.

L'origine sociale del Parini è popolare e contadina, ma la formazione culturale è aristocratica. Forte infatti è il suo rapporto con l'Arcadia e il recupero stilistico del Petrarca e del classicismo cinquecentesco, coi quali egli cercava di non smarrire la tradizione letteraria italiana di fronte al prorompere dei nuovi ideali illuministici e rivoluzionari. Inoltre la sua critica alla moralità dominante della nobiltà non mette in discussione in modo politico la gerarchia delle classi e dei ceti. Per il Parini l'aristocrazia conserva ancora la possibilità di svolgere una grande funzione sociale. La nobiltà cioè ha la possibilità di autoriformarsi. Essa è odiata per la sua vanità, ma è ammirata per la sua eleganza e compostezza: molte volte il poeta renderà omaggio alle figure femminili di questo ceto.

La poesia del Parini si pone il compito civile (didascalico) di educare gli uomini all'uguaglianza sociale. La funzione della poesia è quella di rispecchiare la realtà, la natura, offrendo sensazioni e stimoli alla riflessione, per far acquisire la virtù umana e civile. Questa sua preoccupazione etica-pedagogica, lo rende più moralista che poeta, più un educatore ai valori morali e civili che un politico (s'intendono i valori di sobrietà, costumi semplici, laboriosità, onestà, moderazione, garbata ironia...). La vera alternativa ch'egli pone alla vita aristocratica decadente è la semplicità della vita contadina. Ne La vita rustica Parini guarda la campagna come un luogo di lavoro, ove uomini concreti, reali, faticano per il bene di tutta la collettività. Naturalmente il Parini non vede nelle campagne le contraddizioni socioeconomiche del suo tempo: per lui tutte le contraddizioni possono essere risolte con la buona volontà delle autorità. Di tutte le tematiche illuministiche, Parini rifiuterà sempre gli sviluppi verso il sensismo-materialismo-ateismo, nonché l'importanza attribuita alla scienza. Accoglierà invece la fiducia nella ragione: strumento primario di ricerca della verità, per vincere i pregiudizi del passato.

La vergine cuccia (dal Mezzogiorno). Una cagnetta di una famiglia aristocratica, volendo divertirsi, finisce col mordere il piede d'un servo, il quale con un calcio se ne libera. I padroni di casa, senza sentir ragioni, licenziano il servo, il quale si rassegna alla decisione. Una punizione severa, poiché, considerato da altri nobili un "soggetto pericoloso", il servo rimane per sempre disoccupato e nessuno s'impietosisce vedendolo con moglie e figli sulla strada a cercar lavoro.

La sfilata degli imbecilli (dalla Notte) parla dei giovani nobili rammolliti, ciascuno con la sua manìa (ad es. suonar la tromba, saper schioccare la frusta). E' l'estrema corruzione della nobiltà degenerata, coi suoi vizi: ozio, noia, vuoto interiore...

Il calar della notte (dal Vespro) parla della notte che come la morte rende tutto uguale.

La caduta (1785). Percorrendo d'inverno le vie di Milano (considerata già caotica), il poeta, ammalato e vecchio, inciampa e cade per terra. Un passante che lo aiuta a rialzarsi gli ricorda che la patria, pur avendo riconosciuto la sua grandezza di poeta, non ha fatto nulla per renderlo ricco e in grado di avere una carrozza con cavalli. Gli consiglia quindi di cambiar vita, cercando favori e protezioni in alto loco, eventualmente servendosi d'intermediari senza scrupoli. In cambio il poeta dovrebbe comporre poesie che piacciano ai potenti. Se non vuole accettare questo consiglio, che allora rinunci alla poesia e si affidi alla politica, che è mezzo efficace per ottenere facili guadagni. È comunque illusorio -dice il passante- sperare di convincere gli uomini al bene attraverso le poesie. Tuttavia il poeta rifiuta ogni compromesso e accetta la propria miseria.

Il bisogno (1766). Presenta analogie con l'opera di Beccaria, Dei delitti e delle pene. L'ode è indirizzata a un magistrato elvetico. Parini qui afferma che è il bisogno (la miseria, in particolare) a provocare il delitto, per cui la giustizia non può limitarsi a punire il colpevole, ma deve anche comprendere le cause del crimine e porvi rimedio. Il Parini tuttavia non spiega l'origine delle disuguaglianze sociali e non va oltre il rimedio dell'assistenzialismo.

“IL PRINCIPE” - MACCHIAVELLI

Primo capitolo

È una sintesi di tutta la trattazione;l’esordio è classificatorio:una volta distinte le forme di governo, viene brevemente delineata la tipologia dei principati, che possono essere ereditati o nuovi:per nuovi si intende sia misti (formati dalle aggiunte di nuove conquiste) o del tutto nuovi.Come esempio di principato del tutto nuovo viene riportato quello della conquista di Milano da parte del capitano Francesco Sforza, mentre come esempio di principato misto viene riportata la conquista dei Napoli da Ferdinando il cattolico.Infine vengono elencati i mezzi per realizzare tale conquista. Terzo capitolo Si considerano i principati misti.Machiavelli valorizza la sua esperienza personale nella segreteria e nella concezione d’esemplarità della storia romana. L’occupazione di Milano serve a esemplificare le difficoltà dei principi nuovi.La condotta tenuta dai romani serve ad additare a ogni principe saggio la condotta da tenere nelle regioni conquistate.Balza in primo piano la necessità di prevenire tempestivamente gli ostacoli futuri. Sesto capitolo Illustra la situazioni di coloro che al principato pervengono con armi proprie.L’attacco del capitolo segna una svolta:si avvia la discussione sui principati del tutto nuovi, sia per dinastia che per tipo di governo.L’attenzione si sposta sulla ricerca della corretta azione politica.Per raggiungere tale obbiettivo bisogna ispirarasi ai grandissimi esempi di Mosè, Ciro.Teseo, Romolo, i quali seppero istituire i nuovi ordini.Come esempio negativo viene citato Savonarola che non ricorse all’uso della forza, ritenuto necessario da Machiavelli perché tutti e’ profeti armati vinsono, e li disarmati ruinarono Settimo capitolo Coloro che conquisteranno una stato con l’aiuto altrui, lo manterrano con grandissime difficoltà.Lo Stato così realizzato è paragonabile ad un albero cresciuto troppo in fretta, privo delle radici e vulnerabile alla prima tempesta.Nelle cose dello stato però, è posibile forzare i tempi e combattere nelle più estreme difficoltà.A rappresentare adeguatamente il caso limite è il Valentino, indicato come modello da chi voglia fare e mantenere uno stato, ma anche lui, fondandosi sulla fortuna altrui, ruina, sebbene avesse sterminato i suoi avversari e avesse cercato d’essere previdente rispetto al futuro:per far eleggere in successione al padre un papa non ostile, tentò di controllare il seggio, tentò di costruire un vasto stato centro italiano.Tuttavia sia il padre che lui si ammalarono troppo presto.Un errore fatale fu quello di non aver ostacolato l’elezione di Giulio II Della Rovere Nono capitolo A favorire il privato cittadino nella conquista dello stato è il consenso del popolo o quello dei ceti medi.Ricorrendo ad un termine caro alla propria concezione biologica e naturalistica della società, Machiavelli due umori in seno alle lotte sociali:il popolo e i grandi: si tratta di due appetiti antagonisti: quello del popolo che resiste all’oppressione e quello dei grandi che vuole opprimere.Chi perviene al principato con il consenso dei grandi mantiene il potere con maggiore difficoltà rispetto a cxhi gode del consenso popolare. Quindicesimo capitolo

