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Direzione organizzativa Ines Angelino [email protected] - Tel 348 22 50 241 Direzione artistica Maurizio Tambara [email protected] - tel 338 72 73 744 Testi e redazione del presente programma a cura di Ines Angelino L’accordatura e la messa a punto del pianoforte per tutta la stagione sono a cura del Maestro Antonio Vacatello - tel. 368 64 51 02, cui va un particolare ringraziamento della Dire- zione per l’eccezionale disponibilità e competenza tecnica. Programma: Programma: Programma: Johann Sebastian Bach “Fantasia Cromatica e fuga” BWV 903 Ludwig Van Beethoven Sonata “Patetica”, n. 8, in do min., op. 13, nei tempi: Allegro di molto e con brio; Adagio cantabile; Rondò Robert Schumann Da “6 Intermezzi” op. 4, n. 1 e n. 2 Felix Mendelssohn “Rondo Capriccioso” in mi magg. e min. op. 14 Alexander Skrjabin Da “12 Studi”, op. 8, studi n. 2 e n. 12 Stefano Ligoratti “Il canto del fuoco” Stagione concertistica 2002-2003 Concerto del 25 febbraio 2003 - ore 21 Spazio giovani Pianista Stefano Ligoratti

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Direzione organizzativa Ines Angelino

[email protected] - Tel 348 22 50 241

Direzione artistica

Maurizio Tambara

[email protected] - tel 338 72 73 744

Testi e redazione del presente programma

a cura di Ines Angelino

L’accordatura e la messa a punto del pianoforte per tutta la stagione sono a cura del Maestro Antonio Vacatello - tel. 368 64 51 02, cui va un particolare ringraziamento della Dire-zione per l’eccezionale disponibilità e competenza tecnica.

Programma:Programma:Programma: Johann Sebastian Bach

“Fantasia Cromatica e fuga” BWV 903 Ludwig Van Beethoven

Sonata “Patetica”, n. 8, in do min., op. 13, nei tempi: Allegro di molto e con brio; Adagio cantabile; Rondò

Robert Schumann Da “6 Intermezzi” op. 4, n. 1 e n. 2

Felix Mendelssohn “Rondo Capriccioso” in mi magg. e min. op. 14

Alexander Skrjabin Da “12 Studi”, op. 8, studi n. 2 e n. 12

Stefano Ligoratti “Il canto del fuoco”

Stagione concertistica 2002-2003

Concerto del 25 febbraio 2003 - ore 21

Spazio giovani

Pianista Stefano Ligoratti

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Johann Sebastian Bach nacque il 21 marzo 1685 a Eisenach, una cittadina che all'epoca contava circa seimila abitanti. Apprese i primi rudimenti musicali dal padre Ambrosius, musicista, che gli insegnò a suonare il violino e la viola, e quelli dell’organo e teoria musicale dallo zio Johann Christoph, gemello del padre. Il padre era discendente di una dinastia di Bach musicisti fin dal 1500.

Nel 1693-95 frequentava la scuola di latino di Eisenach, quando, nel 1694, gli morì la madre, e l’anno successivo anche il padre.

Insieme al fratello, fu accolto a Ohrdruf dal fratello Johann Christoph, orga-nista della Michaeliskirche, che gli impartì lezioni di organo, clavicembalo e composizione, oltre che di tecnica di costruzione degli organi. Il piccolo Jo-hann Sebastian si guadagnava già la vita cantando nel Chorus Musicus di O-hdruf nei giorni festivi, mentre frequentava il locale Lyceum.

La sua voglia di apprendere era straordinaria: pur di stu-diare un libro che conteneva brani per clavicembalo di alcuni dei più famosi musicisti del tempo - che il fratello gli aveva vietato, volendo imporgli una certa gradualità nello studio - lo sottrasse di nascosto e lo ricopiò tutto. Lo sforzo fu inutile, perché il fratello lo scoprì e gli sequestrò senza pietà il libro proibito. Ma questo episodio già ben testimonia la tempra artistica ed il carattere di Johann Se-bastian.

Nel 1700 lasciò la famiglia del fratello per recarsi a Lüne-burg, dove entrò a far parte del coro della Chiesa e co-nobbe Georg Böhm, l’anziano organista. Frequentò inol-tre la importante biblioteca locale, che raccoglieva numerose musiche dei secc. XVI e XVII. Ma Bach cresceva e la sua voce cambiò, ed egli perse quin-di il suo impiego nel coro. Senza perdersi d’animo, riuscì ad avere l’incarico di organista supplente di Böhm. Ultimati gli studi, dopo essere stato per po-

I due Studi di Skrjabin , dall’op. 8, del 1894, ri-specchiano il linguaggio delle opoere giovanili di Skrjabin, legate alla tradizione tardo-romantica, russa in particolare, ma presentano rilevanti ed affascinanti novità armoniche. La cantabilità si affianca ad effetti di grande pianismo, con l’uso appassionato delle ottave e delle progressioni armoniche . Anche questi sono bra-ni difficili e rischiosi per un pianista, ma li amo moltis-simo per la possibilità di esprimere fino in fondo pas-sione e canto, insieme.

“Il Canto del fuoco”, il mio pezzo con il quale concludo il concerto, a mio parere si inserisce molto scorrevol-mente nella scia tracciata dagli altri pezzi presentati questa sera: sono debi-tore al Bach della fantasia cromatica dell’insistente e progressivo modulare armonico, e allo Skrjabin del clima e-motivo e drammatico, fatto di accordi abbastanza insoliti e commentato da un insistente ed appassionato uso delle ot-tave.

E’ musica descrittiva: parte da un tremolo, che rappresenta lo smorzarsi del-le ultime fiamme dell’incendio in un bosco. In una sorta di flash-back, viene poi presentata la storia dell’incendio, dalla prima scintilla che si fa a poco a poco affascinante fiamma, fino alle altissime fiamme alimentate dal vento, che divorano e distruggono, si alternano, scemano e riprendono, fino ad e-saurirsi, improvvisamente, perché non c’è più niente da bruciare. L’accordo finale in mi maggiore in secondo rivolto dà un senso della tragedia che si ar-resta, ma anche il senso della tragedia che è incompiuta… e si ripeterà.

