Progetto grafico: Lorenzo Pacini · Niente, nessuna risposta. Era accaduto, punto e basta. Un...

420

Transcript of Progetto grafico: Lorenzo Pacini · Niente, nessuna risposta. Era accaduto, punto e basta. Un...

Illustrazione di copertina: Franco RivolliProgetto grafico: Lorenzo PaciniImpaginazione: Giovanni Bartoli

www.giunti.it

© 2007 Giunti Editore S.p.A.Via Bolognese 165 - 50139 Firenze - ItaliaVia Dante 4 - 20121 Milano - ItaliaPrima edizione: ottobre 2007Ristampa Anno6 5 4 3 2 1 0 2011 2010 2009 2008 2007Stampato presso Giunti Industrie Grafiche S.p.A. - Stabilimento di Prato

Cecilia Randall

HYPERVERSUMIL FALCO E IL LEONE

Romanzo

Ai miei genitori ,a Lorenzo,con tutto il cuore.

Capitolo 1Daniel si scostò con la mano i capelli biondi e si voltò. «Sei pronto?» domandò

piano. Seduto sulla poltrona imbottita dall'altro lato della camera da letto, vicino al computer, Ian Maayrkas alzò la testa e annuì.

«Prontissimo» rispose, senza esitare. Nei suoi occhi azzurri si rifletteva la stessa agitazione dell'amico, ma erano molto più evidenti l'ansia e il desiderio di cominciare. Sulla scrivania, lo schermo del computer mostrava una scritta luminosa.

«Non è detto che funzioni, lo sai» ammonì Daniel. «Io ci ho provato in continuazione in tutto questo tempo e non è mai accaduto niente».

«Questa volta funzionerà» rispose Ian, asciutto. «Deve funzionare per forza, prima o poi» aggiunse, quasi parlando a se stesso, eppure nella sua voce c'era una nota di timore.

Daniel lo scrutò senza farsi notare troppo, mentre andava a sedersi davanti al computer.

Hyperversum era un simulatore di avventure storiche virtuali e consentiva ai giocatori di trovarsi in qualsiasi periodo passato semplicemente con l'aiuto di un visore 3D, cuffie, e guanti in fibra ottica. All'inizio anche Daniel si era divertito a immaginarsi un ladro del XIII secolo... finché, un , il videogioco non l'aveva catapultato nel Medioevo vero alla sua ragazza Jodie, a Martin e a tre amici, Ian , Donna Barrat e Carl White: tutti quelli che in quel momento stavano giocando con lui alla stessa partita. Com'era potuto succedere?

Nessuno lo aveva scoperto.Dopo la laurea, Daniel era persino diventato ricercatore al Laboratorio Nazionale di

Fisica Elettromagnetica e, dalla ime quell'assurda avventura, due anni e mezzo prima, non aveva mai smesso di giocare, sperando di capire come e perché Hyperversum avesse trasportati indietro di otto secoli.

Niente, nessuna risposta.Era accaduto, punto e basta.Un prodigio. Un miracolo. Magia.Senza possibili spiegazioni logiche o scientifiche.Di sicuro non era stata un'allucinazione collettiva, poiché erano rimasti segni tangibili

di quanto era successo.Ian era rimasto più toccato di tutti da quell'avventura, e non solo nell'anima. Portava

addosso i segni delle frustate che un cavaliere inglese, Jerome Derangale, gli aveva fatto impartire per pura crudeltà, aveva cicatrici che si era procurato in battaglia. Eppure lui, come anche l'amica Donna, aveva scelto di rimanere nel passato. Una scelta che, inconsapevolmente, gli era stata negata dallo stesso nemico che l'aveva marchiato con la frusta.

Fin dall'inizio Ian si era integrato meglio di tutti gli altri nel mondo medievale perché, laureato in storia, ne conosceva bene gli usi e i costumi e perché, dimostrando il coraggio di un vero cavaliere, aveva saputo guadagnarsi la stima dei signori di

quell'epoca.Il potente conte francese Guillaume de Ponthieu, signore di Piccardia e fedelissimo di

re Filippo Augusto, l'aveva presentato a corte come suo fratello, complice il fatto che Ian parlasse un francese perfetto, e gli aveva dato in moglie la donna di cui Ian si era perdutamente innamorato: dama Isabeau de Montmayeur.

Per tutti Ian era diventato così il conte cadetto Jean Marc de Ponthieu, il cavaliere del Falco d'argento, e avrebbe potuto vivere la sua vita serenamente accanto alla sua sposa... se solo il suo nemico, prima di morire in battaglia, non avesse dato l'ordine di assassinarlo.

Ferito quasi a morte, in un modo che nessun medico del Medioevo avrebbe mai potuto curare, Ian era stato trascinato Daniel fuori da Hyperversum, mondo contemporaneo, là dove un'operazione chirurgica d'emergenza gli aveva salvato vita. Ma una volta interrotta la partita incredibile che aveva tutti nel Medioevo e li aveva riportati a casa, Hyperversum funzionato sempre e solo come un normale . Non c'era stato più modo di rifare il salto nel , di ripetere il prodigio.

Ian era rimasto intrappolato nel ventunesimo secolo, separato per sempre dalla sua amata Isabeau.

Almeno questo era ciò che avevano creduto tutti fino a tre giorni prima.Daniel si infilò i guanti dopo aver indossato il visore 3D. «Da dove cominciamo?»

domandò a Ian, che si stava a sua volta preparando.«Da dove ci siamo interrotti. Dal monastero di Saint Michel, la sera dell'agguato»

rispose l'amico.Daniel digitò luogo e data nei parametri della nuova partita che stava per iniziare. Sul

video e nei visori apparve una scheda luminosa con numeri e parole:

«Come faccio a sapere l'ora giusta?» domandò Daniel, nervosamente. «Allora non avevamo gli orologi per misurarla, adesso potremmo sbagliarci a ricordarla».

La risposta di Ian gli arrivò in parte anche attraverso le cuffie del visore.«Erano già trascorsi i vespri, si stava facendo buio, non poteva essere prima delle

ventidue, in quella zona della Francia in piena estate. Ho fatto ricerche su internet».«E se invece arriviamo là troppo presto? Sai, le solite storie da fantascienza del

viaggio nel tempo: ammettiamo che il passaggio funzioni davvero ma che torniamo indietro al momento sbagliato, incontriamo noi stessi senza volerlo, ci roviniamo la vita e cose simili...»

«Vuoi deciderti a cominciare?» sbuffò Ian. «Non ci succederà niente del genere. Ho già tenuto mezz'ora di margine di sicurezza. E se invece il passaggio non funziona, ime dei problemi».

Daniel rinunciò a obiettare oltre, sentendo il tono dell'amico che saliva per l'impazienza. «Carica parametri partita» ordinò al computer.

Un ronzio più intenso segnalò che la macchina stava facendo girare il CD su cui Ian aveva impostato e salvato lo scenario, basandosi sui ricordi che gli erano rimasti del

Medioevo e sulle sue conoscenze storiche.E Ian di conoscenze e ricordi ne aveva tanti, ma, cosa più importante, aveva una

certezza.Diventato un acclamato medievalista e professore universitario, benché solo

trentenne, aveva trovato solo allora il coraggio per cercare notizie su chi si era lasciato alle spalle, per indagare nelle cronache storiche cosa ne fosse stato di sua moglie Isabeau, e aveva fatto una scoperta sorprendente. Isabeau era incinta quando l'aveva lasciata e avrebbe in seguito partorito un figlio maschio, ma non solo: pochissimi anni dopo avrebbe avuto da suo marito anche un secondo figlio. I ritratti di Marc e Michel de Ponthieu erano riprodotti sulle pagine di un prezioso codice miniato e la somiglianza di entrambi con il padre era tale da non lasciare adito a dubbi.

Così Ian aveva avuto la certezza che in qualche modo sarebbe tornato al suo castello e aveva deciso di ricominciare a Hyperversum.

Quella che stava per iniziare era la sua prima partita.Il visore s'illuminò con un contatore alla rovescia.«Hai letto qualche altra informazione su quel tuo libro?» domandò Daniel, mentre i

numeri del contatore calavano in fretta. «Mi sentirei meglio se avessi la conferma che il tuo ritorno a casa è descritto in quel codice esattamente come lo stiamo progettando».

Ian si liberò i lunghi capelli neri legati a coda di cavallo per mettere l'elastico in tasca. «Non voglio più riaprire quel libro, te l'ho già detto. Non voglio sapere in anticipo il mio futuro più di quanto non lo sappia già. È innaturale».

«Se non avessi già scoperto parte del tuo futuro, non avresti mai saputo di poter tornare indietro e ora non saresti qui a giocare».

«Daniel, per favore. fa paura, d'accordo? Le cronache non sono come le nostre registrazioni all'anagrafe. vanno sempre in ordine cronologico esatto e non mettono date e nomi, ma anche descrizioni e dettagli. Non voglio per sbaglio qualcosa che non voglio sapere».

«Ma...»«Il mio ritorno non può essere più semplice di così: riprendiamo da dove abbiamo

lasciato, fingeremo che i sicari non mi abbiano ferito così gravemente come sembrava e tutto sarà a posto. Mi procurerò una nuova ferita quando sarò di là e così la storia sarà credibile».

Daniel rabbrividì all'idea, «Davvero ne sarai capace?»«Per riabbracciare Isabeau sarei capace di qualsiasi cosa» rispose Ian con decisione

assoluta.Il contatore finì e scomparve.«Carica personaggi» ordinò ancora Daniel facendo ricomparire un altro countdown.

«Sicuro che la nostra idea per giustificare la sparizione di Jodie, Martin e Carl funzioni?» domandò nel frattempo.

«I sicari hanno appiccato il fuoco al monastero per coprirsi la fuga, no? Ci sarà il caos e tutti saranno in ansia per me. In tutta quella confusione, tu forgerai di portare via gli altri, verso un posto più sicuro, poi ti dileguerai. Al buio, con gente che corre in ogni direzione, nessuno si renderà conto dell'inganno. A confondere le tracce penserò io».

Poi ti dileguerai. Ecco la parte triste di quell'avventura stava per cominciare. Daniel sentì un peso crescere nel petto: se tutto funzionava, avrebbe accompagnato Ian nel Meper poi lasciarlo là, da solo. E da solo sarebbe poi tornato a casa.

«E quando la notizia della tua mancata morte si diffonderà, non pensi che gli Inglesi possano riprovarci?» chiese.

«Prenderò le mie precauzioni, ma comunque Jerome Derangale ormai è morto, non credo che i sicari tentino una seconda volta di loro iniziativa».

«Se lo dici tu...»I visori divennero bui, poi fecero apparire la scritta:

In sottofondo rimase una musica medievale, un po' troppo forte.Daniel abbassò il volume con fastidio, ma poi esitò a continuare. «Come spiegherò la

tua sparizione ai miei? A questo non abbiamo ancora pensato».Ian tacque a lungo. Da quando aveva sedici anni era diventato parte integrante della

famiglia di Daniel e la sua scomparsa improvvisa sarebbe stata un vero trauma per i coniugi Freeland, ancora all'oscuro di quanto era accaduto due armi e mezzo prima.

«Non sappiamo se funzionerà oggi o domani o tra mille partite... non sapevo come preparare il terreno per la mia par» si giustificò infine Ian con dolore. «Se davvero Hyperversum , se passiamo di là ora, al tuo ritorno potrai che sono partito per la Francia improvvisamente per motivi accademici, ma poi...» S'interruppe e tacque, non sapendo altro dire.

«Poi mi inventerò qualcosa» concluse Daniel, per tagliare quell'argomento che lo metteva a disagio. «Papà diventerà una belva e mamma... be', non voglio pensarci. Almeno hai già salutato Jodie e Martin. Loro sono preparati a ciò che accadrà».

Ci fu ancora silenzio per un po'.«In alternativa, potremmo ancora tentare di spiegare la ve rità» disse Daniel, ma si

vedeva che non era convinto di ciò che diceva.Ian scosse la testa. «Ne abbiamo già parlato: come facciamo a spiegare senza troppi

clamori una cosa del genere? Fintanto che il gioco non funziona, nessuno ci crederà mai e se invece dovesse funzionare... tuo padre vorrebbe di sicuro indagare fino in fondo, capire cosa e come succede, chiedere a scienziati ed esperti. E un colonnello dell'esercito, so come ragiona e lo sai anche tu. Non voglio rischiare che questa cosa finisca nelle mani dei militari. Le conseguenze potrebbero essere inimmaginabili e anche la tua vita ne uscirebbe sconvolta. Preferisco non spiegare niente, assumermi la responsabilità di fare la figura dell'ingrato con i tuoi genitori, partire senza salutare e non farmi più vivo».

L'ultima frase lasciò un silenzio ancora più profondo, unito a un grande dolore.«Ci salutiamo per sempre, allora» disse Daniel.«Non è detto che il passaggio funzioni solo una volta e basta. Forse potrai sbloccarlo

di nuovo in futuro» buttò li Ian, quasi sottovoce.Daniel scosse la testa, amaro. «Quando giocavo da solo non ha mai funzionato. Se

adesso funziona davvero, allora sei tu la chiave di tutto e se tu rimani di là non potrai aiutarmi mai più».

Ian abbassò la testa e non aggiunse altro per un bel pezzo. «Voglio tornare a casa, Daniel» sussurrò alla fine.

L'amico allungò la mano verso di lui per stringergli il braccio fraternamente. «Start»

ordinò poi al computer.Le scritte scomparvero dai visori per lasciare il posto a un'immagine accurata prima

della Terra, poi dell'Europa e infine della Francia.Come arrivando in volo, il campo visivo dei due giocatori si restrinse sempre più fino

a centrarsi su una zona di boschi e prati verdi, nel mezzo della quale si estendeva un piccolo agglomerato di edifici bassi ma inconfondibili. Una cinta di mura in mattoni, una chiesa, un chiostro, un refettorio, la biblioteca, i dormitori... Un monastero isolato tra i boschi, illuminato da una luce irregolare e sinistra, diversa da quella ormai fioca del sole tramontato.

Il visore si spense qualche secondo per lasciare apparire un'ultima scritta:

Un contatore del tempo cominciò a scorrere minuti e secondi.Con il cuore che accelerava, Daniel non fece quasi caso alle scritte che sparivano.

Appuntò subito la sua attenzione sulla scena che invece il visore gli mise davanti: uno spiazzo deserto e semibuio, circondato di edifici bassi, umili, costruiti in legno e pietra.

Daniel rimase immobile, rigido, temendo anche solo di fare un respiro di troppo.Non riconosceva il posto, doveva essere un angolo del monastero che non aveva mai

visto, oppure un'invenzione del computer.Benché ricostruito con la massima perfezione, tutto aveva la leggera patina di

artificiosità dei paesaggi digitali.Non è successo niente, pensò Daniel con un sentimento indi delusione e sollievo, ma

solo a fatica cominciò rilassarsi. Si guardò addosso attraverso il visore e vide che il simulava sul suo personaggio abiti identici a quelli davvero indossava il giorno dell'agguato al monastero: una scura, brache chiare, stivaletti di camoscio. Hyperversum averli ricavati dai parametri dello scenario che aveva ricostruito con la massima attenzione, eppure anche era solo un'illusione ottica. Sulle mani Daniel sentiva ancora chiaramente i guanti in fibra ottica e i sensi gli dicevano che stava in posizione seduta, sulla sedia davanti al computer, non in piedi come il gioco stava simulando.

«Non funziona. È solo un'altra partita» disse infine il giovane, ad alta voce, mentre ancora si guardava le mani. Nelle cuffie gli arrivò solo un suono ovattato di sottofondo.

Il volume, ricordò Daniel e azionò il comando per ripristinare il sonoro della partita.Il suono stavolta gli rimbombò nelle orecchie e lo fece sobbalzare, tanto aveva i nervi

tesi. Daniel imprecò solo a metà, perché di colpo provò una violenta vertigine. Il peso del corpo gravò sulle gambe all'improvviso e gli fece perdere l'equilibrio.

Emettendo un'esclamazione di sorpresa, il giovane si ritrovò a terra con la faccia nella polvere.

Il contatto con quella superficie ruvida lo fece tossire e allo stesso tempo fu come una scarica elettrica.

Daniel si risollevò subito in ginocchio, spaventato, incredulo, eppure conscio di ciò che era appena accaduto.

Si toccò le mani, il viso, gli abiti. Il visore non c'era più, i guanti spariti...Tutto come quel giorno... si disse Daniel mentre un brivido lento gli percorreva la

schiena. Solo che stavolta Hyperversum impiegato meno di cinque minuti per train una

porta verso il passato.Ian chiamò in quel momento, con la voce scossa per l'emozione.Daniel girò su se stesso e vide l'amico seduto a terra a poca distanza da lui, con il

volto pallido e gli occhi dilatati in cui si specchiava una folla di sentimenti inesprimibili.Anche Iail indossava abiti medievali, ma leggermente più aristocratici di quelli di

Daniel: gli abiti scuri del conte Jean Marc de Ponthieu, il Falco d'argento, ricostruiti dal computer ma diventati più realistici.

Molto realistici: la tunica blu era lacerata sul ventre, poco al di sopra della cintura.Daniel si sentì gelare.Ian si accorse infine del suo sguardo e si guardò addosso. D'istinto toccò lo strappo

sulla tunica esattamente là dove il pugnale dei sicari lo aveva raggiunto due anni e mezzo prima, ma quando ritirò la mano non c'era sangue.

Daniel si trovò a sospirare di sollievo. Che idiota, rimò nel frattempo, per essersi tanto spaventato. Ovvio che non è ferito. Sono passati due anni e mezzo...

Attraverso lo choc, si fece infine strada il rumore che risuonava ovunque. Daniel e Ian si voltarono contemporaneamente verso l'altra estremità dello spiazzo, là dove gli edifici si separavano per lasciar intravedere il resto del cortile e del monastero.

Davanti a loro si stagliavano le fiamme rosse dell'incendio contro il cielo nero della notte ormai prossima.

Capitolo 2Il monastero di Saint Michel bruciava, sollevando turbini di fumo, cenere e scintille. Il

legno dei tetti gemeva e si spaccava per il rogo con un rumore agghiacciante che si me scolava alle grida disperate dei monaci e dei servi, provenienti da ogni direzione. Le campane lanciavano richiami d'allarme nella notte.

Ian e Daniel rimasero impietriti, a guardare col cuore in gola il complesso del monastero che veniva divorato dall'incendio. In controluce correvano le sagome nere di tutti quelli che si affannavano invano per domare il fuoco gettando acqua, schiacciando le fiamme con fascine e scope, allontanando drappi, arredi e tutto ciò che poteva essere infiammabile.

Il vento portava ovunque l'odore acre del fumo, in una scena da girone infernale.«Oh, Signore...» mormorò Ian con sgomento.Era sconvolto, aveva il respiro accelerato per la violenta emozione. Dopo così tanto

tempo era di nuovo lì, nel Medioevo, ad assistere al finale del giorno in cui sarebbe dovuto morire.

Fino ad allora aveva considerato quel giorno come il mo mento in cui tutto era finito.Adesso in quello stesso giorno tutto ricominciava. Jean Marc de Ponthieu stava per

tornare a casa.Anche Daniel taceva impressionato. «Ha funzionato...» mormorò alla fine. «Ha

funzionato davvero...»Lentamente si alzò e indietreggiò fino a nascondersi nel l'ombra che il tetto spiovente

gettava sul muro di una stalla. Ian lo imitò, ancora troppo stordito per poter fare altro.Era una cosa incredibile, inverosimile, eppure il muro dietro le loro spalle era

tangibile, il fumo intenso irritava i polmoni e lasciava un gusto aspro in bocca.Quello intorno a loro era un mondo vero e non più una partita.«Non è giusto» protestò Daniel a mezza voce. «Io ho provato e riprovato a giocare per

un'infinità di volte e non è mai successo niente. Adesso invece arrivi tu...»Non completò la frase perché gli mancarono le parole. Scosse la testa. «Non c'è una

sola spiegazione fisica, logica o plausibile per tutto questo» mugugnò.Si voltò, sentendo Ian tacere, e vide che l'amico manteneva lo sguardo rivolto alle

fiamme dell'incendio, quasi ne fosse ipnotizzato. «Dobbiamo toglierci di qui» gli sussurrò alla fine.

Ian annuì meccanicamente.Un movimento vicino, diverso dagli altri, attirò la loro attenzione e li fece trasalire. Si

appiattirono nel buio e trattennero il fiato.Tre monaci stavano fuggendo dall'incendio, gli unici apparentemente incuranti di ciò

che accadeva intorno a loro. Ian e Daniel videro i tre sbarazzarsi rapidamente del saio e rivelare gli abiti scuri che portavano sotto. Sui loro fianchi brillarono le fibbie metalliche delle cinture in cui erano infilati i pugnali. Si guardavano le spalle di tanto in tanto, mentre si allontanavano in fretta, inosservati in tanta confusione.

Ian si riscosse di colpo. «Eccoli, i bastardi!» ringhiò, serrando i pugni.Li aveva riconosciuti subito. Stavano abbandonando il campo, certi di aver compiuto

la loro missione. Erano i sicari che avevano tentato di assassinarlo, che l'avevano pugnalato sotto gli occhi di Isabeau e costretto per due anni e mezzo a una vita in esilio.

Due anni e mezzo consumati giorno dopo giorno, cercando un motivo per andare avanti quando credeva di aver perso tutto per sempre.

La rabbia cancellò di colpo ogni altro sentimento, compresa la prudenza.Adesso ve la faccio pagare, pensò Ian di getto e fece un avanti. Il Falco d'argento era

risorto e quei maledetti se sarebbero accorti a loro spese.Non fece un passo in più. Daniel l'agguantò con forza, nonostante Ian fosse più alto e

muscoloso di lui, e lo tirò dentro il portone della stalla. All'interno gli animali si agitavano, spaventati dall'incendio poco distante, e se anche i due americani produssero rumore, questo si perse nel tramestio generato dalle bestie nervose.

Trascinato via contro la sua volontà, Ian provò a protestare, ma Daniel gli ingiunse a gesti di stare zitto. Ian non osò lottare con lui, anche se sentiva l'istinto di ribellarsi.

I due rimasero immobili a lungo, con le orecchie tese per captare anche il minimo rumore. Quando Daniel fece capolino fuori, vide il luogo deserto: i sicari erano scomparsi.

Si rivolse a Ian, arrabbiato. «Che cosa volevi fare, incosciente?! Siamo disarmati e loro erano in tre!»

«Hanno tentato di uccidermi e adesso stanno scappando!» protestò l'amico.«Già e tu esattamente come pensavi di fermarli? A parole? Oppure volevi soltanto dar

loro occasione di finire l'opera? Lasciali andare, non puoi prenderli! Penserai a loro più tardi, adesso devi pensare a Isabeau!»

Nel buio fitto, Ian si stava dominando a fatica. Fece un respiro profondo, perché si rese conto di aver rischiato di mettere in pericolo anche Daniel con il suo colpo di testa. «Hai ragione» ammise a denti stretti e poi si costrinse a distogliere la mente dai sicari in fuga per oltrepassare la porta e voltarsi verso gli edifici in fiamme. «Andiamo via da qui» disse, conscio che in quegli stessi istanti i suoi assassini si stavano dileguando alle sue spalle impuniti, probabilmente per sempre.

Insieme a Daniel, attraversò il cortile, tenendosi al riparo dal buio e dalle ombre distorte che le fiamme gettavano sugli edifici, badando bene a non farsi notare. Fu facile, perché tutti gli abitanti del monastero si affannavano intorno agli edifici in fiamme, non guardando nient'altro che non fosse il pericolo incombente dell'incendio.

Ian fece strada lungo il lato più lontano del cortile e si di resse verso la zona del complesso normalmente riservata agli ospiti di rango. Conosceva bene il cammino poiché era già stato in quel monastero due volte, la prima delle quali per molti giorni.

Ben presto il pensiero dell'incendio e persino quello dei si cari in fuga abbandonarono del tutto la sua mente per lasciare il posto solo a un intenso batticuore.

Stava per rivedere Isabeau. Dopo una separazione infinita stava per riaverla tra le braccia.

A ogni passo il cuore accelerava come se stesse per esplodere.Il porticato del chiostro apparve davanti a lui di colpo, dietro l'angolo di un edificio.Ian si bloccò.Eccolo, il cortile in cui era stato aggredito, contornato dalle colonne di pietra chiara,

decorate semplicemente. Ian ne ricordava ogni dettaglio così come lo rivedeva adesso davanti ai suoi occhi. L'aveva rivisto così spesso nei suoi incubi da poterlo disegnare a occhi chiusi. Tutto era esattamente come l'ultima volta che l'aveva visto.

Ian avanzò piano, passo dopo passo, quasi tremando. Gli sembrò di entrare nell'incubo. L'emozione lo stava sopraffacendo. Come un sonnambulo, mise piede nel

prato basso e curato fino a un punto preciso. Un punto che aveva ancora scolpito nella memoria.

Attirato da qualcosa, Ian abbassò lo sguardo a terra. L'odore del sangue gli arrivava alle narici, nonostante quello onnipresente del fumo. L'incendio era già arrivato fin lì, divorava alcune camere poste sotto il porticato e le fiamme illuminavano sinistramente l'erba.

Daniel andò cautamente dietro a Ian, senza notare che si era fermato nel mezzo del cortile, poiché era troppo impegnato guardarsi intorno. Non c'era anima viva sul posto, a parte loro , eppure Daniel si sentiva in pericolo. Perché questo lato del monastero brucia? domandava allarmato, scrutando le fiamme che partivano da una stanza per propagarsi a quelle vi, dietro le porte già spaccate dal calore.

Il chiostro non era a contatto con gli altri edifici in fiamme e il fuoco non ardeva sui tetti ma in basso tra le porte di legno: non era stato portato dal vento e allora come?

L'epicentro era una stanza ben precisa, che Daniel ricordava molto bene.Qualcuno ha appiccato il fuoco anche qui? sospettò il giovane, sempre più in ansia.

Raggiunse Ian per metterlo a dei suoi timori e notò in quel momento che l'amico era e guardava in terra. Anche da dietro, Daniel lo vide in modo evidente.

Ian si accorse appena di lui. Guardava la macchia scura ai suoi piedi, ampia nella terra e nell'erba. Era sangue, il suo sangue ancora fresco caduto nel luogo in cui era stato pugnalato. Gli ultimi ricordi che aveva del mondo medievale l'odore di quella terra e di quell'erba, intrise di sangue, il buio che piano piano inghiottiva ogni cosa.

Daniel si accostò per prendere il braccio dell'amico in silenzio. «Ian...» esordì.«Va tutto bene» l'interruppe l'altro a bassa voce, imponendosi di controllare i propri

sentimenti. «Tutto bene».Daniel annuì piano e lo lasciò andare. «Il fuoco. Laggiù» gli disse indicando le stanze

in fiamme sotto il chiostro.Ian si riscosse dal suo stato di trance per alzare gli occhi. «Quella era la mia stanza...

mia e di Isabeau» disse alla fine. «Dovevamo dormire lì la notte dell'agguato».Qualcuno, una figura sottile, arrivò di corsa sotto il chiostro, provenendo da una zona

laterale ancora al sicuro dal fuoco. Arrivò alle stanze in fiamme e si fermò. Rimase a fissarle, ma pur nell'immobilità tradiva comunque una tremenda agitazione. Sembrava non sapere che fare.

«Donna!» chiamò Ian.L'ombra sotto il chiostro trasalì, spaventata come se fosse stata sorpresa a compiere un

crimine. Guardò verso il prato, arretrò di un passo con un'esclamazione soffocata, poi però corse in avanti. «Ian! Daniel!» invocò.

Donna Barrat attraversò il cortile in un lampo, tenendosi, la gonna lunga con una mano. Aveva i capelli rossi scarmigliati sul viso bianco e lucido di sudore. Anche nella semioscurità si notavano le macchie di sangue sul suo vestito ricamato. Lo stesso sangue che bagnava l'erba. Lei però odorava di fumo.

Si abbracciarono in tre con forza, come ritrovandosi superstiti dopo un naufragio. Donna era sull'orlo delle lacrime. Continuava a ripetere i nomi degli amici, quasi volesse con vincersi di ciò che vedeva. Si staccò da loro per guardare solo Ian. Gli afferrò la tunica, poi le braccia, le spalle, il petto ampio, come per accertarsi della sua presenza fisica. Gli posò le dita sul ventre all'altezza della ferita, temendo di fargli male. Attraverso gli abiti lacerati trovò la cicatrice. «Sei vivo..!» sussurrò.

Il suo stato di tensione era evidente e la faceva tremare.«Io... ho dato fuoco alla tua stanza, volevo far credere che fossero stati i sicari!»

continuò la ragazza tutto d'un fiato. «Perché se tutto fosse bruciato, nessuno si sarebbe insospettito per la sparizione del tuo cadavere, ma poi ho pensato che corpo non si consuma completamente, che si sarebbero inlo stesso, non trovando resti, e allora sono tornata , ma non sapevo che fare...»

«Donna, calmati. Calmati» le disse Ian, interrompendo quel fiume di parole agitate e senza pause. La prese per le spalle e chinò su di lei per guardarla negli occhi alla luce delle . «Hai già avuto abbastanza presenza di spirito per salla vita. Senza la tua l'idea di portarmi fuori subito da Hyperversum, quest'ora sarei morto» continuò con la stessa nella voce incrinata. «Adesso non hai più bisogno di niente, io sono qui. Dov'è Isabeau?»

Donna gli prese il volto tra le mani. Lo guardava con gli occhi dilatati per la profonda tensione, scrutandolo incredula se alla luce avesse visto qualcosa che non aveva notato . «Quanto... quanto tempo è passato?» domandò in un soffio.

«Due anni e mezzo» dovette ammettere Ian.Donna era sgomenta. «Due anni e mezzo...» ripeté. «Siete usciti e rientrati dal gioco...

in due anni e mezzo!»«Non siamo riusciti ad attivarlo prima di oggi. Temevamo di non riuscirci più, è stato

un miracolo» spiegò Daniel.«Dov'è Isabeau?» insisté Ian, ma Donna continuava a guardare ora lui ora Daniel in

silenzio impressionato. «Ecco perché siete così cambiati...» disse alla fine.Daniel e Ian si osservarono a vicenda, sorpresi.Cambiati? No, nessuno dei due era cambiato, ne erano certi, né loro né nessun altro

tra gli amici e i familiari aveva notato cambiamenti. Di umore, forse, o di atteggiamento, ma non un cambiamento fisico.

Ian però fu colpito da un pensiero che lo mise a disagio: dopo il ritorno nel mondo moderno la sua vita era stata più frenetica, più impegnata. Aerei presi spesso, orari assurdi, pasti saltati... e notti in bianco passate a tormentarsi per ciò che era stato.

Una vita del genere poteva averlo cambiato davvero fisica mente, senza che lui se ne rendesse conto?

Daniel si scostò d'istinto dal viso i capelli, diventati di recente tanto ribelli.«Per voi sono passati due anni e mezzo, per me meno di un'ora» insisté Donna, che

aveva colto i dubbi negli sguardi degli amici. «Se non vi siete mai persi di vista, non avrete notato il cambiamento, ma io lo vedo! Siete invecchiati di due anni in un colpo!»

«Invecchiati... andiamo, Donna, non essere così drastica...» tentò Daniel.«Voglio vedere Isabeau» disse invece Ian, mentre lo spiacevole senso di disagio

aumentava.Il ragionamento di Donna stava portando il discorso in una direzione terribile e

precisa e lui non gliel'avrebbe consentito. Alzò lo sguardo verso il punto dal quale era arrivata l'amica; la però gli afferrò più forte un braccio, indovinando le sue . «Aspetta! Non puoi presentarti da lei così! Sei dimagrito, sei diverso! Che cosa vuoi raccontarle per giustificare una cosa del genere? Lei ti ha visto in fin di vita solo poco fa!».

«Mi procurerò un'altra ferita e le diremo che non era così grave come si pensava. Se tu mi aiuti, lei ci crederà».

«Ma non basta questo a giustificare tutto il resto!»

«Io... le spiegherò tutto, lei capirà. Adesso voglio vederla!» esclamò Ian, trattenendosi a stento dal liberare il braccio in modo davvero sgarbato.

«Non puoi darle uno choc del genere!» si oppose però Donna in modo altrettanto deciso.

«Ho passato più di due armi d'inferno credendo che non l'avrei mai rivista, non mi terrai lontano da lei un minuto di più!» scattò Ian, questa volta con rabbia.

Daniel si mise in mezzo per calmare l'amico.«Non voglio tenerti lontano da lei, ma non posso permetterti di mettere a repentaglio

la nostra vita qui!» esclamò Donna e la sua frase ebbe l'effetto di bloccare Ian, almeno per qualche istante.

«Ti prego, ragiona» insisté la ragazza. «Ammesso che tu riesca a spiegare tutto a Isabeau e che lei lo accetti, che cosa racconterai al conte di Ponthieu? E agli altri cavalieri? Come spiegherai davanti a loro il tuo cambiamento improvviso?»

Ian esitò. Non si aspettava una situazione del genere, non era preparato.Si sentì in trappola.Cosa avrebbe potuto dire a Guillaume de Ponthieu? Era troppo acuto, troppo

sospettoso, non avrebbe mai creduto a una spiegazione che non fosse più che plausibile e accurata.

Non posso raccontare la verità anche a lui, capì Ian.E nemmeno a tutti quelli che avrebbero notato il cambia mento come Donna.Niente doveva intaccare agli occhi del mondo la sua identità di Jean Marc de

Ponthieu: le conseguenze sarebbero state potenzialmente catastrofiche e non solo per lui, anche per Donna che era legata a lui dallo stesso segreto.

Daniel gli si accostò, vedendolo in difficoltà. «Ehi» lo chiamò. «Calmati, cerchiamo di ragionare. Tu conosci il tuo futuro, no? Sai che andrà tutto bene, hai visto i tuoi figli: vuol dire che una soluzione c'è».

Ian annuì piano, cercando di mettere ordine tra le idee agitate.«Quali figli?» domandò Donna con gli occhi spalancati.«Isabeau è incinta» rivelò Ian. «Io... ho visto i miei figli sul codice che riporta la

cronistoria del casato. Il primo nascerà tra poco più di sei mesi».Donna si portò la mano alla bocca d'istinto.«Arriva qualcuno!» avvertì Daniel in quel momento.«Di qua, presto!» esortò Donna e fece strada, portando gli amici nel buio fitto delle

colonne del chiostro, correndo nella direzione da cui era arrivata solo poco prima. Raggiunse una stanza, l'aprì in fretta e vi fece entrare gli altri, poi li seguì e si chiuse la porta alle spalle e rimase in attesa, trattenendo il fiato.

«Ma questa è...» esordì Daniel e non finì la frase, riconoscendo la grande camera in cui i monaci avevano ospitato lui, Jodie e Martin l'ultima volta che erano stati al monastero.

Fuori, qualcuno attraversò il cortile, correndo e gridando. Le voci chiamavano disperatamente il nome del conte Jean Marc de Ponthieu e ben presto ad esse si aggiunsero i tonfi di colpi battuti sulle porte poco lontane.

«Sono i servi che ci hanno accompagnati fin qui. Cercano il loro signore, non sanno ancora cosa è successo» sussurrò Donna con l'orecchio teso verso l'esterno.

Daniel annuì e rimase a sua volta ad ascoltare attentamente.Ian invece non badava ai rumori provenienti da fuori, aveva lo sguardo fisso verso

l'interno della stanza e il letto su cui era adagiata una figura immobile, appena visibile alla luce di una lampada accesa.

Il respiro gli si fermò.Isabeau sembrava un angelo fragile, scolpito nella cera. Giaceva priva di sensi, con i

lunghi capelli biondi scomposti intorno al viso. La mano sottile che pendeva dal letto era sporca di sangue come il vestito.

Ian non la ricordava china su di sé dopo l'agguato, ma il sangue che la macchiava era il suo. Ebbe una stretta al cuore al pensiero che la fanciulla avesse assistito a quella scena orribile.

Andò da lei lentamente e si inginocchiò accanto al letto, con la voglia straziante di prenderla tra le braccia per stringerla forte, e invece esitò anche solo a toccarla.

E se si fosse svegliata in quel momento? Come avrebbe reagito nel vedere il suo sposo improvvisamente guarito e così cambiato?

Ian deglutì. Donna aveva ragione: non poteva dare a Isabeau uno choc simile. Era stato un idiota a pensare di poter risolvere la cosa così approssimativamente, come se Hyperversum semplice da spiegare.

Già, spiegare... che cosa? Nemmeno lui capiva perché, o come, Hyperversum con le loro vite in tal modo... poteva spiegarlo a chi era nato e cresciuto nel Medioevo? la tecnologia? Con la magia?

Per Isabeau, come per Guillaume de Ponthieu e i pochissimi medievali a conoscenza della sua identità segreta, Ian Maayrkas era uno straniero venuto da una terra lontanissima, che il conte aveva sfruttato per nascondere la morte del fratello minore e salvare il casato dagli intrighi dei nemici politici.

Nessuno di loro si immaginava neanche lontanamente la verità sulle sue origini e, d'altra parte, come avrebbero potuto? L'idea di un viaggio nel tempo era completamente fuori dalla loro portata, quanto poteva esserlo un marziano. Nell'ipotesi più rosea avrebbero pensato a un miracolo, nella peggiore a una manifestazione di stregoneria.

Di colpo un terrore profondo assali Ian, facendolo fremere. La Storia diceva che sarebbe tornato nel Medioevo per vedere nascere un primo e un secondo figlio, ma nelle poche righe lette per caso non c'era scritto nulla a proposito dell'atteggiamento che gli altri avrebbero avuto nei suoi confronti.

Ian capì che il suo ritorno poteva cambiare irrimediabilmente la sua vita in quel mondo antico, a seconda di quanto fosse traumatico o plausibile. E se la sua reputazione fosse stata in qualche modo compromessa da sospetti, maldicenze o qualsiasi altra insinuazione fuori dall'ordinario, anche Isabeau ne sarebbe rimasta inevitabilmente coinvolta.

Non poteva permetterlo. Doveva trovare a tutti i costi un altro modo per tornare da lei senza arrecarle danno e ulteriori sofferenze.

Con dolore, con chiarezza, si rese conto che solo il tempo poteva aiutarlo. Il suo cambiamento fisico poteva essere accettabile soltanto dopo una lunga assenza.

Si accorse di avere gli occhi pieni di lacrime. Prese tra le sue le dita di Isabeau sentendole gelide e viscide per il sangue non ancora rappreso. «Mi dispiace, amore mio...» mormorò, stringendola come un fragile tesoro.

Daniel guardava dalla porta in silenzio, commosso.Sobbalzò, quando qualcuno bussò violentemente all'uscio dietro le sue spalle. Le

stesse voci disperate che poco prima chiamavano da lontano adesso risuonavano

vicinissime.«Messieurs! Où étes-vous?1»«Répondez-nous, pour l'amour de Dieu!2»«Mesdames! Répondez! Vous étes en danger!3»Andate via da qui! ordinò Donna agli amici, con gesti si.Daniel corse da Ian e lo tirò in piedi con la forza. Lo trascinò verso la finestra sulla

parete opposta alla porta e lo costrinse a scavalcare il davanzale.Senza neanche capire appieno cosa stesse facendo, Ian si ritrovò seduto a terra, con le

spalle al muro, nascosto sotto la finestra, trattenendo il fiato nell'udire i rumori provenienti dalla stanza.

Daniel, invece, fece solo in tempo a voltarsi per vedere i servi affannati entrare dalla porta che Donna non aveva chiuso a chiave.

«Monsieur, grazie al cielo siete qui!» esclamò il primo di , riconoscendolo.Gli altri invece gettarono grida di sgomento nel vedere Isabeau insanguinata ed

esanime sul letto.«Hanno aggredito il conte Jean!» urlò Daniel, prevenendo ogni domanda per puntare

il dito verso il cortile fuori dalla porta. Dopo tanto tempo usò di nuovo il francese e la sua stessa voce gli suonò estranea. «L'hanno portato via! Dobbiamo inseguirli!» aggiunse comunque, cercando una qualsiasi idea che potesse sviare gli uomini e farli allontanare. Mentalmente ringraziò il fatto che la luce della lampada fosse troppo fievole e i servi troppo spaventati perché qualcuno notasse i cambiamenti del suo aspetto.

Gli uomini vociarono ancora di più, concitatamente, alcuni corsero fuori.«Portate le dame al sicuro!» ordinò ancora Daniel a quelli che erano rimasti accanto a

Isabeau. Donna gli si buttò tra le e sembrò che invocasse aiuto da lui. «Mandali a cercare Jodie, Martin e Carl, dobbiamo giustificare anche la loro scomparsa!» esclamò invece, approfittando del fatto che nessun altro intorno a loro capiva l'inglese. «Di' loro che Carl se li è tirati dietro scappando, che li ho visti io».

«Scappando? E dove?!» domandò Daniel, trasecolando.«Non lo so, inventerò qualcosa. D'altra parte quel vigliacco di Carl potrebbe essere

scappato anche senza avere una meta precisa, solo perché in preda al panico, non è certo la prima volta che lo fa».

Daniel fu colpito dal tono di rabbia che udì nella voce di Donna. Dovette riflettere sul fatto che per lei non era passato tempo come per lui: i sentimenti della prima lunghissima dentro Hyperversum ancora ben vivi e forti, tra tutti il rancore per Carl che nel Medioevo l'aveva abda sola al primo segnale di pericolo.

«Adesso vattene via anche tu!» esortò Donna, afferrandogli i vestiti. «Prendi Ian e trova il modo di sparire. Non farlo tornare qui prima di qualche mese. Hai inventato che i sicari l'hanno portato via: diremo che è stato prigioniero».

«Ma prigioniero di chi e dove? Dobbiamo elaborare un piano, non possiamo andare allo sbaraglio! Se non ci mettiamo d'accordo, cosa racconteremo al nostro ritorno?» obiettò Daniel con ansia.

«Non c'è tempo per parlare adesso! Tra un po' qui ci sarà una folla di gente: a ogni minuto aumenta il rischio che ci scoprano» lo zittì Donna. «Se è vero che nel libro di Ian c'è scritto tutto ciò che succede, troverete là anche la spiegazione per la sua assenza. Ora 1 Signori! Dove siete?!2 Rispondeteci, per l’amor di Dio!3 Mie signore! Rispondete! Siete in pericolo!

vai!»Daniel annuì e si staccò da lei. Aveva le idee in subbuglio, il cuore in gola.

Mentalmente pregò di fare la cosa più giusta. «Aiutatemi a trovare gli altri! Fuori! Presto!» ordinò in francese ai servi che avevano assistito a tutta la scena senza capire una sola parola, pieni di paura per ciò che stava accadendo. «E voi portate madame de Montmayeur al sicuro!» disse ai due più vicini.

Gli uomini si affrettarono a eseguire: avvolsero Isabeau in una coperta e il più robusto dei due la sollevò con cautela tra le braccia. Daniel prese la mano a Donna per un attimo carico di tensione. «Ci rivediamo tra qualche mese» le disse sottovoce. «Tornate qui, al monastero. Farò in modo di lasciarvi notizie su ciò che accadrà nel frattempo» rispose lei.

Daniel si fece di lato per lasciar passare il servo che trasportava Isabeau, nel contempo non poté fare a meno di alzare gli occhi verso la finestra aperta, conscio che Ian era ancora là sotto, che doveva aver sentito o almeno capito in gran parte ciò che era accaduto nella stanza.

«Digli che avrò cura io di Isabeau fino al suo ritorno» disse Donna con un cenno incoraggiante del capo.

Daniel si decise a uscire.Oltre la finestra, Ian era ancora seduto sotto il davanzale, con le ginocchia vicine al

petto e le spalle al muro. Aveva seguito con il cuore in gola ciò che era accaduto, diviso in due tra l'istinto di rientrare nella stanza e la prudenza che gli impediva di farlo. Sentì i servi portare via Isabeau e il petto farsi di piombo, eppure non osò alzarsi.

Si prese la testa tra le mani e rimase immobile ad ascoltare i rumori che si spegnevano dietro la finestra per lasciare solo il clamore lontano dell'incendio.

***

Daniel tornò da lui dopo un po' di tempo, un'ora, forse più, Ian non seppe giudicarlo. Era ancora là, paralizzato nel buio sotto la finestra, quando l'amico lo raggiunse e si gettò seduto accanto a lui. Ansava come se avesse corso per un bel tratto. «Li ho seminati» esordì, nel riprendere fiato. «Li ho spediti a cercare nelle direzioni più disparate e poi mi sono dileguato. Crederanno che io sia ancora sulle tracce dei sicari. I monaci hanno notato il sangue sul prato, alcuni temono che gli uomini di Derangale, invece di portarti via, abbiano gettato il tuo cadavere nel fuoco per spregio. Tutte queste congetture ci serviranno per depistarli un po' finché non torneremo». Tacque per inumidirsi le labbra e aggiunse: «Vorrei proprio sapere come spiegheremo tutto questo pasticcio. Spero davvero che nel tuo libro ci sia scritto come ne veniamo fuori: avremo bisogno di un alibi a prova di bomba».

«Io non me ne vado da qui» disse Ian con voce roca, senza rialzare la testa.«Cosa?» Daniel spalancò gli occhi.«Io non me ne vado» ripeté Ian. «Non voglio».«Sei matto? Lo sai anche tu che è l'unica cosa da fare, per il momento».Ian non rispose e rimase con la testa tra le mani.Daniel provò pena per lui, ma si riscosse. «Andiamo, non fare il bambino adesso. Il

fuoco adesso avanza anche da questa parte e prima o poi qualcuno verrà a tentare di spegnerlo. Se rimaniamo ancora qui, ci scopriranno e allora sì che sarà difficile spiegare

tutto» continuò e alzò una mano davanti a sé. «Help» chiamò.Sulle sue dita comparve una mela verde fosforescente che fluttuava nell'aria. Una

mela virtuale. L'icona di Hyperversum.Ian trasalì a quel bagliore e rialzò la testa di scatto.«Toccala» esortò Daniel, porgendogli la mela luminosa senza bisogno di sfiorarla.

«Funziona così, lo sai no? Te l'ho spiegato: per uscire dalla partita devi toccare l'icona anche tu, poi io chiuderò tutto».

Ian si appiattì contro il muro d'istinto e non disse niente. Era il ritratto dell'angoscia.«Se non ti muovi, ti trascino fuori dal gioco di peso» minacciò Daniel per riscuoterlo.

«L'ho già fatto una volta e posso rifarlo. Non comportarti da idiota e non costringermi».Ian gli lanciò un'occhiata risentita, ma l'amico prevenne ogni obiezione mettendogli la

mano sulla spalla con fare fraterno. «Lo so che è dura, ma pensa che lo fai per Isabeau».Seguì il silenzio, poi Ian cedette lentamente. «Lei soffrirà comunque, come ho

sofferto io, giorno dopo giorno, da sola in una casa vuota» rispose alla fine, piano. Era un pensiero insopportabile.

«Ma lei avrà la speranza del tuo ritorno, sarà Donna a dargliela. Pensa invece che, restando ora, metteresti in difficoltà la tua vita qui e di conseguenza anche la sua. Ciò che fai adesso è per il vostro futuro insieme».

Ian si ripeté quelle parole per convincersi, eppure Daniel dovette prendergli il braccio per fargli alzare la mano verso l'icona di Hyperversum. «Coraggio, cavaliere. Hai superato ben più dure, puoi affrontare anche questa»:

Ian chiuse gli occhi quando sentì un violento senso di vertigine staccargli i sensi dal corpo. Si aggrappò a qualcosa e capì che erano i braccioli della poltrona imbottita su cui sedeva quando aveva cominciato a giocare.

Era tornato di là.«Chiudi partita» sentì dire da Daniel.

***

Si ritrovarono nella stessa stanza da cui erano partiti. Sul l'orologio del computer erano trascorsi solo pochi minuti dall'inizio del gioco.

Daniel si sbarazzò del visore e dei guanti, quasi come se scottassero. Cercando di calmare il cuore, rimase per qualche istante a guardare il monitor, sul quale si stavano chiudendo in successione tutte le schermate del gioco, poi si voltò a cercare Ian.

L'amico era accasciato sulla poltrona imbottita, con la testa reclinata all'indietro sullo schienale. Si era già tolto il visore e lo teneva nella mano ancora col guanto. Guardava il soffitto e respirava in fretta, come se avesse appena sostenuto un grande sforzo.

«Tutto bene?» domandò Daniel.Ian gli indicò il computer. «Riprogrammiamo la partita. Spo stiamo la data avanti e

ricominciamo».Daniel si alzò in piedi, sapendo di andare incontro a una di scussione potenzialmente

molto difficile. «Non adesso» rispose.Ian rialzò la testa dalla poltrona e lo guardò. «Come sarebbe?»«Questa volta dobbiamo organizzarci bene. Per prima cosa dobbiamo leggere il

codice miniato e poi tra un giorno o due...»«Io non aspetto un giorno o due!» reagì Ian, improvvisa mente con rabbia. «Ho atteso

già troppo, voglio ricominciare quella partita. Adesso!»«No» s'impose Daniel. «Stavolta facciamo come dico io. Tu non sei lucido abbastanza

per decidere, in questo momento. Io capisco, però devo costringerti a pianificare ogni dettaglio di ò che diremo o faremo quando torneremo di là. E poi,» agin fretta, vedendo che Ian stava per obiettare di nuovo «adesso che sappiamo che il passaggio funziona davvero, prima sparire devi aiutarmi a sistemare le cose. Tu parti, ma io qui: non puoi lasciarmi difficili spiegazioni per i miei genitori. Io per te l'ho fatto. Ti ho aiutato quando sono partito dal e ho preso ogni precauzione per non insospettire tuo , il conte Guill».

Tutte le obiezioni sembrarono morire sulle labbra di Ian a quel discorso serio.Il giovane tacque per un bel pezzo, infine sospirò. «D'accordo» si arrese. «Hai

ragione. Scusami, ho davvero perso la testa per questa storia».«Dai, su di morale» lo incoraggiò Daniel. «Sistemeremo tutto, vedrai».Ian riuscì a fare un mezzo sorriso.

Capitolo 3Ci volle quasi una settimana. Ian presentò le sue dimissioni all'università, sistemò le

sue cose, infine annunciò alla famiglia Freeland la sua intenzione di trasferirsi definitivamente in Francia per unirsi a una fantomatica spedizione archeologica, che l'avrebbe portato in giro per il mondo senza fissa dimora.

Non fu facile sostenere quella discussione in famiglia, specie con il colonnello John Freeland, il padre di Daniel, ma Ian non poteva e non voleva tornare indietro sulle sue decisioni. Si lasciò malamente con l'uomo che era stato il suo tutore da quando aveva sedici anni e la cosa lo ferì in profondità.

Era molto nervoso quando si sedette davanti al computer di Daniel per riprendere la partita di Hyperversum l'amico rispettò il suo silenzio, evitando di fargli domande sull'argo.

Quel venerdì sera i suoi genitori avevano accompagnato Martiri alla sua prima partita di baseball in trasferta e non sarebbero ritornati prima della domenica pomeriggio. Per quella data però, Ian sarebbe già stato molto lontano e non avrebbe più fatto ritorno. Non ci sarebbe stato modo per lui di risanare la frattura che si era creata con il colonnello Freeland.

Anche Daniel si sentiva male all'idea del litigio che per la prima volta in tanti anni aveva turbato l'armonia della famiglia. Era già stato molto triste vedere Martin e Jodie piangere, anche se in privato, al pensiero di salutare Ian per sempre.

«Hai preparato lo scenario?» domandò alla fine Daniel, piano.Ian gli tese un CD in silenzio.Daniel iniziò a impostare la partita coscienziosamente. «Di quanto sposto la data in

avanti? Sei mesi bastano?»«Due bastano e avanzano» replicò Ian, secco.Daniel lanciò un'occhiata torva all'amico. «Non è plausibile, se è vero che sei

cambiato così tanto».«E io voglio vedere mio figlio nascere» protestò Ian con decisione.I due si guardarono per un po', ciascuno meditando sui propri pensieri.«Che dice il codice miniato?» domandò Daniel alla fine.Ian fece un gesto vago. «Non indica una data precisa. Dice solo che il conte Jean

Marc de Ponthieu è rimasto prigioniero dei suoi nemici per mesi e con l'inverno è tornato a casa».

«Inverno, eh? Ok, allora prendiamo gli inizi dell'anno per il tuo ritorno a casa. 10 gennaio, sei d'accordo? In questo modo saranno passati quasi cinque mesi dall'agguato. Non troppo, non troppo poco».

Ian sospirò, ma rinunciò a obiettare. Avrebbe voluto abbreviare il più possibile il tempo che Isabeau doveva passare da sola ad attendere il suo ritorno, ma sapeva di non poterlo fare più di tanto, ne andava della credibilità del suo alibi. «Va bene» disse alla fine. «Per tutto il resto, siamo d'accordo?»

«Ho imparato a memoria le istruzioni che mi hai mandato per e-mail. Farò quello che devo per non intralciare il tuo alibi» rispose Daniel.

Ian annuì, ma sembrava molto teso. «Speriamo davvero che vada tutto bene».Daniel non lo prese come un segno di sfiducia nei suoi confronti: anche lui sarebbe

stato agitatissimo al pensiero di dover a raccontare al conte di Ponthieu una storia

inventata, è studiata nei minimi dettagli.Guillaume de Ponthieu gli aveva sempre ispirato una soggezione tremenda, per non

dire addirittura timore, e dubitava a distanza di anni la cosa fosse cambiata. Per giunta il conte, perspicace com'era, avrebbe sicuramente notato ogni dettaglio della messinscena di Ian: un motivo in più per che fosse davvero a prova di bomba.

«Sicuro di aver interpretato bene quello che c'era scritto sul codice?» domandò Daniel nervosamente.

«Direi di sì. I dettagli però erano veramente scarni».«Nessun cenno su di me?»«No, te l'ho detto». Ian evitò di aggiungere che non si era spinto a leggere più in là

della parola esatta che confermava il suo ritorno al monastero di Saint Michel. Sapeva come la pensava l'amico riguardo al ricavare notizie da quel codice miniato e su questo erano decisamente in disaccordo. Daniel avrebbe esplorato ogni singola pagina di quel codice pur di trovare tutti i riscontri alla teoria che stavano mettendo in piedi; Ian era restio anche solo a leggere la riga successiva per evitare anticipazioni sul suo avvenire. Era una cosa che lo spaventava molto di più che andare a raccontare una menzogna a Guillaume de Ponthieu.

Alla fine aveva fatto a modo suo: aveva letto lo stretto necessario per capire come si sarebbero svolti i fatti e tanto bastava. Il resto del suo futuro gli sarebbe stato rivelato col tempo, come accadeva a tutti i normali esseri umani.

«Potresti anche dire ai tuoi monaci amanuensi di essere più esaurienti quando scrivono le cronache» sbuffò Daniel.

«Andrà bene lo stesso, vedrai» tagliò corto Ian. «In fondo quella sulla cronaca è solo la trascrizione di ciò che sto per andare a raccontare, quindi deve corrispondere per forza a quello che ho inventato adesso».

Daniel fece finta di farsi convincere.Il computer, nel frattempo, aveva terminato di caricare tutti i parametri della partita.«Si comincia» disse Daniel.

***

Li accolse il pendio di un bosco buio e freddo. Ian non aveva voluto rischiare di comparire dal nulla in pieno giorno, benché in un posto isolato fuori dal monastero, e così la scelta del momento di arrivo era ricaduta sul finire della notte, a poche ore dall'alba, quando di sicuro tutti gli abitanti della zona, monaci, contadini, cacciatori, pastori e viandanti erano ancora ben al riparo tra quattro mura, in attesa di riprendere le attività al mattino.

Il vento sibilava a tratti tra le fronde e i tronchi neri, creando suoni e fruscii sinistri. Tra i cespugli ormai spogli non si muoveva nemmeno un animale. Gli alberi erano spettrali e privi di foglie: solo qualche conifera qua e là formava una macchia di fronde in un paesaggio desolato, intriso dell'odore di terra bagnata e foglie marce. La luce di una luna velata consentiva a fatica di orientarsi tra i tronchi.

Daniel rabbrividì. «Si gela qui». Si spostò in un anfratto tra le rocce del pendio che offriva riparo dal vento, ma anche in quella specie di piccola grotta la temperatura non migliorava granché. Il fiato si condensava in nuvolette bianche a ogni re.

«È per questo che stavolta, con i vestiti del tuo personaggio, ho dato anche un

mantello pesante» rispose Ian, cercando di scaldarsi sfregandosi le braccia. A differenza dell'amico, indossava gli stessi abiti della partita precedente, solo più sgualciti, e la tunica blu era sempre lacerata sull'addome.

«Potevi prenderne uno anche tu» osservò Daniel.«Io sono quello che è stato prigioniero fino a oggi, tu no. Per questo ho cambiato i

tuoi abiti ma non i miei. Tu puoi stare comodo, io devo mantenere le apparenze».Daniel fece un mezzo fischio. «Bel lavoro, Sherlock. Hai pensato ai minimi dettagli».«Dovevo, se non voglio insospettire nessuno. La fregatura più grossa è che

Hyperversum ci lascia mai altro equia parte i vestiti e quindi non sapevo cosa inventare per giustificare la tua eventuale presenza, disarmato e nemmeno un cavallo. Per questo non posso portarti con adesso. Dovrai fare la massima attenzione perché nessuno veda mentre io vado al monastero, recito la mia parte e torno ».

«Non importa. Fai quello che devi, la messinscena viene prima di tutto».Ian rimuginò ancora un po'. «Per te sarebbe stato tutto più facile se non avessi insistito

tanto per accompagnarmi fino a Chàtel-Argent. Potevi semplicemente farmi arrivare qui e poi ripartire, anzi potresti farlo già adesso».

Daniel scosse la testa, infastidito. «Ne abbiamo già parlato e non intendo discuterne ancora: sarò la tua ombra finché non ti vedrò oltrepassare il ponte levatoio di Chatel-Argent. Quindi a costo di aspettarti qui fino a mettere radici, io faccio il viaggio con te».

Si rese conto di aver risposto in modo sgarbato, ma non poteva farci niente. La sola idea di dover salutare Ian per sempre lo faceva innervosire, perché lo addolorava. Avrebbe dato qualsiasi cosa per ritardare quel momento il più possibile.

«Ci vorranno quasi due giorni per arrivare al castello. Come farai a spiegare la tua assenza a casa?» domandò Ian e si vide che evitò di insistere sull'argomento precedente per non irritare di più l'amico.

«Il tempo scorre diversamente di qua e di là da Hyperversum, l'ho notato anche nell'altra partita. Siamo stati via più un'ora e l'orologio del computer aveva contato invece solo minuti. Anche la prima volta che siamo passati di qua è lo stesso. Siamo stati via mesi e per il computer invece erano passate solo ore. Farò in tempo a uscire prima che i miei con Martin e comunque tutti e tre staranno via a domenica sera».

Ian rimase a guardare il bosco, mentre si stringeva le spalle con le mani per scaldarsi. «Abbiamo pensato a tutto, allora».

«Direi proprio di sì». Daniel tacque per un po', ma poi cercò di tirare fuori un'aria risoluta. «Coraggio, facciamo il necessario per riportare a casa il conte Jean Marc de Ponthieu».

Ian gli comunicò tutta la sua gratitudine con un sorriso commosso. «Vado e torno. Cercherò di metterci il meno possibile».

«E io, appena fa luce, scenderò verso la strada. Ti aspetterò nascosto là vicino» replicò Daniel.

«Sicuro di farcela?»«Non è mica la prima volta che viaggio da solo nel Medioevo! So cavarmela, sta'

tranquillo».«Se qualcosa si mette male, te ne torni a casa di filato attraverso Hyperversum: ».«Promesso. Non temere».Ian non si sentiva proprio del tutto tranquillo, ma finse di esserlo.«Te ne vuoi andare?» lo esortò Daniel. «Se davvero ti preoccupi tanto per me, cerca di

sbrigarti. Prima vai, prima torni e io la smetto di stare rintanato qui al freddo! Certo, se il signor conte avesse deciso di tornare in primavera, sarebbe stato molto più confortevole».

«Se fosse stato per me, sarei arrivato qui l'autunno scorso, visto che non sono potuto rimanere in piena estate. Sei stato tu a insistere per far passare qualche mese in più e quindi adesso è inverno» ribatté l'amico, facendo qualche passo fuori dall'anfratto per cominciare la sua discesa verso il monastero. «E comunque, smettila di lamentarti, fa soltanto un po' freddo e sei al coperto. Poteva andare peggio: la prima volta che abbiamo fatto il salto di qua ci siamo ritrovati bagnati fradici».

In quel momento, il sibilo del vento si fece più forte e l'aria più umida, sorprendendolo. Qualcosa ticchettò sui rami spogli e sulle foglie dei sempreverdi, poi iniziò a scrosciare.

Da dentro la piccola grotta, Daniel guardò Ian e i suoi vestiti che si inzuppavano rapidamente. L'amico preferì non dire niente e si limitò a cercare un sentiero che portasse fuori dal bosco, a testa bassa.

Daniel lo guardò sparire tra gli alberi e poi si sporse dalla grotta per alzare gli occhi verso il cielo scuro e la pioggia che cadeva fitta. «Questo gioco ce l'ha con noi» sospirò.

Si ritrasse per evitare di bagnarsi e andò a sedersi a terra, stringendosi il mantello intorno al corpo con un senso di disagio dovuto non soltanto al freddo.

Lì da solo, al buio, in pieno Medioevo, non si sentiva affatto sicuro come aveva voluto far credere. Ma questo era meglio che Ian non lo sapesse.

***

Ian impiegò parecchio per scendere il pendio e arrivare in vista del monastero. La pioggia aveva reso scivoloso il terreno e, dopo aver rischiato di cadere almeno un paio di volte, il giovane si era deciso a rallentare il passo per non rischiare di farsi male.

Bagnato fino al midollo, si presentò al portone del monastero ancora chiuso per la notte. La pioggia non ne voleva sapere di smettere e il buio era ancora fitto, ma alcune luci si vedevano già dietro i vetri della chiesa. Un breve rintocco di campana annunciò che il monastero si preparava per le preghiere del mattutino prima del sorgere del sole.

Ian bussò più volte al portone e attese con pazienza sotto la pioggia che qualcuno venisse ad aprire.

Un vecchio guardiano socchiuse il battente tenendo in mano una lanterna che sollevò verso il giovane infreddolito. «Che cosa volete?» domandò sospettoso. «Non distribuiamo cibo fino a mezzogiorno e il monaco erborista è stato chiamato ieri nella città vicina. Non abbiamo nessuno che possa vedere i malati o i feriti».

Ian si fece avanti verso l'uomo per farsi riconoscere alla luce. «Fatemi entrare, per amor del cielo» esordì. «Sono Jean Marc de Ponthieu e non avete idea di quello che ho passato prima di arrivare qui. Datemi asilo, l'abate mi conosce e potrà garantire per le mie parole».

Il vecchio custode sgranò gli occhi e quasi trattenne il fiato. Alzò la lanterna ancora di più e osservò la statura imponente del suo interlocutore. Ian ricordò che la sua altezza era diventata inconfondibile in quel mondo antico e drizzò le spalle d'istinto. Ottenne l'effetto voluto senza fatica.

«Signor conte..! E un miracolo..!» balbettò infatti il vecchio guardiano e si fece più

volte il segno della croce mentre si affrettava a spalancare la porta.Ian ebbe un moto di sollievo.Bastò che il guardiano chiamasse il foresterario perché l'intero monastero si mettesse

in agitazione, come una voliera in cui fosse stato gettato un sasso all'improvviso. Arrivarono prima il vicario e poi il priore, portando altre lanterne, infine l'abate in persona. Insieme a loro, molti monaci e servi si affacciarono dalla chiesa e nel porticato, incapaci di dissimulare la curiosità per una notizia tanto straordinaria.

«Signor conte! Che sollievo rivedervi vivo! Rendiamo grazie al cielo per questo miracolo» esclamò l'abate, andando verso Ian con le mani tese in un gesto d'accoglienza. Era sinceramente commosso. «Abbiamo pregato tanto per voi e il Signore, nella Sua infinita misericordia, ci ha ascoltati».

I monaci mormorarono tra loro, quando il loro superiore di mostrò di riconoscere davvero l'ospite inaspettato, piombato al monastero in quella fredda notte d'inverno. Era vero: il conte cadetto di Ponthieu era ancora vivo e presto la notizia sarebbe rimbalzata in ogni angolo del feudo. Tutti si immaginavano già lo scompiglio e la festa che la cosa avrebbe suscitato.

Ian si lasciò stringere le mani dall'abate, sentendo un'enorme emozione nell'essere accolto al riparo del parlatorio da quell'uomo che non vedeva più da due anni e mezzo.

Era davvero tornato a casa. Ora lo sapeva con certezza.«Reverendo padre, non sapete che gioia sia per me essere di nuovo qui dopo così

tanto tempo» rispose e non dovette fingere mentre lo diceva. «Avevo quasi perso le speranze».

Dallo sguardo sollevato dell'abate trapelava comunque la preoccupazione. «Vi credevamo morto, scomparso nell'incendio. E' passato così tanto tempo da allora... Che cosa vi è accaduto? Siete così pallido e smagrito... cosa vi hanno fatto?»

Ian ringraziò mentalmente Donna e la sua presenza di spirito che l'aveva costretto a ritardare il suo ritorno di qualche mese. La ragazza non aveva esagerato nelle sue parole: il cambiamento era così evidente da non sfuggire nemmeno a un occhio estraneo.

«E' una storia lunga» sospirò Ian. E adesso scopriamo se è anche credibile, pensò in aggiunta, con una certa tensione, a cominciare.

L'abate dovette invece pensare che il conte non volesse par lare davanti a tanta gente perché si affrettò a dare ordine ai servi di preparare una stanza appartata in cui l'ospite avrebbe potuto asciugarsi e avere cibo e ristoro. «Venite, seguitemi» aggiunse facendo strada, quindi condusse l'americano attraverso il complesso del monastero.

Con profondo disagio, Ian osservò le mura annerite, circondate dalle impalcature dei carpentieri e dei muratori che stavano effettuando i restauri. Pochi edifici si erano salvati e solo la chiesa era rimasta del tutto intatta: ovunque nel resto del monastero si vedevano tetti di fortuna, finestre riparate alla meglio e muri consolidati provvisoriamente in attesa delle vere riparazioni.

Che disastro... Ci credo che mi credevano scomparso nell'incendio, considerò Ian tra sé cupamente. «Quante vittime ci sono state?» chiese invece all'abate.

Il religioso si fece il segno della croce. «Undici» rispose addolorato. «In due casi i corpi non sono ancora stati ritrovati tra le macerie e la cenere. Credevamo che la stessa cosa potesse essere accaduta anche a voi».

Undici vittime, si ripeté Ian, indignato. Undici persone per il complotto architettato contro di lui.

I responsabili avrebbero pagato per quello, giurò a se stesso. Avrebbero pagato molto caro.

I servi stavano già accendendo il camino, quando Ian fu accomodare in una grande stanza, meno danneggiata delle altre.

Il giovane poté togliersi la casacca e la camicia bagnata per asciugarsi davanti al fuoco e i monaci solerti gli portarono un panno per scaldarsi. Nel contempo fu preparata la tavola sui cui venne disposta una rapida cena.

«Non ho bisogno di quello» disse Ian ai servi che si stavano affaccendando per preparare anche il letto. «Non voglio dormire, intendo ripartire subito per Chàtel-Argent».

«Non vi riposate nemmeno qualche ora?» si preoccupò l'abate.«Sì, solo fino all'alba, ma mi basta uno scranno. Voglio ritornare dalla mia famiglia

prima possibile» rispose Ian, e nel contempo pensò anche a Daniel che lo stava attendendo fuori al freddo.

L'abate comprese la sua ansia di rimettersi in viaggio subito verso casa e, quando tutto fu sistemato, fece cenno ai monaci e ai servi perché li lasciassero soli. Il priore e il vicario si allontanarono insieme agli altri con malcelata delusione.

Ian seppe che era arrivato il momento delle spiegazioni, ma preferì prendere ancora tempo, fingendo di aver bisogno di ristorarsi col cibo. Doveva capire cosa fosse successo durante la assenza e pensò al modo meno sospetto per ottenere le che gli servivano. Si accomodò alla tavola e per cosa si versò del vino. L'abate declinò l'offerta di un bicchiere, ma si sedette comunque e rispettò il silenzio dell'ospite. fece domande, ma parlò per primo. «La vostra famiglia è dal vostro ritorno, signor conte. Ora più che mai ha della vostra presenza».

«È accaduto qualcosa?» si allarmò Ian d'istinto, ma si rilassò immediatamente al sorriso che l'abate gli fece scuotendo la testa.

«Non dovete temere, per nessuno dei vostri cari. Il Signore voluto ricompensarli, piuttosto, dopo tante sofferenze. la nascita del vostro erede. Vostra moglie ormai è al termine della gravidanza».

«Un figlio!» esclamò Ian, simulando sorpresa, ma la sua emozione fu comunque fortissima.

Mio figlio Marc, si disse commosso e ricordò il ritratto del cavaliere che aveva trovato sul codice miniato. Ne conosceva con certezza anche la data di nascita. Ormai mancavano pochi mesi.

«Vostra moglie ha pregato tanto perché sia un maschio a cui dare il vostro nome» continuò l'abate, felice di poter comunicare una notizia così bella al suo interlocutore. «Sono sicuro le sue preghiere saranno ascoltate anche questa volta, così sono state ascoltate quando imploravano il vostro ritorno. Il Signore premierà generosamente tanta fede».

«Ne sono certo anch'io» rispose Ian a bassa voce, tenendo gli occhi fissi sulla coppa stretta tra le mani sul tavolo, per coni sentimenti che affollavano nel cuore. Si accorse l'abate lo stava osservando in silenzio, in attesa che fosse a continuare il dialogo, ma non riuscì a ricambiare il suo , tanto si sentiva turbato. «Che altre notizie potete della mia famiglia?» domandò alla fine.

«La dama di compagnia di vostra moglie viene qui a pregare per voi ogni mese, adempie un voto al posto della sua signora, che non può viaggiare nelle condizioni in cui

è, e ci tiene informati» rispose il religioso.Donna ha mantenuto la promessa di farmi avere notizie, pensò Ian. Davvero ha

trovato un modo ingegnoso per non insospettire nessuno.«Vostro fratello gode di ottima salute» continuò l'abate. «Ha preso in moglie dama

Alinor de Dreux tre mesi fa. La vostra famiglia è ora legata al casato reale».Ian annuì piano, ascoltando senza rialzare gli occhi, meditando su ogni singola parola.

Sapeva già anche quella notizia: la conosceva da anni, da prima ancora di arrivare nel Medioevo. Guillaume aveva meritato tanta fiducia dal parte del re Filippo Augusto, l'aveva meritata più di chiunque altro per la fedeltà incrollabile dimostrata verso la corona francese.

«Il conte di Ponthieu amministra la regione dal momento della vostra scomparsa» aggiunse l'abate e il suo tono si fece più grave. «Non ha smesso un istante di dare la caccia ai vostri assassini e alla fine li ha trovati. O almeno ne ha trovati due. Sono stati giustiziati sulla pubblica piazza una settimana fa, che il cielo abbia pietà delle loro anime». L'uomo si fece di nuovo il segno della croce.

Questa volta, Ian rialzò gli occhi, nervoso. Quella era una notizia che non si aspettava. «Raccontatemi cos'è accaduto esattamente».

L'abate fece un gesto vago. «Non conosco proprio tutti i dettagli, ma so che i condannati erano un inglese e un fiammingo. Sono stati catturati e interrogati in tempi e luoghi diversi dagli ufficiali di vostro fratello, prima di essere processati al castello di Auxi».

La residenza abituale di Guillaume, pensò Ian.«L'inglese ha proclamato sfrontatamente e fino alla fine che eravate stato ucciso al

monastero per ordine del cavaliere Jerome Derangale. Il fiammingo invece, davanti alla minaccia del boia, ha raccontato una storia diversa. Ha giurato di aver convinto gli altri a risparmiarvi e di essere poi fuggito, pentito della sua complicità al vile agguato. A sentire lui, vi aveva lasciato nelle mani degli altri complici, però poi non ha saputo dare alcuna indicazione sul luogo della vostra prigionia. Gli ufficiali che hanno fatto ricerche non hanno mai trovato nulla» continuò ancora l'abate.

Per salvarsi il collo ci si inventa davvero qualsiasi cosa, si disse Ian.«Alla fine vostro fratello si è convinto che quell'uomo stesse solo cercando di salvarsi

la vita con una storia inventata, approfittando del fatto che nessuno aveva ancora visto il vostro cadavere. Tutti noi, come il conte, abbiamo creduto che l'imputato mentisse. Tutti tranne la vostra sposa e la sua dama di compagnia. Entrambe hanno continuato a sostenere che voi eravate ancora in vita e a pregare per il vostro ritorno, benché tentassimo di convincerle che eravate scomparso nell'incendio che ha divorato ogni cosa. Sembrava la spiegazione più plausibile». L'abate adesso si era leggermente proteso in avanti, come per indurre una confidenza. «Voi, invece, vi siete salvato davvero».

Ian fece un bel respiro prima di esordire: «Sì, come potete vedere, io mi sono salvato davvero». Mentalmente, ringraziò la sorte che aveva fatto confessare a uno dei sicari una storia inventata che andava ad aiutare il suo personale alibi per i mesi di assenza.

Si rigirò la coppa di vino tra le mani. «Non ricordo molto della sera dell'agguato» continuò, mettendo cautamente una parola dopo l'altra. Si era ripetuto quelle frasi mille volte, analizzandole da ogni angolazione per individuare i possibili punti deboli, e si era convinto che fossero credibili. Ora, alla prova dei fatti, poteva solo sperare di non aver sbagliato nel valutare.

«Tre uomini mi avvicinarono, erano vestiti da monaci e mi colpirono a tradimento. Devo essere svenuto, perché poi ricordo solo il buio. Sono stato ferito, ma non gravemente come credevo oppure un miracolo deve avermi salvato, non so come spiegarlo altrimenti. Mi sono svegliato in un luogo scuro e chiuso, fatto di pietra, e li sono rimasto fino a qualche giorno fa. I carcerieri mi portavano il cibo ogni tanto e io chiedevo loro spiegazioni per la mia prigionia, ma nessuno mi ha mai risposto. Alla fine, dai discorsi che sono riuscito a carpire, mi sono convinto che quegli uomini non agissero più per ordine di qualcuno. Il mio nemico li aveva mandati ad assassinarmi, ma i sicari invece hanno pensato di poter ricavare un profitto dalla mia prigionia. Credo che volessero chiedere un riscatto a mio fratello, ma devono aver esitato ad agire a causa della caccia scatenata contro di loro o forse hanno litigato tra loro, non so. Comunque erano una piccola banda. Forse, quando i complici sono stati giustiziati, i superstiti si sono spaventati; quel che è certo è che hanno rinunciato al loro piano e che nessuno ha interceduto per me. Volevano eliminarmi e fuggire, io sono riuscito a convincerli a lasciarmi in vita in cambio della mia parola che li avrei protetti da mio fratello, se fossero stati catturati».

«Quegli uomini non hanno dunque alcuna vergogna per i loro crimini e si fanno beffe della legge» s'indignò l'abate.

«Ho garantito loro l'impunità. Non ne sono fiero, ma non avevo scelta» disse Ian.«Voi avete agito per il meglio, signor conte» si affrettò a dire l'abate. «Vi siete salvato

la vita ed è questo che importa. Quei criminali potranno forse sfuggire alla legge degli uomini, ma la giustizia divina li attende alla fine della loro vita e li condannerà, se non mostreranno pentimento».

Ian annuì piano. «I miei carcerieri mi hanno condotto fuori da quella specie di prigione, bendato in modo che non potessi riconoscere la strada. Mi hanno trasportato su un cavallo per un bel pezzo, per abbandonarmi nel mezzo della boscaglia e sparire. Ho camminato più di un giorno prima di trovare un'anima che mi aiutasse. Un vecchio pastore mi ha fatto riposare nel suo capanno: grazie a lui ho potuto mangiare qualcosa e ripulirmi almeno in modo da riassumere un aspetto umano». Ian si passò la mano sul viso che non si era rasato apposta da due giorni. «Grazie a quell'uomo sono riuscito a orientarmi e con un altro giorno di cammino sono arrivato qui».

«Un lungo viaggio a cavallo e un cammino ancora più lungo... i vostri carcerieri vi avevano portato lontano, dunque!»

«Oltre i confini del mio feudo, per questo immagino che mio fratello non sia mai riuscito a trovare tracce».

L'abate era sinceramente impressionato. «Che esperienza terribile» commentò. «Grazie al cielo è finita bene, almeno per voi».

«Che volete dire?» domandò Ian, di nuovo in allarme.«Purtroppo, non abbiamo più avuto notizie del vostro amico, monsieur » dovette

confessare l'abate con tri. «Anch'egli è sparito la notte dell'incendio e temiamo la sua vita e quella di suo fratello e della sua promessa . Voi non sapete ancora l'altro fatto terribile accaduto voi siete stato aggredito. Madame ha assistito ogni cosa e ha potuto raccontarcelo: l'altro uomo che era con , quello che credevamo amico vostro e di monsieur , l'informatore che ha guidato i sicari fino a qui. A misfatto compiuto, è fuggito trascinandosi dietro il giovane Martin e madame come ostaggi. Monsieur ovviamente è all'inseguimento, ma poi non è più tornato».

Ian rimase a bocca aperta. Donna aveva dato tutta la colpa a Carl White... di certo era un bel modo di vendicarsi per quello che lui le aveva fatto passare.

«Mi dispiace dovervi dare una così brutta notizia» disse l'abate, ingannato dallo stupore che vedeva nell'espressione del suo interlocutore.

Ian si riscosse, sapendo di dover dire qualcosa. «Sono state fatte tutte le ricerche?» domandò.

L'abate annuì. «Vostro fratello non ha risparmiato tentativi, ma senza successo. Anche i prigionieri sono stati interrogati più volte su questa faccenda, ma hanno sempre negato di conoscere l'informatore forse perché, se catturato, quell'uomo avrebbe potuto smentire le loro confessioni».

«Sono sicuro che Daniel stia bene e così suo fratello Martin e madame Jodie. Non voglio nemmeno pensare che sia accaduto loro qualcosa di grave» rispose Ian, dicendosi nel contempo che prima di arrivare a Chàtel-Argent doveva aggiustare un paio di dettagli per giustificare anche quella parte della storia. «Comunque sia, farò di tutto per chiarire questa faccenda. Ci volessero mesi o anni, scoprirò cosa è accaduto davvero».

«Vostro fratello vi aiuterà con tutte le sue forze» lo rassicurò l'abate.È proprio quello che voglio evitare, pensò Ian.In quel momento due servi bussarono discretamente alla porta per consegnare vestiti

nuovi per l'ospite e i catini d'acqua calda per lavarsi.«Abbiamo solo abiti semplici da offrirvi, ma sono confortevoli e puliti, spero che vi

siano graditi» disse l'abate e ne approfittò per prendere congedo e lasciar riposare l'ospite. «Vi rivedrò all'alba. Adesso voi sarete molto stanco e io vi ho già rubato troppo tempo» aggiunse prima di allontanarsi. «Se me lo permettete, farò preparare tutto ciò di cui avrete bisogno per il vostro viaggio di ritorno».

Ian si alzò a sua volta, per rendere omaggio al religioso e accompagnarlo alla porta. «Grazie per il vostro aiuto, reverendo padre».

«È mio dovere ed è un onore».I due si sorrisero nel salutarsi.«Credete che madame ritorni al monastero nei giorni?» domandò Ian come ultima

cosa.L'abate scosse la testa. «A venuta la settimana scorsa, non tornerà prima di un mese,

anzi a questo punto credo che non tornerà affatto: arriverete prima voi al castello e sarete la prova vivente che il suo voto è stato esaudito».

Anche Ian provò gioia al pensiero della sorpresa che il suo ritorno avrebbe portato a Chàtel-Argent. «Ritorneremo il mese a rendere grazie per ciò che è stato: accompagnerò personalmente madame a qui» disse con emozione. «Farò una donazione ogni anno al monastero in ricordo di questo giorno».

«Siete molto generoso, signor conte» ringraziò l'abate chinando il capo. «Salutate madame da parte mia e ditele la sua fede è un esempio che non dimenticherò mai. La rivedrò con piacere quando tornerete. Salutate anche il cavaliere di Sancerre che di recente l'accompagnava sempre».

Ian tornò a buttarsi sulla sedia, dopo aver chiuso la porta, e liberò un sospiro di profondo sollievo. Si sentiva alleggerito un peso enorme e allo stesso tempo stanco, come se avesse. quel peso sulle spalle per un viaggio infinito.

Era andato tutto bene, la storia inventata aveva retto all'esame. Adesso era davvero pronto a tornare a casa.

Ancora in subbuglio per quanto appena accaduto, si ritrovò a pensare a Donna in compagnia del conte Etienne de Sancerre, l'uomo di cui lei si era innamorata.

Era sinceramente felice di averlo sentito nominare: voleva dire che le cose stavano andando come Donna sperava, che il suo desiderio si stava avverando.

Anche il mio sta per avverarsi, pensò di riflesso. silenzio si ripeté la frase, quasi incredulo.

Capitolo 4L’alba era appena spuntata e Ian era già nel chiostro a osservare il sorgere del sole.

Aveva smesso di piovere e una luce debole filtrava dalle nuvole ancora grevi per il luminare il paesaggio. Ian era pronto a proseguire il suo viaggio di ritorno. Si sentiva addosso un'energia che non provava più da mesi, anni.

Appena una giornata lo separava da Isabeau e dal resto della sua vita, e non vedeva l'ora di cominciarla.

Si era lavato, rasato e cambiato; aveva mangiato qualcosa, non per fame ma per ingannare l'attesa e recitare fino in fondo la parte dell'ostaggio appena sfuggito alla prigionia, e adesso era ansioso di rimettersi in marcia.

Per prima cosa doveva raggiungere Daniel sulla strada. Ormai si erano separati da più di tre ore.

Quell'idea gli causò un lieve senso di ansia. Come se l'era cavata l'amico durante quell'ultima parte della notte, da solo in mezzo al bosco? Era andato tutto bene?

Ian soffocò a forza tutte le paure, per ripetersi che Daniel avrebbe potuto in qualsiasi momento tornare a casa grazie a Hyperversum, però era del tutto improbabile che si fosse in pericolo in quel lasso di tempo.

Comunque sia, meglio raggiungerlo subito, decise, per del tutto tranquillo.L'abate aveva fatto approntare un cavallo nel cortile, equipaggiandolo con il

necessario per un breve viaggio. Appesi alla sella c'erano anche un pugnale e una spada, benché un po' antiquati.

«Molti anni fa, alcuni soldati rinunciarono al mondo per farsi monaci. Le loro armi sono rimaste qui da allora» spiegò l'abate ai suoi ospiti. «Alla fine, alcune sono tornate utili».

Ian prese subito la spada per allacciarsela in cintura: non poté resistere alla tentazione e gli sembrò di rinascere cavaliere in quel momento.

L'abate gli tese una piccola borsa con un po' di denaro.«È troppo, reverendo padre, non ce n'era bisogno» disse il giovane, cercando di

rifiutare, ma il religioso non volle sentire ragioni. «Era il minimo che potessi fare per voi. Almeno per rendere confortevole l'ultima parte del vostro viaggio di ritorno a casa. Così potrete fermarvi a mangiare qualcosa di caldo lungo la strada. Non dovete abusare troppo delle vostre forze, intraprendendo un viaggio senza soste».

«Grazie per questa ennesima premura» rispose Ian. «In effetti, mi sento ancora molto debilitato».

In realtà, più che altro erano due anni e mezzo che non saliva più su un cavallo e men che meno si era fatto vedere in una palestra, troppo preso com'era dalla sua frenetica vita accademica e dai mille spostamenti aerei di stato in stato. Sapeva che un'intera giornata in sella l'avrebbe sfinito e Daniel non poteva certo contare su un allenamento migliore del suo. Meglio spezzare il viaggio almeno con una pausa, come diceva l'abate, per mangiare qualcosa e non arrivare distrutti a Chatel-Argent.

«Troverete una locanda lungo la strada, appena prima del piccolo villaggio di Lunes,» aveva intanto detto l'abate «ma io vi consiglio di proseguire almeno fino al villaggio. La locanda è piuttosto spartana, a quanto so. Vi troverete meglio in paese».

Ian conosceva il villaggio di Lunes, poiché vi era passato un paio di volte, pur senza

fermarvisi mai, e sapeva che era circa a metà strada. Annuì, facendo mentalmente un calcolo delle ore necessarie per compiere tutto il tragitto. Avrebbero impiegato tutta la giornata per arrivare in vista del castello, quindi un posto in cui mangiare, in paese o fuori, sarebbe stato sul cammino giusto all'ora di pranzo.

«Vi ringrazio per i consigli» disse Ian alla fine, montando in sella.L'abate lo salutò. «Dominus vobiscum4» augurò, benedicendolo.Ian si fece il segno della croce. «Et cum spiritu tuo5» con gratitudine. «Ci rivedremo

presto» aggiunse.Un attimo dopo, era già lontano.

***

Daniel sbucò dalla vegetazione accanto alla strada, non appena Ian comparve dietro la curva.

Quest'ultimo si sentì decisamente sollevato e tutti suoi timori svanirono per lasciare spazio solo alla gioia.

Con un sorriso identico, Daniel arrivò sul ciglio della strada e tese il braccio con il pollice alzato, facendo scherzosamente l'autostop. «Me lo date un passaggio, signor conte?» domandò da lontano.