Ha inizio la riflessione sulla concreta prassi politica.Il principe che voglia mantenere deve essere buono o non buono a seconda della necessità. E’ perciò da respingere il catalogo delle qualità e dei vizi da perseguire o da fuggire, come compariva nella precedente trattazione politica.Sul terreno della prassi politica ciò che talora è qualità, altre volte può essere vizio.Il vizio adoperato per difendere lo stato risponde ad un’esigenza collettiva.Le virtù morali usate a sproposito risultano causa di ruina Diciottesimo capitolo Machiavelli con una figura biologica disegna due diversi modi di combattere:quello dell’uomo e quello della bestia.Il primo ha come risulatato le leggi, il secondo la violenza.Quando le leggi non sono sufficienti si deve ricorrere alla violenza.Poiché il principe deve per necessità impiegare anche la parte bestiale, Machiaveli illustra in due modi in cui essa si manifesta:ricorre alle figure della volpe e del leone, immagini dell’astuzia accorta e simulazione e dell’impeto violento, con i quali è possibile evitare i tranelli e vincere la violenza degli avversari.Per il principe è più utile simulare pietà, fedeltà, umanità che osservarle veramente.Le doti etiche sono pure illusioni nella lotta politica.Il dovere del principe è vincere e mantenere lo stato.Il volgo guarderà solo le apparenze, mentre pochi che non giudicheranno dalle apparenze non riusciranno a imporsi perché la maggioranza è dalla parte del principe. Venticinquesimo capitolo La fortuna è arbitra di metà delle azioni umane mentre l’altra metà resta nelle mani degli uomini;la fortuna è paragonata ad un fiume rovinoso che allaga le pianure e distrugge gli alberi e le case: gli uomini previdenti devono disporre per tempo gli argini.Tuttavia si possono vedere principi salire al potere o rovinare senza che essi abbiano modificato il proprio comportamento, Machiavelli ricorre alla mutevolezza continua delle circostanze storiche e della fortuna, non ruina colui che riesce a mettersi in sintonia con la qualità dei tempi.

IL RINASCIMENTO

Il Rinascimento è un periodo artistico e culturale della storia d'Europa, che si sviluppò a partire da Firenze tra la fine del medioevo e l'inizio dell'età moderna, in un arco di tempo che va all'incirca dalla seconda metà del XIV secolo fino al XVI secolo, con ampie differenze tra disciplina e disciplina e da zona a zona.

Il Rinascimento, vissuto dalla maggior parte dei suoi protagonisti come un'età di cambiamento, maturò un nuovo modo di concepire il mondo e sé stessi, sviluppando le idee dell'umanesimo nato in ambito letterario nel XIV secolo (da Petrarca) e portandolo a influenzare per la prima volta anche le arti figurative e la mentalità corrente.

Contesto storico

Il XV secolo fu un'epoca di grandi sconvolgimenti economici, politici e sociali, infatti viene assunto come epoca di confine tra basso medioevo e evo moderno dalla maggior parte degli storiografi, sebbene con alcune differenze di datazione e di prospettiva.

Tra gli eventi di maggior rottura in ambito politico ci furono la questione orientale, segnata dall'espansione dell'Impero Ottomano (il quale, dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453 giunge a minacciare l'Ungheria e il territorio austriaco) e un'altra occidentale, caratterizzata dalla nascita degli Stati moderni, tra cui le monarchie nazionali di Francia, Inghilterra e Spagna, così come l'impero di Carlo V, che a differenza degli imperi medievali presenta un progetto di accentramento del potere, tipico delle istituzioni politiche moderne, per quanto la rinascita dell'impero di Carlo V può essere vista anche come un ritorno alla dimensione sovranazionale che caratterizzava il Medioevo.

In ambito economico e sociale, con la scoperta del Nuovo Mondo, avvengono espansioni coloniali che allargano a dismisura l'orizzonte del mondo europeo. Iniziano enormi trasformazioni in Europa, accompagnate da squilibri e contraddizioni: se da una parte si fa spazio l'economia mercantile su scala mondiale, dall'altra le campagne restano legate a realtà tipiche dell'economia feudale. Il fulcro del commercio si sposta inoltre dal Mar Mediterraneo verso il Nord Europa e l'Oceano Atlantico.

In ambito religioso avvenne la Riforma protestante, ovvero lo scisma fra Chiesa cattolica e protestante. La Riforma intendeva rinnovare la Chiesa romana, stigmatizzandone le rilassatezze e le corruzioni come già in precedenza era accaduto in occasioni di vari tentativi di rinnovamento sia all'interno che all'esterno della Chiesa stessa, ma finì per costituire una realtà indipendente non solo per l'intransigenza delle rispettive posizioni ideologiche, ma anche a causa dei risvolti politici con cui essa si intrecciò.

Quando si parla di Rinascimento risulta piuttosto difficile stabilirne una data di inizio, che varia a seconda delle discipline. La data convenzionale è il 1492 con la scoperta del Nuovo Mondo che segna l’avvio di una nuova epoca; nei manuali di storia dell’arte, tuttavia, è più facile trovare il 1302 come l’anno in cui Giotto dà inizio al Rinascimento grazie alla sua tecnica artistica innovativa, ripresa e valorizzata poi da Masaccio.

È accertato comunque che un notevole rinnovamento culturale e scientifico si sviluppò negli ultimi decenni del XIV secolo e nei primi del XV secolo principalmente a Firenze. Da qui, tramite gli spostamenti degli artisti, il linguaggio fu esportato nel resto d'Italia (soprattutto a Venezia e Roma), poi, nel corso del XVI secolo, in tutta Europa. Altri importanti centri rinascimentali in Italia, oltre alle già citate Venezia e Roma, furono Ferrara, Urbino, Siena, Padova, Perugia, Vicenza, Verona, Mantova, Milano e Napoli. Da quest'ultima città, attorno alla metà del Quattrocento, le forme rinascimentali peculiari, vennero successivamente esportate nella penisola iberica.

Una prima crisi del Rinascimento fiorentino si sarebbe avuta dopo la morte di Lorenzo il Magnifico (1492) e la presa di potere da parte di Girolamo Savonarola, il quale tuttavia, se da un lato istituì una repubblica teocratica mirante a colpire gli aspetti più paganeggianti e lussuriosi del Rinascimento, dall'altra innescò un processo di ripensamento e rinnovamento della tradizione religiosa, destinata a durare ben oltre la sua esecuzione al rogo nel 1498.

Bertrand Russel e alcuni studiosi pongono la data della fine del Rinascimento al 6 maggio 1527, quando le truppe spagnole e tedesche saccheggiarono Roma. Per la maggior parte degli storici dell'arte e della letteratura il passaggio dal rinascimento al manierismo avviene in Italia negli anni Venti del Cinquecento e non oltre la metà del XVI secolo, mentre nella storia della musica la conclusione si situerebbe più avanti, attorno al 1600.

Origine del termine

Il termine generico "rinascita" venne usato da Giorgio Vasari nel suo trattato Vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino à tempi nostri per indicare un ciclo, da lui individuato, che partendo da Giotto e affermandosi con Masaccio, Donatello e Brunelleschi si liberava dalle forme greco-bizantine per tornare a quelle romano-latine, culminando nella figura di Michelangelo, capace di superare gli antichi stessi. Si tratterebbe quindi di una delle poche etichette storiografiche nate in concomitanza con l'epoca che le ha prodotte, sebbene mirasse a enfatizzare piuttosto forzatamente la "novità" del proprio modo di essere rispetto al passato.

Il termine "Rinascimento" e l'immagine ideale del periodo che esso definisce è invece frutto della storiografia ottocentesca, in particolare la paternità della definizione può essere attribuita allo storico francese Jules Michelet che ne fece uso nel 1855 per definire la "scoperta del mondo e dell'uomo" che ebbe luogo nel XV secolo. Nel 1860 lo storico svizzero Jacob Burckhardt, già ricordato, ampliò il concetto espresso da Michelet, descrivendo l'epoca come quella in cui sarebbero venute alla luce l'umanità e la coscienza moderne dopo un lungo periodo di decadimento. Si può notare nel suo atteggiamento l'eco dei giudizi dispregiativi espressi dai rinascimentali nei confronti del Medioevo, termine che viene coniato proprio in età umanistica da Flavio Biondo per indicare un periodo "buio" che egli contrapponeva enfaticamente al suo presente, che sarebbe stato caratterizzato invece dalla ripresa degli studi sulla letteratura e la cultura della Grecia e di Roma antica.