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I due “intermezzi op. 4” di Robert Schumann, pubblicati nel 1833, sono estratti da uno dei lavori prediletti di Schumann, molto sperimentale. Presentano novità rilevanti nell’armonia e nel contrappunto, ma sono anche uno splendido esempio della poetica di Schumann e del suo profondo romanticismo. Il ritmo incal-zante, ternario, e spesso in sincope, crea magnifi-camente un senso di ansia, di sospensione, estre-mamente drammatico. Mi piace eseguire questi brani, di struttura molto complessa e sofisticata, con grande intensità emotiva, perché li sento mol-to vicini al mio modo di intendere la musica.

Con il Rondò Capriccioso op. 14 di Mendelssohn ho voluto presen-tare un brano di grande effetto, molto noto soprattutto nel passato, che rap-presenta un altro aspetto, profondamente diverso, del grande romanticismo pianistico. E’ una composizione di straordinaria nitidezza, il cui slancio ro-

mantico trova un’equilibrata e brillante forma di gran-de classicità. Lontano dai turgori beethoveniani e schumaniani , è un pezzo classicheggiante e armonio-so. Mendelssohn lo pubblicò a ventun anni, nel 1830, e la sua giovinezza emerge prepotente dallo scintillan-te tema, che evoca una danza di elfi e gnomi, un tema da trattare con leggerezza, da commentare con poco uso del pedale, con una stretta osservanza del tempo così agitato, evitando i rallentamenti (come prescrive-va lo stesso Mendelssohn). Brano rischioso per un pia-nista ancora poco esperto come me, ma irresistibile per un ragazzo della mia età: lo sento così affine …

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co tempo violinista presso la corte di Sassonia-Weimar (dove conobbe la mu-sica francese di Couperin e quella italiana di Corelli, Vivaldi, Marcello, Albi-noni), nel 1703 (appena diciottenne) divenne organista titolare della Chiesa di S. Bonifacio ad Arnstadt e in breve tempo acquisì una vasta rinomanza co-me virtuoso. Componeva già meravigliosamente (risale a questo periodo, ad esempio, la celeberrima Toccata e Fuga in re minore). Ad Arnstadt conobbe Maria Barbara, una lontana cugina, anch’essa appassionata di musica, sua coe-tanea, che in seguito divenne sua moglie.

Nel 1705, chiesta una breve licenza, si recò a piedi a Lubecca (250 Km) per ascoltare il famoso organista Dietrich Buxtehude, forse anche con la speranza di succedere all'ormai anziano maestro; ma tale speranza non si attuò, anche perché Buxtehude, per farne il suo successore, pose la condizione che Bach sposasse la propria figlia. Il giovane e innamorato Johann rifiutò recisamente e si incamminò per fare ritorno ad Ar-nstadt, dalla quale mancava ormai da ben quattro mesi.

Il giovane musicista, anche per dissidi con il Consiglio municipale, che non apprezzava molto il suo stile (lo accusa-vano di “modulare in maniera anomala”) trovò un'altra sistemazione (1707) come organista di S. Biagio a Mühlhausen, do-ve sposò la cugina Maria Barbara, e com-pose un gran numero di pezzi per orga-no - tra i più famosi - e le prime cantate che ci sono pervenute.

Alcuni dissidi con gli immediati superio-ri lo indussero nel 1708 alle dimissioni e al trasferimento presso la corte di Sassonia-Weimar, in qualità di organista e “musico di camera” (violinista e

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violista). A Weimar continuò la composizione di musiche organistiche, parti-colarmente gradite al duca, ed ebbe modo di studiare le contemporanee mu-siche italiane, trascrivendo concerti di A. Vivaldi, A. e B. Marcello e altri, e copiando di proprio pugno i “Fiori musicali” di G. Frescobaldi . Nello stesso tempo crebbe la sua fama di insuperabile organista e compositore, consacrata dai concerti che tenne nel 1713-17 a Dresda, Halle, Lipsia e in altri centri.

I motivi per cui Bach abbandonò nel 1717 il posto a Weimar, in completa disgrazia presso il Duca (che addirittura lo fece imprigionare, negandogli il congedo), non sono stati ancora definitivamente chiariti. Nello stesso anno assunse la carica di maestro di cappella alla corte riformata del Principe Leo-poldo di Anhalt-Cöthen a Cöthen, con l'incarico di comporre cantate d'occa-sione e musiche concertistiche. Il fatto che la musica sacra non fosse praticata a Cöthen (la corte era di confessione calvinista e perciò ostile all'impiego del-la musica nel culto) gli consentì di dedicarsi con maggiore applicazione alla musica strumentale; a quel periodo risalgono appunto i 6 Concerti Brande-burghesi, le suites e sonate per strumenti soli o accompagnati e soprattutto molta musica per clavicembalo, fra cui spicca il primo volume del Clavicem-balo ben temperato.

Nel 1721, dopo la morte di Maria Barbara, Bach si dedicò moltissimo all’educazione mu-sicale dei numerosi figli, e sposò in seconde nozze la cantante Anna Magdalena Wulcken, figlia di un trombettista locale. Il periodo di Cöthen si concluse nel 1723, quando Bach ac-cettò il posto di Kantor nella chiesa di S. Tom-maso a Lipsia, lasciato vacante da J. Kuhnan.

Pur continuando a mantenere il titolo di Kap-pellmeister a Cöthen, non abbandonò più Lip-sia, anche se dissidi con i suoi superiori laici ed

La Sonata “Patetica” n. 8 in do minore op. 13 “per clavicembalo o piano-forte” fu composta nel 1798-99, ed ebbe il celebre titolo fin dalla prima edizione, in accor-do con Beethoven, anche se non le venne dato da lui.

In realtà di clavicembalistico in questa sonata v’è ben poco: è profondamente pianistica, data la sua drammaticità.

Il titolo vuol indicare il contrasto tra due princi-pi (l’espressione del sentimento sensibile e quello della forza soprasensibile che la registra e le si oppone): è un tema che prelude al roman-ticismo, di profonda soggettività.

La “Patetica” segna il punto più alto della creazione pianistica di Beethoven. Essa divenne subito una delle sue sonate più celebri, e da allora la sua popo-larità non è mai scemata. Il movimento più originale è il primo, nel quale all’Allegro di molto e con brio è anteposto un “Grave”. Haydn e Mozart non avevano mai fatto precedere un primo tempo di sonata da un’introduzione lenta (ma l’avevano fatto in diverse sinfonie). Questo grave possiede una for-tissima carica drammatica fin dalle prime quattro note del tema, nella parte bassa della tastiera: in esso è racchiuso il concetto che domina tutta la sonata. La tensione drammatica sembra non avere mai fine, fino a che la drammatici-tà viene risolta nell’Allegro. L’adagio è in la bemolle maggiore, una tonalità che presenta una grande drammaticità velata da un’apparente serenità. Amo eseguirlo facendo sviluppare il canto nella maniera più semplice possibile. Il terzo tempo, un rondò, così arioso ed elegante, stempera la tragedia e la drammaticità in un perfetto classicismo.