Ian fece fermare il cavallo. «Dipende da dove andate, messere».Dal basso Daniel osservò l'amico fieramente in sella e provò una segreta stretta al

cuore. Con le redini in mano e la spada al fianco sotto il mantello scuro che gli era stato dato dai monaci insieme agli abiti puliti, Ian sembrava un vero cavaliere, come se non fosse mai stato altro in vita sua. Senza neanche rendersene conto, era di nuovo Jean Marc de Ponthieu.

Daniel dissimulò il dispiacere che gli diede quel pensiero. Ian era tornato alla sua vita, al mondo a cui aveva scelto di appartenere, e vi sarebbe rimasto. Presto sarebbe arrivato il momento dei saluti definitivi.

Il giovane cercò di interessarsi al cavallo, per distrarre la testa da quei pensieri tristi. «Ti hanno dato una bella bestia» osservò.

«Abbiamo anche un po' di denaro, così potremo fermarci a pranzo» rispose Ian senza accorgersi del turbamento dell'amico.

«Ottimo, perché ho già fame» replicò Daniel.Ian smontò di sella per parlare meglio con lui, mentre procedevano un po' a piedi.

«Com'è andata nel bosco?» «Benissimo. C'era freddo, ma il mantello ha fatto il suo dovere». Daniel glissò sul fatto che per tutto il tempo dell'attesa ogni rumore nel buio l'aveva fatto sobbalzare e sfoggiò la sua aria più spavalda. «A te com'è andata?»

«Tutto ok. La recita ha superato l'esame, ho convinto tutti». Ian era davvero sollevato mentre lo diceva.

Sembrava alleggerito, notò Daniel e fu felice per l'amico. Il momento della sua riunione con Isabeau si avvicinava.

Mentre camminavano, Ian raccontò il dialogo che si era svolto con l'abate, compresa la trovata di Donna riguardo a Carl White e il suo ruolo nella sparizione di Martin e Jodie.

4 Il signore sia con voi.5 E con il tuo spirito.

Daniel rimase colpito dalla storia quanto Ian.«Be', a questo non avevo proprio pensato» commentò alla fine. «Come facciamo

adesso a tranquillizzare tutti e a farli smettere di cercarmi? Nella nostra idea originale, tu dovevi semplicemente far credere che avevo portato gli altri al sicuro la notte dell'incendio».

«Ci ho pensato e credo che approfitterò della tua presenza per aggiungere qualche dettaglio in più alla messinscena, se tu sei d'accordo» rispose I. «Secondo me, una lettera dovrebbe essere sufficiente a spiegare tutto. Se scrivi due righe prima di arrivare a destinazione, poi potresti fingerti un viandante e consegnare la missiva a qualcuno che va verso Auxi-le-Château, così sarà recapitata al castello dei Ponthieu tra qualche tempo. Guiaume si metterà il cuore in pace e la faccenda si chiuderà».

«Una missiva dopo mesi?» obiettò Daniel.«Basterà retrodatare la lettera a un paio di mesi fa. Scriverai che subito hai portato

Jodie e Martin al sicuro e poi hai impiegato un bel po', esempio due mesi, a dare la caccia a Carl per fargli la festa. L'hai trovato e tutto si è concluso. A giustizia fatta, hai scritto la lettera».

«Giusto, tanto Ponthieu sa che il mio paese natale è in capo al mondo e non si stupirà se la lettera ci ha messo altri due mesi e più per arrivare» concluse Daniel. «Aggiudicato. Dove trovo carta e penna per scrivere al conte?»

«Al villaggio di Lunes ci sarà di sicuro qualcuno che potrà darti entrambe le cose e anche qualche mercante che potrà recapitare la missiva. Basta che non ci facciamo vedere insieme e nessuno farà caso a te o ti riconoscerà».

Daniel ebbe un sorrisetto. «Ideare tanti sotterfugi mi fa sentire un agente segreto».Ian ricambiò. «Prendilo come un gioco di ruolo».«Hyperversum è un gioco di ruolo» sottolineò Daniel «e noi per chiudere un'avventura

rimasta aperta da un bel . Carl suderebbe freddo se sapesse che a distanza di così tempo è ancora rinomato da queste parti!»

Ridacchiavano quando Ian montò in sella e tese la mano al l'amico per aiutarlo a salire dietro di lui.

Il cavallo cominciò docilmente a percorrere la strada battuta.«Mi dispiace solo che con tutta questa recita, tu non abbia modo di incontrare Isabeau

o Guillaume un'ultima volta: sarebbero stati felici di rivederti» riprese Ian dopo un po'. Si era fatto serio.

«Lo sarei stato anch'io, ma pazienza». Daniel sospirò.Ian non disse niente, preso per un attimo dalla stessa tristezza.I pensieri cupi li accompagnarono per un po'.«Chissà cosa ha raccontato Donna a Isabeau, per farla stare tranquilla in questi mesi»

continuò Daniel. «Lei sa che i sicari non ti hanno portato via quando ti hanno aggredito. Ci ha visti tutti insieme prima di svenire».

«Non lo so». Ian non sapeva davvero cosa immaginarsi al riguardo. Una sola cosa lo confortava: sapere dal racconto dell'abate che sua moglie aveva sempre fatto fronte comune con Donna nel preparare la strada del suo ritorno a casa, che aveva pregato tanto per la sua salvezza e scelto di dare il suo nome al nascituro.

Qualunque cosa Donna avesse rivelato a Isabeau de Mont mayeur, lei vi aveva creduto e non se ne era lasciata spaventare. Mentalmente, Ian rivolse tutta la sua riconoscenza alla sua sposa, in attesa di potergliela ripetere all'infinito quella sera.

«Coraggio, acceleriamo il passo» lo esortò Daniel, come se gli avesse letto nel pensiero. «Il tuo castello ti aspetta».

***

La giornata si fece più umida, nonostante il salire del sole dietro le nubi. Si prospettava altra pioggia, ma i due amici in viaggio non si davano pensiero per le condizioni atmosferiche. La loro mente era già avanti, alla fine della strada, al castello di pietra d'argento che era la loro meta.

Cavalcarono con energia per un paio d'ore in silenzio, assaporando l'eccitazione del galoppo sulla via deserta che tagliava il bosco, poi però le prime proteste dei muscoli, e anche la fatica del cavallo, consigliarono loro di rallentare. Da allora si limitarono a seguire il tracciato battuto nell'erba e si presero il tempo di godersi il viaggio.

I prati aperti cominciarono ad alternarsi alle zone di bosco fitto e, quando gli alberi si aprivano, l'orizzonte compariva a tratti.

Il paesaggio era bello, nonostante l'inverno, e sui prati umidi volteggiavano gli uccelli in cerca di cibo. C'era una leggera nebbia tra i boschi spogli e le colline dietro gli alberi sembravano sagome di carta velina contro il cielo grigio.

Ian contava le miglia, una alla volta, con il cuore sempre più leggero. Chatel-Argent si avvicinava. Entro sera avrebbe finalmente riavuto Isabeau tra le braccia.

«Ehi, Romeo» lo chiamò Daniel, battendogli sulla spalla. «Tu vivi d'amore, ma io ho fame! Che ne dici di fermarci a mangiare qualcosa?»

Ian rise. «Hai ragione, scusami. L'abate ha detto che c'è una locanda prima del borgo di Lunes» rispose, indicando la strada che spariva di nuovo nel bosco dopo alcune curve. «Consigliava di non fermarsi perché a parer suo è un posto spartano, ma credo che sia più prudente non farsi vedere insieme in paese, dove c'è più gente».

«Meglio, perché la mia schiena non regge fino a Lunes e neanche il mio stomaco» sospirò Daniel.

«Da quando sei diventato così rammollito?» lo canzonò Ian. «Non fare il fenomeno con me: anche tu sei già stanco, me ne sono accorto» lo zittì l'altro.

Ian dovette ammettere che l'amico aveva ragione. Dopo l'intera mattinata passata sulla sella di un cavallo, aveva la schiena a pezzi e anche le gambe non erano messe meglio.

Così imparo a smettere di andare in palestra per passare tutto il tempo dietro una cattedra, si rimproverò in silenzio.

«Speriamo che si mangi decentemente, nonostante quello che ha detto l'abate» disse invece ad alta voce.

«Basta mettere qualcosa sotto i denti! Giuro che non mi lamenterò».«Invece di pensare al cibo, hai controllato che Hyperversum?» continuò ancora Ian.

«Mi mette ansia il fatto di tein giro con me, mentre potresti già essere a casa».Daniel alzò la mano destra. «Help» chiamò.La mela fosforescente apparve docile al suo comando, a una spanna di distanza dalle

sue dita, e rimase a fluttuare pigramente nell'aria. Si spostava piano piano, seguendo il trotto del cavallo.

«Visto? Tutto ok, non c'è niente da temere» disse Daniel, facendo scomparire l'icona così com'era apparsa. Rimase pensoso per un po' e poi aggiunse: «Non ho mai capito perché posso farlo solo io e tu no».

«E chi lo sa?» Ian si strinse nelle spalle. «Un altro di quei misteri che non capiremo mai, immagino».

***

Trovarono la locanda dopo un'ora appena, un piccolo luogo di sosta nel mezzo del niente, giusto prima del borgo di Lunes aveva preannunciato l'abate. Era più che altro una fattoria quasi sulla strada, costruita in uno spiazzo disboscato in cui erano stati ricavati un orto, un recinto per capre e vacche, un fienile, alcuni abbeveratoi e una staccionata a cui legare i cavalli.

In quel momento c'erano almeno dieci animali, fermi accanto alla staccionata e a poca distanza da un carretto, che sembrava appartenere alla locanda.

I due americani osservarono l'edificio da lontano, badando bene a tenersi fuori dalla visuale delle sue finestre.

«C'è gente. Allora non si mangia poi così male» commentò Daniel allegramente, nello scendere di sella.

«Al momento, mi basta solo sedermi da qualche parte» replicò Ian, stirandosi la schiena dopo aver messo piede a terra. «Sicuro che non vuoi con te anche il pugnale, oltre al denaro per il cibo?» aggiunse poi, indicando l'arma ancora appesa alla sella all'amico in procinto di allontanarsi.

Daniel fece un gesto nervoso. «No, te l'ho già detto. Non mi serve. Vado solo a mangiare, non mi capiterà niente».

In realtà non aveva alcuna voglia di impugnare di nuovo un'arma, neanche per mettersela in cintura. Aveva già avuto modo di tenere in mano una lama, in guerra con i francesi a Bouvines, e il ricordo di quei giorni sanguinosi lo svegliava ancora di tanto in tanto di notte. «Ci vediamo a pranzo» disse a mo' di saluto, incamminandosi.

L'edificio della locanda era grezzo, di legno e pietra, con una grande stanza sul davanti, arredata da un enorme camino, da un bancone per la mescita del vino e da quattro tavolacci appena sbozzati.

Entrando, Daniel vide un gruppo di uomini vestiti da viaggio e seduti a tre tavoli vicini. Stavano già mangiando e bevendo, mentre scambiavano alcune parole tra loro. Sembravano viaggiatori con una certa fretta, alcuni non si erano nemmeno tolti i mantelli e uno aveva addirittura il cappuccio tirato sulla testa. Molti erano armati, come nell'uso dell'epoca.

Daniel andò a sedersi a un tavolo libero, più piccolo e appartato, grato di poter sciogliere i muscoli stanchi dopo le ore passate a cavallo. Anche lui si era tirato il cappuccio del mantello sulla testa prima di entrare, come precauzione aggiuntiva e, vedendo che anche uno degli altri viaggiatori lo teneva alzato, decise di fare lo stesso. Si mise seduto nell'angolo più lontano da tutti gli altri e restò in attesa.

Ian entrò dopo qualche minuto, come arrivando per caso. Si guardò intorno, vide che tre dei tavoli erano completamente occupati e andò a prendere posto all'altro capo di quello di Daniel, fingendo però di non conoscere l'amico. I due si lanciarono appena un'occhiata divertita per quella recita fatta a beneficio di chi li circondava.

La locanda non sembrava brillare per efficienza e infatti passarono molti minuti prima che un garzone svogliato si decidesse a farsi vedere per servire i nuovi clienti. I due locandieri, una coppia di marito e moglie sulla cinquantina d'anni, andavano e venivano

tra la cucina, il bancone e i tavoli, lanciando sguardi sospettosi agli ospiti dei tavoli più grandi.

All'interno della stanza c'era un tepore confortevole e il grande camino non faceva fumo: Ian e Daniel si presero il tempo di godersi un po' di riposo, mentre attendevano il cibo e il vino che avevano ordinato separatamente. Il garzone comunque si era fatto subito più amichevole con Ian, dopo che il giovane aveva scambiato alcune parole con lui, facendogli vedere nel contempo la grossa moneta d'argento con cui avrebbe pagato il cibo e i servigi del cameriere.

«Simpatico, eh?» sussurrò Daniel con sarcasmo, senza farsi notare da nessuno. Con lui il garzone era stato decisamente più brusco.

«L'abate l'aveva detto che era meglio proseguire oltre» rispose I sempre sottovoce.Si guardarono intorno, per ingannare il tempo mentre attendevano il cibo, e si resero

conto che l'atmosfera tra gli altri ospiti non era delle più allegre. Gli uomini parlavano di rado e tenevano per lo più gli sguardi sul tavolo. Quello a capotavola, con il cappuccio tirato ancora sul viso, beveva in silenzio ed era seduto in posizione tale da avere il muro dietro la schiena e una panoramica dell'intera sala davanti a sé. Sembrava molto stanco o debilitato, almeno a giudicare dalle spalle curve. Gli altri intorno a lui gli facevano da scudo e lo tenevano separato persino dal garzone e dai locandieri che a turno venivano a portare il cibo. A parlare con lui e per lui era un uomo armato che gli stava seduto accanto: un guerriero navigato, dal volto deciso e i capelli striati di grigio. Forse un cavaliere, se si prestava fede agli speroni che indossava insieme alla spada.

«Sembrano reduci da un funerale» osservò Daniel, indicando a Ian la scena, senza farsi vedere.

L'amico annuì e nel contempo tese l'orecchio per captare le parole rade di quella cupa compagnia di uomini. «Sono stranieri» notò alla fine. «Parlano uno strano dialetto».

I due tacquero perché il garzone verme in quel momento a servire il cibo anche sulla loro tavola. «Fiamminghi» disse a Ian con una smorfia di spregio, accennando agli altri ospiti e lanciando anche un'occhiata sospettosa a Daniel. «Ce ne sono ancora fin troppi in giro, nonostante la guerra sia finita da un pezzo».

Parlava con evidente disprezzo e non si era reso conto che anche l'uomo a cui si rivolgeva era straniero, poiché Ian, a differenza di Daniel, si era rivolto a lui con il suo impeccabile francese. I due americani si scambiarono un'occhiata segreta e nervosa, sentendo nominare i nemici fiamminghi e la guerra appena conclusa.

«Mi chiedo quanti ne sbucheranno fuori dalle nostre prigioni» brontolò ancora il garzone, sicuro di trovare appoggio nel suo interlocutore. «Ma, d'altra parte, sono solo dei pezzenti che non hanno certo il denaro per pagare il riscatto dei loro prigionieri. I nostri hanno fatto un magro affare catturandoli: dovranno mantenerli nelle galere per i prossimi vent'anni prima di potersene liberare».

Daniel lanciò a Ian un messaggio con gli occhi, non appena garzone si fu allontanato.«Vuoi del pane, amico?» domandò l'altro americano, inventando un pretesto per

iniziare una conversazione con il presunto sconosciuto compagno di tavola, e gli tese un tagliere su cui stava una pagnotta tagliata.

«Che stava dicendo?» s'informò Daniel sottovoce non appena ebbe il modo di parlare senza insospettire nessuno. «Che prigionieri? Quale riscatto?»

«Prigionieri di guerra» spiegò Ian, sbirciando nel contempo gli ospiti seduti ai due tavoli. «E così che funziona nel Me. I vincitori hanno il diritto di catturare i vinti e di

chiedere un riscatto per la loro liberazione. I prigionieri di rango ovviamente valgono di più, i soldati molto meno, ma comunque riguadagnare la libertà solo dopo un pagamento in denaro in ricchezze o dopo aver prestato lavoro servile».

«E quindi quelli lì...»«A quanto pare sono ex-prigionieri. Forse non tutti: alcuni devono essere gli uomini

venuti a pagare il riscatto per i compagni. Saranno sulla via del ritorno, per questo sono qui. La che va da Saint Michel a Chàtel-Argent si collega anche strade che portano in Fiandra, se percorsa in direzione opposta».

Daniel bevve qualcosa dalla sua coppa. «Adesso si spiega la faccia da funerale. Dalla fine della guerra sono passati mesi, non dev'essere stato un bel periodo per loro».

Ian annuì mentre mangiava.Non doveva essere stato davvero un bel periodo per chi aveva passato mesi in qualche

segreta francese, dopo un'ignominiosa sconfitta come quella che in luglio a Bouvines aveva chiuso le ostilità tra Francia da un lato e Fiandra, Impero e Inghilterra dall'altro.

Dovevano essere molti i prigionieri di guerra appena rilasciati, in transito sulle strade francesi in quel periodo, meditò ancora Ian. A quanto ricordava dai testi di storia, Giovanni Senza Terra aveva definitivamente abbandonato la Francia in novembre, con ciò che restava del suo esercito sconfitto. Tutti i suoi cavalieri e i soldati rimasti nelle mani dei nemici dovevano aver atteso ancora di più per poter essere liberati, in cambio di riscatti provenienti dalla Fiandra o dall'Inghilterra. Alcuni, probabilmente, languivano ancora nelle carceri.

Chissà da quale castello provenivano quegli uomini seduti ai tavoli e quale feudatario li aveva tenuti in catene. Ian ricordava che non vi erano prigionieri di guerra nei castelli dei Ponthieu-Montmayeur dopo Bouvines, quindi quei viaggiatori dovevano aver fatto un percorso più lungo. Una strada dura, che si aggiungeva a una prigionia di mesi.

Forse le loro famiglie non avevano più denaro dopo la grande tragedia della guerra, forse il loro carceriere aveva preteso un riscatto oltre le loro possibilità: l'uno o l'altro motivo poteva averli tenuti in cella per tutto quel tempo. Non c'era da stupirsi se le loro espressioni erano così cupe e il contegno tanto scontroso, specie notando la malagrazia con cui i locandieri osavano trattarli.

Lo stesso Ian si sentì irritato dal modo con cui i francesi sta vano servendo i fiamminghi. Quegli uomini avevano già sofferto abbastanza per essere umiliati ancora, e in più senza motivo. Pensò sulle prime di intervenire, ma si trattenne perché non voleva annunciare la sua identità in quel momento e tanto meno

rischiare di coinvolgere Daniel. Mangiò per un po' in silenzio, tenendo d'occhio la situazione da lontano, per quanto poteva.

«Non immaginavo che ci fossero ancora nemici sulle strade e la cosa non mi piace per niente» disse Daniel, interrompendo i suoi pensieri.

«Non sono più nemici, solo ex-nemici» lo corresse Ian. «La guerra è finita e non c'è più motivo di ostilità tra Inglesi, Francesi e Fiamminghi».

«Già, ma loro lo sanno? Da quel che vedo mi pare che i rapporti siano ancora piuttosto tesi» obiettò Daniel.

«Il rancore è duro da mettere a tacere» sospirò Ian. «Purtroppo, da adesso e per un bel pezzo a venire, le guerre tra Inghilterra e Francia saranno quasi continue. Ci vorrà l'epoca moderna per mettere definitivamente pace tra le due nazioni».

Un tonfo fece sobbalzare i due americani che si voltarono in contemporanea.

Uno dei fiamminghi si era alzato in piedi e aveva estratto la spada sbattendola con violenza sul tavolo. La lama era entrata di taglio nel legno, sollevando schegge.

Il garzone che aveva appena servito l'ospite aveva fatto un balzo indietro rovesciandosi addosso uno dei piatti che aveva in mano.

«Basta così, insolente» ringhiò il fiammingo, nel suo francese dall'accento aspro. «Hai finito di insultarci».

Il garzone si fece indietro, spaventato, senza sapere che cosa dire di fronte all'uomo armato che lo affrontava in modo decisamente ostile.

«Che cosa succede qui?» esclamò l'oste arrivando dalla cucina, seguito a ruota dalla moglie. «Non vogliamo seccature, sia chiaro».

«Sì, andate fuori di qui se dovete creare confusione» rincarò la donna.I due persero ben presto la loro aria arrogante, quando un secondo fiammingo si alzò

in piedi sguainando la spada, imitato da un terzo compagno e poi da un altro ancora.«No, sia chiaro che non tollereremo oltre di essere trattati come cani in questa

miserabile locanda» disse l'uomo che aveva reagito per primo. «Che cosa credete? Di poter insultare impunemente dei soldati solo perché pensate di essere i vincitori della guerra?»

«Dei miserabili plebei come voi non hanno nemmeno mai visto un campo di battaglia e adesso pensate di avere il diritto di umiliarci» aggiunse un compagno con rabbia. «Abbiamo già conosciuto più che abbastanza l'ospitalità francese nelle carceri di Soissons, ma qui non siamo prigionieri e voi non siete i signori del feudo. È ora che impariate il rispetto».

L'ostessa si ritirò precipitosamente dietro le spalle del marito, che a sua volta era sbiancato. «Ma miei signori...» tentò di dire l'uomo, ma venne zittito da una lama di spada che gli sventolò sotto il naso.

«Adesso questo plebeo ci chiama "miei signori"!» disse uno degli armati, con un ghigno sarcastico. «Ci disprezzano perché siamo fiamminghi, però rispettano sempre le nostre spade».

«Anche il nostro denaro» aggiunse un compagno. «Quello ai francesi non fa mai schifo». Si accostò di più all'oste, che adesso tremava come una foglia, e concluse: «Quando ti abbiamo pagato in anticipo per il cibo, non sembravi tanto schizzinoso nei nostri confronti. Ora mi piacerebbe pagarti il conto anche con il ferro, oltre che con l'argento».

Ian capì che la situazione stava degenerando e rischiava di diventare pericolosa per tutti, lui e Daniel compresi. Non poteva permetterlo, eppure per un istante si fermò a chiedersi quale fosse il modo migliore per intervenire. Valutò le ipotesi e capì che difficilmente avrebbe potuto ottenere qualcosa senza imporre l'autorità dovuta al suo titolo. Decise comunque di fare un tentativo. «Signori, vi prego, mettete via le armi» disse ad alta voce. «Non è il caso di far finire nel sangue una questione simile. Sono sicuro che i gestori di questa locanda sapranno trattarvi con rispetto, da ora in poi».

Daniel sbirciò l'amico per un istante, teso, ma si impose di stare zitto e non fece una sola mossa per intervenire, sapendo che l'amico non avrebbe mai voluto.

Gli sguardi di tutti si girarono verso il tavolo appartato e si appuntarono su Ian. I locandieri avevano l'aria di chi si sente preso tra due fuochi quando invece si aspettava un aiuto, i fiamminghi non si rabbonirono affatto.

«Ti conviene farti gli affari tuoi, francese» sbottò uno di loro, rivolto a Ian. «Mangia il

tuo cibo e taci: potresti andarci di anche tu, se ci fai arrabbiare».L'approccio amichevole non serviva. Ian fece un bel respiro, restio a passare ai modi

più autorevoli eppure conscio di non altra scelta. Adesso veniva la parte più difficile per lui, perché doveva tenerne fuori Daniel a tutti i costi. Per una, avevano furto di non conoscersi quando erano entrati.

Non farlo! pensò Daniel d'istinto, intuendo ciò che stava accadere. Eppure sapeva bene che Ian non si sarebbe tirato indietro di fronte a quello che sentiva essere il suo dovere cavaliere.

Sotto lo sguardo sempre più teso dell'amico, Ian infatti si alzò in piedi. «Temo che tutto ciò che accade qui sia affare mio, signore,» continuò con maggior severità «compreso un eventuale, inutile tafferuglio da taverna. Non voglio guai, ma non posso permettere che ne accadano in mia presenza, per questo vi consiglio ancora una volta di mettere via le armi, prima che la cosa finisca male per tutti. Da soldati non dovreste abbassarvi a reagire, come sgherri qualunque».

I fiamminghi si risentirono per il rimprovero. Due di loro si scostarono dal tavolo con aria minacciosa. «Con che autorità osi farci la predica, plebeo?»

«Con l'autorità che mi è data dal diritto» rispose Ian senza esitare. «Sono il conte Jean Marc de Ponthieu e queste terre sono sotto la mia giurisdizione».

L'annuncio fece impressione e l'intero gruppo ebbe un moto di sorpresa. Alcuni uomini si guardarono tra loro, altri valutarono la statura di Ian adesso con maggiore incertezza. I locandieri e il servo sobbalzarono. Daniel era teso come un elastico eppure continuò a rispettare la volontà di Ian e fingere di essere solo un semplice spettatore.

«Impossibile» disse infine uno degli armati in piedi. «Il conte Jean Marc de Ponthieu è morto, lo sanno tutti. Il feudo è stato in lutto fino a qualche tempo fa».

«Sei un volgare mentitore» sentenziò l'uomo brizzolato, ma nel contempo sbirciò il compagno incappucciato seduto vicino a lui, a capotavola. Quest'ultimo era rimasto immobile e in silenzio, con le mani appoggiate sul tavolo una sopra l'altra, dietro il suo boccale di vino.

Ian sostenne gli sguardi di tutti con una serietà che difficilmente poteva essere equivocata. «Io non mento, signore, e voi bene a badare alle vostre parole, prima di dirne una di troppo».

«Se sei chi dici di essere, come mai viaggi senza un seguito? Non si è mai visto un conte in giro da solo, senza servi o soldati» domandò uno degli armati, oscillando la spada in modo per nulla amichevole.

«Ho i miei motivi, non vi riguardano. Posso dirvi però che non accetterò disordini nella mia terra. Per questo vi consiglio di riporre le armi o sarò costretto a chiamare i soldati di Lunes, che mi riconosceranno, e allora vedremo se dubiterete ancora della mia parola».

I fiamminghi guardarono ora Ian ora il loro compagno silenzioso seduto a capotavola. Ian e Daniel non fecero fatica a intuire che era lui il capo del gruppo, nonostante fosse rimasto in disparte fino ad allora.

«Finite il pranzo con calma, riprendete la vostra strada e non vi saranno fatti altri sgarbi, ve lo prometto» insisté Ian, sperando di convincerlo. «Non voglio altra violenza, ce n'è già stata troppa in queste terre. Andate in pace e dimentichiamo l'incidente».

L'uomo lo stava scrutando dall'ombra impenetrabile del suo cappuccio calato sul viso. Non disse nulla ancora per qualche istante, infine allontanò da sé il boccale, spostandolo

di lato lungo la tavola.Il suo attendente brizzolato sembrò interpretare quel gesto come un segnale e si alzò

in piedi.Il movimento spaventò il garzone, che reagì in modo inconsulto. Gettò il piatto tenuto

in mano addosso all'uomo che gli stava più vicino e tentò la fuga verso la porta aperta. Non arrivò molto lontano: il fiammingo sporcato dal cibo lo raggiunse in un balzo e gli piantò la spada nella schiena. «Te la sei cercata, verme!» ringhiò con disprezzo.

I locandieri urlarono di terrore. Daniel balzò in piedi. «Fermatevi!» esclamò Ian, sconvolto. Non ebbe la prontezza di riflessi di estrarre la spada, raggelato com'era dalla vista del sangue del garzone, che si stava allargando in una pozza sul pavimento.

Lo stesso ordine venne ripetuto in contemporanea dal capo dei fiamminghi e fu la parola di quest'ultimo a riportare l'immobilità totale nella sala.

L'assassino del servo si ritirò con soggezione, sotto lo sguardo adirato del suo signore.L'uomo sembrava davvero molto contrariato dall'incidente. «Chiudeteli in cucina e

assicuratevi che non fuggano» ordinò ai suoi uomini, indicando con un cenno del capo i locandieri tremanti. «Non voglio altri plebei in mezzo ai piedi. Se fiatano, uccideteli».

La locandiera strillò quando due armati le andarono incontro con le spade spianate. Il marito fu buttato a sua volta oltre la porta senza nemmeno aver modo di aprire bocca.

«Non toccateli!» protestò Ian, ma gli altri fiamminghi gli puntarono contro le armi e gli impedirono di sguainare la sua spada per intervenire. Si posizionarono in modo da sbarrare ogni via d'uscita.

Vedendo il luogo trasformarsi in una trappola, Daniel scattò, afferrò uno sgabello e lo brandì verso i fiamminghi, ma si trovò davanti almeno tre lame affilate. Con paura vide che non avrebbe mai potuto avere ragione di loro e mentalmente si maledì per non aver voluto prendere il pugnale che Ian gli aveva offerto.

Anche Ian aveva capito che non c'era modo di combattere. «Che cosa volete fare? Siete dei criminali!» accusò fremendo.

I fiamminghi entrati in cucina con i locandieri uscirono e sprangarono la porta. Dietro di loro era rimasto solo un silenzio agghiacciante.

Daniel si sentì tremare le mani. Ian era diventato cereo.Il capo dei fiamminghi lo indicò ai suoi uomini. «Prendetelo».«NO!» esclamò Daniel, ma fu zittito da un pugno che lo gettò contro il muro. Si

accasciò seduto a terra, con un gemito strozzato, e rimase li, sotto le lame che gli furono puntate contro dall'alto.

Gli altri fiamminghi avevano già agguantato Ian. L'immobilizzarono e lo disarmarono, mentre il loro capo si alzava in piedi. L'uomo incappucciato arrivò di fronte all'americano e senza preavviso gli afferrò i vestiti. Glieli aprì sbrigativamente all'altezza dell'addome e gli osservò il torace come se stesse cercando qualcosa. Individuò quasi subito la cicatrice lasciata dal pugnale a sinistra dell'ombelico. Poi mollò la presa. «Contro il muro» ordinò.

I suoi uomini costrinsero Ian a girarsi con la forza, lo spinsero con la faccia contro la parete e ve lo tennero con la minaccia di una lama puntata alla nuca.

Stringendo i denti, Ian si sentì sollevare tunica e camicia sopra le spalle per mettere in mostra la schiena nuda. Serrò i pugni sul muro, ma non poté muoversi oltre.

Dietro di lui si fece silenzio.Daniel rabbrividì nel rivedere per la prima volta dopo più di due anni i segni lasciati

dalla frusta su Ian. Allo stesso tempo però, poté notare che i fiamminghi adesso guardavano il loro capo con un'espressione molto seria.

«È lui» dovette ammettere alla fine l'uomo incappucciato e fece un cenno con la mano ai suoi uomini perché consentissero a Ian di girarsi, sempre tenendolo sotto le lame delle spade.

L'americano lo affrontò, furibondo. «Siete soddisfatto adesso? Sapete chi sono, quindi mettete giù le armi e io farò in modo che solo l'assassino paghi per il crimine che ha commesso».

L'uomo non gli rispose subito. Si era voltato a guardare in faccia Daniel per qualche secondo, poi si abbassò il cappuccio e andò incontro a Ian fino a fermarsi viso a viso con lui.

A Ian sembrò quasi un suo coetaneo: un guerriero di qualche anno più giovane e più basso in statura, ma con il corpo temprato dall'addestramento militare. Il volto era pallido e reso affilato da quella che doveva essere stata davvero una dura prigionia, eppure aveva uno sguardo di ghiaccio in occhi chiarissimi. Una cicatrice sottile gli attraversava verticalmente il sopracciglio sinistro per andare a nascondersi tra i capelli castani, tagliati corti in modo rude, forse durante la detenzione.

«Un ricordo di torneo» disse il giovane a Ian, notando il suo sguardo sulla cicatrice, e inaspettatamente usò l'inglese, con un accento perfetto da vero anglosassone. «La devo al tuo amico Sancerre».

Ian spalancò gli occhi, colto del tutto di sorpresa. «Tu chi sei? Io non ti conosco».Daniel trattenne il fiato, con un orribile presentimento.«Anch'io credevo di non conoscerti quando ti ho visto poco fa, ma mi sbagliavo.

D'altra parte, non ci eravamo mai incontrati senza elmo e armatura» replicò l'inglese a Ian. «E dopo Bouvines ero sicuro che non avrei più avuto l'occasione di rivederti. Ero convinto che in qualche modo ti avessero ucciso. Pugnalato, dice la gente qui in giro, e poi bruciato insieme al monastero di Saint Michel».

Ian trattenne quasi il fiato. «Hai mandato tu i sicari...»«No, ma ero presente quando fu dato quell'ordine. Ero là quando Jerome morì

pronunciando le sue ultime volontà e ordinando la tua morte».Ian sentì un brivido violento quando fu scandito quel nome. Jerome.Derangale.In un lampo capì chi era l'uomo che gli stava di fronte. «Geoffrey Martewall...»

mormorò e ricordò il formidabile cavaliere nero con lo stemma del Leone che aveva combattuto al torneo di Béarne e poi a Bouvines, al fianco dello sceriffo inglese.

Daniel fu certo in quel momento che il cavaliere aveva riconosciuto anche lui dall'occhiata che gli aveva rivolto poco prima.

«Barone di Dunchester» completò il capo dei fiamminghi, confermando la sua identità. «Ci incontriamo di nuovo, Falco d'argento. Mai avrei immaginato di uscire da una cella per trovarti sulla mia strada».

Si protese in avanti e abbassò il tono di voce perché solo Ian potesse udirlo quando aggiunse: «E adesso sono molto curioso di sapere da che parte sta la verità. Se dalla tua quando affermi di essere Jean Marc de Ponthieu o dalla parte di Jerome quando sosteneva che tu non lo fossi affatto».

Capitolo 5Ian e Daniel si ritrovarono legati mani e piedi, con un sacco infilato in testa e gettati

come balle di fieno nel carretto rubato alla locanda, che sobbalzava sulle buche della strada sterrata. Le corde di ciascuno di loro erano annodate ai bordi opposti del carretto, per evitare che i due prigionieri si avvicinassero l'uno all'altro e potessero liberarsi a vicenda. Sopra i bordi alti del carretto, inoltre, erano state tirate delle coperte da stalla, in modo che nessuno potesse sbirciarvi dentro.

Daniel imprecò quando l'ennesimo scossone gli provocò un dolore lancinante alla schiena, probabilmente già piena di lividi. Tentò invano di sfilarsi il sacco dalla testa mi riuscì soltanto a rotolare bocconi sul fondo del carretto. Le braccia legate dietro la schiena cominciavano a far male per la posizione scomoda. «Adesso mi ricordo perché odio Hyperversum!» protestò e nella frase mise anche due colpi di tosse, provocati dal sacco impolverato. «Perché ogni volta che finiamo di qua deve capitarci questo?!»

In realtà era molto spaventato, anche se faceva di tutto per non darlo troppo a vedere. La scena appena vista alla locanda gli aveva ricordato quanto brutale potesse essere il mondo del Medioevo e l'aveva precipitato di nuovo in un incubo che credeva di essersi lasciato alle spalle da due anni e mezzo. Quello che era iniziato come un gioco si era trasformato di nuovo in un'avventura tremenda e potenzialmente mortale.

Stramaledetto videogame! si ripeté Daniel mille e mille volte, con rabbia e angoscia.Accanto a lui, e non in migliori condizioni, Ian stava provando a liberarsi i polsi ma

dovette rinunciare quando sentì la corda ferirgli la pelle. Frustrato, rimase rannicchiato sul fianco ad ascoltare i rumori del carretto che procedeva veloce. Da fuori provenivano il suono degli zoccoli dei cavalli al trotto e le rare voci confuse dei fiamminghi, che ogni tanto si scambiavano indicazioni. Forse pioveva, perché di tanto in tanto, attraverso i teli che coprivano il carretto, sgocciolava dell'acqua.

Dove ci stanno portando? si chiese Ian per l'ennesima volta. Da quando erano stati catturati, il carretto non aveva fatto altro che procedere molto spedito e doveva aver percorso già un bel tratto di strada in chissà quale direzione.

Purtroppo, a Ian venivano in mente solo risposte terribili alla sua domanda: il feudo dei Montmayeur confinava con l'Impero e con la Fiandra e, nonostante la guerra appena vinta dai Francesi, era più che probabile che Martewall potesse contare ancora su ottimi appoggi appena al di là del confine, specie in Fiandra. I suoi compagni, inoltre, erano fiamminghi.

«Che cosa vuole da te quel maledetto?» domandò Daniel in quel momento, dando voce al secondo interrogativo che tormentava Ian da un pezzo. «Che cosa ti ha bisbigliato alla locanda?»

L'altro americano cercò di girarsi in modo da potergli parlare col tono più basso possibile. «Per cominciare, vuole la verità».

Daniel impiegò un paio di secondi a capire. «La verità su cosa...?» iniziò a domandare per poi interrompersi subito. Imprecò sonoramente. «E lui cosa diavolo sa di questa faccenda?»

«Non lo so. Non ho idea di quanto sia coinvolto. Non al cento percento, credo, altrimenti non avrebbe bisogno di risposte da me. Però Derangale deve avergli confidato i suoi sospetti. Martewall adesso vuole avere conferme o smentite».

Daniel tacque, scosso da un orribile brivido lungo la schiena. Cercò di non chiedersi come avrebbe fatto il cavaliere inglese a procurarsi da loro le informazioni che voleva ottenere, non appena fosse stato in un luogo abbastanza sicuro in cui poter agire indisturbato. «Che cosa facciamo adesso?» domandò nervosamente.

«Riesci a chiamare Hyperversum?» chiese Ian, invece di rispondergli.«No, se non vedo niente. Se invoco l'icona ma non riesco a toccarla non ho modo di

attivare i comandi del gioco».«Prova lo stesso».Daniel si girò sul fianco. «Help» chiamò. Nessun rumore si aggiunse a quelli del

carretto in movimento. Nessuna sensazione estranea sfiorò i prigionieri.«Senti qualcosa?» domandò Daniel a Ian.«No» dovette ammettere l'amico.«Uscita di emergenza» disse ancora Daniel.Niente.Al buio del sacco calato sulla testa, Daniel mosse le mani a tentoni per quanto gli fu

consentito dalle corde e dalla posizione scomoda. Sotto le dita incontrò solo l'aria. Quella dannata icona è di sicuro da qualche parte ma non riesco a percepirla, pensò e maledisse in silenzio Hyperversum e le sue mele solo virtuali.

«Non mi azzardo a dare qualche altro comando, così alla cieca» sbottò alla fine. «Senza vedere quello che faccio, potrei mandare in blocco il gioco, spegnere tutto o attivare chissà quale scenario alternativo».

«Preferisco non finire in un periodo storico a caso, grazie» replicò Ian con un sospiro.«Non sono sicuro che un'era barbarica sarebbe peggio della situazione in cui siamo»

mugugnò Daniel e di nuovo tentò di muovere le mani. «Scommetto che quella maledetta mela è quì e io non riesco a prenderla!»

E se non la tocchiamo non riusciremo mai a uscire da qui, pensò in aggiunta.Grugnì, sentendo i muscoli delle braccia irrigidirsi per lo sforzo e si abbandonò sul

fianco, in preda ai crampi.«Annulla» ordinò comunque per precauzione. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era

che i fiamminghi, aprendo il carretto, si trovassero davanti una mela fosforescente che fluttuava nell'aria sopra di lui. Allora sì, un bel rogo per stregoneria non gliel'avrebbe levato nessuno e Martewall sarebbe stato l'ultimo dei suoi problemi.

Si rigirò sulla schiena cercando invano una posizione comoda. Impossibile; finché le mani legate gli stavano esattamente sotto le reni.

«Dovrò riprovare quando ci toglieranno questi sacchi dalla testa» sospirò alla fine. «Bisogna aspettare l'occasione giusta: speriamo che mi capiti prima che quel maledetto decida cosa fare di noi».

Ian non rispose. Visto che per il momento la speranza di attivare Hyperversum era svanita, e con essa la possibilità di fuggire senza colpo ferire, si chiedeva come avrebbe agito Martewall per ottenere ciò che voleva. Ma la vera domanda era un'altra: cosa voleva ottenere esattamente Martewall? Aveva preso due prigionieri che non gli sarebbero serviti a molto, se dimostrava la falsa identità di Ian. A meno che Martewall non volesse con questo intaccare la posizione di Guillaume de Ponthieu alla corte francese. Ma gli conveniva poi? Cosa ne avrebbe ricavato?

D'altra parte, se invece l'inglese si fosse convinto che Ian era davvero il fratello di Ponthieu, doveva fare i conti col fatto di avere imprigionato un conte, un nobile di grado

superiore al suo. Un cavaliere non poteva essere tenuto prigioniero senza un motivo molto serio, visto che la cattura non era avvenuta su un campo di battaglia. Se Martewall avesse voluto chiedere un riscatto, avrebbe dovuto giustificare il suo operato per non incorrere nelle rappresaglie legittime dei Francesi. Ponthieu avrebbe potuto appellarsi direttamente al re Filippo Augusto e per Martewall non sarebbe stato facile difendere la sua posizione.

Un pensiero fece rabbrividire Ian: l'inglese non si era fatto riconoscere dai padroni della locanda e quindi nessuno lo sarebbe andato a cercare se la notizia della cattura del redivivo Jean Marc de Ponthieu arrivava in qualche modo a orecchie amiche. D'altra parte, Ian non era nemmeno certo di cosa fosse accaduto davvero ai locandieri, unici testimoni di quanto accaduto.

In ogni caso, se Martewall manteneva il segreto, nessuno avrebbe mai reclamato i suoi prigionieri. E il cavaliere inglese questo lo sapeva bene.

Era semplicemente questo lo scopo di Martewall? Niente riscatti o giochi politici ma solo tenere segretamente prigioniero il responsabile della morte del suo amico Derangale e fare di lui ciò che voleva? Era la vendetta ciò che cercava?

Ian ricordò di colpo le righe scarne che aveva letto sul manoscritto miniato riguardo la sua prigionia durata un numero imprecisato di mesi, prima del ritorno a casa. Ora cominciava a temere che non fosse semplicemente la trascrizione della menzogna inventata per coprire la sua assenza. E se si fosse trattato invece della realtà?

L'idea spaventò Ian profondamente. La Storia diceva che Jean Marc de Ponthieu sarebbe vissuto abbastanza da generare un secondo figlio dopo quello che doveva ancora nascere, ma trascorrere i prossimi mesi nella segreta di un castello, in balia di chissà quali aguzzini, era comunque una prospettiva terribile.

Martewall inoltre poteva rovinargli la vita: sospettava qualcosa, avrebbe potuto indagare o interrogarlo con i mezzi più brutali fino a scoprire indizi compromettenti su di lui.

Jean Marc de Ponthieu sarebbe sopravvissuto a quella prova, ma a che prezzo e in che condizioni?

E c'era di peggio. Se Ian aveva la certezza di non morire prima di generare un secondo figlio che sarebbe nato nel luglio del 1218, non aveva però alcuna notizia riguardo il destino di Daniel.

Che cosa ne sarebbe stato dell'amico, ora prigioniero come lui? Sarebbe sopravvissuto a Martewall? Ian non poteva saperlo e si maledisse per non aver voluto leggere fino in fondo il codice miniato su cui avrebbe trovato tutte le risposte, per essersi fermato alle sole righe che confermavano il suo ritorno al monastero di Saint Michel.

Se solo fosse andato più avanti sarebbe stato preparato a ciò che stava accadendo... avrebbe potuto impedirlo...

Decise in quel momento che doveva far fuggire Daniel a tutti i costi, qualsiasi fosse il prezzo da pagare in prima persona.

Peccato però che non avesse la minima idea di come riuscire a mettere in pratica questo suo proposito.

Quel pensiero tremendo lo accompagnò per un tempo infinito, per ore, mentre il carretto continuava la sua corsa verso chissà quale meta.

Anche Daniel non parlò più per un bel pezzo, con l'angoscia nel cuore. Era di nuovo tutta colpa sua: ora non riusciva a smettere di pensare a quell'idea.

Se due armi e mezzo prima aveva contagiato gli amici con la sua passione per Hyperversum e li aveva trascinati tutti in un'avventura in cui avevano rischiato la vita, adesso era di nuovo colpa sua se Ian, se tutti e due erano finiti sulla strada di Martewall.

Era stato lui a scegliere la data da impostare nei parametri della partita: se fosse stato per Ian sarebbero arrivati nel Medioevo in un giorno diverso e non avrebbero mai incrociato i nemici lungo la strada.

Accidenti a me e alle mie idee balzane! si maledisse Daniel disperatamente.I due amici restarono per lungo tempo ad ascoltare i rumori delle ruote e il dolore che

cresceva nelle loro braccia anchilosate, ciascuno perso nei suoi tetri pensieri.Finalmente il carretto si fermò. Ian trattenne il fiato d'istinto e sollevò la testa. Anche

Daniel sobbalzò, in agitazione. I due amici tesero l'orecchio per ascoltare i fiamminghi che parlottavano tra loro e, presumibilmente, scendevano da cavallo.

Passarono alcuni minuti e il carretto fu scoperchiato. Mani sgarbate staccarono dai bordi le corde che immobilizzavano i prigionieri per poi trascinare fuori Daniel di peso. Ian non ebbe nemmeno il tempo di fare eco alle proteste dell'amico, perché fu prelevato a sua volta e portato fuori con la forza. I fiamminghi lo condussero lontano dal carretto e lo gettarono in ginocchio sull'erba, prima di levargli il sacco dalla testa. Ian emise un'esclamazione soffocata per il dolore che l'urto gli provocò ai muscoli indolenziti. Scrollandosi i capelli dal viso, si trovò davanti Geoffrey Martewall, seduto su un tronco caduto.

Ian si guardò intorno, Daniel non c'era: i carcerieri lo avevano portato da un'altra parte.

Era ormai il tramonto.Si trovavano in un bosco abbastanza fitto, attraversato solo dalla strada di terra battuta

sulla quale era rimasto il convoglio formato dal carretto che trasportava i prigionieri e dai cavalli del signore e dei suoi uomini. I rami degli alberi e i cespugli luccicavano per una pioggia leggera appena finita. La vegetazione era immobile e silenziosa.

Gli armati di Martewall erano scesi di sella per sgranchirsi le gambe, ma non erano tutti in vista. Ian immaginò che alcuni fossero con Daniel, da qualche parte oltre gli alberi fitti. Riportò la sua attenzione sul cavaliere inglese che gli stava di fronte. «Dove ci state portando? Questo è un rapimento, lo sai vero? Non la passerai liscia» minacciò e usò volutamente il francese per farlo.

Geoffrey Martewall fece un cenno ai suoi uomini perché si allontanassero. «Il viaggio è stato troppo scomodo? Dovrai abituartici, durerà ancora un bel pezzo» rispose, una volta rimasto solo con il suo prigioniero, ignorando del tutto la frase precedente per esprimersi in inglese. Si era sistemato sul tronco avvolgendosi il mantello intorno al corpo per ripararsi dal freddo. I capelli gli si incollavano bagnati alla fronte. Il volto era stanco, benché mantenesse un'espressione dura.

«Voglio sapere dove ci state portando!» ripeté Ian con rabbia.«E io voglio sapere tante altre cose da te» rispose gelidamente Martewall. «Avremo

modo di parlare durante il tragitto. Non abbiamo che da scegliere in che lingua farlo».Ian si rassegnò a passare all'inglese a sua volta: gli sarebbe stato più facile cogliere

ogni sfumatura del discorso. «Parlare di cosa? Io non ho niente da dirti».«Ma io ho domande da farti».«Domande inutili, come chiedermi: chi sono? Perché sprechi il fiato? Sai già la mia

risposta».

«Non credo che sia la risposta giusta».«Ti piaccia o no, è l'unica che avrai».Per un lungo momento, i due giovani si affrontarono in silenzio con sguardi ostili.«Jean Marc de Ponthieu» disse infine Martewall, quasi sillabando il nome, come se lo

stesse confrontando con l'uomo che aveva davanti per decidere se si adattasse davvero al suo viso. «Mi chiedo se continueresti a essere tanto caparbio se usassi con te le cattive maniere».

Ian serrò i pugni legati dietro la schiena. «Puoi distorcere le parole di un uomo con la violenza, ma non distorcere la verità.

Non cambierai ciò che sono, per quanti tentativi tu possa fare».Il cavaliere inglese non rispose, ma rimase a scrutare il prigioniero negli occhi. «Se

sei veramente chi dici di essere, perché tutti ti danno per morto? Sono passati mesi dall'agguato e in queste terre ti piangono ancora».

Ian ebbe un fremito al pensiero del dolore di Isabeau. «Sono quasi morto davvero» rispose brusco. «Mi sono salvato per miracolo».

«Già. E poi? Hai avuto una convalescenza così lunga? Senza dare notizie di te a tuo fratello?» insinuò l'inglese, scettico. «Dove sei stato fino ad ora?»

«Prova a immaginarlo da solo. Io non ti devo spiegazioni». «Me le darai. Fosse l'ultima cosa che dici. In alternativa, potrei ottenerle dal tuo amico».

Furente, Ian si protese verso Martewall. «Lui non ha niente da dirti. Non lo toccare o te la vedrai con me!»

L'altro cavaliere non rispose, ma Ian vide con paura che aveva preso nota della reazione istintiva del suo prigioniero. Martewall aveva scoperto un punto debole di cui poter approfittare.

Ian si maledisse per il passo falso e tacque per non peggiorare la situazione.«Mi sono ricordato di lui quando l'ho guardato meglio» continuò Martewall. «Curioso

che facesse finta di non conoscerti. A Bouvines era il tuo scudiero e mi minacciò con il suo arco».

Un vero peccato che non abbia anche tirato, pensò Ian d'istinto, ma preferì non dirlo. «Adesso è cavaliere» rispose invece. «E non è neppure francese. Lascialo andare, lui non ti ha fatto niente».

Martewall fece spallucce. «Francese o no, poco importa: se voleva evitare noie, non doveva accompagnarsi a te. Ha fatto la sua scelta di campo. Peggio per lui se non è stata una scelta felice».

Ian detestò il suo interlocutore con tutte le sue forze, eppure lesse nel suo sguardo non solo astio, ma anche molti interrogativi irrisolti. «Perché tanto accanimento contro di me? Che cosa speri di ottenere?» insisté. «Non avrai vantaggi dal tuo piano, qualunque sia».

«Vantaggi? Credi forse che io sia un volgare bandito?» si risentì Martewall.«Lo sei. Io non sono forse un ostaggio rapito per strada?» Il cavaliere inglese si alzò

in piedi, infastidito. «Io voglio capire!»Ian lo guardò avvicinarsi fino a quando l'altro giovane non torreggiò su di lui.Martewall lo squadrò dall'alto con ferocia. «Jerome era coinvolto in un enigma di cui

tu sei il centro. Ti tratterrò finché non avrò capito ogni cosa e userò ogni mezzo per arrivare alla verità. Mi capisci? Ogni mezzo. Non è detto che alla fine tu rimanga in vita e la cosa in realtà non m'importa, tanto nessuno verrà mai a chiedermi dite».

Ian si sedette lentamente sui talloni, ma cercò di mantenere gli occhi in quelli dell'inglese, senza distoglierli mai. «Quale enigma?» domandò piano, teso.

Martewall interpretò il suo tono più basso come un segno di paura e sollevò il mento, soddisfatto di essere riuscito nella sua intimidazione.

«Perché Jerome era così ossessionato da te? Ha gettato via il suo onore, ordinando la tua morte. È arrivato al punto di accusarti di falsa identità davanti al re di Francia. Non avrebbe mai pronunciato un'accusa tanto assurda, se non fosse stato certo di quello che diceva».

Martewall non è a conoscenza dell'intrigo ideato da Derangale con Dammartin e il vero Jean de Ponthieu, pensò Ian in un lampo e trattenne un sospiro di sollievo. Adesso aveva un margine di manovra in più.

«Forse il tuo degno amico non sapeva come giustificare il tentato rapimento della mia futura sposa e il trattamento che mi aveva riservato senza motivo a Cairs. Non hai pensato a questo? Non poteva spiegare, se non mentendo, le frustate che mi marchiano ancora la schiena. A me, un conte di Francia».

Il volto pallido di Martewall s'irrigidì. «Jerome non era un bugiardo».«Ma un rapitore sì, eh? E anche un violento e un assassino: oltre a ordinare la mia

morte, al torneo di Béarne tentò di uccidere il conte di Grandpré solo perché era un mio compagno di fazione».

«Non ti permetto di insultare in questo modo un cavaliere d'Inghilterra!» ringhiò Martewall. «Era mio amico e tu l'hai ucciso. Non osare infangare la sua memoria!»

«Anche tu c'eri. Non puoi negare ciò che accadde a Béarne. Se lo fai, sei un assassino al pari di Derangale» rispose Ian con uguale durezza.

Fu zittito da un manrovescio in pieno viso, che quasi lo gettò a terra. Ian si piegò sotto il colpo con un'esclamazione strozzata, ma poi rialzò gli occhi, furibondo. «Riprovaci e te ne pentirai» minacciò.

Martewall sembrò sul punto di rispondergli in maniera ancora peggiore, ma si limitò, minaccioso, a puntargli contro il dito perché il suo gesto violento aveva messo in allarme gli uomini poco lontani. «Ne riparleremo» disse fremendo, poi chiamò gli armati. «Dategli da mangiare e rimettetelo dentro» ordinò loro seccamente, indicando il prigioniero.

***

Daniel era già di nuovo legato e incappucciato nel carretto quando udì che Ian veniva buttato dentro accanto a lui. «Ehi!» protestò, sentendo l'amico gemere quando lo cacciarono avanti contro il bordo per annodare lì le corde che lo stringevano. «Che cosa ti hanno fatto?» domandò con ansia, non appena gli uomini di Martewall si furono allontanati e il carretto rimesso in moto.

Ian tossì sotto il sacco prima di rispondere. Il viso gli faceva male là dove l'inglese l'aveva colpito. «Niente. Per il momento, almeno. Tu come stai?»

Daniel cercò di sistemarsi il meglio possibile. «Sto bene, non mi hanno fatto niente. Mi hanno dato da mangiare, da bere e... be', mi hanno lasciato soddisfare le mie necessità».

Ian sospirò. «Idem. Prima però ho fatto due chiacchiere con Martewall».«Che ti ha detto?»

«Mi ha minacciato, più che altro. Temo che non mollerà la presa finché non avrà le sue risposte ed è disposto a usare ogni mezzo per ottenerle».

«Ma non può farlo! Voglio dire: siamo in casa tua, nelle tue terre! Nessuno può osare toccarti qui!»

«Al contrario: basta solo far sparire con più cura ogni traccia dopo il misfatto».Daniel rabbrividì, sapendo che l'amico aveva ragione.« È per questo che ci stanno tenendo nascosti con tanta precauzione» continuò Ian.

«Nessuno sa che è stato Martewall a prenderci. Finché mantiene il segreto, può fare ciò che vuole indisturbato». Tacque un attimo ma poi aggiunse: «Non credo che sarà gentile con noi, anzi temo che ci abbia presi proprio per questo. Non è un intrigante calcolatore come Derangale. Martewall sta improvvisando sul momento, non ha piani prestabiliti e vuole vendetta per il suo amico morto».

«Bastardo» mugugnò Daniel.Ian cercò di girarsi verso di lui. «Ascolta: la prossima volta che ci fermeremo e ti

toglieranno quel sacco dalla testa, devi chiamare Hyperversum e sparire da qui di corsa».«Senza di te? Neanche morto!»«Stammi a sentire, Daniel! Tu devi andartene prima che sia troppo tardi».«Non ti lascio nelle mani di quell'aguzzino!»«Io sopravviverò, la Storia lo dice. Tu invece rischi la vita! Ti voglio fuori da qui

appena possibile».«Se me ne vado senza di te, non potrò tornare! Hyperversum funziona solo quando

iniziamo la partita insieme: se adesso esco dal gioco da solo, non riuscirò ad avviare un'altra partita! Non ci rivedremo mai più!»

Ian sentì una stretta al cuore. «Non importa» rispose piano. «L'unica cosa che importa adesso è la tua vita. Sapevamo che ci saremmo dovuti separare, prima o poi. Mi basterà sapere che sei al sicuro e dovrà bastare anche a te».

Daniel non disse più niente, amareggiato.Il carretto ricominciò a muoversi lungo la strada.

***

Quella notte fece freddo e i due prigionieri la vissero in dormiveglia sul carretto, in bilico tra un sonno esausto e i trasalimenti provocati da ogni sobbalzo improvviso. Martewall non fece più fermare il convoglio: evidentemente aveva fretta di arrivare alla sua meta, ovunque fosse. Doveva essere quasi l'alba quando i prigionieri crollarono del tutto. Più tardi si risvegliarono e in lontananza cominciarono a udire rumori confusi di gente e di movimento.

«Che cos'è?» domandò Daniel sottovoce.Ian era teso in ascolto di ogni suono, ma impiegò un po' di tempo per capire a cosa si

stessero avvicinando. « È un villaggio... siamo in un villaggio o una città!»Non poté dire altro, perché uno degli armati di Martewall s'infilò nel carretto e si

sistemò accanto a loro. Ian sentì il sibilo di un pugnale che usciva dal fodero e subito dopo, il freddo della lama sul collo.

«Fate un grido e vi taglio la gola» minacciò l'uomo a bassa voce, ma facendo in modo che anche Daniel lo udisse bene.

Maledetti! Hanno paura che i francesi li scoprano con noi legati qui dentro! pensò

Daniel furioso.L'idea che là fuori, a portata di voce, ci fosse qualcuno che poteva aiutarli e

l'impossibilità di farsi sentire, lo facevano impazzire di rabbia. Eppure non tentò una sola mossa, sapendo che l'armato era proprio lì accanto, pronto a tutto.

Per lungo tempo il carretto attraversò, lento, strade movimentate. Quando finalmente si fermò, alle orecchie di Ian arrivò un suono nuovo tra gli altri, prima indistinto, poi sempre più chiaro.

Un suono che gli fece sentire il ghiaccio nel cuore. «Il mare..!» mormorò il giovane con sgomento.

Anche Daniel alzò la testa, allarmato. «Cosa?!»«Silenzio!» minacciò il loro carceriere.Ian si morse le labbra, con il pugnale che premeva di più sul collo. Non disse altro, ma

i suoi pensieri si rincorrevano affannosamente.Erano arrivati al mare. Gli uomini di Martewall li avevano condotti sulle rive della

Manica. Da lì il loro viaggio avrebbe senz'altro preso una direzione ben precisa.Ci stanno portando in Inghilterra!Ian ebbe paura a quell'idea. Non voleva nemmeno immaginarsi cosa avrebbe atteso

due cavalieri dell'esercito francese come lui e Daniel una volta arrivati nei territori dello sconfitto re Giovanni Senza Terra. E la disfatta di Bouvines era ancora troppo recente perché gli animi potessero essersi calmati. Specialmente quello del sovrano inglese e dei suoi cavalieri, umiliati. Lo dimostrava fin troppo bene l'atteggiamento di Martewall e dei suoi compagni fiamminghi.

Se Ian poteva nutrire una minima speranza di trovare aiuto e di evitare una lunga e brutale prigionia in Francia, quella speranza svaniva ora che con tutta probabilità stavano per trasferirlo sul suolo nemico. In territorio inglese persino Filippo Augusto avrebbe avuto difficoltà a reclamare la restituzione di un prigioniero. E di certo spariva la possibilità che Ponthieu potesse intervenire in prima persona a liberare un fratello di cui non conosceva nemmeno il rapitore.

E Daniel... Daniel rischiava la vita ogni minuto di più, man mano che l'Inghilterra si avvicinava. Febbrilmente, Ian cercò di pensare a una via d'uscita, ma non la trovò.

Il carretto ricominciò a muoversi dopo un'attesa snervante. Come temeva, Ian udì le ruote rimbombare su quello che doveva essere un pontile di legno. Il rumore del mare adesso era ancora più forte.

«Oh, Signore...» invocò sottovoce Daniel, arrivato autonomamente alle stesse conclusioni di Ian.

Il carceriere gli allungò una gomitata nelle costole per farlo tacere.Le voci francesi degli scaricatori di porto risuonarono tutto intorno per un bel pezzo,

mentre il carretto subiva altri scossoni. Si udirono il nitrito dei cavalli che venivano condotti via e il grido dei gabbiani che volavano alti. Poi, una a una, le voci si allontanarono. L'oscillazione violenta del carretto si quietò per lasciare il posto a una più lieve e ritmica. Il rumore del mare ora risuonava amplificato dalle pareti di legno di una stiva.

Il fiammingo armato ripose il pugnale e scivolò fuori dal carretto. «Adesso potete anche urlare, se volete, tanto qui non vi sente più nessuno» disse beffardo, prima di allontanarsi.

Daniel e Ian, in silenzio angosciato, ascoltarono la nave mollare gli ormeggi per

prendere il largo.

Capitolo 6La nave rimase in mare aperto per un tempo che sembrò infinito. In realtà non passò

nemmeno una giornata, poiché i carcerieri trasferirono i prigionieri sopracoperta una volta sola, per il cibo e le altre necessità, quando il sole cominciava ad abbassarsi sul mare.

Per non doverli sostenere a ogni passo, i fiamminghi avevano tolto i cappucci ai due ostaggi e Ian e Daniel capirono di aver attraversato la Manica quando videro la costa nebbiosa davanti alla nave.

Il vento gonfiava la vela sospingendo l'imbarcazione a un'andatura sostenuta. Le onde s'infrangevano con un rumore ritmico sulle fiancate di legno e si fondevano poi nella scia bianca che spumeggiava dietro il timone.

Ci sarebbe voluto ancora un po' per arrivare, la Francia però era ormai invisibile alle loro spalle, nella nebbia che si infittiva in fretta.

«Tu. Di là» ordinò un fiammingo a Daniel, facendogli cenno di proseguire verso l'altro lato della nave, dov'erano alcuni compagni. «E voi, signor conte, sedetevi senza protestare» aggiunse, calcando con scherno sul titolo nobiliare.

Ian lo guardò di sbieco, ma non reagì, limitandosi a sedersi nel punto che gli era stato indicato, benché con fatica a causa delle mani, ancora legate dietro la schiena. Il fiammingo rimase accanto a lui in piedi, con i pollici nel cinturone che reggeva spada e pugnale.

Daniel venne preso in custodia e sospinto avanti da altri due armati senza aver tempo di dire una parola, ma almeno gli furono liberati i polsi. Ian capì che i carcerieri volevano occuparsi di loro uno alla volta, probabilmente per non distogliere uomini dal governo della nave.

Non riusciremo mai a fuggire, se continua così, rimuginò Ian con rabbia, studiando il luogo in cerca di una possibile via d'uscita.

Purtroppo, nel bel mezzo del mare era piuttosto improbabile trovarne una. L'ideale sarebbe stato scomparire insieme dalla nave, infischiandosene di ciò che Martewall e gli altri medievali potevano pensare. In fondo, chi mai avrebbe creduto alle loro parole, se avessero dovuto raccontare la fuga dei prigionieri? Per fare questo, però, i due amici dovevano rimanere soli, vicini e senza quel maledetto sacco in testa per qualche minuto almeno. Solo così si poteva chiamare l'icona di Hyperversum e toccarla senza impedimenti, cosa che finora non erano riusciti a fare.

Il guaio era che Daniel non poteva nemmeno scappare da solo, finché stavano in mezzo al mare. Dileguandosi "per magia" avrebbe lasciato Ian in una posizione davvero difficile da sostenere.

I due amici ne avevano già discusso durante le lunghe ore passate nella stiva: per far fuggire almeno Daniel era necessario attendere che la nave si avvicinasse un po' di più alla costa e inscenare un'evasione credibile.

Speriamo che questa bagnarola arrivi in porto in fretta, si disse Ian, fissando l'orizzonte per capire a che velocità si avvicinasse. Prima o poi dovranno farci scendere da qui e non potranno tenerci sempre sott'occhio a tempo pieno!

La nave su cui erano imbarcati era tozza e tondeggiante, non doveva superare i cento

piedi di lunghezza e non era più larga di trenta6. Aveva un unico albero con una vela rettangolare e nessun banco per i rematori; sul ponte erano ammassate le merci che non avevano trovato posto nella stiva. Per il resto era spartana ma in buone condizioni, benché non nuova.

Non essendo un esperto, Ian non seppe riconoscere il tipo di imbarcazione, ma sospettò che fosse un mercantile adatto ai tragitti non troppo lunghi, visto che non disponeva di una stiva imponente né di alloggi attrezzati per passeggeri o marinai. Nel vano di carico in cui era stato imbarcato il carretto aveva trovato a malapena posto metà dei cavalli degli uomini di Martewall oltre a merci e casse di legno. Se la nave poteva disporre anche di un secondo vano identico, considerate le sue proporzioni, di sicuro non c'era spazio per ospitare provviste, e soprattutto acqua potabile per un lungo viaggio. Al massimo qualche giaciglio di fortuna tra le merci, i bagagli e il resto degli animali.

Ian calcolò che fossero imbarcati circa trenta uomini a bordo, tutti inglesi o fiamminghi e tutti alleati di Martewall, almeno a giudicare dal fatto che nessuno si era stupito nel vedere sul ponte due prigionieri legati e guardati a vista. Da parte loro non poteva certo sperare in un aiuto.

Sospirò. Non restava che attendere di arrivare a terra e cercare nel frattempo di rilassarsi in modo da non sprecare energie. Così, lasciò passare una decina di minuti, completamente inerte. Dopo l'intera giornata con la testa in un sacco di tela, fu almeno grato di poter finalmente respirare aria pura e di sentire il vento sul viso, guardandosi intorno.

Martewall era seduto a prua su alcuni rotoli di corda, con il dorso appoggiato contro una cassa, isolato da tutti e imbacuccato nel suo mantello pesante. Non si muoveva, aveva gli occhi chiusi: forse dormiva, eppure sul ponte della nave faceva decisamente freddo e il cavaliere sembrava soffrirne, a giudicare almeno dalle labbra esangui.

Poteva trovarsi un posto sottocoperta, al caldo con i cavalli, pensò Ian, poi però considerò il sollievo che lui stesso stava provando nel trovarsi all'aperto dopo tanto tempo passato al chiuso, con l'aria stantia e l'odore degli animali. Da quanto aveva capito, Martewall aveva trascorso mesi in una segreta francese, ben peggiore di qualsiasi carretto o stiva: pensando a quello, non c'era da stupirsi che adesso preferisse evitare i luoghi chiusi, a costo di congelare all'aperto.

Una fine che io non intendo fare, si ripromise Ian, cercando di togliersi dalla testa l'immagine di una prigione medievale costruita nelle viscere buie di chissà quale castello.

L'uomo brizzolato, che aveva imparato a riconoscere come il luogotenente di Martewall, andò dal cavaliere in quel mo mento, chinandosi su di lui per dirgli qualcosa, ma era troppo lontano perché Ian potesse udirlo. Martewall riaprì gli occhi e rialzò la testa per guardare oltre la prua della nave, verso la costa sempre più visibile e vicina. In quello stesso istante i marinai cominciarono a darsi da fare al timone e alla vela con più impegno.

L'imbarcazione piegò leggermente e poco alla volta la terraferma si spostò alla sua sinistra.

Ian seguì la manovra con occhio attento. Viriamo, pensò.Da che parte stiamo andando?Era deluso e in ansia: se la nave si metteva a costeggiare la riva senza avvicinarsi mai,

6 Circa trenta metri per dieci.

si allungava il tempo di attesa per una qualsiasi occasione buona di fuga.Il giovane si voltò quando i carcerieri riportarono Daniel verso di lui. L'amico aveva

di nuovo le mani legate dietro la schiena, ma gli rivolse una muta domanda con gli occhi e un cenno del capo rivolto ai marinai che lavoravano: che sta succedendo?

«Seduto» ordinò uno dei fiamminghi, indicando a Daniel un punto accanto a Ian, poi si fermò a parlare con il suo commilitone. Anche l'uomo che sorvegliava Ian si scostò di qualche passo per raggiungere i compagni.

«Credo che stiamo oltrepassando Dover» bisbigliò Ian a Daniel nell'unico momento in cui si trovarono l'uno accanto all'altro e i carcerieri scambiavano due parole tra loro. «Stiamo proseguendo verso nord».

«E questo è un bene o un male?» domandò Daniel.«Non ne ho idea». Ian si guardò intorno sconsolato, nell'aria fredda e nebbiosa.«Che cosa c'è a nord lungo la costa?» chiese ancora Daniel.Ian scrutò l'orizzonte grigio, cercando invano un punto di riferimento. «C'è Londra,

credo, o meglio c'è la foce del Tamigi. Poi, più su, non so».«Il feudo di Martewall?»«Probabile. Non ho idea di dove sia Dunchester».«Dimmi che quel nome ti ricorda qualcosa di buono» insisté Daniel, vedendo l'amico

tacere pensoso dopo l'ultima frase. Ian scosse la testa. «Qualcosa. Forse. Il nome mi sembra familiare, ma non mi viene in mente niente di preciso adesso».

Daniel mugugnò una frase del tipo "Allora, a che ti è servito studiare tanto?" ma tacque quando i carcerieri si accostarono, infastiditi dal confabulare dei prigionieri.

«Che avete da brontolare?» domandò uno di loro, sgarbatamente.«Fa freddo» gli rispose Daniel con lo stesso astio.«Nelle segrete di Dunchester farà più caldo, ma non credo che lo apprezzerete!» rise

l'uomo, sarcastico, poi fece cenno a Ian.«Signor conte, se volete seguirmi, il vostro pranzo è pronto, anche se con un po' di

ritardo».Rassegnato, Ian ubbidì senza protestare.

***

Il resto del pomeriggio non portò miglioramenti.Ian e Daniel vennero rinchiusi di nuovo nella stiva e fu risparmiata loro la tortura del

sacco sulla testa, ma i due dovettero sedere l'uno di fronte all'altro, lontani, separati da alcuni degli uomini armati che, non volendo stare al freddo sul ponte, si stesero lì a riposare.

Così, rispetto a quando erano imprigionati nel carretto, venne tolta ai prigionieri anche la possibilità di parlare, perché gli armati reagivano in modo ostile ogni volta che uno dei due tentava di aprire bocca.

La fuga era decisamente fuori questione.Dal boccaporto aperto proveniva una luce fredda che consentiva almeno di vedere

l'ambiente e così i due amici poterono valutare meglio il luogo in cui erano tenuti prigionieri.

Il carretto, a cui erano state smontate ruote e stanghe, era leggermente spostato rispetto al boccaporto e lasciava spazio alla scala a pioli mobile che consentiva l'accesso

dei marinai alla stiva. I cavalli, invece, erano in fondo al vano, su uno strato di paglia che assorbiva gli escrementi e poteva poi essere gettato fuori bordo da un portello sulla fiancata. Erano sei, legati col muso rivolto verso la parete di legno, apparentemente tranquilli, anche se ogni tanto qualcuno di loro sbuffava per il dondolo della nave.

Nel resto del vano erano ammucchiate casse di legno, sia piene sia vuote. Dove c'era spazio libero, gli armati di Martewall avevano sparso un po' di paglia pulita per stendersi e dormire.

Di qua non si esce. Sconsolato, Daniel guardò Ian e ricevette in cambio un cenno di diniego con la testa. Si abbandonò con la schiena contro la parete, aspettando. Non poteva fare altro, solo aspettare. Il dondolio della nave era quasi ipnotico, e così il rumore delle onde.

Il giovane si svegliò di soprassalto quando udì alcuni tonfi sordi contro la fiancata.Che cosa è stato? si domandò confusamente, mentre capiva di essersi addormentato

senza accorgersene. Si guardò intorno, in allarme.La luce adesso era così fioca da rendere appena distinguibile ciò che era nella stiva,

ma Daniel poté ugualmente vedere che anche Ian era vigile e stava guardando verso il boccaporto ancora aperto. Il rettangolo di cielo si era fatto scuro, ormai era il tramonto. La nave dondolava molto meno di prima e i marinai si gridavano ordini da lontano.

Siamo fermi? fu il pensiero che attraversò la mente di Daniel. Il cielo nuvoloso ma immobile gli diede conferma del suo sospetto. La nave aveva attraccato da qualche parte.

Qualcuno dall'alto portò una lampada, illuminando sagome nere. La scala a pioli cigolò, traballando leggermente. Martewall scese nella stiva per primo.

Daniel si mise sul chi vive, ma il cavaliere inglese si limitò a lanciare ai prigionieri un'occhiata torva e si rivolse invece ai suoi uomini, che, al suo arrivo, si stavano svegliando uno dopo l'altro. Il luogotenente con la lampada seguiva Martewall per fare luce all'interno dell'ambiente.

Martewall chiamò quattro nomi e altrettanti uomini si alzarono subito. «Preparate i cavalli» ordinò loro il cavaliere, poi si rivolse al luogotenente. «Hector, ti lascio il controllo della nave, vi raggiungerò a Dunchester domani».

L'uomo brizzolato annuì. «Contate su di me, signore».Gli uomini si erano messi al lavoro senza altre domande: due sellarono i cavalli, uno

raccolse gli equipaggiamenti, un altro andò ad aprire il portello laterale mentre i compagni restanti sollevavano da terra la passerella di legno.

«Togliti dai piedi» ordinarono a Daniel, che si trovava sul tragitto.Il giovane obbedì in silenzio per andare a sedersi dall'altra parte, accanto a Ian, sotto

lo sguardo attento di Martewall e del suo luogotenente.Quando il portello si aprì, i due prigionieri poterono vedere un pontile di legno

proprio accanto alla nave.Gli uomini cominciarono a condurre fuori dalla nave cinque dei sei cavalli,

scortandoli scrupolosamente sulla passerella perché non facessero movimenti inconsulti e potenzialmente pericolosi durante il trasferimento. Martewall stesso s'incamminò, fermandosi però ancora qualche istante a scambiare alcune parole con il suo luogotenente. L'uomo annuì e poi salutò. Martewall scomparve dalla vista, oltre il portello.

«Ritirate la passerella e chiudete. Dobbiamo riprendere il largo prima che faccia buio» ordinò il luogotenente, poi lasciò la lampada nelle mani di uno dei suoi sottoposti e risalì

la scala per tornare sul ponte.«Possiamo approfittarne» sussurrò Ian a Daniel, nel momento di momentanea

disattenzione dei carcerieri, e accennò in modo eloquente al portello aperto sulla fiancata e agli uomini che vi stavano lavorando. «Martewall se n'è andato con metà dei suoi, non avremo mai occasione migliore. Sta' pronto: cercherò di creare un diversivo prima che la nave ritorni in alto mare. Se non dovessimo farcela insieme, vattene da solo».

Daniel non rispose. Sentiva il disagio crescere all'ipotesi di scappare lasciando Ian nelle grinfie di Martewall. Certo, appena la nave ripartiva, poteva simulare una fuga gettandosi in mare dal portello laterale. Gli sarebbe bastato sottrarsi dalla vista quel tanto che bastava per chiamare Hyperversum e toccare l'icona che gli avrebbe aperto la porta del ritorno. Gli uomini di Martewall lo avrebbero cercato invano, pensando che si fosse salvato nuotando oppure che fosse affogato nel tentativo.

Sì, la fuga poteva essere davvero a portata di mano, eppure Daniel tentennava. Ora che il momento si avvicinava, sentiva crescere la paura per Ian. Che ne sarebbe stato di lui, se fosse rimasto da solo in terra nemica? Al solo pensiero, Daniel si sentiva male.

«Non devi esitare» insisté l'amico, intuendo i suoi pensieri agitati. «Promettimelo».Daniel annuì, cupo.«Silenzio, voi due!» li apostrofò l'uomo con la lampada. «E tu ritorna al tuo posto,

avete già chiacchierato abbastanza» continuò rivolto a Daniel.Il giovane si trattenne a stento dal rispondergli per le rime, consapevole di non poter

fare neanche una mossa avventata, ora che stavano progettando di evadere. Si alzò per tornare a sedersi dove era prima, ma ebbe cura di sistemarsi più vicino al portello.

Ian finse di cercare una posizione più comoda e a sua volta si spostò un po', pur senza alzarsi in piedi. Tra i due amici, seduti di nuovo uno di fronte all'altro, adesso c'era la scala a pioli che scendeva dal boccaporto.

L'uomo con la lampada attese che gli altri finissero il lavoro e accudissero anche il cavallo rimasto nella stiva, poi fece luce sulla scala per consentire ai compagni di salire e consegnò la lampada all'ultimo. «Portami qualcosa da mangiare quando ritorni» gli disse, poi si sedette sugli ultimi pioli, di guardia.

La nave fece tutti i preparativi per riprendere il mare. Passò una buona mezz'ora prima che i rumori del molo si spegnessero e si intensificasse quello delle onde. Il dondolio più accentuato dello scafo disse ai prigionieri e al loro guardiano che la costa si era allontanata di nuovo.

Il fiammingo si alzò, rassicurato dal fatto che la nave fosse ormai in marcia e andò a stendersi sulla paglia. Dopo una decina di minuti di immobilità quasi totale, Ian e Daniel furono certi che l'uomo si era appisolato.

Il buio ormai era molto fitto nella stiva e consentì a Daniel di muoversi finalmente inosservato. Cauto, muovendo un muscolo alla volta, il giovane riuscì a far passare sotto le cosce i polsi legati. Ancora un piccolo sforzo e sarebbe riuscito a portarseli davanti al petto. Anche Ian stava facendo altrettanto, ma fu bloccato dal rumore che sentì provenire da sopracoperta. Alzando gli occhi, vide una luce avvicinarsi al boccaporto: il compagno del fiammingo stava ritornando a portare da mangiare come gli era stato richiesto.

Ian abbandonò la sua manovra per rotolare semisdraiato ai piedi della scala a pioli, fuori dalla vista di chi arrivava, sistemandosi su un fianco per fare leva con più efficacia.

Daniel cercò di affrettarsi a portare le braccia in una posizione utile senza svegliare il carceriere poco distante. Ci riuscì nel momento stesso in cui la scala cominciò a gemere

sotto il peso dell'uomo che scendeva tenendo la lampada in una mano e un fagotto di tela sotto il gomito.

Ian agì nel medesimo istante: diede un calcio ai piedi della scala e questa fu spinta indietro con tale violenza da perdere l'appoggio contro il bordo del boccaporto. Cadde fragorosamente. Ian la evitò per un soffio, mentre l'uomo che vi stava sopra precipitò con un grido di sorpresa.

La lampada si spaccò sul pavimento, spargendo fiamme e olio sulla paglia, che subito avvampò.

Daniel balzò addosso all'altro fiammingo, svegliatosi di soprassalto, e lo colpì in pieno viso con entrambi i pugni legati. Lo rigettò a terra e poi gli si buttò sopra mentre era ancora stordito, cercando il suo pugnale per liberarsi le mani.

«Sbrigati!» gli urlò Ian, sovrastando i nitriti del cavallo che scalpitava spaventato dal rumore e dal fuoco, che si espandeva rapidamente divorando la paglia e attaccando le casse di legno delle merci. Ian dovette appiattirsi al suolo per evitare le zampe micidiali, poi riuscì a mettersi fuori portata.

Mentre tentava di rimettersi in ginocchio, l'uomo caduto dalla scala lanciava gemiti strozzati, stringendosi il braccio destro al petto. Ian lo fece svenire con un calcio, ma dall'alto del boccaporto stavano già provenendo grida allarmate e rumori di passi. Qualcuno si affacciò per guardare giù e cercare di capire, attraverso il fumo, cosa stesse accadendo.

Daniel, messo definitivamente fuori combattimento il suo avversario, si liberò le mani e corse da Ian per fare altrettanto.

Il cavallo stava diventando incontrollabile: scalciava e strattonava violentemente la corda che lo teneva legato, finché l'anello di ferro non si staccò dalla parete della stiva.

«Giù!» esclamò Daniel e buttò Ian di lato prima di tuffarsi altrettanto in fretta. Non fu abbastanza veloce: l'animale terrorizzato lo speronò con tale violenza da svuotargli i polmoni per l'urto e il giovane si ritrovò a terra, tossendo stordito.

Il cavallo si mise a girare furiosamente nella stiva senza via d'uscita, mordendo e calciando tutto ciò che trovava sulla sua strada. Travolse un uomo appena saltato dall'alto del boccaporto e costrinse un secondo a mettersi precipitosamente a distanza di sicurezza. Anche Ian dovette ripararsi di nuovo, nella confusione ormai totale.

Un terzo e un quarto uomo piombarono dal ponte attraverso il boccaporto per correre a spegnere le fiamme che ormai dilagavano ovunque. Non badarono subito ai due prigionieri perché, vedendoli a terra in mezzo al fumo, non si erano resi conto che erano liberi dalle corde. Nessuno dei nuovi arrivati sembrava aver ancora capito che si trattava di un tentativo di evasione e non di un semplice incidente. Tentavano di fermare il cavallo e soffocare il fuoco; uno di loro apri il portello laterale per gettare i materiali in fiamme fuori bordo, a partire dalla paglia e dalle casse aperte e vuote, che non contenevano merci da salvare.

Vedendo gli uomini e i marinai moltiplicarsi nella stiva, Ian però capì che presto avrebbero ripreso il controllo della situazione e non ci sarebbe più stata possibilità di fuggire. «Vattene ora!» gridò a Daniel, ma l'amico era a parecchi passi di distanza da lui e faticava a rialzarsi anche solo sui gomiti.

Ian imprecò disperato. Individuò a terra il pugnale con cui Daniel gli aveva liberato le mani e corse a impadronirsene. Solo allora gli uomini della nave, vedendolo, capirono la situazione. Uno di loro gli andò incontro con la spada sguainata eppure esitò ad

attaccare.Non vuole rischiare di uccidermi perché Martewall mi vuole vivo, capì Ian e con quel

vantaggio si lanciò all'attacco per primo, con un affondo di pugnale, che però venne evitato facilmente.

Il fiammingo si fece indietro senza reagire. Ian fu aggredito alle spalle da un altro, che tentò di immobilizzargli le braccia. L'americano però era più alto e robusto di lui e riuscì a liberarsi dall'aggressore, piazzandogli una gomitata nelle costole e un sinistro in pieno viso.

Daniel riuscì finalmente a risollevarsi in piedi, snebbiandosi la testa stordita. Vide un uomo piombare su di lui e si difese con la forza della disperazione: lo mise fuori combattimento dopo una breve ma rabbiosa colluttazione e riuscì a guardarsi intorno.

Il portello laterale adesso era incustodito: l'uomo che vi stava lavorando era lo stesso che ora gemeva dolorante ai piedi di Daniel.

La via di fuga era libera.Ian però era impegnato in un confronto con un avversario armato di spada e, a poca

distanza da lui, un altro fiammingo, col naso e la bocca insanguinati, stava snudando la sua arma. In due avrebbero certamente sopraffatto l'avversario, armato solo di pugnale.

Gli altri uomini, quelli che non erano feriti, stavano quasi riuscendo a bloccare il cavallo impazzito e spegnere il principio d'incendio.

Daniel valutò la situazione in un istante. Ian gli aveva ordinato di andarsene e stava trattenendo i nemici proprio per dargli quell'occasione di fuga... Si sarebbe sacrificato per lui, come aveva sempre fatto in passato, nel loro primo viaggio in quel mondo medievale.

Questa volta no, decise Daniel.Afferrò una cassa di legno vuota trovata a terra e la scaraventò contro l'uomo

sanguinante che stava per attaccare Ian di lato. Lo centrò in pieno e lo abbatté. Ian e l'altro suo avversario fecero un balzo indietro, separandosi, colti del tutto di sorpresa.

Daniel corse dall'amico per agguantarlo e spingerlo verso il portello aperto.«Che cosa fai?!» protestò Ian.Daniel non poté rispondergli perché fu intercettato dai fiamminghi, che non

intendevano lasciargli portare a termine un piano fin troppo evidente. Lo afferrarono da dietro, cercando nel contempo di raggiungere Ian, ma Daniel oppose resistenza.

Ian non poté intervenire perché l'amico si trovava tra lui e i fiamminghi e lottava per liberarsi da più mani. Invece di voltarsi verso i nemici, Daniel individuò il portello aperto: era esattamente alle spalle di Ian, che aveva dovuto indietreggiare ancora.

«Io me la caverò, tu sai come» disse all'amico.Ian spalancò gli occhi. «Cosa?!»Non poté aggiungere altro: Daniel, puntellandosi contro i nemici che lo tenevano, gli

piantò un piede sul petto e lo spinse indietro verso il portello aperto. Ian perse l'equilibrio e di colpo sentì il vuoto sotto di sé.

Daniel fece in tempo a udire il tonfo nell'acqua, prima di venire trascinato via con violenza dalle mani dei fiamminghi.

Capitolo 7L’impatto con l'acqua gelida fu mozzafiato. Ian si trattenne a stento dal boccheggiare,

mentre persino la vista gli si oscurò per qualche istante a quella temperatura freddissima. Confusamente vide il chiarore allontanarsi sopra la sua testa e si mise a nuotare verso quella direzione con tutte le forze che aveva. Il primo pensiero razionale che gli attraversò la testa, però, fu indirizzato con rabbia a Daniel.

Ian riemerse inspirando convulsamente e cercando nel frattempo di guardarsi intorno con gli occhi che bruciavano per l'acqua salata. La prima cosa che vide fu la paglia, disseminata tra le onde, poi alcune casse di legno che galleggiavano davanti e dietro di lui, spinte dalla corrente. La nave era già distante e procedeva spedita. Ian fece in tempo a cogliere il convulso movimento che si agitava sul ponte e il bagliore rossastro del fuoco nella stiva, ma subito sibili fin troppo noti nell'aria lo fecero sussultare. La superficie dell'acqua si frantumò in schizzi, quando i dardi di balestra la colpirono.

I tiratori stavano mirando quasi a caso dal ponte della nave, ostacolati dal buio ormai fitto, ma Ian lanciò comunque un mezzo grido di spavento nel sentire una freccia passargli accanto a un orecchio: prese fiato come poté, ingoiò più acqua che aria e si immerse di nuovo. Un ultimo dardo gli mancò di poco la spalla, fortunatamente rallentato dall'attrito dell'acqua.