Rinascimento, medioevo e antichità

A dire il vero, la ripresa dei modi dell'età classica greca e romana e la rinnovata consapevolezza di discendenza e legame col mondo antico non fu una novità del XIV secolo, anzi nel corso del medioevo si erano avute varie rinascite e rinascenze: la rinascenza longobarda, carolingia, ottoniana, rinascita dell'anno Mille, rinascimento del XII secolo.

Ma ci sono almeno due aspetti che caratterizzano inequivocabilmente il Rinascimento rispetto a queste esperienze precedenti:

1. la grande diffusione e la continuità spontanea del movimento, contro il carattere passeggero delle "rinascite" precedenti legate prevalentemente ad ambienti di corte, sebbene studiosi come Burdach individuino in esse proprio la genesi del Rinascimento;

2. la consapevolezza di una frattura tra mondo moderno e antichità, con un'interruzione rappresentata dai "secoli bui", chiamati poi età di mezzo o medioevo, la cui presunta oscurità fu tuttavia strumentalizzata proprio per accentuare la portata rinnovatrice della nuova epoca.

Inoltre il passato che le personalità del Rinascimento aspiravano a rievocare non era qualcosa di aulico e mitologico, ma anzi, tramite gli strumenti moderni della filologia e della storia, essi cercavavo una fisionomia dell'antico più vera e autentica possibile.

Infine il passato classico non veniva imitato servilmente, ma rielaborato come esempio e fonte di ispirazione per nuove creazioni originali.

Il ruolo dell'Uomo

Secondo Burckhardt, la nuova percezione dell'uomo del mondo che gli stava intorno sarebbe stata molto diversa da quella dei secoli precedenti. Il singolo individuo sarebbe stato ormai visto come un soggetto unico in tutto il creato, in grado di

autodeterminarsi e di coltivare le proprie doti, con le quali potrà vincere la Fortuna (nel senso latino, "sorte") e dominare la natura modificandola. Celebre è l'affermazione attinta dal mondo classico homo faber ipsius fortunae (l'uomo è fabbro della propria sorte), che venne ripresa anche nell'orazione De hominis dignitate di Pico della Mirandola, una sorta di manifesto del pensiero dell'epoca, dove l'uomo è presentato come "libero e sovrano artefice di se stesso", con la potenza divina relegata ormai sullo sfondo.

La valorizzazione di tutte le potenzialità umane è alla base della dignità dell'individuo, con il rifiuto della separazione tra spirito e corpo: la ricerca del piacere e della felicità monadana non sarebbe più rivestita di colpevolezza e disonestà, ma anzi elogiata in tutte le sue forme (De voluptate, Lorenzo Valla). Nuovo valore verrebbe dato ora alla dialettica, allo scambio di opinioni e informazioni, al confronto. Non a caso la maggior parte della letteratura umanistica ha la forma di un dialogo, esplicito (come nel Secretum di Petrarca) o implicito (come le epistole), dove è al centro la fiducia nella parola e nella collaborazione civile, sebbene la vita associata fosse una caratteristica già dell'epoca comunale.

Questa nuova concezione si sarebbe diffusa con entusiasmo, ma, basandosi sulle forze dei singoli individui, non sarebbe stata priva di lati duri e angoscianti, sconosciuti nel rassicurante sistema medievale. Alle certezze del mondo telemaico, si sostituirono le incertezze dell'ignoto, alla fede nella Provvidenza si avvicendò la più volubile Fortuna e la responsabilità dell'autodeterminazione comportava l'angoscia del dubbio, dell'errore, del fallimento. Questo rovescio della medaglia, più sofferto e spaventoso, si ripresentò ogni volta che il fragile equilibro economico, sociale e politico veniva meno, togliendo il sostegno agli ideali.

Burdach tuttavia mette in rilievo come i concetti di rinascita e rinnovamento di sé fossero una prerogativa già del Medioevo, ad esempio del ravvivamento religioso che si era avuto con Gioacchino da Fiore e Francesco d'Assisi, mirante a riscoprire la dimensione interiore dell'individuo. Con Petrarca e Ficino rifiorisce anche quello spirito neoplatonico che era emerso già nel Duecento con Bonaventura. Non ci sarebbe quindi nessun respingimento di Dio, ma anzi dei fermenti di forte rinnovamento religioso, contrariamente all'immagine paganeggiante che ne viene data da Burckhardt. La fede cristiana nel Dio che si fa uomo non aveva mai portato, peraltro, ad uno svilimento delle prerogative umane neppure nel Medioevo. Nel Rinascimento vero e proprio si avrebbe soltanto un desiderio di riscoperta rivolto verso maggiormente se stessi. L'ascetismo medievale, che pure aveva conosciuto numerose forme di vita collettiva, fu una prerogativa anche del Rinascimento, ad esempio dello spirito rinnovatore di Savonarola e di Lutero.

Il ruolo della società

La consapevolezza di questi temi era comunque patrimonio di una élite ristretta, che godeva di un'educazione pensata per un futuro nelle cariche pubbliche. Gli ideali degli umanisti però erano condivisi dalla maggiore fetta della società borghese, soprattutto perché si riflettevano nella prassi che si andava definendo. Gli stessi intellettuali provenivano spesso dalla società artigiana e mercantile, già impregnati degli ideali di etica civile, pragmatismo, individualismo, competitività, legittimazione della ricchezza ed esaltazione della vita attiva.

Gli artisti erano pure partecipi di questi valori, anche se non avevano un'istruzione che poteva competere con quella dei letterati; nonostante ciò, grazie anche alle opportune collaborazioni e alle grandi capacità tecniche apprese sul campo, le loro opere suscitavano un vasto interesse a tutti livelli, annullando le differenze elitarie poiché più facilmente fruibili rispetto alla letteratura, rigorosamente ancora redatta in latino.

Rinascimento italiano

La diaspora degli intellettuali provenienti da Costantinopoli, dopo la conquista degli Ottomani, portò in Italia grandi personalità del mondo greco-bizantino, che insegnarono a Firenze, Ferrara,Napoli e Milano. Si diffuse la conoscenza del greco e degli studi umanistici, grazie anche alle famiglie potenti dei Medici a Firenze, degli Este a Ferrara, degli Sforza a Milano, dei Gonzaga a Mantova, dei duchi di Montefeltro a Urbino, dei nobili veneziani, della corte papale a Roma e dei d'Aragona a Napoli

ILLUMINISMO

E’un fenomeno culturale che si manifesta in tutti gli ambiti della società e della cultura, dalla filosofia alla storia, dalla politica alla religione, dalla letteratura alle varie forme di espressione artistica, dalla scienza alla tecnica. Si chiama “Illuminismo” perché vuole combattere l’ignoranza del Medioevo (visto come età “buia”) diffondendo i “lumi” della ragione.

Quando nasce

L’Illuminismo nasce nel Settecento. Eredita le novità della rivoluzione scientifica nata nel Seicento con Galileo Galilei e quelle politiche sviluppate alla fine del Seicento in Inghilterra da Locke, il quale era per la tutela dei diritti e della libertà dei cittadini.

Dove si sviluppa

Si diffonde in tutta l’Europa, ma si evidenzia specialmente in Francia dove c’era l’assolutismo monarchico. Infatti l’Illuminismo si sviluppa nelle nazioni in cui la popolazione voleva dei cambiamenti in tutti i campi, ossia più libertà, più uguaglianza, più progresso e meno privilegi per i nobili e per il re.