A mio parere l’idea della sonata è “orchestrale”, e mi affascina eseguirla ten-tando di rendere la molteplicità dei timbri di un’orchestra, quasi fosse una sinfonia...

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La “Fantasia Cromatica e fuga” BWV 903 - di cui non conosciamo con esattezza la data di com-posizione - fu composta, pare, nel periodo di Armstad intorno al 1720. E’ un brano meraviglioso, nel quale si riscontrano caratteri simili a quelle forme che, in altre occasioni, Bach chiama “toccate”.

La fantasia è un libero preludiare ritmico ricco di alter-native, varianti e contrasti, che si distende in slanci pie-ni di passione e si contrae in meditazioni pensose. E’ un virtuosismo intriso di canto, con progressioni armo-

niche fluide e quasi inafferrabili, che appena toccano un rapporto tonale già scivolano in un altro. Non si riesce a scindere il fraseggio ed il canto dall’armonia, il senso dell’arpeggiare è quello del colore, di un cromatismo, appunto, che mi fa pensare alla pittura impressionista.

Lo stile evoca tipiche forme della Germania del Nord (Buxtehude) e fa pen-sare alle prime opere organistiche: è virtuosistico, inframmezzato da un reci-tativo molto riflessivo, e si conclude con una specie di liberazione, una puri-ficazione. Per questa ragione eseguo questo finale on espressione minima, per dare il senso di qualcosa di immateriale, una pura idea che svanisce sull’ultimo accordo di re maggiore. La fuga è abbastanza insolita, con un te-ma cromatico. Ma presenta la solita meravigliosa architettura bachiana, che risolve nella razionalità le splendide emozioni suscitate dalla fantasia.

Adoro eseguire questo brano al pianoforte: è interessante sapere che Bach, con ogni probabilità, aveva già avuto modo di provare ed apprezzare questo strumento, inventato da Cristofori nel 1698: mi piace pensare che questa composizione così audace e moderna venga valorizzata ancor più dal croma-tismo timbrico del pianoforte: penso proprio che Bach, oggi, innamorato del suono com’era, e grande innovatore, eseguirebbe questa composizione al pianoforte.

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ecclesiastici gli procurarono non poche amarezze. Compose un gran numero di cantate sacre e le grandi Passioni, ritornando alla musica strumentale solo verso il 1726. Fino al 1740 assunse la direzione del Collegium Musicum uni-versitario, per il quale compose numerose cantate profane e concerti per uno o più cembali, nonché molta musica strumentale di vario genere. Il venten-nio 1730-50 fu occupato dalla composizione della Messa in si minore, dalla soluzione di problemi di contrappunto (secondo volume del Clavicembalo ben temperato, corali organistici della raccolta del 1739 e le Variazioni Gol-dberg).

Nel 1747 il re Federico II di Prussia lo invitò a Potsdam, riservandogli grandi onori e assistendo ammirato alle sue magistrali improvvisazioni (anche sul cosiddetto “Forte e Piano”, il nuovo strumento inventato proprio in quegli anni) . Tornato a Lipsia, Bach riconoscente inviò al sovrano l'Offerta musica-le, rigorosa raccolta di pezzi, elaborata a partire da un tema di fuga (il “Thema regium”) proposto dal re.

Verso il 1749 la salute del compositore cominciò a declinare; la vista si affie-volì sempre più e a nulla valsero le operazioni tentate da un oculista inglese di passaggio a Lipsia, che anzi lo resero completamente cieco. Bach stava det-tando l'Arte della fuga (la sua ultima grande composizione, rimasta incom-piuta) quando fu colto da un colpo apoplettico, sopraggiunto poche ore dopo un prodigioso recupero delle facoltà visive. Morì il 28 luglio 1750.

I. A.

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Ludwig Van Beethoven Beethoven nacque a Bonn il 17 dicembre 1770. Il padre, tenore nella cappel-la dell’Elettore di Colonia Maximilian Franz, ebbe, a quanto pare, più voca-zione all’alcol che alla pedagogia, anche se è a lui e a suoi colleghi che Lu-dwig dovette le prime nozioni di violino, pianoforte e organo. Iniziò ad esibirsi a sette anni, e nel 1784 divenne organista nella cappella di corte. La sua vera guida fu il compositore Christian G. Neefe, che lo introdusse all’opera di Bach e Mo-zart. Grazie a lui Beethoven incontrò il conte Ferdinando von Waldstein e il consigliere di corte Stefan von Breu-ning che lo accolse come un figlio presso la sua famiglia.

Nel 1787, mentre era a Vienna col conte Waldstein, la morte della madre lo ripor-tò a Bonn. A diciassette anni Beethoven doveva provvedere da solo ad un padre alcolizzato, due fratelli più piccoli e la sorellina di un anno. Furono anni du-rissimi in cui solo grazie al sostegno di amici come i Breuning, il dottor Franz Wegeler che fu tra i suoi primi biografi e il conte Waldstein, Beethoven con-tinuò a studiare: nel 1789 era iscritto al corso di filosofia dell’università di Bonn.

La città era da tempo aperta alla cultura illuministica proveniente dalla Fran-cia, e nei salotti della colta e brillante piccola nobiltà bonnense che egli fre-quentava come insegnante di musica si leggeva e si discuteva di Shakespeare e di Klopstock, il poeta del risveglio letterario tedesco, di Schiller e di Goe-the che Beethoven avrà modo di incontrare più di vent’anni dopo, con reci-

di Grottammare, con il “Concerto Barocco in fa maggiore per clavicembalo e orchestra”, sua opera prima, da allora più volte replicata in diversi concerti a Milano, in Conservatorio, e in varie città della Lombardia e del Piemonte.

Stefano Ligoratti si è già esibito a Milano, in Piemonte ed in Lombardia in numerosissimi concerti come organista, clavicembalista, pianista solista, compositore e Direttore dell’Ensemble Perpetuum mobile”.