Ian nuotò in apnea finché glielo consentirono i polmoni, cercando di cambiare direzione per confondere i tiratori che stavano sicuramente osservando il mare per individuarlo, poi però capì che molto presto avrebbe dovuto tornare in superficie per respirare.

Una delle casse di legno galleggiava non troppo lontano da lui: vi passò sotto e, riemerso al riparo della sua sagoma, vi si aggrappò per tenersi a galla.

Aspettò in silenzio, con tutti i nervi tesi, ma il sibilo delle balestre non si udì più. Anche il clamore che proveniva dalla nave era ormai ovattato.

Cautamente, Ian si sporse di lato per osservare la situazione.La luce della luna trapelava a tratti dal cielo ingombro di nuvole, riflettendosi sul

mare calmo.La nave di Martewall era ormai molto lontana, ma stava compiendo un giro ampio. I

marinai si stavano affannando per virare e ritornare indietro e Ian capì che se fossero riusciti nella manovra lo avrebbero raggiunto in fretta. Doveva sbrigarsi, tanto più che il freddo si stava facendo rapidamente insopportabile e lui non aveva idea di quanto sarebbe stato in grado di resistere ancora in acqua, prima di perdere i sensi.

Si guardò alle spalle e individuò la costa e le rare luci di quello che doveva essere il porto.

Era lontanissimo e Ian si stava chiedendo con sgomento come fare a raggiungerlo a nuoto, quando alla sua sinistra notò una luce più alta e molto più vicina di tutte le altre: un fuoco che bruciava in cima a quella che sembrava una torre.

Un faro, capì il giovane e sentì rinascere la speranza.Nel Medioevo un fuoco di quel genere, oltre a servire per le comunicazioni a distanza

con il porto, segnalava ai marinai la presenza di un punto insidioso, di un fondale basso o di scogli affioranti in prossimità di un approdo: se Ian fosse riuscito ad arrivarvi prima che la nave di Martewall lo raggiungesse, avrebbe avuto un bel vantaggio perché nessun

marinaio medievale, che navigava per lo più a vista e senza strumenti, avrebbe mai rischiato di avvicinarsi a un fondale pericoloso col buio.

Il faro bruciava a parecchie bracciate di distanza e Ian doveva sbrigarsi, se non voleva cedere al freddo. La corrente portava verso riva e quindi lo aiutava a nuotare, ma in compenso gli abiti che aveva addosso lo rendevano più pesante. Ian sapeva di non potersene sbarazzare: non avrebbe saputo come fare senza, una volta giunto a terra. Non poteva andarsene in giro scalzo e semisvestito, facendosi così notare da tutti, comprese le guardie che sicuramente prestavano servizio al porto e nei dintorni.

Poteva però approfittare della cassa a cui stava aggrappato: con fatica e ingoiando non poca acqua salata riuscì a togliersi gli stivali e la tunica e a gettarli dentro il contenitore di legno, fortunatamente vuoto. Poi, spingendolo avanti, cominciò a nuotare verso il faro.

Fu un tragitto breve ma estenuante, compiuto col cuore in gola, il corpo sempre più intirizzito e la paura che gli inseguitori trovassero il modo di raggiungerlo.

Ian era quasi congelato quando la cassa di legno urtò contro qualcosa di solido. Fece appena in tempo a rendersene conto che la risacca lo buttò direttamente sugli scogli, per fortuna senza troppa violenza. Si ferì comunque un po' dappertutto, le mani, i gomiti, le ginocchia, ma poté aggrapparsi alla roccia prima di rotolare oltre quella superficie tagliente e riuscì persino a non perdere la cassa.

Era quasi a riva. Il faro sorgeva poco lontano, su un piccolo promontorio di roccia che non doveva distare più di due miglia via terra dal porto vero e proprio. Non era altissimo, ma poiché tutto intorno non c'erano alberi il suo fuoco era abbastanza visibile anche a grande distanza.

Ian si voltò indietro: la sagoma nera della nave di Martewall era ancora là, minacciosa. Aveva quasi compiuto la sua manovra per ritornare in direzione del porto.

Tremando vistosamente per il freddo, Ian s'inerpicò sugli scogli e li scavalcò, trascinando la cassa. Aveva la pelle quasi insensibile quando scese dall'altra parte e allungò le gambe nello specchio d'acqua calma che si estendeva tra le rocce e la terraferma su cui sorgeva il faro. Toccò quasi subito il fondo coi piedi: l'acqua dietro la barriera di scogli gli arrivava appena alla cintola e così, arrancando, poté raggiungere la spiaggia.

Crollò con la cassa di legno sulla sabbia e i ciottoli, là dove la risacca non riusciva ad arrivare e vi rimase qualche istante a riprendere fiato e riordinare le idee confuse. Si rannicchiò su se stesso e, con le mani, cercò invano di sfregarsi i muscoli per generare calore.

Guardò il mare.La nave inglese era ancora al largo e Ian adesso sapeva che, nonostante tutte le

manovre, i nemici non avrebbero più potuto raggiungerlo. Almeno non per quella notte.Vi ho fregato, bastardi! pensò d'istinto come prima cosa. Subito dopo però la sua

mente fu occupata da ben altri pensieri. Era andato tutto al contrario di come si aspettava: lui era fuggito e Daniel era rimasto sulla nave. Ian ebbe paura al pensiero di ciò che poteva essere accaduto all'amico e allo stesso tempo era conscio di non poterlo aiutare in nessun modo. Non poteva tornare indietro e in ogni caso sarebbe stato pressoché inerme, da solo e disarmato contro gli uomini di Martewall.

Purtroppo poteva solo sperare che l'idea di Daniel funzionasse fino alla fine e che l'amico avesse la possibilità di dileguarsi attraverso Hyperversum come aveva progettato.

Ce la può fare, si ripeté più e più volte, per convincersi. Basta che lo lascino da solo per un minuto, non gli ci vuole di più per chiamare l'icona e sparire.

Il fatto però di non potersene accertare di persona lo metteva in un'agitazione tremenda, difficile da quietare.

E se i fiamminghi avessero ucciso Daniel per vendicarsi della fuga del suo amico?No, non è possibile, si disse Ian, cercando di scacciare quell'idea orrenda. Martewall

voleva i suoi ostaggi vivi, tutti e due, altrimenti poteva tranquillamente sbarazzarsi di Daniel già alla locanda.

I fiamminghi non avrebbero mai osato eliminare un prigioniero prima di ricondurlo dal loro signore, Ian ne aveva avuto la riprova durante il breve combattimento sulla nave, quando nessuno degli armati aveva osato affondare colpi mortali.

Daniel contava su quello e perciò si aspettava di essere rinchiuso da qualche parte per il resto del tragitto fino a Dunchester. A quel punto poteva fuggire in qualsiasi istante.

La nave era sempre là, nera come un avvoltoio. I bagliori dell'incendio si erano spenti e anche il fumo era quasi sparito.

Ian l'osservò da lontano, cercando invano qualsiasi indizio che potesse confermargli la fuga dell'amico e allo stesso tempo indirizzando a Daniel un pensiero furente per essere stato tanto avventato e aver agito di testa propria.

Se si fosse tuffato, invece di perdere tempo ad aiutarmi, a quest'ora avrei la certezza della sua fuga e del suo ritorno a casa, invece di essere qui a macerare nel dubbio, pensò con rabbia.

La brezza gelida del mare gli ricordò perentoriamente che ora doveva pensare a sé, o tutto ciò che l'amico aveva fatto per lui sarebbe stato vano. Doveva mettersi in salvo, il che voleva dire innanzitutto trovare un nascondiglio dove potersi asciugare prima di prendere una polmonite o di congelare.

D'istinto, Ian si voltò verso il faro.Per bruciare tutta la notte, quel fuoco aveva bisogno di un guardiano, che sicuramente

aveva un cavallo, o un qualsiasi altro animale da trasporto, per arrivare fino lì dal porto.Ian aveva bisogno di tutte e tre le cose: del fuoco per il suo calore, del guardiano per

le armi, il cibo e il vino che poteva avere con sé e del cavallo per potersi allontanare più in fretta possibile da quel luogo.

Stringendo i denti, Ian si risollevò, indossò tunica e stivali fradici, abbandonò la cassa di legno e s'incamminò verso il faro.

***

I fiamminghi si erano vendicati brutalmente per la fuga di Ian.Quando legarono Daniel e lo buttarono al buio in un angusto vano di carico, privo di

qualsiasi apertura a parte il boccaporto, il giovane quasi non aveva più la forza di reggersi in piedi da solo. Tra soldati e marinai, c'erano stati sei feriti nel trambusto scoppiato nella stiva, con il fuoco, il cavallo impazzito e l'evasione in atto; uno degli uomini aveva addirittura un braccio rotto: se non fosse stato per l'ordine ribadito a gran voce dal luogotenente di Martewall, gli altri soldati inferociti avrebbero ucciso il prigioniero senza tanti complimenti. Impossibilitati a farlo, si erano sfogati nel dargli una lezione, prima che il loro capo venisse a togliere loro l'ostaggio dalle mani per farlo rinchiudere al sicuro.

Daniel si ritrovò al buio in uno spazio stretto e impregnato dall'odore di muffa. Si rannicchiò sul pavimento e vi rimase immobile per molto tempo, a occhi chiusi, sentendo dolore anche solo a respirare. In bocca aveva il sapore del sangue e per un attimo temette di perdere conoscenza. Lottò con tutte le forze per rimanere sveglio.

Perché Hyperversum mi fa questo? si chiese, sfinito, ma subito dopo trovò conforto al pensiero che Ian fosse in salvo. Doveva essere così perché la nave ormai si era quietata e le urla rabbiose dei marinai e degli armati avevano lasciato il posto a un silenzio privo di soddisfazione. Questo poteva soltanto significare che la preda era sfuggita agli inseguitori, nonostante tutti i loro sforzi.

Adesso Daniel era solo e, costringendosi a ignorare il dolore, cercò di raccogliere le ultime energie. Doveva completare il suo piano e uscire dalla partita.

A casa non sarebbe stato facile spiegare le contusioni che aveva dappertutto, ma con un po' di fortuna sarebbe riuscito a mascherare le più evidenti, prima di farsi scoprire dai suoi genitori. Nel frattempo si sarebbe consolato col pensiero delle facce incredule dei suoi carcerieri, quando avrebbero riaperto il boccaporto per scoprire che il loro secondo ostaggio era svanito nel nulla.

Vi faccio vedere io chi è il mago dell'evasione, altro che Houdini, pensò con una smorfia di dolore. Voglio proprio vedere che scuse racconterete al vostro padrone, quando glielo dovrete spiegare. Chissà se lui sarà gentile con voi quanto lo siete stati con me.

Impiegò qualche minuto, prima di giudicare di avere forze sufficienti per agire. Doveva fare in fretta o sarebbe crollato del tutto. Si passò la lingua sulle labbra, cercando invano di rimediare alla sete. «Help» chiamò, nel piegare le gambe per mettersi in ginocchio.

Si sentì ancora peggio nel pronunciare quella parola, sapendo che il momento tanto temuto era arrivato. Stava per separarsi da Ian per sempre e non aveva nemmeno avuto modo di salutarlo.

Abbi cura di te e buona fortuna, gli augurò col pensiero, ma con la morte nel cuore.Rialzò la testa per individuare l'icona fosforescente a forma di mela.Nel vano non c'era nemmeno una luce.Incredulo, Daniel si guardò intorno, con il respiro che improvvisamente accelerava.

«Help» ripeté.Nulla apparve.Daniel ricadde a sedere sui talloni e guardò di nuovo tutto intorno a sé, adesso con

paura. «Uscita di emergenza» scandì. Niente.Il buio sembrò di colpo stringersi fino a diventare soffocante. Nella morsa del panico,

Daniel capì che Hyperversum non gli rispondeva più.Solo perché Ian non è qui con me? si domandò il giovane con sgomento. No, non era

possibile: la prima volta che erano finiti nel Medioevo l'uscita dal gioco aveva mostrato di attivarsi anche quando Ian non era presente.

E allora perché? Era accaduto qualcosa al computer?«Help! Uscita di emergenza! Andiamo, maledetto, rispondimi!» esclamò Daniel con

furia, ma senza risultato. Nel contempo cercò di liberarsi dalle corde che gli stringevano i polsi e il torace, ma ottenne soltanto di ravvivare il dolore con lo sforzo violento.

La testa cominciò a girare. Daniel ricadde sul fianco, ansando sfinito, ed ebbe paura.Era in trappola. Era rimasto solo.

Ian credeva che lui fosse fuggito tramite Hyperversum e non poteva certo immaginarsi che tutto fosse andato storto. A casa, se il computer si era veramente rotto o fermato, nessuno avrebbe mai creduto che un videogame fosse la causa della sua sparizione e se anche Jodie o Martin avessero convinto qualcuno della verità, non era affatto detto che riuscissero poi ad attivare Hyperversum, visto che nemmeno Daniel vi era riuscito finché Ian non era stato con lui.

Che cosa faccio adesso? si domandò il giovane, disperato e tremante non solo per il dolore e la debolezza.

La nave, lentamente, continuava il suo viaggio.

***

Il faro era una piccola costruzione in pietra a base quadrata, fatta di tre livelli concentrici, uno più piccolo dell'altro man mano che si saliva in altezza. Al piano terra c'era solo una porta di legno; al primo piano si aprivano quattro finestre, una in ogni direzione; all'ultimo una sorta di terrazza merlata, coperta da una tettoia di legno, teneva il fuoco al riparo dalla pioggia e ne consentiva la visione a trecentosessanta gradi.

Ian girò intorno alla costruzione, tenendosi cautamente basso. C'era una grande baracca di legno proprio ai piedi dell'edificio, vicino alla porta: era aperta sul davanti e divisa in tre scomparti al suo interno. Custodiva una catasta di legna, attrezzi, un carretto e un cavallo. Intorno non c'erano altri animali e Ian si augurò che un solo cavallo stesse anche a significare la presenza di un solo guardiano del faro.

Andò alla catasta della legna, esaminò gli attrezzi e vi trovò una ramazza, una pala, un rotolo di corda e un'accetta. S'impadronì di quest'ultima, saggiandone il peso e la robustezza, poi guardò di nuovo verso il faro, cercando di pensare al da farsi, cosa che gli risultava sempre più difficile man mano che le dita perdevano sensibilità e il freddo gli ghiacciava le ossa.

In quelle condizioni il faro gli sembrò inespugnabile e si sentì un indiano nudo e con l'ascia di guerra, in procinto di assaltare il fortino del Settimo Cavalleggeri.

Come entro lì dentro? si domandò, poi però pensò che forse poteva ribaltare il problema.

Lo scalpitare del cavallo, innervosito per la presenza estranea, gli diede l'idea.Ian andò verso l'animale e prima si assicurò che fosse ben legato per non doverlo

rincorrere chissà dove, poi girò intorno alla baracca e ne colpì le pareti con tutta la forza che aveva, usando la parte piatta della lama dell'accetta per fare più rumore e niente danno.

Il fracasso dei suoi colpi rimbombò nel buio e ad esso si unirono i nitriti del cavallo spaventato, che strattonò la corda ma non riuscì a fuggire.

Ian si appiattì contro la baracca, dal lato opposto rispetto alla torre del faro e, nascosto li dietro, guardò in alto. Come si aspettava, vide subito la sagoma nera di un uomo affacciarsi dalla terrazza merlata per guardare giù e capire cosa stesse accadendo.

L'uomo indossava un elmo da soldato ma era solo. Nonostante il prolungarsi dei nitriti e dello scalciare del cavallo, nessun altro si fece vedere agli altri piani del faro, né nei dintorni.

C'è solo un guardiano, pensò Ian con sollievo.Il soldato di guardia si ritrasse dal parapetto. Ian abbandonò subito il suo nascondiglio

per correre alla porta della piccola torre e sistemarsi proprio accanto all'apertura, con l'accetta pronta a colpire. Udì il rumore degli stivali sui gradini interni del faro, poi la porta si aprì e comparve per prima la lama di una spada snudata. Quando anche la testa del soldato fu visibile, Ian colpì usando la testa di ferro dell'accetta e non la parte affilata.

L'elmo produsse un clangore metallico. Il soldato si accasciò a terra svenuto, senza un grido.

«Spiacente» disse Ian, laconico, ma si rese conto di avere il respiro accelerato per la forte tensione.

Si chinò sull'uomo e per prima cosa lo imbavagliò con una striscia di stoffa della sua stessa divisa, poi lo trascinò verso la baracca. Lo legò a uno dei pali che sostenevano il tetto, usando la corda che aveva visto tra gli attrezzi; prima però lo perquisì e gli sottrasse il cinturone con il pugnale e il fodero della spada e la scarsella in cui trovò alcune monete d'argento. Il soldato era molto più basso e gracile di lui e perciò Ian non poteva indossare la sua cotta di maglia o il suo corpetto di cuoio, ma poté almeno prendergli il mantello lungo di lana pesante con il cappuccio.

Il giovane si sentì a disagio mentre lo faceva: gli ripugnava agire come un bandito, ma non aveva altra scelta. Per mettere a tacere parte della sua coscienza, gettò sull'uomo legato una coperta da cavallo trovata nel carretto, per evitargli almeno il freddo più intenso della notte.

Al momento però era lui che stava congelando a causa dei vestiti fradici. Il respiro gli si condensava in nuvolette bianche che sparivano in fretta.

Il cavallo si era calmato. Tutt'intorno c'era il silenzio totale.Ian si accertò dell'assenza di eventuali pericoli, abbandonò l'accetta per raccogliere la

spada rimasta a terra e poi s'infilò nella porta aperta del faro.Salì cautamente la scala a chiocciola che portava di sopra, ma non trovò nessuno. I

piani erano pressoché vuoti: c'erano pile di legna e otri di olio combustibile al piano terra, un giaciglio e una cassapanca nel piano di mezzo, polvere e ragni un po' ovunque.

Attraverso una botola, Ian arrivò in cima per trovare il grande braciere di ferro battuto in cui ardeva il fuoco. Occupava buona parte della terrazza ed era contornato da altre pile di legna pronta all'uso. C'erano anche un otre d'olio, torce spente e bandiere per la segnalazione marittima.

Il giovane si guardò tutto intorno prima di riuscire ad allentare un po' la tensione. Il calore che riverberava dal braciere lo abbracciò e allo stesso tempo gli tolse le ultime forze. Crollò seduto lì davanti, scoprendosi sfinito più di quanto si fosse reso conto. I muscoli tremavano incontrollabili e doloranti per l'improvviso sbalzo di temperatura, le gambe non lo reggevano più.

Senza nemmeno sapere come, Ian si spogliò degli abiti bagnati per metterli davanti al fuoco, poi si coprì con il mantello di lana e si accoccolò con le braccia intorno alle ginocchia per calmare il tremito. Per qualche minuto non riuscì a fare altro se non rimanere immobile ad assaporare il calore. Come un animale ferito, si leccò le abrasioni sulle mani e le braccia, che bruciavano per l'acqua salata.

Fu quando capì che quella posizione immobile l'avrebbe fatto presto scivolare nel sonno che si costrinse a fare qualcosa per rimanere vigile. Allora cominciò a sfregarsi i capelli per asciugarli e poco dopo, su una catasta di legna, individuò anche la bisaccia di tela in cui il guardiano teneva una razione di pane e formaggio e una piccola fiasca di

vino.Non poteva indugiare a lungo in quel posto, col rischio di essere scoperto e

intrappolato da un eventuale cambio della guardia, ma non sarebbe ripartito prima di aver recuperato almeno un po' le forze e soprattutto non prima di avere abiti assolutamente asciutti, perciò si concesse di bere e mangiare mezza razione di vino e di cibo, conservando il resto per l'indomani, e poi si voltò a scrutare il mare.

Per precauzione rifornì di legna il fuoco e vi infilò per metà anche un ramo lungo, accertandosi che sporgesse con l'altra metà fuori dal braciere. In quel modo, quando la fiamma ne avesse consumato la prima estremità, la seconda sarebbe caduta sul pavimento di pietra, producendo rumore. Una precauzione in più nel caso che, stremato, avesse ceduto alla stanchezza e si fosse addormentato.

In quella posizione, però, il parapetto della terrazza gli impediva la visuale. Ian allora si spostò fino ad appoggiarvisi con la schiena: così poteva sbirciare tra i merli di pietra, pur rimanendo seduto al riparo dal vento freddo.

Individuò subito la nave di Martewall nel mezzo della baia. Indugiava tra le onde, senza potersi avvicinare né agli scogli né al porto, ormai quasi completamente buio.

Ian l'osservò compiere manovre ampie, cambiando direzione almeno due volte senza avere apparentemente una meta precisa, e quel dettaglio gli sembrò di buon auspicio. Se a bordo si era creata confusione per la fuga di un prigioniero, il caos poteva essere diventato totale se anche il secondo si era dileguato senza lasciare traccia.

Daniel è scappato, sperò Ian con trepidazione, e gli uomini di Martewall non sanno più che pesci pigliare.

La nave stava pattugliando un ampio braccio di mare, forse intendeva rimanere al largo durante il buio e arrivare in porto alle prime luci dell'alba.

Di sicuro, i seguaci di Martewall avrebbero fatto qualsiasi cosa per non affrontare il loro signore con la notizia di aver perso entrambi gli ostaggi, a costo di rimanere sul posto e setacciare ogni palmo di mare e di costa.

Sì, Daniel era fuggito davvero. Era tornato a casa. Ian ne fu un po' più certo, anche se non riuscì del tutto a far tacere il senso di ansia che si agitava nel profondo.

Di colpo fu assalito dalla consapevolezza di essere rimasto solo.Aveva compiuto la sua scelta e questa volta era definitiva. Non sarebbe più tornato nel

mondo moderno, non avrebbe più rivisto Daniel e nemmeno Martin, Jodie, John e Sylvia Freeland e tutti quelli che erano stati suoi amici. Aveva tagliato i ponti alle sue spalle per vivere la sua nuova vita in un mondo del tutto diverso.

Non rimpiangeva la sua decisione, ma non poteva fare a meno di sentirne il peso.Cercò di farsi forza con il pensiero di Isabeau e del figlio che avrebbero visto nascere

insieme, ma l'idea di non rivedere Daniel mai più gli provocava un vuoto doloroso nel cuore, come se avesse perso un fratello.

Appoggiò anche la testa al parapetto di pietra.«Saluta gli altri da parte mia e di' loro che mi mancheranno» mormorò, in un ipotetico

colloquio con l'amico che non poteva più sentirlo. «Mi mancherete tutti».

Capitolo 8I1 ramo bruciato a metà cadde sul pavimento con un rumore secco. Ian riaprì gli

occhi. Doveva essere trascorsa quasi un'ora e lui era crollato, addormentato con la testa appoggiata al muro.

Intorno c'era ancora un silenzio rassicurante, a parte il crepitare dei fuoco e il mormorio del mare, e il giovane poté stendere i muscoli con calma, uno alla volta, per riprendersi dal torpore del brevissimo sonno.

Per prima cosa, guardò oltre il parapetto.La luna si era spostata nel cielo, emergendo in parte dalle nuvole e illuminando di

bianco la nebbia bassa e le curve sinuose delle onde.Il mare adesso era deserto.Ian si risollevò subito sulle ginocchia per guardare meglio, esplorò con gli occhi

l'orizzonte e la baia, ma non trovò traccia di vele o di scafi. Dove sono andati? si domandò con ansia improvvisa, cercando invano la nave di Geoffrey Martewall.

Per un attimo temette che i fiamminghi avessero sbarcato qualche compagno, mandandolo a caccia dei prigionieri fuggitivi, e nel frattempo avessero spostato la nave al largo, oltre la baia. Si rassicurò ricordando di non aver visto, prima di fuggire, scialuppe o lance da ricognizione, con le quali i marinai e i soldati potessero raggiungere la costa senza che la nave dovesse approdare per farli sbarcare.

Non potevano nemmeno aver raggiunto la riva a nuoto, perché questo voleva dire rinunciare alle armi, alle cotte di maglia e a qualsiasi altro strumento di difesa.

E allora dove si erano diretti?La scomparsa della nave lo impensierì, riempiendolo di dubbi. La spiegazione più

plausibile era che i seguaci di Martewall avessero rinunciato alla ricerca dei fuggitivi per proseguire verso Dunchester, dove sarebbero stati raggiunti dal loro padrone.

Certo però, per essere soldati che si sono appena fatti scappare ben due ostaggi importanti, hanno abbandonato in fretta ogni tentativo di rimediare alla loro negligenza, pensò Ian, corrugando la fronte.

Forse Dunchester era meno lontana di quanto lui si aspettasse e quegli uomini speravano di trovare rinforzi al loro arrivo per iniziare un pattugliamento a tappeto della zona. In fin dei conti, non potevano fare nulla finché erano relegati al largo comunque nessuna nave sarebbe partita prima dell'alba, quindi gli armigeri erano sicuri che i fuggitivi francesi sarebbero rimasti imprigionati sulla terraferma fino ad allora. Dalla nave potevano segnalare una situazione di allarme al loro castello tramite le torce o le lampade e, chissà, forse persino farsi raggiungere da un'imbarcazione leggera che consentisse ad alcuni di loro di correre a spiegare l'accaduto a chi poteva intervenire.

I segnali luminosi: a quelli Ian non aveva pensato.La nave poteva anche aver tentato di comunicare con il faro e lui, addormentato, non

se n'era reso conto. Se fosse stato così, adesso gli uomini di Martewall sapevano che al faro c'era qualcosa che non andava. Forse lo sapevano già anche al porto, dove doveva esserci una torretta di guardia identica, che poteva aver assistito alla fallita comunicazione.

Adesso forse sanno dove iniziare a cercare, si allarmò Ian. E se convergono verso il faro da due direzioni diverse, battendo tutta la zona circostante...

In fretta si alzò e andò a recuperare i vestiti. Erano asciutti la sensazione della stoffa

calda sulla pelle dava un grande conforto, ma il giovane non indugiò a godersela. Si allacciò il cinturone della spada, poi il mantello, infine raccolse il fagotto che conteneva il cibo e il vino e corse giù per la scala.

Nella baracca ai piedi del faro udì distintamente i mugoli di protesta del soldato che aveva legato e imbavagliato e che doveva aver ripreso i sensi, ma non si fermò ad ascoltarli. Sellò invece il cavallo e lo condusse fuori. Non era un animale eccezionale, ma sembrava robusto, in grado di correre per un bel tratto senza fatica.

Un minuto dopo cavallo e cavaliere erano già in fuga.La luna era sufficiente a illuminare il promontorio, stretto e quasi spoglio di

vegetazione, e rendeva visibile la strada di terra battuta che lo attraversava tutto. Era una landa spettrale, abbracciata dal mare su tre lati e popolata solo da cespugli contorti, ma almeno non sembrava nascondere pericoli. Ian si allontanò in fretta dal faro e in una decina di minuti arrivò alla fine del promontorio, là dove la lingua di terra si congiungeva alla terraferma. Lì però trovò un bivio e dovette decidere da che parte andare.

La strada del promontorio confluiva in quella principale che correva lungo la costa, anch'essa libera da alberi che potessero proiettare ombra al suolo. Una boscaglia fitta iniziava a un centinaio di passi di distanza e si estendeva verso l'interno dell'isola, nera e immobile; dall'altra parte della strada la terra spoglia terminava con un lieve scoscendimento che portava alla spiaggia e al mare.

Arrivato al bivio, Ian si fermò un istante per decidere la direzione da tenere. Aveva due scelte: proseguire verso il porto visto dall'alto del faro e nel quale anche Geoffrey Martewall era sbarcato o andare nella direzione opposta, che però portava verso la casa del barone inglese.

Ian considerò l'ipotesi che Martewall fosse ancora al porto, che magari era una sua roccaforte: era un rischio ma non aveva modo di accertarsene. Sperò che la frase "vi raggiungerò domani a Dunchester" volesse dire che il barone si era messo subito in viaggio per chissà quale tragitto alternativo.

Comunque fosse, la prima cosa che Ian doveva fare era sottrarsi all'eventuale caccia dei nemici, ma doveva anche rimanere in prossimità della costa, se voleva trovare prima o poi un passaggio su una nave che lo riconducesse in Francia. Di sicuro non poteva rischiare di inoltrarsi nella boscaglia e perdersi proseguendo verso l'interno.

Ian non aveva idea di come si chiamasse il porto poco lontano ma, ricordando la rotta che la nave aveva tenuto durante il tragitto, sapeva che era sulla strada per Dover, là dove la Manica era solo un braccio di mare poco più ampio di venti miglia.

Mi aspetteranno là o a un porto qualsiasi nelle vicinanze: sanno che cercherò una nave per tornare a casa, pensò Ian, ma non aveva altra scelta se non proseguire in quella direzione. Non poteva andare verso Dunchester e la tana del nemico, col rischio di incrociare gli sgherri del cavaliere inglese e tutti quelli che Martewall avrebbe sicuramente sguinzagliato alla sua ricerca non appena informato della sua fuga.

Di certo, il suo nemico avrebbe provveduto anche ad allertare tutti i porti perché controllassero con il doppio dello scrupolo i viaggiatori in partenza. Se solo avesse fatto circolare la descrizione del fuggitivo, per Ian sarebbe stata la fine: non erano molti gli uomini con la sua statura nel Medioevo e lui non aveva modo di nasconderla più di tanto.

No, non sarebbe stato affatto facile abbandonare l'Inghilterra, sfuggendo ai controlli, e

Ian sapeva di avere poco tempo prima che l'ordine di dargli la caccia si diffondesse a macchia d'olio.

Uno scalpitio di zoccoli in avvicinamento lo fece sobbalzare. Stava arrivando qualcuno dalla direzione del porto e andava di gran carriera: a quell'ora della notte erano inevitabilmente solo soldati o briganti. Ian non aveva nessuna intenzione di incontrarli.

In cerca di un nascondiglio, il giovane fece compiere al cavallo un giro su se stesso. La strada era completamente vuota e gli alberi erano troppo lontani da raggiungere prima che gli sconosciuti fossero in vista.

Ian spronò il cavallo verso il mare, e quando fu più vicino, scese di sella e convinse l'animale a percorrere lo scoscendimento che portava alla spiaggia. La strada era sopraelevata rispetto al livello del mare: arrivato giù, Ian condusse il cavallo fino a un punto in cui il dislivello era più ripido e si appiattì con l'animale contro la roccia.

Fortunatamente, la luna gettava ombra proprio in quella direzione e si stava velando di nuovo per lasciare solo un buio fitto.

Il rimbombo degli zoccoli si fece sempre più vicino e frenetico. Ian lo sentì passare a poca distanza dalla sua testa, così forte da fargli franare addosso mandate di terra e sassi. Il cavallo strattonò le redini, impaurito, ma il giovane riuscì a tenerlo buono e a impedirgli di nitrire.

Gli sconosciuti passarono oltre senza vederlo.Non erano in molti, meno di una decina, giudicò Ian dal rumore dei cavalli.

Abbandonarono la strada principale per svoltare verso il faro, quindi non erano briganti ma soldati, e non stavano di certo andando a fare una visita di cortesia o il cambio della guardia, vista la furia con cui correvano.

Ian attese di sentir svanire lo scalpitare degli zoccoli nel buio, poi riportò il cavallo sulla strada e rimontò in sella.

Adesso aveva una sola direzione possibile, la direzione contraria a quella dei cacciatori.

Con impeto spronò il cavallo verso il porto.

***

La città portuale era circondata da una solida cinta di mura in pietra. Sentinelle armate sorvegliavano le porte chiuse e lo spiazzo tutto intorno era ampio e privo di ripari.

Non c'era modo di entrare in città di nascosto e Ian lo sapeva bene, prima ancora di poterne vedere i suoi dettagli da lontano. Infatti tutte le città medievali erano simili e le vie d'accesso, chiuse e ben custodite durante la notte, venivano aperte al sorgere del sole, quando le guardie e i gabellieri si posizionavano per registrare l'ingresso dei viandanti in città.

Per non farsi scorgere dalle sentinelle, Ian abbandonò presto la strada e compì l'ultima parte del tragitto in mezzo alla boscaglia buia, cercando di non perdere di vista la costa che correva parallela, per non smarrirsi, girare in tondo e finire in braccio agli inseguitori.

Quando arrivò vicino alla città, fermò il cavallo a distanza di sicurezza e smontò. Rimase al riparo della vegetazione e si rassegnò ad aspettare. Faceva freddo, ma il giovane cercò di scaldarsi camminando per il bosco mentre tendeva tutti i sensi per captare il minimo segnale proveniente dalla strada.

Era intirizzito fino al midollo e la luna aveva compiuto gran parte del suo giro nel cielo, quando un cavallo ritornò al galoppo verso la città. Ian si strinse alla sua cavalcatura e osservò la scena con la massima attenzione.

Il soldato a cavallo si fece riconoscere dalle sentinelle e fu fatto entrare in città. La porta si chiuse alle sue spalle.

Ian sapeva quale notizia era venuto a portare quell'uomo. Ecco, adesso tutti sanno cosa è successo al faro, si disse con ansia, ma nonostante l'attesa snervante nessun altro soldato si aggiunse al primo arrivato. Ian s'immaginò che il resto della squadra avesse iniziato le ricerche intorno al luogo in cui il guardiano del faro era stato aggredito; presto avrebbe allargato il cerchio.

Con un po' di fortuna, i soldati non avrebbero trovato le sue tracce prima della luce dell'alba; con molta fortuna, le avrebbero perse subito dopo nel fitto della boscaglia.

Ian decise di confondere le acque ancora di più. Tirandosi dietro il cavallo, s'inoltrò tra le piante e compì il giro della città per quanto poté, senza mai uscire allo scoperto. Arrivò in vista di un'altra porta e dovette fermarsi. Aspettò, logorandosi, finché non sentì la campana della chiesa suonare le laudi. Erano le tre del mattino. Diverse ore dopo, il cielo cominciò a schiarire a oriente.

Sulla strada iniziò a esserci movimento e Ian si mise sul chi vive, ma si rilassò quando vide che quelle sagome in arrivo non erano soldati, bensì viandanti e contadini che si avvicinavano alla città per potervi entrare appena le porte fossero state aperte. Erano a piedi o con muli e carretti, portavano carichi di merci da vendere o scambiare al mercato del porto, o ceste vuote da riempire con gli acquisti.

Le sentinelle si diedero il cambio sulle mura e infine fu spalancato l'ingresso in città: altre carovane e viandanti uscirono dalla porta per incamminarsi verso il contado e così fecero uomini e donne con roncole e attrezzi per andare a fare legna nel bosco o accertarsi che gli orti e i frutteti creati negli appezzamenti di terra rubati alla boscaglia non fossero stati danneggiati da freddo, pioggia o animali.

Ian lasciò andare e venire un po' di gente, poi nascose la spada sotto il mantello, si tirò il cappuccio sulla testa e si aggregò a quelli che entravano in città.

Condusse il cavallo a mano, tenendosi leggermente curvo e vicino alla testa dell'animale per dissimulare la sua altezza. Si mise dietro un gruppo di altri uomini, che procedeva con muli, cavalli e ceste senza merci, e finse di farne parte; era gente che andava al porto per acquistare e non per vendere o partire.

Nessuno lo fermò mentre varcava la porta. Ian sbirciò nervosamente le sentinelle, ma queste stavano osservando la strada e guardavano soprattutto i carri in transito, quelli che dovevano pagare la gabella all'ingresso in città. Non facevano caso a chi non trasportava merci e doveva semplicemente farsi registrare al posto di guardia senza passare dal banchetto dei doganieri.

Piuttosto tenevano d'occhio gli uomini che camminavano da soli senza portare niente, con il chiaro intento di individuare borseggiatori, ladri o un qualsiasi comportamento sospetto.

I doganieri avevano un banchetto proprio a lato della porta di ingresso e fermavano tutti quelli che trasportavano merci. Erano soldati con abiti di due tipi diversi, notò Ian: quelli che fermavano i mercanti per farsi pagare il dazio avevano divise blu a righe bianche come il guardiano del faro, mentre due erano senza colori distintivi. Sembravano supervisori, uno in piedi ad osservare la scena e l'altro seduto ad annotare

scrupolosamente ogni soldo incamerato.I soldati in divisa non parevano molto contenti di averli accanto, osservò ancora Ian,

anzi erano decisamente insofferenti nei loro confronti, pur manifestandolo solo con occhiate di sbieco.

L'americano si convinse sempre più di assistere a un'ispezione di qualche genere da parte degli uomini senza insegne.

Saranno gli agenti del tesoro, incaricati di controllare che non ci siano truffe ai danni dell'erario, pensò passando loro davanti, senza che nessuno lo guardasse.

Il gruppo di uomini a cui si era accodato si fermò invece dopo una trentina di passi e lasciò che uno di loro si mettesse in fila per andare a parlare per tutti con i soldati del posto di guardia. Qui gli armati avevano solo le cotte blu e bianche.

Ian prima si fermò con il gruppo, poi, fingendo di non voler intralciare chi passava per la strada, si spostò di lato un passo alla volta e continuò a farlo fino a togliersi dalla visuale delle guardie e mischiarsi al traffico cittadino. Da quel momento accelerò il passo e svoltò subito dietro un angolo insieme al cavallo.

Nessuno lo notò, né lo richiamò.Ian cambiò direzione almeno due volte, per accertarsi di aver fatto perdere le tracce e

poi si rilassò un po', congratulandosi con se stesso per l'abile colpo di mano. Percorse comunque le vie più affollate, dove il via vai indaffarato poteva mimetizzarlo meglio; nel frattempo cercò la via per arrivare ai moli.

Non era facile orientarsi perché la città era un dedalo di strade senza alcun piano urbanistico, composto per la quasi totalità da case simili tra loro, con la struttura di legno e le pareti di cannicci e argilla. Le finestre erano strette e coperte da pelli di pecora o di capra. Dai tetti senza comignoli uscivano fili di fumo grigio.

Gli edifici erano disposti lungo viottoli non pavimentati e disseminati di pozzanghere e quasi tutti ospitavano una bottega al piano terra. Le vetrine erano costituite da persiane orizzontali ribaltabili: quella che si apriva verso il basso era il bancone su cui erano disposte le merci in vendita, quella che si ribaltava verso l'alto fungeva da veranda e da tetto allo stesso tempo.

Dappertutto c'erano uomini, donne e ragazzi in movimento, che trasportavano ceste, attrezzi, mercanzie o conducevano animali da tiro. Le voci, i richiami e i rumori delle botteghe e dei carretti formavano un unico sottofondo sonoro che risuonava ovunque.

Una rocca fortificata dominava l'agglomerato urbano e Ian la sbirciò con ansia: una torre spiccava tra le altre, più basse, e da essa saliva una robusta colonna di fumo. Era il faro del porto ed era posizionato in modo da poter tenere d'occhio senza alcun impedimento l'altro faro della baia.

Con la luce del sole, Ian poteva vedere il pennacchio di fumo salire anche da quest'ultimo e si chiese se davvero durante la notte ci fosse stata una mancata comunicazione tra i due fari e la nave di Martewall. Il fatto che uomini a cavallo si fossero precipitati a indagare, quasi sorprendendo il fuggitivo lungo la strada, sembrava confermarlo. Al porto dovevano aver notato qualcosa di strano ed erano corsi a controllare.

Avranno trovato il guardiano legato e imbavagliato e adesso staranno battendo il bosco palmo a palmo, pensò Ian, guardandosi intorno con ancora più nervosismo di prima. Chissà se erano riusciti a trovare le sue tracce e a seguirle fino in città.

Una cosa sola confortava il giovane: il fatto che da nessuna parte, né sulle divise dei

soldati né sugli stendardi della rocca e nemmeno tra la gente, ci fossero i colori di Martewall. Non aveva ancora visto il leone d'oro in campo nero del cavaliere inglese e sulla rocca sventolava semplicemente uno stemma blu a righe bianche. Qualunque fosse il nome di quel porto, non era sotto la giurisdizione del barone di Dunchester.

Non che faccia grande differenza, se mi prendono, si disse Ian, ma almeno questi soldati impiegheranno più tempo prima di conoscere la mia descrizione fisica e scoprire che stanno cercando un nemico francese.

Adesso doveva trovare un qualsiasi modo per imbarcarsi su una nave diretta in Francia. Saggiò con la mano il peso della scarsella che aveva in cintura sotto il mantello e si domandò se le monete d'argento fossero sufficienti a pagare il viaggio. Forse non bastavano per pagare anche il trasporto del cavallo, ma di quello poteva tranquillamente fare a meno. Avrebbe lasciato il cavallo al porto o l'avrebbe venduto, se necessario, poi si sarebbe arrangiato per il resto del viaggio. Gli bastava soltanto rimettere piede in patria per trovare un aiuto, in un modo o nell'altro.

Lo colpì il pensiero di aver appena chiamato "patria" il suolo francese e più precisamente i territori di Ponthieu o di Montmayeur, dove sperava di approdare.

Non aveva trascorso nel Medioevo nemmeno un anno della sua vita eppure sentiva di appartenervi anima e corpo.

Si era trasformato, comprese, e capì anche quando il processo era iniziato: un marchio a fuoco gli era stato impresso il giorno in cui Guillaume de Ponthieu l'aveva reso cavaliere.

Il giorno in cui mi accettò come fratello, aggiunse Ian mentalmente e, come sempre quando pensava al conte, provò un profondo sentimento di gratitudine.

Con quei pensieri in testa, girovagò fino a trovare il pozzo pubblico, dove si fermò a osservare la situazione.

Notò subito una via finalmente dritta che dalla piazza del pozzo arrivava fino alla spiaggia: Ian poté vedere un piccolo tratto di azzurro proprio alla fine della strada e immaginò che i moli fossero nella stessa direzione. Notò anche che all'orizzonte c'erano già alcune vele. Molti pescherecci e navi da trasporto avevano preso il largo, cominciando la giornata di lavoro alle prime luci dell'alba.

Se ho fortuna, potrei anche trovare un imbarco prima di mezzogiorno, si disse rinfrancato.

Aveva sete, ma invece di fermarsi in qualche locanda, preferì conservare le monete per il viaggio in nave e tenere da parte anche la mezza razione di cibo e di vino per qualsiasi evenienza. Per il momento si sarebbe accontentato dell'acqua del pozzo e perciò si mise in fila ad attendere il suo turno per attingerne un po'.

Nel frattempo tenne le orecchie ben tese per captare i discorsi di chi gli stava intorno, per lo più vecchi o donne. Il ritrovo del pozzo era sicuramente il luogo migliore per carpire i pettegolezzi che giravano in città e anche le ultime notizie.

Come si aspettava, sentì quasi subito nominare il guardiano del faro.«... legato e imbavagliato nella capanna degli attrezzi» stava dicendo un vecchio,

fermo a fare capannello con alcune donne e altri uomini della sua età, tutti con otri o secchi già pieni d'acqua. «Gli hanno preso le armi, il denaro e il cavallo e poi sono scappati».

Ian s'irrigidì e guardò d'istinto il cavallo tenuto per le briglie. Nessuno però sembrava aver fatto caso all'animale o averlo riconosciuto. Fortunatamente era un cavallo

anonimo, di un normalissimo color marrone e senza pregi particolari che lo distinguessero da tanti altri.

«Quanti erano?» domandò un secondo uomo al vecchio che teneva banco.«Per me, non più di due o non avrebbero potuto fuggire con un cavallo solo».«Non è detto, magari erano uomini di una banda e avevano già i cavalli che

servivano».«E allora cosa se ne facevano di un ronzino come quelli che hanno le guardie del

faro? No, ve lo dico io: erano due oppure addirittura uno solo».«Un disperato in cerca di un qualsiasi bottino per mangiare» convenne l'altro uomo.

«Non sarebbe il primo, con la miseria che c'è».Il sollievo che Ian aveva provato nel sentir parlare al plurale degli aggressori del

guardiano sparì subito, sostituito da una nuova ansia.«Ieri sera c'era anche una nave in difficoltà nel porto, me l'ha detto mio figlio»

intervenne una donna.«Sì» confermò il vecchio. «Alcuni dicono che avesse un incendio a bordo, poi

domato. Ha girato per parecchio tempo in mezzo alla baia e ha segnalato "pericolo" e anche "un uomo in mare" prima di andarsene».

Ian trattenne il fiato.Quasi tutti i presenti si fecero il segno della croce. «Povero diavolo» disse un'altra

donna. «Caduto in mare al buio, con quell'acqua gelata».«Se i suoi compagni non sono riusciti a vederlo e a ripescarlo in fretta, sarà morto

affogato. I nostri marinai ne ritroveranno il cadavere al largo» aggiunse un uomo. «Il mare in inverno non perdona».

«Ah, no, io non credo che sia morto» disse invece il vecchio, con l'aria saputa di chi sta per fare una rivelazione clamorosa. «Io vi dico invece che l'incidente sulla nave e l'agguato al faro sono collegati. Le sentinelle qui da noi hanno visto tutto dall'alto: la nave prima ha domato l'incendio, poi ha girato in tondo come se cercasse qualcosa e infine ha segnalato "pericolo" e "uomo in mare". Dal faro però non ha risposto nessuno. Non può essere una coincidenza».

Gli ascoltatori si guardarono l'un l'altro con aria preoccupata.«Ehi, se non volete prendere l'acqua, fatevi da parte».La frase brusca fece sussultare Ian, che si voltò. Una pescivendola lo stava

squadrando dal basso con aria irritata e due cesti di pesce in braccio.Ian si rese conto che toccava a lui attingere dal pozzo, ma si era distratto ad ascoltare i

discorsi e non aveva più badato alla fila. Adesso in molti lo guardavano spazientiti. «Scusate» rispose alla bene e meglio e si affrettò a spostarsi, tirandosi dietro il cavallo.

La pescivendola brontolò qualcosa e si mise al lavoro, appoggiando i cesti a terra per poi inondarne il contenuto con due secchi d'acqua.

Ian si allontanò in fretta, senza più badare alla sete, con la testa completamente in subbuglio. Le notizie appena sentite gli avevano riempito il cuore di paura, svegliando dubbi che solo a fatica era riuscito a mettere a tacere durante la notte.

La nave di Martewall aveva segnalato "un uomo in mare" prima di andarsene.Un uomo. Uno solo.Se Daniel fosse riuscito a scomparire, i fiamminghi non avrebbero mai potuto

immaginare la verità e avrebbero invece pensato che anche il secondo prigioniero fosse riuscito a evadere e a gettarsi in acqua.

Avrebbero dovuto segnalare "due uomini in mare", si disse Ian con ansia.Il giovane non aveva idea di come funzionassero i segnali medievali fatti con torce e

lampade. Forse non erano in grado di esprimere concetti articolati come un plurale, forse potevano segnalare "qualcuno in mare" e niente di più, si disse, cercando di tranquillizzarsi.

"Qualcuno" era un concetto generico: poteva voler dire "uno" come "due" o "dieci".Ma se invece non fosse stato così?Se davvero gli uomini di Martewall avessero segnalato con precisione la fuga di uno

solo dei due ostaggi, semplicemente perché l'altro non era mai fuggito?Se Daniel fosse rimasto nelle loro mani per chissà quale motivo?Forse era svenuto dopo il tafferuglio scoppiato a bordo, forse Hyperversum non aveva

funzionato come doveva, forse i soldati avevano ferito l'ostaggio in modo grave nella foga della lotta oppure...

A Ian vennero in mente mille ipotesi, una peggiore dell'altra, e nonostante tutti i suoi sforzi non riuscì più a calmarsi.

S'incamminò meccanicamente lungo la strada diretta ai moli, ma la sua testa ormai era lontana mille miglia dalle navi che vi erano attraccate o dall'imbarco che vi avrebbe potuto trovare. Pensava a Daniel, a cosa poteva essere accaduto, e al fatto che l'amico potesse davvero essere rimasto nelle mani di Martewall al posto suo.

Hyperversum funzionava ieri, non c'è motivo per cui abbia smesso proprio adesso, si diceva per rassicurarsi. Forse Daniel non ha potuto scappare subito, ma può averlo fatto in un secondo momento. Ciò che la nave ha segnalato non vuol dire niente. È un messaggio troppo vago per dedurre che i fiamminghi abbiano ancora un ostaggio in mano.

Ian comunque non poteva avere la sicurezza che l'amico si fosse messo in salvo e quell'idea lo rodeva dentro come un tarlo.

Devo scoprire cos'è successo, pensò d'istinto, ma sapeva di non poterlo fare senza andare a controllare di persona, il che voleva dire inseguire la nave di Martewall via terra fino alla dimora del barone, con gli enormi rischi che questo comportava.

Se Daniel è scappato davvero e io resto in Inghilterra per niente, mi farò catturare come un imbecille, si disse ancora il giovane. Tutto ciò che lui ha fatto per me sarà stato inutile.

Per un attimo immaginò Daniel a casa, al sicuro, e tutti i rimproveri che l'amico gli avrebbe rivolto, se solo avesse scoperto che rischiava di mettersi in pericolo per un sospetto. Subito dopo, però, quell'idea venne sostituita dalla paura che Daniel fosse imprigionato senza aiuto da qualche parte.

A Dunchester, nelle mani di un nemico giurato come Martewall.Il dubbio era ossessionante e così l'incertezza. Ian continuava ad arrovellarsi sulle

scarse informazioni udite vicino al pozzo e sugli indizi che aveva potuto vedere dall'alto del faro la notte prima, senza riuscire ad arrivare a una conclusione.

Si accorse troppo tardi delle tre guardie armate che stavano in fondo alla strada, una in sella al cavallo, due a piedi accanto ai rispettivi animali, a guardare il traffico cittadino con occhio attento.

Ian si bloccò di colpo e capì allo stesso tempo di aver commesso un errore. La sua reazione allarmata non era sfuggita a una delle guardie a piedi che lo fissò con più attenzione, in attesa di vedere la sua prossima mossa.

Ian s'impose di non fare altri gesti bruschi e finse di fermarsi a valutare la merce esposta nella bottega di un falegname li accanto. Nel frattempo teneva d'occhio le guardie: la prima continuava a fissarlo. Il soldato notò anche il cavallo, il suo colore e i suoi finimenti, e Ian ne ebbe la certezza quando lo vide bisbigliare qualcosa agli altri due armati che subito si voltarono a osservarlo.

Le cose promettevano male. Ian iniziò a ritornare con calma simulata nella direzione da cui era venuto, ma contemporaneamente colse il movimento delle guardie che montavano a cavallo per mettersi in marcia dietro di lui.

Ian sentì il cuore accelerare. Cosa faccio adesso?Se si fosse messo a correre, i soldati non avrebbero più avuto alcun dubbio e si

sarebbero lanciati all'inseguimento. Non ce l'avrebbe mai fatta a fuggire dalla città senza che le guardie o i loro compagni lo catturassero.

Se avesse finto di essere un semplice viandante e si fosse fatto raggiungere, le guardie l'avrebbero interrogato di sicuro e avrebbero scoperto che non si era fatto registrare all'ingresso in città, prima di accorgersi probabilmente che il cavallo era quello scomparso al faro.

In un modo o nell'altro lo avrebbero arrestato.Se mi catturano, sono finito, si disse Ian con angoscia. Svoltò per un viottolo laterale,

con la certezza che i suoi inseguitori avrebbero fatto altrettanto.La via era meno trafficata e, dal tanfo che vi regnava, Ian dedusse che fosse la strada

riservata ai macellai o ai conciatori di pelle. La sua idea fu confermata da alcuni robusti garzoni che stavano scaricando pelli di pecore e capre da un carretto proprio davanti a lui. Altre pelli erano stese poco più lontano da II, su un'impalcatura di travi davanti a una bottega, e sgocciolavano un liquido denso nel fango della strada.

Ancora più in là c'era un'altra bottega, davanti alla quale stavano legati alcuni muli e due cavalli. Un fornitore aveva appena finito di legare il suo cavallo grigio per entrare nell'edificio trasportando un cesto preso dalla soma dei muli. I garzoni lo stavano aiutando con sollecitudine a trasportare altre ceste, poiché il carico sembrava molto pesante.

Ian raggiunse la bottega calibrando il passo in modo da arrivarvi quando tutti, fornitore e garzoni, vi fossero entrati. Si guardò intorno con ansia e approfittò del fatto che in quel momento il fornitore stesse dando istruzioni ai garzoni e al loro padrone per posare i cesti nei modi opportuni: legò il suo cavallo marrone accanto agli altri due, slegò quello grigio e lo condusse con sé lungo la strada.

Le pelli stese ad asciugare lo aiutarono a nascondere le sue manovre e a passare inosservato.

Ian si scoprì il capo, slacciò il mantello e lo gettò indietro sulle spalle per mettere in mostra la tunica di colore diverso, poi camminò spedito imo a un altro vicolo laterale per svoltare.

Fece in tempo a veder comparire le guardie che lo stavano cercando: in un attimo i tre uomini controllarono il vicolo con lo sguardo e individuarono il cavallo marrone che Ian aveva lasciato legato accanto alla bottega.

Ian li vide puntare verso l'edificio e il cavallo, senza far caso a lui, che si stava allontanando tenendosi mezzo coperto dietro un animale di colore diverso.

Il giovane non attese di sapere cosa sarebbe successo quando i tre armati fossero entrati nella bottega a chiedere spiegazioni. Appena fuori dalla visuale, aumentò

l'andatura, pur senza mettersi a correre per non dare nell'occhio e apparire sospetto, e si mescolò alla gente indaffarata.

Anche questa volta cambiò direzione più volte, per depistare gli eventuali inseguitori, ma la sua meta adesso era uscire dalla città il prima possibile.

Percorse un bel tratto di strada, sempre con l'ansia di sentirsi richiamare o di udire comunque segnali d'allarme alle sue spalle, ma intorno a lui rimase soltanto il vivace rumoreggiare del porto.

Trovò e attraversò il mercato, sempre guardandosi intorno. Incontrò anche un'altra guardia armata, ma questa volta individuò la divisa blu e bianca da lontano e mantenne un atteggiamento tranquillo. Il soldato non lo degnò nemmeno di un'occhiata.

Dopo una mezz'ora, lunga un'eternità, Ian vide finalmente le mura di pietra svettare sopra i tetti delle case e poco dopo raggiunse la porta aperta verso il contado. La varcò con un enorme sospiro di sollievo, senza che nessuno lo fermasse, e s'incamminò verso la campagna.

Appena fu fuori, montò in sella e tagliò per i frutteti spogli per togliersi al più presto dalla visuale delle sentinelle e ritornare sulla strada molto più avanti. Lì spronò il cavallo al galoppo e solo quando fu ad almeno un miglio dalla città si fermò per guardarsi indietro.

Aveva il respiro affannato e il cuore che a fatica si calmava per il pericolo corso.C'era mancato poco che lo scoprissero e la situazione non sarebbe di certo migliorata

con il passare delle ore, man mano che l'allarme per la sua fuga si fosse diffuso.Riprendendo fiato, Ian si chiese cosa avrebbe fatto adesso.I messaggeri di Martewall stavano arrivando, ne era certo. Se la nave dell'inglese era

già approdata in un porto qualsiasi, soldati con la sua descrizione e l'ordine per la sua cattura si stavano sicuramente mettendo in marcia per andare a comunicare la notizia a tutte le città del circondario e presto sarebbero arrivati anche lì.

Se voleva fuggire dall'Inghilterra doveva precederli e correre a cercare un imbarco il più lontano possibile dalla zona in cui si trovava.

E tuttavia Ian aveva un dubbio in testa che non gli dava pace. Guardò il porto e poi a sud e a nord lungo la costa, verso Dover o verso Dunchester, la salvezza o la casa del suo nemico.

Il dubbio era troppo assillante. Non lo avrebbe lasciato in pace per il resto dei suoi giorni. Ian prese la sua decisione.

Se Daniel è a casa, penserà che sono un idiota e avrà mille volte ragione, si disse, ma era deciso a mettere a tacere le sue paure una volta per tutte e accantonò ogni altro rimuginare.

Lungo la strada stavano arrivando due contadini diretti verso la città su un carro trainato da buoi, portando un carico di legna e fieno.

Ian andò loro incontro a trotto leggero, li salutò e si fermò un istante accanto al carro che fece altrettanto. «Perdonate, quale strada devo percorrere per arrivare a Dunchester?» domandò, tenendo nel frattempo le orecchie tese per sentire eventuali allarmi o uomini in arrivo alle sue spalle.

Il più vecchio dei due contadini accennò al porto. «State andando nella direzione sbagliata: Dunchester è a nord, dovete tornare indietro e passare da Glenhaven, ma se non volete riattraversare la città potete tagliare per il bosco. Dovrete fare più attenzione perché è una strada solitaria e poco battuta, ma è anche più breve rispetto a quella che

costeggia il mare».«Se è più breve, sarà perfetta» rispose Ian, che non aveva affatto intenzione di tornare

verso il porto e il faro. «Vorrei arrivare il prima possibile e attraversare il bosco non mi spaventa».

Specie se quella strada è poco frequentata da gente e, soprattutto, da soldati, aggiunse tra sé e sé.

Il contadino indicò la direzione dietro il carro e una via di terra battuta, che si diramava dalla strada principale per inoltrarsi nel folto della boscaglia verso nord, evitando la città portuale. «Allora prendete quella strada e proseguite per mezza giornata fino al crocevia sorvegliato dalla cappella di San Giorgio, da lì proseguite verso settentrione. Non arriverete a Dunchester prima di domani: quando avvistate il villaggio di Aversly, fermatevi per la notte e poi chiedete di nuovo la strada. Da quel punto in poi i boschi sono ancora più intricati e rischiereste di perdervi se qualcuno del luogo non vi indica la strada con precisione».

Ian salutò i due contadini, con un cenno riconoscente del capo. «Grazie, Dio vi renda merito per il vostro aiuto».

«Dio vi accompagni e buona fortuna» risposero entrambi gli uomini.Temo che ne avrò molto bisogno, si disse Ian, incitando il cavallo.

Capitolo 9Una mano riscosse Daniel dal suo torpore, afferrandogli una spalla. L'americano aprì

gli occhi a fatica, chiedendosi quanto tempo fosse passato. Non molto, a giudicare dal dolore che gli davano ancora i lividi.

Doveva essere crollato oppure svenuto dopo aver fatto la scoperta terribile di non poter più tornare a casa e aver quasi perso la voce a forza di chiamare Hyperversum.

Dovette invece convincersi che fosse passato più tempo di quanto immaginava, poiché vide la luce del giorno pieno attraverso il boccaporto aperto e riconobbe il luogotenente di Martewall, quello che l'inglese chiamava Hector, chino su di lui.

L'uomo aveva un volto molto cupo e sembrava notevolmente contrariato. Non con il prigioniero però, poiché si limitò a esaminare le sue condizioni e si rialzò per allontanarsi senza rivolgergli una parola.

Daniel lo sentì lanciare un paio di ordini aspri all'arrivo sopracoperta e poco dopo due armati scesero nell'angusto vano di carico per prelevare l'ostaggio. Lo fecero in silenzio e con molta meno durezza del solito, anzi lo aiutarono a risollevarsi in piedi, anche se si vedeva che non erano felici di farlo. Si accertarono che non cadesse dalla scala mentre saliva e Daniel capì che il loro capo avrebbe fatto loro pagare ogni eventuale nuovo livido sul prigioniero.

Non aveva per nulla gradito l'iniziativa dei suoi compagni, pensò il giovane. Forse perchè non ha avuto modo di partecipare, si disse anche, con amaro sarcasmo.

Abituando gli occhi alla luce del sole sopracoperta, Daniel vide che la nave era arrivata a un nuovo porto e che in fondo al molo erano già allineati i cavalli. Capì anche che uno di quei cavalli era là per lui.

Era a destinazione.La cittadina portuale sembrava poco più di un villaggio addossato alla costa e

dominato da una piccola rocca quadrata. Accanto alla rocca sorgeva una torre di pietra, su cui ardeva un fuoco per la segnalazione marittima. Daniel però appuntò subito lo sguardo sui soldati che erano fermi poco distanti e sorvegliavano il porto dalle selle dei loro cavalli: indossavano tutti le divise nere con il leone d'oro sul petto e avevano un'aria nervosa.

L'americano non ebbe modo di guardarsi intorno più di così: i carcerieri lo spinsero avanti e lo condussero dal luogotenente Hector, che stava parlando con qualcuno sul ponte. Quando Hector si spostò, dopo aver sentito il prigioniero arrivare, Daniel si trovò davanti Geoffrey Martewall.

Il cavaliere doveva essere appena sopraggiunto, in tempo per essere informato di ciò che era accaduto sulla nave durante la notte. Indossava ancora gli stessi abiti del giorno precedente e aveva la barba non fatta, segno che il suo breve viaggio via terra gli aveva concesso solo un riposo spartano, forse addirittura all'aperto.

Martewall fissò in silenzio eloquente prima Daniel e poi Hector. Quest'ultimo abbassò lo sguardo senza dir nulla, in un chiaro atteggiamento di vergogna.

Martewall aveva un'espressione furente negli occhi chiari. Nemmeno lui doveva aver apprezzato ciò che i suoi uomini avevano fatto in sua assenza, e non solo con il prigioniero rimasto: più di tutto doveva bruciargli il fatto che si fossero lasciati sfuggire la preda più importante. Al suo fianco, il luogotenente aveva l'aria contrita di chi ha già subito una ramanzina coi fiocchi da parte del padrone.

«Quando sono partiti i primi messaggeri?» gli domandò Martewall alla fine, cupamente.

«Al rintocco delle laudi. Siamo riusciti a farci raggiungere da una barca al nostro arrivo in porto prima del levar del sole» rispose il luogotenente «ma abbiamo segnalato il pericolo anche a Glenhaven subito prima di ripartire. La guarnigione si sarà messa in azione subito».

Il cavaliere inglese non commentò e si limitò a squadrare Daniel con aria torva, rimuginando.

«Mi spiace. A quanto pare, dovrai accontentarti di un solo ospite. Spero che questo non renda la compagnia più noiosa» lo provocò l'americano con ostentata ironia. Aveva solo le parole per ferire il nemico e la rabbia per ciò che aveva dovuto subire fino a quel momento era così forte da non lasciare spazio alla prudenza, che avrebbe consigliato un comportamento remissivo.

Martewall non raccolse la provocazione. «Lo riprenderemo, stanne certo» rispose, gelidamente e non ebbe certo bisogno di specificare a chi si stesse riferendo. «L'Inghilterra ha il grande vantaggio di essere un'isola. Non è facile arrivare ed è ancora più difficile partire, a meno che il tuo amico non sia in grado di attraversare la Manica a nuoto come i pesci. Nel frattempo, noi due avremo modo di ingannare il tempo chiacchierando: non ti farò annoiare, te l'assicuro».

Daniel sentì freddo a quella frase, ma lo nascose. «Rimarrai deluso: non sono un buon conversatore con chi non mi sta simpatico».

Martewall non cambiò espressione davanti alla sua spavalderia simulata. «Ma io so essere persuasivo, quando voglio. Vedrai che saprò trovare gli argomenti per farti diventare più loquace. Abbiamo tante cose di cui parlare e tutto il tempo per farlo, in attesa che monsieur Jean Marc si aggiunga alla nostra conversazione».

Daniel gli augurò mentalmente tutto il male possibile, ma l'altro non lo degnò più di una parola e si girò per abbandonare la nave. Scese a passi ampi la passerella che portava al pontile, raggiunse la sua cavalcatura e montò in sella.

I suoi uomini condussero Daniel nella stessa direzione.II prigioniero fu aiutato a salire su un altro cavallo e presto il seguito di Martewall

prese la forma di un gruppo ben organizzato, mentre i marinai rimanevano alla nave per gli ultimi lavori.

Il piccolo porto era indaffarato sotto un cielo grigio e umido. Composto da una manciata di case e da altrettante botteghe, era ben sorvegliato. Daniel notò molte divise nere sparse qua e là tra la gente, a cavallo oppure a piedi. Pattugliavano la costa e la palizzata di legno che circondava l'agglomerato urbano, ma la popolazione sembrava non essere turbata da tanto spiegamento di forze, al contrario, uomini e donne salutavano i soldati quando li incrociavano.

Adesso gli uomini di Martewall non temevano più di essere fermati per via del loro ostaggio. Avevano aperto con orgoglio il vessillo del loro signore sulla punta di una lancia e la gente faceva largo prontamente al loro passaggio, lasciando strada al leone d'oro in campo nero del barone di Dunchester.

Forti del fatto di essere ormai intoccabili, i fiamminghi abbandonarono le precauzioni mantenute in Francia per poter procedere più speditamente nel loro cammino. Il prigioniero poté continuare il tragitto sempre con le mani legate dietro la schiena e una corda al collo assicurata alla sella perché non potesse gettarsi giù dalla cavalcatura. Per

lo meno, gli fu risparmiato il sacco sulla testa e Daniel poté guardarsi intorno durante il cammino, studiando ogni dettaglio alla ricerca di una via di fuga, mentre il gruppo di armati attraversava le strade, tra gli abitanti che fissavano sospettosi il prigioniero scortato con tanto scrupolo.

Daniel fece un respiro profondo e provò a sciogliere i muscoli del collo e delle spalle indolenzite, cercando di ignorare quegli sguardi ostili e di non pensare a quale sarebbe stata la reazione della gente se qualcuno avesse rivelato che il prigioniero in questione era un cavaliere del re francese.

Passando per il centro del borgo, nella piazza del mercato ingombra di bancarelle, scorse il patibolo e si affrettò a distogliere lo sguardo.

Fortunatamente l'agglomerato urbano finì presto e il viaggio continuò lungo la costa, lontano da gente potenzialmente ostile.

Fuori dal borgo portuale il paesaggio era incolto e occupato solo da brughiera e da bosco fino all'orizzonte, greve di foschia. La strada che Martewall e i suoi avevano imboccato evitava la vegetazione per seguire la linea del mare e assecondava le curve della scogliera, tenendole alla sua destra.

Il drappello a cavallo procedette a passo lento per un bel pezzo, in silenzio.Quando la foschia del primo mattino si sollevò, lo sguardo di Daniel poté spaziare

lungo una curva della costa che circondava una baia e vedere il panorama ancora coperto di boschi fitti. La curva terminava con una salita e una punta a strapiombo sul mare grigio. La terra laggiù era disboscata e proprio all'inizio della salita sorgeva un borgo fortificato. Daniel scorse la linea ininterrotta delle mura più esterne, che dividevano quel lembo di costa dall'entroterra e risalivano lungo il pendio per chiudere con un semicerchio la sommità del promontorio.

Nel punto più alto sul mare si ergeva una costruzione ancora avvolta dalla nebbia: un potente maniero scuro e quadrangolare, racchiuso in una seconda e più alta cinta di mura. Aveva torri tozze e rotonde ai quattro angoli e un mastio frontale ugualmente poderoso rivolto verso i boschi. Torri più piccole ma più alte affiancavano come rinforzo le torri principali e su di esse svettavano gli stendardi neri.

Dunchester, capì Daniel, il castello di Martewall.Inghiottì a vuoto, d'istinto: con la luce fredda del sole d'inverno e la nebbia che

faticava ad abbandonare le torri scure, quel maniero sembrava spettrale quanto quello di un vampiro. Di certo non era un luogo da cui un uomo potesse evadere facilmente, specie se era totalmente sprovveduto come lui.

Daniel ebbe l'orrendo presentimento che da quella fortezza non sarebbe uscito mai più. Con paura, in silenzio si trovò a pregare per un aiuto qualsiasi, sentendosi del tutto impotente.

Anche Martewall aveva gli occhi fissi sul maniero in lontananza, ma Daniel notò che non sembrava felice o sollevato nel vederlo. Non aveva l'aria commossa di chi ritorna a casa dopo tanta assenza. Era sorpreso, piuttosto, o preoccupato. Il suo volto diventava sempre più teso man mano che i dettagli della costruzione si definivano con il diminuire della distanza.

Il suo contegno fece allarmare Daniel più di quanto non si sentisse già.Cosa c'è che non va? si domandò l'americano, spostando lo sguardo alternativamente

dal castello al suo padrone ma, pur scrutando quelle torri merlate una a una, non riuscì a darsi risposta.

Eppure il castello sembrava intatto e agguerrito, gli stendardi sventolavano alti, le torri e le mura interne erano sorvegliate da guardie a ogni palmo.

Anche troppe guardie, realizzò Daniel, con ansia sempre maggiore. Cosa ci fa tutta quella gente lassù?

Gli uomini sulle mura sembravano lavorare alacremente, ma a cosa? Fuori dal borgo fortificato c'era solo un paesaggio tranquillo, privo dell'attività straordinaria che ferveva all'interno.

Daniel sapeva che qualcosa in quella situazione gli stava sfuggendo: Ian sarebbe sicuramente stato in grado di interpretare meglio i segnali che provenivano dal castello, lui invece era del tutto impreparato.

Martewall era sempre più scuro in volto e rigido sulla sella del suo palafreno.«Signore...» lo chiamò il luogotenente Hector e si sentì che aveva sulle labbra una

domanda preoccupata, ma il barone lo ignorò, diede di sprone e anticipò tutti lungo la strada. I suoi uomini si guardarono tra loro, nervosi, poi affrettarono un po' il passo dei cavalli per stare dietro a Martewall. Sembravano tutti sorpresi quanto il loro signore e osservavano il castello con sempre maggiore intensità, man mano che si avvicinavano.

Sì, decisamente qualcosa non va, pensò Daniel. Non aveva idea di cosa stesse succedendo, ma d'istinto sapeva che non era niente di buono.

Strinse i pugni legati e continuò a scrutare con ansia crescente il maniero che si avvicinava.

Qualcosa gli diceva che stava per cadere dalla padella nella brace.

***

Ian aveva cavalcato tutta la mattina seguendo la strada che gli era stata indicata dai due contadini sul carro. La boscaglia era intricata come gli era stato preannunciato, ma i rami spogli della gran parte degli alberi lasciavano trapelare la luce fioca e consentivano di individuare agevolmente la pista di terra battuta e le buche che si nascondevano in mezzo al fango e alle foglie marce.

In quel luogo deserto, Ian fu dapprima felice di non incontrare nessuno che potesse rappresentare un potenziale pericolo, poi però, dopo tante ore nella più completa solitudine, cominciò a sentirsi sperso e indifeso. Non c'era un segno di vita civile in alcuna direzione, a parte rade tracce di carri o di cavalli che però erano state lasciate chissà quando e chissà da chi.

Ian non incrociò anima viva durante tutta la mattina. Il giorno avanzava in fretta e l'incrocio che i contadini gli avevano preannunciato non compariva mai lungo il cammino.

Speriamo di non aver sbagliato strada, pensò Ian e allo stesso tempo si chiese con ansia cosa avrebbe fatto non appena fosse diventato buio. L'idea di trascorrere la notte da solo in quel bosco senza alcun riparo non lo allettava neanche un po', senza contare il fatto che non era certo esperto come un qualsiasi uomo medievale nell'accendere un fuoco senza fiammiferi o nel procurarsi il cibo e l'acqua in un bosco deserto.

Quando ormai non ci sperava più, la strada ne intersecò un'altra, sbucata dal nulla tra i tronchi neri. Una piccola costruzione in pietra sorvegliava il rudimentale incrocio: era il segnale che Ian si aspettava di trovare.

Finalmente. La cappella di San Giorgio, pensò il giovane con sollievo e fermò la sua

cavalcatura per scendere a sgranchirsi le gambe e la schiena.Lasciò il cavallo legato a un albero perché non fuggisse e si avvicinò alla cappella per

guardarvi dentro. Era una struttura piccola, vecchissima e lasciata in evidente abbandono; l'arco d'ingresso, privo di porte, era più basso di Ian e il tetto era di poco fuori portata del suo braccio alzato. La pietra grezza era ricoperta di muschio là dove il sole non arrivava mai e alcuni rampicanti si erano già fatti strada fin quasi alla cupola rotonda.

Ian si chinò per entrare. Sotto la volta c'era una pittura sbiadita e ingenua, ma riconoscibilissima: un cavaliere armato di lancia, intento a trafiggere un animale che sembrava un incrocio tra un serpente e una lucertola gigante. A terra sotto l'effigie c'era una lampada spenta e coperta da tempo da uno strato di polvere, terra ed erba secca.

Senza neanche sapere perché, Ian sentì l'istinto di inginocchiarsi davanti a quella pittura antica e rimanervi per qualche minuto, dopo essersi fatto il segno della croce. Era stanco, si sentiva solo e non sapeva che fare quando fosse arrivato a Dunchester. Finora aveva pensato solo al miglio successivo davanti agli zoccoli del cavallo, cercando di rimanere incolume e libero. Aveva agito d'istinto, improvvisando, ma presto non sarebbe più bastato.

Cosa avrebbe fatto allora? Ian non sapeva rispondersi e rivolse quella domanda al santo, dipinto forse da più di un secolo nella cappella grezza. Cavalieri entrambi, il santo e il postulante, uno così agguerrito contro il drago, l'altro bisognoso di conforto in mezzo a un bosco sconosciuto...

Mi basterebbe la metà della tua forza, pensò Ian con un sospiro segreto, guardando il santo in armatura, disegnato in una posa ardita. Si sentiva del tutto inadatto ad affrontare quell'avventura ignota in terra straniera e, nonostante il titolo di cavaliere che portava sulle spalle, aveva il timore di non esserne all'altezza. Antiche paure si rifacevano vive, come anni prima al momento delle sue prime prove da guerriero.

Fuori dalla cappella, qualcosa sembrò muoversi tra i cespugli e i rovi, all'improvviso.Ian si girò di scatto su un ginocchio per brandire la spada in direzione del rumore, con

una scarica di adrenalina lungo la schiena.Per stanchezza aveva abbassato la guardia, si rimproverò, frugando la vegetazione con

lo sguardo in cerca del rumore che l'aveva allarmato, ma questo non si ripeté più e il bosco rimase perfettamente immobile.

Con tutti i sensi all'erta, Ian si alzò per uscire cautamente dalla cappella e guardarsi intorno in ogni direzione: di colpo aveva la sensazione di essere stato osservato da occhi invisibili mentre si trovava in ginocchio davanti a san Giorgio, ma dovette ricredersi quando percepì solo un silenzio totale. Non c'era nessuno tra gli alberi, forse si era trattato di un animale di passaggio.

Un lupo? Una volpe? si domandò Ian, per poi chiedersi se le volpi potessero davvero essere in giro in quei mesi d'inverno.

Il cavallo, comunque, non aveva fatto nemmeno uno scalpito.Mi sono immaginato tutto? pensò ancora Ian. Di certo, aveva i nervi fin troppo tesi e

la stanchezza per la notte insonne non aiutava a mantenere la lucidità e la tranquillità.Ian si rilassò lentamente e si mise a sedere sulla soglia della cappella. Appoggiò la

spada li accanto, prese il fagotto che portava a tracolla e finì ciò che gli restava del cibo e del vino, prima di raccogliere le forze e rialzarsi in piedi.

La strada era ancora lunga. Non poteva sprecare tempo a indugiare, ma si concesse

comunque qualche minuto di riposo e guardò l'incrocio e le strade che vi confluivano.La strada nuova mostrava molti più segni di transito rispetto a quella che aveva

percorso fino a quel momento: alcuni segni erano molto recenti e indicavano il passaggio di parecchi cavalli e di almeno due o tre carri. Per Ian fu un segnale incoraggiante perché significava che non era lontano da un qualsiasi luogo abitato dove, con un po' di fortuna, avrebbe potuto trovare riparo per la notte e qualcuno che gli indicasse come proseguire il viaggio.

Forse riesco davvero ad arrivare a Dunchester domani, si disse, ma si chiese anche dove fosse il confine che indicava l'inizio delle terre di Martewall. Probabilmente era già nei domini del suo nemico, oppure vi sarebbe entrato presto. Da quel momento in poi doveva essere ancora più prudente, anche se dubitava che il barone s'immaginasse che la sua preda si stava dirigendo proprio a casa sua.

Questo potrebbe danni un piccolo vantaggio, meditò Ian. Martewall non verrà mai a cercarmi sotto il suo castello.

Ormai era ora di incamminarsi di nuovo. Il giovane andò a liberare il cavallo e montò in sella. Individuò il nord grazie al muschio che cresceva nella parte in ombra della cappella e ripartì, imboccando la strada che proseguiva verso settentrione.

L'animale era stanco e perciò dovette mantenerlo al passo. Anche lui cominciava a essere decisamente sfinito e non avrebbe retto per molto a una corsa al trotto o al galoppo. Si rassegnò dunque a procedere con calma, almeno per qualche tempo, cercando di risparmiare le sue forze e quelle della cavalcatura.

Per un altro bel pezzo non incontrò nessuno per strada, poi però, quando il sole ormai si avviava verso il tramonto, avvistò un movimento davanti a sé. Aguzzò la vista e si rese conto dopo poco di essere preceduto da un ragazzino a piedi e, un po' più avanti, da un carretto trainato da un mulo, su cui sedeva un uomo robusto.

I due viaggiatori non sembravano essere compagni poiché si ignoravano completamente. L'uomo era vestito di panni grezzi e pesanti e trasportava legna appena tagliata sul suo carretto. Il ragazzino invece non portava niente con sé, a parte una bisaccia, e si limitava a giocare con un bastone che doveva aver raccolto nel bosco. Ogni tanto si voltava indietro, però, e fu lui il primo a scorgere Ian in arrivo alle sue spalle.

Non si allarmò, anzi rallentò il passo e aspettò che l'americano lo raggiungesse, sfoderando nel frattempo un bel sorriso.

La reazione incuriosì Ian, che osservò meglio il ragazzino mentre gli si avvicinava.Aveva una zazzera di capelli rossi completamente spettinata, il naso cosparso di

lentiggini e un viso da furetto che la sapeva lunga. Non doveva avere più di tredici anni, valutò Ian, gran parte dei quali passati a scorrazzare all'aperto, almeno a giudicare dall'aspetto abbronzato e un po' selvatico, dagli abiti rammendati in più punti e dagli stivaletti decisamente consumati.

Fu proprio il ragazzo a salutare per primo. «Avete un bel cavallo, signore» aggiunse con zelo.

Ian rispose al saluto con un po' di perplessità: nemmeno con tutte le migliori intenzioni del mondo si poteva definire "bello" l'animale rubato a Glenhaven che montava in quel momento.

Prima però che l'americano potesse dire altro, intervenne l'uomo del carretto, che si era voltato indietro nel sentire le voci. «Lasciate perdere quel perditempo» esclamò da lontano, rivolto a Ian. «E un ladruncolo e un vagabondo: cercherà in un modo o nell'altro

di spillarvi qualche moneta».Ian guardò l'uomo e poi il ragazzino. Quest'ultimo si offese e si fece di lato,

scontrosamente, per rimanere indietro rispetto agli altri. Ian proseguì fino a raggiungere il carretto in movimento.

«Datemi retta, amico, quel ragazzo vi farà solo perdere del denaro o, nel migliore dei casi, del tempo» disse l'uomo, con il volto rubizzo e una folta barba grigia sotto il cappello di feltro. Doveva essere un boscaiolo, infatti trasportava un'ascia robusta sul carretto insieme alla legna.

«Lo conoscete? Non mi sembrava un cattivo soggetto» domandò Ian, accennando al ragazzino imbronciato che li seguiva a distanza.

L'uomo lo guardò da sotto in su con un'occhiata curiosa. «Siete straniero? Da dove venite? Non avete l'accento delle nostre parti».

«Sono originario delle isole oltre la Scozia» rispose Ian, riprendendo la stessa menzogna che aveva inventato la prima volta che era arrivato nel Medioevo, per difendersi da domande potenzialmente pericolose sulle sue origini. «Sto ritornando a casa dopo essere stato sul continente».

«In guerra?» Lo sguardo dell'uomo era caduto sulla spada che Ian portava al fianco.«No. L'ho evitata per quanto ho potuto, ma non è stato facile. Ho comunque preso

l'abitudine di viaggiare armato» mentì l'americano. «Ho lavorato in vari luoghi, ma alla fine la nostalgia di casa mi ha riportato indietro. Sul continente la vita non è meno dura che qui, non avevo motivo di restare».

«Buon per voi, se avete potuto evitare di combattere. Brutta faccenda la guerra» commentò l'uomo, cupamente, e sembrò rimanere pensoso per un po', poi però si riscosse. «Mi chiamo Thomas Bull» si presentò.

«Ian Maayrkas» ricambiò l'americano con un sorriso.«Siete diretto ad Aversly? Ormai non manca molto».«Sì. Vorrei fermarmi per la notte, se possibile. Poi domani cercherò di raggiungere

Dunchester per cercare un amico».Un amico che spero di non trovare, aggiunse Ian mentalmente prima di terminare

dicendo: «Da lì poi proseguirò il viaggio».«Vi conviene davvero fermarvi. La strada per Dunchester è ancora lunga e il bosco è

fitto» disse il boscaiolo. «Di notte vi perdereste e poi fa troppo freddo. Aversly non ha locande, ma è un villaggio di brava gente. Troverete di sicuro un fienile o una stalla in cui dormire al riparo. Io abito lì e, se volete, vi indicherò a chi potete rivolgervi».

«Vi sono grato, il vostro aiuto è davvero provvidenziale». Ian si sentì sollevato per quel colpo di fortuna. Una notte al caldo era la benvenuta, dopo le ore travagliate appena vissute, e un po' di fieno su cui dormire sarebbe stato comodo quanto il migliore dei letti.

«Non dovete ringraziarmi, non ho fatto niente di speciale» rispose l'uomo, cordiale.Ian tornò ad accennare al ragazzo che seguiva cavallo e carretto, stuzzicando i

cespugli con il suo bastone. «Che mi dite di lui?»Bull scrollò le spalle. «Gironzola qui intorno di tanto in tanto e, quando succede,

spariscono uova o galline oppure verdure dagli orti. E un buono a nulla che non ha voglia di lavorare. Alla sua età non ha mai nemmeno tentato di imparare un mestiere».

«Come si chiama?» domandò ancora Ian, sbirciando indietro. Il ragazzino ricambiò il suo sguardo, anzi, fissava quasi esclusivamente lui.

«Non so il suo vero nome. Tutti lo chiamano Coda di volpe» disse Bull.

Perché è rosso di capelli e ruba negli orti, dedusse Ian. «Ha famiglia?» chiese invece.«Abita con sua madre fuori dal villaggio di Willingham, a circa cinque miglia da

Aversly, verso Dunchester. Una donna da cui stare alla larga» replicò l'altro uomo. «Ha una brutta reputazione» aggiunse laconico, sotto l'occhiata interrogativa di Ian. «Forgia amuleti in rame e chissà quale altra diavoleria e non ha mai avuto un marito. Non c'è da stupirsi se suo figlio è già su una cattiva strada».

Ian non chiese altro e si limitò a proseguire il cammino accanto al carretto. Di tanto in tanto si girava indietro e sbirciava Coda di volpe. Il ragazzino lo seguiva passo passo e s'illuminò quando Ian gli fece un mezzo sorriso da lontano. Fece una breve corsa e raggiunse i due uomini per poi mettersi seduto sul pianale del carretto con un balzo agile, come se fosse stato invitato.

«Ehi!» protestò il boscaiolo. «Scendi subito da li!»«Oh, andiamo! Di che avete paura? Pensate forse che possa rubarvi la legna?» lo

rimbeccò il ragazzino. «Fatemi fare solo un po' di strada sul carretto, che vi costa? Cammino da stamattina e mi fanno male i piedi, voi invece ve ne state seduto comodamente e vi fate scarrozzare».

Bull mugugnò qualcosa, ma poi vide l'occhiata supplichevole di Ian, che perorava in silenzio la causa del ragazzino, e rinunciò a protestare oltre.

Coda di volpe notò lo scambio di occhiate e sorrise al suo inaspettato sostenitore. «Davvero siete stato sul continente?» gli chiese. «Anche in Francia?» Evidentemente aveva tenuto le orecchie ben tese per carpire i discorsi dei due uomini.

«Anche in Francia» ammise Ian, ignorando il brontolio di ammonimento di Bull che gli consigliava di non incoraggiare il ragazzo. Si sentì a disagio, piuttosto, perché insieme al resto, Coda di volpe doveva aver sentito anche la pessima opinione che il boscaiolo aveva di lui e di sua madre.

Il ragazzino tuttavia sembrava non avervi dato peso, forse perché non doveva essere la prima volta che udiva commenti simili e vi aveva fatto il callo. «Come sono i cavalieri francesi? Li avete visti?» continuò invece.

«Ho avuto modo... di incontrarne qualcuno, sì» disse Ian, cercando le parole adatte, senza sbilanciarsi.

«Da quando ti interessano i Francesi?» domandò Bull al ragazzino, senza girarsi.«Io li detesto, i Francesi» ribatté Coda di volpe, brusco. Andiamo bene... pensò Ian.«Volevo solo sapere se è vero che hanno timore di combattere e che sarebbero

scappati dal campo di battaglia in Fiandra se il loro re non avesse fatto distruggere il ponte dietro di loro per impedire che attraversassero il fiume» continuò il ragazzino e guardò solo Ian, pendendo dalle sue labbra per avere una risposta.

«Veramente, mi risulta che re Filippo di Francia abbia fatto allargare e consolidare il ponte di Bouvines il giorno prima della battaglia proprio per consentire all'esercito di passare più comodamente» replicò Ian, nascondendo sotto un tono da conversazione il fatto di essere irritato per quelle accuse contro i cavalieri francesi.

Aveva studiato abbastanza le cronache medievali successive a Bouvines da sapere che mille calunnie si erano diffuse in Inghilterra per minimizzare la vittoria del nemico, ma questo non gli impediva comunque di sentirsi offeso direttamente.

In testa aveva vivido il ricordo di quel giorno sanguinoso, violento e sconvolgente: gli era servito tutto il suo coraggio per affrontarlo e sopravvivere e nessuno adesso poteva accusarlo di vigliaccheria in quell'occasione in cui aveva dato così tanto di sé.