Chi lo promuove

L’Illuminismo è avviato da uomini di cultura come Diderot e d’Alembert (che promuovono l’Enciclopedia), Voltaire (che combatte le superstizioni e l’intolleranza religiosa), Rousseau (che propone la democrazia e la partecipazione diretta dei cittadini alla vita politica), Montesquieu (che è contro l’assolutismo e propone la suddivisione dei poteri), Beccaria (che è contro la pena di morte e la tortura), Locke (è considerato il “padre” dell’Illuminismo inglese ed è per la libertà e i diritti dei cittadini)

Perché è importante

È importante per diversi motivi qui elencati.

- Per prima cosa critica il Medioevo e la tradizione. Il passato viene visto come un insieme di superstizioni e false credenze. Ad esse l’Illuminismo contrappone la verifica scientifica basata sul metodo sperimentale introdotto nel Seicento da Galileo Galilei. Quindi l’Illuminismo è contro l’abuso dell’autorità sia nel campo politico che intellettuale. L’Illuminismo critica pertanto la religione tradizionale e pone invece al centro la ragione.

- Contrappone all’idea di tradizione l’idea di progresso. Critica il dogmatismo ossia l’obbligo di credere ciò che non viene dimostrato con la ragione e che deve essere

accettato solo per fede. L’Illuminismo è contro l’intolleranza e la chiusura mentale. - Ha fiducia in una cultura che, diffusa tramite l’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert, combatta l’ignoranza e porti i lumi della ragione. L’Illuminismo crede che l’uomo possa agire bene dopo aver conosciuto il vero.

- Promuove il cosmopolitismo (l’uomo “cittadino del mondo”) e combatte (con Voltaire) contro il nazionalismo che divide i popoli ed è causa di guerre. L’Illuminismo è quindi per la pace e per una convivenza e una comprensione fra popoli, culture e religioni diverse. Diderot condanna la schiavitù e il colonialismo.

- L’Illuminismo si batte contro la pena di morte e la tortura e in Italia Cesare Beccaria a questo proposito scrive “Dei delitti e delle pene”.

- Il movimento illuministico chiede la fine dell’assolutismo e quindi (con Montesquieu) la divisione dei tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario).

- In ambito letterario e artistico l’Illuminismo si collega all’arte classica greca e romana e al mondo antico, scavalcando polemicamente la civiltà medioevale vista come un’epoca buia. Viene quindi esaltata l’armonia e “solidità” dell’architettura greca e romana. L’Illuminismo, proseguendo l’azione dell’Umanesimo e del Rinascimento, pubblica l’enorme patrimonio culturale che si era “smarrito” durante il periodo più buio del Medioevo.

- L’Illuminismo promuove uno stretto rapporto tra teoria e pratica, fra scienza e tecnica. In questo modo ritiene che scienza e tecnica possano migliorare le condizioni della popolazione. Si afferma così l’idea di progresso in un’epoca in cui molti erano rassegnati e non credevano nel miglioramento della società.

L’ORLANDO FURIOSO

Iniziamo con l’introdurre brevemente le vicende narrate in questi due poemi. Ludovico Ariosto, poeta italiano di famiglia nobile, partecipò alla vita di corte degli Estensi fin dagli anni giovanili, entrando al servizio di Ippolito d’Este nel 1503. Durante questo periodo scrive l’Orlando Furioso e le Sette Satire. Queste ultime sono componimenti in terzine di varia lunghezza, indirizzate prevalentemente a parenti ed amici, in cui riflette la sua libertà d’animo, la libertà di scrittore, prendendo spunto da esperienze autobiografiche, difetti della curia romana, difficoltà e rischi della vita matrimoniale e sull’educazione umanistica. Per quanto riguarda la composizione dell’Orlando Furioso, gli viene commissionato dagli Estensi come continuazione dell’Orlando Innamorato, opera iniziata dal Boiardo, ma rimasta incompiuta a causa dei troppi impegni dell’autore. Il furioso riprende i motivi dei cicli Bretone e Carolingio mantenendoli tutti sullo stesso piano, senza dare maggiore spessore a nessuna delle tematiche trattate e giungendo a una grande tensione narrativa. L’Orlando Furioso non è una raccolta di favole di per sé vuote, ma l’amore, la bellezza femminile, il culto dell’amicizia e della gentilezza cavalleresca, il gusto per le avventure strane e spettacolari vengono unite dal poeta fino a formare un complesso unico omogeneo ed armonioso. Il famoso inizio (“Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, le cortesie le audaci imprese io canto”) introduce bene l’incessante variare degli episodi che esso narra, raccolti attorno a tre nuclei essenziali: la guerra fra Cristiani e Saraceni al tempo di Carlo Magno, l’amore del più famoso paladino di Carlo, Orlando, per la bella Angelica e l’amore fra il pagano Ruggero e la cristiana Bradamante, gli eroi dai quali il poeta fa discernere la casa Estense, si possono trovare dei legami tra le opere che, ad una prima lettura superficiale possono passare inosservati, ma che invece con una preparazione di base risultano evidenti ed affascinanti.

L’Orlando furioso è un poema cavalleresco di Ludovico Ariosto pubblicato nella sua edizione definitiva nel 1532.

Il poema, composto da 46 canti in ottave (38.736 versi in totale), ruota attorno al personaggio di Orlando, a cui è dedicato il titolo, e a numerosi altri personaggi. L'opera, riprendendo la tradizione del ciclo carolingio e in parte del ciclo bretone, si pone a continuazione dell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo. Caratteristica fondamentale dell'opera è il continuo intrecciarsi delle vicende dei diversi personaggi che vanno a costituire molteplici fili narrativi, tutti armonicamente tessuti insieme. La trama ruota intorno a tre vicende principali: l'aspetto epico è dato dalla guerra tra pagani (musulmani) e cristiani che fa da sfondo all'intera narrazione e

si conclude con la vittoria cristiana in seguito allo scontro tra gli eroi avversari. La vicenda amorosa si incentra invece sulla bellissima Angelica, in fuga da numerosi spasimanti, tra i quali è protagonista per l'Ariosto il paladino Orlando; tuttavia Angelica incontrerà il pagano Medoro e lo sposerà felicemente, causando l'ira e la conseguente follia di Orlando (risanata solo in conclusione). Il terzo motivo, quello celebrativo, consiste nel difficile amore tra Ruggero, guerriero pagano, e Bradamante, guerriera cristiana, che riusciranno a congiungersi solo dopo la conversione di Ruggero, al termine della guerra: da questa unione discenderà infatti la Casa d’Este.

LUDOVICO ARIOSTO

Ludovico Ariosto rappresenta una delle figure di maggior spicco della letteratura italiana di tutti i tempi e il suo pensiero presenta dei tratti di modernità difficilmente riscontrabili in un altro scrittore della sua epoca. Inoltre è uno degli autori italiani più studiati all’estero, insieme ovviamente a Dante, Petrarca e Boccaccio. A testimonianza di questo basterebbe enumerare la quantità enorme di siti stranieri a lui dedicati. Ariosto rappresenta la tipica figura di intellettuale cortigiano del Rinascimento, come Castiglione, Bembo e molti altri letterati dell’epoca. La personalità di Ariosto è però complessa ed inoltre nutre nei confronti dell'ambiente in cui vive e lavora sentimenti di malcelato rifiuto e scaglia contro di esso una sottile polemica. Ariosto trae gli elementi essenziali delle sue opere dalla quotidianità e leggendo le sue opere ci si può facilmente accorgere di come non cerchi scampo dalla vita di tutti i giorni rifugiandosi in un universo di letteratura immaginaria e fantastica, ma di come egli continuamente rielabori le sue esperienze personali. Nelle Satire, per esempio, analizza la vita di corte e nel contempo la sua posizione, rivendicando la propria libertà di intellettuale e mettendosi a nudo nel proprio intimo. Ampi stralci di tali opere sono dedicati infatti ad Alessandra Benucci, sua compagna di vita. La realtà quotidiana fornisce ad Ariosto il substrato fondante anche del suo capolavoro, l’Orlando Furioso, la cui materia fondamentale non è costituita dalla rappresentazione di certe istituzioni cavalleresche, come per lungo tempo si è creduto, ma dalla concezione moderna che il poeta ha nei confronti dell’uomo e della vita. Analizzato sotto questo punto di vista, il poema cavalleresco si trasforma in una sorta di grande romanzo moderno, che analizza sentimenti quali devozione, fedeltà, tradimento e inganno. La presenza di questi elementi dona all’opera un tono di realismo evidente in quella che è considerata la più grande opera fantastica della letteratura italiana.