Ha conseguito diversi premi in concorsi nazionali ed internazionali, tra i qua-li il Concorso internazionale “Giovani Talenti” a San Bartolomeo a Mare, co-me pianista solista, ed il Concorso Nazionale “Il Pianoforte d’oro”, in qualità di pianista accompagnatore per musica da camera. E’ stato premiato alla Ma-nifestazione “La castagna d’or” tenutasi nel luglio 2002 a Castagnole D’Asti, in qualità di giovanissimo compositore. Sempre nel luglio 2002 ha vinto il 3° Premio al Concorso Internazionale di Alice Bel Colle, con la Direzione arti-stica del M° Marlaena Kessick, in qualità di compositore esecutore di propria musica.

Sarà ancora presente al concerto del 10 giugno 2003, che concluderà la sta-gione, esibendosi come compositore, pianista e Direttore con l’”Ensemble Perpetuum mobile”.

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Stefano Ligoratti Nato a Milano nel 1986, frequenta attualmente, presso il Conservatorio “G. Verdi” di Milano, il 6° Anno del Corso di Pianoforte principale nella classe del M° Maria Gloria Ferrari, il 6° Anno del Corso di Organo e Composizio-ne organistica nella classe del M° Ivana Valotti, ed il 4° anno del Corso di Composizione nella classe del M° Paolo Arcà.

Improvvisamente folgorato dalla musica organistica di Bach, ha iniziato priva-tamente lo studio della musica soltanto a 11 anni, iniziando praticamente su-bito a comporre già da autodidatta, ed è stato ammesso al Conservatorio all’età di 13 anni. E’ organista della Chiesa di S. Maria Maggiore di Dorno e della Basilica di S. Lorenzo a Milano.

Ha frequentato Master-classes di Organo con la Prof. I. Vallotti e il Mae-stro M. Radulescu, e Master-classes pianisti-che con la Prof. M. G. Ferrari ed il Maestro R. Risaliti.

Ha frequentato il Corso d i D i r e z i o n e d’Orchestra tenuto dal M° Julius Kalmar per

l’Associazione culturale “Swarowsky”, ed è attualmente allievo del Corso di Direzione d’orchestra tenuto a Milano, nel Teatro San Lorenzo, dal Maestro Herbert Handt, organizzato dalla stessa Associazione.

Ha dato vita all’”Ensemble Perpetuum mobile”, composto da 9 musicisti della stessa età, suoi compagni di Conservatorio, insieme al quale si esibisce come compositore, pianista e Direttore. L’Ensemble ha debuttato in pubbli-

co nel mese di agosto 2000, presso il Festival di Musica Pagina 22 Pagina 7

proca istintiva diffidenza.

Nel novembre 1792, morto il padre, Beethoven si lanciò alla conquista della Vienna del declinante Settecento, sulla quale ancora aleggia lo spirito di Mo-zart e dove il classicismo ha toccato il grado di più alta perfezione, e quindi di saturazione. Fino al 1794 fu caparbio e scontroso allievo del grande Haydn, che già a Bonn aveva lodato i progressi del giovane compositore, poi studiò anche con Johann Schenk, Albrechtsberger e con il vecchio e sempre valido Antonio Salieri. Intanto lavorava conser-vando anche il posto a corte finché, sempre nel 1794, le truppe francesi rovesciarono l’elettorato di Colonia. La carriera di Bee-thoven come concertista e compositore alla moda, già affermato come musicista libero e indipendente, non ne fu scossa. Iniziò ad esi-birsi in pubblico come pianista nel 1795, mentre l’editore Artaria pubblicava i suoi Trii op. 1. Nel 1796 Beethoven affrontò una piccola tournée come pianista fra Norimber-ga, Praga, Dresda e Berlino, cui seguirono brevi spostamenti in Ungheria e in Boemia.

Seguì un periodo di successi , finché verso i trent’anni fu colpito dalla sordità, e si isolò dedicandosi esclusivamente alla musica: è il primo musicista tedesco indipendente, aiutato ma non condizionato dai suoi nobili protettori.

La sordità fu la grande sciagura della vita di Beethoven, la causa del suo desti-no di solitudine e isolamento, nonché del fallimento dei suoi amori. I primi sintomi si manifestarono già nel 1795, costringendolo presto ad abbandonare la carriera di pianista. Beethoven piombò nella disperazione più cupa. Ne resta traccia in alcune lettere e nel "testamento" di Heiligenstadt. Era il 6

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ottobre 1802 quando Beethoven, dal villaggio di campagna dove il medico lo aveva inviato per un periodo di riposo, indirizzò ai fratelli Karl e Johann il suo testamento carico d’umor nero. Fu una svolta: dopo quello scritto Bee-thoven fece della sua malattia una sfida esistenziale. La sofferenza era forte: nei giorni dell’occupazione francese di Vienna, Beethoven restò chiuso nella cantina del fratello con la testa fra i cuscini per proteggersi dal fragore dei cannoni. Dal 1809, dopo che gli era stato offerto un posto di Kapellmeister a Kassel presso Girolamo Bonaparte, iniziò per Beethoven un periodo di stabi-lità economica. Tre fra i suoi amici patrizi gli garantirono, infatti, un vitalizio annuo di 4.000 fiorini, a condizione che egli restasse a Vienna a comporre ciò che gli pareva: uno status che non aveva precedenti nella storia musicale.

Dopo i difficili momenti attraversati dall’Austria, impegnata nelle guerre delle coalizioni antinapoleoniche, nel 1815 l’Europa riprese fiato e medicò le sue feri-te. Nell’euforia del congresso di Vienna la musica di Beethoven venne applaudita e richiesta. Venne considerato il massimo compositore vivente, cui i giovani compo-sitori, come Schubert, sottoponevano e dedicavano le loro composizioni.

La sordità divenne completa nel 1818. Da allora in poi Beethoven avrebbe comunica-to col mondo esterno, fuori dal grande silenzio che lo avvolgeva, scrivendo sui “quaderni di conversazione” (ne restano 137). Nel maggio del 1824 Bee-thoven, del tutto sordo, insisté per dirigere la prima esecuzione della Nona sinfonia, senza accorgersi che nascosto alle sue spalle scandiva il tempo il ve-ro direttore. E non si accorse neppure quando finì la musica: fu uno dei can-tanti ad invitarlo a voltarsi per ricevere l’ovazione del pubblico.