«I Francesi non si aspettavano di essere attaccati di domenica, nel giorno del Signore, e sono stati sorpresi in marcia dalle truppe imperiali mentre stavano andando a prendere quartiere per la battaglia che preparavano per l'indomani. Sono stati costretti a combattere e si sono difesi. Quando li ha visti vicini alla vittoria, l'imperatore è fuggito, abbandonando l'esercito insieme a molti dei suoi» continuò a raccontare, per poi ritenere più prudente attenuare le sue parole. «Almeno così dice chi ha assistito alla battaglia».

«Oh». Il ragazzino spalancò gli occhi, sorpreso.«Credimi, la nazionalità di un cavaliere non significa niente, come per tutti gli

uomini» proseguì Ian, per dissimulare ulteriormente il suo stato d'animo. «Valenti e incapaci, coraggiosi e codardi si trovano in ogni paese».

«Sacrosanto». Thomas Bull annuì.Il ragazzino invece sembrò ripetersi quelle parole in silenzio, rimuginandoci sopra.

Ian lo scrutò senza farsi notare e si chiese a cosa stesse pensando. Aveva un'aria piuttosto assorta.

«Però è vero che i Francesi si stavano ritirando» riprese Coda di volpe. «Stavano tornando verso sud e Parigi quindi scappavano davanti all'esercito imperiale».

«Oppure cercavano un luogo che fosse più favorevole per combattere. Da quello che so, erano soltanto la metà degli imperiali» considerò Ian.

«Non c'è niente da dire: i mangiarane si sono meritati la vittoria stavolta. Se la sono meritata ampiamente» intervenne Bull, a sorpresa. «Il loro re è una maledetta vecchia volpe, astuta e stratega. Tutto ciò che fa è frutto di un piano ben meditato. Non si lascia prendere dalla paura, quello. Se anche andava a sud, non stava scappando: aveva qualcosa in testa, una trappola, e gli imperiali e i Fiamminghi ci sono cascati come idioti, tirandosi dietro i nostri».

«Le vostre parole mi sembrano esperte» osservò Ian, colpito.«Sono stato soldato. Ero in Francia con re Riccardo. Ho smesso di combattere quando

è morto. Non ne valeva più la pena e io sto diventando vecchio» rispose il boscaiolo, laconico.

«Quindi avete avuto re Filippo di fronte sul campo di battaglia».«Sì e tutti i miei commilitoni sapevano quanto fosse scaltro. Alcuni ufficiali erano

stati in crociata, quando ancora re Riccardo e il francese erano amici e alleati contro i mori, e ci raccontavano com'era laggiù. Il francese era dannatamente bravo e solo uno come il Cuor di Leone poteva metterlo in ombra. Se avessimo ancora re Riccardo, adesso i Francesi sarebbero in lacrime e le nostre bandiere sventolerebbero su Parigi». L'uomo scosse la testa. «Con un re inetto come il Senza Terra, invece, i nostri hanno perso nerbo e conosciuto solo la sconfitta».

«I nostri non si sono rammolliti!» protestò Coda di volpe.«Abbiamo buoni condottieri, ma sono pochi, troppo pochi» rispose Bull, amaramente.

«E il Senza Terra li ha sparpagliati su due fronti diversi senza alcun discernimento. Con gli imperiali c'era soltanto William Lunga-Spada e non ha potuto fare niente se non rimediare come ha potuto alla vigliaccheria dell'imperatore».

«Il conte William di Salisbury è un valoroso» convenne Ian e ricordò il condottiero che aveva visto da lontano sul campo di battaglia. Uno dei pochi ad aver atteso a piè fermo l'orda dei Francesi alla riscossa e a mantenere la posizione, mentre Ottone IV fuggiva lasciando il suo esercito allo sbando. Solo grazie all'intervento del conte inglese e dei suoi cavalieri, l'imperatore era uscito vivo dal campo di battaglia. Salisbury era

rimasto a combattere fino all'ultimo, fino alla cattura o alla morte, come aveva fatto il fiammingo Ferrand de Fiandre con gli ultimi dei cavalieri al suo servizio, Jerome Derangale e Geoffrey Martewall compresi.

«Ha pagato il suo coraggio con la prigionia in mano francese. Almeno il Senza Terra ha avuto il buon gusto di trattare subito per il suo riscatto mentre si affrettava a supplicare una tregua dal Delfino di Francia, a differenza di quanto ha fatto anni fa con suo fratello legittimo Riccardo» brontolò Bull.

Già, è vero: William Lunga-spada è il fratellastro di Giovanni Senza Terra, ricordò Ian dopo quel discorso.

Nel frattempo notò che per tutto il tempo della conversazione Thomas Bull non aveva mai chiamato Giovanni con l'appellativo di "re" o "Sua Maestà". Dal tono dei suoi discorsi non traspariva certo alcun rispetto nei confronti dell'attuale sovrano d'Inghilterra.

Coda di volpe, invece, aveva ascoltato avidamente ogni dettaglio del discorso e si vedeva che adesso fantasticava di battaglie e di guerrieri. «Anch'io voglio andare in battaglia, un giorno» disse infatti. «Vorrei portare la spada e...»

«E cosa? Diventare condottiero?» lo derise Bull. «Uno come te al massimo può fare il furiere per la truppa».

«... e vorrei conoscere almeno un vero cavaliere» riprese il ragazzino, offeso. «Vorrei vedere i cavalieri battersi e vincere con onore». Nel dirlo alzò gli occhi verso Ian.

«Io mi accontento di vedere i cavalieri vincere in torneo, è molto meglio che vivere l'esperienza di una guerra» rispose l'americano, con l'appoggio di Bull. «Ma comunque ti auguro di poter soddisfare la tua curiosità senza dover andare su un campo di battaglia. Sei giovane e hai tempo davanti: prima o poi incontrerai un cavaliere, ne sono certo» aggiunse con naturalezza.

Il ragazzino non disse nulla e rimase pensoso a giocherellare con il suo bastone, lasciandolo penzolare dal carretto per disegnare ghirigori nel fango della strada.

I tre improvvisati compagni continuarono il tragitto per un po' senza parlare, guardando avanti nel bosco quieto.

Ian cominciava a sentire la stanchezza. Il caracollare ritmico del cavallo lo stava cullando verso il sonno e il silenzio dei due accompagnatori non contribuiva certo a tenerlo sveglio. La sua cavalcatura pensava da sola a seguire la strada, procedendo accanto al carretto senza bisogno di alcuna guida, e il giovane poté lasciar vagare i suoi pensieri stanchi dietro alla preoccupazione per l'indomani.

Per prima cosa, doveva riuscire ad accertarsi che Daniel fosse fuggito attraverso Hyperversum per tornare a casa. Saputo quello, non aveva più ragione di restare a Dunchester a rischiare di essere riconosciuto e catturato; poteva finalmente riprendere la sua strada verso Chatel-Argent e Isabeau.

Ma se invece Daniel era ancora nelle mani di Martewall...Ian non sapeva ancora cosa avrebbe fatto in quel caso. Continuò a rimuginare mille

ipotesi, sempre più stanco, finché queste non si confusero tutte in un'unica inquietudine sfinita, senza né capo né coda.

Si riscosse quando si rese conto che qualcosa gli faceva pizzicare la gola e gli occhi. Alzò la testa per accorgersi di essere quasi in dormiveglia e di aver perso il conto del tragitto compiuto fino a quel momento. Adesso tra la vegetazione spoglia aleggiava un odore penetrante.

«È fumo?» domandò Ian, allarmato.Anche Thomas Bull scrutava avanti a sé con un'espressione rigida. Coda di volpe si

era messo in ginocchio sul carretto per voltarsi verso la strada.C'era davvero fumo nel bosco spoglio, se ne sentiva l'odore sempre più pungente ad

ogni passo.«Che cosa brucia?» chiese Ian, con inquietudine crescente. «C'è Aversly, là davanti»

rispose Coda di volpe.Il bosco si diradò per lasciare intravedere in lontananza prima i tetti e poi le case di un

villaggio ricavato in un'ampia zona quasi priva di alberi.C'erano pochi edifici, poco più che baracche di legno e sassi, un paio di fienili e di

stalle, radi orti dissodati, alcuni alberi da frutto e recinti vuoti per pecore e capre.Era soprattutto la dimora di pastori, boscaioli e cacciatori, capì Ian.E nel mezzo del villaggio una casa bruciava, lanciando una colonna di fumo nero nel

cielo freddo.

Capitolo 10Daniel non voleva credere ai suoi occhi. Gli uomini sugli spalti del maniero di

Dunchester stavano costruendo le bertesche. Ian gli aveva spiegato a cosa servivano: erano piattaforme in legno che venivano montate intorno alle torri, fuori dai merli, per consentire ai soldati di colpire più facilmente e con minor pericolo chiunque si trovasse sotto le mura.

C'era una sola ragione al mondo per cui le mura di un castello dovessero essere munite di bertesche.

Dunchester si stava preparando a un assedio.No, non ci voglio credere... si ripeté Daniel, allibito.Dopo un viaggio a cavallo di qualche ora, il gruppo di Martewall aveva raggiunto il

borgo fortificato e aveva abbandonato la costa per girare intorno al fianco delle mura e arrivare alla porta principale, quella orientata verso i boschi.

Così Daniel aveva potuto vedere che la cinta muraria più esterna, una barriera fatta a semicerchio che tagliava il promontorio, non era del tutto completa: le torri erano costruite solo a metà e per l'altra metà erano ancora circondate da impalcature. Il fossato era appena tracciato nella terra; il muro alto poco più di un uomo e la porta soltanto un arco di blocchi massicci. Nessuno però vi stava lavorando.

Il borgo era in espansione. All'interno delle mura in costruzione lo spazio non era completamente occupato, c'erano ancora ampi prati verdi e vuoti, mentre le case del villaggio erano raccolte tutte insieme, come un gregge di pecore in un recinto, addossate alla seconda cinta di mura, quella che racchiudeva il castello vero e proprio.

Il maniero era invece in completa efficienza e le torri frontali davano un senso di imponenza e di forza.

Qui il movimento era più frenetico: decine di uomini lavoravano sulle mura merlate e sulle torri, inchiodando assi di legno e trasportando materiali.

Daniel capì che tutti gli uomini utili erano al lavoro sulla seconda cinta di mura e non fece fatica a comprenderne il motivo. La cinta esterna era troppo incompleta per essere messa in condizioni di resistere a un eventuale attacco e quindi era inutile lavorarvi. Dunchester puntava a organizzare l'intera difesa sulle mura interne.

Ma difesa da chi? si domandava Daniel e non riusciva a darsi risposta.Il piccolo gruppo a cavallo guidato da Martewall fece il suo ingresso nel borgo,

passando prima tra i prati recintati, poi lungo la strada principale del borgo addossato alle mura.

L'agitazione aumentava tra gli abitanti, man mano che il gruppo procedeva. I primi contadini avevano riconosciuto da lontano lo stemma del leone che uno dei fiamminghi portava sulla lancia e ben presto la voce si sparse di bocca in bocca: la gente chiamò altra gente, i bambini corsero a vedere il gruppo che passava e lo seguirono vociando. Ben presto, intorno a Martewall e ai suoi si era formata un'ala di folla che salutava con emozione e sollievo il signore di ritorno a casa.

Sembravano tutti molto in ansia o spaventati, notò Daniel, e invocavano il barone inglese come se si aspettassero da lui la protezione da un pericolo incombente.

Martewall rispondeva a tutti, ma i suoi occhi fuggivano costantemente verso la rocca e gli spalti su cui si affaccendavano i carpentieri e gli operai. Anche lui stava cercando di

capire una situazione inaspettata, glielo si leggeva nello sguardo.Con la sua seconda cinta di mura, il castello sorgeva sopra un ulteriore rialzo del

terreno. Una rampa di pietra consentiva la salita dello scoscendimento fino ad arrivare allo stesso livello del maniero, al quale era collegata dal ponte levatoio.

Martewall condusse i suoi al di là del ponte e del duplice cancello fortificato costruito nel barbacane: qui l'accoglienza si fece militaresca ed esultante.

I soldati vestiti di nero acclamavano il loro signore, alzando le lance e le spade, lanciando grida di benvenuto a chi tornava dalla guerra dopo tanta assenza e una lunga prigionia. Martewall non si fermò nella corte esterna, ma proseguì attraverso una seconda porta fortificata addossata al mastio ed entrò nel complesso del castello, disposto intorno a una corte interna pressoché quadrata. Qui il gruppo a cavallo alla fine si fermò.

Alcuni servi corsero a prendere le briglie del cavallo del barone inglese e del suo luogotenente, mentre i due smontavano di sella.

Sul cortile si affacciavano molte finestre e porte, quasi tutte le aperture delle sale del castello rivolte prudentemente verso l'interno. C'erano persino un piccolo giardino, un orto recintato e il pozzo. Anche qui i servi erano al lavoro, ma trasportavano soprattutto sacchi o materiali.

Il complesso era più piccolo e molto più spartano rispetto a Chàtel-Argent ma suscitava ugualmente un'idea di aristocratica fierezza, considerò Daniel nel guardarsi intorno. Se non altro, visto dall'interno e con l'aumentata luce del giorno, il castello non appariva più spettrale, anche se continuava a incutere molto timore.

Tutti gli uomini scesero da cavallo e anche l'americano fu fatto smontare per poi essere tenuto sott'occhio, mentre i servi conducevano via gli animali verso le stalle. Hector guardò il suo signore per ricevere ordini in merito al prigioniero, ma Martewall aveva appena aperto bocca quando fu distratto da un movimento poco lontano. Fece un cenno sbrigativo con la mano al suo luogotenente per rimandare ogni questione a dopo e si girò verso chi gli stava andando incontro provenendo dall'interno del castello.

Anche Daniel appuntò la sua attenzione in quella direzione e vide un uomo anziano sopraggiungere appoggiandosi a un bastone e a una ragazza poco più che ventenne. Camminavano in fretta, per quanto era concesso loro dall'età del vecchio uomo e dalla sua infermità che lo rendeva claudicante, e si vedeva che erano spinti dal sollievo e dall'emozione.

Daniel non ebbe dubbi nell'identificare quei due personaggi: l'uomo aveva i capelli e la barba quasi bianchi ma anche il portamento fiero di un leone ferito e un cinturone con una spada da cavaliere allacciato sopra gli abiti curati; la ragazza era una delicata figurina di porcellana, preziosa e altera. Entrambi, il vecchio e la fanciulla, somigliavano a Geoffrey Martewall in modo troppo evidente per non essere suoi consanguinei.

«Padre! Leowynn!» chiamò il cavaliere inglese e, per la prima volta da quando Daniel lo conosceva, la sua voce suonò incrinata dalla commozione.

Il vecchio si staccò dalla ragazza per alzare il braccio in un gesto d'accoglienza e fece qualche passo verso suo figlio, che gli corse incontro. Lo abbracciò forte con la mano libera dal bastone e per un attimo sembrò vicino alle lacrime. «Grazie a Dio, sei tornato» disse, ma poi si controllò e, sempre tenendo la mano sulla spalla del giovane, si fece indietro per guardarlo in volto. «Sei tornato» ripeté. «Temevo che ti avrei rivisto cadavere, come i tuoi fratelli».

«Sono vivo, padre» rispose Martewall con emozione e poi si rivolse verso la fanciulla che si era avvicinata. Lei gli si gettò nelle braccia, appena il vecchio padre glielo consentì spostandosi, e si sciolse in un pianto di sollievo. «Geoffrey, finalmente! Ho avuto tanta paura per te!»

Il cavaliere la baciò sulla fronte e le accarezzò i lunghi capelli castani.«Che cosa ti hanno fatto?» continuò la ragazza, sfiorandogli il volto provato con

entrambe le mani. Era terribilmente scossa e tentava di accertarsi che il giovane non fosse ferito o malato.

«Niente che non abbia potuto sopportare, sorella mia» replicò il cavaliere per rassicurarla e le prese le mani tra le sue.

La ragazza continuava ad avere gli occhi colmi di lacrime, nonostante tentasse di non farsi sfuggire un singhiozzo. «Quei maledetti Francesi! Credevo che avrebbero ucciso tutti i miei adorati fratelli... Dopo Richard, dopo Peter, temevo che sarebbe accaduto anche a te!»

Qui si mette male... pensò Daniel, sempre più sulle spine. Tutto si immaginava tranne che quella famiglia avesse già perso due figli nelle guerre con i Francesi.

Adesso l'idea che i Martewall volessero sfogarsi su di lui gli parve tutt'altro che remota. Decisamente, la sua posizione di "prigioniero francese" diventava sempre più precaria man mano che passava il tempo.

In un unico pensiero, Daniel maledisse Hyperversum, i suoi inventori e l'avventura in cui quel dannato gioco l'aveva catapultato di nuovo.

«Non ho avuto che incubi in questi mesi, pensandoti rinchiuso in chissà quale segreta, in balia di chi avrebbe potuto ucciderti in qualsiasi momento, per puro capriccio!» aveva intanto continuato la ragazza.

«È finita, Leowynn, non pensarci più. Basta con le lacrime» le disse il fratello, stringendole le mani più forte.

Lei annuì, poi si asciugò le guance, cercando contemporaneamente di assumere un atteggiamento più forte e dignitoso.

Geoffrey Martewall si rivolse di nuovo a suo padre con aria cupa. «Sono stato sulla tomba di Peter, ieri. Perché l'avete fatto seppellire in quel monastero perso in mezzo ai boschi? Il suo posto era qui, accanto a Richard».

Il vecchio scosse la testa. «Peter avrebbe voluto così. Se fosse stato per lui, avrebbe preso i voti, lo sai. Quando Richard morì in guerra dodici armi fa, Peter dovette fare il suo dovere di secondogenito, nonostante la vita secolare non fosse la sua vocazione. Ora che anche lui è morto in quest'ultima, maledetta guerra, ho voluto esaudire il desiderio che non ha potuto realizzare. Mi consola pensare che riposerà per sempre nello stesso monastero in cui avrebbe voluto vivere cantando le lodi al Signore».

Geoffrey Martewall rimase in silenzio per qualche istante, meditando. «Ora, di tre figli maschi, vi sono rimasto solo io» disse alla fine.

«Abbiamo rischiato di perdere anche te a causa delle assurde guerre del Senza Terra» intervenne la ragazza di getto, per poi pentirsi di aver detto troppo, sotto l'occhiata sorpresa e severa del fratello.

«Tu erediterai Dunchester» disse invece il padre, rivolto al cavaliere. «Sarai un buon signore, nonostante non ti sia addestrato al governo in questi anni. Non potevi immaginare che un giorno sarebbe toccato a te, ma ora avrai i diritti e i doveri che sarebbero stati dei tuoi fratelli e, quando io non ci sarò più, porterai il nostro feudo fuori

dai tempi bui».Anche da lontano, Daniel vide che Martewall stava soppesando le sfumature di quel

discorso con tensione crescente. Qualcosa lo innervosiva, era chiaro, e l'americano immaginava che fosse la stessa cosa che impensieriva lui. Il rumore dei martelli e degli utensili dei carpentieri che montavano le bertesche arrivava distintamente anche in quel cortile e sembrava voler sottolineare le parole "i tempi bui".

«Che cosa sta succedendo, padre?» domandò infatti il cavaliere. «Perché il castello si prepara alla battaglia? Chi ci minaccia ora?»

Il vecchio signore di Dunchester fece un ampio gesto del braccio, come a voler includere tutte le terre sotto il suo dominio. «L'inverno ci minaccia e così la povertà e la carestia» rispose, con una fiammata di rancore nella voce. «La nostra gente vive di stenti perché ha dovuto dare anche l'ultimo dei suoi averi in tasse. Ho aperto in anticipo i granai del castello per consentire a tutti di avere il pane, ma così le scorte forse non arriveranno a primavera. Non abbiamo quasi più risorse e io ho deciso che non sprecherò ciò che ci resta per pagare tributi irragionevoli a un folle che non merita la corona».

Daniel rimase a bocca aperta a quell'ultima frase. I fiamminghi e il luogotenente Hector si scambiarono sguardi attoniti.

Geoffrey Martewall si era irrigidito di colpo. «Per tutti i santi... che cosa avete fatto?» domandò, temendo la risposta.

«Ho rifiutato di pagare le tasse al Senza Terra. Dal giorno del Santo Natale ho iniziato a cacciare dalle nostre terre tutti quelli che venivano a esigere i tributi» rispose il vecchio barone duramente. «Gli ultimi che hanno osato venire qui a minacciarmi in nome del re, li ho fatti accogliere a frustate. Sono scappati strisciando. Da allora non si sono più fatti vedere».

«Avete cacciato a frustate gli esattori di Sua Maestà!» esclamò Martewall, sconvolto. «Vi rendete conto di cosa accadrà ora?!»

Il padre sollevò il mento senza alcun timore. «Quando arriverà, l'esercito mi troverà pronto ad affrontarlo».

Geoffrey Martewall fece un passo avanti. «Ma questa è sedizione!»Leowynn sollevò le mani d'istinto verso il fratello per calmarlo. «Tu non sai com'è

stata la vita qui durante la tua prigionia. Gli esattori arrivavano ogni mese a pretendere denaro. Non era rimasto niente a furia di pagare tributi sempre nuovi» cercò di spiegare, con un'espressione di dolore e risentimento sul bel viso. «Per mettere insieme il tuo riscatto ci sono voluti mesi. Ti sapevamo in catene e non potevamo pagare la tua libertà. Abbiamo dovuto vendere persino gli ultimi gioielli di nostra madre...» La voce le si spezzò e il pianto rischiò di incrinare il contegno che la ragazza si era imposta.

«Ho già pagato un tributo di sangue al Senza Terra, con la vita di due figli e quasi anche con la vita del terzo» intervenne il vecchio barone, con rancore. «Ho pagato con le sofferenze della nostra gente, che ha dovuto subire angherie e vessazioni. Ho visto spogliare il mio feudo. Ora questo re indegno non avrà altro da me se non il ferro delle spade e il legno delle frecce. Dunchester ha già sofferto troppo a causa sua».

«Ma in questo modo condannate Dunchester alla distruzione!» ribatté Martewall, furibondo. «Il re manderà qui il suo intero esercito!»

Daniel si guardò intorno, guardò il piccolo maniero con la cinta muraria più esterna ancora in costruzione e si scoprì a sudare freddo.

Quella roccaforte non sarebbe durata per molto contro un esercito e il giovane

americano non poté fare a meno di immaginarsi i soldati di re Giovanni Senza Terra che irrompevano all'interno delle mura e facevano strage di tutti quelli che incontravano sul loro cammino. Compreso un eventuale cavaliere di Francia trovato prigioniero nelle segrete.

«Io non temo questo esercito che non ha più niente di inglese, dopo la morte dei nostri valorosi nelle inutili guerre in Francia» stava intanto dicendo il vecchio barone. «Sono soltanto schifosi mercenari a ingrossare le sue fila, anche questi ricompensati con il denaro che il re estorce a noi. Abbiamo pagato per le sue sconfitte, abbiamo pagato per la sua politica irragionevole, adesso paghiamo anche gli uomini che vengono ad angariare la nostra gente. Nei villaggi, chi non può pagare le tasse viene punito a frustate e se è recidivo la sua casa viene data alle fiamme. La nostra autorità di baroni non vale nulla né i nostri soldati possono in qualche modo intervenire a fermare l'operato degli esattori, anzi ne devono subire l'autorità. Siamo servi nella nostra stessa patria per colpa di un sovrano inetto e vigliacco che ci ha trascinati tutti nella sconfitta e nel disonore della fuga».

«Basta con queste calunnie, le ho sentite fin troppo! Re Giovanni non è un vigliacco e nessun cavaliere inglese si è disonorato in guerra!» esplose Martewall. «L'Impero ha abbandonato il campo di battaglia ma non l'Inghilterra! Nessuno di noi è fuggito!»

«In Fiandra forse, perché là non c'era il re a darvi ordini. In Anjou, invece, e lungo tutto il fronte meridionale è stato lo stesso Senza Terra a dare l'esempio per primo e ad abbassare le armi. Ha ordinato di ripiegare davanti al Delfino Luigi di Francia e, così, tanti nostri cavalieri si sono sacrificati per coprirgli la ritirata. Tuo fratello Peter era tra loro e me l'hanno riportato in un sudario».

Martewall tacque per qualche istante e dovette passarsi la mano sul viso per tentare di calmarsi. «Questa storia è una follia» disse infine, con voce comunque vibrante. «Voi non potete sfidare la corona da solo. Cercate di rinsavire, per l'amor di Dio, e implorate il perdono del re o ci farete ammazzare tutti».

«Bada a come parli: sono tuo padre e mi devi rispetto» l'ammonì il vecchio con durezza.

Martewall fu costretto a rimangiarsi il resto del discorso.«Non sono solo. Tutti la pensano come me» continuò suo padre a sorpresa. «Ne

abbiamo discusso e abbiamo deciso: questo re deve moderare le sue pretese oppure rinunciare al trono».

Martewall spalancò gli occhi. «Tutti... chi?» domandò, trasecolando.«Tutti i baroni. Ci siamo riuniti a Bury St. Edmunds prima di Natale e abbiamo

formulato una decisione. Il Senza Terra deve concederci la libertà che ci spetta e smettere di opprimere i nostri feudi con tasse impossibili o noi non lo riterremo più adatto a governare».

«Tradimento!» Martewall impiegò alcuni istanti prima di poter pronunciare quella parola. «Voi avete osato cospirare contro il re!»

Il vecchio padre non fu nemmeno sfiorato dall'accusa. «Il tradimento si consuma nell'ombra, mentre noi agiamo alla luce del sole» replicò. «Un documento formale con le nostre richieste è stato presentato al re. Pretendiamo da lui il rispetto delle promesse fatteci dai suoi predecessori Stefano ed Enrico e la restaurazione dell'autorità e dei diritti che ci ha rubato con la forza».

«E se il re non dovesse accettare?»

«Allora perderà la corona, dovessimo anche togliergliela con le nostre stesse mani. Finora il re ci ha ignorato e nessuno di noi è passato dalle parole ai fatti. Se io dovrò dare l'esempio per primo, non mi tirerò indietro».

«NO!» quasi urlò Martewall. «Non vi permetterò di fare nulla del genere! Io ho giurato, voi avete giurato fedeltà al re: la nostra famiglia non diventerà spergiura o traditrice!»

La giovane Leowynn trasalì davanti all'ira del fratello maggiore, il vecchio barone invece affrontò suo figlio con uguale durezza. «Io ho giurato fedeltà al trono d'Inghilterra e non a un folle che sta portando quel trono alla rovina e al disonore».

Geoffrey Martewall serrò i pugni. «Io, Richard e Peter abbiamo combattuto per questo re, voi non renderete vana la morte dei miei fratelli e tutte le mie battaglie rinnegando colui che abbiamo seguito in guerra».

«I miei figli non hanno combattuto perché la loro patria subisse l'umiliazione, la loro casa venisse spogliata di tutto e la gente che avrebbero dovuto governare e proteggere fosse ridotta quasi in schiavitù» replicò il vecchio barone fermamente. «Puoi tu in coscienza dire che il tuo re ha meritato il sacrificio fatto per lui? Che la morte dei tuoi fratelli o le tue sofferenze in catene sono servite a qualcosa? Guarda com'è ridotta l'Inghilterra: Giovanni ha sprecato tutto ciò che suo fratello Riccardo e suo padre Enrico avevano conquistato e ora la nostra gente muore di fame e viene derisa dai Francesi. Non è degno del suo retaggio reale e quindi non merita nemmeno la fedeltà».

Martewall stava quasi tremando d'indignazione. «Io non rinnego un mio giuramento, nemmeno se l'uomo a cui l'ho fatto si dimostra immeritevole. Non tradirò il mio onore di cavaliere e non combatterò contro il re! Se insistete a proseguire in questa follia, mi avrete nemico».

Tutti i presenti, Daniel compreso, trattennero il fiato a quella minaccia irata.Tutti tranne il signore del castello, che picchiò a terra con la punta del suo bastone.

«Tu resterai al mio fianco perché mi devi obbedienza e perché è tuo dovere. Il tuo primo giuramento di cavaliere è stato quello di difendere i deboli e gli oppressi: non abbandonerai la tua gente per continuare a servire un tiranno che si fa scudo dietro un esercito mercenario, pagato col pane che toglie ai tuoi sudditi. Il tuo orgoglio non vale la loro vita».

Un silenzio carico di gelo e di tensione scese nel cortile, mentre padre e figlio si fronteggiavano, entrambi con i pugni serrati. Tutti fissavano Geoffrey Martewall attendendo la sua prossima parola e il cavaliere alla fine dovette sentire sulle spalle quegli sguardi ansiosi, perché si voltò indietro infastidito.

Fu in quel momento che vide Daniel e si accorse che il prigioniero aveva seguito l'intera conversazione senza perdere una sillaba. Preso dalla foga della discussione, si era completamente dimenticato di lui, lasciandosi osservare senza difese in un momento tanto delicato.

Daniel capì che quel pensiero fece perdere del tutto le staffe al cavaliere.«Portatelo via!» ordinò infatti Martewall ai suoi uomini, indicando il prigioniero con

un gesto violento. «Andate tutti fuori da qui!»I fiamminghi sobbalzarono e si affrettarono a obbedire. Uno di loro afferrò Daniel per

un braccio, ma l'americano si divincolò, opponendo resistenza, anche perché sentì il vecchio padre chiedere al cavaliere: «Chi è quell'uomo, Geoffrey? Perché è tuo prigioniero?».

«Lasciami andare, Martewall!» esclamò Daniel, tentando il tutto per tutto. «Hai già abbastanza guai a cui pensare, non tirartene addosso altri! Lo sai cosa accadrà, quando il mio signore tornerà a casa e poi verrà a pretendere la mia libertà!»

Ian non si immagina nemmeno che io sono ancora qui, non verrà mai a cercarmi, si disse contemporaneamente, disperato, ma sperò che il bluff funzionasse e servisse a mettere il cavaliere inglese abbastanza sotto pressione da convincerlo ad abbandonare ogni progetto su di lui.

Martewall però era così furioso da non sentire ragioni. «Hector, ti ho detto di portarlo via!» ruggì.

Il luogotenente agguantò Daniel e lo trascinò verso il lato del cortile, con l'aiuto di un altro uomo.

«Te ne pentirai!» minacciò l'americano rivolto a Martewall, mentre lo conducevano via. «Lasciami andare, finché sei in tempo!»

Le sue proteste caddero nel vuoto.Martewall si era girato verso il padre e la sorella e, anche da lontano, Daniel capì che

aveva messo fine a tutte le domande sul prigioniero con qualche risposta brusca.Il giovane fu sospinto oltre una porta di legno e poi condotto giù per una buia rampa

di scale illuminata sul primo gradino da una torcia tremolante che il luogotenente Hector prese con sé per fare luce sul cammino.

Daniel non fece fatica a capire dove lo stessero conducendo. Anche se aveva temuto quel momento per tutto il viaggio, le segrete di Dunchester gli fecero una profonda impressione perché gli sembrarono una catacomba. Si sentì mancare l'aria e la cosa peggiorò quando si trovò davanti a una parete di sbarre di ferro che chiudeva una cella ampia ma spoglia e vuota, a parte un pilastro nel bel mezzo, un pagliericcio steso in un angolo e orrende catene appese alla parete di fondo, esattamente di fronte alle sbarre. Hector gli liberò le mani dalle corde, poi lo spinse dentro senza rivolgergli nemmeno una parola.

Quando la porta fu richiusa alle sue spalle e i carcerieri si allontanarono portando con sé la torcia, Daniel si sentì sepolto vivo.

Fece un respiro profondo per non lasciarsi sopraffare dal panico e cercò di abituarsi alla luce scarsissima che proveniva da una feritoia di poche spanne appena, posta nel muro di fronte alla cella, all'altezza del soffitto.

Doveva esserci una via d'uscita da quel luogo. Doveva.La prospettiva di attendere la morte in quella gabbia era troppo spaventosa e rischiava

di farlo impazzire, se non occupava la mente con altri pensieri.Per qualche attimo il giovane rimase in ascolto. Il luogo sembrava completamente

deserto poiché non si udivano rumori, a parte quelli lontani che provenivano dalla feritoia che dava fuori.

«Ehi, c'è nessuno qui?» chiamò Daniel, facendo un tentativo, ma non ebbe alcuna risposta.

Doveva essere l'unico prigioniero, ipotizzò e non seppe se considerare quel fatto positivo o negativo. Da un lato, le segrete vuote lasciavano sperare che il padrone del castello non fosse un uomo che incarcerava la gente con leggerezza, dall'altro la cosa poteva semplicemente significare che i prigionieri venivano giustiziati senza tante cerimonie. Quell'ultima idea fece diventare ancora più pressante la necessità di fuggire.

«Uscita di emergenza» disse Daniel, alzando la mano a mezz'aria, ma ovviamente

Hyperversum non diede segno di voler rispondere all'ordine.E ti pareva, pensò il giovane.Esplorò ogni angolo con lo sguardo, cercando nella semioscurità più e più volte, ma

non trovò niente che potesse aiutarlo. La cella non conteneva nulla, se non ciò che serviva a soddisfare le necessità basilari di un prigioniero, e di certo non aveva oggetti che potessero favorire la sua fuga.

Il suo viso assunse una smorfia sarcastica. Nei film al cinema l'eroe trovava sempre qualche rimedio improbabile che lo aiutava a uscire dalla prigione in cui era stato rinchiuso, sia che fosse una spada nascosta o elementi chimici che, miscelati insieme, gli consentivano di fabbricare la polvere da sparo.

A me questa fortuna non sta capitando di certo, pensò Daniel e allo stesso tempo si rimproverò. E andiamo! Ho una laurea in fisica, anni di studi sui materiali! Devono pur servire a qualcosa per uscire da qui!

Nonostante la sua rabbia, però, la situazione rimaneva disperata e, dopo aver frugato invano tutta la prigione, Daniel si ritrovò aggrappato alle sbarre, impotente e spaventato.

Lo sfinimento stava prendendo il sopravvento su di lui e sulla sua determinazione a reagire.

Daniel scivolò seduto sul pagliericcio e raccolse le braccia intorno al torso per scaldarsi.

Con la mente corse a Ian, chiedendosi dove fosse l'amico in quel momento. Qualunque cosa stesse facendo, non poteva certo immaginare cosa gli stava accadendo e forse non l'avrebbe nemmeno mai saputo.

Si augurò comunque che fosse in salvo e che avesse potuto lasciare l'Inghilterra incolume per tornare dalla sua Isabeau. Almeno uno dei due doveva uscire vivo da quell'avventura assurda, pensò, ma poi dimise l'idea con un estremo impeto d'orgoglio.

Tutti e due usciremo vivi da questo maledetto gioco, si corresse e rivolse quel pensiero rassicurante anche a Ian.

Anche io ce la farò, lotterò come tu hai sempre fatto, aggiunse.Non era la prima volta che viveva quell'incubo, ci era già passato e ne era uscito vivo,

benché fosse più giovane e inesperto.Non ero da solo quella volta, rammentò però subito dopo, ma si costrinse a soffocare

anche quel brivido di timore.Aveva una famiglia che lo aspettava a casa, un fratello, i genitori, una futura moglie.

Il pensiero di Jodie lo scaldò e gli diede la forza per non abbattersi, per resistere fino all'ultimo.

In qualsiasi modo, sarebbe uscito da quella gabbia e non vi sarebbe morto, decise, stringendo i pugni. Sarebbe sopravvissuto e prima o poi avrebbe anche piegato Hyperversum ai suoi voleri. Non sapeva come, ma ce l'avrebbe fatta.

Jodie, ti giuro che tornerò a casa, stava ancora ripetendosi, mentre la scarsa luce della feritoia si spegneva col tramonto.

Capitolo 11Un’immobilità spettrale aleggiava sul villaggio di Aversly. Non si vedevano uomini o

animali tra le case fatte di tronchi sbozzati e cannicci, cresciute come funghi di sordinati nella radura. L'unico movimento era dato dalla colonna di fumo che saliva nel cielo da qualche costruzione ancora nascosta dietro le altre.

Ian percepì immediatamente la sensazione di pericolo: fu un suggerimento dell'istinto, inequivocabile. Qualcosa gli diceva che quel fuoco non era scaturito da un semplice incidente. Ne ebbe la conferma quando udì Bull imprecare tra sé e sé a bassa voce: «Maledetti! Di nuovo qui!».

«Che cosa succede?» domandò Ian, mentre la mano destra gli scivolava automaticamente sulla spada sotto il mantello.

«Meglio se non vi fate notare» lo ammonì subito il boscaiolo, notando il gesto. «Non se la prenderanno con voi, se rimanete in disparte».

«Sono venuti per i soldi, come sempre» disse Coda di volpe e si alzò in piedi sul carretto per tentare invano di vedere qualcosa da lontano, ma Bull zittì anche lui, brusco. «Sta' buono tu! Con tutti i furti che fai, sei quello che si deve far notare meno di tutti».

«Io non rubo!» protestò il ragazzino, smentito però immediatamente dal rossore che gli colorì anche le orecchie.

Bull fece deviare il carretto per girare intorno alle case e non entrare nel centro del villaggio seguendo la strada.

Ian lo seguì a cavallo, sempre più in tensione. Adesso sentiva anche voci alterate provenire dalla direzione del fumo, ma non riusciva a capire le parole e a identificare il numero dei presenti.

Bull proseguì per un po', poi s'inoltrò tra le case e infine fece fermare il carretto accanto a una costruzione in legno. Era una casa rudimentale e spartana, composta da un solo piano e da due vani al massimo, a giudicare almeno dalle finestre. Una tettoia prolungava il tetto di paglia per tenere al coperto un piccolo deposito di legna, tagliata in cataste ordinate, e il ricovero per il mulo.

Il boscaiolo smontò dal carretto per slegare l'animale. Coda di volpe balzò a terra nello stesso momento e s'intrufolò di corsa tra le altre case, per andare a vedere cosa stesse accadendo.

Anche Ian scese di sella e legò il suo cavallo a un palo della tettoia, tenendo però gli occhi fissi nella direzione in cui era sparito il ragazzino.

Bull gli fece cenno di seguirlo. «Andiamo a vedere anche noi» disse cupamente.La scena che si stava svolgendo nel centro del minuscolo villaggio colpi Ian di

sorpresa.Il piccolo agglomerato di Aversly formava un anello intorno a uno spiazzo sterrato

che ospitava il pozzo, dal quale partivano sentieri, più che vere e proprie strade, che consentivano di camminare tra una casa e l'altra.

Tutti gli abitanti erano riuniti ai bordi di quello spiazzo, spaventati, rigidi. Pastori, boscaioli, cacciatori, gente povera, vestita sobriamente e abituata al lavoro duro; una sessantina di anime in tutto.

Una casa bruciava proprio dalla parte opposta rispetto a dove Ian si trovava: era una casa semplice, come quella di Bull, con un piccolo orto ormai completamente calpestato e un pollaio ridotto in pezzi. Le galline giacevano morte una sull'altra, ammonticchiate

vicino al pozzo.Un gruppo di quattro uomini, senza divise ma armati, era proprio lì accanto, con aria

spavalda: uno di loro aveva la spada sguainata e guardava la gente del villaggio con un sogghigno sarcastico, come a voler sfidare qualcuno a farsi avanti. Altri due stavano trascinando a forza un uomo in camicia verso il pozzo, dove li attendeva il quarto compagno.

Una donna piangeva disperata a pochi passi dalla casa in fiamme, tenendosi stretta alla gonna un bambino poco meno che decenne.

Ian capì in un lampo cosa stava per accadere, perché i suoi occhi furono attirati come una calamita da un dettaglio di quella scena violenta: l'armato vicino al pozzo teneva in mano una frusta.

Un brivido gli attraversò ogni singolo muscolo. La mano corse di nuovo alla spada e la strinse così forte da farsi male.

Si trattenne a fatica, all'ultimo istante, ma si morse le labbra a sangue, mentre riviveva in quella scena l'orrore del supplizio che lui stesso aveva subito in prima persona. Era un incubo che non l'aveva mai abbandonato, che lo svegliava a volte di notte e lo riempiva ancora di rabbia cieca anche a distanza di anni dall'accaduto.

Ian cercò di respirare a fondo, per calmare il cuore che adesso gli martellava nelle orecchie. Doveva dominarsi, non doveva fare gesti avventati, non doveva esporsi, si ripeté più e più volte. Capì però che gli sarebbe servita tutta la sua forza di volontà per mantenere quel proposito.

La gente del villaggio guardava la scena con paura, senza osare fare nulla, chiaramente terrorizzata dagli armati che spadroneggiavano nella piazza.

Il prigioniero stava invocando pietà dai suoi aguzzini. «Datemi solo qualche giorno in più! Non ho guadagnato niente questo mese e dovevo sfamare la mia famiglia» gemeva. «Vi giuro che troverò i soldi in qualche modo, dopodomani, subito dopo il mercato a Glenhaven!»

«L'avevi detto anche il mese scorso, pezzente! E anche quella volta siamo dovuti venire a ricordarti di pagare» ribatté l'uomo con la frusta, con un chiaro accento straniero nel suo inglese. «E ora che tu impari a rispettare le scadenze. Ne abbiamo già abbastanza di te».

Il prigioniero venne gettato contro il pozzo, per essere legato a uno dei pali di legno che formavano la struttura, tra il mormorio angosciato della gente e il pianto disperato della moglie col bambino.

«Maledetti banditi!» mugugnò Thomas Bull fermo al fianco di Ian, con un fremito di rabbia nella voce bassa. «Vivono con i soldi che ci spremono ogni mese, come se fossimo vacche da mungere! Avevamo già abbastanza problemi anche senza essere sottomessi a questi strozzini stranieri».

Ian non riusciva a staccare gli occhi dagli uomini armati.Banditi, strozzini, li aveva chiamati Bull, una banda di delinquenti capaci di

spadroneggiare solo perché erano i più forti: briganti di quel genere ce n'erano in ogni tempo e ogni paese.

Ian sentì la rabbia montare. «Perché nessuno fa niente?» domandò, mantenendo a fatica la voce bassa.

«E cosa dovremmo fare?» rispose il boscaiolo amaramente. «Nessuno di noi ha denaro abbastanza per pagare al posto di un altro».

«Dovreste chiamare i soldati della città, altro che pagare a testa bassa!» esclamò Ian.Bull scosse il capo. «I soldati non vengono fino a questo buco in mezzo al bosco. E se

anche venissero, non farebbero niente».«Ma è inverosimile!» Ian stava arrivando al limite del suo autocontrollo.«Se anche protestassimo o li denunciassimo, domani ne arriverebbero di più e allora

tutto il villaggio sarebbe dato alle fiamme».«Non si può vivere così» replicò Ian, furente.Bull annuì, piano. «No. Non si può» ammise. «Questa non è vita, è schiavitù».Gli armati stranieri intanto avevano terminato di legare il loro prigioniero,

costringendolo ad abbracciare il palo del pozzo per offrire la schiena al supplizio.«E smettila di frignare!» lo derise quello con la frusta, avanzando verso di lui.

«Comportati da uomo, altrimenti la prossima volta verremo a pretendere il pagamento da tua moglie!»

I suoi compagni sghignazzarono, mentre andavano a raccogliere le galline morte da terra per buttarle nei sacchi della soma di un mulo poco distante. L'animale era legato vicino a quattro cavalli con bei finimenti e portava già un carico considerevole che doveva essere il bottino appena razziato al villaggio e, presumibilmente, anche in qualche altro luogo.

Lo straniero con la frusta stracciò la camicia sul dorso della sua vittima, poi fece di nuovo un passo indietro.

Ian vide sulla schiena del prigioniero cicatrici inconfondibili, recenti, appena rimarginate. Il ricordo della scadenza del mese precedente, come avevano detto gli aguzzini.

Ian conosceva bene quelle cicatrici, perché ne portava addosso di simili e ricordava ancora fin troppo il dolore e l'umiliazione che le avevano accompagnate.

Il sangue gli sali agli occhi.«Che serva come ammonimento a tutti quelli che non pagano!» annunciò a tutti

l'armato, spavaldo, srotolando la frusta.Il suo braccio si alzò ma non ricadde. L'uomo si trovò faccia a faccia con Ian, che

l'aveva afferrato per il polso.«Bastardo, metti giù questa frusta o giuro che la userò per impiccarti al primo albero»

ringhiò l'americano allo straniero attonito e, trattenendolo per il braccio, gli piantò una ginocchiata in pieno ventre. L'armato si piegò in due con un'esclamazione strozzata di dolore e si afflosciò a terra.

In un solo istante, Ian gli strappò la frusta dalle mani e la gettò al suolo, poi ruotò su se stesso per affrontare con la spada sguainata gli altri tre avversari, difendendo il prigioniero. «Vi ha detto che non ha i soldi, non avete capito?» esclamò. «Quindi toglietevi dai piedi!»

I tre erano stati colti di sorpresa dall'intervento improvviso e non ebbero tutti la stessa prontezza di riflessi per reagire. Era evidente che non si aspettavano che qualcuno potesse minacciarli e impiegarono qualche secondo prima di capire di essere stati sfidati davvero.

«Come osi, bifolco?!» intimò alla fine quello che aveva già la spada in pugno e si fece avanti per primo, ma Ian lo stava aspettando e gli si lanciò contro velocissimo. Lo impegnò, fece pressione su di lui, lo costrinse a indietreggiare.

Fu come se l'addestramento da cavaliere riaffiorasse di colpo, mai dimenticato, dopo

un lungo letargo. Ian non dovette pensare a come muovere la sua spada, il corpo reagiva da solo con scioltezza, nonostante gli anni di mancato allenamento. La spada lampeggiava temibile nell'aria fredda.

Il suo avversario era più basso, più goffo, soprattutto non era furioso quanto lui. Ian lo ferì quasi subito, prima al fianco, poi al braccio. Lo disarmò, poi lo scaraventò a terra con un calcio. L'uomo rotolò fin quasi ai piedi dei presenti, che si fecero indietro con un mormorio agitato.

Ian si voltò rapido per intercettare un movimento che sentì provenire alle spalle. Un secondo nemico stava tentando di aggredirlo da dietro, ma si fece meno agguerrito quando vide l'americano parare la sua spada facilmente. Ian lo incalzò, furente, lo respinse e lo ferì. Con un'esclamazione strozzata, lo straniero si mise precipitosamente a distanza di sicurezza per riprendere fiato.

Ian si trovò di fronte un altro avversario. «Non ne avete avute abbastanza?» gli esclamò contro. «Andate via e non fatevi più rivedere!»

Ci fu un fischio nell'aria. Il nemico gettò un grido e cadde all'indietro, mentre il volto gli si copriva rapidamente di sangue.

Ian si girò di scatto e vide Coda di volpe chino tra le gambe della gente del villaggio. Aveva in mano una fonda formata da una lunga striscia di cuoio e stava già cercando a terra un'altra pietra da lanciare. «Andate via, maledetti!» ripeté con sfida, rivolto ai quattro tormentatori. «Via o sarà peggio per voi!»

Il suo grido fu come un segnale che riscosse l'intero villaggio dalla sua spaventata immobilità. Gli abitanti cominciarono a inveire violentemente contro gli stranieri armati, prima alzando soltanto i pugni in aria, poi gettando sassi.

«State indietro, pezzenti! Come osate?!» intimò uno degli armati, brandendo la spada verso la gente, ma si sentì che la sua voce adesso non era più spavalda come prima. Aveva paura e la folla lo capì in un lampo. Le grida si fecero più minacciose. L'uomo puntò la spada a destra e a manca, non sapendo da che parte voltarsi per fronteggiare tutti quelli che lo fissavano pericolosamente.

Ian gli si parò davanti. «Hai sentito cosa dicono: dovete sparire e non tornare mai più» sibilò feroce e attaccò per ricacciare lo straniero dai suoi compagni.

Ritti gli armati stavano indietreggiando per tenere la gente a distanza, ma nel contempo gli abitanti del villaggio stringevano il cerchio, esasperati da mesi di vessazioni. Alcuni avevano impugnato i bastoni e la cosa spaventò i loro aguzzini, che si sentirono in trappola. Uno di loro cominciò a mulinare la spada verso la folla e, spinto dal panico, commise l'irreparabile.

Un robusto pastore gli si era avvicinato troppo, armato di bastone; lo straniero reagì con violenza e affondò la spada. Il pastore cadde trafitto con un grido e la sua casacca si tinse rapidamente di sangue.

«No!» esclamò Ian, ma la sua voce si perse nel ruggito che si levò tra gli abitanti.La gente si gettò in avanti. L'uomo armato si difese invano per qualche secondo:

venne letteralmente inghiottito da un'onda di mani, corpi e gambe e sparì dalla vista nella calca.

«Fermatevi!» ordinò Ian, accorrendo per intervenire, ma, così facendo, perse di vista gli altri tre nemici.

Fece appena in tempo a cogliere con la coda dell'occhio qualcosa saettare verso di lui e alzò il braccio sinistro per proteggersi. Sentì un dolore atroce e urlò, mentre la frusta

gli si avvinghiava all'avambraccio, ma ebbe comunque la prontezza di afferrare con la mano quella striscia di cuoio spesso e intrecciato e di bloccarla, arrotolandola intorno al polso. Il nemico che teneva l'altra estremità era cinereo di paura, perché vide l'espressione d'odio feroce disegnarsi sul volto di Ian.

«Non osare alzare una frusta su di me» scandì quest'ultimo, fuori di sé per l'ira, poi strattonò la treccia di cuoio e trascinò l'uomo verso la punta della sua spada tesa.

Ebbe la lucidità all'ultimo istante di deviare la lama e non colpire a morte. Trafisse la gamba del nemico da parte a parte e lo inchiodò a terra nella polvere. L'uomo gridò, Ian gli si chinò sopra, pesando sull'elsa con tutta la sua statura. «Ve ne dovete andare, lo capite o no?» ansimò, suo malgrado sconvolto. «Via da qui o morirete tutti!»

Ritrasse la spada, lasciò il nemico a terra, poi si voltò per correre a fermare la gente prima che linciasse gli altri. «Basta!» urlò, mentre lottava per sottrarre una preda dalle mani degli abitanti inferociti. Qualcuno lo aiutò, Ian vide accanto a sé la figura robusta di Thomas Bull.

Insieme, i due trascinarono via lo straniero ormai coperto di lividi e sangue e lo buttarono accanto a quello che era rannicchiato a terra con la gamba ferita. Fecero altrettanto con un terzo nemico mentre alcuni altri abitanti venivano a dare loro man forte. Per l'ultimo, invece, era troppo tardi.

Ian rimase a guardare impotente il cadavere steso a terra, dopo essere riuscito a farsi largo tra la gente. Accanto ad esso c'era anche il corpo del pastore che aveva ucciso con la spada solo pochi minuti prima.

«Maledizione...» imprecò Ian a bassa voce, passandosi la mano sul viso tirato.Alcuni accorsero verso il pastore morto, gridando di dolore. Tra loro c'erano una

donna e due ragazzi giovani. Singhiozzavano, confortati invano dagli altri compaesani, che sollevarono il corpo per portarlo via. Le grida e i pianti continuarono a risuonare anche da lontano.

Ian sentì il cuore farsi di piombo.Non doveva unire così. Non doveva. La responsabilità di essere stato il primo a

iniziare quella specie di piccola sommossa popolare lo assalì e lo fece star male. C'erano stati due morti e, benché non avesse mai voluto che accadesse, se ne sentiva colpevole.

«Maledizione!» ripeté, pieno di costernazione e di rabbia verso se stesso, e si strinse al petto il braccio dolorante.

Passato il momento d'isteria collettiva, adesso anche la gente del villaggio guardava il cadavere dell'armato straniero con sentimenti diversi: apprensione e senso di colpa, ma anche rabbia e rancore. Alcuni tacevano spaventati, altri commentavano l'accaduto tra loro, concitatamente. Quasi tutti però guardarono Ian almeno una volta, come se si aspettassero una decisione da lui.

«Date anche a lui una sepoltura onorata» disse infime il giovane e si segnò. «Che il Signore ci perdoni per tutto questo».

Tutti si fecero il segno della croce con lui, poi alcuni uomini si chinarono a raccogliere il corpo.

Ian si ritrovò all'improvviso davanti la moglie dell'uomo che stava per essere frustato. «Signore, grazie! Grazie!» esclamò la donna in lacrime, prendendo le mani del giovane e stringendole forte. Era sconvolta e non smetteva di tremare. «Questa volta mio marito non sarebbe sopravvissuto! Dio vi renda merito per averlo salvato!»

Il bambino piangeva ancora, aggrappato alla sua gonna, con gli occhi dilatati per

quella scena che non avrebbe mai dimenticato.Ian non seppe che altro dire, se non qualche parola per calmare la donna e nel

frattempo accarezzare la testa del piccolo, scosso dai singulti.Il prigioniero era stato liberato dai suoi compaesani e poté correre ad abbracciare la

moglie e il figlio con sollievo. Anche lui ringraziò mille e mille volte Ian per averlo difeso. «Vi sarò grato per sempre» aggiunse e aveva la voce ancora spezzata per l'emozione violenta.

Ian vide che l'uomo aveva il volto contuso, segno di inequivocabili percosse. «Era la vostra casa?» domandò cupo, accennando all'edificio che bruciava ancora.

L'uomo annuì, con un nodo in gola. «Sì. Ora non ci è rimasto niente». Guardò prima la casa poi la sua famiglia che gli si stringeva addosso. «Ma siamo ancora vivi» continuò. «Ricominceremo da capo da un'altra parte».

Alcuni abitanti si accostarono per testimoniare la loro solidarietà. Gli uomini stringevano la spalla al marito, le donne si rivolgevano alla moglie e al bambino per consolarli. Offrirono aiuto, cibo e riparo alla famiglia ormai ridotta in miseria.

Ian si sentì appena un po' confortato, poi si voltò verso Bull che gli faceva cenno da lontano. Il boscaiolo era fermo con alcuni robusti compaesani a sorvegliare con i bastoni i tre ex-aguzzini rimasti nelle loro mani, feriti e doloranti.

Ian s'incamminò in quella direzione e si trovò subito Coda di volpe alle costole.Il ragazzino aveva lo sguardo acceso per l'eccitazione. «Siete stato incredibile!»

esclamò, fissando Ian come se fosse san Giorgio redivivo. «Dove avete imparato a battervi così? Ne avete affrontati quattro senza alcuna paura!»

«È stata incoscienza» brontolò Ian, rivolgendosi quel rimprovero mentalmente altre venti volte mentre lo diceva. «Come la tua bravata con quella fionda».

Il ragazzino roteò la sua arma, per nulla toccato dal rimbrotto. «Posso colpire una lepre in corsa» si vantò.

Ian non aggiunse altro e andò da Bull con aria torva.I tre prigionieri seduti a terra lo guardarono con paura e rancore, ma nessuno di loro

osò un fiato, mentre gli abitanti del villaggio li tenevano d'occhio con i loro bastoni.«Dobbiamo abbandonare il paese, tutti quanti» annunciò Bull, non appena il giovane

gli fu a portata di voce «e voi fareste bene a far perdere le vostre tracce appena partito da qui. Non vogliamo uccidere questi bastardi, ma quando li lasceremo andare torneranno con i rinforzi e daranno la caccia a voi con particolare accanimento».

«Voi potete difendervi» obiettò Ian. «Non dovete rinunciare alla vostre case per paura di questa gentaglia».

Il boscaiolo scosse la testa e anche i suoi compaesani si mostrarono d'accordo con lui.«No, abbiamo passato il segno e non riusciremo più a vivere qui. Non ce la faranno

passare liscia. D'altra parte, l'illusione di poter abitare ad Aversly in pace era svanita da un pezzo. Molti di noi se n'erano già andati alla fine dell'autunno perché non ce la facevano a continuare». Con la mano indicò alcune case intorno alla piazza.

Ian vide che erano chiuse e in abbandono.«Possiamo andare a morire di fame altrove, niente ci lega a questo posto» aggiunse un

altro uomo, amaramente. «La vita non sarà più facile, ma forse troveremo un luogo dove gli esattori del re sono tenuti più a freno».

Il cuore di Ian mancò un palpito.«Gli esattori... del re?» ripeté il giovane, folgorato dalla rivelazione e guardò i

prigionieri con gli occhi sgranati. Gli altri però stavano già discutendo tra loro sul da farsi e non lo udirono. Piano piano, intorno a loro si stavano raccogliendo anche molti compaesani.

«Dobbiamo radunare tutti e dire loro di raccogliere le cose prima dell'alba» diceva Bull. «Poi ciascuno deciderà dove andare».

«Noi andremo a ovest» annunciò uno degli uomini. «Mio fratello abita a tre giorni da qui. Darà asilo a me e ai miei».

«Dobbiamo andare a Dunchester» intervenne invece un altro. «Ho sentito dire che hanno bisogno di braccia per espandere la città e il signore di quel luogo ci difenderà. Lui non ama gli esattori del re, al contrario del nostro barone».

«Nemmeno sir Murrow ama gli esattori del re, ma è un ragazzino: che potrebbe mai fare?» disse un terzo.

«Di sicuro non difende i suoi sudditi, cioè noi» brontolò Bull. «I mercenari qui hanno avuto mano libera fino ad ora».

Il discorso aveva fatto alzare gli occhi a Ian, strappandolo momentaneamente dai suoi pensieri turbati. «Il signore di Dunchester? Intendete il barone Geoffrey Martewall?»

«Il figlio più giovane? No, per quanto ne so è ancora prigioniero di guerra» rispose l'uomo che aveva menzionato per primo Dunchester. «Parlo di sir Harald Martewall, suo padre».

«Ho sentito dire che ha cacciato i mercenari del re dalle sue terre, di recente» osservò Bull, pensoso.

«E vero: ha fatto cacciare gli esattori a frustate» confermò Coda di volpe con un sorriso orgoglioso. «Da allora non sono più tornati».

«E tu che ne sai?» gli domandò Ian.«Willingham, dove abita il ragazzo, è nel feudo di sir Martewall» spiegò Bull. «Il suo

territorio comincia a qualche miglio da qui».«Forse dovremmo davvero chiedere asilo a lui» meditarono gli altri uomini.«Potete scappare dove volete, tanto vi ritroveremo!» minacciò uno dei prigionieri, con

rancore. «Tutti quelli che si mettono contro di noi pagheranno prima o poi la loro insolenza, voi come quel vecchio pazzo di Dunchester!»

«Noi siamo la legge! Vi porteremo tutti al patibolo per ribellione!» aggiunse un altro, prima di essere zittito da una pedata nella schiena.

«Portate via questi tre corvi!» esclamò Bull e nella sua voce risuonarono i vecchi modi burberi da soldato. «Li terremo rinchiusi da qualche parte finché non saremo pronti a partire, così non potranno andare a dare l'allarme ai loro degni compari».

I più giovani dei suoi compaesani non si fecero ripetere l'ordine e legarono i tre prigionieri con corde robuste, prima di farli alzare per spingerli via pungolandoli con i bastoni. Uno di loro dovette essere sorretto per camminare poiché appoggiava a fatica il peso sulla gamba ferita, fasciata alla bell'e meglio con un lembo di stoffa della sua stessa camicia.

Gli uomini si dispersero per andare a formare capannelli sparsi con gli altri abitanti, uomini, donne e bambini, che discutevano su cosa fare. La minaccia dei prigionieri aveva però colpito Ian, già in preda a un turbamento profondo. Il giovane guardò i tre esattori scomparire tra le case, scortati sgarbatamente da quelli che erano stati le loro vittime fino a poco prima. Non aveva capito nulla della situazione, ora se ne rendeva conto appieno. Si era slanciato in avanti, convinto di avere a che fare con un branco di

canaglie senza legge, e invece aveva aggredito i soldati del re.Parlano con accento straniero, sono senza segni di riconoscimento, non potevo

sapere che fossero mercenari al soldo di Giovanni Senza Terra, cercò di giustificarsi, ma allo stesso tempo si rimproverò di non aver ricordato gli uomini senza divise che stavano accanto ai gabellieri al porto di Glenhaven. Già allora aveva sospettato che quegli uomini fossero agenti del tesoro e si diede dell'idiota adesso per non aver associato quelle figure agli armati che aveva visto spadroneggiare nel villaggio.

Per avventatezza, per incoscienza, aveva puntato la spada contro gli esattori del re.Quella frusta mi ha fatto perdere la testa, si accusò.Non che si fosse pentito di aver dato una lezione a quei delinquenti. Nemmeno una

corona poteva legittimare le angherie a cui avevano sottoposto quel villaggio, angherie che si protraevano da lungo tempo. Ian però adesso sapeva di aver messo in grave pericolo la gente di Aversly, perché l'aveva spronata a ribellarsi all'autorità.

Bull aveva ragione nel dire che dovevano andarsene tutti al più presto possibile. Prima che gli armati del re arrivassero con i rinforzi e il doppio della ferocia.

«Fatemi vedere la vostra spada» lo distrasse Coda di volpe, tirandolo per una manica. «Credete che anch'io potrei imparare un giorno a battermi come voi?»

«Ma non hai visto abbastanza sangue per oggi?!» scattò Ian, con una durezza che non gli apparteneva ma che non riuscì a trattenere. «Vattene a casa da tua madre, è quello il posto per un bambino come te! Impara un mestiere serio e non a sventolare una lama!»

Coda di volpe fece un balzo indietro, spaventato, poi però rivolse a Ian uno sguardo ferito e offeso, girò sui tacchi e scappò via.

Ian si pentì di essere stato tanto ruvido, ma non richiamò indietro il ragazzo. Meglio così, si disse, meglio che se ne vada il più lontano possibile da qui prima che la situazione degeneri del tutto.

Thomas Bull disse una frase molto simile ad alta voce. «Un giorno quel ragazzino si metterà nei guai davvero» aggiunse. «Avete fatto bene a mandarlo via, perché si ricorderanno della pietra che ha lanciato per primo. Stanotte dormirà con sua. madre e sarà più al sicuro che qui».

«Anch'io devo andare» disse Ian, agitato. «Ho già fatto abbastanza danno per rimanere».

«State scherzando?» si oppose Bull. «Ormai è buio e voi non conoscete la strada. Vi perdereste nel bosco per morire di freddo. Ve ne andrete domattina dopo aver riposato».

«Ma».«Non dovete sentirvi in colpa. Avete salvato una famiglia e avete solo dato l'esempio

di ciò che noi avremmo dovuto fare mesi fa, io per primo».«Per colpa mia però adesso dovete rinunciare alle vostre case» obiettò Ian, costernato.Il boscaiolo scrollò le spalle. «Quante ne abbiamo già ricostruite? A volte per le

intemperie, a volte per altri motivi». Indicò con un gesto eloquente la casa data alle fiamme dai mercenari. «Questo sarà solo un altro trasloco».

Ian guardò a sua volta la costruzione ormai ridotta in cenere, ma non sentì alcun conforto per i suoi sensi di colpa.

Bull lo notò. «Sarebbe accaduto ugualmente, prima o poi, solo ci sarebbero stati più morti, senza la vostra spada a mettere in difficoltà quei maledetti. Abbiamo abbassato la testa come pecore fin troppo» insisté, per convincere il suo interlocutore. «Siamo uomini, non bestie. Nemmeno un re può trattarci in questo modo, men che meno un re

disonorato come il Senza Terra».Ian alla fine annuì, ma senza dir nulla, con la testa persa dietro mille pensieri

burrascosi.Bull lo distrasse, perché lo stava sbirciando con aria pensosa. «Combattete bene. Voi

non avete evitato la guerra» buttò li.«No» ammise Ian, sulle spine. «Purtroppo, l'ho vista molto da vicino e ne provo

ancora orrore».Il suo tono fu tale da far capire a Bull che era meglio sorvolare sull'argomento e, da

parte sua, anche l'ex-soldato sembrò felice di non rivangare vecchi ricordi sanguinosi. Fece un mezzo sorriso comprensivo. «Allora, vorrà dire che ti darò del tu» riprese semplicemente. «Potresti essere mio figlio e sei un commilitone, non c'è ragione di tenere tante formalità tra soldati. Vieni, è ora di assaggiare un po' di birra insieme. E da quando la mia vecchia è morta e i nostri figli se ne sono andati che non bevo più in compagnia».

***

Bull trovò a Ian un posto in cui dormire nel fienile di alcuni vicini. Gli aveva anche offerto di rimanere nella sua casa e di cedergli persino il letto, ma il giovane non aveva voluto sentire ragioni. Aveva accettato un po' di cibo e di birra, poi si era ritirato a dormire, lasciando il boscaiolo a discutere con gli altri abitanti i preparativi per l'evacuazione dell'indomani. Aveva bisogno di stare da solo, di meditare su tutto ciò che era accaduto e capire cosa avrebbe portato il futuro. Già, il futuro. Ancora una volta si trovava nella condizione di sapere cosa sarebbe accaduto nei prossimi mesi: gli avvenimenti di quella giornata convulsa gliel'avevano ricordato di colpo.

Il 1215 era l'anno in cui re Giovanni Senza Terra sarebbe stato costretto a concedere la Magna Charta Libertatum, la Carta delle Libertà, ai suoi baroni in rivolta: un documento famoso perché era considerato da molti storici la base delle moderne costituzioni. Quel documento sanciva i diritti e i privilegi dei baroni e le libertà della Chiesa nei confronti della corona e avrebbe portato riforme importanti nella giustizia, come la garanzia di processi con una giuria.

A giugno, con l'estate alle porte, il re si sarebbe piegato alle armi dei suoi vassalli ribelli e avrebbe firmato quel documento per interrompere le ostilità con i suoi feudatari.

L'Inghilterra si stava avviando verso la guerra civile e quello che Ian aveva visto nel villaggio era solo una delle prime avvisaglie.

Perché non ci aveva pensato prima? Perché non l'aveva ricordato?Seduto nella paglia del fienile, il giovane si passò le mani sul viso, ancora incredulo.I baroni inglesi dovevano essersi già riuniti in un luogo chiamato Bury St. Edmunds

per decidere insieme la linea da tenere contro il loro sovrano: stavano per imbracciare le armi e dopo qualche mese di combattimenti, a primavera, avrebbero strappato al re quel documento che era una pietra miliare del diritto costituzionale.

Il 15 giugno 1215 era una data cruciale nella storia d'Inghilterra.Mancavano solo pochi mesi.Ecco perché la gente del villaggio era tanto esacerbata, perché aveva reagito con

violenza in un istante, come se stesse aspettando un segnale. La rivolta stava per scoppiare, forse addirittura in quello stesso mese di gennaio. Presto il malcontento per la

tirannica politica di Giovanni Senza Terra avrebbe preso il sopravvento in quasi metà del paese e i baroni, spogliati della loro autorità dal re, l'avrebbero pretesa di nuovo con la forza, occupando persino Londra. Gli abitanti della città, esasperati dalle tasse e dalle angherie del loro sovrano, avrebbero aperto le porte ai ribelli di buon grado, cacciando con forconi e bastoni i soldati reali.

Prima e dopo la conquista di Londra, però, ci sarebbero state battaglie, rivolte sanguinose e distruzioni, nelle campagne e in molti villaggi e città.

Adesso le suggestioni che nella testa di Ian accompagnavano il nome di Dunchester assumevano sfumature ancora più sinistre, eppure il giovane continuava a non rammentare quale vicenda fosse legata a quel feudo sui libri di storia.

Una battaglia? Una rivolta? Un trattato?Che cosa, dannazione? Perché non ricordo? si ripeté Ian ancora una volta, stringendo

le mani una nell'altra. Perché non ho studiato meglio la storia d'Inghilterra?Il braccio sinistro faceva male e lo distrasse dai suoi pensieri. Ian si arrotolò la manica

per guardarsi alla luce della luna che entrava da una botola aperta del fienile. L'avambraccio mostrava un segno violaceo, che partiva dal polso, arrotolandosi fino al gomito. La frusta non aveva lacerato gli abiti né la pelle, ma la contusione era comunque dolorante e gonfia.

Ian l'esplorò cautamente con le dita e sospirò prima di chiudere la botola e lasciarsi cadere sdraiato nella paglia, affondandovi per coprirsi e stare caldo, nel buio.

Dunchester continuava ad aleggiare nella sua testa come un fantasma foriero di sventura ma, qualunque cosa fosse legata a quel nome, Ian aveva una certezza.

Devo andarmene dall'Inghilterra il prima possibile.

Capitolo 12La luce dell'alba aveva appena iniziato a filtrare attraverso la feritoia, quando una

torcia arrivò a illuminare la segreta buia nelle viscere del maniero di Dunchester. Daniel era già sveglio e la vide arrivare con un misto di paura e sollievo.

Aveva fame e sete. Dal pomeriggio precedente era stato lasciato solo e completamente dimenticato in quel buio opprimente e, durante un momento di sconforto, aveva persino temuto di finire i suoi giorni così, d'inedia, in quella cella fredda.

Adesso l'arrivo di qualcuno rompeva finalmente la spaventosa solitudine che il giovane aveva vissuto nelle ultime ore, portando però anche il timore che quella novità annunciasse qualche orribile sviluppo nella prigionia.

La luce della torcia impiegò tempo a scendere le scale. Mentre Daniel osservava l'avvicinarsi e l'intensificarsi del suo riflesso sul muro, udì distintamente il rumore di un bastone sui gradini di pietra e seppe chi stava arrivando.

Il vecchio barone Harald Martewall fece la sua comparsa nella segreta, accompagnato e sorretto da un giovane servo che teneva la torcia alta per illuminare il cammino.

Daniel si alzò in piedi in silenzio, osservando da lontano il signore del castello.Il barone arrivò fino di fronte alle sbarre della cella, senza mai distogliere gli occhi da

quelli del prigioniero, poi abbandonò il servo e gli fece cenno di allontanarsi. «Aspettami ai piedi delle scale» gli disse.

Il servitore annuì, infilò la torcia in un supporto apposito nella parete di fronte alla cella e poi si ritirò in disparte nel buio, scomparendo dalla vista.

Harald Martewall si appoggiò con entrambe le mani al suo bastone davanti a sé. Incuteva rispetto, nonostante la sua posa tradisse l'infermità.

«Mio figlio non ha voluto spiegarmi chi ha condotto prigioniero fino a qui» esordì con voce seria. «E ostinato, irrispettoso persino. Crede di avere il diritto di tenere un segreto con me, in casa mia».

Daniel non disse niente, ma si limitò ad accettare l'esame silenzioso a cui il barone lo stava sottoponendo con gli occhi.

«Ditemi il vostro nome» continuò il vecchio, pacatamente.Daniel non aveva ragione di tacere o di essere meno che sincero, anche perché

Geoffrey Martewall avrebbe comunque potuto smentire immediatamente qualsiasi menzogna avesse voluto inventare.

Si presentò dunque con nome e cognome e aggiunse, non senza un certo timore delle conseguenze: «Sono un cavaliere di re Filippo Augusto di Francia».

Sir Harald però non batté ciglio nel sentir nominare il sovrano che aveva appena sconfitto l'Inghilterra. «Non siete stato catturato in duello o in battaglia, è così?» domandò invece.

«Infatti» rispose Daniel, studiando le reazioni del barone. «Sono stato preso in ostaggio mentre ero in viaggio verso sud. Catturato in una locanda dove cercavo cibo e riposo».

Una nuvola passò sulla fronte austera del vecchio. «Mio figlio forse ha dimenticato gli obblighi d'onore di un cavaliere» commentò, cupo. «La guerra può operare molti cambiamenti in un uomo, ma non tutti sono giustificati».

Tacque per qualche istante, perso dietro pensieri impenetrabili, poi continuò: «Perché

Geoffrey vi considera suo nemico?».«Vostro figlio non voleva me, ma il mio signore. È lui quello che considera il suo

nemico. Ci aveva catturato insieme, io però sono riuscito a far fuggire il mio compagno di viaggio. Vostro figlio ha dovuto accontentarsi dell'ostaggio meno importante».

«Chi è il vostro signore?»«Il conte Jean Marc de Ponthieu, feudatario di Montmayeur».Inaspettatamente, il barone annuì e poi abbassò lo sguardo sulle mani che teneva una

sopra l'altra sul bastone. «Jean de Ponthieu» ripeté, meditando. «Mi rammento di lui, lo conoscevo».

Daniel s'irrigidì, con sorpresa, temendo il peggio. Com'è possibile? si domandò spaventato.

Sir Harald però sembrava rincorrere memorie lontane. «Lo ricordo sul campo di battaglia, in Terrasanta. Lui seguiva re Filippo, io il buon re Riccardo ed eravamo compagni contro i mori. Aveva due figli piccoli quando partì per la crociata. Il più giovane si chiamava proprio come lui, il maggiore invece...»

«Guillaume de Ponthieu» lo aiutò Daniel e contemporaneamente tirò un profondo sospiro di sollievo. Aveva dimenticato che il padre di Jean de Ponthieu portava il suo stesso nome e per un attimo aveva temuto che il vecchio stesse invece parlando proprio dell'uomo che Ian aveva sostituito alla corte francese. Se così fosse stato, il barone avrebbe potuto facilmente smentire la falsa identità che Ian aveva assunto agli occhi del mondo.

Falso allarme, si disse Daniel, ringraziando il cielo.Nel contempo, dopo la frase "il buon re Riccardo" aveva capito ulteriori motivi per la

dichiarata avversione del barone nei confronti di Giovanni Senza Terra: non era uno storico come Ian, ma aveva visto abbastanza film su Robin Hood da sapere che chi era fedele seguace di Riccardo Cuor di Leone odiava senza mezzi termini il fratello minore Giovanni. Il fatto poi che il primogenito del barone si chiamasse Richard, esattamente come il defunto re, era un'altra prova a conforto delle sue teorie.

«Guillaume, sì» aveva intanto ripetuto sir Harald. «Jean padre era un valoroso e morì ad Ascalona, sacrificandosi per molti di noi. Spero che i suoi due figli siano diventati degni di lui».

«Più di quanto immaginiate» replicò Daniel con sicurezza. «Chiunque li abbia incontrati sul campo può testimoniarlo».

«E dunque perché mio figlio odia il vostro signore al punto da dimenticare il rispetto che si deve a un avversario valente?»

Daniel cercò di riflettere in fretta, per non commettere errori. «Questo, credo dovreste chiederlo a lui» rispose, cauto. «Niente, né in battaglia né in torneo, può averli resi nemici, perché nessuno dei due è mai venuto meno all'onore. C'era un uomo, però, che era nemico giurato del mio signore e amico di vostro figlio. Credo sia lui la chiave di tutto. Si chiamava Jerome Derangale».

Il barone si accigliò. «Il signore di Hansbury? Mi ricordo anche di lui» disse. «Con Geoffrey erano amici da ragazzi, anche se poi si sono persi di vista per alcuni anni. Fu Derangale a chiamare mio figlio in Fiandra poco prima della guerra: stava organizzando un reparto di cavalleria per il conte Ferrand de Flandre e voleva il mio ultimogenito come campione per un torneo».

«Non conosco questi dettagli. Io vidi vostro figlio per la prima volta al torneo di

Béarne, quando ero ancora scudiero. In quell'occasione si comportò bene, a differenza del suo compagno che dimostrò più di una volta di essere sleale».

«Sleale!» esclamò il barone, quasi offeso. «Un compagno di mio figlio accusato di essere un fellone!»

«Era un uomo indegno» rincarò Daniel. «Non meritava di essere chiamato cavaliere e le sue ultime azioni prima di morire lo dimostrano. Diede ordine ai suoi sicari di assassinare il conte Jean Marc a tradimento nelle sue stesse terre. L'agguato ebbe luogo in un monastero. Il mio signore si salvò per puro miracolo».

Sir Harald era impressionato. «Questa è un'accusa molto grave».«Non sono io a farla, la ripeto soltanto. Alcuni dei sicari che presero parte al

complotto sono stati catturati e hanno confessato».Il vecchio barone fece per dire qualcosa, ma fu distratto e si voltò. Una presenza

leggera era comparsa in fondo alla scala, la stessa ragazza aristocratica e sottile che Daniel aveva visto il giorno precedente nel cortile del castello. Il servo che prima scortava il barone adesso accompagnava lei dal fondo della scala, per impedirle di farsi male finché non fosse arrivata in un luogo più illuminato.

Leowynn Martewall si stringeva una mantella sulle spalle, sopra il vestito ricamato, e andò subito dal barone. «Padre, ma cosa fate qui?» esclamò preoccupata. «Fa freddo e voi non dovete affaticarvi!»

«Che cosa fai tu, qui, figlia mia. Questo non è il posto adatto a una fanciulla» le rispose il padre, ma senza asprezza nella voce.

La ragazza in effetti sembrava intimorita dal luogo tetro e buio, come se lo vedesse per la prima volta. «Non vi trovavo più, mi stavo preoccupando» disse, cercando di nascondere il disagio. «Poi ho capito che sareste venuto da quell'uomo». Da lontano scoccò un'occhiata ostile a Daniel, chiuso nella sua cella.

Il giovane sostenne quello sguardo senza alcuna vergogna e alla fine fu lei a dover distogliere gli occhi. «Venite, torniamo nel salone, la colazione è pronta e voi dovete prendere il vostro infuso» si affrettò a dire, porgendo la mano al padre con un gesto d'invito, ma il barone scosse la testa. «Va', io ti raggiungerò presto. Devo prima sapere alcune cose da questo cavaliere».

«E un nemico di Geoffrey, che altro c'è da sapere?» sbottò la ragazza, sempre più innervosita, ma nella sua voce c'era forse anche una nota di timore. «Andiamo via prima che prendiate un raffreddore».

Un rumore di passi risuonò lungo la scala: Leowynn si voltò quasi di soprassalto. Erano i passi decisi di più uomini. Il signore del castello rimase in silenzio ad attendere il loro arrivo.

Daniel, allo stesso modo, diventò attento, scosso da un brivido spiacevole lungo la schiena.

Geoffrey Martewall fece la sua comparsa nella segreta, seguito dall'onnipresente Hector con una torcia e da due dei suoi compagni fiamminghi. Il cavaliere indossava ora abiti degni del suo rango, di colore nero, forse perché era la tinta dominante sul blasone dei Martewall oppure, semplicemente, per celebrare il lutto per il fratello appena scomparso, come non aveva potuto fare durante la prigionia.

Era temibile con quegli abiti scuri e la spada cinta al fianco. Il volto perfettamente sbarbato sembrava due volte più ostile e la cicatrice che aveva sul sopracciglio dava al suo sguardo una sfumatura feroce.

L'attenzione di Daniel, però, fu attirata senza scampo dalle corde e dalle verghe che i fiamminghi avevano in mano e il giovane capì che ciò che più lo spaventava stava per avverarsi: era arrivato il momento delle domande e delle risposte, ottenute con le buone o con le cattive maniere.

Fece un passo indietro dalle sbarre d'istinto, sentendosi in trappola, mentre i fiamminghi si disponevano nella segreta in attesa di ricevere ordini dal loro signore. Anche Leowynn appariva spaventata da quegli uomini armati.

«Padre, voi non dovreste essere qui, vista la fatica che fate a camminare» esordì Geoffrey Martewall, ma si capiva che non era affatto sorpreso di trovare il genitore in quel luogo. Rivolse un'occhiata eloquente anche alla sorella e non attese di sentire le sue giustificazioni. «Accompagna nostro padre di sopra. Deve riguardarsi di più» le disse, cupamente.

Leowynn annuì, ma sir Harald la tenne a distanza con un gesto, mostrando di non avere alcuna intenzione di allontanarsi. Guardava solo Martewall e con rimprovero evidente. «Ho saputo cose molto gravi, figlio mio».

«Cose che vanno giudicate nella cornice di un quadro più ampio, prima di dare credito illimitato alle parole di un prigioniero» l'interruppe il cavaliere, secco. «E quello che intendo fare. Quindi vi prego di lasciarmi solo».

«Ti si accusa di essere complice di un fellone e, forse, di averne adottato i modi» insisté il vecchio.

Leowynn quasi sobbalzò e guardò prima il fratello con incredulità, poi Daniel con indignazione per una tale accusa.

Martewall, invece, mantenne la sua pericolosa calma. «Sarà la verità a discolparmi. Fino a quel momento, tutta questa faccenda rimarrà affar mio. Voi restatene fuori».

«Dovresti prima provarmi di aver catturato quest'uomo con legittima causa e non come se tu fossi un bandito di strada» ribatté il barone. «Ma temo che questo tu non lo possa fare».

«Non può nemmeno smentire il tentato assassinio del mio signore, perché sa che è vero» intervenne Daniel, prima che Martewall potesse replicare. «Lui stesso ha ammesso di aver udito quell'ordine».

Uno dei fiamminghi colpì con violenza le sbarre della cella con il rotolo di corda che teneva in mano. «Sta' zitto tu!» minacciò.

Daniel sobbalzò e si ritrasse.Sir Harald stava guardando suo figlio con sdegno crescente. «È vero?» domandò,

mentre Leowynn si torceva le mani bianche fino a farsi male.«Se anche fosse?» fece Geoffrey Martewall, duramente.Il padre lo fulminò con un'occhiata incollerita: era più basso di suo figlio e la malattia

lo costringeva a rimanere curvo sul bastone, ma in quel momento la sua ira era tale da farlo sembrare pari in statura al giovane che gli stava di fronte. «Un cavaliere non può tollerare che si ordisca una simile infamia davanti ai suoi occhi!» tuonò.

«C'era la guerra, padre: in quel momento avevo altre cose a cui pensare, durante e dopo la battaglia» replicò Martewall, sarcastico. «Ad esempio: tenere in vita i miei compagni, rimanere vivo io stesso e infine sopportare le catene con cui sono stato trascinato fino a Soissons. Non ho avuto tempo di badare troppo a ciò che Jerome stava dicendo».

«Adesso però, sembra che tu voglia proseguire la sua infamia».

«Padre!» gemette Leowynn.Lo sguardo di Martewall ebbe un lampo. «Era un amico ed è morto. Non vi permetto

di insultante la memoria».«Io giudico ciò che tu stai facendo» replicò sir Harald, severamente. «Non sei più in

guerra e tieni prigioniero un cavaliere senza giustificazioni. Se è vero che l'hai catturato in mezzo alla strada senza nemmeno un duello, devi lasciarlo andare».

Daniel sentì un palpito di speranza.«Oppure posso dimostrare la sua colpa e impiccarlo» obiettò però Martewall, aspro.

«Se l'uomo che lui serve è un impostore, come io credo, allora lo è anche costui ed è complice di un crimine come la frode o la mistificazione. Tanto basta per trattarlo da criminale e mandarlo alla forca».

Daniel si fece pallido. Sir Harald spalancò gli occhi. «Un impostore!»«È ciò che Jerome sosteneva ed è quello che io intendo scoprire».«Il conte Jean Marc non è un impostore, faresti bene a rassegnarti» si difese Daniel

con rabbia disperata. «La parola del tuo amico non vale quanto quella dell'intera corte di Francia. Il mio signore è chiamato "il Falco del re", tutti lo sanno, anche tu: credi che re Filippo Augusto accetterebbe di avere un impostore al suo fianco?»

Martewall si voltò verso di lui. «Io credo che Jerome non avrebbe mai inventato una simile accusa, perciò doveva essere convinto di avere ragione. C'è una recita in atto e io non so ancora per quale motivo».

«E io dico che Derangale ha diffuso calunnie solo per giustificare il suo comportamento da brigante!»

«Bada a come parli!» scattò uno dei fiamminghi, indignato, ma Martewall alzò la mano e gli fece cenno di restare in disparte. «Vedremo» disse, rivolto a Daniel. «Chiariremo ogni dettaglio nella nostra prossima conversazione».

Daniel serrò i pugni, conscio di non avere via di scampo.Sir Harald si mise in mezzo. «Geoffrey, non puoi interrogare quest'uomo sulla base di

qualcosa che solo tu sostieni senza alcuna prova né certezza. La tua è vendetta, e non ricerca della verità».

Martewall fece spallucce. «Non temete, con lui non sarò più sgarbato di quanto i suoi amici francesi siano stati con me in questi ultimi mesi».

Il vecchio barone era esterrefatto dall'atteggiamento spietato del suo figlio minore. «Non è questo che ti ho insegnato. Non a comportarti da aguzzino invece che da cavaliere!»

L'espressione di Geoffrey Martewall divenne dura come la pietra. «Sono un uomo e non più un bambino. Il tempo delle prediche è finito. Su questa faccenda non accetto interferenze».

«Invece risponderai a me del tuo comportamento. Sei ancora in casa mia!» esclamò il vecchio, protendendosi minaccioso sul suo bastone, ma il figlio non indietreggiò di un passo. «Volete cacciarmi? Siete libero di farlo. Decidete, signore: o mi tenete qui a difendere Dunchester con la spada, come voi non siete più in grado di fare, oppure mi lasciate libero e io me ne andrò con i miei uomini e il prigioniero. Se mi volete, però, dovete accettarmi così come sono».

Leowynn si portò la mano alla bocca. Daniel trattenne il fiato.Sir Harald era impallidito. «Tu mi ricatti?!»«Semplicemente vi dico che intendo comportarmi a modo mio in ogni caso. Sta a voi

decidere se potete accettarlo oppure no. Il problema è soltanto vostro».Il vecchio barone sembrò fare più fatica a sostenersi in piedi, davanti a tanta durezza.

Guardava suo figlio con occhi dilatati. «Io non ti riconosco più» disse, a voce bassa.«Non posso farci niente» tagliò corto Martewall e oltrepassò suo padre per dirigersi

verso Hector, mostrando di considerare chiuso l'argomento.«Geoffrey!» insisté il vecchio.Martewall si voltò di scatto, con un'espressione feroce nello sguardo. «Che cosa

volete da me?! Mi accusate di essere un infame e allo stesso tempo mi usate per rimediare al danno che avete fatto, costringendomi a diventare spergiuro!» esclamò. «La mia condotta vi interessa soltanto finché non va contro ciò che voi decidete!»