Ludovico Ariosto (Reggio Emilia, 8 settembre 1474 – Ferrara, 6 luglio 1533) è stato un poeta, scrittore e drammaturgo italiano, autore dell’Orlando furioso (1516-32). È considerato uno degli autori più celebri e influenti del suo tempo. Le sue opere, il Furioso in particolare, simboleggiano una potente rottura degli standard e dei canoni epocali. La sua ottava, definita "ottava d'oro", rappresenta uno dei massimi della letteratura pre-illuminista.

Orlando Furioso

L'opera fonde insieme la materia carolingia con quella bretone. Le vicende dei personaggi si intrecciano continuamente, costituendo molteplici fili narrativi tutti armonicamente tessuti insieme. La trama ruota intorno a tre motivi: epico (lotta tra pagani e cristiani), amoroso (passione amorosa di Orlando per Angelica) e celebrativo (amore di Ruggero e Bradamante dalla cui unione discenderà la Casa d'Este).

Ludovico Ariosto iniziò la prima stesura nel 1505. Le vicende di Orlando e dei paladini di Carlo Magno erano già molto note alla corte estense di Ferrara grazie a Boiardo, quando l'intellettuale cortigiano Ariosto comincia a scrivere il nuovo romanzo. La trama si sviluppa a partire dalla storia dell'amore fra Angelica e Orlando dal punto in cui questa si interrompeva (e vi sono alcuni rimandi ironici a fatti antecedenti). La materia cavalleresca, i luoghi e i personaggi principali sono gli stessi, ma l'elaborazione di tutti gli elementi risponde a una ricerca letteraria molto più profonda. I personaggi acquistano una dimensione psicologica potente, il racconto diviene un insieme organico di vicende intrecciate in un'architettura di complessità grandiosa.

La veste linguistica – specialmente dalla terza edizione – è completamente rivista, dando vita ad una forma di comunicazione letteraria del tutto nuova. La prima edizione dell'Orlando Furioso, in 40 canti, fu pubblicata a Ferrara nell'aprile 1516, per l'editore Giovanni Mazocco. Portava una dedica al cardinale Ippolito d'Este il quale, poco interessato alla letteratura, non mostrò alcun apprezzamento. Il nuovo poema di Ariosto differiva dalle opere letterarie precedenti: non è più, in senso stretto un poema di corte, ma è la prima opera letteraria di intrattenimento ad essere pensata e curata per la pubblicazione a stampa, cioè per la diffusione presso un pubblico più vasto possibile. Si tratta perciò della prima, grande opera di letteratura moderna nella cultura occidentale.

L'edizione del 1516 aveva molte imperfezioni, dal punto di vista dell'autore, che si impegnò subito in una lunga revisione. Questa prima edizione è pensata in primo luogo per divertire la corte e per celebrare la famiglia estense. Ariosto è proiettato in una prospettiva municipale, la lingua dell'opera è una ricca fusione di termini toscani, padani e latineggianti.

Nella seconda edizione, pubblicata a Ferrara nel 1521, c'è una revisione della lingua, ora molto più orientata al toscano. Non ci sono modifiche di rilievo nella struttura narrativa, nonostante fra il 1518 e il 1519 l'autore avesse ideato cinque nuovi canti (poi espunti).

Queste due edizioni erano però ancora molto diverse da quella finale. Nel frattempo,

Ariosto si rese conto che l'opera aveva la portata di un capolavoro: prima della terza edizione l'opera aveva già avuto 17 ristampe.

La terza edizione fu pubblicata nel 1532. Ariosto aveva rielaborato il testo in maniera più ampia. La differenza è subito evidente sul piano linguistico: le prime due edizioni erano comunque rivolte prevalentemente a un pubblico ferrarese o padano, scritte in una lingua che teneva conto delle espressività popolari, lombarde e toscane. La versione definitiva invece mira a creare un modello linguistico italiano nazionale, secondo i canoni teorizzati da Pietro Bembo nelle sue Prose della volgar lingua. Vengono inseriti nuovi canti e gruppi di ottave, distribuiti in parti diverse dell'opera. Le dimensioni cambiano, il poema viene portato a 46 canti, modificando la suddivisione e l'architettura. Vengono aggiunte diverse storie e scene, che risultano tra quelle di maggiore intensità (anticipando in un certo grado anche la futura teatralità shakespeariana). Compaiono molti riferimenti alla storia contemporanea, con la gravissima crisi politica-salutare francese-italiana-tedesca

NICOLO’ MACCHIAVELLI

Nasce a Firenze, nel 1469, in una famiglia appartenente alla media borghesia. Ha una educazione umanistica con un indirizzo prevalentemente laico. Non conosce il greco; il suo punto di vista è opposto a quello di Savonarola. Nicolò Machiavelli ebbe vari incarichi politici presso il comune di Firenze per ben 14 anni. Svolge anche tante missioni politiche all'estero: ad esempio in Francia nel 1494 alla corte di Luigi XII che ammira molto; nel 1502 va in missione per Cesare Borgia, che conosce personalmente e rimane colpito dalla sua figura (che poi lo ispirerà a scrivere "Il Principe"). L'attività letteraria di Machiavelli comincia nel 1494; Nicolo Machiavelli scrive un pò ovunque si trova, durante i suoi viaggi di natura politica. Secondo Machiavelli un governatore non dovrebbe assumere mercenari per il proprio esercito ma bensì cittadini del paese, e cerca di convincere Firenze ad abbandonare le "militiae" mercenarie andando personalmente per le campagne a persuadere i cittadini ad aruolarsi. Nel 1511 nasce una cosidetta "Lega Santa" formata da cinque stati che poi nel 1512 si scontrerà con la Francia e Firenze (aleate), e vincerà. Con la caduta di Firenze, la famiglia dei Medici assume il potere della città e Machiavelli viene licenziato (che per lui significa che non poteva più svolgere attività di natura politica) e poi imprigionato; viene liberato dopo un pò da Giovanni De Medici e continua la sua attività letteraria scrivendo "Il Principe", altre opere ed una commedia intitolata "Mandragola". Machiavelli, essendo principalmente un uomo politico, cerca ad avvicinarsi alla famiglia dei Medici, dedicando a Lorenzo De Medici "Il Principe", senza però avere successo. Si avvicina ad un gruppo di politici "Orti Oricelari" della famiglia Rucelai. Nel 1519 Machiavelli scrive le "Istorie Fiorentine" e le dedica a Giulio De Medici; più avanti scriverà "Arte Della Guerra" che la dedicherà sempre a Giulio De Medici. Nel 1523 Giulio De Medici diventa papa con il nome "Clemente VII". Machiavelli ritorna a far parte della vita politica, ma i Medici perdono il controllo della città.

Nel 1527 Niccolò Machiavelli si amala improvvisamente e muore.