Che il più geniale musicista di tutti i tempi sia divenuto sordo, è uno dei più

Egli disse di sé: “Non c’è nulla che io non sappia esprimere al pianoforte e da espres-sioni differenti posso costituire un intero sistema come un’intima tonalità o un tutto. Mi sembra che il linguaggio musicale abbia possibilità descrittive più efficaci di qua-lunque concetto astratto”. Egli voleva trasformare il mondo per mezzo dell’arte, riportandolo all’unicità originale.

Altra sua fondamentale affermazione (la stessa di Rameau): “non c’è differenza tra armonia e melodia: esse sono una cosa sola”.

Al ritorno da una trionfale tournée in America, nel 1907 venne lanciato a Parigi dal celebre impresario Sergej Djaghilev, e presentò il celebre “Poema dell’estasi”. Parigi era in quel momento piena di musicisti russi e vera e propria culla della musica Divenne amico di Rimskij Korsakov. La moglie di Rimskij sentì Skriabin dire al marito: “sperimenterai tutte le sensazio-ni, le armonie dei suoni, le armonie dei colori, le armonie dei profumi!”. Entrambi i compositori avevano dalla nascita il dono di vedere i colori mentre sentivano le note, ma Rimskij dichiarò di non capire la faccenda dei profumi…

Nel 1909, grazie ad un accordo con l’editore Koussevitzkij, Skrjabin tornò in patria. Ebbe un grande successo con le sue nuove composizioni, trionfali tounées pianistiche, e scrisse il “Prometeo”. Per questa composizione ideò la “tastiera per luce”, che produceva luci cangianti ad ogni nota suonata dal pia-noforte. La sua nuova produzione accentrata sul “mistero” richiedeva l’unione della musica con la danza ed altre arti. Egli pensava melodie che “iniziavano col suono e finivano nel gesto”.

Negli ultimi anni compose ancora diverse Sonate per pianoforte, tra cui la famosa Decima, il suo canto del cigno, e si dedicò al celebre (e incompiuto) “Atto preparatorio”. E fatto, strano, mentre stava scrivendo della morte, la morte arrivò, improvvisa, nel 1915, per un foruncolo forse provocato dalla puntura di un insetto, degenerato in setticemia…

I.A.

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sto periodo.

L’incontro, nel 1894, con l’editore Mitrofan Beljaev, grande mecenate, permise l’inizio della luminosa carriera di Skrjabin e gli consentì di dedicarsi alla composizione senza problemi economici. Senza la guida costante, bene-vola e prudente di Beljaev, la vita di Skrjabin sarebbe stata più disordinata: l’editore lo trattava spesso bruscamente e lo tormentava, chiedendogli sem-pre nuove composizioni, ma senza il suo continuo pungolo oggi avremmo meno musica...

Nel 1897, il matrimonio sbagliato con la pianista Vera Issakovic, che gli creò molti problemi perché fu difficilissimo ottenere il divorzio, anche dopo che aveva iniziato la convivenza con la nuova compagna, Tatjana Feodoro-vna Schloezer (lo Zar legalizzò la loro unione soltanto quando ormai Skria-bin era in punto di morte). Per far fronte agli impegni di famiglia, appena arricchitasi di un figlio, nel 1898 egli accettò una cattedra di pianoforte al Conservatorio di Mosca. Ma la sua natura era insofferente all’insegnamento, che lo infastidiva terribilmente, anche se egli fu docente molto coscienzioso e venne definito “assolutamente eccezionale come Maestro”. Egli scrisse a Beljaev: “Il Conservatorio, naturalmente, interferisce con il mio lavoro, soprattutto perché mi im-pedisce di concentrarmi. Bisogna ascoltare troppa musica di altra gente .”

Insegnò comunque per quattro anni, durante i quali compose una quantità straordinaria di opere. Nel 1902 raggiunse la fama completa cui mirava e a partire dal 1903, data in cui in cui si dimise dal Conservatorio e si trasferì all’estero - in Svizzera e poi a Parigi - compose una eccezionale quantità di musica, tra cui il celebre “Poema Divino”, la Terza Sinfonia. Skrjabin tendeva ora alla sintesi. “Voglio ottenere la massima espressione con mezzi minimi”, diceva spesso. E lo ossessionava un principio: “dalla più grande delicatezza (affinamento), attraverso la forza attiva (volo), alla massima grandiosità”. In base a questo principio, passava da estese partiture a brevi frammenti, quasi delle miniature. Compose alcuni preludi che vennero definiti da un critico “più corti del becco di un passero, più brevi della coda di un orso”.

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amari paradossi di cui la storia abbia intessuto la propria trama. Che l’autore di alcuni dei brani più amati, stampatisi nella memoria di ciascuno di noi al primo ascolto, non abbia potuto godere della bellezza delle proprie note, evoca l’invidia che gli antichi attribuivano agli dei verso la felicità dei morta-li. Che Beethoven sia stato capace di plasmare i propri capolavori nel chiuso della mente, udendoli solo con la forza dell’intelletto e della volontà, spa-ziando da par suo attraverso ogni genere musicale, è il segno non solo del suo incomparabile genio, ma anche della sua eroica determinazione, che gli ha consentito d’affrontare con ineguagliabile forza d’animo la disgrazia che lo colpì, senza privare l’umanità dei suoi doni immortali.

Alla sua morte, il 26 marzo 1827, per una polmonite doppia contratta du-rante un temporale, il suo corteo funebre fu seguito da trentamila persone, fra le quali anche Schubert, che poi volle essere sepolto accanto a lui nel ci-mitero di Währing, da dove le spoglie dei due musicisti furono esumate nel 1888 e traslate nella sezione monumentale del Zentralfriedhof.

Le sonate per pianoforte Beethoven e il pianoforte: un legame indissolubile, il miracolo di un solista che, murato nel silenzio, scrive pagine immortali per lo strumento che non può più nobilitare con le proprie interpretazioni, commuovendo l’uditorio fino alle lacrime. Con lui la scrittura pianistica compie uno straordinario sal-to di qualità: l’insieme delle trentadue sonate rappresenta la spina dorsale della sua produzione, un immenso arco che, per citare Liszt, delinea l’evoluzione dell’autore da adolescente a uomo e da uomo a dio. Ciascuna delle sonate, cui appartengono capolavori come la Patetica, l’Appassionata, Al chiaro di luna e la Tempesta, è un organismo a se stante, autosufficiente, inconfondibile, una tappa del progredire del genio di Beethoven sino alle pagine monumentali e visionarie delle Variazioni su un valzer di Diabelli e degli ultimi quartetti.