«Geoffrey, basta, ti prego!» implorò Leowynn, ma il fratello la ignorò per ritornare indietro verso il padre. «Ho sempre fatto solo il mio dovere e ho perso l'onore proprio a causa di quelli a cui dovevo la mia fedeltà! Ho combattuto lealmente e fino all'ultimo, ho pagato la sconfitta con la prigionia, per poi scoprire al mio rilascio che il mio nome è associato a un amico ritenuto un fellone e a un sovrano giudicato vigliacco; ritorno in patria per finire sulla lista dei traditori a causa vostra! Sono costretto a subire le ultime due accuse, ma la prima... quella almeno intendo togliermela di dosso e con qualsiasi mezzo mi potrà essere utile. Tanto, ho già perso la dignità di cavaliere e voi siete l'ultimo che può rinfacciarmelo, visto che mi avete dato il colpo di grazia».

Sir Harald vacillò a quell'accusa spietata. «Io non ho mai voluto disonorarti e nemmeno usarti...»

«E quale scelta mi avete dato, se non finire ciò che voi avete cominciato, e seguirvi nel tradimento? Avete esposto la nostra gente a un pericolo mortale e io mi vergognerei di vivere se non dessi anche il mio ultimo respiro pur di difenderla. Quindi vi obbedirò e sarò il vostro braccio armato contro il mio re, ma non accetterò altre imposizioni da parte vostra. E non vi perdonerò mai, per avermi tolto anche l'ultimo brandello di onore che mi rimaneva».

Davanti a quel muro di risentimento, il vecchio barone non ebbe quasi più la forza di dire niente. Improvvisamente sembrò molto vecchio e stanco, eppure non chinò la testa. «Sei il mio ultimo figlio e io ti amo anche più degli altri. Non avrei mai voluto perderti in questo modo» mormorò soltanto e la voce s'incrinò sulle ultime parole, senza che l'uomo riuscisse a impedirlo.

Leowynn gli prese il braccio per confortarlo o forse per cercare conforto da lui, spaventata dalla collera del fratello.

Martewall ignorò ostentatamente il dolore di entrambi, chiamò il giovane servo rimasto sempre in disparte e questi si affrettò ad accorrere.

«Mio padre è malato, non deve affaticarsi oltre» gli disse il cavaliere, duro, e quella frase era una sentenza che chiudeva definitivamente la conversazione. «Accompagnalo nel salone e assicurati che gli venga approntato uno scranno davanti al camino. Ha già preso abbastanza freddo per oggi».

«Sì, signore» si affrettò a dire il servo. Il vecchio barone si lasciò condurre via senza opporre resistenza.

«E tu seguili» continuò Martewall, rivolto alla sorella. «Questo non è posto per te e io non desidero che tu assista oltre a questa conversazione».

La ragazza lo guardò con gli occhi pieni di timore, ma non osò dire altro. Si strinse nella sua mantella e accompagnò il padre e il servo verso le scale, girandosi solo

un'ultima volta indietro prima di scomparire. Daniel vide che guardava non solo il fratello ma anche lui.

I fiamminghi aprirono le sbarre.Daniel arretrò di nuovo, vedendoli avvicinarsi, ma non aveva spazio che per fare

pochi passi.I nemici lo agguantarono, lo trascinarono col dorso contro il pilastro che si ergeva

nella cella e lo legarono, con le braccia tese e immobilizzate dalle corde dietro la colonna.

Gli fecero male e il giovane protestò con rabbia, ma poi cercò di tenere la bocca chiusa e di raccogliere tutto il coraggio che poteva, anche se aveva il cuore in gola. Serrò i pugni legati, mentre sentiva gli spigoli della pietra squadrata piantati contro i muscoli.

Un fiammingo era rimasto alle sue spalle, dietro il pilastro, e Daniel capì che teneva una verga infilata tra i nodi delle corde stretti sui polsi per aumentarne la tensione e di conseguenza il dolore.

Si morse le labbra per dominare la paura crescente. Si sentiva già indolenzito e l'interrogatorio non era nemmeno cominciato.

L'altro fiammingo era a due passi da lui in attesa di ordini. Hector era fermo a braccia incrociate, dopo aver dato la sua torcia al servo che aveva scortato sir Harald e Leowynn su per le scale.

Solo a quel punto Martewall si girò verso la cella e vi entrò, facendosi consegnare una verga.

Daniel si preparò al peggio, perché sapeva che in quel momento il suo nemico era un animale ferito con il quale era improbabile riuscire a ragionare. «Andiamo, possiamo parlare da uomini civili» tentò ugualmente.

Martewall gli si fermò di fronte. «Di colpo hai deciso di collaborare? Hai paura?»«Ovvio che ho paura!» replicò Daniel con rabbia. «Hai altre domande intelligenti o

vogliamo parlare di ciò che accadde?» «Voglio la verità» ammonì Martewall.«Io te l'ho sempre detta, la verità, tu non la vuoi ascoltare. Non è colpa mia, se non ti

piace ciò che ho da dirti».Martewall arcuò leggermente la verga tra le mani. «Insisti nella tua versione?»«Il conte Jean Marc non è un impostore e questo è un dato di fatto».«No, è quello che volete far credere».«Se vuoi che ti racconti una menzogna, posso inventarmi che il mio signore viene

dalla luna: è più credibile questa versione per i tuoi gusti?» replicò Daniel con sarcasmo, senza poterselo impedire.

Aveva appena terminato la frase, quando vide la verga calare con violenza proprio all'altezza del suo viso. Si lasciò sfuggire un'esclamazione e spostò la testa per quanto poté. Udì uno schiocco secco accanto all'orecchio destro. Il dolore però non arrivò. Daniel riaprì gli occhi per accorgersi che Martewall aveva colpito di proposito il fianco del pilastro, evitando lui.

«La mia pazienza è già finita, non sfidarmi oltre» sibilò il cavaliere, terribile.Daniel sostenne il suo sguardo di ghiaccio. «Resteremo qui fino a notte, se ti ostini a

contestare la prima frase che dico» rispose, pur con il respiro accelerato. «Piuttosto, ammetti che non t'interessa sapere la verità e impiccami subito, tanto mi hai già giudicato e condannato senza nemmeno ascoltarmi».

Si aspettò una risposta secca o una reazione peggiore, ma Martewall invece si limitò

ad avvicinarsi di più, fermandosi per un attimo faccia a faccia con lui. Abbassò momentaneamente la verga. «D'accordo: raccontami tutta la storia e cerca di convincermi. Dopo parleremo seriamente della verità e di tutti i dettagli che non avrai saputo spiegarmi e se nel frattempo il mio umore sarà peggiorato, dovrai solo rimproverare te stesso e pagarne le conseguenze».

La minaccia faceva paura, ma Daniel era deciso a non lasciarsi scoraggiare. Ne andava non solo della sua vita, ma anche del futuro di Ian. Respirò per calmare il cuore e mettere ordine alle idee e iniziò da capo, pregando di non commettere passi falsi.

Non voleva neanche immaginarsi cosa avrebbe potuto fare Geoffrey Martewall se fosse passato dalle minacce ai fatti; sapeva solo che avrebbe avuto ben poche probabilità di resistergli, nonostante la sua forza di volontà.

Raccontò quella che col tempo era diventata la menzogna ufficiale fatta circolare dal conte Guillaume e da re Filippo Augusto in persona per difendere il casato dei Ponthieu e la stessa Francia dagli intrighi dei nemici: che Ian era il conte Jean Marc de Ponthieu; che Jerome Derangale non si era accorto della sua identità poiché il giovane non si era fatto riconoscere in occasione del loro primo incontro, sapendo che l'inglese stava dando la caccia a Isabeau de Montmayeur, in quel momento con lui sotto mentite spoglie.

Era l'unica invenzione di quel racconto, poiché tutto il resto era sinistramente vero.Daniel ricordò il primo tentato rapimento di Isabeau, il supplizio a cui Ian era stato

sottoposto a Cairs, la fuga successiva per evitare un'esecuzione senza processo e l'agguato ignobile, mesi dopo, sul luogo sacro dell'abbazia di Couronne, in cui Ian e Isabeau per la seconda volta avevano rischiato la vita. Non menzionò mai i complici che Derangale aveva avuto in terra francese per portare a termine i suoi intrighi, primo tra tutti il vero Jean de Ponthieu, ucciso da Ian in quei giorni convulsi ma, anche senza quel dettaglio, la condotta del cavaliere inglese apparve chiara in tutta la sua infamia.

«Quando Derangale scoprì di aver sempre avuto a che fare con il conte Jean Marc, si trovava ormai in udienza davanti a re Filippo, troppo tardi per fare marcia indietro e trovare una giustificazione al suo operato» concluse Daniel. «Doveva salvarsi la faccia e così continuò a sostenere la sua calunnia contro il mio signore».

Martewall aveva mantenuto fino ad allora un'immobilità spaventosa. «Io conoscevo Jerome e non era un simile bandito» disse alla fine, fremendo. «Ti avverto: con le tue parole non stai riuscendo a convincermi e il mio umore peggiora».

Udendo la voce del suo signore salire di tono, il carceriere dietro a Daniel torse le corde.

L'americano sentì i polsi serrati in una morsa tremenda e il dolore propagarsi lancinante alle braccia strappandogli un singulto sorpreso. «Tu non eri in Fiandra a quell'epoca, tuo padre me l'ha detto. Non puoi negare i fatti solo perché non eri lì ad assistervi!» insisté tuttavia. «Chiedi ai tuoi compagni, piuttosto. Sono fiamminghi, no? Avranno sicuramente sentito qualcosa di ciò che racconto. Che parlino, se hanno il coraggio di farlo!»

Martewall si guardò intorno. Hector si strinse nelle spalle e scosse la testa con sincerità. «Ero di servizio a nord del paese, prima che voi arrivaste» spiegò.

Il fiammingo accanto a Daniel, invece, si era mosso con disagio.«Hai qualcosa da dire?» lo apostrofò Martewall, accorgendosi della sua reazione.«Sono stato per un certo periodo nella guarnigione della fortezza di Les Corbes,

vicino a Cairs, e ricordo che un giorno vi venne condotta una dama francese» dovette

rispondere l'uomo. «La trattavano con riguardo ed era chiaro a tutti che fosse un ostaggio importante. Non so altro, se non che un giorno venne il conte di Ponthieu a pretendere l'ostaggio senza riscatto. Dovettero consegnargli quella donna, poiché si scoprì che non si trattava di una dama ma di un'ancella senza alcun valore strategico».

«Già: tutto accadde a marzo, l'armo scorso» aggiunse Daniel, trionfante per quella prima conferma al suo racconto. «Quella donna era un'ancella di dama de Montmayeur, rapita per errore al posto della sua signora, che in quel momento era in fuga con me e con il conte Jean. Posso immaginare chi avesse la giurisdizione sulla fortezza in cui l'ostaggio era rinchiuso...»

«Lo sceriffo Jerome Derangale» ammise il fiammingo, controvoglia.Daniel guardò Martewall con sfida. «Il tuo amico non era bravo a riconoscere le

persone» lo provocò, nonostante il dolore crescente alle braccia. «Fu costretto ad ammettere davanti a re Filippo di non aver riconosciuto dama Isabeau proprio quando l'aveva sotto il naso. E abbastanza per dubitare della sua capacità di riconoscere un impostore o ti serve altro?»

Martewall non replicò, ma la sua tensione era eloquente quanto il suo silenzio. La verga gli si spezzò in due tra i pugni serrati e lo colse quasi di sorpresa, strappandolo dai suoi pensieri.

Il cavaliere ne gettò via i pezzi con ira. «Non mi hai ancora spiegato perché il tuo sedicente signore è ancora dato per morto nelle sue stesse terre. Che cosa ci faceva in giro come un vagabondo, quando avrebbe dovuto essere al suo castello, al posto che gli spettava? Si nascondeva forse?» riprese con ostentata durezza, ma Daniel capì ugualmente che aveva cambiato argomento perché messo in difficoltà.

«Era reduce da una lunga prigionia, almeno quanto te» gli rispose, calcando di proposito sulla frase, e proseguì raccontando ciò che Ian aveva già detto all'abate di Saint Michel per giustificare i lunghi mesi di assenza.

Ancora una volta, Martewall non poteva smentire, poiché non aveva assistito ai fatti, anzi era stato tagliato fuori dal mondo per tutto quel tempo, prigioniero a Soissons. Non poteva negare però che Derangale avesse ordinato l'assassinio di Ian e quindi mandato dei sicari a cercarlo.

Dopo un lungo silenzio, Daniel concluse: «Io incontrai il mio signore sulla strada per il monastero di Saint Michel, dove stavo andando a pregare per lui, e per me fu un miracolo vederlo vivo, perché ormai avevo perso le speranze. Viaggiavamo in incognito quando ci avete presi. Temevamo di fare brutti incontri e non ci sbagliavamo, a quanto pare».

Martewall continuava a tacere, ma gli si leggevano negli occhi sentimenti violenti e diversi, originati dal quadro che Daniel gli aveva dipinto davanti agli occhi: frustrazione, sdegno, impotenza, rabbia.

Soprattutto, il dubbio.«Jerome Derangale era un criminale, è questa la verità e io ho tutte le prove che vuoi

per dimostrarla» sentenziò l'americano, implacabile. «Tu invece ti ostini a difenderlo solo perché non vuoi ammettere di essere stato ingannato e manovrato da lui».

«Non è vero» ringhiò Martewall, furente nel doversi difendere, ma Daniel proseguì imperterrito: «Posso capire se hai voluto chiudere gli occhi su chi consideravi un buon amico, ma se ti ostini a negare le sue colpe, anche ora che sai tutto, diventi davvero suo complice e senza possibilità di riscatto. Sarai un criminale, come lui».

Martewall era bianco in volto come la cera, con la mascella serrata e un'ira spaventosa negli occhi. Estrasse la spada con un gesto rabbioso e la puntò contro il prigioniero.

Daniel s'irrigidì, aspettando da un momento all'altro di sentirsi la lama addosso, ma si costrinse a non chiudere di nuovo gli occhi davanti al suo nemico.

Gli istanti si allungarono, nel silenzio totale.Martewall continuava a minacciare il prigioniero, ma senza decidersi ad affondare la

lama, eppure lo fissava come se volesse trapassarlo anche solo con gli occhi. Il dubbio nel suo sguardo però diventava sempre più forte.

«Signore...» esordì alla fine Hector cautamente, spezzando quel momento di immobilità.

Il cavaliere inglese sbatté le palpebre, scuotendosi dalla sua furia silenziosa. Respirò a fondo, mentre si aggiustava lievemente la spada nella mano, poi però si costrinse ad abbassare il braccio lungo il fianco.

Daniel continuava a non distogliere lo sguardo dal suo, conscio che quel confronto senza parole poteva essere decisivo. Anche Hector lo capì e non osò parlare ancora.

Infine, Martewall ringuainò la spada e abbandonò la segreta a grandi passi. Non si voltò più indietro, lasciando i suoi uomini a guardarsi incerti.

Daniel impiegò parecchio prima di azzardarsi a provare sollievo. Martewall se n'era andato davvero: lo capì solo quando udì Hector dire "slegatelo" e si ritrovò appoggiato al pilastro a riprendere fiato, a massaggiarsi le braccia doloranti e i polsi feriti dalle corde.

I fiamminghi lasciarono la cella uno dopo l'altro, ignorando il prigioniero per rivolgersi sguardi cupi.

L'ultimo fu Hector, che chiuse di nuovo le sbarre e portò via con sé la torcia, per lasciare solo il buio, il freddo e il silenzio.

Capitolo 13Quando Ian abbandonò il fienile per ritornare nella piccola piazza nel centro di

Aversly, il sole era già alto e tra le case ferveva il movimento. Uomini e donne caricavano muli e carretti e radunavano le bestie da cortile. I bambini aiutavano senza risparmiarsi e qualcuno tra i più piccoli teneva a bada il cane di casa.

Guardandosi intorno, Ian si rimproverò di aver fatto tardi: aveva dormito troppo e non avrebbe dovuto né voluto, ma la sera precedente era crollato per la stanchezza, nonostante tutti i buoni propositi. Si era risvegliato solo quando l'attività del piccolo villaggio si era fatta così intensa da fare rumore.

D'altra parte, nessuno era andato a svegliarlo, neanche fosse un ospite di riguardo che non doveva essere disturbato. Da quando aveva affrontato spada in pugno e senza alcuna esitazione gli emissari del re, tutti al villaggio lo guardavano con rispetto, o forse cautela, in ogni caso tenendolo a una prudente distanza. Era straniero, per nulla intimorito dai militari e per dì più abile con la spada: ce n'era quanto bastava per non comportarsi troppo espansivamente con lui e aspettare le sue decisioni restando a guardare da lontano.

Figuriamoci poi se sapessero che sono cavaliere e per giunta conte, si disse Ian, notando che tutti lo sbirciavano mentre passava. Lui stesso era il primo a non essere abituato al titolo altisonante che portava sulle spalle e si sentiva ancora a disagio ogni volta che veniva trattato con deferenza da chi gli stava intorno. Quel misto di timore, rispetto e sottomissione che i medievali tributavano agli appartenenti ai ceti superiori lo faceva sentire fuori posto, poiché riteneva di non avere nulla per meritare tanta deferenza nei suoi confronti.

Arrivando al pozzo, trovò Bull impegnato a dare istruzioni a chiunque gli passasse a tiro. Il vecchio soldato sapeva come organizzare una truppa e non lesinava ordini per rimettere in riga i più sprovveduti.

«Buongiorno» salutò, quando vide Ian avvicinarsi. «Se hai fame, laggiù troverai latte, pane, burro e pancetta arrostita» aggiunse, indicando la tettoia di una casa dove alcune donne avevano approntato una sorta di colazione comune per tutti quelli che lavoravano. «Se hai freddo, ti consiglio di aggiungerci anche un buon sorso di idromele».

Ían sorrise. Bull era l'unico che lo trattava da pari a pari dopo quanto accaduto con gli emissari del re, perché si sentiva ancora soldato e lo considerava alla stregua di un commilitone.

«Mi bastano il cibo e il latte, grazie» rispose il giovane, rimpiangendo che nell'Europa del Medioevo non esistesse ancora il caffè. Si sfregò le mani per scaldarle nell'aria gelata del mattino e guardò i preparativi del villaggio. «Posso essere utile in qualche modo?» domandò. «Vorrei ricambiare l'ospitalità».

Bull scosse la testa. «Non ce n'è bisogno e comunque abbiamo braccia più che a sufficienza. Ormai siamo quasi pronti».

«Siete sicuri di voler partire?»«Ne abbiamo parlato a lungo ieri sera e nessuno se la sente di restare. D'altra parte,

molti avevano già pensato di cercare un altro posto in cui vivere, perché l'inverno si sta facendo rigido e qui c'è rimasto veramente poco con cui tirare avanti. Diciamo che quello che è successo ieri ci ha dato la spinta per prendere la decisione».

«Che ne farete degli esattori?»«Li lasceremo qui. Per ora sono legati dentro una stalla e lì rimarranno. Ci vorrà un

po' prima che i loro compagni vengano a cercarli, anche un giorno o due, e questo ci darà un po' di vantaggio. Nel frattempo quei bastardi inganneranno il tempo a contare i ragni».

Ian annuì pensoso, mentre osservava i carretti e i muli che venivano caricati.Non ce n'era abbastanza per tutti, anche sfruttando i cavalli e il mulo degli esattori, e

perciò mezzi e animali sarebbero stati riservati solo al trasporto delle cose più pesanti e a quello degli anziani e dei bambini. Uomini e donne adulti avrebbero invece fatto il viaggio a piedi e portato le loro cose sulle spalle in sacche o fagotti.

Era una scena triste, pensò Ian, rabbuiato nel vedere quella povera gente costretta ad abbandonare le case in pieno inverno. Nessuno tuttavia sembrava lamentarsi, anzi si davano una mano l'un l'altro.

«Avete deciso dove andare?» domandò il giovane infine.«Ci separiamo». Bull fece un gesto ampio. «Alcuni giovani vanno a Glenhaven, tre

famiglie hanno parenti sparsi qui in giro e cercheranno asilo da loro. Gli altri invece andranno a Dunchester».

«Forse vi converrebbe andare tutti a Glenhaven» disse Ian, con un certo disagio. «Dunchester non mi sembra un buon posto».

«E perché?» domandò Bull, perplesso.Ian si strinse nelle spalle. «Non so, non mi piace il nome. Ha l'aria di essere un luogo

ostile».Si rese conto di aver dato una spiegazione ridicola, ma non sapeva che altro dire per

giustificare il suo pessimo presentimento. Non poteva certo raccontare di aver probabilmente letto quel nome sui testi di storia ma di non ricordare perché vi fosse menzionato. Voleva semplicemente che quella gente non andasse a cacciarsi in una situazione peggiore di quella che stava lasciando.

«Nessun luogo è amichevole, qui nei dintorni» gli disse però Bull, cupo. «Sir Murrow di Glenhaven non sarà affatto felice di sapere che un intero villaggio sotto la sua giurisdizione si è ribellato agli esattori del re e se arrivassimo là in gruppo saremmo identificati immediatamente. Dovremmo fare i conti anche con il feudatario oltre che con i soldati della corona. No, credimi, molto meglio andare a Dunchester, li almeno il barone non avrà un motivo specifico per prendersela con noi. A quanto ricordo, sir Martewall era un fedele seguace del Cuor di Leone in Terrasanta e in Francia; pare addirittura che re Riccardo in persona abbia posto il leone d'oro sul blasone nero della famiglia, come ricompensa per i servigi resi: il vecchio barone sarà indulgente con chi ha subito angherie da Giovanni Senza Terra».

E del giovane barone che non mi fido, pensò Ian e quello era un altro motivo per cui Dunchester non gli piaceva affatto. «Anche tu pensi di andare là?» domandò invece al suo interlocutore.

«Sì, credo che andrò in quella direzione anch'io. Ho girato tanti feudi nella mia vita, ma li non mi sono mai fermato. Vedremo se la vita sarà veramente diversa».

«Avevi detto di avere figli, non pensi di raggiungerli?»Bull fece una mezza smorfia. «Ho due maschi, tutti e due muratori. Sono a Londra a

costruire chiese e io proprio non me la sento di andare a lavorare con loro in un cantiere in città. Dunchester invece è una zona selvaggia, più adatta a me. Laggiù costruiscono

ancora le case coi tronchi e strappano i campi dai boschi, un taglialegna come me farà sempre comodo».

«Capisco». Ian tacque per un po', meditando.«Tu ci accompagni?» domandò Bull, distraendolo. «Stavi andando verso Dunchester,

no?» gli ricordò. «Tanto vale unirti a noi e fare il viaggio insieme».Ian rifletté sulla proposta. Da un lato sentiva la responsabilità di essere stato la causa

per cui gli abitanti di Aversly dovevano abbandonare le loro case e mettersi in marcia e avrebbe perciò voluto scortarli nel cammino per assicurarsi che non corressero altri pericoli; dall'altro però doveva assolutamente arrivare a Dunchester il prima possibile se voleva in qualche modo intercettare la nave, avere notizie e mettersi il cuore in pace sulla sorte di Daniel. Inoltre, più il tempo passava più aumentava il rischio che i soldati di Martewall e tutti quelli che il cavaliere inglese gli aveva senz'altro sguinzagliato dietro riuscissero a scovarlo e a raggiungerlo.

«Quanto ci vorrà per arrivare? Dunchester è molto lontano da qui?» s'informò il giovane per valutare meglio la sua decisione.

«Se andiamo di buon passo, arriveremo a destinazione entro sera» gli disse Bull.Ian rimase deluso. Un'intera giornata di cammino era davvero troppo per le sue

necessità e non poteva proprio permettersi di ritardare tanto. Senza contare il doppio pericolo che gli uomini di Martewall se la prendessero anche con la gente di Aversly a causa sua e che gli esattori del re catturassero lui insieme agli abitanti del villaggio.

«Tu dovresti in ogni caso fermarti là per la notte» continuò Bull, vedendo la sua perplessità. «Proseguendo verso nord non c'è un altro luogo abitato a meno di un giorno di cammino e non ce la faresti a raggiungerlo nemmeno se ti rimettessi in viaggio subito».

A malincuore, Ian scosse la testa. «Vorrei accompagnarvi, ma non posso. Devo andare. Davvero. A Dunchester mi aspetta una nave, non posso arrivare troppo tempo dopo il suo attracco».

«Una nave? Ah, ma allora le cose cambiano!» disse Bull a sorpresa. «Le nostre strade si dividono comunque».

«Il porto e il castello non sono nello stesso luogo?» si stupì Ian. A quell'evenienza proprio non aveva pensato.

«No, li separano alcune miglia. Ti insegnerò da che parte andare. Per un breve tratto percorrerai la nostra stessa strada, poi prenderai il sentiero che scende a sud mentre noi proseguiremo verso settentrione e il castello».

Ian rifletté rapidamente. Se il castello e il porto erano separati e distanti tra loro forse si riducevano ancora di più le probabilità di incontrare Geoffrey Martewall sul suo cammino: forse il cavaliere inglese aveva proseguito subito per il suo castello. In ogni caso era improbabile che si fosse attardato al porto, visto che ritornava finalmente a casa dopo tanta assenza, e così Ian avrebbe potuto muoversi con minor pericolo e minori precauzioni.

Le cose andavano meglio di quanto sperava. Forse da Dunchester avrebbe addirittura trovato un imbarco per tornare in Francia, una volta accertatosi dell'effettiva partenza di Daniel dal Medioevo.

«Allora vi accompagnerò fino al bivio» decise, felice di aver trovato una soluzione che accomodava tutto. Poteva scortare almeno un po' quella gente senza troppi rischi.

Anche Bull fu soddisfatto. «Perfetto. Inganneremo il tempo chiacchierando un po',

prima di salutarci. Adesso va' a mangiare qualcosa. Io sistemo il carico su un paio di muli e poi saremo pronti a partire. Ti spiegherò la strada lungo il cammino».

***

La gente di Aversly si mise in viaggio in una piccola carovana ordinata, salutò quelli che andavano in una direzione diversa e intraprese il cammino verso Dunchester a passo lento ma deciso. In pochi si voltarono indietro a guardare le case che lasciavano e la cosa alleviò di poco il senso di colpa che Ian continuava a provare. Se non altro, nessuno, nemmeno i più malinconici, guardava lui con rimprovero, anzi tutti lasciarono che prendesse la guida della carovana insieme a Bull.

In realtà Ian seguiva il boscaiolo, più che condurre il gruppo insieme a lui, poiché non conosceva la zona, ma nel frattempo aveva modo di tenere d'occhio il bosco e assicurarsi che non ci fossero ostacoli o pericoli lungo la strada.

Bull era ugualmente vigile, seduto sul carretto dove aveva caricato le sue poche cose e dato ospitalità ad alcuni bambini. Scrutava il cammino e faceva tenere il passo alla carovana come se fosse un piccolo esercito, ma nel frattempo chiacchierava come aveva promesso, raccontando soprattutto di sé, dei suoi due figli ormai grandi e della moglie morta di malattia tre anni prima. Non entrò mai nei dettagli della sua vita da soldato né fece domande a Ian, che gliene fu grato.

In compenso i bambini sul carretto guardavano l'imponente giovane, la sua spada e il suo cavallo con tanto d'occhi.

Era tarda mattina ormai quando la carovana incrociò un sentiero seminascosto tra cespugli intricati.

Bull fece fermare da parte il carretto. «Ecco, qui ci separiamo» annunciò mentre il resto della gente lo superava. «In realtà il vero bivio ché va al porto è più avanti, ma questo sentiero ti farà risparmiare tempo e strada, anche se è più disagevole. Non hai un carro da tirarti dietro e il cavallo ce la farà benissimo anche se non c'è una vera strada battuta, basta che tu stia attento ai rami bassi. Troverai la via maestra per il porto più avanti».

«Andrà bene» disse Ian. «Per me l'importante è arrivare a destinazione il prima possibile, cercare il mio amico e ripartire subito».

«Hai voglia di tornare a casa di corsa, eh?» commentò il boscaiolo con un sorriso complice. «Ti aspetta la tua bella? E magari anche qualche marmocchio».

«Non ancora, ma speriamo di veder nascere il primo molto presto» rispose Ian con emozione e pensò a Isabeau che l'attendeva.

Bull si mise a ridere, perché notò il suo stato d'animo evidente. «Allora hai tutte le ragioni di correre da lei!»

Si separarono dopo qualche minuto, giusto il tempo per scambiarsi gli auguri di buona fortuna, poi Ian salutò la gente di Aversly e intraprese la sua strada da solo.

Viaggiò veloce finché poté, badando bene a ripararsi dai rami bassi come aveva detto Bull, poi però dovette risparmiare il cavallo e rallentò.

«Non sei un gran campione, eh?» disse all'animale grigio che sbuffava nel rallentare il passo. «Speriamo davvero che tu ce la faccia a percorrere il sentiero fino in fondo».

Il cavallo sembrò quasi capirlo, scrollò la criniera e proseguì con un'andatura un po' più impettita.

Ian fece un mezzo sorriso e riprese a guardarsi intorno con attenzione, per individuare i punti di riferimento che l'avrebbero dovuto guidare nel cammino.

Faceva freddo, ma almeno non pioveva e il giovane riuscì a difendersi abbastanza bene dalla bassa temperatura, stringendosi nel suo mantello. Il bosco era silenzioso e umido, avvolto nel profumo di muschio, di abeti e di terra bagnata.

Orientarsi non era facile, perché il sentiero era contorto e spesso si perdeva in pozzanghere di fango semighiacciato e foglie cadute. Bull però era stato minuzioso nello spiegare e Ian riuscì comunque a seguire la direzione nel bosco sempre più fitto. Lasciò passare il mezzogiorno senza fare soste, ma poi, quando la fame si fece sentire perentoriamente, dovette decidersi a fermarsi per rifocillarsi.

Scese di sella, lasciò riposare il cavallo e si sedette su una pietra asciutta sotto un albero per mangiare quello che aveva portato con sé: una focaccia, un po' di carne salata, del vino. Mentre apriva il fagotto che conteneva il cibo, guardò la strada appena percorsa, quasi mimetizzata nella vegetazione.

A quell'ora la carovana partita dal villaggio aveva probabilmente già fatto sosta per il pranzo e doveva essere poi ripartita. Bull aveva detto che dovevano camminare spediti per arrivare a Dunchester entro sera e Ian era sicuro che il vecchio soldato non avrebbe lasciato la sua improvvisata truppa a oziare per molto.

Un vero sergente, si disse Ian con un sorrisetto, ma allo stesso tempo trovava rassicurante che ci fosse Bull al comando del gruppo, poiché un ex-soldato era una guida adatta ed esperta per portare quella gente al sicuro.

Passando da un'idea all'altra, Ian si trovò a pensare a Coda di volpe. Chissà se il ragazzino era tornato a casa e si era tenuto fuori dai guai. Lo sperava davvero, sapendo che l'Inghilterra si avviava verso un periodo burrascoso.

Ian s'incupì. Tutti coloro che aveva incontrato in quel breve viaggio in terra inglese avrebbero conosciuto momenti difficili e molto presto, a causa della guerra imminente.

Il silenzio del bosco era malinconico e sottolineava quel pensiero triste, nato dalla totale solitudine.

Per riscuotersi almeno un po' Ian si mise a mangiare, ma quel pasto frugale e solitario non lo aiutò molto a rallegrare i pensieri.

Prima o poi riuscirò a mangiare di nuovo a casa mia, si trovò a pensare e ricordò il grande salone di Chàtel-Argent, con il suo camino, il grande tavolo, gli arazzi alle pareti e le finestre orientate strategicamente per ricevere la luce piena del sole durante buona parte della giornata.

Immaginò l'intero castello e gli stendardi bianchi e azzurri con lo stemma del falco d'argento, alti sulle torri chiare, e per un attimo la nostalgia lo punse nel profondo. Aveva iniziato la partita di Hyperversum per poter tornare a quella che sentiva essere la sua casa e invece non era riuscito ancora nemmeno ad avvicinarvisi, come se qualche misteriosa forza del destino facesse di tutto per intralciargli la strada.

Pensò a Isabeau, che lo attendeva da mesi mentre sentiva crescere il loro bambino da sola, senza poter condividere le ansie e le aspettative che quella nascita ormai prossima portava con sé.

Sto arrivando, ti prego aspettami ancora qualche giorno, le promise Ian col pensiero e una voglia infinita di riaverla tra le braccia. Ti giuro che sarò accanto a te molto prima che nostro figlio nasca e poi non ti lascerò mai più.

Formulò quell'ultima promessa mentre terminava la razione di cibo e

contemporaneamente decise che era ora di ricominciare il suo viaggio e di rimontare in sella.

Il sentiero proseguiva in lieve salita e sfociò dopo poco in una strada più ampia e soprattutto battuta, che veniva da nord. Ian capì che, come aveva preannunciato Bull, quella era la via maestra per il porto.

Proseguì per quasi un'ora. La strada, ora in salita, era molto più visibile del sentiero e la vegetazione si diradava, lasciando sgombro il terreno. Ian, soddisfatto, poté accelerare il passo.

D'un tratto, un rumore cupo arrivò alle sue orecchie, portato dal vento.La salita era quasi terminata e lasciava intravedere l'orlo dello scoscendimento che

riportava alla pianura: Ian rallentò e guardò in alto attraverso i rami ormai radi, ma nel cielo sgombro non trovò una sola nuvola che potesse aver originato un tuono.

Si fece più attento. Il rumore non veniva dall'alto, ma dal basso e non s'interrompeva mai.

Ian rallentò ancora e trattenne persino il fiato pur di ascoltare meglio. Conosceva quel rumore, l'aveva già sentito, e il solo ricordo gli gelò il sangue nelle vene.

Scese di sella, tenne il cavallo per le briglie e s'inerpicò a piedi fino al bordo del pendio ormai vicino, tenendosi basso tra la vegetazione. Arrivò a un punto in cui riusciva ad avere una certa visuale tutto intorno e guardò giù.

Si vedeva il mare, da quella posizione: una baia semicircolare che aveva a un'estremità un piccolo porto e all'altra un promontorio su cui sorgeva un castello scuro.

Ian capì che quei due agglomerati urbani erano il porto e il castello di Dunchester, ma la sua attenzione cadde subito dopo sul movimento alla sua sinistra, in lontananza.

Anche laggiù il paesaggio era ricoperto dal bosco, ma in mezzo agli alberi si scorgevano divise rosse e uomini armati a piedi o a cavallo.

Ian vide il luccicare delle cotte di maglia e delle lance, sentì il nitrire delle bestie e il cigolare dei carri.

Rabbrividì e non per il freddo: un intero reparto d'esercito in assetto di guerra era in marcia ad alcune miglia da lui e si stava dirigendo dritto verso il castello di Dunchester. In testa portava i vessilli rossi con tre leoni d'oro.

Lo stemma del re! pensò Ian e capì che quello non era un semplice spostamento di truppe, ma il preludio di una battaglia.

Ecco la guerra civile, si disse ancora, con angoscia crescente.Come dicevano i manuali di storia, Giovanni Senza Terra mandava i suoi uomini a

piegare con la forza i baroni che sfidavano la sua autorità. Il vecchio Martewall di Dunchester, a quanto pareva, era stato tra i primi a tirare troppo la corda e adesso quelle truppe erano in marcia per lui.

Subito dopo, Ian pensò alla carovana di Aversly, in cammino proprio nella stessa direzione dell'esercito.

Finiranno dritti nelle mani dei soldati, si disse ed ebbe paura al solo pensiero di ciò che sarebbe accaduto a quella povera gente.

Tornò di corsa sui suoi passi, tirandosi dietro il cavallo e rimontò in sella non appena fu certo di non essere più visibile dal basso. Si lanciò al galoppo per la strada da cui era appena arrivato, pregando di fare in tempo. Doveva raggiungere Bull e i suoi e far loro cambiare direzione prima che fosse troppo tardi.

Il cavallo nitrì di protesta sotto gli speroni, ma Ian non poteva fare altro se non cercare

di spingerlo alla massima velocità possibile. Gli chiese mentalmente perdono e lo spronò di nuovo.

Col cuore in gola e il respiro mozzo quasi quanto il cavallo, ritornò al punto in cui strada e sentiero si congiungevano, ma proseguì lungo la via più ampia, dirigendosi a nord senza rallentare. Se aveva fortuna, se era abbastanza veloce, forse poteva raggiungere la carovana di Aversly o addirittura precederla e avvertirla del pericolo, sfruttando la disposizione a triangolo delle strade. Nel frattempo pregava che la gente si fosse fermata più del previsto a mangiare e a riposare, ritardando il suo cammino verso il nemico.

Dietro una curva della strada, in pieno bosco, lo accolsero i soldati in divisa rossa.Ian tirò le redini all'ultimo istante, trovandoseli davanti all'improvviso, e imprecò di

sorpresa.I soldati lo individuarono subito. Erano una decina appena, tutti a cavallo. Esploratori,

ma armati fino ai denti, con spade e soprattutto archi e balestre. Si erano messi in allerta nel sentir arrivare il cavallo al galoppo e alcuni avevano già imbracciato le armi.

«Altolà!» ordinò uno di loro, alzando la mano in un gesto eloquente e minaccioso. Gli altri puntarono le balestre.

Ian vide di essere sotto tiro, ma piantò gli speroni nei fianchi del cavallo e riuscì a fargli fare uno scarto. Si lanciò tra gli alberi, prima che quegli uomini potessero prendere la mira con precisione. Mentre fuggiva, sentì il sibilo delle frecce attraversare l'aria tra i rami. Lo mancarono ampiamente, ma il rumore dei tronchi colpiti al posto suo gli fece accapponare la pelle. Incitò con più urgenza il cavallo, ma l'animale era ormai stanco e non era capace di stare al passo di quelli potenti dei soldati già lanciati all'inseguimento.

Ian sentì gli armati esortarsi a vicenda ad accelerare il passo.«Fermo!» gli intimò qualcuno rabbiosamente, ma il giovane non si voltò indietro

nemmeno un istante.Non posso farmi catturare adesso! si ripeté più e più volte con angoscia, ma il bosco

che gli sfrecciava accanto non aveva alcun nascondiglio e i soldati guadagnavano terreno.

Le frecce sibilarono sempre più vicine; l'ultima si piantò in un tronco a poche spanne di distanza da lui.

Ian capì che doveva fermarsi. Era in trappola. I soldati l'avevano ormai raggiunto e fuggire non aveva più senso.

Fece girare il cavallo e si fermò, col cuore in gola per la corsa e la tensione. Sguainò la spada.

Un soldato gli era già addosso e lo puntò con la lama tesa. Ian deviò l'assalto con la propria arma e l'urto che accompagnò il clangore metallico delle due lame gli fece male al braccio, strappandogli un'esclamazione. Lasciò che l'uomo lo superasse in velocità senza impegnarlo ulteriormente, cercando di aggiustarsi la spada nella mano. Il soldato fece qualche metro al galoppo, girò il cavallo e si fermò a guardare l'americano, ma non ritentò l'attacco.

Ian percepì con chiarezza le altre presenze alle sue spalle. Controllò in uno sguardo tutto ciò che gli stava intorno e vide che due soldati gli erano già dietro. Gli ultimi sbucarono dalle piante per fermarsi a poca distanza. Tre lo tenevano sotto tiro minacciosamente con le balestre.

«Getta le armi e scendi da cavallo!» ordinò quello che sembrava il loro capo,

puntando la sua spada contro il giovane.Ian esitò, cercando una via d'uscita che non c'era.Non poteva fuggire né nascondersi e non poteva nemmeno ingaggiare battaglia,

perché sarebbe stato sicuramente sopraffatto.Sono in troppi per affrontarli da solo, si disse. Non aveva altra scelta che obbedire

all'ordine e farsi catturare senza più opporre resistenza. Non temeva di morire, ma non aveva alcuna intenzione di finire prigioniero da qualche parte con una ferita da balestra in un punto qualsiasi del corpo.

Riluttante, buttò la spada davanti a sé, poi scese da cavallo, badando bene a non fare gesti bruschi che potessero indurre i soldati a tirare davvero. Tenne la mano sinistra serrata sulle briglie del cavallo e la destra bene in vista.

«Togliti anche la cintura!» continuò il caposquadra con più asprezza, forse temendo che vi fosse nascosto un pugnale.

Ian obbedì in silenzio e lasciò cadere la cintura a terra.Due soldati smontarono di sella per farsi avanti, minacciosi. Uno dei due raccolse la

spada e la cintura, l'altro spinse avanti il prigioniero verso i compagni, pungolandolo con la lama della sua arma.

I soldati abbassarono le balestre e alcuni avanzarono. Guardavano tutti Ian con ostilità e sospetto, pronti a punirlo come meritava per aver osato sfidarli.

«Adesso fatti riconoscere» ordinò il caposquadra.Ian cercò di riflettere rapidamente per cercare di salvarsi dalla situazione almeno a

parole, ma sapeva di non poter trovare giustificazioni abbastanza plausibili da alleggerire la sua posizione. Per giunta non era facile concentrarsi, così su due piedi, mentre una decina di soldati armati fino ai denti non aspettava altro che passarlo a fil di spada.

Con la coda dell'occhio scorse un altro movimento e si fece attento: la vegetazione si era mossa dietro gli armati. Lì per lì pensò di essersi ingannato, ma poi il movimento si ripeté e non erano altri soldati in arrivo, ma qualcosa di furtivo e silenzioso.

«Chi sei? E perché scappavi? Cos'hai da nascondere ai soldati del re?» lo interrogò il caposquadra.

Ian lo ascoltò con un orecchio solo. Cercava di non farlo notare, ma la sua attenzione era tutta rivolta alla vegetazione che continuava a muoversi inosservata dietro gli armati. Dai cespugli comparve una punta di freccia.

«Allora? Sei sordo o muto?!» ringhiò il soldato, spazientito.L'armigero dietro Ian lo pungolò di più, fino a graffiargli la schiena con la punta della

spada. Non aveva notato il movimento tra gli alberi, forse perché era troppo impegnato a fissare il prigioniero oppure semplicemente perché aveva la vista ostacolata dalla sua statura imponente.

Ian però aveva ormai davanti agli occhi un arciere che stava prendendo di mira i soldati. Un secondo comparve dietro un tronco, un terzo da un altro cespuglio più lontano.

Tutti con gli archi tesi.Il giovane lanciò un'esclamazione e si gettò a terra nel momento stesso in cui li vide

scoccare.Le frecce abbatterono tre soldati quasi contemporaneamente. I superstiti si girarono,

del tutto colti di sorpresa, ma altri tre di loro caddero falciati dai nemici sconosciuti prima ancora di poter capire da che parte arrivava l'attacco.

Steso a terra sull'erba, Ian individuò la sua spada caduta sotto il corpo del soldato che gliel'aveva requisita. La recuperò subito, si rimise in piedi e affrontò il primo armato che gli capitò davanti, impedendogli di tirare con la sua balestra per colpire i nemici sconosciuti.

L'uomo tentò di difendersi dal suo assalto, ma poi fu trafitto da due frecce e cadde immobile nell'erba.

La brevissima colluttazione durò appena qualche minuto. Ian si ritrovò solo, circondato da cadaveri, mentre dalla vegetazione tutto intorno comparivano arcieri con le frecce ancora incoccate sugli archi. Il giovane fece un giro su se stesso, controllando gli sconosciuti uno a uno, senza sapere se rilassarsi o temere il peggio.

Scattò, in guardia, quando qualcuno gli corse incontro sbucando da un cespuglio alla sua destra. Rimase esterrefatto quando si vide raggiungere da Coda di volpe, armato della sua fionda.

«Ci si rivede!» lo salutò il ragazzino con un gran sorriso e senza attendere risposta si girò verso gli arcieri. «Io lo conosco!» esclamò indicando il giovane. «Ieri ha cacciato da solo gli esattori del re da Aversly!»

Ian era sbalordito. «E tu cosa ci fai qui?» domandò come prima cosa, per poi aggiungere subito: «Non inventarti storie, ieri non ho fatto tutto da solo».

Coda di volpe però non badò alla sua protesta per continuare a sorridere orgoglioso agli arcieri sbucati dal bosco, come se il fatto di conoscere l'americano fosse un privilegio da mostrare con vanto ai suoi amici.

Ian capì che il ragazzino conosceva molto bene quella specie di banda armata. «Tu non ci sai proprio stare lontano dai guai, eh?» sospirò.

Gli arcieri intanto si erano fatti avanti con cautela. Erano vestiti comunemente, senza divise o colori distintivi, e sembravano semplici cacciatori: gente comune abbigliata con panni grezzi, pelli e berretti di lana o di feltro. Quasi tutti portavano un carniere o una bisaccia a tracolla. Da quella di Coda di volpe spuntavano le penne di almeno due uccelli uccisi.

Ian capì che quegli uomini non erano un gruppo organizzato militarmente quando li vide accostarsi ai cadaveri dei soldati con un certo nervosismo, tenendoli sotto tiro come se si aspettassero di vederli rialzarsi di nuovo.

«Sono dappertutto questi maledetti!» esclamò uno di loro, smuovendo un corpo con un piede.

«Be' questi non andranno più da nessuna parte» replicò un altro sprezzante e andò a recuperare le sue frecce. «Spero che tra loro ci siano anche quelli che mi hanno bruciato la casa».

Un terzo guardò Ian. «L'avete scampata bella, amico» gli disse. «Non vi conviene rimanere da queste parti, tira una brutta aria. Andatevene finché potete».

«Ma lui non ha paura, ha affrontato quattro mercenari con la sua spada!» replicò Coda di volpe per Ian.

«Zitto. So rispondere da solo» lo ammonì l'americano, ma riprese finalmente fiato nel sentirsi fuori pericolo. «Chi siete?» domandò.

«Gente senza casa» gli risposero amaramente. «Abitavamo a Willingham, prima che arrivasse l'esercito del re».

«Cos'è successo?» si allarmò Ian e guardò prima Coda di volpe e poi di nuovo quegli uomini.

«Hanno bruciato l'intero villaggio. Per fortuna uno dei nostri boscaioli li ha visti arrivare da lontano e ci ha avvertito in tempo. Siamo riusciti a far fuggire donne e bambini prima che arrivassero le truppe armate, ma molti di noi sono morti mentre cercavano di salvare gli animali e le provviste per l'inverno. I superstiti si sono rifugiati nei boschi».

Ian rimase impressionato dalla notizia, immaginandosi l'esercito visto solo poco prima abbattersi su un piccolo villaggio per razziare ciò che trovava e punire in modo esemplare la popolazione. «Tu stai bene?» s'informò subito da Coda di volpe.

Il ragazzino fu sorpreso nel sentirsi rivolgere quella domanda sinceramente preoccupata, ma poi s'illuminò di piacere. «Sto bene. Quando l'esercito è arrivato io non c'ero, stavo ancora tornando da Aversly e ho incontrato gli altri in fuga. Adesso aiuto gli uomini. Andiamo a caccia per procurare da mangiare a tutti e perlustriamo il bosco per proteggere i nostri dai soldati che sono in giro». Aveva un'aria fiera mentre lo diceva, da piccolo guerriero.

«E tua madre cosa ne dice?» domandò Ian, accigliato.Il ragazzino scrollò le spalle. «Non è tanto d'accordo, ma non mi dice niente finché

non mi faccio male».Cioè segui i cacciatori di nascosto e finché non ti fai male tua madre non lo viene a

sapere, tradusse Ian mentalmente. «Avete trovato un riparo sicuro per tutti?» domandò invece agli arcieri.

«Abbiamo passato la notte nel bosco poi stamani siamo tornati a Willingham, ma non possiamo rimanervi a lungo» spiegò uno di loro. «Non è rimasta in piedi una sola casa, abbiamo poco cibo e i soldati sono dappertutto. Speravamo di poter portare almeno le nostre famiglie a Dunchester e chiedere asilo al castello, ma le truppe si stanno dirigendo proprio in quella direzione».

«Ascoltate, c'è un gruppo di gente in arrivo da Aversly» ricordò Ian con ansia. «Anche loro stanno andando a Dunchester con donne e bambini, ma finiranno nelle mani dei soldati se nessuno li avverte!»

Gli uomini di Willingham si guardarono tra loro. «Andiamo noi» disse uno di loro, indicando se stesso e due compagni. Scomparvero in fretta nel bosco.

«Non abbiamo visto nessuno passare finora, a parte voi e i soldati» spiegarono gli altri. «La carovana di cui dite deve essere ancora indietro, lungo la strada. Faremo in tempo ad avvertirla».

Grazie al cielo. Ian si passò la mano sul viso per lo scampato pericolo.«Siete anche voi di Aversly?» gli domandò uno dei cacciatori.«No, lui ha viaggiato molto, arriva fin dal continente. Ad Aversly è arrivato solo ieri»

rispose l'esuberante Coda di volpe, prima che Ian potesse zittirlo con un'occhiataccia.«Ho lasciato il gruppo questa mattina» spiegò il giovane. «Stavo andando al porto, poi

ho visto l'esercito e volevo tornare indietro per avvertire gli altri del pericolo».«Adesso potete stare tranquillo per loro, eviteremo noi che facciano una brutta fine».«Grazie» disse Ian con riconoscenza.«Pure a voi conviene cambiare strada» lo ammonì un altro arciere. «Il porto di

Dunchester non è più sicuro, le truppe si stanno dirigendo anche là».Ian, tornato dal suo cavallo, si fermò prima di salire in sella. «Ne siete certi?»«Le hanno viste alcuni dei nostri. Una guarnigione di mercenari si è staccata dal resto

dell'esercito per dirigersi a sud. Andrà a reclamare il controllo del porto in nome del re».

Maledizione, pensò Ian.«È un brutto affare» continuò l'uomo. «Se prendono possesso anche del porto, il

castello sarà circondato. Sir Martewall non riuscirà mai a organizzare una difesa efficace: ha cuore e coraggio, ma è vecchio e malato e non è certo in grado di sostenere un assedio».

«Ma suo figlio è tornato, no?» intervenne Coda di volpe. «Finalmente i Francesi l'hanno lasciato andare».

I cacciatori annuirono. «Già, grazie a Dio, sir Geoffrey è tornato...»«Però...?» li esortò Ian a continuare, vedendoli tacere pensierosi. Aveva sentito un

segreto tuffo al cuore nel sentir nominare il suo nemico e la sua attenzione era raddoppiata.

«Però era con pochi uomini e lui stesso sembrava molto provato» spiegò un arciere. «L'ho visto passare ieri sulla strada che portava al castello. Dev'essergli accaduto qualcosa durante il viaggio».

«Perché dite questo?» domandò Ian, in allarme.«Perché almeno un uomo era ferito seriamente, aveva un braccio al collo. Un altro

invece aveva le mani legate come se fosse prigioniero».Ian provò un brivido profondo. «Un... prigioniero?»«Sì. Chissà che cosa aveva fatto. Eppure sembrava uno dei nostri».Ian si appoggiò al cavallo, ormai senza più alcuna intenzione di montare in sella.Uno dei nostri, si ripeté, in silenzio disperato, e non ebbe bisogno di altra descrizione

per capire chi fosse il prigioniero in questione. Già, perché Daniel era biondo e aveva decisamente un'aria anglosassone. Tutti i suoi timori divennero certezza in quel momento: Daniel non era riuscito a fuggire e adesso era a Dunchester, in un castello che stava per affrontare l'esercito di re Giovanni Senza Terra.

Come lo tiro fuori di là? si domandò per prima cosa Ian, con angoscia.Coda di volpe gli toccò il gomito per richiamare la sua attenzione. «Cosa farete

adesso?» gli chiese, tutto interessato. «Al porto non potete più andare».Ian non sapeva davvero cosa rispondere. Già, che cosa faccio adesso?Purtroppo aveva una sola scelta possibile.«Proseguirò per il castello di Dunchester» disse alla fine lentamente. «Anche se non

so come farò a entrare».Coda di volpe lo guardò con gli occhi sgranati.«È come gettarsi nella bocca del lupo» commentò un cacciatore, scuotendo la testa.

«Lasciate perdere e cambiate aria».«Non posso». Ian era sconsolato. «Devo raggiungere un amico a ogni costo.

Viaggiava con sir Geoffrey, sulla stessa nave, e se il giovane barone è tornato al suo castello allora anche l'uomo che cerco è andato con lui».

«Non ce la farete mai a oltrepassare l'esercito del re» sentenziò l'uomo e Ian dovette concordare con lui. «È vero» mormorò. «Non so proprio come farò».

Guardò il cielo che cominciava ad assumere i colori del pomeriggio e poi si voltò verso la direzione in cui si trovava il castello. Il tempo scorreva in fretta e lui si sentiva del tutto impotente.

I cacciatori intanto si stavano rimettendo in cammino per tornare dalla loro gente. «Venite con noi per stasera» propose uno di loro, vedendo il giovane in difficoltà. «Non vi conviene accamparvi da solo, qui nei boschi e comunque per adesso non potete fare

niente altro. Se è vero che siete bravo a combattere e non amate i mercenari di re Giovanni, a Willingham sarete il benvenuto».

Coda di volpe, che aveva osservato l'americano attentamente per tutto il tempo, fece un sorriso entusiasta. «Sì, venite con noi!» insisté, eccitato dalla proposta, e prese Ian per la manica con una mano e le redini del suo cavallo con l'altra, deciso a convincere il giovane con i fatti oltre che con le parole.

Rassegnato e senza alternative, Ian si lasciò guidare per il bosco.

Capitolo 14Willingham era un villaggio fantasma,. ridotto ormai a una distesa di rovine

carbonizzate, alla luce del tramonto ormai prossimo. Come il vicino Aversly, doveva essere stato composto solo di case di legno e paglia, poiché non era rimasto un mattone in mezzo alla cenere, solo assi spezzate e annerite e travi spaccate dal fuoco. Ovunque il suolo era calpestato selvaggiamente da uomini e cavalli e, tra le foglie cadute di uno spiazzo poco lontano, si scorgeva bene la terra smossa di molte sepolture fresche, almeno una decina.

I superstiti dell'incursione della notte precedente avevano eretto un piccolo accampamento di fortuna nel centro del paese, intorno a ciò che restava del pozzo, e avevano cercato di costruirsi ripari sfruttando ciò che rimaneva ancora in piedi delle case e dei materiali risparmiati dalla devastazione. Faceva troppo freddo per passare la notte all'addiaccio e nessuno aveva potuto accontentarsi di una semplice tenda o di un falò.

Gli uomini che non erano a caccia e non erano feriti in modo grave si stavano dando da fare per rendere quei rifugi il più possibile confortevoli e l'aria risuonava del rumore ritmico di qualche raro martello o di un'accetta. Le donne, invece, si prendevano cura dei bambini e dei feriti, avevano acceso alcuni fuochi per cucinare e si aiutavano tra loro a recuperare le poche pentole e le ciotole ancora intatte.

Gli unici animali che si aggiravano tra le case erano due cani infangati. Il silenzio greve era rotto solo da discorsi sommessi o dal pianto soffocato di chi aveva perso una persona cara durante la notte. Era uno spettacolo che stringeva il cuore e Ian non poté fare a meno di osservarlo con compassione.

Anche Coda di volpe taceva e sembrava aver perso la sua esuberanza. Procedeva accanto a Ian rigido, a testa alta.

I cacciatori furono accolti con sollievo perché portavano il cibo di cui il villaggio aveva bisogno. Le donne andarono loro incontro e alcune abbracciarono i mariti che erano nel gruppo. I cacciatori vuotarono i carnieri e le bisacce e misero a disposizione le prede che erano riusciti a uccidere nel bosco. Poca cosa, rispetto al numero di affamati, ma sempre meglio di niente. Le donne erano riuscite a recuperare un po' di pane e di formaggio, pulendoli dalla cenere dopo averli estratti da alcune dispense rimaste intatte, e avrebbero cercato di mettere insieme una cena per tutti.

«Anch'io ho preso qualcosa» annunciò Coda di volpe, facendosi avanti tra i cacciatori con un certo orgoglio, e tolse dalla bisaccia i due uccelli che aveva abbattuto, grossi almeno come piccioni.

«Ben fatto, ragazzo» approvò un'anziana donna, mettendo i due pennuti insieme alle altre prede.

Coda di volpe si fece tutto impettito, estremamente soddisfatto di ricevere quell'apprezzamento.

Forse perché non vi è abituato, pensò Ian, ricordando l'opinione negativa che Thomas Bull aveva espresso sul ragazzo.

Eppure non mi sembra davvero un cattivo soggetto, si disse ancora, osservandolo.Il suo sguardo non passò inosservato a Coda di volpe, che, ignaro dei veri pensieri

dell'americano, si sentì in dovere di precisare: «Il fatto è che d'inverno non si trovano scoiattoli, altrimenti avrei potuto portare anche più cibo».

Ian fece finta di annuire in modo comprensivo. «Certamente» disse, ma in segreto fu

felice di potersi evitare una zuppa di scoiattoli come menu del giorno.I cacciatori intanto raccontavano a tutti quello che era accaduto nel bosco, suscitando

l'ansia generale. In molti si preoccuparono del fatto che i soldati del re fossero ancora così vicini, ma i cacciatori cercarono di tranquillizzare gli animi.

«Faremo dei turni di guardia stanotte» disse uno dei più anziani. «Non credo che i soldati torneranno in questa direzione, ma non si sa mai».

«Ma dove andremo domani?» chiesero da più parti e le voci si fecero concitate.«Non abbiamo più né cibo ne case e se Dunchester non ci può più accogliere come

sopravvivremo all'inverno?» «Abbiamo vecchi e bambini: moriranno tutti!»Le domande preoccupate si susseguirono per un bel pezzo, senza trovare risposta.

Alla ime il cacciatore alzò le mani per quietare le voci e farsi ascoltare. «Aspettiamo di riunirci per la cena e poi decideremo il da farsi» annunciò ad alta voce. «In qualche modo, insieme, troveremo una soluzione».

La gente annuì a quelle parole, che portarono una relativa calma. Tutti rinunciarono a discutere per ritornare alle occupazioni più impellenti e si separarono a gruppetti di due o tre, scambiandosi di nuovo solo parole basse e meste.

Alcuni cacciatori si rivolsero a Ian, che aveva assistito a tutta la scena in silenzio.«Accampatevi pure dove volete» gli dissero. «Se volete vi aiuteremo a prepararvi un

rifugio per la notte, poi mangeremo tutti insieme».«Ce l'ha già un rifugio, se vuole. Può restare con me e mia madre» s'intromise subito

Coda di volpe e guardò Ian, speranzoso. «Vero?» gli domandò per sottolineare il concetto. «Abbiamo posto più che a sufficienza da noi».

Ian intercettò l'occhiata significativa degli uomini che l'ammonivano di rifiutare l'invito, ma non ebbe cuore di deludere il ragazzino. «Prima sentiamo cosa ne pensa tua madre» gli disse tuttavia.

«Oh, lei sarà d'accordo senz'altro!» esclamò Coda di volpe, raggiante, e senza più badare ai due cacciatori, s'incamminò tirando con sé il cavallo di Ian.

«Ci rivediamo a cena, se doveste cambiare idea» disse un cacciatore al giovane americano, poi si allontanò insieme all'altro per tornare entrambi dalle rispettive famiglie.

Ian seguì Coda di volpe senza più dar peso alla questione. Aveva in testa preoccupazioni ben maggiori del luogo in cui passare la notte e si arrovellava su come poter entrare a Dunchester per salvare Daniel.

Che cosa sarà successo? continuava a domandarsi con ansia e non si riferiva solo a Hyperversum e al suo probabile mancato funzionamento. Pensava soprattutto a Martewall e a ciò che il cavaliere poteva aver fatto all'unico ostaggio che gli era rimasto tra le mani: lo aveva semplicemente imprigionato, magari interrogato, forse addirittura torturato... o peggio. Ian cercò di scacciare quelle idee orrende dalla testa, ma la verità era che Daniel rischiava la vita a ogni istante che passava nelle mani dell'inglese desideroso di vendetta.

Maledetto... fagli del male e giuro che me la pagherai cara! promise il giovane in silenzio, all'indirizzo del suo nemico.

I suoi pensieri agitati s'interruppero quando Coda di volpe si fermò davanti a una capanna di assi, costruita alla bene e meglio un po' distante dalle altre, come se volesse tenersi in disparte. C'era davvero spazio sufficiente per ospitare più persone, ma il tetto era decisamente traballante, le pareti sconnesse e la rudimentale stuoia di rami che

fungeva da porta non doveva essere granché efficace per contrastare il freddo.Coda di volpe cercò comunque di presentare l'alloggio sotto la sua luce migliore. «Nel

tetto c'è il buco per far uscire il fumo, così possiamo tenere il fuoco acceso anche quando siamo chiusi dentro!»

Sperando che non vada tutto quanto in fiamme per una scintilla vagante, si disse Ian in silenzio, ma si guardò bene dal far notare quel dettaglio al suo interlocutore. Lo zelo con cui il ragazzino cercava di farsi apprezzare da lui era troppo sincero per non suscitare simpatia e scacciare qualsiasi pensiero di mortificarlo.

Coda di volpe legò il cavallo a un albero. «Più tardi cercherò un riparo anche per lui» disse e poi andò a sbirciare nella capanna. «Mia madre non è tornata. Starà ancora cercando le erbe per la cena o la legna per finire la casa».

«L'aspettiamo qui senza far niente?» domandò Ian, indicando la soglia della cosiddetta "casa". «Possiamo andare anche noi a recuperare qualcosa di utile».

«Dall'incendio di ieri abbiamo salvato alcune coperte e con le foglie secche abbiamo fatto i pagliericci. Più di così non possiamo fare» spiegò il ragazzo, convinto, sedendosi su una pietra.

«Quand'è così...» Ian si rassegnò a guardarsi intorno, di nuovo perso in cupi pensieri.La gente del villaggio continuava ad andare e venire tra le altre capanne, portando

materiali e attrezzi, cercando tra la cenere ciò che restava delle vecchie case. Ogni tanto qualcuno guardava nella direzione di Ian, osservando lo straniero e il ragazzino che gli stava seduto vicino.

«Potremmo accendere un fuoco qui per scaldarci un po' mentre aspettiamo» riprese Coda di volpe dopo qualche minuto di silenzio. «Tutto sommato, io ho freddo».

«Giusto» convenne Ian e nel dirlo si sfregò le mani, scoprendole intirizzite.Misero insieme in pochi minuti un mucchietto di rami per un piccolo falò e lo

delimitarono con un cerchio di pietre. Quando ebbero finito, Ian si sedette su un altro sasso quasi di fronte al ragazzo e l'osservò darsi da fare con la pietra focaia che teneva nella bisaccia. Il fumo cominciò quasi subito a levarsi dai rami umidi.

«Sei bravo» disse Ian, ammirato, sapendo che lui non sarebbe mai stato capace di fare altrettanto senza usare fiammiferi o un accendino.

«Ho imparato a quattro armi» gli sorrise Coda di volpe. «A quell'epoca qualche volta mi chiamavano "Scintilla", perché ero piccolo ma bravo ad accendere il fuoco e per via del mio colore di capelli».

«E adesso ti chiamano "Coda di volpe", ma ce l'hai un nome vero oppure no? Non ti avranno battezzato così sul serio, spero» domandò Ian.

Si accorse di aver toccato senza volerlo un punto spinoso, quando vide il ragazzino rabbuiarsi.

Coda di volpe non rispose subito alla sua domanda e si limitò a sistemare un ramo nel fuoco, come se volesse prendere tempo. «Che importanza ha?» disse alla fine. «Tanto nessuno mi chiama mai per nome».

«Be', no di sicuro, se tu non glielo dici» replicò Ian e studiò le reazioni del ragazzino. Adesso era incuriosito da quella strana reticenza. «Volevo semplicemente completare le presentazioni tra noi due. Tu sai già come mi chiamo».

«Ognuno si presenta come vuole. A me piace di più il mio soprannome» mugugnò Coda di volpe.

«Lui si chiama Beau» disse una voce a sorpresa.

Ian si voltò per trovarsi davanti una giovane donna con un paniere e una fascina di rami in braccio e un sorriso sicuro sulle labbra. Era vestita con abiti comuni e pesanti e portava urta mantella di lana grezza sulle spalle, ma sfoggiava un'indubbia e sensuale bellezza. I capelli rossi, sciolti, avevano lo stesso colore di quelli di Coda di volpe e anche gli occhi verdi erano identici.

«Il mio piccino è stato battezzato con un bel nome francese, ma si vergogna di portarlo, per questo non lo vuole dire» continuò la giovane, con un tono ironico nella voce morbida. «Preferisce di gran lunga farsi chiamare con il nome di un animale selvatico e comportarsi anche allo stesso modo».

«Madre!» protestò il ragazzino, offeso.È questa sua madre? si domandò Ian, sorpreso, mentre si alzava per salutare, eppure

la somiglianza tra i due non lasciava dubbi.Fu colpito dal fatto che la donna avesse dato a suo figlio un nome francese e per un

attimo si chiese se anche lei lo fosse, ma poi si soffermò a considerare la sua giovane età. La donna doveva avere meno di trent'anni, quindi aveva concepito il figlio quando era adolescente, quasi una ragazzina a sua volta.

Di colpo, Ian capì che non era una buona idea accettare l'ospitalità da quella famiglia e non per i motivi ancora sconosciuti che potevano addurre gli abitanti di Willingham, ma solo perché la madre, giovane e bella, si sarebbe senz'altro esposta alle chiacchiere malevoli dell'intero villaggio se avesse ospitato per la notte uno sconosciuto, per giunta quasi suo coetaneo.

Lei sembrò capire uno a uno tutti i suoi pensieri e il suo sguardo fu così penetrante da far quasi arrossire il giovane per l'imbarazzo. Eppure non mutò il suo sorriso, anzi si fece avanti fino ad arrivare così vicino a Ian da dover piegare la testa all'indietro per guardarlo negli occhi. «E voi siete un novello Carlo Magno?» domandò, divertita. «Dicono che lui fosse alto sette volte il suo piede7 e voi di sicuro arrivate molto vicino a quella statura».

«Mi chiamo Ian Maayrkas» si presentò l'americano, chinando il capo in un saluto cortese.

«Brianna Foxworth» ricambiò lei. «Benvenuto a ciò che resta di Willingham».«Grazie» replicò Ian. «Sono onorato di conoscervi e di conoscere te, Beau». aggiunse,

guardando Coda di volpe mentre sottolineava il suo nome con il tono.Il ragazzino gli fece un cenno incerto con il capo e non disse niente. Sembrava temere

qualcosa dal suo interlocutore, forse una frase o una reazione, ma si rilassò quando vide che Ian, se anche aveva curiosità da soddisfare, non faceva né domande né commenti.

Il giovane si voltò piuttosto a seguire la madre con lo sguardo, mentre lei lo oltrepassava con il suo carico per andare verso la capanna. «Posso aiutarvi?» disse, indicando la fascina di rami.

«Madre, può rimanere da noi per la notte? È lo straniero che ha salvato Aversly dagli esattori del re!» domandò invece Coda di volpe, scuotendosi dal suo teso silenzio.

«No, è meglio che io mi trovi un altro luogo per dormire» gli disse però Ian, serio. «La tua offerta è generosa, ma non posso accettare. Tua madre sarà senz'altro d'accordo con me».

Alzò gli occhi per cercare appoggio dalla donna e mitigare la delusione del ragazzino, ma vide che lei continuava a sorridergli divertita.

7 Carlo Magno era alto 1,93 m.

«A dir la verità, uno alto come voi mi farebbe proprio comodo per riparare il tetto» rispose la giovane, tranquillamente. «Non sono brava come carpentiere e poiché sono sola potrei contare sulle vostre braccia robuste per rendere un po' più confortevole il nostro riparo».

Ian fu preso in contropiede dalla proposta. «Vi aiuterò con piacere, se lo desiderate» dovette rispondere alla fine, sotto lo sguardo sornione della sua interlocutrice.

«Perfetto, allora mi ripagherete l'alloggio per stanotte con un po' di lavoro» decise lei, mettendogli tra le braccia la fascina per tenere in mano solo il paniere.

«Se la cosa non vi dà disturbo...» replicò Ian, titubante, e osservò alternativamente madre e figlio, entrambi soddisfatti, mentre si aggiustava il peso del legname sulle braccia. «Da dove comincio?»

«Di qua». Brianna porse il paniere a suo figlio perché lo tenesse e guidò l'americano verso la capanna indicandogli il tetto. «Vedete? È lassù che proprio non riesco ad arrivare. Ieri un paio di anime buone mi hanno aiutata a montare le assi, ma durante la notte le fascine della copertura si sono spostate e né io né mio figlio siamo capaci di rimetterle al loro posto».

Ian guardò prima fuori e poi fece capolino dentro la capanna per individuare il punto che aveva ceduto. Era davvero un rifugio costruito in fretta e con poca maestria, tenuto insieme da corde e rami intrecciati, alcuni dei quali facevano da puntello per le pareti. Il tetto poggiava su due assi parallele che fungevano da travi e sostenevano le fascine di rami secchi usate come copertura. Nel mezzo era rimasta un'apertura abbastanza grande per far uscire il fumo, come aveva detto Coda di volpe, ma si vedevano anche zone completamente scoperte, là dove le fascine si erano spostate col vento.

Quel rifugio malandato doveva comunque essere costato molta fatica, pensò Ian notando anche le mani della giovane donna, ferite e macchiate dal lavoro necessario per domare i rami.

Io non avrei saputo nemmeno da che parte cominciare, si disse ancora, nell'osservare il tetto e contemporaneamente si chiese come evitare di fare la figura dell'incapace e riuscire a riparare il tetto come gli era stato richiesto.

Poggiò i rami a terrà, si tolse mantello e bisaccia per essere più libero e, chinandosi, entrò nel rifugio, badando bene a evitare il rudimentale focolare, fatto con un cerchio di pietre nel mezzo del pavimento di terra battuta. Il tetto era a portata delle sue braccia alzate e il giovane ne studiò la fattura per trovare ispirazione.

Non poté fare a meno però di notare anche ciò che stava all'interno della capanna, mucchi di foglie come pagliericci, alcune coperte piegate una sull'altra, qualche utensile da cucina e da lavoro ripuliti al meglio possibile dalla cenere, stracci, una scatola di legno mezza bruciata e senza coperchio, in cui rilucevano alcuni ninnoli in rame e metallo.

Anche loro hanno perso tutto dopo la razzia dell'esercito, pensò Ian tristemente. Chissà come faranno a tirare avanti adesso.

«Beau mi ha parlato di voi, ieri sera» disse d'un tratto Brianna e Ian si rese conto che la giovane lo stava osservando attentamente dalla soglia. «Devo dire che, vedendovi, non si fa fatica a credere che siate un valoroso».

«Vostro figlio tende a sopravvalutarmi, e molto» replicò Ian, di nuovo in imbarazzo, e tornò fuori dalla capanna per cominciare a lavorare dall'esterno. «Quello che è accaduto ieri ad Aversly non ha niente di eroico e, purtroppo, è anche costato la vita a due

uomini».«Ma è stata una grande battaglia!» esclamò Coda di volpe, eccitato solo al ricordo.«No, è stato solo un tafferuglio inutile, che poteva essere risparmiato» lo raffreddò

subito Ian.«Sprecate il fiato» commentò però Brianna. «Mio figlio non fa che sognare armi,

battaglie e avventure di eroici cavalieri. Non lo convincerete mai che la vita quotidiana è molto più monotona e che prima o poi dovrà rassegnarsi a guadagnare il pane con l'umile lavoro quotidiano come tutti quanti noi».

«Non c'è niente di male a sognare» brontolò Coda di volpe, imbronciato.«Sì, se si sognano solo cose impossibili, come attraversare la Manica per andare a

sconfiggere uno a uno tutti i cavalieri di Francia» sospirò Brianna con un tono ironico.Ian sbirciò madre e figlio, studiandoli. C'era una certa tensione tra i due, anche se lei

sorrideva sempre, e il giovane se ne accorse, ma ritenne opportuno non indagare.«Davvero non siete curioso di saperlo?» domandò Brianna, sorprendendolo.Ian si riscosse. «Che cosa?»«Perché mio figlio porta il nome del nemico» continuò lei tranquillamente.«Se non l'ha chiesto è perché non gli interessa» sbottò Coda di volpe, di nuovo teso

come se temesse qualcosa, ma sua madre lo ignorò per guardare solo Ian, sempre con quell'aria sorniona.

«Non voglio intromettermi in faccende personali» replicò il giovane, serio. «E per quanto mi riguarda, non decido mai chi mi è amico o nemico dal nome che porta, che sia straniero oppure no».

«Sagge parole» convenne la donna. «Sarebbe bello se anche mio figlio imparasse a ragionare in questo modo, invece di riservare solo il suo disprezzo a chiunque abbia a che fare con la Francia, a partire da suo padre».

Questa volta guardò il ragazzino, che non rispose. Coda di volpe sembrava preso in contropiede dall'affermazione di Ian e il suo cipiglio si era fatto più incerto.

«Mettiamoci al lavoro» decise infine la madre per sbloccare quel silenzio immobile. «Tu porta il paniere alle altre donne. Sono tutte le radici e le erbe che sono riuscita a trovare. D'inverno non è facile e il terreno è duro».

Il ragazzino esitò ancora e si vedeva che voleva essere lì per evitare che l'argomento spinoso di poco prima fosse approfondito in sua assenza, ma poi capì dal tono che non poteva disobbedire a sua madre e si rassegnò ad allontanarsi in silenzio. Brianna sospirò di nuovo, ma questa volta il suo sorriso tradì una lieve tristezza. «Quando era bambino era tutto molto più facile. Adesso sta crescendo e io comincio proprio a non sapere più cosa fare con lui per togliergli dalla testa certe idee ostinate».

Ian non seppe se la giovane si stesse rivolgendo a lui o solo a se stessa e nell'incertezza non replicò, ma decise di darsi da fare per sistemare il tetto. Brianna comunque non aggiunse altro e tornò da lui ad aiutarlo, porgendogli i rami uno alla volta perché li intrecciasse alle fascine e riempisse i buchi vuoti.

Lavorarono per un po' in silenzio. Ian aveva la costante sensazione di sentirsi studiato in ogni movimento. La cosa lo mise sulle spine, perché si sentì giudicato mentre lavorava. S'impegnò a fare del suo meglio e gli parve anche di essere riuscito a ottenere un buon lavoro, almeno fino quando l'intreccio di rami che credeva di avere fatto a immagine e somiglianza di quelli sul tetto non si disfece miseramente, precipitando all'interno del rifugio e lasciando un buco più grande di quello che doveva coprire. Ian

soffocò un'imprecazione frustrata.Brianna però rise. «Non avete mai intrecciato rami in vita vostra, eh?» commentò e

andò nel rifugio per recuperare i legni caduti, portarli fuori e ricominciare il lavoro da capo. «Vi insegno io. Voi allungatevi a mettere tutto al suo posto» disse a Ian che si era già accostato per aiutarla.

Ricominciarono in modo diverso con la giovane che dirigeva i lavori e Ian che le faceva da garzone.

«Molto meglio, direi» commentò Brianna, quando ebbero finito e Ian ne convenne. Adesso il tetto era senza buchi e sembrava persino un po' più solido.

«Volete che cerchiamo di sistemare anche le pareti?» domandò Ian, ma Brianna scosse la testa e si strinse di più nella sua mantella di lana. «C'è poco da fare per quelle. Bisognerebbe tappare le fessure con l'argilla ma non saprei davvero dove andarla a scavare adesso, col freddo che fa. Comunque non si asciugherebbe mai. Useremo gli stracci dove si potrà e per il resto faremo senza, tanto non resteremo qui a lungo. Almeno spero».

Andò a sedersi sulla pietra dove poco prima stava suo figlio e ravvivò il falò per scaldarsi le mani. Adesso che il lavoro era terminato, anche Ian scoprì di avere freddo e tornò verso il fuoco. Recuperò bisaccia e mantello, ma porse quest'ultimo alla giovane perché si scaldasse.

«Sono già riparata abbastanza, vi ringrazio per la premura» rifiutò però lei con un sorriso. «Indossatelo voi, la vostra tunica non è sufficiente a tenervi caldo».

In effetti, Ian sentiva le spalle gelate. Si copri con il mantello e si sedette su un'altra pietra. Porse a Brianna il vino che gli era rimasto nella bisaccia dal pranzo. «Non è molto, ma è meglio di niente. Sembrate stanca e vi farà bene».

«Questo lo accetto volentieri». La giovane assaporò con calma i pochi sorsi che erano nella fiasca e la tese vuota all'americano. «Vorrei dirvi di me e di Beau» continuò poi inaspettatamente.

«Non siete tenuta a darmi spiegazioni» obiettò Ian. Brianna scrollò le spalle. «Preferisco raccontarvi le cose in

prima persona, tanto comunque le verreste a sapere ugualmente e con parole più spiacevoli della verità» replicò, accennando in modo eloquente agli abitanti indaffarati del villaggio. «E voglio che sappiate tutto prima di accettare davvero l'invito di mio figlio. Così sarete libero di decidere con più consapevolezza se volete rimanere a dormire da noi o cercarvi una sistemazione più conveniente».

Ian si fece molto serio. «Non vedo come dicerie malevoli potrebbero farmi diventare scortese con voi che mi avete dimostrato tanta ospitalità».

La giovane aggiunse un ramo nel falò con calma. «Il padre di Beau era un cavaliere francese e non era mio marito» esordì, senza tanti preamboli. «Eravamo ragazzi entrambi, ma lui, con un titolo della piccola nobiltà sulle spalle, era molto più importante di me, semplice figlia di un calderaio ambulante. Eppure ci amavamo. Lui aveva promesso di sposarmi, anche andando contro la volontà della sua famiglia, ma fu mandato in guerra e morì. A me rimase nostro figlio. Da allora ho viaggiato per molte regioni».

Ian era colpito. «La famiglia di quel cavaliere non ha voluto accettare il bambino? Avrebbe potuto provvedere almeno a lui, era suo dovere».

«Beau non era ancora nato quando il mio Mathieu morì. La sua famiglia non mi volle

nemmeno vedere, arrivò a mettere in dubbio la paternità di mio figlio e io tornai in Inghilterra».

«E tuttavia avete voluto battezzare vostro figlio con un nome francese».Brianna ebbe un'espressione sognante per un attimo. «In onore di suo padre, sì, perché

era un ragazzo gentile e bello. Il était si beau!8 diceva la sua gente e lui lo era davvero. Quando portava l'armatura sembrava san Michele». Spostò lo sguardo di nuovo su Ian e la sua espressione si era fatta fiera. «E mi amava» ribadì.

«Ne sono certo» rispose Ian, sostenendo i suoi occhi con sincerità.La giovane lo indagò per qualche secondo, poi ritornò ad occuparsi del fuoco. «Be',

qui non sono in molti a pensarla come voi. In più ci si è messa la guerra e quindi potete immaginare i commenti di tutti su di me e su mio figlio. Lui naturalmente è quello che ne soffre di più».

E per questo rinnega il suo nome e si impegna a odiare tutto ciò che è francese, concluse Ian tra sé e sé. Deve dimostrare di non essere diverso dagli altri.

«Ho dovuto guadagnare il pane facendo molti mestieri» continuò Brianna. «Mio padre mi aiutò finché poté, mi insegnò anche il suo lavoro, poi però rimasi sola e dovetti arrangiarmi a tirare avanti. Non è stato facile né lo è adesso, ma nonostante tutte le dicerie che possono circolare su di me, non ho mai fatto nulla di disonesto. Questo ve lo posso giurare sul Vangelo».

«Risparmiate i giuramenti per i maligni, io non ne ho bisogno» le rispose Ian. «Posso solo ammirarvi per la forza con cui avete avuto cura di vostro figlio, nonostante tutto».

Brianna meditò sulle sue parole, poi finalmente gli sorrise di nuovo. «Mi pare di capire che vi avremo ospite, allora».

«Solo se la cosa non vi crea ulteriori difficoltà» puntualizzò Ian.«Non credo». Brianna ebbe una breve risata. «Il lato positivo di avere una pessima

reputazione è essere liberi di fare ciò che si vuole in barba alle convenienze!»Ian dovette sorridere con lei, ma si chiese nel frattempo quanto dovesse aver già

sofferto quella donna, nonostante tutta la sua spavalderia. La gente certo non era stata generosa con una ragazza sola e madre di un figlio illegittimo e l'atteggiamento di tutti verso Brianna e Beau Coda di volpe era ancora più che eloquente.

Il ragazzino ritornò in quel momento, di corsa. «È arrivata la gente di Aversly!» annunciò, indicando a Ian l'agitazione improvvisa nel centro dell'accampamento.

8 Era così bello!

Capitolo 15Non c'era niente da fare, Daniel dovette rassegnarsi. Aveva esaminato mille volte ogni

singola pietra della sua prigione, ma senza trovare la benché minima idea per evadere. Le sbarre erano solide, la serratura della porta inattaccabile senza strumenti adatti. La pietra non aveva aperture, a parte il foro sul pavimento che serviva da latrina. Bisognerebbe essere un topo per uscire da qui, concluse Daniel con rabbia e si ributtò a sedere sul pagliericcio per l'ennesima volta, sfregandosi le braccia doloranti.

Martewall non era più tornato, eppure dall'interrogatorio era trascorsa quasi una giornata intera.

Daniel non sapeva se essere felice o preoccupato di quell'assenza: il cavaliere inglese poteva essersi convinto di aver commesso un atto grave e ingiustificabile nel tenere prigioniero chi in realtà era innocente da ogni colpa, oppure più semplicemente poteva aver deciso di far impiccare il suo ostaggio senza più interrogarlo perché si era persuaso di non poter ottenere niente di utile da lui.

Se uscirò mai vivo da qui, spero che mi capiti tra le mani, pensò Daniel con rancore, guardandosi i segni sui polsi lasciati dalle corde dei suoi aguzzini.

Se non altro, almeno i carcerieri gli avevano portato da mangiare e da bere. Un soldato in divisa nera era comparso dopo l'interrogatorio e aveva aperto la cella per posare in terra una pagnotta e una ciotola d'acqua, che non passava attraverso le sbarre fitte. Poi se n'era andato senza rivolgere una sola parola al prigioniero, chiudendosi la porta alle spalle. Naturalmente, insieme al cibo non era stata portata alcuna posata che potesse in qualche modo essere utile per una fuga.

Daniel estrasse da sotto il pagliericcio l'estremità della verga spezzata che Martewall aveva gettato in terra e poi dimenticato lì quando se n'era andato. Era riuscito a staccarne e nasconderne un pezzo, prima che il soldato arrivasse, e aveva lasciato il resto sul pavimento per non insospettire nessuno con la sua sparizione, nel caso gli uomini di Martewall se ne fossero ricordati.

Il soldato infatti ne aveva raccolto i pezzi senza osservarli, gettandoli fuori portata oltre le sbarre, e poi se n'era andato. Non si era accorto che alla verga mancava una piccola parte.

Daniel osservò il frammento che gli era rimasto in mano: era lungo un po' più di una spanna ma era legno troppo leggero per poter servire a qualcosa contro la serratura o le sbarre di ferro, eppure era l'unico oggetto che avesse a disposizione.

Tante precauzioni per nasconderlo e adesso cosa me ne faccio? si domandò, cupamente, rigirandosi il frammento nelle mani per poi abbandonarlo li accanto.

Frustrato, si sdraiò sul pagliericcio a guardare il soffitto. Per puro scrupolo, ma senza alcuna aspettativa, tentò di chiamare Hyperversum. Il gioco, naturalmente, non gli rispose.

Vorrei tanto capire perché, si disse Daniel per l'ennesima volta e lasciò ricadere la mano con stizza.

Qualcosa gli causò dolore, facendolo sobbalzare.Il giovane si sollevò su un gomito per accorgersi di aver colpito col palmo della mano

il frammento di verga. Il bordo irregolare, là dove la verga era spezzata, gli aveva procurato una ferita piccola ma netta e fastidiosa.

Daniel imprecò mentalmente, poi si leccò la ferita che aveva iniziato a sanguinare.

Nel frattempo, però, riportò la sua attenzione sul pezzo di legno e lo riprese in mano.Aveva un bordo tagliente, notò, passando la punta di un dito lungo la parte scheggiata.Corrugò la fronte, mentre un'idea gli aleggiava nella testa. Sfregò il legno sulla pietra

ruvida del pavimento e vide che riusciva a limarlo senza che si frantumasse. L'idea prese corpo. Forse, con un po' di fatica e molta attenzione, avrebbe potuto dare a quel pezzo di verga la forma che gli serviva.

La luce calava d'intensità attraverso la feritoia sul muro di fronte alle sbarre, indicando che la giornata stava per finire.

Daniel guardò il buio avanzare e continuò a sfregare il legno sulla pietra.

***

Intorno ai falò di Willingham si era fatto scuro. Solo gli uomini erano rimasti seduti a discutere, mentre le donne si erano ritirate nelle capanne con i bambini a dormire, sperando di difendersi dal freddo.

L'arrivo della carovana di Aversly aveva aggravato il problema dei ripari per la notte, troppo pochi per l'aumentato numero di persone dell'accampamento, ma almeno aveva alleviato quello del cibo poiché gli abitanti dell'altro villaggio avevano potuto portare con sé le loro scorte e le avevano divise con i vicini.

I cacciatori avevano raggiunto il gruppo guidato da Bull in tempo per avvertirli di non andare verso Dunchester e così la carovana era arrivata a Willingham, formando un unico accampamento di sfollati senza più dimora. Si erano dati tutti da fare per rimediare il più possibile alle condizioni davvero disagevoli e lavorando sodo vi erano in parte riusciti, costruendo qualche capanna in più e adattando alla meglio quelle già presenti. Erano riusciti anche a mettere in piedi un rudimentale riparo per gli animali da soma e da tiro e anche il cavallo di Ian era stato ospitato insieme agli altri, per proteggerlo meglio dal freddo.

Infine, dopo aver lasciato mangiare donne e bambini per primi, gli uomini erano rimasti soli a finire la cena e, soprattutto, a decidere cosa fare l'indomani, che si prospettava incerto.