Il Pensiero Politico Di Niccolò Machiavelli

Machiavelli ama scrivere solo di cose che esistono realmente; il suo pensiero non è per niente di natura filosofica - Machiavelli mischia prassi e teoria. Secondo Machiavelli sono scomparsi i valori morali (l'amore per la patria, la voglia di combattere per il proprio paese, ecc...), c'è una fossilizzata crisi politica e militare; dal suo punto di vista, tutto questo non fa altro che mantenere l'Italia sottomessa alle grandi potenze; considera necessaria la presenza di un principe con virtù eccezionali. Per Machiavelli, chi fa politica deve guardare solo le cose politiche e non anche religiose o di altra natura, perchè altrimenti la politica sarebbe "inquinata"; secondo Nicolò Machiavelli la politica dev'essere autonoma; inoltre, dal suo punto di vista, un governatore non deve avere per forza le virtù classiche (fedele, leale, religioso, buono) ma deve fare il bene dello stato. Per Machiavelli la forma di stato ideale sarebbe la repubblica.

Dal punto di vista di Machiavelli, un buon principe è colui che sa usare sia la forza che le doti virtuose per il bene del popolo e non personale. Usando termini metaforici, un principe dovrebbe essere "volpe e leone".

Le virtù civili importanti per Machiavelli sono: amor di patria, per la libertà, solidarietà e onestà.

Il principato, sarebbe solo una forma transitoria per arrivare alla repubblica. Nicolò Machiavelli, inoltre, sostiene che per un principe avere tutte le virtù sopra elencate non basta - ci vuole anche la fortuna, intesa come capacità di capire quando le cose stanno cambiando e farle girare a proprio vantaggio.

TORQUATO TASSO

Torquato Tasso, (11 marzo 1544, Sorrento - 25 aprile 1595, Roma) è stato uno dei maggiori poeti italiani del Cinquecento.

La sua opera più importante e conosciuta è la Gerusalemme liberata (1575), in cui vengono descritti gli scontri tra cristiani e musulmani alla fine della Prima Crociata, durante l'assedio di Gerusalemme.

Poetica Nel Tasso l'attività poetica dominò la vita di ogni giorno, fino ad impacciarla in un alternarsi di speranza–delusione, amore–solitudine, valore-sfortuna, vita-morte che rappresentano il senso drammatico dell'esistenza. Il poeta visse la crisi dell'età della Controriforma, quando la civiltà rinascimentale era, ormai, al tramonto. Il crollo politico, militare ed economico dell'Italia aveva introdotto nella vita un senso di precarietà, crollata la fiducia nelle capacità dell'uomo, la Controriforma ripropose la religione come giustificazione della vita. Tasso fu il poeta della Controriforma, della transizione fra due mondi difficili da conciliare: nato nella prima metà del secolo (1544), quando ancora era vivo il Rinascimento, e trovatosi poi immerso nel clima contraddittorio della Controriforma, divenne, tra scrupoli e dubbi, il peggior inquisitore di se stesso. Il poeta fu combattuto tra i ricordi del vecchio mondo ed il presentimento del nuovo e restò incerto fra spontaneità creativa e rigide regole, senza saper trovare un equilibrio. Da ciò derivò il suo tormento sia artistico, sia esistenziale. Nella Liberata il Tasso cercò di conciliare classicismo ed ansia religiosa. Il Tasso visse in un perenne stato d'angoscia e d'ansia, con un senso tragico della vita, intesa come lotta destinata a risolversi come una sconfitta. Egli cercò un mondo esteriore, storicamente epico, in un repertorio già esaurito e vi immise il suo spirito cavalleresco e malinconico, trovandovi la propria immortalità. Tasso intese inserirsi nella tradizione epica che va da Omero a Virgilio. Abissale è la differenza d'ispirazione che distingue il Tasso dagli immediati predecessori, Pulci, Boiardo, Ariosto. Nel poema del Tasso le implicazioni etico–religiose e la forte drammaticità si contrappongono allo spirito irridente del Pulci, alla gioiosa visione del Boiardo ed alla libera fantasia dell'Ariosto, che canta l'avventura, la gioia di vivere, le mirabili imprese, gli amori, l'imprevisto, con le lievi movenze sceniche di uno spettacolo teatrale a corte. La stessa invocazione alla musa, che nel Tasso è estremamente impegnativa e programmatica, è risolta dall'Ariosto in un galante omaggio, non scevro d'ironia, alla donna amata. L'ispirazione epico - religiosa del Tasso, vede la lotta fra cristiani ed infedeli come eterna contrapposizione di bene e

male, infatti nella Gerusalemme liberata, l'unione di vero e di meraviglioso genera il verisimile, che coincide con gli interventi celesti ed infernali. I demoni intervengono nel poema, agendo sulle coscienze e coinvolgendo i maggiori eroi cristiani in amori ed avventure giudicate colpevoli, poiché fuorvianti dal fine della crociata. Il Tasso, generalmente connota i guerrieri pagani con audacia, orgoglio e ferocia quasi demoniaci, mentre gli eroi cristiani sono valorosi, razionali, cavallereschi. Mentre nei poemi precedenti l'elemento avventuroso è centrale e lo sfondo epico resta un mero pretesto, poco più di un fondale teatrale sul quale si dipanano le avventure individuali dei personaggi che inseguono le loro personali chimere, occasionalmente incontrandosi, scontrandosi, inseguendosi, nel poema del Tasso l'elemento avventuroso, magico ed amoroso, che pure è quello che ha consacrato il successo dell'opera, dovrebbe restare, nelle intenzioni del poeta, marginale e con funzione antagonistica ed estraniante rispetto al fine etico e religioso dell'avvenimento centrale. Amori ed amicizie si concludono spesso tragicamente e, comunque, i personaggi del Tasso sono destinati a solitudine dolore e delusione irreparabili. Alla stesura della Liberata ed al rifacimento della Conquistata Tasso accompagnò degli scritti critici, volti a chiarire struttura, carattere, finalità del poema, difendendolo dalle critiche della cultura accademica. Si tratta dei Discorsi del poema eroico (1567 – 1570) e dei Discorsi dell'arte poetica (1594). Il ‘500, concepiva il poema epico, che il Tasso definiva eroico, come la massima espressione di poesia, capace di idealizzare i fatti, di trattarli con uno stile sublime e di emulare quella di Omero e di Virgilio. La Gerusalemme conclude consapevolmente tale tradizione letteraria cinquecentesca, alla quale il poema ariostesco in parte si contrapponeva con il gusto del racconto e dell'avventura, con la varietà opposta all'unità. La polemica fra i sostenitori dell'Ariosto e quelli del Tasso durò a lungo, però il poema eroico del Tasso rispondeva ai requisiti di sommo decoro formale e spirituale, secondo le regole del tardo ‘500, connesse non solo alla mentalità diffusasi con la Controriforma ed al conseguente moralismo, spesso convenzionale, ma anche al gusto dell'eleganza formale, dell'abbellimento sontuoso, ma statico ed accademico. Il Tasso seppe rielaborare tali istanze in maniera originale tentando di attuare, con il suo poema, una nuova sintesi spirituale, fra gli ideali rinascimentali, ormai al tramonto e l'ansia religiosa della Controriforma. Il poeta propose un ritorno ai modelli classici, ma pervasi dalla spiritualità cristiana, realizzando una moralità perfetta in una poesia perfetta. Il Tasso partì dalla concezione rinascimentale della poesia come imitazione della natura, non però intesa come vero, bensì come verisimile, ossia della realtà non com'è, ma come dovrebbe essere idealmente, conferendo alla poesia una connotazione filosofica. Tasso volle che materia della sua poesia fossero “l'autorità della storia” e “la verità della religione” che le conferissero credibilità e serietà. Inoltre, poiché il fantastico, che diletta il lettore, è un elemento che rende seducente la poesia, nel poema, accanto alla storia, liberamente rimaneggiata, doveva essere presente anche l'elemento meraviglioso, non però basato sulla mitologia antica, bensì sull'immaginario cristiano, ossia interventi divini e diabolici, maghi, incantesimi,