I. A.

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Robert Schumann Robert Alexander Schumann nacque a Zwickau, Sassonia, nel 1810. Quin-to e ultimo figlio di August, libraio, editore e scrittore, egli visse in un am-biente favorevole allo sviluppo di interessi letterali e musicali. Iniziò presto gli studi musicali, ma decise di divenire pianista a nove anni, dopo aver ascol-tato un concerto di Moscheles (uno dei più grandi pianisti del tempo).

La sua prima composizione, l’Op. I, a dodici anni, fu il Salmo CL per sopra-no, contralto, pianoforte e orchestra. Durante gli studi liceali si esibì spesso come pianista e compositore, con un gruppo di giovani amici. Negli stessi anni mostrò uguali, se non maggiori, doti letterarie. A tredici anni contribui-va già come autore ad alcune pubblicazioni del padre, scriveva poesie, tradu-

zioni in tedesco di poesie latine raccolte in un volume, e si impegnava attivamente nella fondazione di associazioni studente-sche.

Preso dall' amore della letteratura, fu sul punto di abbandonare la musica, e, per accontentare la madre, conclusi gli studi classici, nel 1828 si recò a Lipsia, dove si iscrisse controvoglia alla facoltà di giuri-sprudenza. La grande ammirazione per Schubert lo spingeva inesorabilmente verso il pianoforte, e il giovane Robert suonava e improvvisava continuamente, pur confessando di non essere “né un pro-fondo conoscitore dell’armonia e del basso continuo, né un contrappuntista, ma pura-mente e semplicemente guidato dall’istinto naturale”.

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Quando entrò al Conservatorio di Mosca, a sedici anni, ebbe come compagni di studio personalità straordinarie, tra cui Sergej Rachmaninov, di un anno più giovane, e Josef Lhevine, il meraviglioso pianista che vinceva tutti i pre-mi del Conservatorio. La competizione tra questi geni musicali era così acce-sa che, a vent’anni, Skrjabin si accanì talmente nello studio che, sforzando troppo la mano destra, ebbe seri problemi e risentì poi per tutta la vita di perdita di volume di suono e di agilità sulla tastiera a causa dei dolori alla ma-no.

Seppe però trarre profitto dalla sua sventura, e si dedicò alla composizione, dando alla luce il suo primo capolavoro, la Prima Sonata, e il famoso “Preludio e Notturno op. 9 per la mano sinistra”. Per molti anni il nome di Skrjabin fu sinonimo di abilità, virtuosismo e bellezza di suono della mano sinistra, addirittura citato come “lo Chopin della mano sinistra” nella pubblicità dei suoi concerti in America.

Si diplomò al Conservatorio nel 1892, ma ricevette solo la “Piccola meda-glia d’oro” (come sua madre). Per la Grande medaglia, che invece ottenne Rachmaninov, gli mancò la menzion d’onore del docente di composizione Anton Arensky, cui resta lo storico e perenne demerito di aver bocciato Skrjabin in tutte le prove di composizione, benché fosse chiaramente il più dotato, ispirato e pronto tra tutti i giovani talenti di allora. Come pianista, basti questa definizione che venne data di lui: “quando suona, dei fiori sbocciano dalla punta delle sue dita”.

Lasciato il Conservatorio, Skrjabin si dedicò a “socializzare”, come diceva lui. Teneva concerti privati nelle case di mecenati, discuteva con gli amici. E be-veva fino all’oblio. Egli voleva l’”ebbrezza” nella musica, ma considerava l’alcolismo come segno “volgare e fisico” di un’estasi spirituale più sublime. Infatti, più il suo mondo spirituale si arricchiva, più diminuiva la sua dipen-denza dall’alcool, finché vi rinunciò del tutto. Iniziarono invece gravi attac-chi nervosi, che lo lasciavano stremato. Ma egli intanto componeva meravi-gliosamente, e i dodici splendidi “Studi” op. 8 appartengono proprio a que-

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Alexander Skrjabin Marina Skrjabina, la figlia di Skrjabin, ci presenta la figura di suo padre scrivendo che egli rappresenta “un tentativo di sfuggire alla mediocrità della vita quotidiana… una tormentata ricerca di vita spirituale assente dal mondo di oggi”. La sua arte “non è spettacolo o divertimento, ma vuole trasformare e sublimare, dare la pienezza e la gioia della vita”. Entro i limiti di spazio e di tempo, Skrjabin vole-va trasformare l’uomo - tutti gli uomini - in un altro universo.

Per presentare la biografia di questo autore partiamo dalla famosa afferma-zione di Georgij Plekanov, l’architetto della Rivoluzione sovietica: “la musi-ca di Skrjabin era il suo tempo espresso in suoni”.

E quale tempo! Alexander Skrjabin nacque a Mosca il 25 dicembre 1871, secondo il nostro calendario, o il 6 gennaio, secondo il calendario ortodos-so. Morì il 14 (o il 27) aprile 1915, quindi alla vigilia della rivoluzione di ot-tobre. Figlio unico di famiglia nobile ma non titolata, rimase orfano di ma-dre (una dotata pianista) all’età di un anno e venne affidato ad una zia, Lju-bov, che l’adorava e lo allevò, secondo la definizione dello stesso Skrjabin, come “un bambino di vetro”.

Nessuno della sua famiglia, soprattutto il padre, rigido ufficiale dell’esercito perennemente all’estero, capì mai molto della figura di Skrjabin come com-positore, né delle “cattedrali di suono”, come ancora oggi i russi chiamano la sua musica, né, ancor meno, delle sue idee.

Il suo talento musicale fu precocissimo. A tre anni pregò di potersi sedere al pianoforte, a cinque sapeva già suonare dei motivi “in modo delicato e carez-zevole”. A otto compose la sua prima opera. Iniziò seriamente lo studio della composizione a dodici anni, con Sergej Taneev e contemporaneamente stu-diò da cadetto dell’esercito, intrattenendo spesso i suoi compagni con con-certi al pianoforte e proprie composizioni. Divenne anche allievo prediletto del famoso pianista e docente Zverev.

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Iniziò un corso di studi pianistici con il famoso insegnante Frie-drich Wieck e ne conobbe dunque la figlia Clara, che allora aveva nove anni, ed era già una pianista prodigio. Ella in seguito divenne sua moglie, gli diede ben otto figli e fu la sensibile interprete della sua opera pianistica.