Thomas Bull sedeva accanto a Ian, sulle pietre poste vicino ai falò come sedili.Il boscaiolo era stato molto felice di ritrovare l'americano e l'aveva salutato con

calore, contento di rivederlo sano e salvo e riconoscente perché grazie a lui tutta la gente di Aversly aveva potuto evitare di finire sulla strada dei soldati del re.

Adesso i due erano seduti fianco a fianco, consumando la cena insieme agli altri uomini e ascoltando i loro discorsi cupi.

Coda di volpe, naturalmente, era accoccolato a poca distanza da entrambi e non perdeva una sola parola della discussione in atto.

Non era più un bambino, aveva ricordato a sua madre quando Brianna aveva cercato di convincerlo ad andare a dormire con lei, e perciò si era ostinatamente seduto ai piedi di Ian, senza più ascoltare ragioni. Alla fine Brianna aveva dovuto rassegnarsi, ma aveva ceduto solo perché Ian le aveva promesso di non far andare il ragazzino a dormire troppo tardi. E così Coda di volpe mangiava in silenzio accanto agli uomini, come un cucciolo desideroso di imparare e avido di ascoltare i loro discorsi.

La discussione era tetra e verteva su un solo argomento: i soldati del re, la razzia della notte precedente e la battaglia che stava per abbattersi su Dunchester. Gli uomini erano

preoccupati perché non sapevano in che direzione portare le loro famiglie per metterle al sicuro.

Ian ascoltava i discorsi con poca attenzione mentre mangiava la zuppa calda che gli era stata offerta in una ciotola, totalmente perso dietro il suo pensiero principale. Per lui non si poneva il problema di scegliere in che direzione andare poiché non poteva fare altro che dirigersi verso Dunchester e raggiungere Daniel in qualche modo, prima che gli accadesse il peggio. Peccato però che l'amico fosse tagliato fuori dal mondo, visto che era rinchiuso in un maniero con un intero esercito intorno.

Da solo non ce la farò mai, fu la conclusione lucida a cui giunse alla fine. Doveva trovare un aiuto esterno, ma proprio non sapeva dove né come.

«Io dico di andare al castello e aiutare sir Martewall nella difesa».Quelle parole, pronunciate da uno dei cacciatori proprio in quel momento, fecero

alzare gli occhi a Ian, strappandolo dalle sue considerazioni. Il giovane vide che l'opinione non era isolata tra gli uomini e che in molti annuivano, nonostante le facce spaventate degli altri.

Coda di volpe aveva già drizzato le orecchie con interesse estremo.«Sir Martewall ci ha protetti dai mercenari del re finché ha potuto, adesso tocca a noi

fare fronte comune per difendere Dunchester» continuò il cacciatore. «Se il castello si salverà, allora anche le nostre famiglie potranno trovarvi riparo e sopravvivere».

«Dunchester non si salverà» obiettò però un altro uomo. «Come potrebbe, da solo contro l'esercito del re?»

«L'esercito del re è poca cosa, dopo che i Francesi l'hanno decimato. I suoi soldati sono quasi tutti prezzolati, mentre i nostri cavalieri sono ancora prigionieri di là dalla Manica oppure sono tornati ai loro feudi dopo la sconfitta. Non molti di loro risponderanno al richiamo alle armi del Senza Terra che li ha umiliati».

«Di sicuro non verranno per combattere un altro barone inglese. Non se la sentiranno di alzare le armi contro chi porta sul blasone il leone di re Riccardo» aggiunse Bull e il suo intervento fece voltare Coda di volpe, con gli occhi brillanti di aspettativa.

«Voi dite davvero?» domandò eccitato il ragazzino.«Puoi scommetterci» gli rispose l'ex-soldato. «Il Senza Terra assalterà Dunchester, ma

lo farà senza l'appoggio degli altri baroni».Probabile, visto che in molti hanno già deciso di rivoltarglisi contro, pensò Ian, in

silenzio cupo. Il re comunque ha forze più che sufficienti per mettere a ferro e fuoco il castello e farla pagare cara ai suoi difensori.

«I mercenari sono farabutti inaffidabili» stava dicendo un secondo cacciatore. «Non combattono più, se trovano una resistenza decisa. A loro importa solo di essere pagati e non rischiano la pelle quando possono evitarlo».

«Tu che ne dici?» domandò Bull a Ian, mentre gli altri discutevano animosamente. Coda di volpe pendeva dalle labbra di entrambi.

«Sarà un massacro» rispose il giovane americano, cupo, deludendo il ragazzino. «Non avete armi adeguate e nemmeno un addestramento militare, come pensate di poter combattere contro mercenari esperti? Molti di voi moriranno».

«Molti di noi sono già morti» lo corresse però duramente un uomo che l'aveva udito. «Io ho perso mio fratello stanotte e altri hanno visto morire un padre o un amico».

Da quella frase si levò un susseguirsi di storie, che ricordavano i cari e i conoscenti uccisi in guerra o dagli sgherri del re e le infinite angherie subite dopo la scomparsa di

Riccardo Cuor di Leone. La discussione si generalizzò e diventò più accesa. Le voci ostili ebbero il sopravvento su quelle spaventate o prudenti.

«Dobbiamo difenderci anche con le armi. Abbiamo già sofferto abbastanza!»«Vendichiamo i nostri morti!»«Il re non può trattarci come animali!»«Meglio morire che vivere da schiavi!»Ian si ritrovò circondato da quelle voci e capì che non era in suo potere dissuadere

quella gente dall'andare verso la ribellione armata e la guerra civile. Avevano tutti sofferto già troppo e la Storia voleva che ponessero un freno con le armi al dispotismo di re Giovanni. Bull continuava a guardare il giovane, aspettando una sua decisione e così faceva Coda di volpe, quasi trattenendo il fiato.

«Verrò con voi» disse Ian alla fine. «Sarei andato a Dunchester comunque. Spero che il mio aiuto, per quanto povero, possa esservi utile in qualche modo».

«Sì!» esultò Coda di volpe.Ian non gli badò, stava riflettendo sull'ironia della sorte che lo portava a difendere il

castello del suo nemico.Ma non ho scelta, se voglio sperare di avere almeno un'occasione di entrare a

Dunchester, si disse amaramente. Se mi mischio alla gente di Aversly e Willingham, forse Martewall non mi noterà e io riuscirò a raggiungere Daniel in qualche modo.

Anche così però rimaneva l'incognita di come uscire poi dal castello, ma Ian preferì ignorare quel pensiero. Poteva affrontare solo un problema insolubile alla volta e trovare Daniel era l'obiettivo principale nella sua testa. Per il resto si sarebbe affidato alla fortuna e alla Provvidenza, quando sarebbe stato il momento.

La riunione intanto si era trasformata del tutto naturalmente in un consiglio di guerra.«Abbiamo solo poche spade, quelle prese ai soldati uccisi, ma di archi e fionde ce ne

sono in abbondanza e ne possiamo preparare altri» ricordò Bull a tutti. «Non possiamo attaccare i mercenari corpo a corpo, ma possiamo tenerli sotto tiro da lontano. Non si aspetteranno di essere assaliti da dietro o dai fianchi, non sanno che ci stiamo organizzando e non ci temono».

«Arcieri rapidi a tirare possono tenere in scacco un numero notevole di fanti e persino di cavalieri» aggiunse Ian e parlava per esperienza. Aveva già visto cosa potevano fare nugoli di frecce ben tirate sui guerrieri a piedi o a cavallo, per quanto protetti, ed era un ricordo di guerra agghiacciante. Cercò di scacciare dalla testa la memoria dei sibili striduli che piovevano dal cielo per falciare uomini e bestie tutto intorno a lui a Bouvines e continuò: «Se tra di voi ci sono balestrieri, ancora meglio. Potranno tirare più frecce e con maggiore efficacia, li useremo per mirare agli ufficiali e ai cavalieri, visto che avranno più possibilità di trapassare le cotte di maglia».

Accanto a lui, Bull annuì, approvando le sue parole. Da ex-soldato doveva aver avuto fin troppo l'esperienza diretta di ciò che Ian spiegava. «Purtroppo non abbiamo un numero infinito di frecce e non riusciremo a prepararne molte di più prima della battaglia. Dovremo usare con attenzione quelle che abbiamo disponibili e badare bene a non sprecarle. Per le pietre da fionda, invece, non credo che ci saranno problemi».

«E quelli di noi che non hanno archi o balestre, ma solo armi da taglio?» domandò qualcuno.

«Dovranno procurarsi armi da lancio oppure rassegnarsi a rimanere nelle retrovie ad aiutare i tiratori finché sarà possibile» disse Ian. «Non potete affrontare in campo aperto

soldati bene armati e protetti dalle cotte o dai corpetti: vi fareste solo ammazzare inutilmente. Aiutate gli arcieri o i frombolieri piuttosto, perché non restino mai senza frecce o pietre. È fondamentale che le raffiche delle vostre armi siano sempre costanti, perché non appena i mercenari si accorgeranno di voi, vi si getteranno contro e, se non riuscite a tenerli a distanza, sarà una carneficina».

«Dobbiamo trovare il modo di rimanere al riparo il più possibile» aggiunse Bull. «Qualcuno conosce la conformazione esatta del castello di Dunchester e del territorio che vi sta intorno?»

In molti tra gli uomini di Willingham risposero affermativamente, poiché avevano avuto modo spesso di andare al castello per vendere o comprare cibo e merci. In breve si riunirono intorno al falò più grande, quello che proiettava più luce, e con rami, sassi e solchi sul terreno disegnarono una rudimentale piantina dei castello.

Coda di volpe andò a gattoni a guardare da vicino. Anche Ian si protese verso la mappa, ascoltando con attenzione la descrizione che gli uomini facevano ad alta voce. «Il castello è ancora in costruzione?» domandò sorpreso, quando gli fu detto che la cinta di mura esterna non era ancora stata completata.

«È in via di ampliamento» gli risposero. «Era una rocca piccola, ma re Riccardo concesse alla città lo statuto di porto mercantile e quindi si iniziarono i lavori per ingrandire il borgo sul mare e quello intorno al castello. Poi però il Cuor di Leone mori e, da quando suo fratello salì al trono, divenne sempre più difficile avere il denaro sufficiente per terminare i lavori sulle mura. Alla fine sir Martewall ha preferito che gli uomini si dedicassero a coltivare la terra e allevare bestiame, piuttosto che terminare l'ultima cinta muraria».

Anche perché non si aspettava di doversi un giorno difendere dal suo stesso re, immaginò Ian.

«È un grosso problema per il castello, ma almeno avvantaggia noi» disse Bull. «Le truppe del re avanzeranno direttamente fin sotto le torri principali, ma anche noi potremo entrare dietro di loro senza fatica e prenderli di sorpresa. Saranno presi tra due fuochi e non potranno disperdersi perché non potranno scavalcare tanto facilmente il cerchio delle mura in costruzione, specie con i cavalli».

Una trappola, pensò ancora Ian, studiando la conformazione del castello, e cercò di immaginarsi cosa avrebbe proposto il conte Guillaume de Ponthieu se fosse stato al posto suo. In quel momento avrebbe davvero avuto bisogno della sua esperienza da stratega. «La porta frontale delle mura esterne è senza cancelli o portoni, giusto?» domandò.

«Sì. Non c'è nemmeno un vero fossato. Da quella parte le mura sono alte poco più di un uomo e le torri hanno le impalcature».

«Quindi le truppe del re entreranno dalla porta e proseguiranno dritte per il castello, senza dover perdere tempo a occuparsi della prima cinta» continuò Ian. «Noi però potremmo salire sulle mura e bersagliare i mercenari da lì. Visto che la parte costruita non è tanto alta, possiamo arrivarvi sotto da fuori e scalarla, poi le impalcature proteggeranno i tiratori. Prenderemo i soldati di sorpresa di lato».

«E se dovessero tentare di attaccarci potremmo scappare balzando giù dalle mura e mettendoci in salvo nel bosco prima che i soldati a piedi possano arrampicarsi per scavalcare il muro, o quelli a cavallo fare il giro per uscire dalla cinta attraverso la porta. Non è male come idea, potrebbe anche funzionare» approvò Bull, grattandosi il mento

ispido mentre rifletteva.Il piano di battaglia prese corpo per suggerimenti successivi, mentre gli uomini

aggiungevano dettagli e proposte e decidevano come dividersi il lavoro per preparare tutto il necessario. Dovevano fare in fretta poiché l'esercito del re senza dubbio avrebbe attaccato l'indomani, probabilmente dopo aver tentato di negoziare un'improbabile resa con i signori del castello.

Ci sarebbe stato da lavorare per buona parte della notte.Ian lasciò discutere gli altri, delegando il ruolo dell'organizzatore a Bull, mentre tra sé

e sé cercava di studiare il resto del piano, quello che coinvolgeva solo lui. Con gli occhi fissi sulla mappa del castello di Dunchester si chiedeva come fare per poter proseguire oltre durante la battaglia e varcare anche il ponte levatoio che divideva il maniero dal resto dell'agglomerato urbano. Doveva entrare al castello in qualche modo, ma non poteva farlo fintanto che il cancello fortificato del maniero fosse rimasto chiuso.

Doveva sperare che la battaglia dell'indomani si risolvesse con la sconfitta dei mercenari, solo così forse i difensori del castello avrebbero aperto i portoni per inseguire i nemici in fuga e, probabilmente, accogliere gli sfollati all'interno del castello.Il suo pensiero andò automaticamente a Daniel. Giuro che ti tirerà fuori da lì, in un modo o nell'altro.

«Allora domani ci sarà battaglia» lo distrasse la voce di Coda di volpe.Ian rialzò gli occhi per vedere che il ragazzino era tornato accanto a lui e lo guardava

trepidante. Quello che notò nel suo sguardo non gli piacque affatto e lo mise in allarme.«Sì, ci sarà battaglia, ma non per te» replicò Ian, severo. «Tu resterai con tua madre e

il più lontano possibile da Dunchester».L'espressione di Coda di volpe si trasformò immediatamente per la delusione. «Ma io

sono un buon tiratore, voi lo sapete! Posso esservi utile!» protestò.«No. Tu non verrai con noi. E adesso te ne vai a letto». «Ma...»«A letto. Ora». Ian indicò le capanne con un gesto che non ammetteva repliche.Coda di volpe guardò prima Ian poi tutti gli altri uomini, che si erano

momentaneamente interrotti nell'udire il tono dell'americano farsi d'acciaio in quella piccola discussione.

«Gli adulti devono discutere e i bambini vanno a dormire» disse Thomas Bull, in risposta alla muta richiesta d'appoggio che il ragazzino rivolse con gli occhi intorno a sé.

In molti annuirono e Coda di volpe capì che non sarebbe mai riuscito a farsi ascoltare. Si alzò in piedi, offeso e arrabbiato, con i pugni serrati.

«Se non ti trovo a letto quando torno, te la vedrai con me, oltre che con tua madre» minacciò Ian, deciso a tutto pur di allontanare il ragazzino da quella riunione di guerra, che gli aveva già messo in testa troppe fantasie pericolose.

Coda di volpe non osò replicare, ma gli lanciò uno sguardo furioso e poi scappò via di corsa.

«Sì, testa calda com'è, quel ragazzino prima o poi si metterà davvero in guai seri» commentò Bull di fianco a Ian.

***

Quella notte, molto tardi, quando Ian entrò piano nella capanna dove avrebbe dormito, fu sollevato nel vedere che Coda di volpe era davvero lì e dormiva rannicchiato sul

pagliericcio accanto a sua madre. Il ragazzino aveva un'espressione scontenta anche nel sonno e Ian riuscì a vederla alla luce sommessa del falò che ancora ardeva nel cerchio di pietre al centro della capanna.

Il giovane chiuse con cura la porta fatta con i rami intrecciati e si sedette sullo strato di foglie che era stato destinato a lui per dormire.

C'era anche una coperta ripiegata li vicino e Ian vi si avvolse ancora prima di sdraiarsi. Mise anche qualche ramo in più nel fuoco perché durasse ancora qualche ora, almeno fino all'alba.

La temperatura era tutto sommato accettabile all'interno della capanna e avrebbe consentito di dormire abbastanza tranquillamente.

Ian si passò la mano sul viso stanco, mentre rimaneva seduto per qualche minuto.Dormire, sì, ne aveva un bisogno assoluto, specie pensando alle incognite

dell'indomani.La riunione tra gli uomini era finita dopo aver deciso i turni di guardia intorno

all'accampamento, aver preparato archi e frecce in più e recuperato dalle case distrutte ogni attrezzo che potesse trasformarsi in un'arma. Si erano divisi gli uomini che sarebbero andati in guerra da quelli che invece sarebbero rimasti a proteggere le famiglie e l'accampamento. In tutto, una cinquantina di uomini armati si sarebbe diretta a Dunchester alle prime luci dell'alba, lasciando indietro pressoché solo i più anziani e i feriti.

Thomas Bull, naturalmente, era tra quelli che sarebbero andati a combattere e, nonostante avesse lasciato la vita da soldato da molto tempo, sembrava prontissimo a buttarsi in una battaglia.

A Ian invece sembrava di non esserlo affatto.Eppure sono cavaliere, dovrei essere preparato, si disse il giovane, ma allo stesso

tempo ringraziò il cielo di non essere ancora abituato a vedere morti e feriti, violenza e sangue, e sperò di non arrivare ad abituarvisi mai.

Guardò Coda di volpe, che invece era tanto desideroso di partecipare a una guerra, con l'ingenua esuberanza dei suoi tredici anni.

Sta' alla larga più che puoi da tutto questo, pensò Ian e si allungò oltre il falò, nella piccola capanna, per aggiustare la coperta sulle spalle del ragazzino che dormiva. Nel farlo, si accorse che Brianna era sveglia e lo guardava. La luce del fuoco si rifletteva negli occhi verdi.

«Grazie» gli fece capire lei, muovendo solo le labbra e accennò in modo eloquente al figlio addormentato al suo fianco.

Ian le sorrise e annuì, poi si sdraiò per dormire.

Capitolo 16L’alba arrivò prestissimo, o almeno così parve a Ian, che vide il buio schiarire

attraverso le fessure nelle pareti sconnesse della capanna.Il fuoco si era quasi spento e nel rifugio cominciava a fare freddo. Il giovane si

risollevò su un fianco per ravvivare le fiamme con gli ultimi rami e poi si alzò, piano per non svegliare Brianna e Coda di volpe che dormivano ancora, rannicchiati l'uno nelle braccia dell'altra.

Fuori, anche il resto del villaggio era addormentato e solo qualche uomo passava come un'ombra tra le capanne, tornando dai turni di guardia.

Il sole non era ancora apparso nel cielo, ma le nuvole si erano già orlate di rosa e le cime degli alberi emergevano dal buio. La temperatura era decisamente bassa e Ian si strinse sulle spalle la coperta che aveva tenuto addosso, per sfruttarne il calore ancora un po'.

Si ravviò i capelli con la mano e poi se la passò sulle guance, sentendole pungere. Aveva una voglia disperata di lavarsi, ma non era certo il caso di trovarsi un fiume in cui fare il bagno, col freddo che faceva. Si sarebbe accontentato di un secchio d'acqua, nonostante la temperatura.

Andò verso il pozzo deserto e attinse l'acqua che poi rovesciò nel truogolo in cui il giorno prima avevano fatto abbeverare gli animali. C'erano anche alcuni stracci lì accanto, Ian ne scelse uno pulito e infine, raccogliendo il coraggio, si spogliò a torso nudo.

Il freddo gli morse la pelle e lo fece rabbrividire, ma il giovane immerse ugualmente lo straccio nell'acqua e cominciò a lavarsi coscienziosamente.

Lo fece come se fosse una specie di rito, cercando di concentrarsi su ogni singolo gesto, nel silenzio dell'accampamento ancora mezzo addormentato.

Con il pensiero della battaglia incombente, sentiva l'assoluta necessità di prepararsi, per affrontare il suo ritorno alle armi. Il suo vero ritorno nella pelle di un cavaliere.

Quando ebbe finito, rimase per un attimo appoggiato al truogolo a fissare il proprio riflesso nell'acqua, alla luce dell'alba ormai iniziata. Aveva la pelle gelata, ma una grande determinazione dentro e la totale consapevolezza di quello a cui stava andando incontro.

Sarebbe stato un giorno di sangue, ma l'avrebbe affrontato con tutta la forza d'animo che aveva.

Sono pronto, si disse.«Quelle sì che sono cicatrici».Ian si voltò di scatto verso la voce che l'aveva colto di sorpresa alle spalle. Vide

Brianna con un secchio sottobraccio e un sorriso astuto sulle labbra: veniva a prendere l'acqua al pozzo, ma in quel momento sembrava interessata a tutt'altro.

Ian si drizzò per andare a coprirsi, ma tra lui e gli abiti lasciati sul bordo del pozzo si era spostata la donna. Lei appoggiò il secchio a terra per andargli incontro. Gli prese una spalla con la mano e lo costrinse a ruotare il torso. «Come ve le siete procurate?» domandò, senza alcun turbamento. Sembrava semplicemente curiosa. «È opera di una frusta».

«Sì» ammise Ian, a disagio. «E stato tanto tempo fa». Si spostò con decisione per andare a recuperare la camicia e la tunica e finire di vestirsi.

«Che avete fatto per meritarvi una cosa del genere?» domandò ancora lei, sempre con quel suo sorriso sornione. «Non siete il tipo da commettere crimini: ho l'occhio fino, io, nel giudicare gli uomini».

Ian capì che non si sarebbe liberato di lei semplicemente cercando di evitare l'argomento. «Mi sono messo contro uno sceriffo per difendere una ragazza e lui me l'ha fatta pagare» riassunse, mentre si allacciava i vestiti.

«Uno sceriffo. Nientemeno». Brianna aveva notato che lui non la guardava negli occhi mentre lo diceva, così come aveva colto il suo disagio. Non chiese nomi, dettagli o luoghi, ma nemmeno si allontanò. «Avete messo in salvo la ragazza, almeno? Vi è stata riconoscente? Sì, lo sarà stata senz'altro, con un bel cavaliere come voi» domandò e si rispose da sola, con malizia.

«Io non sono un cavaliere» replicò Ian, stavolta girandosi, in allarme.«Oh, sì che lo siete. Non ho dubbi». Brianna ebbe una risatina. «Che altro potreste

essere? Un uomo con un corpo muscoloso come il vostro: dovrei credere che è un contadino? Un artigiano? Chissà, magari un impagliatore, vista l'abilità che avete con rami e fascine!»

«Oppure uno scrivano. E se vi dicessi che sono uno storico?»«Riderei. Vi smentisce quello che avete fatto ad Aversly e poi nel bosco prima di

arrivare qui a Willingham».«Nel momento del pericolo chiunque può brandire una spada e difendersi» tentò

ancora di obiettare Ian, ma aveva già capito che Brianna non avrebbe mai abbandonato la convinzione a cui era giunta. Aveva uno sguardo troppo saputo negli occhi chiari.

«E quanti uomini, a parte quelli di spada, s'inginocchiano a venerare san Giorgio?» insinuò la giovane.

A quel punto, Ian ebbe la certezza di essere stato spiato due giorni prima, nella cappella in mezzo al bosco.

«Me l'ha detto Beau» confermò Brianna, intuendo il suo sospetto. «Vi ha visto mentre pregavate».

Si accostò ancora a Ian per allacciargli la tunica al posto suo. Quando ebbe finito però, gli lasciò le dita posate sul petto. Alzò gli occhi per cercare quelli del giovane, così più alto di lei. Sorrideva sempre e in quel momento aveva un fascino felino.

«Da tanto tempo non vedevo un cavaliere così da vicino. E così bello, poi. La cosa mi fa un certo effetto».

Seguì un silenzio denso di significato. Ian prese un bel respiro. «Vi prego, fermiamoci qui, Brianna».

«Perché? Non mi ritenete adatta a voi, forse? Oppure non sono abbastanza bella?» replicò lei, ma non era offesa e nemmeno scoraggiata. La sua mano era calda anche attraverso la stoffa della tunica, proprio sul cuore. «Non temete: non vi chiederei mai un impegno che non potreste mantenere. Non sono più la ragazzina che sogna il grande amore e mi sento ormai troppo libera per adattarmi a un legame. Però mi piacerebbe avere un po' di compagnia e un uomo come voi in casa farebbe bene anche a Beau».

Ian le prese la mano per allontanarla, pur senza essere rude. «Voi meritate il migliore degli uomini e siete bellissima. Mentirei se dicessi che non vi trovo attraente. Ma non posso ascoltare queste vostre parole: sono sposato e amo mia moglie».

Brianna piegò leggermente il capo di lato, imperturbabile. «E quella ragazza, vero?»«Sì». Ian sentì come sempre una fitta struggente di nostalgia al pensiero di Isabeau.

«Non la vedo da un tempo infinito».«E siete sicuro che lei vi sia rimasta fedele?» insinuò Brianna. Non lo disse con

cattiveria: giocava, divertendosi a stuzzicare il suo bersaglio.Ian la guardò, serio. «Con che diritto potrei chiederle di essermi fedele, se io per

primo vengo meno alla promessa fatta davanti all'altare?»Il sorriso si allargò sul volto di Brianna. La giovane liberò la mano da quella di Ian.

«Siete un uomo d'onore, tutto d'un pezzo: devo rassegnarmi, a quanto pare» commentò, divertita.

Tacque per un po', mentre per gioco lisciava la tunica dell'americano come si fa con gli abiti dei bambini quando glieli si aggiusta addosso. Il suo sorriso si era fatto pensoso. «Vi ringrazio, sapete? Con il vostro comportamento mi date una speranza» aggiunse alla fine. «Se tra i cavalieri ci sono uomini come voi, allora posso davvero credere che anche il mio Mathieu fosse sincero, quando diceva che mi sarebbe rimasto sempre fedele, nonostante tutto».

«Avrebbe mantenuto la sua parola, io ne sono certo» rispose Ian.Brianna s'illuminò con riconoscenza, prima di lasciarlo. Andò a raccogliere il suo

secchio per riempirlo con l'acqua attinta al pozzo. «Non temete: potete continuare a far credere agli altri ciò che volete, io terrò la bocca chiusa su tutto» disse, prevenendo ogni richiesta.

«Grazie. E molto importante per me» le rispose Ian, con sollievo.Lei si voltò un'ultima volta a guardarlo. «Ditemi solo una cosa: è morto, almeno?»«Chi?»«Lo sceriffo che minacciava la vostra bella e che vi ha marchiato la schiena a

frustate».Un'ombra scura passò negli occhi di Ian. «Sì. E' morto. L'ho ucciso io».Brianna s'incamminò, leggera. «Non avevo dubbi. Siete un uomo che dà molte

soddisfazioni, sir Ian».L'americano la guardò ritornare al rifugio, poi però si voltò verso il rumore furtivo che

aveva appena udito tra due capanne li vicine. «Sei un ficcanaso» disse ad alta voce, ma senza troppa durezza, ponendosi le mani sui fianchi.

Da dietro le costruzioni fece capolino Coda di volpe, rosso in faccia come lo era nei capelli.

«Mi hai spiato anche stavolta» accusò Ian.«Non l'ho fatto apposta, giuro! Passavo di qui per caso...» si difese il ragazzo, ma le

sue giustificazioni gli morirono sulle labbra sotto l'occhiata severa dell'americano.«Eri passato per caso davanti alla cappella di San Giorgio ieri l'altro, questo te lo

concedo» continuò Ian. «Ma oggi non hai scuse».Il ragazzino era sempre più rosso. Eppure era divorato dalla curiosità e glielo si

leggeva negli occhi. «Siete davvero un cavaliere!» disse, incapace di nascondere la sua voglia di avere altri particolari.

«Sì, ma ricorda ciò che ha promesso tua madre. Nessuno deve saperlo».Adesso l'accampamento si stava svegliando e tra le capanne cominciava a muoversi

gente. Ian si guardò intorno, come per assicurarsi che nessuno fosse a portata di voce.«Terrò anch'io la bocca chiusa, lo giuro!» si affrettò a rispondere il ragazzino.«Tu giuri un po' troppo spesso». Ian gli lanciò un'occhiata burbera, poi si ributtò sulle

spalle la coperta e s'incamminò. Coda di volpe gli andò dietro. «Allora, se siete

cavaliere, venite dalla guerra! Siete stato in Francia, non potete averla evitata... Quello che raccontavate della battaglia di Bouvines, l'avete visto di persona!»

«Basta con le domande» l'interruppe Ian subito. «Non intendo parlare oltre di me stesso, sono stato chiaro?»

Coda di volpe abbassò gli occhi subito, mortificato, e per qualche istante non parlò. «Anche mio padre era un cavaliere, ma è morto prima che nascessi e io non l'ho mai visto» mormorò alla fine.

Ian si pentì di essere stato tanto brusco. «Non conoscerai tuo padre attraverso me, per quante domande tu mi possa fare» continuò, cercando di rimediare.

Coda di volpe non disse niente.Un pensiero colpì Ian: anche mio figlio sarebbe cresciuto con lo stesso rammarico, se

io non fossi mai riuscito a tornare di qua attraverso Hyperversum?Il giovane si fermò a guardare Coda di volpe negli occhi.«Io non so chi fosse tuo padre, ma tu non puoi giudicarlo solo sulla base del paese a

cui apparteneva e delle dicerie che girano sui Francesi dopo la guerra. Era un cavaliere e ti deve bastare. Devi essere fiero di lui e dell'amore che aveva per tua madre. Anche lei lo amava e sapeva che uomo era: devi fidarti di ciò che lei ti dice».

Il ragazzino sollevò il mento, cercava di mostrarsi forte ma nel frattempo si mordeva il labbro. «Anch'io voglio essere coraggioso e forte come un cavaliere».

Ian capì dove voleva andare a parare e gli prese le spalle tra le mani. «Lo farai quando sarai abbastanza grande, adesso è troppo presto e comunque tu non devi dimostrare niente a nessuno, lo vuoi capire?»

«Io sono già abbastanza grande» tentò di obiettare Coda di volpe.«No, non lo sei e non hai la minima esperienza né la preparazione per affrontare una

battaglia. Vuoi davvero dare questa angoscia a tua madre? Lei adesso ha solo te. Se ti dovesse succedere qualcosa, ne morirebbe».

Il ragazzino lo guardava con gli occhi lucidi, diviso tra due sentimenti.«Un vero cavaliere sa quando può o non può affrontare una battaglia» insisté Ian.Coda di volpe annuì e abbassò di nuovo la testa, senza più dire altro.Ian si sentì chiamare. Era Thomas Bull.«Pronto a partire?» gli domandò l'ex-soldato da lontano. Il giovane annuì. «Sì.

Prontissimo».«Allora mangiamo qualcosa e andiamo».Ian si voltò un'ultima volta verso Coda di volpe. «Torna da tua madre. Proteggila. E

questo il tuo dovere adesso».Poi si allontanò per andare ad armarsi.

***

Daniel aspettava i passi del carceriere ormai da un paio d'ore, da quando aveva visto il buio attenuarsi attraverso la feritoia nel muro di fronte alla sua cella.

Non si mosse da dov'era e rimase in attesa.La notte era stata agitata per il castello: persino Daniel se n'era accorto, perché durante

tutte le ore del buio aveva udito voci, ovattate ma distinte e concitate, chiamarsi e darsi ordini da lontano. C'erano stati rumori, di cavalli, di utensili e di lavoro frenetico, e passi di molti stivali pesanti sul piazzale di pietra.

Tutto quel trambusto non era un buon segno e il, giovane aveva tentato invano di capire cosa stesse succedendo per mettere tanto in allarme tutto il maniero.

Poi, all'alba, era sceso un silenzio totale.La quiete prima della tempesta? si era chiesto Daniel, con ansia, teso a captare suoni

che non arrivavano più. Poco dopo aveva udito i primi passi del carceriere in arrivo.Una luce si avvicinò e illuminò prima la scala e poi il pavimento.Apparve un soldato allampanato, con la divisa nera; portava una torcia nella mano

destra e la solita ciotola d'acqua nella sinistra, sulla quale era appoggiata in equilibrio una pagnotta.

Daniel l'osservò dalla sua posizione, seduto ai piedi del pilastro che stava esattamente in mezzo alla cella, strategicamente vicino alla porta, ma non abbastanza da sembrare un pericolo e mettere sul chi vive il carceriere.

Il soldato poteva essere una recluta perché non sembrava affatto a suo agio in quella segreta. Era nervoso e lo si vedeva chiaramente, forse spaventato da qualcosa. Daniel notò che teneva l'orecchio teso verso la feritoia e il silenzio che proveniva da essa, come se temesse di sentire un rumore o un segnale da un istante all'altro. Infilò la torcia nel solito supporto nella parete e poi andò verso la cella.

Daniel continuò a studiarlo, con tensione crescente, eppure non si mosse né quando il soldato aprì le sbarre, tenendolo sospettosamente sott'occhio, né quando le richiuse dopo aver appoggiato a terra il cibo e l'acqua.

Aspettò che abbassasse gli occhi sulla serratura e si alzò in piedi. «Si può sapere cosa sta succedendo là fuori?» domandò con calma tutta apparente.

Il soldato sobbalzò e quasi perse la chiave con cui stava chiudendo la cella. Si diede subito un contegno e si affrettò a terminare il suo lavoro, senza rispondere.

Daniel nel frattempo si era spostato più vicino a lui, ma senza metterglisi di fronte o accostarsi alla porta. Si chinò invece a prendere la ciotola d'acqua con la mano sinistra e ne bevve un sorso con una simulata aria stanca sul viso. «Andiamo: vorrei solo una risposta» insisté, mentre spostava la destra dietro le reni con apparente noncuranza, come se volesse alleviare un dolore o la tensione alla schiena. Con le dita invece armeggiò per andare a impugnare ciò che aveva nascosto dietro, infilato nella cintura. «Voglio sapere se devo preoccuparmi che il castello mi cada sulla testa mentre sono chiuso qui dentro».

A quelle parole il soldato guardò di nuovo verso la feritoia, nervosamente, e Daniel si preoccupò davvero.

La situazione fuori è davvero così grave? si domandò, ma capì che doveva sfruttare al meglio l'occasione.

Raddrizzò le spalle e fece un passo avanti, sempre tenendo in mano la ciotola dell'acqua. Con le dita dietro la schiena strinse più saldamente la presa e sfilò cautamente dalla cintura l'oggetto nascosto.

«Soldato, ti ho fatto una domanda. Io sono un cavaliere ed esigo una risposta» esclamò, calcando di proposito il tono autoritario.

Come si aspettava, l'uomo scattò, definitivamente innervosito. «Io non prendo ordini da un prigioniero...»

Non terminò la frase.In un unico istante, Daniel gli gettò in faccia la ciotola dell'acqua, poi protese la mano

sinistra attraverso le sbarre e agguantò il soldato per la divisa, tirandolo verso di sé con

violenza. La ciotola si spaccò con un rumore secco. L'uomo andò a sbattere con il volto contro la gabbia e lanciò un'esclamazione di sorpresa e di dolore, poi tentò di puntellarsi contro le sbarre con le mani per tirarsi indietro, ma si bloccò all'istante non appena Daniel gli mise una punta affilata sul collo.

«Fermo o giuro che ti taglio la gola» minacciò l'americano con tutta la ferocia che riuscì a simulare e tenne saldamente l'uomo contro le sbarre per impedirgli di reagire.

Soprattutto, per impedirgli di vedere che ciò che il prigioniero aveva in mano non era un pugnale ma un semplice pezzo di verga, sagomato in modo da sembrare una lama.

Daniel stesso sentiva il cuore battere impazzito per la tensione: la sua idea sembrava funzionare davvero e l'acqua aveva fatto l'effetto sperato. Con la pelle bagnata e fredda, il soldato non aveva potuto rendersi conto che ciò che aveva contro la gola non era metallo ma semplice legno, per giunta tenero.

Daniel ringraziò il cielo per il fatto che il frammento limato non si fosse rotto a metà durante la brevissima colluttazione. «Ascolta, non ti voglio uccidere» continuò, rivolto al soldato e cercando di controllare il respiro che accelerava per la tensione. «Adesso apri la serratura e non ti succederà niente».

L'uomo inghiottì a vuoto e non rispose, chiaramente spaventato. Aveva ancora le chiavi nella mano destra e sulle prime le sollevò verso la porta, ma poi esitò.

Daniel intuì che il soldato stava pensando di gettar via le chiavi per impugnare la spada e lo strattonò con violenza, costringendolo a guardarlo dritto negli occhi. «Non provarci nemmeno» ringhiò. «Non tentare scherzi: ti ho detto che non voglio ucciderti, ma lo farò se mi costringi. Forse io resterò qui dentro, ma tu morirai di sicuro, perché ti scannerò come un agnello».

L'uomo rabbrividì vistosamente e il suo scarso coraggio si dissolse con quella minaccia decisa. Abbandonò ogni intenzione di reagire e si affrettò a infilare la chiave nella serratura.

Daniel lo trascinò dentro la cella non appena sentì il meccanismo scattare nella porta che si apriva verso l'interno. Lo spinse faccia avanti verso il pilastro e lo tenne lì contro, sempre sotto la minaccia del suo finto pugnale puntato alla nuca. Disarmò l'uomo togliendogli la cintura con la spada e solo allora gettò via il moncone di verga, per sguainare un'arma vera.

«Togliti la divisa» ordinò, pungolando il suo ostaggio con la punta della lama, là dove il corpetto di cuoio non lo proteggeva, alla base del collo.

Il soldato obbedì, senza fiatare e senza girarsi, e lasciò cadere a terra l'elmo e la cotta nera.

«E adesso fatti una dormita» concluse Daniel e sferrò un colpo brutale con l'elsa della spada sulla nuca dell'uomo, che cadde svenuto.

Per qualche istante Daniel dovette riprendere fiato, quasi sopraffatto dalla tensione di quel colpo di mano riuscito meglio di qualsiasi aspettativa.

Ian, sono diventato bravo quasi quanto te, pensò rivolto all'amico lontano, ma poi capì che non poteva indugiare a lungo, se voleva salvarsi davvero.

Il corpetto di cuoio del soldato non gli si adattava, ma la divisa nera sì e perciò Daniel la raccolse e si vestì, allacciandosi la spada in cintura, poi uscì dalla cella e chiuse la porta a chiave accuratamente. Prese la-torcia dal suo supporto e si voltò per affrontare le scale.

Fece un respiro profondo.

Adesso viene la parte più difficile, si disse con maggiore ansia.Mise il piede sul primo gradino e ascoltò attentamente, ma dall'alto della rampa buia

non provenivano rumori allarmanti. Forse non c'era nessuno.Forza e coraggio, si esortò Daniel. Si calcò meglio l'elmo sulla testa e intraprese la

salita con cautela.

***

Furono istanti lunghissimi, ma alla fine Daniel vide il rettangolo luminoso della porta spalancata che dava fuori.

Abbassò la torcia istintivamente, trovò il supporto in cui andava infilata, proprio all'inizio delle scale, e ve la lasciò per essere più libero nei movimenti.

Fuori il mattino aveva ormai rischiarato il panorama e solo poche nuvole punteggiavano il cielo grigio e freddo. Sarebbe stata un'altra giornata senza pioggia e anche il vento proveniente dal mare taceva.

Con uno sguardo, Daniel controllò l'intero piazzale della corte interna e vide subito che sulle mura i soldati si erano moltiplicati. Erano anche più tesi e più armati e guardavano tutti in un'unica direzione, fuori dal maniero.

All'interno del cortile invece, c'era solo il solito movimento di servi indaffarati, che si affrettavano a entrare e uscire dalle porte, trasportando ceste e materiali. Alcuni stavano accompagnando verso una costruzione bassa cavalli bardati con gualdrappe di vari colori.

Daniel capì che il problema che aveva messo in allarme il castello per tutta la notte era fuori da Dunchester, sotto le mura, e in silenzio pregò che non fosse ciò che temeva, ma aveva il pessimo presentimento che non sarebbe stato esaudito.

Varcò la soglia che lo riportava nel cortile, cercando di darsi un contegno da soldato, ma tenendo la spada bene a portata di mano.

Non che la cosa lo facesse sentire più sicuro. Erano due anni e mezzo che non prendeva in mano una spada e anche in passato si era sempre allenato meno di Ian: non sarebbe stato in grado di affrontare uno scontro protratto nel tempo e quindi doveva cercare di evitarlo a tutti i costi. Non doveva farsi notare o sarebbero stati guai seri per lui e il suo tentativo di evasione sarebbe finito sul nascere.

Camminò spedito, evitando di attraversare il piazzale per restare in disparte vicino agli edifici. Con gli occhi teneva sotto controllo quella che era la sua meta e allo stesso tempo una potenziale fonte di pericolo: il cancello aperto tra la corte interna e l'esterna.

Il passaggio era una sorta di tunnel buio, che attraversava il bastione frontale del maniero a ridosso del mastio prima di sbucare nello spazio racchiuso nella cinta muraria intermedia. Era sovrastato all'ingresso da un cancello poderoso, fatto di travi di legno e rinforzi di ferro, tenuto sollevato in alto come una gigantesca mannaia dalle catene laterali.

Daniel sapeva che all'altra estremità del tunnel vi era un cancello identico, pronto a chiudersi di schianto, e in quel momento nulla gli fece più paura dell'idea di essere scoperto mentre fuggiva e rimanere intrappolato tra i due cancelli come un topo. Eppure, se voleva uscire, non aveva altra scelta che passare di là.

Si rimproverò per essere tanto spaventato e si fece forza. Si staccò dall'edificio accanto al quale si era fermato per osservare la situazione e si diresse verso il cancello.

In quello stesso istante, un drappello di tre soldati arrivò di corsa dal tunnel.Daniel si ritirò subito di lato. Temendo il peggio, indietreggiò e poi si spostò verso

l'edificio più vicino, ma fortunatamente i soldati non fecero caso a lui o, se lo videro, non gli badarono abbastanza da rendersi conto che non era uno di loro.

Contemporaneamente, il giovane sentì un rumore di zoccoli potenti giungere dalla parte opposta della corte rispetto al cancello.

Provò un brivido quando vide Geoffrey Martewall in sella a un poderoso destriero da battaglia, con lo scudo imbracciato, la spada cinta al fianco e l'elmo sotto l'altro braccio.

Cavallo e cavaliere erano completamente rivestiti con gualdrappa e cotta, nere con il leone d'oro; Martewall indossava l'usbergo e aveva il camaglio già alzato sulla testa.

Daniel aveva quasi dimenticato quanto potessero essere impressionanti i cavalieri medievali armati di tutto punto e rimase a guardare l'inglese con un misto di timore e di rispetto. In quel momento Geoffrey Martewall gli sembrò la personificazione della forza guerriera, terribile nella sua livrea nera.

Allo stesso tempo Daniel lo ricordò come l'aveva visto al torneo di Béarne: esperto, rapido, preciso. Un avversario da tenere in considerazione con estrema cautela.

A differenza di quella volta, adesso il cavaliere portava un lambello rosso sul petto e sul blasone, il simbolo dentellato che lo annunciava al mondo come futuro erede del casato, dopo la morte dei fratelli maggiori. Il leone d'oro era più grande e importante, la cotta d'armi e lo scudo avevano i profili rossi.

Il cavaliere inglese non era solo: lo accompagnavano altri tre guerrieri, vestiti con colori diversi ma tutti ugualmente armati e pronti a combattere. Uno di loro, in verde e oro, era il fidato luogotenente Hector.

«Signore!» chiamarono i soldati, non appena videro il giovane barone, e corsero da lui immediatamente.

Anche da lontano Daniel li sentì annunciare: «Gli ufficiali del re vogliono parlamentare con voi».

Martewall annuì e poi alzò lo sguardo verso il cancello. «Immagino già cosa vogliono da me» rispose laconico e poi fece riprendere il cammino al suo destriero, con calma greve. Uscì dalla corte interna seguito dai suoi compagni.

Non appena lo vide sparire, Daniel abbandonò la sua posizione defilata e si diresse in fretta verso le mura. Il cancello era troppo trafficato, percorso da soldati e cavalieri, e quindi il giovane abbandonò per il momento l'idea di attraversarlo.

Non voleva trovarsi nella corte esterna insieme a Martewall, là dove il cavaliere poteva anche aver riunito tutti i suoi soldati. Doveva farsi un'idea di cosa stava accadendo fuori, prima di avventurarsi in una fuga che si preannunciava rocambolesca.

Individuò la scala di pietra che saliva fino al camminamento sulle mura e la percorse tutta.

Nessuno fece caso a lui, visto che indossava la divisa nera come tutti gli altri soldati e le sentinelle, e così poté arrivare ad affacciarsi tra i merli senza difficoltà.

Quello che vide all'orizzonte gli tolse il fiato.Una moltitudine di divise rosse era schierata appena fuori dal borgo di Dunchester, a

pochi passi dalla cinta muraria esterna incompleta. Non era un vero esercito, ma le truppe erano più che sufficienti a cingere d'assedio il piccolo maniero.

Daniel guardò giù e vide che la corte interna del castello era gremita non di soldati bensì di gente spaventata: erano gli abitanti del borgo, fatti evacuare dalle loro case

indifendibili per trovare asilo e riparo nelle mura interne. Le guardie di Dunchester si stavano dando da fare per incanalare quelle persone verso i fianchi e il retro del maniero e trovare loro una sistemazione che fosse più confortevole possibile e allo stesso tempo non intralciasse le operazioni militari nello spazio angusto tra le due cinte di mura del castello. Si sentivano voci spaventate e pianti di bambini, mescolati agli ordini lanciati dai soldati.

Fuori dalla cinta di mura, non si muovevano nemmeno i fili d'erba dei prati incolti. Tra il castello e le truppe con le divise rosse adesso c'era solo un villaggio disabitato, spettrale e immobile, avvolto ancora dalla foschia del primissimo mattino.

Geoffrey Martewall attraversò la corte interna, invocato dalla gente di Dunchester e salutato dai suoi soldati, e uscì nel villaggio vuoto insieme ai suoi tre compagni. Nessun altro lo accompagnò e Daniel capì che stava andando a parlamentare quando vide quattro cavalieri uscire dalle fila delle divise rosse per andare incontro al padrone di casa. Con loro portavano uno stendardo con tre leoni d'oro, identici a quello che Martewall mostrava sullo scudo e sul petto della cotta nera.

Daniel riconobbe lo stemma del re d'Inghilterra, già visto sul campo di battaglia a Bouvines; afferrò la situazione e previde senza fatica cosa sarebbe accaduto nell'immediato futuro.

Gli ufficiali del re avrebbero intimato la resa del castello, Martewall l'avrebbe rifiutata, come senz'altro gli era stato ordinato dal padre, dopo di che si sarebbero aperte le ostilità.

Quelle divise rosse erano là fuori per occupare il castello a ogni costo.Non resisteranno molto a lungo sotto l'assalto di tanti nemici, pensò Daniel,

valutando l'esiguità delle forze di Dunchester a paragone di quelle della corona.Il giovane sapeva che, in un assedio, il vantaggio stava sempre dalla parte degli

assediati, poiché per combattere dall'interno delle mura bastavano molti meno uomini rispetto a quelli necessari agli assedianti, eppure la situazione del ca stello gli apparve assolutamente precaria. All'interno vi era gente innocente da difendere, alloggiare e sfamare, la stagione era fredda e per ammissione dello stesso sir Harald Martewall le scorte erano già state intaccate.

Come pensano di poter resistere più di qualche giorno? si chiese Daniel. E io come faccio a uscire da qui? si domandò però subito dopo, sgomento.

Capitolo 17Ian osservò lo schieramento delle divise rosse da lontano, tenendosi al riparo del

bosco. Dalla posizione in cui era poteva vedere di lato il futuro campo di battaglia: alla sua sinistra il maniero e lo strapiombo che dava sul mare, alla sua destra le truppe reali, pronte ad entrare nella prima cinta di mura, del tutto incustodita e accessibile.

Accanto al giovane, tra gli alberi, erano disseminati gli uomini di Aversly e Willingham, tutti con diversi gradi di emozione, coraggio e paura dipinti sui visi, ma con le armi già in pugno, pronte per essere usate. C'erano archi, balestre, fionde, le poche spade prese ai soldati uccisi il giorno prima, lance e giavellotti rudimentali ricavati da rami e arnesi da lavoro, asce, roncole, forconi e persino martelli. Un arsenale eterogeneo eppure efficace, che avrebbe consentito di fare qualche danno. Su alcuni muli erano caricati i rifornimenti di frecce e pietre per le armi da lancio.

«Dobbiamo aspettare che i mercenari entrino nel borgo, poi potremo avanzare fino alle mura in costruzione e arrampicarci» disse Thomas Bull, fermo accanto a Ian.

Il giovane annuì e contemporaneamente osservò le torri alte e ornate di stendardi, studiandole per trovare un qualsiasi indizio che gli indicasse come fare ad entrare nel cuore del maniero.

Purtroppo non aveva modo di capire l'esatta conformazione del castello, finché non fosse entrato almeno nella prima cinta di mura. Gli abitanti del luogo gli avevano descritto la pianta della costruzione nel dettaglio, ma per quanto accurate, le parole non potevano valere come un'osservazione diretta, e comunque nessuno di quei semplici contadini era mai entrato nella parte del castello riservata solo al signore, ai suoi familiari, guerrieri e servi.

Un suono di corno lacerò l'aria, suscitando un mormorio teso tra gli uomini nascosti nel bosco.

Ian aguzzò la vista e vide alcuni cavalieri dalle gualdrappe colorate uscire dal borgo per ritornare dalle divise rosse. Erano gli stessi cavalieri che una ventina di minuti prima si erano avventurati all'interno della prima cinta di mura portando con loro lo stendardo reale e l'americano aveva capito senza fatica che erano andati a parlamentare con il padrone del castello.

Il negoziato non era finito bene, a quanto pareva, poiché con il ritorno dei cavalieri, tutti i mercenari e i soldati avevano iniziato a serrare le fila e a preparare le armi.

«Si comincia» disse Ian cupamente.Tra le truppe di re Giovanni, le voci e gli ordini avevano iniziato a risuonare ovunque,

rimbalzando di squadra in squadra. Nelle retrovie, là dove si erano fermati i carri più pesanti, cominciarono a comparire scale di legno molto lunghe, montate e poi portate a braccia da decine di uomini robusti. Cavalli e muli furono condotti avanti, trasportando nelle loro some i rifornimenti per le armi. Gli arcieri si riunivano in squadre organizzate, pronte a prendere posizione alle spalle dei fanti. I cavalieri rimanevano in attesa, lancia in pugno, di poter combattere in campo aperto. I genieri montavano le armi da lancio. Il tutto accadeva in un movimento concitato e frenetico ma per nulla casuale, scandito piuttosto dai segnali perentori dei corni e dagli ordini gridati dai sergenti.

Ian osservava la scena affascinato e impressionato allo stesso tempo. Aveva già avuto modo di vedere un esercito medievale che si preparava alla battaglia, ma non aveva mai assistito, se non al cinema, all'assedio di un maniero e i preparativi lo facevano stare col

fiato sospeso.Quando vide gli assedianti preparare bacili di ferro in cui ardeva la pece per le frecce

e i proiettili incendiari, capì che il momento dell'attacco era ormai prossimo. Gettò un'occhiata sulle mura della seconda cinta, là dove le divise nere di Dunchester si stavano affannando altrettanto nei loro preparativi, e vide salire anche in quella direzione il fumo denso della pece o dei fuochi che arroventavano l'olio, la pece o l'acqua che sarebbero stati gettati dalle caditoie sui malcapitati ai piedi delle mura. Anche all'interno del castello riecheggiavano segnali minacciosi di corni.

Sì, sarebbe stata davvero una giornata sanguinosa, pensava Ian. Sguainò la spada e la strinse forte, per darsi coraggio.

Intorno a lui gli uomini di Aversly e Willingham si bisbigliavano frasi nervose, indicandosi a vicenda lo schieramento dei mercenari e poi il castello.

Il segnale dell'attacco arrivò come previsto, eppure fece sobbalzare tutti gli uomini nascosti nel bosco, tanta era la tensione che cresceva con l'avvicinarsi della battaglia.

Ian alzò un braccio d'istinto con un ordine muto, per tenere i suoi improvvisati compagni fermi e al riparo della vegetazione, e rimase a guardare le truppe mercenarie di Giovanni Senza Terra, spronate dal rullare dei tamburi, lanciarsi in avanti con grida selvagge.

Entrarono nella cinta incompleta di mura, scomparendo dalla vista dei ribelli nascosti nel bosco, ma tutti capirono quando gli assedianti arrivarono a portata di tiro perché dalle mura di Dunchester si sollevò un'impressionante nuvola di frecce che ricadde verso il basso dopo aver compiuto una traiettoria ad arco nel cielo.

Le grida allora cambiarono di tono e, insieme a quelle che incitavano alla battaglia, si udirono i lamenti dei feriti e dei moribondi.

Il massacro era cominciato.Ian rabbrividì, nonostante avesse cercato accuratamente di prepararsi a quel momento.Tutto il fronte degli assedianti si stava spostando, per penetrare nel borgo deserto di

Dunchester. Le squadre di arcieri e di genieri erano corse in avanti insieme ai fanti e rispondevano al fuoco nemico bersagliando le mura con raffiche quasi ininterrotte di proiettili, falciando senza pietà chiunque si affacciasse dai merli di pietra.

Non potendo vedere gli arcieri del re, a causa della barriera formata dalla cinta muraria esterna, Ian tenne d'occhio il punto di partenza delle raffiche e vide che si avvicinava al castello, inesorabilmente. Gli assedianti stavano guadagnando terreno verso le mura.

«Sono avvantaggiati dalle case del villaggio» commentò Thomas Bull cupamente. «Possono nascondersi in mezzo agli edifici e mettersi al riparo dalle frecce degli assediati».

«Possibile che a Dunchester non abbiano pensato a una contromossa per annullare il vantaggio del nemico?» domandò Ian.

La risposta gli arrivò con la salva di frecce incendiarie che si abbatté sugli invasori. In pochi istanti vampate di fumo denso cominciarono a salire dal borgo, contorcendosi nell'aria gelida.

«Bruciano le case» disse Bull, protendendosi avanti più che poteva per cogliere i dettagli della battaglia. «Così distruggono col fuoco i possibili ripari dei nemici e ostacolano i loro tiratori con il fumo».

Anche Ian aveva raddoppiato la sua attenzione: le case di Dunchester, come quelle

degli altri villaggi, dovevano essere di legno e paglia e quindi facilmente infiammabili. Il giovane però si chiedeva quanto potessero essere efficaci le frecce incendiarie su materiali che sicuramente erano umidi per il freddo della notte invernale.

«Non ce la fanno» riprese in quel momento Bull, come rispondendo al suo pensiero. «Gli arcieri del castello non riescono a tirare con sufficiente costanza ed efficacia. Ogni volta che si affacciano dai merli vengono abbattuti».

«E allora, andiamo noi a dar loro una mano» propose Ian. «Non abbiamo niente con cui appiccare il fuoco efficacemente» obiettò Bull.

«Ma possiamo cogliere di sorpresa i tiratori degli assedianti e costringerli a smettere di attaccare» gli rispose Ian. «Da Dunchester faranno il resto, se potranno affacciarsi dalle mura indisturbati».

L'ex-soldato meditò qualche istante sulla proposta e poi annuì. «D'accordo. Dobbiamo avvicinarci di più, però».

«Dobbiamo salire sulle mura in costruzione come avevamo già deciso. Se ci spostiamo di lato ancora un po' attraverso il bosco, arriveremo non visti. Gli uomini del re sono ormai completamente dentro la prima cinta di mura e non potranno vederci».

***

Daniel si appiattì dietro il parapetto, quando le frecce cominciarono a sibilargli intorno. Imprecò, sentendo lo schiocco secco delle sottili ma micidiali aste di legno che si frantumavano in migliaia di schegge contro la pietra del castello, e solo dopo molti istanti osò riemergere per guardare fuori.

Gli assedianti si stavano avvicinando pericolosamente: adesso i loro proiettili arrivavano addirittura alla cinta di mura più interna, quella più alta di tutte, scavalcando quella intermedia, e mietevano vittime nel castello, benché con meno precisione rispetto alle frecce che miravano ai bersagli più vicini. Gli arcieri reali non potevano vedere distintamente i difensori schierati sui bastioni più interni, ma le loro frecce arrivavano a nugoli, bersagliando ogni palmo di muro e inevitabilmente trovavano uomini da colpire sulla loro traiettoria. I genieri completavano l'opera con le armi pesanti.

Di questo passo, tra poco i soldati del re saranno sotto le mura intermedie, pensò Daniel, osservando con ansia gli uomini di Dunchester davanti a lui, sulla linea più avanzata del fronte, approntare i calderoni d'olio da riversare attraverso le caditoie. Si stavano preparando all'assalto diretto lungo i bastioni e dalla concitazione dei loro gesti si intuiva che i nemici erano ormai prossimi alla scalata dei bastioni.

Nella corte esterna, stretta tra la seconda e la terza cinta muraria, i soldati si affrettavano anche a spegnere i rari principi di incendio provocati dai proiettili incendiari del nemico. I tetti degli edifici racchiusi in quello spazio erano stati coperti di terra umida durante la notte, per offrire resistenza al fuoco, ma le fiamme si attaccavano comunque alle pareti di legno e gli uomini dovevano correre a spegnerle con secchi d'acqua e di sabbia prima che diventassero pericolose.

Dalla posizione in cui era, Daniel poteva vedere anche Martewall che, abbandonato il suo destriero da battaglia, era salito sulle mura più esposte per guidare personalmente gli uomini alla difesa. Sfidava le frecce dei nemici con ammirevole coraggio, eppure il suo usbergo non poteva proteggerlo completamente dai dardi, specie quelli di balestra. Più di una volta, infatti il cavaliere dovette ripararsi dietro lo scudo nero e dovette staccare a

colpi di spada le frecce che vi si erano piantate. Gli attacchi tuttavia non lo facevano indietreggiare. Nemmeno le frecce incendiarie che tentavano di trafiggergli lo scudo lo spaventavano: il cavaliere si sbarazzò anche di quelle con uguale freddezza.

La sua presenza in prima linea era un segnale forte per i suoi uomini, li spronava e infondeva loro la determinazione necessaria per non cedere all'impeto del nemico.

Era stato Martewall a dare l'ordine di iniziare il lancio di proiettili incendiari sui tetti delle case del borgo esterno, per ostacolare col fumo e col fuoco l'avanzare degli assedianti, ma nonostante i numerosi tiri, gli edifici stentavano a bruciare. Eppure quei tetti erano stati strategicamente cosparsi di pece e olio infiammabile, a giudicare almeno dalle vampate di fuoco che si sprigionavano là dove le frecce toccavano il bersaglio.

Purtroppo gli arcieri in divisa nera non potevano affacciarsi dai merli per più di qualche istante consecutivo, senza essere presi a bersaglio come fantocci di paglia.

Con raccapriccio, Daniel ne vide cadere molti dalle mura, feriti o agonizzanti, dopo essersi esposti per tentare di compiere il loro dovere.

Giù nella corte esterna, erano allineati già molti cadaveri e i feriti venivano prontamente portati al riparo.

Che massacro... pensò il giovane, immaginandosi che fuori dalle mura il numero dei caduti fosse almeno il doppio.

E la battaglia era solo agli inizi.«Ehi, tu! Che cosa stai facendo li?!»Daniel sobbalzò a quella voce irata e si girò di scatto, mano alla spada. Si trovò

davanti un ufficiale, tarchiato ma robusto almeno il doppio di lui, con la spada già sguainata e un'espressione sdegnata sul volto. Si sentì in trappola.

L'uomo notò immediatamente il gesto di difesa del giovane e gli sventolò contro la sua arma per fermarlo. «Razza di imbecille, che cosa fai con quella spada?» lo apostrofò, ancora più arrabbiato. «Credi forse di trovare i nemici da questa parte delle mura?! Sono là fuori quelli che ci attaccano! Cerca di darti da fare invece di stare qui a guardare oltre il davanzale, nervoso come una verginella!»

Daniel, già pronto a impegnare battaglia anche con le unghie e coi denti, si bloccò subito a quella ramanzina inaspettata e dovette far uso di tutta la sua prontezza di spirito per non reagire in modo da rovinare il provvidenziale equivoco in cui era caduto l'ufficiale inglese.

Alla bene e meglio, cercò di darsi un contegno militaresco e abbassò la testa con aria contrita. «Sì, signore...» rispose, impacciato.

«"Sì, signore" cosa?» lo zittì l'ufficiale. «Esattamente come pensi di renderti utile qui sopra con solo una spada? Va' a recuperare un arco e una faretra di frecce, sempre ammesso che tu sia più sveglio a tirare che a parlare!» Con la mano gli indicò gli arcieri già armati che si stavano organizzando lungo il camminamento di ronda.

«Sì, signore» ripeté Daniel, scattando sull'attenti, e ci mancò poco che facesse all'ufficiale un saluto militare storicamente del tutto fuori luogo.

«Muoviti!» abbaiò l'inglese, spazientito.Mentre correva via, Daniel ringraziò in silenzio ma con infinita riconoscenza la divisa

nera che aveva indossato fuggendo dalla segreta, specie quando sentì l'ufficiale imprecare ad alta voce contro tutte le "dannate reclute inesperte, più dannose che utili al momento del bisogno".

Non osò voltarsi indietro per timore che l'uomo si rendesse finalmente conto di aver

parlato con un prigioniero evaso invece che con una delle sue reclute. Si presentò agli altri soldati e pregò di riuscire a recitare anche con loro la stessa commedia.

«Mi è stato ordinato di unirmi agli arcieri» esordì, indicando col pollice l'ufficiale, lasciato indietro lungo le mura, conscio che l'uomo lo stava probabilmente tenendo d'occhio da lontano.

Gli altri soldati squadrarono l'americano da capo a piedi, ma prima che qualcuno potesse commentare la richiesta, una nuova raffica di frecce uccise due uomini e costrinse tutti gli altri a gettarsi al riparo dei merli.

Daniel si lasciò sfuggire un'imprecazione poiché un dardo gli mancò il collo di una spanna appena. Si tuffò a terra e si coprì anche la testa con le mani. Nelle orecchie sentì mescolati insieme il sibilo delle frecce e il battito frenetico del suo stesso cuore.

Quando la raffica finì, nessuno dei soldati aveva più in mente gli eventuali commenti su quella impacciata, nuova recluta che si era appena aggiunta al gruppo. Consegnarono a Daniel le armi che aveva chiesto e poi gli indicarono un punto sguarnito tra le mura. «Da quella parte» gli dissero, sbrigativamente.

Seguendo il loro cenno, Daniel vide una postazione rimasta vuota dopo che l'arciere che l'occupava era stato abbattuto dal fuoco nemico.

Perché finisco sempre in grane come questa? si domandò, furioso con se stesso e soprattutto con Hyperversum.

Non solo doveva continuare a recitare la parte del soldato, se non voleva essere scoperto e imprigionato di nuovo, ma soprattutto doveva difendersi da quelli che, fuori dalle mura, erano anche nemici suoi.

Se le truppe di Giovanni Senza Terra avessero conquistato Dunchester, l'avrebbero di sicuro fatta pagare cara a tutti gli armati che vi avrebbero trovato dentro e un cavaliere di Filippo Augusto come lui non avrebbe certo fatto eccezione, anzi, probabilmente avrebbe subito la sorte peggiore di tutti, perché non aveva molte possibilità di tenere segreta la sua identità.

Per quanto poteva, doveva aiutare Dunchester a non cedere, almeno finché da qualche parte non si fosse rivelata una qualsiasi via di fuga possibile.

Maledicendo insieme Hyperversum e il re d'Inghilterra, Daniel corse alla sua postazione, tenendosi basso tra i merli per non essere raggiunto dalle frecce che avevano ricominciato a sibilare nell'aria. Si accucciò al riparo e appoggiò prima la faretra in posizione favorevole, poi impugnò l'arco, lo incordò e scelse una freccia da incoccare.

Indugiò ancora qualche istante, cercando di imporsi la calma necessaria per tirare efficacemente, consapevole che questo voleva dire uccidere di nuovo altri uomini.

Un orrore che credeva di non dover più rivivere.Chiuse gli occhi d'istinto. Intorno a lui il frastuono della battaglia riempiva l'aria e la

testa di sibili, schianti, grida, imprecazioni, lamenti e suoni di corno.Non ho scelta, si ripeté Daniel mentalmente.Poco lontano da lui, sentì l'ufficiale di poco prima urlare a tutti di disporsi al tiro. Gli

arcieri si prepararono a scoccare una raffica all'unisono contro i tiratori nemici.Daniel riaprì gli occhi e si alzò in piedi, quando venne dato l'ordine di tirare.Mirò e scoccò.La sua freccia si mescolò alle altre che fendettero il cielo per abbattersi dall'alto sulle

schiere avversarie.Daniel vide molti uomini in divisa rossa cadere di schianto. Non poté capire se anche

la sua freccia fosse andata a segno, poiché da quella distanza non era possibile prendere di mira un nemico preciso, ma solo sfruttare la forza del numero e confidare che molte frecce avrebbero comunque raggiunto i bersagli.

In bocca sentì un sapore amaro, eppure incoccò un'altra freccia e fece un secondo tiro insieme agli altri, quando gli fu ordinato, poi dovette di nuovo acquattarsi al riparo dalla salva di ritorno.

L'operazione venne ripetuta dieci, quindici volte, forse più, Daniel non seppe tenere il conto. Si alzava prontamente a ogni ordine, mirava e scoccava la sua freccia. I nemici in divisa rossa, cadevano poco lontani dalle mura con grida terribili. Arcieri in divisa nera cadevano di tanto in tanto ai due lati di Daniel, lanciando urla molto simili.

Quando l'orrore fu troppo per essere sopportato, Daniel si accasciò a sedere dietro il parapetto di pietra, a riprendere fiato e a massaggiarsi il braccio che tendeva l'arco e che aveva iniziato a fargli male per lo sforzo inusuale. Soprattutto, a riprendere il controllo dei propri sentimenti sconvolti.

Si tolse l'elmo per asciugarsi il volto sudato con le mani.Così facendo si trovò girato verso il cortile interno del maniero, e fu colto di sorpresa

dalla voce femminile che sentì provenire da quella direzione.Guardò giù e vide Leowynn Martewall, attorniata da alcuni servi, accanto a un

cavaliere nero su un destriero da battaglia. Il cavaliere non era suo fratello Geoffrey, perché sul blasone non portava il lambello e sopra il leone d'oro sfoggiava una croce di uguale colore.

Incredulo, Daniel riconobbe sir Harald Martewall, pronto in sella nonostante l'età e la malattia. L'anziano cavaliere crociato prendeva coraggiosamente parte a quella che poteva essere la sua ultima battaglia e si era fatto aiutare dai servi a montare sulla sua cavalcatura, probabilmente per poter essere più libero di muoversi da una parte all'altra della linea del fronte, più che per sperare di combattere davvero corpo a corpo contro i nemici.

La figlia stava cercando di dissuaderlo dal suo proposito temerario, lo si capiva bene dai gesti e dal tono, anche se la distanza e il rumore rendevano impossibile cogliere le esatte parole.

Il vecchio padre però non l'ascoltò e, anzi, diede ordine ai servi di scortarla al sicuro.Lei si oppose, poi dovette cedere alle pressioni e rassegnarsi, ma prima di allontanarsi

gettò un ultimo sguardo angosciato alle mura del castello, oltre le quali si udiva il frastuono della battaglia.

In quel momento, i suoi occhi incrociarono quelli di Daniel. Un brivido corse lungo la schiena del giovane quando capì che la fanciulla forse l'aveva riconosciuto. Vide la sorpresa dipingersi sul volto di Leowynn, ma non attese di scoprire se davvero la ragazza avesse capito chi era. Si rimise l'elmo, balzò in piedi e si allontanò di corsa lungo le mura, tirandosi dietro le armi.

Sentì subito il fischio agghiacciante delle frecce sibilargli intorno, ma molta più ansia gli mise l'eco della voce allarmata di Leowynn che si lasciò alle spalle.

A quel punto, il giovane fu certo che la fanciulla aveva scoperto la sua fuga. Era solo questione di minuti prima che si aprisse la caccia al fuggitivo, nonostante l'infuriare della battaglia.

Senza nemmeno sapere dove stesse andando, Daniel corse per un bel pezzo, passando accanto ad altri soldati, sorpresi ma troppo impegnati a difendersi dal fuoco nemico per

fare realmente caso a lui.Che cosa faccio adesso? si chiese mentre correva e l'unica cosa che gli venne in

mente era mimetizzarsi il più possibile in mezzo alle altre divise nere per guadagnare tempo. Prima o poi, però, Geoffrey Martewall sarebbe stato informato della sua fuga e Daniel lo sospettava capace di mettersi alla sua ricerca personalmente, anche rivoltando ogni angolo del maniero in pieno assedio.

Dove posso fuggire? si domandò ancora Daniel, ma non seppe darsi risposta e continuò semplicemente a correre.

Alla fine, si rese conto di avere davanti a sé una delle torri d'angolo del maniero.In quel punto, proprio sotto la torre, la cinta di mura intermedia e quella più interna

erano alte uguali e così vicine da poter essere messe in comunicazione diretta tramite un ponte mobile di legno, che sarebbe stato abbattuto prontamente nel caso che il nemico avesse conquistato le mura più esposte. Dalla torre, un manipolo di soldati armati di balestre teneva d'occhio il ponte e la situazione della battaglia.

Per il momento la passerella di legno era attraversata da uomini che si spostavano in entrambe le direzioni, Per dare man forte a quelli che stavano in prima linea o per portare ordini e notizie verso il castello.

Daniel non indugiò a chiedersi se ci volesse un permesso speciale per spostarsi da una parte all'altra delle mura e passare quel ponte. Lo attraversò in un lampo, temendo da un istante all'altro di udire i richiami minacciosi delle sentinelle, ma fortunatamente nessuno gli sbarrò il passo, nemmeno a parole. Il giovane arrivò così sulle mura intermedie, là dove queste erano orientate verso il bosco che dominava la maggior parte del territorio circostante, e si fermò per un istante a riprendere fiato e guardarsi intorno.

Le mura, poco più avanti, compivano un angolo verso sinistra e si trasformavano nella prima linea del fronte, lungo la quale infuriava il combattimento.

La scena sanguinosa della battaglia in corso apparve così davanti agli occhi del giovane in tutti i suoi orribili dettagli.

Il villaggio di Dunchester era in parte avvolto dal fumo: alcuni tetti bruciavano, ma gli altri si limitavano a lanciare nubi grigie verso il cielo. Sotto le mura, ogni cosa sembrava rossa per il colore delle divise degli assedianti e quello del sangue dei feriti e dei morenti. Le truppe del re si affollavano come ondate di marea sotto il castello, calpestando i corpi dei caduti per avvicinarsi sempre più.

Daniel vide comparire le scale: una a una, si sollevarono dal suolo per poggiarsi pesantemente sulle mura, superando il terrapieno su cui sorgeva il castello. Le divise rosee cominciarono la scalata, le divise nere rovesciarono l'olio bollente e la pece, insieme a sassi e macigni, poi gettarono le torce. Un'intera zona del fronte avvampò in un unico rogo, ingoiando i malcapitati che vi si trovavano in mezzo. All'odore del fumo se ne aggiunse un altro ben più raccapricciante, mentre i nemici più fortunati fuggivano o si contorcevano al suolo con le vesti in fiamme.

Daniel tentò invano di deglutire, con la bocca completamente riarsa.Su quella scena da girone infernale dominava la figura nera di Geoffrey Martewall, in

piedi tra i merli di pietra avvolti dal fumo scuro. Immobile, spada sguainata, guardava giù verso la devastazione, mentre il vento causato dal rogo gli gonfiava la funerea livrea da battaglia.

A Daniel sembrò un cavaliere dell'Apocalisse, fermo a poche centinaia di passi da lui, sullo stesso camminamento di ronda.

Le scale dei nemici, tuttavia, non erano state distrutte tutte. In alcuni punti della linea di difesa erano state semplicemente rovesciate a terra, ma gli assedianti le stavano prontamente rimettendo in piedi, altri uomini sostituivano quelli morti e sembravano non finire mai.

Non si fermano , pensò Daniel col cuore in gola.D'un tratto, le truppe nemiche subirono uno sbandamento. Molte divise rosse caddero,

nelle linee più arretrate, senza preavviso. I loro tiratori furono decimati a sorpresa da un attacco che non proveniva dal castello.

Con gli occhi sgranati, Daniel vide molti uomini senza divise comparire sulla cinta di mura più esterna del borgo per bersagliare gli assedianti con frecce, pietre da fionda e giavellotti. Erano pochi, forse una cinquantina, ma tiravano sui bersagli in rapida successione, abbastanza in fretta da non consentire ai nemici di riaversi dalla sorpresa.

Chiunque fosse, chi li comandava aveva sufficiente preparazione militare per conoscere i tempi adatti all'attacco. Daniel riuscì a individuare un uomo che dava il ritmo alle raffiche con il gesto del suo braccio alzato, ma non poté vederlo chiaramente, poiché era riparato dalle impalcature intorno alle mura in costruzione.

Anche i difensori di Dunchester si erano accorti degli inaspettati alleati e lanciarono feroci grida di giubilo, mentre i nemici continuavano a cadere, prima ancora di potersi organizzare in una qualsiasi difesa.

Passarono minuti di raffiche incrociate e le truppe in rosso riuscirono finalmente a rispondere al fuoco, ma in modo molto meno efficace dei ribelli, poiché gli uomini senza divisa si nascondevano appena possibile tra le impalcature e le parti di muro ancora incompleto.

I soldati del re fecero comunque vittime con le balestre e gli archi, ma nel frattempo gli arcieri di Dunchester avevano potuto affacciarsi in massa tra i merli, non più tenuti sotto tiro dai nemici, e preparare una nutrita scarica di frecce incendiarie.

Martewall diede l'ordine con la sua stessa spada, alta e scintillante nell'aria.Le frecce piovvero a decine sui nemici e sul villaggio, che finalmente avvampò.Il fumo ora alto e denso, impedì anche agli ultimi arcieri del re di prendere a bersaglio

i bastioni. Le divise nere, ormai sicure di potersi affacciare con poco rischio, raddoppiarono i loro tiri e decimarono i nemici rimasti a combattere senza protezione sotto le mura.

Le prime case del villaggio, quelle che bruciavano da più tempo, cominciarono a cedere, divorate dal fuoco, e costrinsero molti assedianti a spostarsi per non essere coinvolti nel crollo. Così facendo, però, gli armati venivano a trovarsi spesso allo scoperto ed erano abbattuti senza scampo.

Il nemico, stretto da più parti dai difensori del castello, dagli uomini senza divisa e dall'incendio, per la prima volta vacillò e dovette arretrare. Le ultime scale furono abbandonate e distrutte, i soldati che si trovavano sotto le mura fuggirono tirandosi dietro i feriti, mentre i cavalieri che li guidavano si ritirarono per mettersi al riparo.

Sulle mura di Dunchester gli assediati esultarono. Martewall, invece si girò verso la corte in cui stavano ammassati al riparo fanti e cavalli e gridò di preparare il suo destriero, poi si diresse correndo verso la scala che portava giù.

Daniel guardò la scena dall'alto, col fiato sospeso.In pochi minuti, i due cancelli all'ingresso e all'uscita del barbacane vennero alzati, il

ponte levatoio cadde in avanti sulla rampa che scavalcava il terrapieno e una piccola, ma

agguerrita, schiera di cavalieri eruppe fuori dal castello, puntando lancia in resta verso il nemico in difficoltà.

La guidava Martewall in persona, con un pennacchio nero sulla punta della sua lancia di uguale colore. Accanto a lui, il fedele Hector e gli altri cavalieri che erano nel cortile del castello prima della battaglia. Dietro i guerrieri a cavallo venivano i fanti a piedi e la lotta presto abbandonò le mura per spostarsi nel villaggio in fiamme.

Daniel vide il ponte calato e si rese conto che quella poteva essere la sua via di fuga. Senza perdere di vista la battaglia, si lanciò di corsa verso la scala centrale, dalla quale anche Martewall era sceso per uscire dal maniero.

***

Ian esultò insieme agli uomini di Aversly e Willingham, quando vide il barbacane di Dunchester aprirsi per lasciare uscire i difensori, ormai quasi padroni del campo di battaglia. Eccola, la via d'accesso al castello, la sua unica possibilità di avvicinarsi al luogo in cui Daniel era tenuto prigioniero. Il giovane aveva visto il cavaliere nero guidare tutti gli altri compagni verso il nemico in fuga e aveva riconosciuto Martewall nonostante il blasone e la livrea leggermente diversi da quelli che l'inglese indossava in Francia. Il castello perciò era momentaneamente privo del suo signore: non c'era momento migliore per tentare la sortita all'interno.

«Ce l'abbiamo fatta!» esclamò Thomas Bull al fianco dell'americano, alludendo alla ritirata ormai disordinata delle divise rosse.

«Sì, ce l'abbiamo fatta» ripeté Ian, ma pensando a tutt'altro.«Bel lavoro, comandante» gli sogghignò l'ex-soldato con aria complice. «La tua

tattica ha funzionato a dovere».«Non è stato merito mio, ma di tutti» si schermì Ian.Anche gli altri uomini gridavano di soddisfazione e in molti scesero dalle mura in

costruzione per correre dietro il nemico e incalzarlo con le armi verso la fuga.«Aspettate, incoscienti!» gridò Bull, tentando invano di trattenere i suoi compaesani.

«Si faranno ammazzare» brontolò con rabbia quando le sue parole caddero del tutto nel vuoto, inascoltate. «Grazie al cielo ormai quei maledetti mercenari hanno perso coraggio e non lottano quasi più».

Ian gli mise una mano sulla spalla, gli occhi sempre rivolti al barbacane aperto, al di là delle case in fiamme e della battaglia in corso. «Anch'io devo andare» annunciò. «È stato un onore combattere al tuo fianco».

Bull sgranò gli occhi. «Dove vai?!» esclamò, ma Ian era già balzato giù dal muro per lanciarsi di corsa attraverso il campo di battaglia.

Il giovane non badò ai richiami che l'ex-soldato gli lanciò dietro. La sua meta era soltanto l'entrata del castello e niente l'avrebbe fermato.

Un mercenario in rosso se lo trovò davanti e tentò di sbarragli il passo. Ian lo impegnò subito con la spada, in un corpo a corpo serrato. Scambiò con lui colpi feroci, ma aveva un'altezza superiore su cui contare e forse persino una maggiore abilità. Il mercenario se ne accorse, ma non desistette dal combattimento. Tentò di ferire l'americano più volte, non vi riuscì. Ian lo evitò abilmente, allontanò da sé la spada che cercava di arrivargli al petto e alla gola, infine ebbe uno scarto e affondò la sua lama. Il mercenario fu trafitto a morte e cadde in terra con un ultimo gorgoglio strozzato.

Per Ian fu come riprendere coscienza di sé, dopo minuti in cui il combattimento aveva del tutto assorbito i suoi pensieri. Per qualche istante rimase a fissare il corpo immobile ai suoi piedi e la lama gocciolante e rossa per il suo rinnovato battesimo del sangue.

Anche ora, come la prima volta che aveva ucciso un uomo, lo stomaco gli si chiuse in un crampo convulso.

Il combattimento però infuriava ancora e non concedeva a nessuno di abbassare la guardia per cedere alle proprie emozioni, pena la morte.

Riscuotendosi, Ian vide altre divise rosse corrergli incontro, ai suoi fianchi però stavano sopraggiungendo cacciatori e boscaioli armati e pronti alla lotta.

Il giovane americano alzò di nuovo la sua spada. Con un grido rabbioso e insieme liberatorio si gettò in avanti e ingaggiò battaglia.

***

Daniel sentì il cuore fermarsi per un istante.Interruppe la sua corsa. Guardò meglio.C'era un uomo insieme ai ribelli senza divise. Combatteva bene, da cavaliere, spada in

pugno. Scuro di capelli, aveva un portamento inconfondibile.Ian! lo riconobbe Daniel, incredulo, e allo stesso tempo fu quasi sopraffatto

dall'emozione.Ian era là. Era venuto a prenderlo.Ora Daniel sapeva chi comandava gli uomini sbucati dal bosco per prendere di

sorpresa i soldati del re.Non si fermò a chiedersi come avesse fatto l'amico a scoprire che lui era prigioniero a

Dunchester: aveva il petto gonfio di riconoscenza e in testa una sola idea. Senza più pensare alla scala che portava giù, sollevò l'arco, incoccò una freccia e prese la mira.

Uno dei mercenari di fronte a Ian cadde trafitto e un secondo fece la stessa fine pochi istanti dopo.

Daniel vide l'amico guardarsi intorno per capire da che parte arrivasse il provvidenziale attacco, ma senza accorgersi di lui. Se anche lo vide, non capì chi era, scorgendo solo una divisa nera uguale a tutte le altre tra i merli del castello. Le frecce di Daniel e la spada di Ian fecero il vuoto molto rapidamente nell'ampio tratto di terra battuta che divideva il ponte levatoio dalle prime case del borgo in fiamme.

Ian vide la strada quasi libera e vi si diresse correndo. Daniel capì l'intenzione dell'amico e fece per muoverglisi incontro.

Una figura nera emersa dal fumo del campo di battaglia lo bloccò e gli provocò un brivido.

Geoffrey Martewall stava ritornando verso il castello in sella al suo destriero. Era solo e non portava più la lancia, ma aveva la spada sguainata, rossa di sangue fino all'elsa. Forse aveva lasciato il suo luogotenente e i suoi cavalieri a terminare la cacciata degli invasori dal borgo in fiamme ed era tornato indietro per riprendere il suo posto di comandante al maniero o per assicurarsi che i nemici non avessero architettato sorprese alle sue spalle.

Comunque fosse, era là e con sgomento Daniel lo vide tirare le redini di colpo, non appena si accorse della figura solitaria e senza divisa che si stava dirigendo verso il ponte levatoio abbassato.

Ian si avvide del cavaliere inglese quasi allo stesso momento e si fermò dov'era, colto di sorpresa.

«No!» gridò Daniel, quando Martewall spronò il destriero verso il suo nemico a piedi.

Capitolo 18Geoffrey Martewall era sbucato dal fumo e dal fuoco, all'improvviso. Ian si arrestò di

colpo, ormai vicino al ponte levatoio, in un punto completamente scoperto e privo di ripari. Non si aspettava che il cavaliere inglese ritornasse così presto, non aveva modo di nascondersi per non farsi vedere.

Martewall infatti lo notò subito. Frenò il destriero, rimase immobile un attimo e il suo sbalordimento fu palese nonostante l'elmo gli coprisse completamente il volto.

Fu però solo un attimo.«TU!» ruggì l'inglese e, con un feroce colpo di speroni, puntò dritto sull'altro giovane

a spada tesa.Ian sostenne l'assalto con la sua lama e deviò l'attacco mentre il destriero gli

sfrecciava accanto al galoppo. Soffocò un'esclamazione di dolore, quando l'urto gli percosse i polsi e le braccia, ma ruotò su se stesso e si preparò ad affrontare il secondo passaggio del nemico.

Martewall si girò eppure non ritentò l'assalto. Si stava riavendo dalla sorpresa e impiegò qualche istante per valutare la situazione e decidere come agire.

Ian era rimasto in guardia, pronto a tutto, conscio di essere in svantaggio rispetto al nemico a cavallo. Martewall però scese di sella, si tolse l'elmo, lo gettò via insieme allo scudo e si abbassò il camaglio. Almeno due frecce gli fischiarono intorno, nella mischia del combattimento che ancora infuriava dappertutto, ma lui non vi badò. Venne avanti con la spada insanguinata e tesa, per affrontare il suo nemico faccia a faccia, da pari a pari.

Ian se lo trovò addosso come una furia e dovette impegnarsi fino all'ultima fibra per sostenere l'assalto.

Martewall era bravo, veloce e pericoloso. Poteva contare su un'esperienza da cavaliere che l'americano non avrebbe mai potuto avere e combatteva per uccidere. Sul volto aveva dipinta una ferocia spaventosa, unita a un evidente desiderio di rivalsa e di vendetta.

Ian dovette indietreggiare sotto il suo assalto. Si difese come poté, ma la lama del nemico sembrava sfuggire alla vista, tanto era veloce. Martewall sgusciò sotto la sua difesa e mirò al cuore. Non lo raggiunse, ma Ian barcollò con un'esclamazione di dolore quando la punta affilata gli sfregiò il petto, aprendogli uno squarcio nella tunica fino alla spalla sinistra.

Fece un balzo indietro, coprendosi con la mano libera la ferita che aveva iniziato a sanguinare, e si mise a distanza di sicurezza.

«Non scappare!» gli urlò Martewall, incalzandolo.Ian affrontò il suo attacco con più fatica. Il dolore però lo rese furioso e gli diede

nuova forza per reagire.«Ne ho abbastanza di te!» esclamò il giovane. Impegnò la spada del nemico, tentò di

strappargliela via. Non vi riuscì, ma poté tentare un secondo affondo dall'alto.Martewall si difese ancora una volta, parando, ma la forza del colpo che gli piombò

addosso fu tale da piegargli il braccio. L'inglese si sbilanciò, in parte scoperto. Ian colpì di taglio il fianco rimasto indifeso.

La sua lama lacerò la cotta nera e trovò l'usbergo. La maglia metallica stridette ma

resse e difese il suo padrone. Martewall gridò di dolore, eppure poté indietreggiare senza ferite, benché con il respiro spezzato e la sinistra premuta sotto le costole.

Questa volta fu Ian a incalzarlo, facendo pressione senza consentirgli di riprendere fiato. Martewall barcollò sotto l'assalto fino a dover quasi piegare un ginocchio a terra per non cadere.

Ian affondò la lama di punta, ma non trovò il bersaglio.Con un estremo guizzo, Martewall riuscì a sottrarsi, si spostò di lato e replicò

all'attacco. Fortunatamente la sua spada fu resa imprecisa dalla concitazione e dalla fatica, altrimenti avrebbe tagliato in profondità, raggiungendo l'avversario alle reni.