angeli e demoni. Imprescindibile era per Tasso la nobiltà degli argomenti, affinché il poeta rappresentasse un mondo eroico e perfetto, nel quale coesistessero cortesia, generosità, pietà e religione ed i personaggi rappresentassero il supremo ideale umano. Lo stile doveva essere elevato, grandioso, scevro di forme popolari od eccessivamente realistiche ed accogliere parole desuete, periodi ampi, una lingua decorosa ed un ritmo solenne. Opere Rinaldo - Poema epico in dodici canti composto nel 1542 (Tasso aveva 18 anni) narrano le avventure di Rinaldo ed il suo amore per la principessa Clarice. Nel poema si incontrano motivi, ancora in formazione, che saranno propri della Gerusalemme liberata (avventure, duelli, amore, incantesimi, sogni, malinconie) Aminta - Favola pastorale, in cinque atti, (metro: endecasillabi e settenari variamente alternati) L'Aminta le cui pagine sono le più belle della poesia pastorale del Cinquecento, fu rappresentata a Ferrara il 13 luglio 1573, in un periodo tra i pochi sereni della vita del Poeta. Il successo fu immenso. La stupenda melodia, la malinconia suggestiva che spesso diventa tenero dolore, ma anche si muta in gioia, il nitore delle immagini, il tono sempre sospeso tra realtà e sogno, tra reale e ideale, la fresca serenità che è sullo sfondo della favola stessa, conferiscono all'opera un fascino incomparabile. L'Aminta è il capolavoro giovanile del Tasso, nell'armonia della favola pastorale si riflette la serenità del poeta, non ancora turbata dalla naturale malinconia, aggravata dalle febbri malariche, dall'invidia dei cortigiani e dal timore dell'Inquisizione. L'atmosfera sentimentale del poema, nel gioco sottile dei riferimenti alla vita di corte, permette di rivivere la realtà su un piano felicemente onirico, capace di farle perdere ogni pesantezza di cronaca (Silvia è l'ideale di quella acerba femminilità carica di promesse che Tasso aveva vagheggiato nella Bendidio e nella Peperara). Il coro dei pastori (oh bella età dell'oro) commenta la vicenda scenica. L'età dell'oro non è da rimpiangere per la natura benevola, per l'eterna primavera, per la pace che era l'unica legge del mondo, bensì perché l'onore, parola priva di sostanza, causa di errori e di inganni, tiranno della spontaneità naturale, non avvelenava ancora, con la sua ipocrisia, la gioia degli amanti. Infatti a quelle creature avvezze a vivere libere era nota solo la legge della natura, per la quale è lecito tutto ciò che piace. Il coro si chiude con l'invito a cogliere le fugaci gioie della vita. Il coro contrappone la lieta spontaneità dell'amore, visto come legge fondamentale della natura, alle convenzioni create dagli uomini che hanno voluto imbrigliare la gioia istintiva dell'amore con le pastoie dell'onore , fatto coincidere con il pudore. In natura non esiste il pudore, poiché amare è necessità e quindi non può esistere il concetto di peccato. La civiltà imponendo all'uomo leggi, consuetudini, convenienze ha evocato i fantasmi dell'onore e del pudore e ha suscitato gelosie, pregiudizi, ipocrisie, remore, dubbi angosciosi, uccidendo la gioiosa spontaneità dell'amore.

Rime - Tasso lavorò ad esse sin dall'adolescenza a più riprese, trascrivendo correggendo, rifacendo, annotando, ordinando variamente sonetti, canzoni ottave, madrigali. Nelle Rime è tutto il mondo ideale del Tasso. Sono vari i motivi: amore, omaggio alla bellezza femminile, lodi ad amici, sinceri affetti, accanto ad insinceri omaggi di celebrazioni di feste o di ricorrenze , motivi religiosi e ansia di fede, ricordi, lamenti per le vicissitudini presenti, tormenti dell'animo. Il sentimento della natura, bellissima eppure pervasa di indefinibile malinconia, è nel Tasso sentimento stesso della poesia. Il poeta compose numerosi madrigali, trovando nella libertà dello schema metrico la forma meglio adatta alla propria musica interiore, che è quella onirica, con temi leggeri. Tasso seguì il gusto del secolo nelle eleganti analogie tra immagini della natura e bellezze femminili, infondendo a tali schemi convenzionali segrete vibrazioni sentimentali e sensuali. Non pochi dei madrigali furono composti per essere musicati dai musicisti del tempo, non ultimo Claudio Monteverdi. Dialoghi - Riprendono un genere letterario molto in voga nel Cinquecento, furono scritti in gran parte durante la relegazione in Sant'Anna (1579 -1586). Sono in tutto ventitré, non tenendo conto delle varie redazioni di alcuni di essi. Sussistono però dubbi sull'autenticità del dialogo intitolato Manso o vero dialettica de l'amicizia. Epistolario - Comprende circa 1700 lettere, va dal 1564 sin quasi alla morte. Le lettere scritte durante il periodo trascorso in Sant'Anna risultano saldamente costruite e le citazioni classiche, sono usate sempre a luogo opportuno. Anche se nello scrivere le sue lettere il Tasso pensò certamente di raccoglierle per posteri (da ciò deriva il tono di soppesata eleganza e di attenta cura), in esse emerge tuttavia la storia del loro autore.

VITTORIO ALFIERI

Nasce ad Asti nel 1749 da una delle più nobili e ricche famiglie piemontesi. Perduto a un anno il padre, fu affidato alla tutela di uno zio, il quale si servì di un precettore-sacerdote per educarlo (nella satira L'educazione forse è ritratta l'immagine). Nel '58 fu posto in collegio (accademia militare di Torino) e vi rimase fino al '66. Qui veniva educata la gioventù nobile nelle scienze e negli esercizi cavallereschi, e in 9 anni si prendeva la laurea in legge. Ma i sistemi pedagogici erano senz'altro molto antiquati. Durante questi anni l'Alfieri, che conosceva perfettamente il francese (lingua della nobiltà piemontese), legge molti romanzi francesi e la Storia ecclesiastica del Fleury che contribuì notevolmente al suo scetticismo in materia di religione.

Morto lo zio tutore, l'Alfieri a 15 anni eredita il patrimonio di questi e del padre, divenendo ricchissimo. Appena poté uscire dall'accademia, si diede ai viaggi e alle dissolutezze (1766-72). In quegli anni percorse letteralmente tutta Europa, leggendo Montaigne, Montesquieu, Rousseau, Helvetius ecc., cioè quanto di meglio esprimeva la Francia di quel tempo. Il suo cosmopolitismo tuttavia non lasciò tracce profonde nella sua coscienza, se si esclude un particolare apprezzamento per la società inglese, di cui ammirava l'equilibrato governo costituzionale. I viaggi comunque gli servirono per maturare un atteggiamento critico verso il dispotismo illuminato (riformismo dall'alto) di Austria, Prussia e Russia.

Tornato in patria, continua ancora per qualche anno questa vita, s'iscrive alla massoneria, legge con molto entusiasmo Plutarco, e nel corso di un'ultima avventura galante abbozza una tragedia, Cleopatra, e scrive una farsa autocritica, I poeti, che, rappresentate entrambe nel '75, riscuotono un certo successo. A partire da questo momento inizia la sua rigenerazione spirituale e culturale. Consapevole delle sue possibilità e del suo talento letterario, con decisa e ferma volontà, l'Alfieri si propone il compito di dare all'Italia ciò di cui ancora mancava: la tragedia.

Per vincere la sua ignoranza e per liberarsi del suo francese va a vivere in Toscana (1776-81). A 46 anni s'immerge nello studio del latino e del greco. A Firenze si lega con la moglie di un ex-pretendente al trono d'Inghilterra, per la quale decide di non muoversi più dalla città. E, poiché le leggi piemontesi limitavano la libertà, ai nobili possessori di terre, fuori dello Stato sabaudo, prende la decisione di donare tutti i suoi beni alla sorella, riservandosi in cambio un vitalizio annuale. Lo fece anche perché così non aveva più bisogno di chiedere al suo re ogni volta il consenso per uscire dallo Stato e l'approvazione per ogni nuova opera da pubblicare. E così cominciò a scrivere tragedie, rime, opere politiche. Nel '77 il trattato Della tirannide, nel '78 inizia quello Del principe e delle lettere. Fra il '75 e l'86 compone 19 Tragedie, fra cui Saul e Mirra, che sono le più importanti.