In quel momento della sua vita Schumann era più interessato all’esecuzione pianistica che alla composizione, anche se continuava a scrivere e a pubblicare diverse opere, sia per pianoforte, che per orchestra. A questo periodo risal-gono infatti gli abbozzi delle prime sinfonie. Dal 1829 tentò disperata-mente di convincere la madre a permettergli di abbandonare la giurisprudenza per dedicarsi interamente alla musica, ed ella gli concesse “un periodo di prova di sei mesi” (!).

Ottenuto finalmente il permesso di lasciare l’università per la musica, nel 1830 si affermò come pianista, eseguendo le “Alexandervariationen” di quel Moscheles che aveva suscitato i suoi primi entusiasmi.

Nel 1831 scrive un romanzo, in cui per la prima volta appaiono due perso-naggi: Florestan l’improvvisatore (in cui l’autore rappresenta se stesso) ed Eusebius, in cui egli raffigura l’altra parte di sé. Nello stesso periodo fu il primo critico musicale a scoprire il genio del suo coetaneo Chopin, quando rimase letteralmente folgorato dalla di lui Op. 2, le “Variazioni su Là ci darem

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la mano” di Mozart.

Purtroppo nel 1832 iniziarono i suoi gravi problemi alle dita della mano de-stra, sembra per aver utilizzato un apparecchio che avrebbe dovuto servire a migliorarne la tecnica, anche se pare possa essersi trattato di un avvelena-mento da mercurio, il farmaco allora usato per curare la sifilide, che Robert contrasse in quegli anni.

Nel 1835 si fidanzò con Clara, che allora aveva quindici anni, venendo aspramente avversato dal padre di lei, soprattutto per-ché Schumann non dava, secondo Wieck, sufficienti garanzie di garantire alla figlia la sicurezza economica.

Attraversò quindi anni di grande sofferenza per questo amore contrastato e dovette ricorrere al tribunale per ottenere il per-messo di sposarla, cosa che avvenne final-mente nel 1840.

Svanite le speranze di fare il concertista, Schumann si dedicò completamente alla

composizione e all'attività di critico musicale. Nel 1833 fondò la "Neue Zei-tschrift fur Müsik (Nuova rivista musicale)” che egli stesso diresse e po-lemicamente redasse. Gli attacchi di Schumann ai 'filistei' della musica diven-nero un manifesto per la nuova generazione musicale. La lotta fra Davide e i Filistei non è finita; una lotta tra coloro che vogliono mantenere una legge per difendere i propri privilegi o per sottrarsi a prove nuove; la lotta tra tra-dizione e liberazione, fra cecità e sete temeraria di vedere sempre oltre. Per Schumann i bersagli più urgenti da colpire sono: le opere (e quindi i compo-sitori) che concepiscono l'arte come un divertimento, o la produzione con-certistica a base di puro virtuosismo. Questi i motivi di fondo che spinsero

in Scozia (le isole Ebridi gli ispirarono l’ouverture: La grotta di Fingal), in Italia (la Sinfonia n. 4 italiana), a Parigi. L’orchestra sinfonica del Gewan-dhaus di Lipsia lo nominò Direttore; eseguendo Mozart, Haydn, Weber, Beethoven, Schubert ed altri grandi, Mendelssohn si collocò tra i primi illu-stri nomi della direzione d’orchestra moderna.

Mendelssohn elevò molto la cultura musicale di Lipsia, e fu proprio lui a fon-dare il Conservatorio di Lipsia nel 1843. Il musicista fu amico di Schu-mann e di Liszt, mentre i rapporti con Wagner furono improntati anche ad una certa rivalità. Alle Sinfonie si aggiunse un altro capolavoro, ancora oggi eseguitissimo, il Concerto per violino e orchestra in mi minore.

La musica di Mendelssohn si impose come esempio di grande nitidezza, in cui l’ispirazione romantica si stemperava in un equilibrio d’invidiabile classi-cità, pur in forme nuove ed originali, come nelle sei Sonate per organo. Grandiose linee ebbero gli oratori Paulus ed Helias; gli otto volumi di Lieder ohne Worte (Romanze senza parole), con le loro brevi, deliziose pagine. La sua arte fu splendido connubio di cultura e creatività, in coerenza con l’estetica della personalità romantica, senza che però intaccare la concezione musicale. Mendelssohn, infatti, non era favorevole alla musica "a program-ma", cara a Berlioz e a Liszt; la sua voleva essere - asseriva lui stesso - una musica "musicale".

Un male forse ereditario - l’ictus cerebrale che stroncò l’amatissima sorella Fanny nel 1847 - appena cinque mesi dopo uccise anche lui, a soli 38 anni: era il 4 novembre del 1947. Le cause della sua prematura scomparsa vanno ricercate anche nel grande stress cui si sottopose per le molteplici attività artistiche, amministrative e pedagogiche.

Mendelssohn ci ha lasciato un gran numero di lavori di elegantissima e leviga-ta fattura, che esprimono a meraviglia il carattere affabile e la sensibilità raffi-nata del loro autore. La sua influenza sulla musica europea fu profonda, lun-ga e durevole: oltre tutto, gli siamo anche debitori della riscoperta di Bach.

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Intanto si rivelavano le straordinarie doti di Felix compositore. Il ragazzo aveva composto tra il 1821 ed il 1823 dodici Sinfonie per archi (l’undicesima anche con strumenti a percussione), Concerti per violino ed archi, per due pianoforti, per pianoforte e violino.

Resosi conto dello straordinario talento del figlio, il padre rinunciò a farne un uomo d’affari, tanto più dopo che Luigi Cherubini, allora direttore del Conservatorio di Parigi e autorità musicale di fama europea, diede un giudi-zio positivo sul ragazzo. Nel 1825, a soli sedici anni, Felix compose l’Ottetto per doppio quartetto d’archi, autentico capolavoro divenuto cele-bre e l’anno successivo l’Ouverture per il Sogno di una notte di mez-za estate, altro capolavoro; sedici anni dopo l’avrebbe inserita tra le musi-che di scena per l’omonima commedia shakesperiana, che comprendono la celeberrima Marcia nuziale.