Conscio dello scampato pericolo, Ian si girò per mettersi il nemico di fronte e indietreggiò.

In quel momento, tre mercenari in divisa rossa scaturirono dalla cortina di fumo e polvere per attaccare il signore del castello, individuato nella confusione della mischia grazie alla sua livrea nera con il leone d'oro.

Due si gettarono su Martewall con spada e mazza, il terzo impegnò Ian, dopo averlo riconosciuto come uno dei ribelli che avevano attaccato dal fianco durante l'assedio.

Il giovane americano si trovò a difendersi contro un avversario armato d'ascia e quasi la spada gli si spezzò sotto i fendenti micidiali che ricevette. Evitò d'un soffio la lama puntata alla testa, poi un secondo attacco che gli avrebbe staccato un braccio, se solo l'avesse raggiunto.

Il mercenario era basso ma robusto e colpiva con esperienza. Ian dovette far uso di tutta la sua forza per tenergli testa e alla fine lo superò in velocità. Deviò l'ascia con la spada, poi si disimpegnò e colpì.

Il mercenario cadde senza un grido.«In guardia!» intimò invece una voce selvaggia.Col fiato corto, Ian fece appena in tempo a girarsi per ricevere l'assalto di Martewall e

pararlo alla bell'e meglio.Il cavaliere inglese aveva lasciato in una pozza di sangue i due mercenari che avevano

osato attaccarlo ed era di nuovo pronto a terminare il suo duello. Gli occhi chiari lampeggiavano quanto l'acciaio della sua spada.

I due avversari si scambiarono colpi micidiali per alcuni minuti, ciascuno mirando alla vita del suo nemico, ma nessuno dei due arrivò al bersaglio.

Ian alla fine fu costretto a indietreggiare di nuovo, senza più fiato e con la ferita che faceva male.

Anche Martewall però era a corto d'aria, stancato dal maggior numero di nemici che aveva dovuto affrontare e dal peso dell'usbergo, e allo stesso modo fece un passo indietro.

I due rimasero a studiarsi con odio, mentre riprendevano fiato, con la guardia alta.Ian sentiva il sangue colargli lungo il costato, dal taglio aperto sul lato sinistro del

petto. Era una ferita superficiale, ma bruciava in modo intollerabile.Martewall, da parte sua, aveva un braccio sanguinante per l'attacco dei mercenari e

continuava a tenere la mano contratta sul fianco che Ian gli aveva colpito pochi minuti prima. C'era mancato poco che il colpo del nemico gli spezzasse le costole e il cavaliere dovette stringere i denti per controllare il dolore.

«Giuro che ti ammazzo» minacciò tuttavia, alzando di nuovo la spada.«Vieni a provarci, se vuoi lasciare la testa sul terreno» replicò Ian e si preparò a

ricominciare lo scontro.Il duello però aveva alla fine attirato anche gli uomini di Dunchester. I soldati in

divisa nera, prima alcuni, poi sempre di più, si erano accorti che il loro signore era a piedi, senza elmo e senza scudo, l'avevano visto assalito dai mercenari e in molti adesso stavano accorrendo verso di lui da ogni parte per proteggerlo e aiutarlo. Si gettarono come lupi sulle ultime divise rosse che ancora incontrarono lungo il loro cammino, poi proseguirono verso Martewall e il suo sfidante.

Ian valutò la situazione con uno sguardo e capì che sarebbe stato presto circondato. Imprecò, ma seppe di non avere scampo e attese a guardia alzata l'assalto che l'avrebbe inevitabilmente sopraffatto.

«Non vi intromettete!» gridò però Martewall ai suoi uomini. «Non ho bisogno di voi!»

I soldati in nero si fermarono subito, presi in contropiede. Tutti tranne uno, che alzò l'arco con la freccia incoccata e

lo puntò sul barone inglese, nello sgomento generale.«Non ci provare: te l'ho già detto a Bouvines» minacciò l'arciere distintamente.Martewall si bloccò con la spada alzata, senza poter portare a termine il suo attacco.

Ian ebbe quasi un sobbalzo. Si girò e vide infine il volto di quello che credeva un soldato come gli altri. «Daniel!» esclamò, incredulo.

È vivo e incolume! pensò subito dopo, elevando un ringraziamento al cielo, nonostante il momento di pericolo.

Tutti i soldati intanto avevano reagito per intervenire: alcuni imbracciarono le balestre e le puntarono sui due americani.

La scena si congelò in un momento carico di tensione, in cui nessuno osava muoversi per paura che i nemici fossero più veloci a tirare.

«Martewall, lasciaci andare!»Fu Ian il primo a spezzare il silenzio. Adesso che aveva ritrovato Daniel non voleva

per nessuna cosa al mondo metterlo in pericolo di nuovo e perciò tentò una soluzione che non fosse quella dettata dalle armi. «Ci ammazzeremo a vicenda, se continuiamo questa lotta: lasciaci tornare per la nostra strada e finirà bene per tutti!»

Il cavaliere inglese lo stava studiando con occhi incandescenti, ignorando del tutto la freccia che Daniel gli teneva puntata contro. «Sei tornato per lui!» disse alla fine, realizzando l'idea.

«Credevi che l'avrei abbandonato nelle tue mani?» replicò Ian, sdegnato.Daniel si sentì colmare di riconoscenza, ma la dissimulò, per non abbassare la guardia

e tenere Martewall sotto tiro.«Per me è come un fratello, mi interessa solo la sua salvezza. Lasciaci andare e le

nostre strade non si incroceranno mai più» continuò Ian.L'inglese non rispose. I soldati in nero attendevano con le armi spianate il suo ordine,

pronti a sopraffare i due americani, ma allo stesso tempo temendo che un loro gesto costasse la vita al loro signore, minacciato dalla freccia.

«Ti ho aiutato a difendere il tuo castello: questa vittoria, la devi agli uomini del contado, ma anche a me» incalzò Ian, indicando in modo significativo il punto da cui era arrivato l'attacco dei ribelli di Willingham e Aversly. «Adesso devi lasciarmi libero insieme al mio compagno d'armi. Se hai onore, me lo devi».

Martewall tacque qualche istante ancora. «E tu credi davvero di potertene andare da

qui così?» disse alla fine.I soldati strinsero le armi, pronti al peggio.«Non puoi tenerci prigionieri!» esclamò Ian, alzando la spada nel vedere che ogni sua

parola cadeva nel vuoto.Daniel tese un po' di più l'arco, pronto a scoccare. «Ti assicuro che tu non resterai

vivo abbastanza per goderti la nostra prigionia, fosse l'ultima cosa che faccio» minacciò rivolto a Martewall, con rabbia disperata, conscio a sua volta che la situazione non lasciava scampo né a lui né a Ian.

Il cavaliere inglese, però, lo guardò senza la minima paura. Ian si rese conto troppo tardi che molti soldati avevano alzato gli occhi verso qualcosa alle spalle sue e di Daniel. «Basta così!»

Una voce perentoria spezzò la scena in quel momento.Daniel sentì una lama gelida posarsi sul collo da dietro. S'irrigidì, con sgomento

terribile, ma sapendo di non poter fare più nulla. Chiunque fosse, il nemico l'aveva sorpreso e reso inerme con un solo gesto.

Mentalmente, il giovane si maledisse mille volte per non averlo sentito arrivare.Ian si era girato di scatto verso la voce per trovarsi di fronte un destriero, sopraggiunto

alle sue spalle senza che lui potesse notarlo, tra la confusione del campo di battaglia e la tensione del confronto in corso.

Sulla sella c'era un cavaliere nero con una croce d'oro sulla fronte dell'elmo e sul petto della cotta nera, là dove sfoggiava anche il leone dei Martewall.

Ian non l'aveva visto passare prima insieme a Geoffrey Martewall e ai suoi compagni e dedusse perciò che il cavaliere sconosciuto arrivasse dal castello attraverso il barbacane aperto. Lo scortavano almeno dieci soldati a cavallo, ora fermi a poca distanza, con le lance pronte.

Dalla scorta e dal blasone, Ian capì di avere a che fare con un uomo importante del casato di Dunchester.

Sir Harald Martewall lo studiò dall'alto per un lungo momento, poi rivolse il suo sguardo ai soldati. «Adesso abbassate le armi. Tutti quanti» ordinò e il suo tono fu autoritario anche attraverso l'elmo.

Daniel dovette obbedire, sotto la minaccia della spada puntata alla nuca. Ian fece altrettanto, sconfitto.

I soldati di Dunchester respirarono di sollievo e, abbassate le armi, fecero per avvicinarsi e prendere in consegna i prigionieri, ma il loro signore li fermò all'istante. «No» ordinò, secco. «Prima voglio sapere con chi ho a che fare».

Daniel si tolse l'elmo per liberarsi d'istinto il viso, ma sapeva che l'anziano barone non si stava riferendo a lui con il suo discorso.

Sir Harald, infatti, ringuainò la spada e fece fare al suo destriero qualche passo verso Ian.

Il giovane lo guardò arrivare e sostenne il suo sguardo a fronte alta. «Sono il conte Jean Marc de Ponthieu, signore di Montmayeur e vassallo di Filippo Augusto di Francia» si presentò.

La rivelazione suscitò scalpore e ostilità tra i soldati in nero. Alcuni di loro alzarono d'istinto le spade verso il nemico francese, ma poi non osarono fare nulla senza un ordine diretto del loro signore.

A differenza dei soldati, sir Harald non si mostrò sorpreso. «Lo immaginavo»

commentò infatti. «Avete la stessa statura di vostro padre e gli stessi capelli scuri».«Lo conoscevate?» domandò Ian, con un segreto brivido di timore a quella frase

inaspettata.Quest'uomo conosceva il padre di Guillaume e Jean de Ponthieu? si domandò con

allarme, temendo il peggio. Guardò Daniel, quasi cercando aiuto, e vide l'amico fargli un lieve cenno di incoraggiamento per rassicurarlo.

«Eravamo compagni di crociata, benché sotto bandiere diverse» rispose sir Harald, semplicemente.

Ian stentò a tranquillizzarsi, nonostante l'espressione di Daniel gli facesse intuire che il segreto della sua identità non era in pericolo. Dovette convincersi che il cavaliere nero non sembrava mettere in dubbio il nome e il titolo che aveva appena udito, prima di allentare almeno un po' la tensione che gli percorreva i muscoli.

Sir Harald valutò entrambi gli americani ancora per qualche attimo, poi si rivolse a suo figlio Geoffrey, rimasto in cupo silenzio fino ad allora.

«Padre, non sareste dovuto uscire dal castello, è troppo pericoloso» disse il giovane freddamente, prevenendo ogni parola.

«Quest'uomo» sir Harald indicò Ian «è venuto a mettersi in pericolo per liberare un suo cavaliere».

«L'ho notato» replicò Martewall, aspro.«E davanti a tanta lealtà e coraggio, tu insisti nei tuoi propositi di vendetta?» proseguì

l'anziano barone con tono accusatorio.Daniel scambiò un'occhiata speranzosa con Ian.«Non cerco vendetta, solo la verità» si difese Geoffrey Martewall, sdegnato.«Ma le tue azioni sono mosse dal rancore, che ti spinge a negare anche i fatti più

evidenti» sentenziò il vecchio barone. «Se anche tu avessi preteso un'ordalia sulle parole di quello che consideri il tuo nemico, non avresti avuto risposta più chiara di così. Quanti impostori avrebbero rischiato tanto, se avessero potuto mettersi in salvo invece di sfidare la morte? Benché avesse ben poche probabilità di non incrociare la tua spada, questo cavaliere ha rischiato la vita per arrivare fino a qui ed è riuscito a ricongiungersi al suo compagno in pericolo. Questo per me è evidente quanto un giudizio di Dio sulla sua sincerità d'animo».

«O sulla sua incoscienza» replicò Martewall, con un'occhiata furente rivolta a Ian. «Se costui pensava sul serio di poter uscire vivo da Dunchester, ha davvero confidato troppo sulla sua fortuna».

Ian ricambiò il suo odio con uno sguardo identico, colmo d'indignazione. «Tu non hai alcun diritto di minacciarmi».

«Comunque sia, non puoi togliergli la libertà» aggiunse sir Harald. «Non fosse altro che per l'aiuto che ha dato nella difesa della nostra casa. E, a quanto ho saputo, il suo compagno d'armi non è stato da meno».

Martewall serrò la mano sull'impugnatura della spada, con violenza. «Non l'hanno fatto di certo per aiutare noi, ma solo perché serviva ai loro scopi, cioè alla fuga».

«Ciò nonostante, hanno combattuto i nostri stessi nemici, limitando le nostre perdite in battaglia, e se tu non provi riconoscenza per questo, io invece ne devo a tutti e due!»

Un moto di nervosismo passò tra i soldati, sentendo il tono dell'anziano barone salire con accusa crescente verso suo figlio.

«Non potete frenare la mia spada per questo motivo!» esclamò Martewall.

Il padre torreggiò su di lui dall'alto del suo destriero. «Il tuo onore dovrebbe trattenere la tua spada dal commettere ulteriori ingiustizie! Dimostra a te stesso che non ti è stato tolto del tutto, che non sei stato privato della dignità: le azioni degli altri non potranno mai disonorarti quanto le tue».

Geoffrey Martewall vacillò per la prima volta davanti a sir Harald e non trovò subito le parole per ribattere. «Perché mi fate questo?» protestò, ma a voce più bassa e vibrante.

«Perché sono tuo padre. Tu mi accusi di aver contribuito al tuo disonore e io sono stato debole, ti ho lasciato fare ciò che dettava il tuo rancore, ma adesso non ti consentirò di commettere altre azioni indegne di te, dovessi anche trattenerti con la forza. Mio figlio non rinnegherà per rabbia il codice cavalleresco».

Martewall tacque, questa volta a lungo. Infine, sotto lo sguardo di suo padre, abbassò leggermente la spada.

Ian e Daniel non osarono fare nemmeno un gesto per timore di interrompere quel confronto tra i due Martewall.

All'improvviso, richiami laceranti di corni risuonarono all'esterno del borgo di Dunchester. Si levarono nuove grida, rullarono molti tamburi. A questi fecero eco altri corni con segnali d'allarme.

Ian sobbalzò e così fecero Daniel e i soldati, i quali alzarono subito gli occhi verso la direzione da cui proveniva il clamore.

Anche attraverso la polvere e il fumo della battaglia ormai languente, si videro sventolare nuovi vessilli fuori dalla cinta muraria incompleta. Altre truppe stavano arrivando dietro quelle rosse ormai allo sbando. Ne arginavano la ritirata, ne ricompattavano le fila. Presto i mercenari smisero di indietreggiare.

«Ma che...» esclamò Daniel a metà, trattenendo il fiato davanti a quella scena inaspettata. Ian non seppe dire una parola. Martewall padre e figlio erano gli unici a non mostrarsi sorpresi dall'allarme improvviso.

«Suonate la ritirata!» urlò Geoffrey Martewall ai suoi uomini. «Tutti dentro le mura, subito!»

I soldati non si fecero ripetere l'ordine. Molti scattarono a diffondere le istruzioni e presto il suono del corno risuonò anche tra le mura del castello. Nel borgo ormai devastato il movimento degli armati invertì direzione.

Ian e Daniel videro arrivare al galoppo un cavaliere in verde e oro. Daniel sapeva che era Hector, poiché l'aveva visto senza elmo nel cortile prima della battaglia.

«Mio signore, arrivano!» annunciò il fiammingo, fermando il destriero accanto a Geoffrey Martewall appena prima di accorgersi dell'identità dei due americani in mezzo ai commilitoni e irrigidirsi per la sorpresa.

«Come si stanno disponendo?» s'informò Martewall, senza lasciargli tempo di fare domande.

Hector riportò l'attenzione sul suo signore. «Circondano le mura esterne, dieci uomini ogni cento passi. Sorvegliano tutto il perimetro. Davanti a noi, invece, ci sono già almeno quattrocento uomini. Portano un ariete e le baliste».

Daniel non aveva idea di cosa fossero le baliste, ma sapeva fin troppo bene cos'era un ariete e il solo sentirlo nominare gli fece correre un brivido freddo lungo la schiena. Vide che Ian era pallidissimo e intuì che la situazione era, se possibile, ancora peggiore di quanto si immaginasse.

Martewall accolse le notizie del suo luogotenente in funereo silenzio. «Venderemo a

caro prezzo le nostre vite» decise alla fine.Sir Harald non commentò. Era rivolto verso l'orizzonte e guardava il nemico arrivare.

Sulle sue spalle adesso sembrava calato un peso che lo schiacciava.I nuovi vessilli avanzavano in fretta e divennero presto distinguibili. Erano blu con sei

leoni d'oro rampanti in bella mostra.Ian sentì un brivido lungo la schiena, riconoscendo quello stemma già visto in guerra.

«William Lunga-Spada...» mormorò.«Cosa?!» esclamò Daniel con gli occhi sbarrati.Martewall guardò entrambi con amaro sarcasmo. «Non ve l'aspettavate? Eppure le

mie sentinelle avevano avvistato le sue truppe ieri sera. Temevo il suo arrivo da un momento all'altro. Non avrete pensato davvero che si potesse conquistareil mio castello solo con un manipolo di mercenari inaffidabili».

I mercenari erano soltanto la carne da cannone, si disse Ian dopo quel discorso e capì che tutti a Willingham, lui per primo, avevano fatto un clamoroso errore di valutazione, pensando che nessun feudatario avrebbe mai risposto all'appello di re Giovanni per attaccare uno di loro: avevano dimenticato chi era più legato al re che agli altri nobili, William Lunga-Spada, conte di Salisbury e fratellastro di Giovanni Senza Terra. Un condottiero temibile ed esperto, che aveva fatto tremare più di un campione sul campo di battaglia.

Siamo in trappola, pensò Ian disperatamente. Smarrito, guardò Martewall, che gli fece una smorfia di commiserazione.

«Messieurs, benvenuti a Dunchester. Vi avevo avvertito che non sarebbe stato facile allontanarsi da qui: vostro malgrado la vostra permanenza dovrà protrarsi ancora per un po'» disse il cavaliere inglese, abbassando definitivamente la spada.

Capitolo 19Le truppe del conte di Salisbury presero quartiere nei prati incolti entro la prima cinta

di mura di Dunchester. Non attaccarono. Da condottiero esperto, William Lunga-Spada attese pazientemente che l'intero villaggio davanti al castello bruciasse, riducendosi in cenere, e non mandò avanti uno solo dei suoi uomini, approfittando piuttosto delle ultime ore di luce a disposizione per far erigere il suo accampamento, fuori portata da qualsiasi tipo di arma da lancio degli assediati.

Gli uomini di Dunchester si erano ritirati in fretta ma ordinatamente all'interno del castello, portandosi dietro i feriti e cercando di trasportare anche qualsiasi materiale che potesse essere utile nel prossimo futuro, recuperandolo da ciò che rimaneva nel borgo ormai distrutto.

Il ponte levatoio venne alzato, i due cancelli del barbacane ricaddero come mannaie da un lato all'altro del tunnel.

Dunchester fu di nuovo isolato dal resto del mondo, asserragliato sullo strapiombo che dava sul mare.

Ai suoi difensori non rimase altro che guardare impotenti dagli spalti gli assedianti che si organizzavano per passare la notte e riprendere le ostilità l'indomani.

La giornata finì così, in un cupo silenzio.Ian e Daniel trovarono rifugio dove meno se l'aspettavano: al maniero dei Martewall,

insieme a tutti i superstiti dell'attacco di quella mattina, compresi gli uomini venuti da Aversly e Willingham.

I ribelli dei boschi erano stati costretti a ripiegare dentro le mura, completamente tagliati fuori da qualsiasi via di fuga dalle nuove truppe reali che avevano circondato il perimetro esterno. Quelli che avevano tentato di scappare verso il contado erano stati catturati subito dai soldati di Salisbury e di loro non se n'era avuta più notizia.

Per quanto avevano potuto sapere i rifugiati nel maniero, nessuno era riuscito a sfuggire alla cattura per ritornare dalle famiglie accampate a Willingham.

Ian e Daniel vennero invece presi in consegna subito dai soldati di Martewall e furono scortati con estremo sospetto all'interno del castello, al seguito dei padroni di casa. Passando attraverso la corte esterna, Ian poté scorgere Thomas Bull tra i rifugiati e si sentì sollevato nel vederlo vivo e incolume, ma non ebbe modo di dirgli nemmeno una parola.

Tutti facevano largo con deferenza all'arrivo del piccolo corteo guidato da sir Harald in persona. Dietro di lui cavalcavano il figlio Geoffrey e il cavaliere fiammingo Hector, poi venivano i soldati a piedi e gli sguardi cupi degli armati tenevano a distanza chiunque.

I soldati, d'altra parte, non consentivano ai due sorvegliati speciali di allontanarsi dal gruppo nemmeno di un passo.

Ian guardò Bull da lontano, ma non riuscì a fargli un solo cenno d'incoraggiamento, né ne ricevette in cambio. L'espressione dell'ex-soldato era fin troppo sbalordita e Ian sapeva che la sua identità di Jean Marc de Ponthieu, conte e nemico francese, era già circolata di bocca in bocca, veloce come il vento. Sentiva sussurrare il nome con incredulità al suo passaggio e non gli fu facile sostenere tutti quegli sguardi sulle spalle. Cercò di immaginarsi cosa potessero pensare gli improvvisati compagni che avevano combattuto accanto a lui fino a poco prima e sapeva che si sentivano ingannati e traditi.

Provò un cupo senso di colpa, benché non avesse mai voluto imbrogliare nessuno con il suo comportamento dettato dalla necessità.

Daniel gli camminava a fianco in silenzio, guardando avanti, sopportando gli sguardi ostili a cui si era dovuto abituare ormai da qualche giorno. Gli stringeva il cuore l'idea di aver trascinato Ian verso una probabile prigionia e un futuro che si prospettava del tutto precario; allo stesso tempo si sentiva vergognosamente in colpa perché la vicinanza dell'amico gli suscitava un grande sollievo e lui era felice di averlo di nuovo accanto.

Seguì i soldati, rivolgendo di tanto in tanto un'occhiata furtiva a Ian per studiarne l'espressione mesta.

Il gruppo armato si fermò solo quando fu nel cortile interno del castello.Lì i servi corsero prontamente da sir Harald e lo aiutarono a scendere di sella, poi

portarono via i cavalli, compresi quelli di Geoffrey Martewall e di Hector.Daniel adocchiò con ansia la porta massiccia che da quel cortile conduceva nelle

segrete dov'era stato rinchiuso fino a quella mattina, ma nessuno dei soldati vi si avvicinò né fece cenno a lui di dirigersi da quella parte. Gli intimarono tuttavia di togliersi e riconsegnare la divisa nera indossata sopra i vestiti, come se il solo portarla la disonorasse in modo per loro intollerabile. Daniel obbedì in silenzio e si vide sequestrare anche la spada sottratta al soldato di guardia insieme alla cotta.

Sir Harald nel frattempo si era tolto l'elmo e, appoggiandosi al bastone portatogli subito da un servo, andò a fermarsi davanti a Ian.

I soldati s'innervosirono d'istinto, poiché il giovane aveva ancora la sua spada in cintura, ma il vecchio barone sembrò non farvi nemmeno caso e si accostò senza timore.

Ian lo studiò in silenzio e fu colpito nel vederlo così anziano e infermo. Non se l'aspettava, avendolo conosciuto con l'armatura addosso e la spada cinta al fianco. Allo stesso tempo, però, provò un istintivo rispetto per quell'uomo tanto solenne e agguerrito.

Anche il vecchio barone l'osservava attentamente.«Monsieur de Ponthieu, voi mi date la vostra parola che non farete nulla che possa

minare la difesa della mia casa, nonostante l'inimicizia che corre tra voi e mio figlio?» domandò alla fine.

«Non ho alcun motivo né intenzione di danneggiare Dunchester, ve lo giuro su ciò che mi è più sacro» replicò Ian, sostenendo con uguale serietà lo sguardo del barone. «Farò tutto ciò che posso per non coinvolgere mai più altri nella questione personale pendente tra me e vostro figlio».

L'uomo approvò la sua risposta con un cenno del capo. «Molto bene».«Spero, signore, che da parte vostra vi sia lo stesso impegno a lasciar fuori da questo

dissidio chi non c'entra» aggiunse Ian, ma guardò direttamente Geoffrey Martewall, fermo in silenzio a qualche metro di distanza. L'allusione a ciò che era accaduto a Daniel fu chiara a tutti, benché lasciata inespressa.

Il cavaliere inglese scoccò al suo avversario il più ostile degli sguardi, in risposta a quell'accusa implicita. «Se non scapperai un'altra volta, ce la vedremo personalmente io e te, puoi starne certo» replicò, aspro.

«Vieni a cercarmi da uomo a uomo e non con dieci sgherri a spalleggiarti e mi troverai quando vuoi» lo rimbeccò Ian, con uguale durezza.

I due si affrontarono in silenzio, entrambi con i pugni serrati.Daniel assistette a quel confronto con ansia, sentendo la tensione salire.«Ci sono già state abbastanza ostilità per oggi, non desidero che ve ne siano altre»

intervenne sir Harald, fermo ma senza alzare il tono, e la sua frase mise un freno al crescere del contrasto. «Vi prego entrambi di rispettare la mia richiesta e di portarvi il dovuto rispetto finché sarete nella mia casa» aggiunse, lanciando un'occhiata significativa soprattutto a suo figlio.

Ian si piegò al desiderio del barone chinando lievemente il capo per assentire. Martewall dovette fare lo stesso, in silenzio contrariato.

«Monsieur de Ponthieu, mi aspetto di avervi ospite a cena con il vostro compagno d'armi» concluse sir Harald. Si girò verso i servi e ordinò loro di preparare una stanza per gli ospiti. «Fate in modo che abbiano ciò di cui hanno bisogno, dopo tante peripezie» aggiunse, prima di allontanarsi con passo ormai affaticato.

I servi si affrettarono a obbedire senza discutere. I soldati invece si guardarono l'un l'altro, come se fossero sorpresi di essere rimasti senza ordini. Rivolsero a Geoffrey Martewall un'occhiata interrogativa e il cavaliere fece cenno a tutti di ritornare alle postazioni sulle mura dove sarebbero stati più utili. Soltanto due soldati rimasero nel cortile, chiamati in disparte da Hector.

I servi invitarono Ian e Daniel a seguirli.«Mio signore» chiamò però Ian, rivolto al vecchio barone, già lontano di qualche

passo. «Gli uomini che erano con me, venuti dai boschi, hanno lasciato le loro famiglie per difendere il castello. Che ne sarà di loro adesso?»

Sir Harald si fermò e si voltò con un sospiro stanco. «Non abbiamo modo di raggiungere quelle famiglie e comunque, credetemi: saranno più al sicuro fuori da qui. Gli uomini rifugiati tra queste mura saranno trattati con tutti i riguardi, non dovete preoccuparvi. Farò in modo che abbiano anche loro cibo, cure e tutto ciò che serve, per quanto possibile, vista la situazione».

«Grazie, signore» disse Ian e fece un breve inchino di riconoscenza.Il vecchio barone lo studiò ancora una volta, da lontano, prima di allontanarsi. «Siete

un giovane premuroso e umile, milord. Non me l'aspettavo, conoscendo la fierezza di vostro padre».

Quel discorso e il titolo onorifico pronunciato a sorpresa fecero di colpo ricordare a Ian la sua posizione nella scala gerarchica. All'improvviso il giovane prese coscienza di essere l'uomo più altolocato di tutta Dunchester e la cosa lo spiazzò per qualche istante. Tecnicamente, portava un titolo nobiliare superiore a quelli degli stessi signori del castello e come conte poteva portare in Inghilterra il nome di "lord".

Si sentì fuori posto nell'essere chiamato con quell'appellativo altisonante dall'anziano Martewall, sicuramente degno più di lui del titolo nobiliare che portava, ma sapeva di doversi adeguare all'uso dell'epoca e perciò cercò di nascondere il suo disagio. Si chiese piuttosto se non avesse già detto o fatto qualcosa di inadatto alla figura aristocratica che doveva interpretare davanti agli occhi del mondo. Forse un vero conte si sarebbe atteggiato in modo diverso davanti a dei semplici baroni.

Ian non poté fare a meno di rivolgere un'ennesima occhiata a Geoffrey Martewall, spettatore muto di tutta la scena, e si chiese cosa stesse pensando.

«Da questa parte, signori». I servi lo distrassero perché indicarono a lui e Daniel di proseguire nella stessa direzione in cui si era incamminato sir Harald.

I due americani capirono che sarebbero stati alloggiati nel mastio per volere dell'anziano padrone di casa e si scambiarono un'occhiata sorpresa, prima di sbirciare le reazioni di Geoffrey Martewall.

Il cavaliere inglese non aggiunse una sola parola al suo silenzio, anche se la sua espressione era più eloquente di mille discorsi. Si girò e si allontanò per tornare con Hector verso la corte esterna.

I due soldati rimasti nel cortile, invece, si incamminarono con i servi e gli americani verso il maniero.

***

Gli ospiti forzati vennero condotti in un stanza situata al secondo piano, la cui finestra, come tutte quelle dei locali posti nei piani bassi del complesso del castello, era rivolta verso l'interno del cortile.

Vi era un camino, acceso in fretta dai servi, una cassapanca con alcuni sgabelli e un letto spartano ma grande, in cui avrebbero potuto dormire anche più persone, secondo l'usanza medievale. I servitori portarono catini d'acqua, tutto il necessario per lavarsi e persino abiti puliti. Poi si dileguarono senza una parola. Fuori dalla porta chiusa si misero di guardia i due soldati armati.

Rimasti finalmente soli, i due amici si scambiarono un abbraccio d'infinito sollievo per essersi ritrovati.

«Ho avuto paura» confessò Daniel con emozione. Ian lo strinse forte, fraternamente. «Anch'io».

Per qualche minuto non ebbero bisogno di ulteriori parole, poi la stanchezza ebbe il sopravvento e i due si sedettero sulla cassapanca e su uno sgabello, uno di fronte all'altro, a raccontarsi nei dettagli i fatti avvenuti in quei giorni di separazione obbligata. Quando il racconto di entrambi finì e i due ebbero nel frattempo ripreso un po' le forze, Ian si scoprì la ferita per poterla medicare.

«È grave?» si allarmò subito Daniel.«Solo un graffio» lo rassicurò l'amico, ma con una smorfia di dolore. «Per fortuna non

sanguina quasi più». Si guardò intorno in cerca di qualcosa con cui fasciare la ferita, ma non trovò nulla di utile.

In quel momento qualcuno bussò alla porta e subito dopo entrò, senza aspettare di essere invitato. Ian rimase sorpreso nel veder comparire una fanciulla, vestita sobriamente ma con l'eleganza di una dama, accompagnata da una serva più anziana con in braccio un paniere e un cofanetto. La ragazza aveva un'espressione decisamente ostile, anche se controllata in modo ferreo.

Daniel si alzò in piedi, riconoscendo Leowynn Martewall. «Dama Leowynn è la figlia del padrone di casa» annunciò a Ian, per chiarire subito la situazione.

L'altro americano, già alzatosi per rendere omaggio alla ragazza, si riprese prontamente dalla sorpresa e fece un inchino con grande deferenza.

«Madonna, è un onore» la salutò.«Mi è stato detto che siete ferito» replicò lei, gelida, e fece cenno alla serva perché

disponesse sulla cassapanca le cose che teneva in braccio.La donna appoggiò il cofanetto e lo aprì, rivelando boccette e vasetti di medicamenti.

Nel paniere, invece, aveva bende e una fiaschetta di quello che doveva essere vino caldo per disinfettare, a giudicare almeno dall'odore alcolico che si spanse nell'aria quando il contenuto venne versato nel più piccolo dei bacili d'acqua presenti nella stanza.

Ian capì le intenzioni delle due e si schermì subito. «Non c'è bisogno che vi disturbiate

tanto per me, posso fare da solo, ve l'assicuro, signora».Leowynn gli rivolse un'occhiata ancora più dura. Si vedeva che avrebbe preferito

mille volte essere altrove piuttosto che lì, eppure mise mano ai medicamenti senza esitare. «Sono io che mi occupo dei malati e dei feriti qui a Dunchester e voi non farete eccezione, signor conte. Prima mi lasciate fare e prima potrò tornare da tutti gli altri che hanno bisogno».

Pronunciò il titolo onorifico come se fosse un insulto e Ian ritenne più opportuno non contrariare la dama. Si risedette sullo sgabello che la ragazza gli aveva indicato con un gesto della mano, aristocratico ma perentorio, e attese in silenzio.

Leowynn Martewall lo odiava, era evidente: probabilmente in lei c'era il riflesso dei sentimenti di suo fratello, ma soprattutto il diffuso rancore degli Inglesi nei confronti di tutti i Francesi, accentuato dall'esperienza di chi ha sofferto molto a causa della guerra appena conclusa.

Ian sapeva di non avere argomenti per poter alleviare quell'ostilità nei suoi confronti. Si lasciò denudare il torace sul lato sinistro, il petto, la spalla e il braccio, e subì la medicazione senza un fiato.

Leowynn fu coscienziosa ed efficace, nonostante tutto. Cercò di non provocare più dolore del necessario, anche se non batté ciglio quando il ferito s'irrigidì sotto il lavoro di sutura. Lavò, disinfettò e ricucì la ferita in silenzio e con mano esperta, senza mai guardare negli occhi il paziente, come se non esistesse nemmeno e lei si stesse dedicando a un semplice lavoro di ricamo. Daniel, però, dall'angolo in disparte in cui si era seduto per non essere d'intralcio, la vide corrugare la bella fronte e sbiancare leggermente quando, passando dietro a Ian per andare a riporre gli unguenti, notò, almeno in parte, le cicatrici lasciate dalla frusta di Derangale.

Leowynn, comunque, non commentò e, subito dopo, andò direttamente da Daniel. «Fatemi vedere anche le vostre ferite, sir».

«Sono solo lividi, signora, non c'è bisogno di niente» tentò di obiettare il giovane, ma la fanciulla gli prese le mani e gli arrotolò le maniche per mettere a nudo le braccia sui cui erano evidenti le lacerazioni dovute alle corde e i lividi dell'interrogatorio.

Questa volta fu Ian a rabbuiarsi, vedendo le ferite e -i segni violacei evidenti sugli avambracci, estendersi sotto le maniche verso le spalle, ma non disse niente, preferendo attendere di rimanere solo con l'amico.

Leowynn operò la sua medicazione ugualmente in silenzio, sempre con l'aiuto della serva che le porgeva le bende. Non alzò gli occhi nemmeno su Daniel, ma la sua espressione sembrava più turbata e, forse, in parte colpevole.

«Siete ferito in qualche altro punto?» domandò alla fine la fanciulla, indicando il torace del giovane, ma Daniel fece un deciso cenno di diniego. «Avete già fatto il necessario, signora, non preoccupatevi oltre. Andate da chi ha più bisogno di me, io sto bene».

Lei lo indagò un attimo negli occhi, poi ripose ogni cosa nello scrigno e lo chiuse con cura. Si congedò con un inchino freddo.

«Ci rivedremo a cena» disse semplicemente e sparì oltre la porta insieme all'anziana serva, senza aspettare replica.

Ian si lasciò sfuggire un sospiro, non appena le due se ne furono andate. «E socievole quanto suo fratello, ma posso capirla» disse accennando in modo eloquente a Leowynn.

«Era nella segreta con Martewall e suo padre. Mi era sembrata molto spaventata da

quello che stava accadendo» replicò Daniel.«Immagino». Ian non aggiunse altro per qualche istante. «Sei sicuro di stare bene?»

domandò poi, accennando cupamente ai lividi che l'amico esibiva ancora sulla braccia scoperte.

«Ne ho degli altri addosso, se è questo che vuoi sapere, ma è roba vecchia, ormai» sospirò Daniel e si decise ad alzarsi dallo sgabello per andare a lavarsi in un catino.

Quando si tolse anche la camicia, Ian poté vedere le contusioni che l'amico portava sul torace. «Martewall me la pagherà per quello che ti ha fatto» promise a Daniel con indignazione.

«Questi lividi non sono opera sua. Probabilmente non avrebbe mai voluto che accadesse» replicò l'altro con onestà. «Lui non c'era e i suoi uomini hanno fatto di testa loro. Per un attimo ho temuto che mi ammazzassero, se non interveniva il vice di Martewall, Hector, a fermarli».

«Martewall mi pagherà comunque tutto il resto» brontolò Ian, restio a concedere delle attenuanti al suo nemico.

Daniel non gli rispose e cominciò a lavarsi, grato di poterlo finalmente fare.Stancamente, anche Ian lo imitò e quasi un'ora dopo i due si ritrovarono entrambi

seduti a terra davanti al caminetto acceso ad asciugarsi i capelli al calore del fuoco, dopo aver indossato gli abiti puliti che erano stati fatti recapitare loro dal padrone di casa.

«Un'idea del vecchio Martewall, immagino. Non credo proprio che dobbiamo questa cortesia a suo figlio» commentò Daniel con una smorfia sarcastica.

Ian fu d'accordo con lui. Anche la visita di dama Leowynn era sicuramente stata imposta dall'anziano signore del castello.

«Che cosa accadrà adesso?» domandò Daniel, guardando l'amico alla luce del camino.«Dunchester subirà l'assedio e temo che non potrà resistere per molto» rispose Ian,

strofinandosi pensosamente i capelli. «Purtroppo non credo che gli altri feudatari verranno ad aiutare i Martewall contro il re. Non subito, almeno».

«Tu conosci già il futuro» intuì Daniel da quel discorso. «Che cosa sai?»«Non sono proprio esperto di questa guerra» dovette ammettere Ian. «I testi dicono

che la rivolta scoppia all'inizio del 1215, cioè l'anno in cui ci troviamo, ma non so con esattezza quando né dove. Forse tra poco, forse tra un mese o due, qui o dall'altra parte dell'Inghilterra, chi lo sa? Quello che so io è che i baroni arriveranno a prendere persino Londra dopo mesi di battaglie, ma questo accadrà solo verso l'estate. Il fatto è che qui noi non dureremo a lungo».

«Nessun indizio utile su Dunchester? Avevi detto che il nome forse ti ricordava qualcosa».

Ian scosse la testa. «Ci ho pensato e ripensato almeno mille volte, ma non mi viene in mente niente. Eppure so di aver già letto il nome da qualche parte, però poteva anche essere un avvenimento di un periodo diverso del Medioevo. Ne ho studiati tanti, di libri, chissà dove ho trovato il nome di Dunchester».

«E che mi dici di questo conte di Salisbury, William Lunga-Spada? Io me lo ricordo a Bouvines: era un bravo condottiero».

«Già. Purtroppo è anche un alleato di Giovanni Senza Terra, almeno per il momento. Combatterà con il re per tutta la durata della guerra civile, anche se con poca convinzione, salvo poi correre a omaggiare Luigi di Francia, quando ormai la situazione sarà compromessa».

Daniel spalancò gli occhi. «Luigi di Francia? Il principe Luigi, intendi? Il figlio di Filippo Augusto?»

Ian annuì. «Sì, proprio quello che stava tenendo in scacco l'esercito inglese nel sud della Francia mentre noi eravamo a Bouvines. La futura guerra civile inglese si svolgerà così: prima i baroni, capeggiati da un tale sir Robert Fitz-Walter, si faranno firmare con la forza la Magna Charta Libertatum da re Giovanni...»

«La... cosa?»«Magna Charta Libertatum: immaginala come una specie di costituzione, in cui

vengono stabiliti uno per uno i limiti del potere del re nei confronti dei suoi baroni. Questo documento verrà firmato a giugno, dopo che i baroni ribelli avranno conquistato Londra. A quel punto la guerra civile si fermerà. Poi però Giovanni Senza Terra rinnegherà ciò che lui stesso ha firmato e i combattimenti riprenderanno. La guerra durerà più di un anno e nel frattempo i baroni inglesi chiederanno aiuto al principe di Francia. Arriveranno addirittura a offrirgli la corona d'Inghilterra e il principe accetterà. Sbarcherà personalmente a Dover tra più di un anno, nel maggio 1216. Solo a quel punto, con re Giovanni ormai sconfitto, William Lunga-Spada accoglierà il principe Luigi insieme a molti altri notabili d'Inghilterra, compreso il re di Scozia».

«E un principe di Francia salirà al trono inglese?» Daniel era sbalordito.«No. Gli inglesi si rivolteranno anche contro di lui, non appena re Giovanni morirà, e

metteranno sul trono Enrico III. E solo un bambino, perciò i baroni potranno fare il bello e il cattivo tempo per un bel pezzo, manovrando il piccolo principe a loro piacimento per fargli emettere leggi a loro favore. La monarchia inglese non sarà mai più la stessa».

«E dietro tutto questo intrigo c'è William Lunga-Spada?»«In gran parte credo di sì. È uno degli uomini più potenti d'Inghilterra e di sicuro è

uno che sa come muovere le pedine sulla scacchiera a suo assoluto vantaggio. Uno di quelli che restano sempre a galla, insomma».

«Ma re Giovanni non è suo fratello? Lo abbandona così appena le cose si mettono male?»

«Giovanni è il suo fratellastro e tieni presente che non deve essere un soggetto molto affidabile, visto che ha praticamente tentato di usurpare il trono del suo legittimo fratello Riccardo appena ne ha avuta l'occasione. In ogni caso, William Lunga-Spada fa tutto ciò che deve per mantenere il trono in mani inglesi. La sua fedeltà va alla nazione più che al singolo uomo che porta la corona sulla testa».

Daniel rimuginò sulle informazioni per un altro po', in silenzio. «Noi cosa possiamo fare?» chiese alla fine.

«Hai provato a chiamare Hyperversum?» gli domandò Ian a sua volta.«Non ne ho avuto modo, nelle ultime ore».«Tenta adesso. Siamo insieme, forse il passaggio funziona». Daniel eseguì.«Help» pronunciò distintamente ma, come si aspettava, nulla accadde.«Niente da fare» sospirò il giovane, dopo aver tentato per scrupolo tutti i comandi che

conosceva e lasciò ricadere la mano.I due amici si guardarono a vicenda in silenzio, sapendo che senza Hyperversum le

loro possibilità di fuga si riducevano praticamente a zero.«Non ci resta che aiutare la difesa di Dunchester come possiamo, almeno per

guadagnare tempo, mentre speriamo che qualcuno ci aiuti davvero» disse alla fine Ian. «Se finiamo nelle mani di William Lunga-Spada e quindi del re, la nostra posizione può

solo peggiorare. Per loro siamo francesi, lo sai, e per giunta siamo i cavalieri che li hanno sconfitti e umiliati a Bouvines».

«Martewall ci accetterà mai a combattere accanto ai suoi uomini? Parlo di Geoffrey Martewall, ovviamente. Anche per lui e per tutti i suoi siamo i nemici che li hanno umiliati».

«Cercherò di convincere suo padre, lui mi ascolterà, almeno spero. Se mi riesce, farò leva sui vecchi legami di guerra che aveva con i Ponthieu».

«D'accordo» annuì Daniel.«Nel frattempo, voglio che tu continui a cercare di attivare Hyperversum, ogni volta

che ne hai la possibilità. Non rinun ciare mai. Lo sai cos'è accaduto la volta scorsa: ha ricominciato a funzionare quando meno ce lo aspettavamo».

«Lo farò, contaci».Ian rifletté ancora qualche secondo. «Vorrei tanto sapere perché si è bloccato

all'improvviso».«E chi lo sa?» sospirò Daniel. «Mi rifiuto di pensare a un'altra catastrofe di qualche

genere. Spero sia un problema del computer. Magari è solo un black-out, almeno così mi auguro».

I due tacquero ancora, ciascuno rimuginando sul futuro. «Mi dispiace» disse d'un tratto Ian e aveva gli occhi bassi. «Mi dispiace infinitamente».

«Di cosa?» si stupì Daniel.«Ti ho messo di nuovo in pericolo. Non me lo perdonerò mai». Ian si passò la mano

sul viso, con dolore. «Se tu non fossi stato con me, se solo ti avessi convinto ad andartene quando potevi farlo...»

L'altro giovane si protese d'istinto verso di lui per stringergli una spalla con la mano. «Io ti ho messo in pericolo» l'interruppe con commozione. «Se tu non fossi venuto a cercarmi, a quest'ora saresti libero e in salvo da Isabeau. È colpa mia, se adesso sei intrappolato qui».

«Non avrei mai potuto vivere tranquillo, senza essere sicuro che tu fossi in salvo. Dovevo accertarmi che tu fossi riuscito a fuggire» protestò Ian.

«E io dovevo accertarmi che tu arrivassi sano e salvo a Chatel-Argent, per questo ti avrei accompagnato nel viaggio a qualsiasi costo, nonostante tutto quello che potevi dire» replicò l'amico.

Seguì di nuovo il silenzio, poi entrambi i giovani si sorrisero mestamente, sapendo che le cose non sarebbero potute andare in modo diverso.

«Ne usciremo insieme» disse alla fine Daniel.«Sì» annuì Ian.Un servo bussò alla porta per avvertire che la cena era servita.

***

Un momento di silenzio ostile accolse i due stranieri quando fecero il loro ingresso nell'edificio che fungeva da sala di riunione e da pranzo per buona parte della popolazione del maniero.

A differenza di Chàtel-Argent e dei castelli che Ian e Daniel avevano potuto vedere in Francia, Dunchester non aveva un torrione centrale nel quale erano riuniti tutti gli ambienti necessari alla vita quotidiana, ma era composto da edifici distinti anche se

contigui, spesso non comunicanti tra loro e disposti in modo da formare un quadrato intorno al cortile centrale. La sala grande era un edificio posizionato in un angolo del quadrato e collegato ai locali della cucina. Aveva il tetto a spiovente, sorretto da archi e travi di legno, due enormi camini alle due estremità opposte e tre alte finestre senza imposte, chiuse da finte vetrate fatte con lamine di osso levigato, abbastanza trasparenti da lasciar passare il sole quando era giorno.

In quel momento le numerose torce accese gettavano luce sui tavoli di legno ai quali sedevano almeno centocinquanta persone, per lo più soldati, cavalieri e funzionari. In fondo alla sala vi era il tavolo del padrone di casa, posto in modo da dominare con lo sguardo l'intera stanza.

Seguiti dall'ostilità generale, Ian e Daniel vennero scortati fino al punto in cui sedeva sir Harald e fatti accomodare ai posti riservati agli ospiti, appena accanto a quelli destinati alla famiglia del signore.

I soldati che li avevano accompagnati insieme al servo andarono a sedersi insieme con i commilitoni, in un angolo della sala.

Geoffrey Martewall era alla destra di suo padre e accolse con il solito gelido rancore i due ospiti. Leowynn non alzò nemmeno gli occhi dal tavolo e si limitò a bere dalla sua coppa.

Intorno alla stessa tavola vi erano anche Hector e almeno uno dei fiamminghi che accompagnavano Martewall in Francia, più altri uomini armati di spada, una dozzina in totale, di età diverse.

Ian dedusse che quelli seduti intorno al signore fossero tutti i cavalieri di Dunchester, mentre gli armati agli altri tavoli dovevano essere gli ufficiali di grado inferiore e i soldati non impegnati nelle ronde. In aggiunta, nella salavi erano i funzionari del castello e, in alcuni casi, le mogli.

I servi stavano già portando il cibo e la birra e quindi presto il brusio della cena riprese a risuonare nella sala. Erano discorsi cupi e bassi, senza risa o toni squillanti. Sull'intera sala aleggiava la consapevolezza del nemico acquartierato fuori Dunchester, paziente, sicuro e mortale come il ragno nella sua tela.

«Perdonate la semplicità di questa cena, ma al castello adesso abbiamo molte bocche da sfamare e le scorte andranno razionate. Voi mi capirete» annunciò sir Harald ai due ospiti, quando si furono seduti.

«Siamo abituati a pretendere molto meno di così da una cena» rispose Ian per entrambi. «Vi siamo grati per la vostra ospitalità».

I servi portarono carne alla brace, pane e birra con un po' di frutta essiccata. All'anziano e malato padrone di casa venne servito con premura anche un piatto di uova arricchite con burro, erbe e spezie come zafferano, timo e zenzero.

I due amici iniziarono a mangiare con gli altri, in silenzio, sentendosi indesiderati a quel tavolo. Di certo, a parte sir Harald, nessuno disse una parola per alleviare il disagio. Gli altri cavalieri ignorarono semplicemente gli stranieri e ricominciarono a parlare tra loro.

Erano discorsi vaghi, però, notò Daniel. Nessuno parlava apertamente del nemico o della battaglia che sarebbe ricominciata l'indomani e il giovane non fece fatica a capire il perché: non si fidavano a parlare di strategia con due potenziali nemici e spie al loro tavolo.

Gli bastò uno sguardo per condividere quel pensiero con Ian e l'amico annuì. Terminò

la carne che gli era stata messa nel tagliere, bevve un sorso di birra e infine prese la parola, approfittando di un momento di pausa del discorso.

«Signore, vorrei che consideraste l'ipotesi di accettare il nostro aiuto nella difesa di Dunchester» esordì rivolto a sir Harald, sotto gli sguardi attoniti di tutti.

Il silenzio gelò la tavolata e si propagò in un istante in tutta la sala, man mano che la notizia arrivò alle orecchie di tutti.

Se avesse annunciato che voleva dar fuoco al castello, avrebbe suscitato meno scalpore, pensò Daniel, bevendo nel frattempo la birra dalla sua coppa per nascondere la tensione e fingere tranquillità.

«No!» scattò immediatamente uno dei cavalieri inglesi, il primo a riaversi dalla sorpresa, e si alzò addirittura in piedi mentre anche gli altri rumoreggiavano, ma poi fu ripreso dall'occhiata gelida di Geoffrey Martewall, che costrinse tutti alla calma.

«No» ripeté comunque il cavaliere, sedendosi di nuovo rigidamente sulla panca, mentre anche il brusio nella sala ricominciava, passato il momento di sbalordimento.

«Non possiamo accettare un aiuto simile» aggiunse l'uomo, rivolto al signore del castello, senza più guardare Ian.

«Perché?» gli domandò però il giovane, inducendolo a voltarsi per rispondergli.«Perché siete un francese» fu la prima, ovvia risposta.«E nemico di Giovanni Senza Terra, esattamente come voi in questo momento»

aggiunse tuttavia Ian, calmo. «Ditemi che non avete bisogno di due cavalieri in più per difendere il castello e io ritirerò la mia proposta».

«Non abbiamo bisogno di due nemici in più» intervenne un inglese più giovane, con rabbia, approvato dal primo compagno. «Chi ci dice che non approfitterete dell'assedio per distruggerci?»

Daniel lo fulminò con un'occhiata sdegnata, mentre posava la sua coppa sul tavolo bruscamente.

«Se io e il mio compagno fossimo catturati dal re d'Inghilterra, credete che avremmo sorte migliore della vostra?» rispose però Ian prima di lui. «Non è un motivo sufficiente per desiderare che Dunchester resista il più a lungo possibile?»

«E la vostra inimicizia con il nostro signore è più che sufficiente per desiderare la rovina della sua casa» replicò il cavaliere, mentre il compagno anziano annuiva.

«Sir Kerwick, calmatevi» disse però Harald Martewall, severo «e anche voi, sir Ewen. Monsieur de Ponthieu ha dato la sua parola d'onore di non nuocere in alcun modo a Dunchester. Non vorrete accusarlo di spergiuro».

Lo sguardo del vecchio barone percorse i cavalieri uno a uno e nessuno osò formulare apertamente una tale accusa. In molti però guardarono Geoffrey Martewall, aspettando la sua opinione in merito.

«Io non combatterò accanto al signor conte, qualunque cosa decida chi è seduto a questa tavola» disse a tutti il cavaliere, sprezzante, e poi si rivolse solo a Ian per chiarire senza mezzi termini il suo pensiero. «Potrebbe venirmi voglia di ammazzarti mentre ti ho a portata di spada e domani non potrò permettermi di distrarmi nemmeno un istante dalla difesa del castello».

Ian aveva già una risposta altrettanto tagliente sulla punta della lingua, ma tacque per non far degenerare il discorso in un'inutile discussione, che non l'avrebbe certo aiutato a perorare la sua causa. Si limitò a promettere col pensiero a Martewall che il confronto diretto tra loro due era solo rimandato.

L'inglese capì al volo il suo messaggio silenzioso e lo ricambiò con uno sguardo identico.

«Io dico invece che siamo troppo in inferiorità numerica per rifiutare l'aiuto anche di un solo uomo in più» intervenne sir Harald e la sua frase suscitò un moto di indignazione tra tutti i cavalieri seduti al tavolo. Anche Leowynn guardò il padre con gli occhi spalancati, pur non osando intervenire. Geoffrey Martewall, invece, si limitò a bere, tetro.

«Nonostante questo» continuò il vecchio barone, alzando leggermente la mano per quietare le prime proteste, «non accetterò la vostra proposta, monsieur de Ponthieu. Non metto in dubbio la vostra lealtà né il vostro valore, ma il rancore che tutti i miei uomini provano nei confronti di voi Francesi è troppo radicato per permettervi di combattere al loro fianco. Preferisco contare su due cavalieri in meno, piuttosto che minare la difesa di Dunchester con veleni e inimicizia».

I cavalieri furono soddisfatti in modo evidente dalla decisione. Geoffrey Martewall posò la coppa con calma gelida per ricominciare a mangiare, sempre in silenzio. Leowynn sorrise lievemente.

«Ma...» tentò invece di intervenire Daniel per la prima volta.«Vi permetterò di assistere alla battaglia dai bastioni, ma niente di più» l'interruppe

subito il barone. «Vi prego di accettare questa mia decisione o sarò costretto a farvi rinchiudere nel vostro alloggio».

Daniel guardò Ian, impotente.«Signore, voi ci chiedete di restare a guardare una battaglia che deciderà anche delle

nostre vite e di lasciare il nostro destino nelle mani di uomini che, per vostra stessa ammissione, ci odiano» disse Ian, fremendo.

«Difenderanno con le loro stesse vite Dunchester e chi vi ha cercato riparo, quindi difenderanno anche voi con lo stesso impegno» replicò il vecchio barone, fermamente. «Come non ho permesso che si dubitasse della vostra lealtà, così non permetto che si dubiti di quella dei miei uomini, anche se comprendo la vostra voglia di combattere».

Ian capì che non c'era più spazio per discutere. «In crociata i Ponthieu e i Martewall erano uniti contro lo stesso nemico» tentò comunque di obiettare.

Sir Harald posò lo sguardo mesto sulla coppa da cui si accingeva a bere. «I tempi sono cambiati da allora».

Ian dovette rassegnarsi a terminare la sua cena, in cupo silenzio, imitato da Daniel.

Capitolo 20Vista dall'alto, l'armata di William di Salisbury incuteva timore anche più delle truppe

in rosso che il giorno prima avevano assalito il castello.L'alba non era ancora sorta, il cielo era buio e senza luna, ma il panorama intorno a

Dunchester era punteggiato di decine e decine di fiammelle lontane: le torce accese dell'accampamento nemico.

Gli assediati non potevano vedere ciò che succedeva laggiù, ma molte torce erano in movimento, segno inequivocabile che le truppe del re stavano lavorando alacremente per prepararsi alla battaglia.

Ogni tanto si poteva scorgere un movimento furtivo anche all'interno della prima cerchia di mura, tra le rovine e la cenere di quello che era stato il borgo del castello, e soprattutto si sentivano suoni camuffati provenire dal basso, in punti diversi sotto i bastioni. Le sentinelle sulle torri, però, non riuscivano a identificare chi o cosa si muovesse e le frecce scagliate quasi alla cieca cadevano sempre nel vuoto. Dall'alto delle mura, purtroppo, le torce non gettavano abbastanza luce da illuminare il terreno sottostante più lontano di qualche metro e le sentinelle venivano prese a bersaglio dai nemici nascosti nel buio, che invece potevano individuare facilmente i bersagli se si esponevano vicino alle luci.

E così, del tutto impotenti, gli uomini di Dunchester erano consapevoli che il nemico stava lavorando contro di loro, protetto dall'oscurità, e attendevano che la luce del sole rivelasse il risultato dell'opera.

Tutto ciò che avevano potuto fare era stato dare una sepoltura irrispettosa ai morti, gettandoli in mare avvolti nei sudari, dall'alto delle mura a picco sullo strapiombo, poiché non c'era abbastanza spazio all'interno del castello per scavare le tombe. Il vecchio sacerdote del borgo aveva benedetto le onde, nel cupo silenzio generale, prima che la popolazione del maniero, esausta, potesse concedersi un po' di riposo nelle scarse ore che la separavano dal riaccendersi delle ostilità.

Dopo un sonno breve e agitato, anche Ian e Daniel si trovarono sui bastioni più esterni, immersi in quella scena buia, temendo ciò che avrebbe portato l'alba.

«Che cosa staranno macchinando?» domandò Daniel, osservando invano il movimento delle torce lontane per coglierne il senso.

«Niente di buono per noi, purtroppo» replicò Ian, appoggiato al riparo dei merli.Lontano da loro, sulla stessa cinta di mura, potevano vedere Geoffrey Martewall e i

suoi cavalieri, distanziati strategicamente per tenere il controllo di tutto il fronte e degli uomini che li difendevano. Non sapendo da che parte sarebbe arrivato il primo attacco, si erano divisi il perimetro delle mura accessibili via terra, pronti a riunire e concentrare le forze là dove ce ne sarebbe stato bisogno. Alla luce delle torce accese i loro usberghi mandavano riflessi rapidissimi sotto le cotte di stoffa.

«Lo sai? Da un lato sono sollevato di non dover combattere, ma dall'altro lato è terribile essere qui a guardare senza poter fare niente» continuò Daniel, dopo aver guardato i cavalieri per un po'. «Mi sento come sul ciglio del baratro ad aspettare che cada la frana».

Ian annuì in silenzio.Per ordine di sir Harald, ai due stranieri era stato concesso di muoversi abbastanza

liberamente all'interno del castello, benché Ian fosse sicuro che mille occhi li

sorvegliassero con scrupolo e sospetto. Ai due non era stata lasciata alcuna arma, né data una minima protezione da indossare, per dissuaderli ulteriormente dal tentare di intervenire in qualsiasi modo nella battaglia futura.

Senza spada Ian si sentiva quasi nudo e rimuginava tra sé e sé su quella sensazione, inspiegabile se si considerava il fatto che durante tutta la sua vita aveva cinto la spada soltanto per pochi mesi, dopo essere stato fatto cavaliere.

Adesso, dopo averla potuta portare per qualche giorno, l'esserne privato gli dava un senso di disagio profondo, ma non perché si sentisse indifeso. Essere con o senza spada non avrebbe fatto gran differenza davanti alla forza bellica che il conte di Salisbury aveva dispiegato sotto Dunchester.

No, il sentimento era diverso ma ancora indecifrato, era una menomazione invisibile che toccava soprattutto l'orgoglio e si faceva sentire di più alla vista degli altri cavalieri completamente armati.

Ian sbirciò Daniel, meditando anche sul fatto che l'amico non sembrava toccato quanto lui da quella sensazione strana. «Albeggia» disse d'un tratto Daniel.

Ian spostò lo sguardo a oriente per vedere un minuscolo punto luminoso emergere dal mare plumbeo ed estendersi lentamente in una linea lungo l'orizzonte.

Sulle mura il movimento si fece più concitato, cominciarono a echeggiare richiami da una parte all'altra del castello, i soldati corsero a prendere i loro posti di combattimento. Martewall e i suoi cavalieri sguainarono le spade, quasi all'unisono.

La luce aumentava e lasciava emergere il panorama in tutti i suoi dettagli.L'armata di William Lunga-Spada era già schierata e pronta all'assalto. Le divise blu

si alternavano a quelle rosse dei mercenari in squadre ben organizzate dietro i vessilli del re d'Inghilterra e del conte suo fratellastro.

Ian spostò l'attenzione dalle truppe nemiche per guardare giù e impallidì. «Santo cielo...» mormorò, sgomento.

«Che cosa c'è?» si allarmò subito Daniel, affacciandosi prudentemente per sbirciare nella stessa direzione.

Rimase senza fiato quando vide che il dislivello sotto la rampa che conduceva al ponte levatoio alzato non esisteva più: era stato colmato durante la notte con terra, sassi e detriti di legno. Adesso il salto nel vuoto tra la rampa e il castello era sostituito da una salita scoscesa ma ampia e percorribile a piedi fino ad arrivare a toccare con mano la superficie di legno del ponte sollevato.

Di fronte alla rampa, al di là della spianata ancora coperta dai cadaveri del giorno precedente, era stato fatto spazio nel villaggio ridotto in cenere. Daniel vide tre macchine di legno, non ingombranti ma terribili nell'aspetto, posizionate fuori dalla portata degli arcieri di Dunchester: sembravano balestre giganti, montate su piattaforme lunghe quanto un carro e provviste allo stesso modo di ruote. Incoccavano arpioni di ferro così lunghi e pesanti che sarebbero serviti due uomini per trasportarli. Ogni arpione aveva una lunga fune collegata all'estremità posteriore. Ogni macchina era attorniata da almeno una dozzina di soldati.

«Sono quelle le baliste..?» domandò Daniel in un soffio.«Sì» rispose Ian, disperato. «Sono carrobaliste, per la precisione. Cercheranno di

sfondare il ponte levatoio o di arpionarlo per tirarlo giù. Poi arriverà l'ariete per i cancelli di ferro del barbacane. Per questo hanno riempito il terrapieno: per poter spingere l'ariete fin sotto le mura. Devono aver lavorato tutta la notte per questo».

«Ma li abbiamo sentiti anche in punti diversi dei bastioni...»«Hanno fatto rumore apposta per distrarre le sentinelle e non far capire loro quando

stavano lavorando sotto il ponte. Anche se di sicuro Martewall si aspettava una cosa del genere».

«Si può fermare un attacco così organizzato?» chiese Daniel, ma la risposta era già chiara.

«Non da qui» disse infatti Ian «e non senza perdite terribili. L'ariete sarà molto ben protetto e le carrobaliste nel Medioevo sono più o meno l'equivalente dei cannoni moderni. Affrontarle da vicino vuol dire farsi fare a pezzi».

Per qualche secondo Daniel non seppe cosa aggiungere, impressionato. «Avranno altre diavolerie del genere a disposizione, nascoste da qualche parte?» domandò alla fine.

«No, non credo. Non è facile trasportare macchine d'assedio nei mesi invernali, con il terreno fangoso, buche e pozzanghere dappertutto. Temo però che anche solo quelle che hanno a disposizione siano più che sufficienti ai loro scopi contro un castello così piccolo». Ian inspirò a fondo e concluse: «Credo piuttosto che abbiano già montato e nascosto l'ariete da qualche parte, probabilmente dietro ciò che resta delle case bruciate».

Il temuto suono di corno annunciò l'inizio della seconda giornata di sangue.Ci fu ancora quasi mezz'ora di tregua, mentre alcuni cavalieri si facevano avanti dalle

schiere nemiche come il giorno precedente, per parlamentare con gli assediati e ingiungere la resa. Da Dunchester, però, nessuno uscì per andare loro incontro.

Geoffrey Martewall non si mosse dal suo posto al centro della linea frontale delle mura, come indubbiamente era stato ordinato dal padre.

L'intimazione alla resa non venne nemmeno presa in considerazione.

L'attacco si rovesciò sul maniero come un colpo di martello. Di nuovo i mercenari in divisa rossa si fecero avanti verso le mura per bersagliare con raffiche ininterrotte di frecce i bastioni e i difensori, che furono costretti a gettarsi al riparo per non essere falcidiati dall'attacco. Ian e Daniel con loro.

I nemici questa volta non tentarono nemmeno di arrivare a ridosso delle mura come il giorno precedente. Le baliste entrarono in azione quasi subito e lanciarono tre arpioni verso il ponte levatoio. Le gigantesche frecce affondarono nel legno con un rumore raccapricciante, staccando schegge lunghe un braccio, e rimasero saldamente incastrate. I soldati in blu spinsero in avanti altre strutture di legno coperte di cuoio e pelli, semplici ma efficaci tettoie sotto le quali si riparavano dalle frecce e dai proiettili dei nemici. Sotto quelle strutture condussero buoi e cavalli e arrivarono ad aggiogarli alle funi collegate alle estremità degli arpioni, poi cominciarono a tirare.

Dal ponte levatoio scaturì un gemito agghiacciante, mentre la struttura veniva sottoposta a una tensione terribile, da un lato tirata dalle funi e dall'altro trattenuta nella sua sede dalle catene, dalle carrucole e dalle cerniere che ne consentivano il movimento.

Dall'alto delle mura i difensori provarono invano a distruggere le testuggini sotto le quali si riparavano i nemici: erano fuori portata dai lanci di pietre e dei liquidi combustibili e le frecce incendiarie non riuscivano a intaccarne le strutture coperte appositamente di fango e pelli bagnate. Gli arcieri che si affacciavano per tirare dall'alto cadevano uno dopo l'altro, morti o feriti sotto il fuoco nemico.

«Il ponte cederà!» esclamò Daniel, nel frastuono della battaglia, sentendo il legno

gemere più forte.«Non così in fretta, spero!» replicò Ian e dalla posizione in cui era si arrischiò a

guardare giù.Una delle funi tese era in fiamme, colpita di striscio dalle frecce incendiarie. Si

consumò rapidamente e poi si spezzò a metà. Un arpione cedette sotto la tensione della fune e si staccò dal ponte per piombare al suolo, trascinandosi dietro almeno mezza trave tra quelle che formavano la struttura del ponte. Rimase una sola fune a tirare il ponte levatoio verso il basso.

Gli uomini di Salisbury, però, stavano già ricaricando le baliste con nuovi arpioni. Una nuova scarica di frecce, costrinse tutti i difensori a buttarsi al riparo.

Daniel imprecò sonoramente, mentre i dardi sibilavano ovunque, e lo fece di nuovo quando alcuni arcieri inglesi gridarono con malagrazia a lui e a Ian di togliersi di mezzo mentre si spostavano per trovare una posizione migliore per tirare.

La battaglia si concentrava ormai completamente sulla linea frontale del maniero, sottoposto a un attacco incessante.

«Vieni via, qui siamo del tutto inutili!» disse Ian all'amico e insieme lasciarono spazio a chi poteva combattere come a loro non era concesso di fare.

Si spostarono sul lato nord-occidentale, ripercorrendo la strada che Daniel aveva fatto solo il giorno precedente quando era passato dalla cinta di mura interna a quella intermedia che rappresentava la linea del fronte.

Lì il tiro nemico si attenuò: le frecce non arrivavano fino a quella distanza e il fianco del castello che dava verso il bosco a nord-ovest non era tenuto sotto tiro alla stessa maniera. Anzi, non era praticamente sorvegliato dai nemici, ora riuniti sul fronte del maniero, dopo essersi assicurati che sui fianchi non ci fossero possibili vie di fuga per gli assediati e nemmeno uscite che consentissero loro di fare una sortita imprevista e arrivare in massa ad attaccare dai lati come il giorno precedente.

Anche i difensori di Dunchester si erano raccolti prontamente nella parte centrale e frontale delle mura e la battaglia si era fatta sanguinosissima davanti e ai lati del barbacane.

Il castello non poteva permettersi di disperdere le proprie forze di difesa su un tratto molto ampio della cinta muraria e perciò la zona non sottoposta ad attacco diretto era momentaneamente sorvegliata da pochi soldati distanziati tra loro e soprattutto da civili armati di archi e balestre. Vedette armate di corni sostavano agli angoli delle mura, pronte ad avvertire in caso di pericolo e chiamare i rinforzi.

Allontanatisi dalla linea del fronte, i due americani poterono riprendere fiato e affacciarsi dai merli con minore rischio. Gli inglesi di guardia, civili o soldati, li osservarono passare con malcelata ostilità, ma non dissero loro niente. Sentendosi indesiderati, i due amici si fermarono in un punto relativamente deserto a metà del muro nord-occidentale e si rassegnarono ad aspettare e a guardarsi di nuovo intorno.

«Quanto durerà, quest'incubo?» domandò Daniel più a se stesso che all'amico.Ian non seppe rispondergli. Si sentiva del tutto impotente e la mancanza di una spada

o di un'arma diventava sempre più fastidiosa. Voleva combattere in qualsiasi modo, liberarsi da quell'inerzia forzata che lo costringeva a guardare una battaglia la cui posta in gioco lo toccava molto da vicino. Non aveva i mezzi per farlo, poteva solo rimanere uno spettatore inerte: l'idea era esasperante.

Osservò dall'alto tutta la corte e si soffermò a considerare l'ingresso principale del

maniero.Laggiù molti uomini si stavano affannando a preparare tutto il necessario per

rinforzare la difesa, alla fine del tunnel buio che attraversava il barbacane per sfociare sul ponte levatoio chiuso.

Il ponte continuava a scricchiolare in modo preoccupante, lo si udiva anche da quella distanza. Poteva cedere da un momento all'altro.

I difensori del maniero si stavano preparando al peggio: a respingere con qualsiasi mezzo un'invasione del nemico nella corte esterna. Alcuni soldati dirigevano i lavori, ma i manovali erano semplici abitanti del castello, tutti quelli abbastanza robusti per dare una mano nelle zone di pericolo. Alcuni erano solo ragazzini.

A Ian venne in mente Beau Coda di volpe.Grazie al cielo è lontano da questo posto e da questo orrore, si disse, ricordando la

foga con cui il ragazzo aveva insistito per partecipare a tutti i costi alla battaglia.Per fortuna, era riuscito a dissuaderlo dal seguire gli uomini di Willingham e Aversly

in quella sortita a Dunchester che aveva condotto tutti in trappola. Adesso, sperabilmente, Coda di volpe si stava dirigendo verso qualche posto sicuro insieme a sua madre, lontano dalla guerra.

Col pensiero, Ian augurò a entrambi buona fortuna.I civili sotto il barbacane ammassavano pietre e travi, ma anche sabbia e secchi

d'acqua per contrastare gli eventuali principi d'incendio scatenati dagli attacchi del nemico. Le frecce infuocate potevano arrivare da un istante all'altro per intaccare tutti gli edifici in legno che riuscivano a colpire.

La grata più interna tra le due che chiudevano il barbacane era sollevata: soldati andavano e venivano correndo attraverso il tunnel per controllare e portare notizie dello stato del ponte sottoposto all'attacco violento delle baliste.

Per il momento il ponte reggeva, ma quanto sarebbe durato? Ian non sapeva proprio immaginarselo e si sentì sempre più inutile. Daniel aveva ragione: era come stare ad aspettare la frana, sapendo che presto o tardi sarebbe caduta esattamente sulla loro testa.

«Non ne posso più di stare a guardare con le mani in mano» disse Daniel in quel momento, mentre osservava come Ian la scena nei pressi del barbacane. «'Andiamo a dare una mano laggiù? Questo almeno ce lo consentiranno, spero».

«Ho idea che diventerebbero tutti nervosi nel vederci avvicinare al portone principale» commentò Ian, con un sospiro. «Suscettibili come sono, potrebbero anche pensare che stiamo cercando di aprirlo per il nemico».

«Possono anche andare al diavolo tutti quanti, con i loro sospetti» mugugnò Daniel.Ian fu d'accordo con lui e di nuovo si chiese cosa fare per rendersi utile. Spostò lo

sguardo lungo le mura verso il mare e il retro del castello e osservò gli uomini senza divisa sparsi lungo il camminamento a sorvegliare la parte del castello non sottoposto all'attacco nemico. Anche laggiù, chiunque fosse in grado di brandire un'arma era stato messo di sentinella, per non sottrarre combattenti validi alla difesa principale. Tra quegli uomini di ogni età sostavano i soldati, distanti una cinquantina di passi l'uno dall'altro, per tenere d'occhio la situazione e mantenere la disciplina, specie quando le urla e il fragore della battaglia facevano volgere la maggior parte degli sguardi verso la linea del fronte.

In mezzo ai civili Ian individuò una figura robusta, tarchiata e nota. Era Thomas Bull, fermo insieme ad alcuni altri venuti da Willingham.

Il giovane fece un gesto di saluto in quella direzione, ma non ricevette in risposta che un cenno risentito dal boscaiolo e la totale indifferenza degli altri.

Non mi hanno ancora perdonato di avergli nascosto chi sono, pensò Ian con dolore e rimuginò sul destino che lo portava quasi costantemente a recitare un'identità o un'altra in quella sorta di gioco di ruolo infinito che l'aveva fagocitato. Sospirò, desiderando che la sua vita fosse più semplice.

Un movimento attirò la sua attenzione. Fece appena in tempo a cercare di capire che cosa fosse quando tre uomini scomparvero oltre le merlature, senza un grido.

Non tutti i superstiti se ne accorsero subito. Ian sentì un brivido quando ne vide altri cadere allo stesso modo trafitti dalle frecce che arrivavano di lato. I primi a essere presi di mira erano i soldati in divisa.

«Attaccano dal bosco!» urlò Daniel.«Thomas, attento!» fece eco Ian e indicò da lontano a Bull di guardarsi alle spalle.L'ex-soldato trasalì al suo gesto e si voltò nello stesso istante in cui gli altri uomini

lanciavano grida di spavento per l'assalto improvviso e inaspettato. Le loro voci si persero nel frastuono della battaglia e non arrivarono subito alle sentinelle che dall'alto delle torri stavano tenendo disperatamente sotto tiro il nemico che avanzava sul fronte del castello.

Molti tra i civili di guardia furono presi dalla paura, vedendo gli altri morire. Si gettarono al riparo dei merli, alcuni tentarono di replicare all'assalto ma vennero colpiti e uccisi senza pietà.

Ian corse a sporgersi dalle merlature di lato per veder arrivare sotto le mura un'intera squadra di armati. Quegli uomini portavano due lunghe scale e sbucarono dal bosco, dove si erano tenuti al riparo fino a quel momento, per tentare una sortita di sorpresa, mentre gli arcieri li proteggevano con un fuoco sostenuto e micidiale. Con sgomento Ian vide che molti di quegli uomini indossavano la divisa nera di Dunchester.

Per confondersi tra i difensori una volta arrivati sulle mura! capì in un lampo.I soldati del re dovevano aver tolto le divise ai caduti del giorno precedente, quelli che

erano rimasti insepolti fuori dal castello sul campo di battaglia: un trucco subdolo ma efficace, che poteva permettere ad alcuni di loro di arrivare praticamente inosservati fino al cuore del maniero. Probabilmente fino al barbacane, per aprirlo dall'interno.

«Sta' giù, incosciente!» urlò Daniel, tirando Ian al riparo prima che una nuova raffica di frecce spazzasse l'aria.

Si ritrovarono entrambi seduti a terra, mentre le frecce si frantumavano contro la pietra e mietevano nuove vittime.

«Approfittano del fatto che la difesa è concentrata sul fronte del castello!» spiegò Ian concitatamente. «Se riescono a scalare le mura, siamo finiti!»

Allo stesso tempo si rese conto che gli uomini messi di guardia da quel lato del castello non sarebbero stati in grado di respingere un attacco deciso. Erano stati colti di sorpresa e non erano addestrati militarmente: non sapevano come reagire a un assalto del genere, così deciso e spietato. I pochi soldati veri che erano tra loro tentarono di riorganizzarne le fila, ma erano presi a bersaglio e inevitabilmente cadevano vittime dei nemici. Quelli che oltrepassarono i due americani per correre verso i compagni in difficoltà fecero la stessa fine. Alcuni civili si diedero alla fuga precipitosamente.

Per qualche attimo, Ian rimase a guardare la scena senza sapere che fare, colto di sorpresa come tutti gli altri.

Bull aveva avuto il buonsenso di mandare subito a chiamare i rinforzi, ma mentre un paio di uomini correvano verso le torri e i soldati di Dunchester, la vedetta che avrebbe dovuto dare l'allarme con il corno venne abbattuta da un tiro micidiale che gli trafisse i polmoni.

Gli uomini del contado tentarono una difesa con archi e balestre, ma la loro mira, resa imprecisa dalla concitazione, permise loro di uccidere solo pochi nemici.

La prima scala si appoggiò alle mura e gli invasori la salirono in fretta. I difensori civili, presi dalla paura, cominciarono ad arretrare e il loro movimento intralciò il sopraggiungere dei rinforzi poiché non c'era abbastanza spazio sul camminamento per consentire ai soldati più esperti di superare il blocco e affrontare gli invasori, finché erano ancora in pochi.

Le divise nere si moltiplicarono in fretta sulle mura, ma non erano amiche. Ian capì che, se nessuno riusciva a fermare gli aggressori travestiti, questi si sarebbero fatti strada presto fino alla corte. Mescolandosi ai veri difensori, avrebbero causato un danno irreparabile. Dovevano essere fermati subito, prima che diventassero troppi per essere controllati.

D'istinto, il giovane prese la sua decisione. «Tu mettiti al riparo!» ordinò a Daniel e scattò in avanti.

«Che stai facendo?!» gli urlò dietro l'amico, ma poi dovette appiattirsi di nuovo sotto i merli perché le frecce sibilavano minacciose nell'aria. Un soldato cadde quasi addosso al giovane, trafitto al petto.

Ian raggiunse di corsa il punto in cui la scala si era appoggiata alle mura e balzò addosso al primo nemico che si trovò sul cammino. L'uomo non se l'aspettava: era già impegnato a combattere uno dei pochi difensori che avevano provato a resistere e finì a terra quando l'americano gli si gettò addosso da dietro con tutto il suo peso. Ian gli piantò una ginocchiata nelle reni, poi gli prese la spada e lo scaraventò nel cortile di sotto. Il nemico attutì la sua caduta su un cumulo di sabbia ammassata per spegnere gli incendi, ma fu subito raggiunto e ucciso dalle frecce che piovevano dalla torre soprastante. I soldati di Dunchester si erano accorti del tafferuglio scoppiato sulle mura laterali e avevano iniziato a bersagliare gli invasori dall'alto. Molti di questi, però, avevano già potuto guadagnare la sommità delle mura e da lì risposero al fuoco con le balestre.

«Non scappate! Dobbiamo ricacciarli indietro!» urlò Ian ai civili che gli stavano intorno e per primo impegnò un altro invasore che gli si era parato davanti.

Fortunatamente, il cammino di ronda dietro i merli non era abbastanza ampio da far passare più di due nemici alla volta. Ian riuscì a tenerli a bada per qualche istante, ma poi la pressione lo costrinse a indietreggiare.

La seconda scala si appoggiò alle mura e nuovi nemici con le divise nere cominciarono a salire, armati fino ai denti.

Ian si trovò per un istante preso in mezzo e dovette difendersi da entrambi i lati.I nemici che lo incalzavano, però, caddero sotto le frecce di Daniel.L'altro americano aveva potuto recuperare un arco sottraendolo al soldato senza vita

accasciato accanto a lui e con esso mise a segno almeno altri due colpi micidiali. Poi fu costretto ad agguantare una spada, poiché il nemico avanzava troppo in fretta per poter essere preso di mira con un arco.

«Vattene via da lì!» gli gridò Ian, vedendolo quasi solo e senza aiuto, al di là del

gruppo di avversari che aumentava sempre più di numero. Altri difensori erano accorsi dietro a Daniel, ma erano troppo pochi per essere veramente efficaci. Ian li vide cadere sotto le spade e le frecce dei nemici. Temendo per Daniel, tentò disperatamente di farsi strada verso di lui, ma era troppo impegnato a difendersi dagli assalti che arrivavano da ogni parte per potergli correre incontro.

La preoccupazione per l'amico lo distrasse un secondo di troppo dalla battaglia che stava conducendo. Si trovò davanti all'improvviso un nemico armato d'ascia e con spavento lo vide già pronto a colpire. L'uomo però cadde sotto la spada di Thomas Bull.

«Buttiamoli giù!» gridò l'uomo agli altri compaesani, mentre impegnava di nuovo battaglia al fianco di Ian.

L'esempio dei due americani e dell'ex-soldato inglese spronò tutti gli altri uomini a buttarsi avanti, con grida selvagge. I nemici vennero aggrediti con maggior foga, i civili smisero di arretrare e, benché subissero perdite feroci, combatterono con tutte le forze per non cedere nemmeno un palmo di terreno.

L'invasione delle mura subì un arresto, anche se i nemici continuavano a salire le due scale che erano riusciti a erigere. Ian, Bull e gli altri uomini crearono una barriera abbastanza solida per alcuni minuti, ma poi non poterono fermare tutti gli aggressori. Alcuni di essi si aprirono la strada con la forza lungo il camminamento, verso le scale che portavano alla corte sottostante.

Ma non finiscono mai! pensò Daniel, disperato, presto costretto a indietreggiare col fiato corto. Aveva già esaurito tutte le mosse di spada che conosceva e cominciava a temere il peggio. Davanti a lui gli invasori avanzavano lungo le mura, agguerriti, dopo aver avuto ragione dei soldati che avevano tentato di fermarli e il giovane si ritrovò ben presto solo, ad affrontare un feroce corpo a corpo. Alle sue spalle, la scala che conduceva nel cortile avrebbe lasciato via libera a chiunque avesse voluto da li raggiungere il barbacane.

Le spade dei nemici si facevano sempre più vicine. Per fortuna gli invasori potevano farsi avanti al massimo in due alla volta, ma Daniel capì ugualmente con terrore che ormai per lui era solo una questione di secondi prima di essere sopraffatto e ucciso. Mulinò la spada senza neanche sapere come, nel disperato tentativo di tenere a bada gli aggressori, ma poi dovette fare un balzo indietro per evitare una lama che gli sfrecciò a un soffio dalla gola.

Barcollò, sbilanciato dal movimento frettoloso. Il nemico lo incalzò e arrivò a lacerargli la tunica lungo tutto il braccio. Per puro miracolo non lo ferì, ma Daniel dovette indietreggiare di nuovo, ormai incapace di opporre una difesa adeguata.

Sono spacciato! pensò con lucidità.All'improvviso si sentì prendere per una spalla per essere spinto di lato. Girandosi di

soprassalto, si vide superare da un cavaliere armato da capo a piedi e coperto dalla livrea verde e oro. I rinforzi erano finalmente arrivati. Li guidava il fiammingo Hector.

Dall'interno della corte, intanto, altre scale erano state appoggiate al cammino di ronda per consentire ai difensori di salire in fretta, aggirando il blocco causato dall'ammassarsi degli uomini. Il primo a salire fu sir Kerwick, il più giovane dei due cavalieri inglesi che tanto avevano osteggiato l'offerta di alleanza di Ian alla cena della sera precedente. Insieme a lui arrivarono soldati armati e inferociti.

La situazione si capovolse in fretta a favore degli assediati, con l'arrivo dei rinforzi. I nemici vennero respinti, le loro scale abbattute. Gli assalitori furono costretti a ritirarsi

nel bosco da dove erano venuti. Gli arcieri del re coprirono loro le spalle mentre fuggivano, ma riuscirono solo in parte a limitare i danni.

Un ruggito di giubilo percorse quel tratto di mura, mentre gli uomini, sconvolti ed esaltati dalla furia della battaglia, inveivano contro i nemici respinti e liberavano nelle urla la paura e la tensione.

Daniel andò ad agguantare Ian per la tunica, con rabbia. «Tu sei un maledetto incosciente!» gli ringhiò, furibondo ed esausto. «Buttarti alla cieca in quel modo, per giunta disarmato! Volevi farci ammazzare?!»

«Tu non dovevi seguirmi! Avresti dovuto metterti al riparo come ti avevo detto!» lo rimbeccò Ian, anche lui teso, sudato e col fiato corto.

«Non dare la colpa a me! Sei tu quello che si è buttato allo sbaraglio, senza nessuna protezione! Hai rischiato il collo e io dovevo lasciarti fare, secondo te?!»

«Per me è diverso, lo sai: ho un futuro già scritto! E qualcuno doveva pur provare a fermarli! Ho pensato che non avrei rischiato più di tanto e dovevi saperlo anche tu!»

«Già, bel lavoro, eroe! E non hai pensato invece che potevano staccarti una gamba o un braccio o spezzarti la schiena?! A quest'ora non saresti morto, ma mutilato o invalido sì!»

Ian abbozzò appena una reazione, ma si bloccò subito, poiché adesso in troppi gli si stavano accostando e non voleva farsi sentire mentre parlava di qualsiasi cosa riguardasse il futuro.

Passato il momento del pericolo, molti uomini si stavano raccogliendo intorno a Ian, consapevoli che il suo intervento era stato provvidenziale per spronare i difensori a reagire e soprattutto a reggere l'assalto fino all'arrivo dei rinforzi.

Per primo, Ian si trovò accanto Bull, che lo guardava con aria burbera.«Be', sei un maledetto mangiarane, ma hai coraggio da vendere, devo ammetterlo» gli

disse l'ex-soldato, brontolando, e la sua frase riassunse il pensiero di tutti.Ian si sentì in imbarazzo per il complimento, sapendo che non era del tutto meritato.

«Grazie...»«E lui è l'amico che cercavi, immagino» stava già continuando il boscaiolo, nel

guardare Daniel. «Nemmeno lui è da meno in quanto a coraggio».«Su questo non c'è dubbio» disse Ian, mentre l'amico gli lanciava un'occhiata furente

per avvertirlo di non essere affatto rabbonito e che la discussione a due era soltanto rimandata alla prima occasione, in privato.

Ian simulò di non vederlo e fece le presentazioni tra l'amico e l'ex-soldato di Aversly.«Piacere» disse Daniel, squadrando l'uomo con la stessa cautela con cui anche Bull

stava guardando lui.Anche i civili armati ebbero parole di ammirazione e congratulazioni per i due giovani

e i più espansivi allungarono pacche sulle spalle a entrambi. Il gruppo però si divise subito per lasciar passare Hector.