Dopodiché intraprende l'ultimo suo vagabondare per l'Europa (1783-92). A Parigi assiste con entusiasmo alla Rivoluzione francese e la esalta con l'ode Parigi sbastigliata. Ma resterà presto deluso dalle conseguenze radicali che presero gli avvenimenti, per cui se ne tornerà a Firenze. Nel '90 aveva cominciato la stesura autobiografica della Vita, accompagnata da un'ampia produzione lirica, le Rime. A Firenze (1792-1803) si chiude sempre di più in un odio feroce contro i francesi, specie durante le due occupazioni napoleoniche del 1799 e 1800. Dall'89 al '97 compone 17 Satire, dal 1800 al 1802 le Commedie e infine il Misogallo, un violento libello contro la Francia. Muore in solitudine nel 1803.

IDEOLOGIA E POETICA

Il Settecento fu prodigo di tragedie. L'interesse per il genere era nato dall'influenza del teatro francese (Racine, Corneille), che era così forte da condizionare non solo la scelta degli argomenti (i sentimenti, l'amore ecc.) ma persino il metro con cui trattarli. I commediografi italiani si erano orientati, cercando di emulare i francesi, verso argomenti greco-latini, ebraici, orientali (come avveniva del resto per il melodramma). L'Alfieri non fece che porsi in questa corrente apportandovi un originale contributo (non però su quello formale, perché qui si attenne al rispetto delle unità aristoteliche di luogo e tempo).

Dotato di un fortissimo senso della libertà e insofferente a ogni tirannide, sia pubblica che privata, egli infatti concepì il teatro come mezzo di educazione civile e politica e l'artista come "sacerdote dell'umanità". Convinto che la storia sia maestra di vita, portò sulla scena i grandi personaggi, quelli secondo lui più adatti a suscitare l'amore per la libertà e l'odio contro la tirannide: Saul, Mirra, Polenice, Antigone, Virginia, Agamennone, Oreste, Sofonisba, Filippo, Rosmunda, Maria Stuarda ecc. Tutti personaggi che mostrano d'avere un'altissima umanità, ma che, in definitiva, risultano troppo perfetti per permettere allo spettatore una vera immedesimazione. Il pubblico applaudiva perché affascinato dai ritmi travolgenti delle passioni rappresentate, ma avvertiva chiaramente in esse qualcosa di inarrivabile, perché troppo straordinario.

Il limite dell'Alfieri sta in quel suo modo vitalistico e individualistico di affrontare lo scontro, allora molto forte, tra tiranno e oppresso. Il protagonista principale delle sue tragedie è sempre il singolo eroe che, con coraggio e abnegazione, cerca di opporsi alla tirannia del potente (re, principe o imperatore). Il suo ideale è la personalità di Bruto e il suo mondo preferito è quello degli eroi e tirannicidi descritto da Plutarco. In questo senso, il suo riferimento alla classicità non sta tanto nello stile letterario (ché anzi l'Alfieri è un innovatore), e neppure nel riconoscimento formale della superiorità dell'antica tradizione, quanto piuttosto nell'esigenza di ricercare modelli umani eroici da riproporre, in veste moderna, ai suoi contemporanei (al di là di un'analisi storica dell'ambiente reale in cui questi personaggi sono vissuti). Politicamente l'ideale dell'Alfieri, almeno sino alla delusione per gli esiti terroristici

della Rivoluzione francese, resta quello della Repubblica romana pre-cesarea e dell'antica Grecia.

Ciò che più ha condizionato la concezione “liberal-anarchica” dell'Alfieri fu il fatto ch'egli, pur avendo rinunciato agli ideali aristocratici, non rinunciò mai allo stile di vita aristocratico (per molto tempo condusse una vita errabonda, frenetica, in parte dissoluta). In qualunque paese europeo andasse l'Alfieri guardava la situazione politica con gli occhi dell'intellettuale isolato, e quella sociale con gli occhi dell'aristocratico che da parte delle masse popolari non spera in una decisa posizione antigovernativa. Quando infatti i suoi ideali giacobini-rivoluzionari si trovano realizzati nella Rivoluzione francese, la sua reazione alla necessità della dittatura politica, sarà decisamente negativa. Alfieri non era contro una particolare forma di governo, ma contro tutte, poiché là dove esisteva un "potere", per lui vi era anche ingiustizia e oppressione.

Trattato Della Tirannide. Alfieri afferma che "base e molla" della tirannia è la paura. La tirannide da lui descritta non coincide con una forma particolare di governo (anche se il riferimento alla sua epoca è evidente). La nobiltà (ambiziosa e amante del lusso), l'esercito (garante dell'ordine pubblico) e la religione (che educa all'obbedienza) sono, oltre alla paura, le armi del tiranno. Ma il tiranno è schiavo della paura non meno del suddito, poiché, per restare sul trono, ha bisogno di esercitarla quotidianamente, temendo sempre d'essere rovesciato.

Sugli oppressi il giudizio dell'Alfieri è pessimista. Chi è abituato alla sottomissione difficilmente riesce a liberarsene, anzi, arriva ad acquisire sentimenti di servilismo e di fatalismo. C'è solo una speranza secondo il poeta: che l'autoritarismo sia così duro e insopportabile da indurre il popolo a ribellarsi. Nel frattempo l'intellettuale (più poeta che filosofo) deve avere il coraggio di criticare il tiranno mediante le sue opere letterarie. Ma perché lo possa fare deve essere libero da problemi economici, ché altrimenti sarà costretto a compromettersi. Il tirannicidio dunque è escluso, ma solo fino a quando non è lo stesso popolo a insorgere. In casi estremamente sfavorevoli all'individuo l'Alfieri consiglia il suicidio.

19 Tragedie. La scelta del genere letterario tragico rispecchia psicologicamente l'esigenza individualistica del poeta-eroe. Le tragedie ruotano attorno a un personaggio principale; gli altri (sempre pochi) hanno una funzione accessoria. Il finale in genere è di due tipi: suicidio o tirannicidio. Gli argomenti sono presi dalla storia o dalla Bibbia, con predilezione per i soggetti greco-romani. L'azione si svolge in 5 atti. Il verso adoperato: endecasillabo sciolto, ma è trattato in maniera molto dura, nervosa, concisa. Alla base di ogni vicenda sta il fato, cioè una forza al di sopra dell'uomo, che lo costringe a reagire. I protagonisti, pur prigionieri delle loro passioni, proprio in questa lotta con il fato rivelano la loro forza, la loro carica emotiva. E' assente ogni preoccupazione realistica. Non c'è sfondo teatrale che ambienti i personaggi, e neppure intreccio o azione. Il linguaggio non è colloquiale

(come in Goldoni) ma oratorio, solenne. I dialoghi son quasi dei monologhi (si è sordi alle parole altrui). In questo Alfieri si allontana decisamente dall'Arcadia e dal melodico dramma metastasiano.

17 Satire. Qui l'Alfieri condanna: commercio borghese, clericalismo e anticlericalismo, re, nobili e militari, il popolo e i precettori.

6 Commedie. Qui condanna: monarchia assoluta (Dario) ne L'uno, oligarchia assoluta (Gracchi) ne I pochi, democrazia assoluta (Ateniesi) ne I troppi. Condanna i grandi uomini, perché nella vita privata sono incoerenti (La finestrina) e i matrimoni nobiliari per interesse (Il divorzio). Condivide: la monarchia costituzionale di tipo inglese o della vecchia Venezia (L'antidoto). Nel 1781-83 aveva scritto 5 Odi sull'America libera, esaltando l'indipendenza dal dominio coloniale inglese.