La carriera di Felix Mendelssohn proseguì fulminea e versatile, con giovanile freschezza, ammirevole sa-pienza e grande fervore di attività, tipico dell’educazione israelitico-puritana. Con la sua musi-ca non solo raggiunse presto fama mondiale in qualità di compositore, ma riuscì anche a realizzare piena-mente quella la più grande ambizione della sua vita (ed un eterno merito storico): richiamare l’attenzione dell’ambiente musicale, allora piuttosto negligente, sulle opere, da troppo tempo cadute nell’oblio, di Johann Sebastian Bach. Nel 1829, con l’attore Eduard Devrient, Mendelssohn organiz-

zò la riscoperta della Passione secondo San Matteo di Bach e la diresse inversione ridotta e ritoccata nella strumentazione, ma meglio adatta a esse-re assimilata dal gusto di allora; l’esito fu trionfale e diede via alla graduale rinascita bachiana.

Viaggiò molto all’estero per istruzione e tournées musicali: fu in Inghilterra,

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Schumann a condannare, tra gli altri, il melodramma italiano, visto come una musica frivola e diabolica, perché il pubblico è reso schiavo da effetti sonori (composizioni da saloon e da concerto) e non da un'idea di fondo.

Schumann portò sempre avanti nelle composizioni non solo una forma musi-cale ma anche e soprattutto un'idea. Un esempio si può trovare nella prefa-zione dell'op. 68, dove egli ammonisce di suonare sempre con l'anima e do-ve afferma che sono le leggi della morale che reggono l'arte.

Egli fu un musicista poeta, il romantico per eccellenza. La sua arte fu diversa da quella di chi non tenta di spiegare cose grandi e vi gira intorno con una grazia elegante, che sfiora e non penetra.

La musica di Schumann sprigiona una poetica profonda e drammatica, e-spressa in armonie di grande intensità espressiva, con andamenti (catene di ritardi o scambi di tonalità lontane) che portano l'eccesso passionale a piegar-si alla propria interiorizzazione.

Il suo pensiero poetico si espresse compiutamente soprattutto attraverso il pianoforte. Ma notevole è anche la musica da camera. L'opera sinfonica com-prende quattro sinfonie, quattro ouvertures da concerto ed il famoso concer-to in la minore per pianoforte ed orchestra.

Schumann si spense nel 1856 ad Endenich, Bonn, dopo lunga e penosa malat-tia e l’internamento in manicomio. La malattia mentale che lo tormentò ne-gli ultimi anni fu dovuta, pare, ai farmaci (soprattutto al mercurio) utilizzati dai medici per curarlo in gioventù.

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Felix Mendelssohn A differenza di molti altri grandi compositori, Felix Mendelssohn fu, come il suo nome di battesimo sembrava augurargli e presagire, estremamente fortu-nato e felice durante l’intero corso della vita.

"Prima ero figlio di un padre, adesso sono padre di un figlio": è una celebre frase di Abraham Mendelssohn, figlio del celebre filosofo Moses e padre del già celebre, grande compositore Felix.

Il musicista nacque ad Amburgo il 3 febbraio del 1809 da una famiglia ebrea di agiate condizioni finanziarie e di elevata estrazione, sia a livello e-conomico che intellettuale. La madre, Lea detta Lilla, era una Salomon, una famiglia ebraica come i Mendelssohn, ed era nipote del grande banchie-re Daniel Itzig, pure israelita.

In Germania non erano ancora state promulgate leggi che consentivano l’emancipazione degli e-brei: ma in ogni caso, le attività finanziarie ben avviate e i parenti banchieri favorirono non poco l’agiatezza della sua fami-glia.

Per Felix Mendelssohn, il fratello Paul e le sorelle Fanny e Rebecca, l’infanzia e la prima adolescenza trascorsero nella lettura dei poemi omerici in greco e di altri capolavori della letteratura tedesca ed europea, sotto la guida di ottimi precettori. Negli Stati tedeschi, infatti, a quell’epoca agli e-brei era ancora vietato frequentare le scuole pubbliche. Per Felix, come per le sorelle Fanny e Rebekka e per il fratello Paul, ci furono quindi dei precet-tori privati, adatti ai figli di Lea, che leggeva i poemi omerici in greco; non per nulla Felix, ben istruito dal professor Heyse, che trattava la filologia clas-sica con vivacità, si divertì a scrivere un poemetto satirico in greco sulle ba-ruffe dei ragazzi.

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Felix sin dalla giovane età venne così educato alla cultura umanistica, circon-dato dalla musica e dalle arti più raffinate, vivendo sempre in un ambiente lontano dalle preoccupazioni, che attanagliarono invece musicisti - a lui con-temporanei o quasi - economicamente meno fortunati (si pensi, tra gli altri, a Beethoven, Schubert e Schumann). Ma il piccolo Felix era anche buono, se-rio e studioso: lavorava sodo nell’applicarsi alle materie predilette: ogni mat-tina alle cinque si alzava e iniziava la sua laboriosa giornata dedicata allo stu-dio del pianoforte, del violino, del disegno e delle lingue straniere.

A dodici anni aveva al suo attivo varie graziose composizioni nelle forme più diverse. In seguito i Mendelssohn si trasferirono a Berlino, loro città d’origine; così, dopo i primi insegnanti (Berger, allievo di Clementi, per il pianoforte e Henning e Rietz per violino e viola), Felix ebbe per maestro Karl Friedrich Zelter, un solido musicista: suo grande merito storico è quello di aver fatto conoscere, amare e studiare al suo allievo il Clavicemba-lo ben temperato di Bach.

Zelter era il consulente musicale di Wolfgang Goethe, così, quando il do-dicenne Felix ebbe dimostrato largamente le sue doti eccezionali di precoce musicista, Zelter lo condusse a Weimar e lo fece incontrare con Goethe, che aveva allora 72 anni ed era uno dei massimi scrittori europei dell’epoca e di tutti i tempi. E il grande vecchio onorò subito il piccolo genio della sua sin-cera amicizia. In quel periodo la figura di Goethe giganteggiava con la sua esemplare universalità di esperienze e di opere, che andavano dalla poesia alla scienza, nella sintesi di una visione nata dalle fiamme della Sturm und Drang e divenuta classicamente olimpica; in quella cultura si univano la ri-scoperta di Shakespeare e quella dei classici greci, la ricerca dei filosofi dopo Kant, i germogli del nascente Romanticismo.

Intorno al 1819 vi fu una recrudescenza dell’antisemitismo. Per superare il momento difficile, la famiglia adottò il secondo cognome Bartholdy, da un parente battezzato e tutti i Mendelssohn vennero battezzati essi stessi, dive-nendo cristiani protestanti.