Il cavaliere fiammingo aveva lasciato i suoi soldati a riprendere il controllo e la sorveglianza totale delle mura per raggiungere Ian e Daniel e fermarsi davanti a loro. Dapprima posò lo sguardo sulle spade insanguinate che, come lui, entrambi i giovani avevano ancora nel pugno. Poi però fece un inequivocabile cenno di rispetto, chinando lievemente il capo. «Milord, sir Daniel: grazie» disse loro, asciutto ma sincero.

I due amici accettarono il saluto con uguale rispetto. Da lontano, impegnato a riorganizzare gli uomini sulle mura, anche sir Kerwick fece un gesto di riconoscenza.

Il titolo di "lord" pronunciato così apertamente da un cavaliere di Dunchester fece fare largo intorno a Ian, come se quelli vicini a lui si sentissero all'improvviso in soggezione.

Solo Bull non si spostò e non mutò la sua aria burbera.«Dovrò proprio fare l'abitudine al fatto che sei anche un dannatissimo conte» disse,

squadrando Ian con una mezza smorfia.«Non c'è ragione per cui i rapporti tra noi debbano cambiare tono» tentò di

rispondergli Ian, ma gli sguardi di tutti erano già stati attirati verso il basso. Mentre gli uomini chinavano il capo per salutare con deferenza qualcuno giù nel cortile, Ian si voltò e vide sir Harald Martewall, armato da capo a piedi, in sella al suo destriero da battaglia.

Il vecchio barone era sopraggiunto a controllare la situazione, dopo essere stato evidentemente avvertito dai suoi uomini dell'allarme sulle mura nord-occidentali. C'era un ufficiale accanto a lui, a piedi, e lo stava rapidamente informando dell'accaduto.

Quando il racconto dell'ufficiale finì, il barone non disse niente, ma guardò Ian e Daniel dal basso e fece loro un cenno di ringraziamento e di omaggio con la propria spada sguainata.

I due americani ricambiarono il saluto con rispetto.«Non sarà facile far finta che tu non sia nobile» disse Bull, sarcastico, al fianco di Ian.

Capitolo 21Quella sera il sole sembrò tramontare più tardi del solito. Ai difensori esausti parve

che fosse trascorsa un'eternità dall'alba all'arrivo dell'oscurità e quando le ostilità finalmente cessarono nessuno riuscì a provare sollievo, chiedendosi dove trovare le forze per sostenere un altro giorno simile l'indomani.

Ian e Daniel rimasero per tutto il tempo della battaglia sulle mura nordoccidentali, ad accertarsi insieme a Bull e a un nuovo gruppo di soldati e civili che il nemico non tentasse una seconda sortita da quella parte. Anche sir Kerwick rimase a poca distanza dai due americani, ma non per sorvegliarli: aveva cambiato atteggiamento dopo quanto era successo. Benché rimanesse a debita distanza, non aveva più fatto mosse o pronunciato parole ostili nei confronti dei "francesi", impegnandosi piuttosto con loro a sorvegliare l'eventuale ritorno del nemico.

William Lunga-Spada però non aveva più tentato un assalto da quel lato, dopo aver scoperto a sue spese che era ben difeso nonostante le apparenze.

Ogni tanto arrivavano messaggeri per portare notizie a sir Kerwick. Li mandava Hector, che invece aveva lasciato il luogo per ritornare insieme al vecchio Harald Martewall sulla linea principale della battaglia. Le notizie furono sempre le stesse per tutta la giornata: il ponte levatoio era sottoposto all'attacco delle baliste, ma non cedeva. Salisbury continuava a tenere i suoi lontano dalle zone più pericolose del fronte e mandava avanti i mercenari per sfinire i difensori del barbacane.

«Ci guarda e aspetta» disse Ian a Daniel, nell'udire anche da lontano l'ennesimo rapporto del messaggero a sir Kerwick.

«Non vuole sprecare uno solo dei suoi uomini. Sa che non resisteremo a lungo».Daniel non replicò, cupo.Quando la battaglia s'interruppe col finire del giorno, un silenzio quasi innaturale

rimase per alcuni minuti su tutto il castello. Poi il vento cominciò a soffiare piano, come se avesse ripreso fiato, e dal cielo plumbeo arrivarono radi fiocchi di neve, che però sparirono quasi subito.

I difensori interpretarono quel fatto come un segno avverso del cielo: se solo la neve fosse caduta abbondante, avrebbe reso la vita molto più difficile agli assedianti, costretti a vivere nelle tende dell'accampamento, al contrario degli abitanti del castello che potevano contare su mura solide e tetti di pietra per ripararsi al caldo. Fino ad allora, però, le condizioni atmosferiche non avevano minimamente aiutato e dal cielo ghiacciato non era caduta nemmeno una goccia di pioggia che potesse almeno rendere il terreno fangoso o inzuppare le tende e spegnere i fuochi. Al contrario, il gelo aveva reso la terra più dura e più facilmente percorribile dai carri e dalle macchine d'assedio.

Stretti nei mantelli e negli abiti pesanti di pelli e di lana, i difensori di Dunchester guardarono muti l'accendersi tranquillo dei falò nell'accampamento nemico, prima di ritirarsi a loro volta al riparo.

Al castello si ripeté la triste scena della conta dei caduti e dei feriti e di nuovo il sacerdote benedisse le acque del mare in cui vennero gettati i corpi avvolti nei sudari.

Ian e Daniel abbandonarono le mura al seguito di sir Kerwick, mentre i soldati ancora in forze rimanevano a fare il primo turno di guardia.

Ian avrebbe voluto che Bull restasse in loro compagnia, ma il boscaiolo rifiutò la proposta per tornare dai suoi compaesani. C'erano stati molti morti, quel giorno, e l'uomo

si sentiva in dovere di andare a pregare per loro, insieme ai superstiti.«Ci rivedremo domani, signor conte. Non penserai di andartene tanto lontano da qui,

nei prossimi giorni, no?» disse Bull con un sorriso amaro, prima di salutare.Ian gli diede una mesta pacca sulla spalla e proseguì il suo cammino con Daniel.Nella corte incontrarono Geoffrey Martewall, di ritorno dal barbacane insieme a

Hector.Il cavaliere inglese guardò i due americani e le spade che entrambi portavano in mano

ma non fece nessun commento, anche se era stato sicuramente informato dal suo luogotenente di quanto era accaduto.

Aveva il volto ancora più pallido e tirato del solito e un'espressione cupa che tradiva solo preoccupazione, la mano contratta sul braccio ferito il giorno prima. «Il ponte è stato spaccato dalle baliste. Domani cederà del tutto» annunciò laconico, accomunando nel suo annuncio tanto i suoi uomini quanto i suoi ex-prigionieri. «Prepariamoci ad affrontare l'ariete».

Non disse altro e proseguì a piedi verso il castello e il cortile, dove lo attendeva suo padre.

Ian e Daniel lo seguirono in silenzio, insieme agli altri cavalieri.

Anche quella sera a cena gli occhi di tutti seguirono i due "francesi" quando fecero il loro ingresso nella sala grande. Erano sguardi differenti, tuttavia, anche se non ancora amichevoli. La notizia del combattimento sulle mura nord-occidentali si era diffusa ovunque nel maniero, insieme alla consapevolezza che senza la presenza di spirito dei due stranieri la giornata si sarebbe forse conclusa in modo molto più tragico. Questo aveva almeno attenuato il sospetto nei confronti dei due e il rancore, che tutti ancora nutrivano nei confronti dei Francesi, si era mescolato a una sorta di rispetto che riconosceva il valore e il coraggio di quei due francesi in particolare.

Nemmeno i cavalieri ebbero reazioni ostili quando Daniel e Ian si sedettero al loro tavolo. Sulle panche vi erano tre posti vuoti, ma erano stati comunque apparecchiati per rispetto verso i caduti di quel giorno.

Il silenzio gravò a lungo sul cibo che tutti consumarono con gli occhi bassi sui taglieri. I cavalieri sembravano aspettare l'inizio di un discorso ben preciso, con tensione crescente. Fu Geoffrey Martewall a esordire, posando la sua coppa di birra vuota sul tavolo. «Domani, William di Salisbury verrà di nuovo a chiederci la resa».

«Che venga pure. Noi gli risponderemo con il silenzio e le spade come abbiamo fatto oggi» rispose subito sir Harald con decisione che non ammetteva repliche.

Ian notò che cavalieri si guardarono l'un l'altro.Martewall si aspettava la reazione e non tentò di obiettare. «Allora dovremo

cominciare a preoccuparci delle bocche inutili da sfamare» aggiunse tuttavia. «Arriveremo presto al limite critico delle scorte. Se vogliamo resistere più a lungo possibile, non possiamo permetterci di nutrire donne, vecchi e bambini e tutti quelli che non possono più combattere».

«Che cosa dici, fratello?!» esclamò Leowynn, scandalizzata, e anche Daniel rimase esterrefatto da quel ragionamento apparentemente così spietato, ma poi si rese conto che nessun altro a quel tavolo era colpito quanto lui e dama Leowynn.

Persino il vecchio barone taceva e si era fatto più tetro. «Non abbiamo modo di allontanare tutta quella gente dal castello senza farla passare attraverso le linee nemiche»

disse amaramente.Il silenzio che seguì fu più terribile di qualsiasi altro commento.Daniel trasecolava: stavano davvero pensando tutti quello che a lui era sembrato di

capire?«Non vorrete farmi credere che l'esercito di Salisbury sarebbe pronto ad attaccare

civili indifesi che abbandonano il campo di battaglia!» disse, senza potersi impedire d'intervenire in quella discussione di guerra in cui in teoria non aveva alcuna voce in capitolo. «Sono inglesi anche loro: non vorranno sterminarli tutti!»

«No, semplicemente non li faranno scappare e ce li rimanderanno indietro» gli rispose laconicamente Geoffrey Martewall. «Sanno che loro sono il nostro punto debole. Se li facessimo uscire dal castello, Salisbury sbarrerebbe loro la strada e metterebbe noi nella condizione di scegliere tra riprenderli indietro ed esaurire più in fretta le nostre scorte di cibo e combustibili oppure lasciarli fuori alla fame e al freddo, tra noi e il nemico, e vederli morire tutti».

Daniel rimase a bocca aperta, ma vide anche che Ian non alzava gli occhi dal cibo, quasi con aria colpevole.

«Non è una tattica nuova né inventata da Salisbury» continuò Martewall in tono tagliente, notando il suo sconcerto. «Il vostro re ne sa qualcosa».

Daniel si rivolse a Ian con gli occhi per avere spiegazioni.«Anche re Filippo Augusto fece lo stesso in guerra, molti anni fa, non ricordo sotto

quale castello» disse l'amico piano. «In quell'occasione morirono molti civili, di fame e di stenti, perché l'esercito del re non li lasciò fuggire e i difensori del castello non li ripresero tra le mura, abbandonandoli fuori».

«Io non condannerò la mia gente a una simile fine» disse sir Harald, deciso. «Sfamerò tutti e li terrò al riparo finché mi sarà possibile».

«Allora non resisteremo più di una settimana» sentenziò Geoffrey Martewall, ma senza asprezza. Stava semplicemente constatando con lucidità un dato di fatto.

«Non ci piegheremo in così poco tempo» lo contraddisse però suo padre con un impeto d'orgoglio, stavolta spalleggiato anche da alcuni cavalieri. «Razioneremo ulteriormente le scorte, combatteremo anche senza cibo. Resisteremo finché sarà necessario».

«Necessario per cosa?» ribatté il figlio. «Che cosa possiamo aspettarci dal futuro? Non c'è via di scampo alla nostra situazione, nessuna via d'uscita che possa aprirsi semplicemente resistendo a oltranza e aspettando».

«Aspetteremo che gli altri baroni vengano in nostro aiuto» rispose sir Harald, caparbio. «Abbiamo mandato messaggeri prima di rinchiuderci qui dentro nell'assedio. Presto arriveranno anche le risposte al nostro appello».

Martewall scosse la testa. «Gli altri baroni non verranno. Non si metteranno apertamente contro il re, non vi seguiranno in questo vostro colpo di testa».

«Non è vero. A Bury St.Edmunds eravamo tutti uniti contro il re...»«A parole è facile essere uniti, padre. È quando si devono sostenere le parole con i

fatti e le armi che la compattezza viene meno. Finora non abbiamo ricevuto un solo messaggio in risposta alle vostre richieste di appoggio. La verità è che siamo soli e che non avremo alcun rinforzo».

Ian non disse niente, ma in segreto fu d'accordo con Geoffrey Martewall: il cavaliere inglese parlava per sfiducia e amarezza, ma l'americano sapeva che aveva pienamente

ragione. I baroni non si sarebbero mossi contro il re in due o tre giorni e davvero non sapeva immaginarsi che cosa avrebbe potuto farli decidere a scendere in campo apertamente.

Il nome di Dunchester continuava a ronzargli in testa insieme a reminiscenze confuse di vecchi studi.

Forse la disfatta di questo castello è un evento importante della guerra civile? si domandò il giovane e allo stesso tempo si augurò che la scintilla del conflitto imminente non fosse proprio l'eccidio perpetrato ai danni del maniero in cui lui e Daniel si trovavano in quel preciso istante.

Comunque fosse, Martewall era nel giusto quando diceva che non dovevano aspettarsi rinforzi nel breve periodo e che Dunchester non poteva reggere a lungo. Qualsiasi cosa prevedesse il futuro corso degli eventi, il maniero sarebbe caduto presto.

«Domani, quando Salisbury verrà a pretendere la resa, forse dovremmo andare ad ascoltare le sue parole» terminò in quel momento Martewall.

«E mostrare che abbiamo paura di lui, dopo solo due giorni di combattimenti? Questo mai!» esclamò sir Harald.

«Nostro padre ha ragione» approvò Leowynn, benché fosse cerea in viso.I cavalieri invece si divisero a metà tra le due opinioni del giovane e del vecchio

barone.«Non è paura, è buonsenso» ribatté Martewall con la stessa durezza del padre. «Se

volete davvero proteggere la nostra gente, abbiamo il dovere di tentare almeno un negoziato per la salvezza dei civili. La nostra condanna è certa, perché il re non risparmierà mai dei traditori quali siamo, ma gli innocenti non devono subire la nostra stessa sorte e soffrire più di quanto stiano già facendo. Mi diceste giorni fa che il mio orgoglio non valeva la vita dei miei sudditi, adesso io vi rammento che nemmeno la vostra ostinazione vale le loro vite. Se arrendendoci ora potremo risparmiare loro di finire a fil di spada o impiccati per tradimento, allora l'umiliazione ne varrà la pena».

«Oppure, proprio perché ci arrenderemo così facilmente, Salisbury non avrà pietà per la nostra gente» insisté sir Harald, fermo sulle sue posizioni. «Dimostriamogli invece che dovrà sacrificare anche il suo ultimo uomo per prendere questo castello e allora verrà a più miti consigli!»

«Non abbandonerà mai la battaglia, questo potete scordarvelo».«Ma si spaventerà e ci concederà un negoziato più favorevole e forse persino gli altri

baroni si convinceranno a impugnare le armi dopo il nostro esempio».L'opinione convinse anche molti dei cavalieri che prima avevano condiviso il parere

del giovane Martewall.Ian li capì. Nessuno di loro voleva accettare l'idea di arrendersi e qualsiasi speranza,

sia pure fievole, che consentisse loro di rimandare il momento amaro della resa, era la benvenuta.

«I nostri caduti, di ieri e di oggi, non ci perdonerebbero mai se ci arrendessimo senza aver combattuto fino all'ultimo» disse sir Kerwick e il suo commento aggiunse peso alla decisione di sir Harald di non cedere a nessun patto.

«Infliggeremo a Lunga-Spada tali perdite che sarà costretto a trattarci con rispetto!» continuò il più anziano sir Ewen e altri cavalieri gli fecero eco con frasi sempre più agguerrite.

Si innescò una sorta di reazione a catena, in cui tutti si davano coraggio e forza a

vicenda. Persino Daniel fu contagiato da quella rinnovata speranza e determinazione che adesso animava i cavalieri, perché anche lui voleva negare fino all'ultimo la prospettiva terribile che si profilava all'orizzonte. Non intervenne a parole, ma sembrava più deciso.

Ian invece sbirciò Geoffrey Martewall e lo vide rimanere in un silenzio cupo, mentre l'idea di patteggiare con Salisbury l'indomani veniva ormai accantonata del tutto, con orgoglio.

Nell'ostentata esaltazione generale, Leowynn prese la sua coppa piena e si alzò in piedi. «Ai nostri valorosi caduti, al nostro coraggio e alla resistenza di Dunchester!» esclamò, invitando al brindisi.

Tutti i cavalieri e l'intera sala si alzarono in piedi prontamente per rispondere al suo spavaldo appello. Sir Harald si unì a loro da seduto, perché impedito dalla malattia, ma mescolò la sua voce a quella degli altri con tono sicuro.

Anche Daniel si era alzato e Ian non osò essere da meno, ma a differenza dell'amico non aprì bocca per unirsi alle acclamazioni generali. Mentre si alzava, vide però che Geoffrey Martewall era rimasto seduto accanto al padre, in silenzio e con gli occhi fissi sulla coppa che stringeva in mano ma che non aveva ancora sollevato.

Sa che si stanno tutti illudendo e che Dunchester va verso la disfatta, pensò, condividendo silenziosamente l'angoscia che il suo nemico doveva provare in segreto e come lui sentì la paura al pensiero di cosa sarebbe potuto accadere ai suoi cari nel prossimo futuro.

Nel suo caso specifico, Ian temeva per la vita di Daniel, quando il castello sarebbe caduto nelle mani di William Lunga-Spada.

E allo stesso tempo temeva per Isabeau, lontana, in Francia: se l'assedio finiva in disfatta, se lui fosse stato catturato e imprigionato dagli uomini del re, sarebbero passati mesi o forse anni prima di rivedere la luce fuori da una segreta. Non avrebbe mai potuto essere accanto a Isabeau il giorno della nascita del loro figlio Marc e lei avrebbe dovuto affrontare quel momento supremo da sola...

In quel momento Martewall si accorse dello sguardo di Ian, come se lo percepisse sulla pelle, e rialzò gli occhi. Forse vide la compassione negli occhi dell'altro giovane, perché subito si alzò in piedi e levò in alto la sua coppa, con un moto di orgoglio.

«Al nostro coraggio» ripeté ad alta voce, nella soddisfazione generale dei presenti, e si unì al brindisi. Non lo condivideva, ma non si sarebbe mai mostrato sfiduciato, né avrebbe lasciato scoperti i suoi sentimenti davanti agli occhi dell'odiato "francese" che sedeva alla sua tavola.

Con quella stessa fierezza sarebbe andato incontro alla morte, se necessario. Avrebbe guidato i cavalieri senza esitare e fino all'ultimo come suo padre voleva, pur non condividendone le idee.

Ian rispettò la sua scelta e distolse lo sguardo, cercando a sua volta di nascondere le paure sotto una maschera di decisione. Al nostro coraggio. Non ci resta altro, si ripeté in silenzio, bevendo dalla sua coppa.

Capitolo 22Dunchester combatté strenuamente per altri sette giorni. Sette giorni spaventosi, di

sangue, freddo e violenza, durante i quali le perdite furono pesanti da entrambi i lati. Ogni mattina all'alba Salisbury mandava i suoi cavalieri a chiedere la resa e ogni volta da Dunchester nessuno prendeva in considerazione l'offerta e usciva dal castello per parlamentare.

Martewall rispettava in modo ferreo la decisione di suo padre, anche se soffriva in modo evidente per i caduti che ogni sera venivano inghiottiti dalle acque dei mare.

Le scorte vennero razionate sempre più, i fuochi accesi solo quando la temperatura si faceva troppo bassa per poter essere sopportata. L'acqua fortunatamente non mancava, grazie al pozzo interno del castello, ma a volte ghiacciava nei secchi e allora doveva essere scaldata al prezzo di nuova legna. Si cercò allora di tenere i secchi vicini ai forni che cuocevano il pane, per evitare di dover sprecare combustibile prezioso. Tutti gli uomini in grado di brandire un'arma, anche quelli feriti, furono impiegati sulle mura per sostenere l'assalto del nemico. Ian e Daniel erano tra loro. Nessuno aveva più osato mettere in dubbio la buona fede dei due stranieri e comunque nessuno pensava minimamente a rinunciare a due combattenti validi sulle mura, in un momento tanto disperato.

Così Ian e Daniel ricevettero armi e cotte di maglia, da indossare sopra le tuniche imbottite, e poterono unirsi ai difensori del castello e fare la loro parte per salvare le loro vite con esso.

Il ponte cedette al terzo giorno di assedio, come aveva previsto Martewall, e allora fu la volta dell'ariete che sostituì le baliste nell'attacco e fu spinto contro i cancelli di ferro del barbacane.

Daniel lo vide arrivare lungo la salita con una poderosa rincorsa e inghiottì a vuoto, d'istinto. L'ariete era una costruzione di legno su ruote, coperta da un tetto di pelli e terra bagnata per resistere al fuoco e alle frecce. Dalla tettoia tuttavia sbucava l'estremità rivestita di ferro di un enorme palo.

Almeno trenta uomini spingevano la macchina verso il barbacane, protetti da nugoli di frecce che i loro compagni scagliavano su chiunque osasse affacciarsi dai merli e dalle bertesche per tentare di colpire l'ariete. I proiettili dei difensori erano inefficaci sopra la copertura della macchina: gli orci di olio infuocato fatti gettare dall'alto per ordine di Hector e di Ian non sortirono alcun effetto. Le fiamme sfrigolarono e si spensero una dopo l'altra.

L'ariete colpì il cancello, causando un rimbombo agghiacciante nel barbacane. Il cancello tuttavia resistette. Era robusto ed era stato fortificato con travi, pali, massi e catene di ferro. Gemette, ma non crollò. Il ferro delle sue sbarre si deformò sotto gli urti, ma non si spaccò. I pali si danneggiarono, le travi si ruppero e furono sostituite con altre, le catene vennero raddoppiate. Il cancello resisteva.

Per due giorni interi il micidiale ariete si avventò con ferocia contro i cancelli, poi i difensori riuscirono finalmente ad appiccarvi il fuoco, con le ultime scorte di liquidi combustibili. Dal barbacane si levarono le grida di esultanza dei difensori, ma si spensero subito, coperte dallo stridio metallico del cancello che cedeva. L'ariete era distrutto, ma la prima grata di ferro era ormai danneggiata irreparabilmente e venne divelta dalla sua sede.

Gli invasori sciamarono nel tunnel del barbacane per scardinare anche il secondo sbarramento, ma furono accolti da frecce e pietre scagliate attraverso le feritoie chiamate "assassine", costruite apposta nei muri e nel soffitto del tunnel.

In molti morirono sotto la volta del barbacane e l'impeto dei mercenari del re fu presto domato dalle perdite sanguinose. Lasciarono in fretta il barbacane per ritirarsi verso le retrovie e riprendere l'assalto l'indomani.

Era passato il quinto giorno di assedio e Dunchester resisteva ancora.Ian e Daniel si ritrovarono come gli altri, esausti e sfiniti, a guardare dall'alto il

nemico che si riorganizzava nel suo accampamento.Erano quasi incolumi entrambi, nonostante i combattimenti feroci, anche se Ian aveva

un graffio da balestra su un braccio e Daniel un ennesimo livido sotto la cotta di maglia. «E pensare» ansò il giovane, massaggiandosi con la mano la parte dolente «che Hyperversum non è nemmeno un gioco vietato ai minori di quattordici anni».

Ian non gli rispose e continuò a guardare in silenzio le tende del campo avversario alla luce ormai fioca del tramonto.

Il giorno successivo il nemico si ripresentò sotto i bastioni, ma con minore impeto dei giorni precedenti.

Salisbury era sempre restio a mandare avanti i suoi uomini e le divise blu con i leoni d'oro infatti continuavano a non arrivare mai troppo vicine alle mura. I mercenari però erano ormai decimati, avevano perso nerbo e combattevano con meno foga. Era molto meno facile controllarli e convincerli a fare il loro dovere, persino i difensori se ne accorsero. Le truppe che avanzavano per combattere in prima linea erano meno numerose e, nel corso della giornata, si rese necessario l'apporto delle truppe di Salisbury per mantenere una linea di combattimento efficace. L'assalto però venne portato con poca convinzione e finì presto, non appena il fratellastro del re si rese conto che il barbacane non sarebbe caduto nemmeno quel giorno.

«Lunga-Spada esita! Comincia ad avere paura!» era la frase che circolava di bocca in bocca a Dunchester, con sempre maggiore frequenza, e tutti erano disposti a credere a quelle parole, aggrappandosi a qualsiasi speranza.

Tutti tranne Geoffrey Martewall, che non si univa mai a quei discorsi, ma faceva il conto delle perdite e diventava sempre più cupo.

La sala grande era sempre meno affollata, giorno dopo giorno. Adesso al tavolo dei cavalieri vi erano cinque posti vuoti.

«Che ne pensi tu?» domandò Daniel a Ian quella sera, sottovoce per non farsi sentire dagli altri cavalieri seduti alla stessa tavola. «Credi davvero che Lunga-Spada abbia paura di continuare l'assedio?»

«No» Ian scosse la testa. «Non so perché Salisbury esiti tanto ad affondare il colpo di grazia, ma sono d'accordo con Martewall: Dunchester non durerà ancora a lungo».

«Martewall non ha più detto una cosa del genere in questi giorni» obiettò Daniel, incapace di rassegnarsi a quell'idea terribile. «Ha combattuto senza esitare un secondo».

«Lo fa perché deve, perché gliel'ha imposto suo padre, ma credimi: lui è il più lucido di tutti e sa quali sono le potenzialità del suo castello meglio di suo padre, che non vuole ammettere la verità. A meno di un miracolo o di rinforzi, Dunchester non vincerà questa battaglia».

Daniel rimise il naso sul suo tagliere e ricominciò a mangiare senza più ribattere.«Ascolta» continuò Ian, gravemente. «Quando le cose si metteranno al peggio, cerca

di confonderti tra i civili o tra i feriti. Chiedi. aiuto a Thomas Bull, se necessario, lui ti coprirà. Forse riuscirai a trovare una via di fuga quando il castello verrà evacuato dopo la conquista».

«E tu che farai?»«Io non posso passare inosservato: sono troppo alto. Chiunque mi abbia visto

combattere mi può riconoscere anche in mezzo alla gente comune. Resterò insieme ai cavalieri e aspetterò il mio destino. Comunque vada, so che tra qualche anno potrò ritornare in Francia».

«Sì, ma in quali condizioni?» domandò Daniel, con una stretta al cuore.Ian sostenne il suo sguardo con dolore. «Non lo so» ammise. Daniel restò in silenzio

ancora per qualche minuto.«Tu lo sai che io resterò con te qualunque cosa tu possa direo fare per impedirmelo, vero?»Ian annuì e abbassò la testa. «Sì, ma dovevo comunque tentare di convincerti a

metterti in salvo».Per il resto della cena non ci furono altre parole.

L'alba del settimo giorno fu livida e piena d'angoscia. Quando il sole sorse a illuminare il paesaggio, nuovi vessilli

si erano aggiunti a quelli di William Lunga-Spada ed erano gli stessi, di colore blu e bianco, che Ian aveva visto sulla rocca al porto di Glenhaven.

Sir Nigel Murrow, il barone confinante con il feudo dei Martewall, aveva imbracciato le anni ma non per soccorrere il vicino in difficoltà.

Al contrario, le sue truppe si schierarono in prima fila sotto Dunchester e William Lunga-Spada le lasciò andare all'attacco, limitandosi a coprire loro le spalle con i suoi formidabili arcieri. Aveva trovato un valido rimpiazzo per i mercenari ormai ridotti di numero e le truppe di sir Murrow sembrarono mettere molto impegno per compiacere il conte di Salisbury e fare bella figura davanti ai suoi occhi.

Il voltafaccia di Murrow fu un grave colpo per i difensori di Dunchester, che seppero di non avere più scampo.

«Dannato avvoltoio! Spera di allargare il suo feudo conquistando le nostre terre!» esclamò quel giorno sir Harald Martewall, con furia disperata. «Siano maledetti lui e la sua stirpe per i secoli a venire, per averci pugnalato alle spalle in questo modo!»

«Ha atteso di vedere se Salisbury riusciva a piegarci ed è entrato in campo quando ormai il lavoro era già quasi fatto» commentò Geoffrey Martewall, tetro, e s'infilò l'elmo per andare a combattere sui bastioni. «Ora siamo tutti condannati».

Ian e Daniel si scambiarono uno sguardo impotente prima di portarsi a loro volta sulle mura.

Nonostante tutto, il castello resistette ancora per altri due giorni, con la forza della disperazione. Sir Murrow pagò a caro prezzo l'aver mandato i suoi a tentare la conquista di Dunchester e forse si pentì di essere andato in rinforzo a Salisbury perché i suoi uomini morirono a decine sotto i bastioni e altrettanti furono i feriti che dovettero essere portati via a braccia dal campo di battaglia.

Alla fine però, il barbacane cadde.L'ultimo cancello saltò, divelto dalla furia del nemico.Le truppe fedeli al re dilagarono nella corte esterna senza che nessuno potesse più

fermarle.Vedendo dall'alto del camminamento di ronda quell'orda armata irrompere nel castello

e travolgere chiunque trovasse sulla sua strada, Daniel aprì la bocca ma non riuscì nemmeno a formulare la preghiera che gli era venuta alle labbra.

«Vieni via! Subito! O saremo intrappolati qui!» gli urlò Ian e si girò per ripetere l'esortazione a quelli che gli stavano intorno. «Via tutti! Ripiegate verso il castello!»

Thomas Bull era a poca distanza da lui e diffuse ulteriormente l'ordine, come anche tutti gli ufficiali e i cavalieri, consapevoli che non era più possibile continuare la difesa sulle mura intermedie ormai conquistate. Nel caos di grida e rumore, si udirono i corni del castello chiamare disperatamente tutti uomini alla ritirata.

I difensori abbandonarono in fretta le loro posizioni per correre verso la terza cerchia di mura, quella del maniero stesso, e difendere con la vita l'ultimo ingresso al castello. Trasportavano con loro i feriti oppure si fermavano a combattere per proteggere la fuga dei compagni in difficoltà.

Ian e Daniel si trovarono a dover combattere per conquistarsi ogni metro di cammino verso il maniero, con i nemici che incalzavano da ogni parte e le frecce che piovevano dal cielo e mietevano vittime indiscriminatamente.

Un dardo si piantò nella terra a soli pochi passi da Daniel, un secondo mancò Ian di poco mentre il giovane era impegnato a difendersi da un soldato in divisa blu. Altre frecce provenienti da ambo le parti colpirono invasori e difensori. Daniel dovette letteralmente scavalcare un corpo che gli era caduto davanti mentre correva verso il cancello ormai vicinissimo.

Accanto a lui, però, Bull lanciò un grido e cadde, trafitto alla spalla.«Thomas!» chiamò Ian con angoscia, ma fu Daniel a raggiungere il boscaiolo per

primo e a risollevarlo da terra.«Sto bene...» rantolò l'uomo con una smorfia di dolore e strinse i denti per rimettersi

in piedi, ma barcollava in modo evidente e non riusciva a camminare da solo. Non ce l'avrebbe mai fatta a mettersi in salvo senza aiuto.

«Pensa tu a lui!» gridò Ian a Daniel mentre teneva a bada l'ennesimo aggressore. «Portalo dentro!»

«Tu che vuoi fare?!» esclamò Daniel con paura.«Vi copro le spalle e vi raggiungo subito! Ora sbrigati!» Ian non poté aggiungere

altro: il nemico lo incalzava e il giovane dovette fare uso di tutto il fiato che gli era rimasto per difendersi.

Daniel esitò solo un istante, poi corse dentro il cancello sorreggendo Bull.Ian rimase con gli ultimi cavalieri, Martewall compreso, a ritardare il più possibile

l'avanzata del nemico e consentire così a più uomini di trovare rifugio nel castello.In molti morirono durante quella ritirata terribile. Quelli che poterono salvarsi si

asserragliarono dietro l'ultimo muro, là dove per precauzione erano già stati condotti gli indifesi, donne, vecchi e bambini, ora stipati nel cortile interno, senza più spazio sufficiente per poter sopravvivere alle gelide condizioni atmosferiche.

I feriti furono adagiati ovunque, ma non c'era abbastanza acqua e vino per medicare tutti, né abbastanza legna per accendere fuochi e scaldarli.

I cavalieri e i soldati di Dunchester cedettero il terreno un passo alla volta e i nemici dovettero spendere molto sangue per conquistarsi la strada fino al cancello. Infine, quando la pressione fu insostenibile e il castello aveva ormai accolto tutti quelli che

potevano raggiungerlo, anche gli ultimi difensori abbandonarono la battaglia per correre al riparo.

Solo Geoffrey Martewall rimase fuori, combattendo come una furia, e per qualche minuto ignorò del tutto le grida dei suoi uomini che lo esortavano a rientrare per mettersi in salvo. Fu Ian ad agguantarlo con la forza, vedendolo sordo a ogni richiamo, e lo trascinò di peso dentro il duplice cancello fortificato.

Dietro di loro le grate di legno e di ferro furono abbassate di schianto e sbarrarono definitivamente la strada al nemico, chiudendolo fuori a inveire invano contro i difensori che gli erano sfuggiti. Il cancello fu infine sigillato con ulteriori pannelli di legno, adatti a bloccare le frecce che potevano essere scoccate attraverso il tunnel.

Martewall si divincolò brutalmente dalla presa di Ian non appena i due furono nel cortile. «Lasciami!» ringhiò e d'istinto brandì la spada contro l'altro giovane. Ian però si fece indietro subito e non accennò a voler reagire.

«Andiamo! Adesso è il momento giusto!» lo aggredì Martewall a parole, facendo un cenno inequivocabile di venire avanti. «È il momento di regolare i conti, Falco d'argento! Tra poco moriremo tutti e non ce ne sarà più l'occasione!»

Ian non raccolse l'invito: in quel momento Martewall era animato da una furia cieca e l'americano non aveva alcuna intenzione di sprecare energie e risorse a battersi con lui per una questione d'importanza del tutto secondaria rispetto al momento critico del maniero.

Attraverso la confusione generale che invadeva il cortile, si fece strada Hector. «Signore!» chiamò, accorrendo verso Martewall. «Che cosa facciamo? Gli uomini aspettano ordini!»

Il giovane barone non gli rispose subito. Aveva il respiro accelerato, gli occhi accesi d'ira, sostituita però molto presto dalla consapevolezza che non era rimasto niente altro da fare. Con un supremo sforzo di volontà il cavaliere si dominò, riprese il controllo di sé, abbassò la spada. «Segnalate al nemico che ci arrendiamo. E finita» disse, in tono basso ma distinto.

Hector s'irrigidì. «Mio signore..!» tentò di obiettare, ma lo sguardo di ghiaccio di Martewall lo bloccò immediatamente.

«E , Hector. Non ci resta altro che consegnare le armi risparmiare almeno ai civili la morte per spada. Diffondi il mio a tutti. Esponete la bandiera bianca, non abbiamo più per poter patteggiare, adesso. Avremmo dovuto prima».

«Ma noi possiamo ancora resistere!» cercò di dissuaderlo il luogotenente.«NO!» ruggì Martewall, esasperato. «E inutile, lo volete capire tutti quanti?! Se

continuiamo a oltranza, il nemico espugnerà il castello ed entrerà comunque con la forza! E a quel punto non ci sarà salvezza per le donne e per i bambini, finché i mercenari non ne avranno avuto abbastanza! Dobbiamo arrenderci ora: fermiamo il combattimento, lasciamo entrare Salisbury in pace e senza colpo ferire, solo così possiamo mettere al riparo la nostra gente dalle rappresaglie indiscriminate. Noi traditori sconteremo come meritiamo l'ira del re».

Hector lasciò cadere lungo il fianco il braccio che impugnava la spada, impotente, sconfitto. Rimase in silenzio a lungo, poi però dovette piegarsi alla decisione di Martewall. Anche lui sapeva che non c'era altro da fare per evitare un massacro di innocenti all'interno del castello. Con le poche forze che rimanevano forse potevano rimandarlo di un giorno, forse addirittura di due, ma poi il nemico avrebbe sfondato

anche l'ultima difesa e allora si sarebbe avventato con raddoppiata ferocia su chiunque gli fosse capitato a tiro.

«Porterò gli ordini agli uomini» disse infine il cavaliere fiammingo e ogni parola sembrò costargli sangue.

Martewall annuì in silenzio senza guardarlo mentre si allontanava. Spostò gli occhi su Ian. «E così, alla fine, non potremo chiudere la nostra contesa, noi due» disse con una smorfia amara. «Non avrei mai immaginato che sarebbe andata a finire in questo modo. Non so quale sarà il tuo destino e probabilmente non vivrò abbastanza per vederlo compiersi. Mi auguro almeno che lo spettacolo della mia esecuzione ti soddisfi».

«Come puoi pensare che la morte, fosse anche quella di un nemico, possa darmi soddisfazione?» replicò Ian, sdegnato.

Martewall non gli rispose e si limitò a studiarlo con rancore. «Comunque sia, vieni pure a vedere l'epilogo della storia. Il minimo che possa fare per te è lasciarti assistere alla disfatta della mia casa e alla rovina della mia famiglia».

Si girò e s'incamminò verso il mastio senza più voltarsi indietro, di nuovo con la mano sul braccio dolorante.

Ian lo seguì in silenzio.Lungo la strada venne raggiunto da Daniel, che gli corse incontro con enorme

sollievo. «Meno male, sei qui! Non ti avevo più visto e temevo che fossi rimasto fuori!» disse l'amico.

«Come sta Thomas?» domandò Ian in cambio.«Non è in pericolo. I suoi compagni hanno estratto la freccia e fasciato la ferita. Se la

caverà».«Meglio così».«Che sta succedendo?» domandò ancora Daniel, adesso preoccupato, accennando a

Martewall ormai lontano.«È il momento che tu vada a raggiungere i civili e tenti di nasconderti in mezzo a

loro» replicò Ian.L'altro giovane alzò lo sguardo verso le mura e vide una strana concitazione passare

tra i soldati come un'onda per poi spegnersi in un'innaturale immobilità. Uno alla volta, gli uomini abbassavano le armi, sgomenti, ammutoliti.

Daniel capì che era finita. Fece un respiro profondo, poi si voltò verso Ian e aveva negli occhi un'espressione decisa. «D'accordo, hai fatto ciò che dovevi per convincermi a lasciarti solo. Non ci sei riuscito, quindi rassegnati. Dove andiamo adesso?»

«Seguimi» disse Ian cupamente.

Gli ultimi cavalieri si erano asserragliati nelle stanze private della famiglia, decisi a tutto pur di proteggere fino all'ultimo sir Harald e Leowynn dal nemico. Erano rimasi in quattro, di cui uno ferito lievemente, e il loro ultimo bastione di difesa era la grande sala in cui di solito sir Harald concedeva le udienze e si occupava dell'amministrazione del feudo. Era un luogo abbastanza ampio, al primo piano del mastio, comunicante con le stanze da letto della famiglia ma difeso da un poderoso portone che poteva essere sprangato dall'interno all'occorrenza. Le finestre, strette e alte, prive di vetri ma con robuste imposte, erano facilmente difendibili dall'interno. L'arredo era unicamente composto da un grande camino, uno scranno, un leggio, un tavolo e alcuni sgabelli.

Quando Geoffrey Martewall arrivò, seguito a distanza da Ian e Daniel, l'accoglienza

fu quasi ostile.«Noi non ci arrenderemo» fu la prima cosa che sir Kerwick pronunciò all'indirizzo del

giovane barone. Gli altri tre che erano con lui, tra i quali sir Ewen, furono d'accordo senza riserve.

«Voi farete ciò che vi ordino, poiché siete miei vassalli e mi dovete obbedienza» replicò Martewall con uguale durezza.

«Con tutto il rispetto, signore, voi non siete ancora il padrone del castello. La nostra obbedienza va prima di tutto a vostro padre» obiettò sir Ewen.

«Allora potrete morire qui da soli, perché il castello si è già arreso per ordine mio. I soldati hanno esposto la bandiera bianca».

«Tu hai fatto una cosa simile! Tu, mio figlio!» esclamò sir Haraid, indignato e disperato insieme. «Come hai potuto?!»

«Ho voluto e dovuto salvare delle vite innocenti! Quanti ancora devono morire per la vostra assurda ostinazione?» lo zittì Martewall, furente. «Dunchester ha già pagato la vostra ribellione con la vita di decine di uomini. Non pagherà anche con quella delle sue donne e dei suoi bambini! Non pagherà con la vita di mia sorella! Noi siamo condannati, ma voi non trascinerete anche Leowynn nella stessa rovina. Vi arrenderete con me e con tutti gli altri e le risparmierete la violenza del nemico!»

Sir Harald non rispose subito a quel discorso. Gli altri cavalieri si guardarono l'un l'altro, ora incerti.

«Non voglio essere la causa della vostra resa! Piuttosto preferisco morire qui!» protestò Leowynn, disperata, vedendoli esitare.

«Salisbury ti prenderà in consegna, sarai suo ostaggio e non correrai alcun pericolo. È un uomo d'onore e non permetterà che ti venga torto un capello» le disse Martewall, troncando le sue proteste. «Potrai continuare a vivere con onore, anche se probabilmente lontana da qui. Se invece costringiamo il nemico a fare irruzione in queste stanze con la forza, cosa credi che ti accadrà quando noi saremo morti tutti?»

Leowynn tremò vistosamente. Si appellò a tutti con lo sguardo, persino a Ian e a Daniel che assistevano in silenzio alla scena, ma nessuno poté trovare una parola per smentire il quadro terribile prospettatole dal fratello.

Daniel provò pena per lei, perché vide lo smarrimento totale nei suoi occhi chiari.Intanto Martewall si era voltato di nuovo verso sir Harald. «Padre, se voi l'amate,

avete il dovere di evitarle un simile destino» insisté. «Almeno lei, l'ultima della nostra famiglia, deve uscire incolume da questa disfatta».

L'argomentazione sembrò togliere al vecchio barone anche le ultime forze. L'uomo si curvò, come se il peso dell'usbergo fosse diventato di colpo intollerabile sulle spalle. Lentamente andò a raggiungere lo scranno che stava nel mezzo della stanza e vi si sedette.

I suoi cavalieri gli si strinsero intorno, angosciati nel vederlo tacere. «Signore!» lo chiamarono, cercando di rianimarlo, ma sir Harald non guardò più nessuno di loro e gli uomini capirono che non c'era più nulla da discutere, se non la resa.

Uno dopo l'altro, abbassarono le spade, tenute fieramente in mano fino ad allora.«Quali sono i vostri ordini, mio signore?» domandò sir Kerwick, piano.Il vecchio barone accennò con una mano a Ian e Daniel, ancora silenziosi in disparte.

«Disarmate monsieur de Ponthieu e il suo compagno» ordinò con voce atona.Ian s'irrigidì, del tutto colto di sorpresa. «Signore!» protestò.

«Perché?!» fece eco Daniel ed era così sbalordito da quell'improvviso voltafaccia da non tentare nemmeno di difendersi quando i cavalieri di Dunchester raggiunsero lui e Ian, con le spade pronte a ogni evenienza.

Il vecchio barone alzò uno sguardo stanco su entrambi i giovani. «Vi prego, non opponete resistenza e lasciate che i miei cavalieri facciano ciò che chiedo» continuò. «La mia non vuole essere ingratitudine nei vostri confronti, al contrario, credetemi. Mio figlio ha ragione nel dire che Salisbury è un uomo d'onore: vi risparmierà la vita, se io vi consegnerò direttamente a lui come ostaggi. È l'unica cosa che posso fare per alleggerire forse il destino ingiusto che vi aspetta».

Ian non replicò ulteriormente davanti a tanta disperata fierezza. Si lasciò disarmare in silenzio. Daniel fece altrettanto.

I due amici furono presi in disparte dai cavalieri inglesi, mentre Martewall guardava la scena in silenzio.

Sir Harald guardò suo figlio. «Chiama Hector e digli di accompagnare qui il nuovo padrone di Dunchester» disse, tetro.

«Padre, che cosa dite?! Cosa volete fare?!» esclamò Leowynn, inginocchiandosi accanto allo scranno per stringere il braccio del genitore, quasi a supplicarlo.

Il vecchio le pose una mano sulle sue e fece un sorriso amaro. «Mi preparo ad accogliere il vincitore della battaglia, figlia mia. Aspetterò l'arrivo del conte William di Salisbury e gli consegnerò il castello e la mia spada».

Capitolo 23William Lunga-Spada, conte di Salisbury, fece il suo ingresso nella sala nemmeno

un'ora più tardi, seguito da altri cinque cavalieri con livree di vari colori. Faceva loro strada Hector, silenzioso, con l'elmo sottobraccio.

Quando vide quel gruppo arrivare, Ian diventò attento e da lontano, dall'angolo in cui era con Daniel, sorvegliato da sir Kerwick, studiò l'uomo dal quale ora dipendevano i destini di tutti.

Salisbury era un cavaliere di media statura, dall'aria agguerrita e fiera. Portava i capelli lunghi e aveva il volto quadrato e colorito, segno che la sua prigionia in mano francese era stata più breve e meno dura di quella toccata a Geoffrey Martewall. Alla cintura della cotta blu e oro portava appesa una spada temibile, più lunga e più pesante del normale, senza dubbio adatta alle sue spalle taurine.

Ian ricordava di aver visto Salisbury da lontano, sul campo di battaglia a Bouvines, quando il conte inglese era intervenuto con i suoi cavalieri a salvare l'imperatore Ottone IV, ormai circondato dai Francesi. La sua era stata una mossa da maestro e aveva consentito all'imperatore di fuggire da una situazione disperata, scampando alla prigionia e forse addirittura alla morte.

Ian rammentava anche il rispetto con cui tutti i Francesi parlavano di William Lunga-Spada, riconoscendone l'abilità guerriera.

Adesso che poteva vederlo da vicino, il giovane si rese conto che quell'uomo doveva essere altrettanto navigato ed esperto nei confronti politici come in quelli della spada: aveva esattamente lo stesso sguardo penetrante di Guillaume de Ponthieu ed era più vecchio di qualche anno.

Un soggetto da trattare con cautela, si disse Ian in silenzio.Gli altri cavalieri al seguito di Salisbury non gli fecero invece particolare effetto,

tranne quello che portava addosso i colori di Glenhaven. Era soltanto un ragazzo di quattordici anni o poco più, dall'aria sussiegosa e insieme insicura: si atteggiava a cavaliere, ma sembrava un pesce fuor d'acqua accanto ai veterani di Salisbury, anche se portava addosso un blasone nobiliare. Il suo disagio si notò ancora di più quando dovette affrontare gli sguardi ostili e accusatori degli sconfitti.

Sir Nigel Murrow, lo riconobbe Ian, benché non l'avesse mai visto prima. Ricordava ancora la frase con cui la gente di Aversly l'aveva definito "un ragazzino".

Un ragazzino pericoloso, se pensa di poter giocare alla guerra con i grandi, si disse ancora Ian e cercò di immaginare se la decisione del giovanissimo Murrow di attaccare Dunchester alleandosi con Salisbury fosse stata presa dal ragazzo in persona o invece suggerita da qualche ambizioso consigliere. Di certo, a farne le spese erano stati i soldati dello stesso Murrow, mandati in prima linea insieme ai mercenari, mentre Salisbury teneva i suoi in retroguardia.

Chissà cosa avrebbe fatto Lunga-Spada, se Murrow non fosse arrivato ad offrirgli altra carne da cannone al posto dei mercenari decimati? si chiese Ian. Non sembrava tanto voglioso di combattere, ma non poteva nemmeno tergiversare a oltranza sotto il castello.

Nel frattempo, i cavalieri di Dunchester avevano accolto i vincitori con un silenzio teso.

Solo quando Salisbury si fermò di fronte a loro, Geoffrey Martewall diede l'esempio e

s'inchinò a lui con rispetto. «Milord» salutò e la sua voce suonò vibrante di sentimenti diversi.

William Lunga-Spada gli si piazzò davanti e non rispose subito, ma si voltò invece a fissare Harald Martewall, seduto sullo scranno.

Leowynn si teneva dietro il padre con entrambe le mani serrate sullo schienale a cui era appoggiato, bianca in volto e silenziosa.

«Perdonate se non mi alzo per rendervi omaggio, milord» disse il vecchio barone. «Purtroppo, la malattia mi rende molto più debole di quanto vorrei».

«Non vi ha impedito comunque di farvi mettere sulla sella di un destriero e di guidare i vostri uomini alla ribellione» ribatté il conte, con asprezza, accennando all'usbergo che il vecchio aveva addosso. «Credetemi: avrei voluto che la malattia vi rendesse molto più debole di così».

Si voltò verso Geoffrey Martewall e appoggiò nel frattempo la mano sull'impugnatura della sua poderosa spada. «In quanto a voi, mi meraviglio che abbiate potuto assecondare un'idea tanto folle» l'apostrofò. «Da voi non mi sarei mai aspettato un simile gesto d'ingratitudine verso il nostro re».

Martewall subì l'accusa senza reagire. «Non ho parole a mia discolpa, signore» disse semplicemente, ma era bianco in viso.

«Non dovreste averne, infatti!» sbottò Salisbury. «Quello che avete fatto va al di là di qualsiasi possibilità di giustificazione. Avete tradito il re, la sua fiducia e il vostro giuramento di lealtà verso la corona. Sapete cosa vi aspetta per questo?»

Leowynn strinse convulsamente le dita sullo schienale di legno dello scranno, quando suo fratello rispose: «Ne sono consapevole».

«Allora non ho niente altro da dirvi» sentenziò Salisbury ma, mentre lo diceva, spostò lo sguardo sui cavalieri in disparte nella sala e soprattutto su Ian e Daniel, in apparenza sorvegliati da sir Kerwick.

Ian si sentì osservato attentamente e quegli occhi indagatori lo misero sul chi vive. Salisbury aveva ben presto distolto la sua attenzione da tutti gli altri per guardare solo lui. In un'occhiata lo aveva misurato da capo a piedi e nella sua espressione comparve una sfumatura che il giovane non riuscì a decifrare.

«Sir Martewall, mi aspetto che mi consegnate il castello senza alcuna condizione» continuò il conte inglese, rivolgendosi di nuovo al vecchio barone.

Sir Harald annuì, sconfitto, e tese la spada che si era già slacciato dalla cintura. «Dunchester è vostro, milord». Leowynn soffocò a fatica un singhiozzo.

Salisbury prese la spada.Il ragazzo cavaliere vicino a lui si fece avanti per riceverla, ma William Lunga-spada

ignorò il suo gesto per consegnare l'arma a uno degli uomini del suo seguito.«Non è un po' presto per pensare di mettere le mani su Dunchester, sir Murrow? Solo

tre mesi fa eravate qui, ospite ed amico, al banchetto di compleanno per dama Leowynn» disse sir Kerwick al ragazzo, in tono di disprezzo.

Il ragazzo arrossì visibilmente, ma cercò di darsi un contegno. «Anche voi dovreste consegnare le vostre spade, dal momento che siete sconfitti» replicò brusco, accomunando nella risposta tutti i cavalieri di Dunchester.

«Basta così, vi prego. Il momento della battaglia è finito» intervenne sir Harald, per calmare i suoi uomini. I cavalieri mugugnarono, ma rimasero in silenzio e ai loro posti.

«Signore, insieme al castello io vi consegno due ostaggi» continuò il vecchio barone,

di nuovo rivolto a Salisbury, e indicò Ian e Daniel, ma Lunga-Spada interruppe il suo discorso con un cenno. «Ne parleremo tra poco» disse, sbrigativo.

Sorpreso, il barone tacque, in attesa di sapere come continuare.«Mi garantite che i vostri uomini non tenteranno colpi di testa?» gli domandò

Salisbury.«Sono pronti a sottomettersi alla vostra giustizia».«Vedremo». Il conte inglese valutò i cavalieri di Dunchester per qualche attimo e poi

si rivolse a Murrow, sempre al suo fianco «Prendete in consegna questi uomini e fateli condurre in cella».

«Sì, milord» si affrettò a dire il giovanissimo barone e con un cenno imperioso indicò agli altri cavalieri dietro di lui di eseguire l'ordine.

«Che non venga arrecato loro danno od offesa finché io non avrò deciso come giudicarli» ammonì però Salisbury in tono significativo e Ian vide che il discorso dell'uomo era rivolto soprattutto ai cavalieri più anziani accanto a Murrow, che gli indirizzarono un eloquente sguardo di assenso.

L'americano capì al volo la situazione: William Lunga-Spada si serviva del ragazzino tenendolo buono con falsi compiti importanti, mentre in realtà tutto era deciso da lui e dai suoi uomini.

Povero ingenuo, non puoi competere con uno squalo simile, pensò Ian, osservando lo zelo con cui il barone adolescente si impegnava a fare la sua parte, credendola rilevante.

Geoffrey Martewall intanto si era fatto avanti di un passo verso il conte di Salisbury. «Io vi imploro, milord: abbiate clemenza per gli innocenti».

«Non sarà fatto loro alcun male» lo rassicurò Lunga-Spada. «Tutti gli innocenti saranno liberi di abbandonare il castello non appena avrò valutato le loro singole posizioni nei confronti del re».

Fece una pausa significativa e concluse: «Farò in modo che anche vostra sorella non abbia a soffrire più del necessario in questa spiacevole vicenda».

«Ve ne sono riconoscente» rispose Martewall.Anche Leowynn fu costretta a inchinarsi al conte, dopo un simile discorso.«Grazie, mio signore» dovette rispondere, con voce spezzata.Murrow nel frattempo era prontissimo a condurre personalmente in cella i cavalieri

prigionieri. «Seguitemi» disse, baldanzoso, facendo strada verso la porta.«Voi no» disse però Salisbury a Hector. «Desidero che restiate qui con gli ostaggi

finché non avrò chiarito alcune cose con sir Martewall. Quando avrò finito, vi congederò».

Ian e Daniel si scambiarono un'occhiata tesa e restarono fermi nel loro angolo, senza incamminarsi dietro sir Kerwick come stavano per fare. Hector li raggiunse in silenzio, non meno perplesso di loro.

Sorpreso, Murrow si trovò a condurre fuori dalla sala solo quattro prigionieri, scortato da due cavalieri di Salisbury. Il conte inglese infatti aveva ordinato agli altri due di rimanere nella sala. Questi ultimi andarono a chiudere accuratamente la porta, non appena Murrow e tutti gli altri si furono allontanati, e vi rimasero accanto, come di guardia.

Ian notò che entrambi gli uomini portavano sulle livree stemmi derivati dal blasone di William Lunga-Spada e ne dedusse che dovevano essere suoi fedelissimi. Si fece più attento, perché capì che il conte inglese voleva avere intorno solo ca valieri affidabili,

forse per trattare la questione degli ostaggi, rimandata poco prima.Sospetta qualcosa di noi, si disse Ian, trepidante, ricordando lo sguardo con cui

l'uomo l'aveva soppesato.Nel silenzio che seguì, Salisbury fece qualche passo nervoso nella stanza, meditando.

Quando si fermò, affrontò direttamente il vecchio Martewall. «Sir Harald, voi siete un pazzo se pensavate di ottenere qualcosa con questa vostra impennata di arroganza».

«Milord, io ho agito solo ed esclusivamente per difendere la mia gente dalle vessazioni che già da troppo tempo sta patendo» rispose il barone, senza timore. «Riconosco di aver sbagliato, ma solo nel non aver radunato più guerrieri e nell'aver confidato troppo nella solidarietà degli altri baroni. Non mi pento di essermi opposto a un re tiranno e rifarei ciò che ho fatto, pur avendone viste le conseguenze. Spero soltanto che il mio esempio possa esortare gli altri baroni a reclamare i loro diritti con più forza di quanto abbia fatto io».

Bella risposta, pensò Daniel. Di sicuro il vecchio barone ha del coraggio a parlare così ai vincitori.

Guardò Ian per vedere cosa ne pensava e notò che l'amico era concentratissimo su Salisbury. Lo stava studiando mossa per mossa.

«E voi pensate davvero di aver dato un contributo alla causa!» aveva intanto esclamato Lunga-Spada, sprezzante. «Quando Dunchester fosse stata rasa al suolo e ridotta in cenere, pensate forse che gli altri baroni avrebbero osato ribellarsi? Che avrebbero impugnato le armi e rischiato la stessa fine per i loro feudi? Non vedete che il vostro vicino ha già colto l'occasione per venire a banchettare sul vostro cadavere?»

«Nigel Murrow non era con noi a Bury St.Edmunds, quando i baroni si sono riuniti per discutere la politica del re».

«Robert Fitz-Walter invece c'era e anche Reginald Cornhill di Rochester. Avevano ricevuto le vostre richieste di aiuto. Entrambi però sono venuti da me, a chiedere consiglio, e non qui a combattere per la vostra causa».

Il tono duro di Salisbury mise a tacere il vecchio barone, che non seppe più cosa replicare. «Codardi» disse soltanto a mezza voce, sconfitto.

Ian invece aveva avuto un sussulto. Un nome pronunciato da Salisbury l'aveva colpito come una sassata: Rochester.

Un intero mondo di ricordi gli si aprì davanti e finalmente il giovane trovò ciò che da tempo stava inseguendo tra le reminiscenze dei suoi studi.

Era Rochester e non Dunchester il luogo nominato nei libri di storia: nomi simili per castelli che avevano avuto destini simili durante la guerra dei baroni inglesi. Rochester era, anzi, sarebbe stata presto una delle roccaforti in cui i baroni ribelli avrebbero opposto maggiore resistenza alle truppe di re Giovanni. Come Dunchester, anche Rochester sarebbe caduta dopo un feroce assedio, ma solo nel 1216, nella fase più cruenta della guerra.

E sir Robert Fitz-Walter, invece...Prenderà la guida della rivolta armata tra pochissimo, si disse Ian, incredulo. Perché

mai il futuro capo della ribellione e il suo alleato di Rochester sono corsi a parlare con Salisbury invece di venire ad aiutare un altro sicuro alleato come Martewall?

Erano andati "a chiedere consiglio", così aveva appena detto Salisbury. Ma consiglio su che cosa?

Un dubbio incredibile colse Ian, che mise d'istinto la mano sulla spalla di Daniel.

Possibile? si domandò, con il cuore improvvisamente accelerato. Che anche lui sia d'accordo con loro in segreto?

Daniel guardò l'amico, sorpreso, ma non riuscì a capire il suo gesto né i pensieri che passavano sul suo viso.

Ian teneva costantemente gli occhi fissi su Salisbury, con triplicata attenzione. No, non può essere. I libri di Storia dicono che William Lunga-Spada resterà fedele a re Giovanni per tutta la durata della guerra, pensava, eppure il dubbio lo rodeva. A meno che...

Ripensò all'esitazione con cui Salisbury aveva condotto l'assedio in quei giorni. La Storia diceva che Lunga-Spada avrebbe combattuto con poca convinzione anche nei mesi futuri, per poi affrettarsi a patteggiare con Luigi di Francia, non appena questi fosse sbarcato in Inghilterra. Come mai un valente condottiero come William Lunga-Spada era diventato all'improvviso tanto pavido?

A Bouvines il conte inglese era stato la personificazione della determinazione guerriera; a Dunchester invece aveva mostrato un atteggiamento del tutto diverso, perché?

Ian non si era mai posto la domanda, prima di quel momento, attribuendo il cambiamento di Salisbury a una sua precisa strategia per evitare perdite inutili contro un nemico in trappola. Adesso, forse aveva una risposta diversa. L'incontro tra Salisbury e i futuri capi della ribellione gli suggeriva una motivazione precisa, benché incredibile.

... a meno che la sua cosiddetta fedeltà al re non sia solo una facciata di convenienza politica, sospettò. Di sicuro questo era un altro motivo per togliersi di torno Nigel Murrow e tenersi vicine solo orecchie fidate in qualsiasi fase di discussione politica.

È lui che manovra le pedine, senza mai compromettersi? Ian era senza parole, eppure cominciò a riflettere più rapidamente di prima. Se davvero era così, la situazione poteva avere risvolti completamente nuovi di cui approfittare.

«Sapevo che eravate tra i più accesi fautori della rivolta, ma non avrei mai immaginato che sareste arrivato a ribellarvi apertamente e da solo» aveva intanto proseguito il conte inglese, nel suo discorso con il vecchio barone e si voltò con accusa verso Geoffrey Martewall. «Contavo almeno su di voi perché lo faceste ragionare e invece avete solo peggiorato la situazione».

Il cavaliere ebbe un fremito. «Io ho tentato, milord, ma poi, dovendo scegliere tra mio padre e il re, ho scelto mio padre».

«Fosse solo questo, comprenderei la vostra avventatezza, anche se sono costretto a giudicarla come impone la legge della corona! Ma io temo invece che abbiate gettato olio sul fuoco» esclamò William Lunga-Spada e, senza preavviso, indicò Ian e Daniel. «Volete spiegarmi questo, ad esempio?»

Ian capì dove si stesse dirigendo il discorso e si convinse che Salisbury aveva intuito molte cose fin da quando aveva visto gli ostaggi entrando. Ad esempio, aveva sospettato l'identità del più alto dei due, combinando insieme le descrizioni che circolavano tra la gente e i racconti dell'inimicizia tra Derangale, amico di Martewall, e i Ponthieu. Forse si ricordava addirittura del Falco d'argento dopo averlo visto a Bouvines.

Ian si fece avanti, attirando volutamente su di sé l'attenzione perché sapeva cosa Salisbury avrebbe chiesto adesso. Era il momento di giocare la partita e scoprire se le carte coperte di Salisbury valevano più delle sue.

Daniel lo seguì con lo sguardo, trattenendo il fiato, ma senza capire quali sospetti

passassero per la testa dell'amico.William Lunga-Spada valutò di nuovo la statura di Ian come se fosse una conferma ai

suoi peggiori dubbi. «Posso sapere chi siete?» domandò, rivolgendo a lui la domanda che avrebbe fatto a Martewall.

«Jean Marc de Ponthieu, signore di Montmayeur» rispose il giovane con solennità.Salisbury non sembrò sorpreso, ma s'irrigidì palesemente.«Le Faucon du Roi.9»Ian s'inchinò per salutare e confermare. «C'est un honneur de vous rencontrer vis à

vis, Monsieur le Comte10»Salisbury s'inchinò a lui con uguale rispetto, ma poi si voltò verso Geoffrey

Martewall. «Questa è opera vostra. Vostra e del vostro amico Derangale» accusò. «Vi rendete conto di cosa avete fatto?»

«Milord...» tentò di obiettare Martewall, colto del tutto di sorpresa da quell'attacco verbale.

«In Francia stanno piangendo da mesi la morte di quest'uomo e invece lui era qui, vostro ostaggio! Voi sapete chi è suo fratello, sì? Sapete che è imparentato con re Filippo tramite la sua nuova moglie? Il conte Guillaume de Ponthieu ha fatto fuoco e fiamme per vendicare la scomparsa del fratello cadetto, se adesso scopre che è sempre rimasto nelle vostre mani...»

«Non è stato mio ostaggio, io stesso ero prigioniero in Francia fino a pochi giorni fa» tentò di difendersi Martewall. «Allora devo presumere che sia stato imprigionato da altri comunque collegati a voi e al defunto Jerome Derangale. Immagino che il Falco del re francese non sarebbe qui oggi, se non fosse stato perpetrato da parte vostra qualche atto ostile nei suoi confronti. Non mi direte che è venuto a farvi una visita di cortesia in onore dei vecchi tempi!»

Martewall si trovò in difficoltà a ribattere, ma d'altra parte Ian aveva già risposto per lui, dicendo: «Sono stato prima tenuto prigioniero in Francia da una banda di sicari mandati da Derangale per uccidermi e poi sono stato trascinato in Inghilterra dagli uomini di sir Geoffrey Martewall contro la mia volontà, insieme al mio compagno d'armi, il cavaliere Daniel Freeland».

Salisbury era furente. «E ancora peggio di quanto mi aspettassi» commentò e parlò di nuovo a Martewall. «In quanti sanno questa storia?»

«Tutta Dunchester sa che io sono qui adesso» sottolineò Ian, prima del giovane barone, e nel dirlo fissò Salisbury dritto negli occhi.

Non pensare neanche di sbarazzarti di noi in segreto, lo sfidò in silenzio, con uno sguardo eloquente. Non metterai tutto a tacere semplicemente facendoci sparire.

Alle sue spalle, Daniel era teso in ogni muscolo, ma non osava parlare.Il conte di Salisbury capì perfettamente il sottinteso di Ian e capì anche di avere le

mani legate, poiché in un modo o nell'altro la notizia della presenza a Dunchester dell'importante ostaggio francese sarebbe trapelata, anzi probabilmente si stava già diffondendo dai vinti ai vincitori. «E una catastrofe» mormorò. «Quando Guillaume de Ponthieu lo verrà a sapere, aizzerà l'intera corte francese contro di noi e se questo dovesse accadere...»

Tacque di colpo e Ian ebbe la certezza che si fosse interrotto per non aggiungere

9 «Il Falco del Re».

10 «È un onore incontrarvi faccia a faccia, signor conte».

qualcosa di inopportuno.I suoi sospetti presero ulteriore corpo.Salisbury si voltò verso i Martewall, Geoffrey in particolare. «Adesso vi rendete conto

di cosa avete fatto?»Il cavaliere strinse i pugni. «I Francesi non arriveranno a scatenare un'altra guerra solo

per lui, se è questo che temete! Quest'uomo non è così importante come voi dite...»«Milord, voi non dovreste essere tanto preoccupato. Un incidente diplomatico con la

corte francese andrebbe solo a vostro vantaggio» intervenne Ian prontamente. «Se re Filippo arrivasse a minacciare rappresaglie a causa mia, nemmeno i baroni più convinti se la sentirebbero di ribellarsi e lasciare il paese indifeso davanti al nemico, quindi il trono di re Giovanni ne uscirebbe rinforzato».

La frase troncò le parole di Martewall e bloccò la scena all'improvviso. Tutti si voltarono verso Ian, compreso Daniel, che guardò l'amico con gli occhi spalancati.

Salisbury invece aveva avuto un sussulto, come se fosse stato colpito a tradimento.«Oppure devo credere che la vostra preoccupazione sia proprio questa?» continuò Ian,

cogliendo al volo quell'indizio.William Lunga-Spada era diventato cinereo. «Come potete insinuare una cosa del

genere?!»Ian non lasciò trasparire nemmeno un istante il timore di aver completamente

sbagliato le sue valutazioni. Si era buttato in una partita a carte coperte e adesso era fondamentale che il suo bluff funzionasse. «Ho osservato il vostro comportamento fino a ora, milord, e non è quello di un uomo votato a punire gli avversari della corona. Per essere un alleato del re, avete troppa esitazione nel combattere i suoi nemici e troppi rimpianti nel giudicarli».

L'accusa fece fremere l'intera sala.Ma sei impazzito? pensò Daniel, con paura. Così ci mandi al patibolo per

direttissima!Ian però non distolse gli occhi da William Lunga-Spada un solo istante.«Io dovrei mettervi a tacere nel sangue, per una simile frase» disse il conte inglese e

portò la mano alla spada in modo eloquente.Nonostante tutto, però, non sguainò la lama e Ian sostenne il suo sguardo, ostentando

una totale sicurezza. «Non posso impedirvelo. Se ho sbagliato a valutarvi, allora non ho altri argomenti per trattenervi dall'uccidermi».

Salisbury non disse più nulla per molti istanti. Stava riflettendo e taceva per non compromettersi, capì Ian, ma era stato colto del tutto di sorpresa dal discorso e non ebbe la prontezza di riflessi di trovare subito un modo per ribattere.

Alla fine però, il suo silenzio fu una rivelazione per tutti. Daniel provò un brivido, quando capì le implicazioni di quella scoperta.

Hector e i Martewall erano rimasti completamente spiazzati dall'improvvisa piega presa dalla discussione. I cavalieri di guardia vicino alla porta si mossero nervosi.

«Milord, ma voi...» esordì sir Harald e allo stesso tempo non osò portare a termine la frase.

Salisbury trattenne a stento un gesto frustrato e Ian seppe di avere colto nel segno.Lunga-Spada guardò i Martewall. «Capite ora davvero cosa avete fatto?» riprese,

secco. «In un solo colpo manderete all'aria l'accordo tra la maggioranza dei baroni, ottenuto con tanta fatica in tutti questi mesi, e aizzerete i Francesi contro di noi. Ecco il

risultato del vostro colpo di testa».È davvero coinvolto anche lui! Daniel era senza parole. Guardò Ian e vide un lampo

di soddisfazione passare nei suoi occhi azzurri. Si complimentò con lui in silenzio Sei un genio.

Un vero occhio di falco, come dice Ponthieu.«Se solo mi aveste lasciato parlamentare in tutti questi dannatissimi giorni!» continuò

Salisbury. «Vi avrei detto di pazientare, perché nessuno degli altri baroni era ancora pronto a intervenire, perché molti vogliono tentare ancora la diplomazia. Vi avrei chiesto di sottomettervi momentaneamente per aspettare tempi maturi. Ma voi non vi siete nemmeno degnato di incontrare i miei messaggeri!»

Con quel discorso, Ian vide confermati tutti i suoi pensieri.Era vero: Salisbury aveva esitato a mandare i suoi all'attacco, ma non per i motivi che

tutti immaginavano. Non aveva avuto paura, ma semplicemente non voleva sacrificare uomini da entrambe le parti, sapendo che in segreto condividevano la stessa causa.

I tempi non erano ancora maturi per la ribellione armata dei baroni, anche Ian lo sapeva e lo sapeva con certezza assoluta. Era ancora presto, ma mancava poco, pochissimo. Prima i baroni dovevano riconoscere in Fitz-Walter la loro guida, poi trovare la volontà di combattere insieme per la causa comune. Forse bastava solo un pretesto perché tutto iniziasse forse no, quel che era certo adesso era che William Lunga-Spada, lungi dall'essere totalmente estraneo alla rivolta, la favoriva in segreto e temeva che un contrattempo imprevisto causasse una catastrofe.

Anche i Martewall erano senza parole per quanto stava rivelando il conte.«Milord, io non potevo immaginare...» si giustificò sir Harald.«D'accordo con Fitz-Walter e Cornhill sono corso qui non appena ho saputo che

Giovanni aveva incaricato i suoi mercenari di venire a darvi battaglia» continuò il conte, ignorando il tentativo di intervento. «Avrei parlamentato con voi se solo avessi fatto in tempo, ma i mercenari sono arrivati prima di me e voi non mi avete dato altre occasioni per parlare. Alla fine, ho dovuto fare quello che il mio ruolo impone e cioè combattere per conquistare Dunchester, specie quando è arrivato Murrow con la sua voglia di mettersi in mostra. Adesso dovrò fare miracoli per evitare il peggio, sempre che sia ancora possibile».

«Ma perché tanti sotterfugi? Voi potevate schierarvi apertamente! Sotto il vostro comando i baroni avrebbero risposto all'appello e preso coraggio contro re Giovanni! Potreste essere anche adesso la loro guida...»

«E fare cosa? Reclamare la corona? Io, un figlio bastardo del vecchio re, senza alcuna forza militare alle spalle se non quella del suo stesso feudo? E voi baroni mi accettereste o mi abbandonereste non appena io vi avessi sbarazzato del re più scomodo?» ribatté Salisbury, tagliente. «Un uomo nella mia posizione non può mirare a un trono e voi siete un pazzo, se pensate che io voglia mettere in pericolo la mia famiglia per un'utopia. Giovanni è il mio fratellastro e volente o nolente abbiamo familiari in comune; mia moglie e i miei figli vivono a corte: cosa credete che accadrebbe loro se io dessi anche solo il sospetto di volermi ribellare al re? Giovanni era pronto a sacrificare nostro fratello, suo fratello Riccardo per avere il trono: credete che proverebbe scrupoli a sbarazzarsi di parenti tutto sommato illegittimi come i miei familiari? E come credete che io potrei mai metterli al sicuro, allontanandoli dalla corte senza insospettire nessuno? No, sir Harald, io non li metterò a repentaglio per la vostra guerra. Finché Giovanni avrà

la corona sulla testa, non avrà mai alcun dubbio sulla mia fedeltà a lui».E nemmeno gli storici, pensò Ian. Lunga-Spada reciterà davvero bene la sua parte,

visto che nessuno nei secoli futuri sospetterà mai questo suo segreto. Anche quando omaggerà il principe Luigi di Francia, crederanno che il suo sia solo opportunismo politico, visto che ormai re Giovanni avrà già perso tutto.

Il conte inglese adesso stava guardando lui con rancore. «E questo mi riporta al problema di cosa fare di tutti i presenti, voi compreso, monsieur de Ponthieu».

Ian si preparò a giocare l'ultima carta, sperando che fosse davvero buona come credeva. «Se mi permettete ancora una parola, lord Salisbury, in questi ultimi giorni io e sir Geoffrey Martewall eravamo arrivati a un accordo per evitare disastrose conseguenze su tutti».

Martewall sobbalzò e Daniel fece altrettanto.Salisbury valutò Ian con rinnovata sorpresa. «Cosa dite, monsieur?»«Siamo arrivati a un accordo» ripeté Ian deciso, fulminando allo stesso tempo

Martewall con gli occhi, per intimargli di stare zitto. «La situazione di Dunchester ha convinto sir Geoffrey a mettere da parte le nostre questioni personali per pensare a ciò che era più conveniente per il suo feudo. Gli avevo proposto di liberarmi in cambio di un aiuto politico e militare e lui aveva accettato l'offerta. Ci saremmo lasciati senza ulteriori ostilità, ma l'assedio mi ha impedito di allontanarmi in tempo».

Ma che cosa stai inventando? pensò Daniel, badando bene a non lasciar trapelare quel pensiero.

Salisbury guardò prima Ian e poi Martewall. L'inglese però, benché fosse sbalordito, aveva avuto almeno la prontezza di riflessi di rimanere in silenzio, in attesa di capire dove volesse andare a parare il discorso di Ian, che sembrava in qualche modo difenderlo.

Non ottenendo spiegazioni dal giovane barone, Salisbury si rivolse di nuovo all'americano. «Quindi voi e Dunchester adesso sareste alleati!»

Ian annuì. «Contro il nemico comune, re Giovanni. Lo dimostra il fatto che io sia qui a parlarvi e non chiuso in una cella. Se in questo momento non sono armato è perché sir Harald Martewall sperava di alleggerire la mia prigionia in mano vostra consegnandomi come un ostaggio».

Salisbury valutò una a una quelle informazioni con evidente sospetto eppure con estrema attenzione. Qualcosa non lo convinceva, ma il conte non lo disse apertamente. «Perché mi raccontate tutto questo?»

«Perché intendo farvi la stessa proposta fatta ai miei precedenti carcerieri: garantitemi la libertà immediata e la salvezza per me e il mio compagno d'armi e io vi aiuterò ad avere gli appoggi che cercate contro re Giovanni. Avevo promesso a sir Geoffrey l'aiuto personale del mio casato per Dunchester; a voi, milord, posso promettere un aiuto più ampio: la neutralità della corte francese durante un'eventuale rivolta dei baroni. Posso arrivare al Delfino e al re e placare gli animi: non tenteranno atti ostili contro l'Inghilterra, questo ve lo posso garantire».

Ian poteva davvero fare una simile promessa, perché sapeva dalla Storia che la corte di Francia non avrebbe mai attaccato l'Inghilterra in modo da ostacolare la rivolta dei baroni, anzi, al contrario, avrebbe mandato truppe proprio per assecondarla.

Con quell'idea in testa, decise di tentare un affondo più deciso. «Potrei anche offrirvi di più, se lo desiderate» continuò. «Sono disposto a perorare la vostra causa a corte, se

voleste chiedere alla famiglia reale di Francia un appoggio diretto».Come si aspettava, Salisbury spalancò gli occhi, come se fosse stato colpito in un altro

punto segreto. «Come potete propormi una cosa simile?»Perché conosco già il futuro, pensò Ian, ma invece disse. «Se ve lo propongo è perché

immagino le vostre valutazioni della questione. Io posso parlare a vostro nome, se non al re almeno al Delfino. È un combattente energico e ardito: offritegli qualcosa per cui valga la pena combattere e lui accetterà di aiutarvi».

I Martewall, Hector e persino Daniel stavano passando di sbalordimento in sbalordimento. Daniel, in particolare, si sentiva completamente sulle spine mentre osservava l'amico condurre quell'incredibile gioco strategico con tanta apparente sicurezza.

«Come potete proporre..?! Voi parlate del principe Luigi di Francia!» esclamò sir Harald.

Geoffrey Martewall fissava Ian come se fosse impazzito. «Cosa stai farneticando?!»«Il Delfino potrebbe aspirare ad avere un ruolo di potere in Inghilterra, non è così? Le

due famiglie reali sono imparentate. La vostra regina Eleonora11 era francese e sua nipote12 ora è la moglie del nostro Delfino. I vostri re e i nostri hanno legami in comune e il principe Luigi non è un figlio bastardo, senza nessun appoggio militare alle spalle» continuò Ian, fissando però Salisbury mentre citava le sue parole di poco prima. «Posso immaginare che un politico esperto come voi abbia già pensato a tutto questo e abbia valutato attentamente le implicazioni del caso. D'altra parte, l'attuale casato reale inglese, la vostra famiglia, viene dal mare: è dal regno di Guglielmo il Conquistatore che i re d'Inghilterra hanno sangue francese nelle vene e i baroni sono in gran parte normanni: potrebbero seguire in battaglia un principe normanno quanto loro e forse persino preferirlo come guida al figlio bambino del tiranno attuale».

Salisbury era colpito, eppure mantenne una compostezza ammirevole. «La vostra proposta è quasi scandalosa».

«Ma è vantaggiosa per tutti, tranne che per Giovanni Senza Terra, e voi lo sapete bene».

Salisbury faceva sempre più fatica a nascondere il suo turbamento. Ora guardava Ian quasi con paura. «Pretendete di leggermi nel pensiero, monsieur?»

«Faccio solo le mie deduzioni logiche, come voi le vostre» replicò Ian, fingendo impassibilità assoluta. Le mie però sono suggerite dai testi frutto di ottocento anni di studi storici sull'argomento, aggiunse tra sé e sé.

William Lunga-Spada impiegò parecchio per riprendersi dalla sorpresa, ma poi si rilassò impercettibilmente. Era sconfitto e lo riconosceva. «Devo ammettere che le dicerie sulla scaltrezza dei Ponthieu non sono affatto esagerate. Voi siete una volpe pericolosa, Monsieur le Comte13» disse.

«Esattamente come voi, milord, anzi devo farvi i complimenti perché nessuno ha mai avuto sentore che anche voi foste concorde con i baroni di Bury St.Edmunds» replicò Ian.

E nessuno lo sospetterà mai nemmeno in futuro, concluse mentalmente e con ammirazione sincera. Se lui infatti aveva recitato un bluff, sfruttando scorrettamente le conoscenze del futuro per far credere di avere chissà quali talenti di osservatore e di 11 La regina Eleonora d'Aquitania.12 La principessa Bianca di Castiglia, poi regina di Francia.

13 Signor conte.

stratega politico, Salisbury invece stava giocando le sue mosse con il solo ausilio della sua astuzia, dell'esperienza politica e dei suoi informatori veri, che alla fine gli avrebbero permesso di uscire del tutto indenne da quel periodo travagliato.

William Lunga-Spada rimase in silenzio ancora a lungo, guardando Ian intensamente. «L'ipotesi che voi avete accennato è ardita e non si può sapere se diventerà mai realtà. Molti baroni potrebbero non essere convinti di avere un simile alleato» riprese, cupo, ma poi fece un gesto conciliante. «Tuttavia è un'ipotesi che vale la pena sondare. E va bene, monsieur de Ponthieu, accetterò la vostra offerta di mediazione. Vedremo cosa frutterà».

Ian esultò in silenzio, pur sforzandosi di mantenere un atteggiamento deciso. «Ne sono felice, lord Salisbury».

Daniel trattenne a stento un gesto di giubilo.«Ma è una follia!» esclamò invece Geoffrey Martewall.«No, non lo è» rispose Salisbury. «Le alleanze politiche cambiano a seconda della

direzione da cui soffia il vento: gli ultimi decenni ce l'hanno dimostrato più volte e i nostri re, da Enrico a Riccardo a Giovanni, hanno sempre avuto alleanze con i re di Francia, tramutate in discordie, poi tramutate in nuove alleanze. Forse è il momento di trasformare ancora l'inimicizia in accordo».

«Farò tutto ciò che posso perché ciò accada» disse Ian, ma si sentì un ipocrita nell'assumersi parte di un merito che non era affatto suo, ma della Storia. Davanti agli occhi sbalorditi dei Martewall, però, mantenne un contegno assolutamente sicuro di sé.

Salisbury lo fissava sempre, con quei suoi occhi indagatori, nei quali si agitavano domande senza risposta.

«Ditemi, monsieur» gli disse alla fine, «per voi sono davvero così trasparente da essere letto come un libro aperto? Io stento a credere che voi abbiate intuito tutto con il solo spirito d'osservazione».

«Non ho mai avuto certezze, solo sospetti» replicò Ian. «Ho giocato d'azzardo e ho rischiato molto. La posta era alta. Ne valeva la pena».

A fatica, Salisbury accettò la risposta. «Spero di non avervi mai più come avversario in un confronto strategico».

Nemmeno io, pensò Ian, dissimulando con tutte le proprie forze l'emozione profonda che quella partita mortale gli aveva lasciato dentro. «Io spero di avervi come alleato, da ora in poi» rispose.

«Così sembra» replicò Salisbury. «Voi capite però che la mia alleanza dovrà rimanere assolutamente segreta. Impedirò con ogni mezzo, anche estremo, che questa conversazione diventi di dominio pubblico».

«Lo capisco, signore».«Perciò comprendete anche che non posso lasciarvi andare così, alla luce del sole,

visto che in troppi sanno della vostra presenza a Dunchester. Non posso certo accompagnarvi alla prima nave in partenza per la Francia, perciò temo che dovrete organizzarvi da solo e senza coinvolgermi pubblicamente».

Ian se lo immaginava già. «Non sarà un problema, se i vostri uomini saranno compiacenti».

Salisbury fece un mezzo sorriso. «Se fosse solo per i miei uomini, non mi preoccuperei. Ma là fuori ci sono anche i mercenari di Giovanni e gli zelanti soldati di sir Murrow e a loro non posso certo dare l'ordine di abbassare un po' la guardia per consentirvi di fuggire indisturbato».

«Quindi ne deduco che sarà tutto più difficile».«Oh, niente che non sia all'altezza della vostra fama. So che siete bravo a tirarvi fuori

dalle situazioni peggiori. Conosco anch'io le leggende che vi circondano, riguardo le vostre rocambolesche avventure, e dopo avervi conosciuto di persona sono propenso a credere che non siano affatto esagerate».

Ian respirò per imporsi la calma. «Non intendo rischiare la mia vita e soprattutto quella del mio compagno d'armi per mantenere alta la mia fama».

Salisbury fece qualche passo, fino a fermarglisi di fronte. «Se è di questo che vi preoccupate, posso garantirvi che lui non rischierà alcunché durante la vostra fuga. Lo terrò qui sotto la mia custodia, finché voi non avrete fatto la vostra ambasciata e io avrò ricevuto notizie rassicuranti da oltremanica».

Daniel trasalì. «Dovrei restare qui!» esclamò, mentre il suo sollievo di poco prima spariva all'istante.

Questa volta anche Ian era stato preso in contropiede da una mossa che non si aspettava. «Questo è un ricatto! Non vi fidate forse della mia parola? Non potete tenere il mio compagno in ostaggio!» protestò, indignato.

«Monsieur, io non mi fido nemmeno dei miei stessi familiari e la posta in gioco è davvero troppo alta perché io possa commettere un errore d'ingenuità, specie con una volpe come un Ponthieu» replicò Salisbury con fermezza. «Se volete andarvene da qui, dovrete accettare le mie condizioni. Vi darò un ostaggio in cambio e così saremo tutelati entrambi. Sir Geoffrey vi accompagnerà nel viaggio e allo stesso tempo sarà il portavoce dei baroni in Francia».

«Cosa dite?!» esclamò Martewall.«Mio figlio, di nuovo nelle mani dei Francesi!» fece eco sir Harald. Leowynn si portò

la mano alla bocca. Hector s'irrigidì, teso.«Lo preferireste al patibolo per tradimento?» replicò Salisbury, secco. «Con lui non

potrei essere indulgente, mentre con voi posso sempre prendere a pretesto la vostra vecchiaia e la vostra malattia, per risparmiarvi la vita e condannarvi semplicemente alla reclusione, nonostante la legge imponga la pena capitale».

«Non accetterò mai uno scambio del genere» intervenne Ian, ora furioso. «Niente di ciò che potete propormi può valere la vita di Daniel. Non lo lascerò qui prigioniero, nemmeno se sarete voi in persona a tenere le chiavi della cella».

«Non resterà chiuso in una cella, questo posso garantirvelo, e non correrà alcun pericolo perché sarà sotto la mia protezione. Semplicemente non abbandonerà il maniero, ma resterà con i miei cavalieri. Lo farò passare per un mio ostaggio personale, nessuno avrà da ridire né oserà recargli offesa».

«E come giustificherete tanta clemenza verso un cavaliere francese?»«Quando ero prigioniero in Francia, sono stato trattato con altrettanto riguardo.

Credete che adesso io voglia essere peggiore dei miei carcerieri?» si risentì Salisbury. «Inoltre, se capisco bene dal nome e dall'aspetto, il vostro compagno d'armi non è francese di nascita, quindi questo metterà a tacere buona parte delle obiezioni nei suoi confronti».

Ian tacque, valutando con rabbia la proposta del conte. «No» disse alla fine. «Non posso comunque accettare una cosa del genere».

Allo stesso tempo però, Daniel riprese la parola. «Va bene» disse invece, rivolto a Salisbury.

«No!» protestò Ian, esterrefatto.Daniel gli si accostò senza indecisione. «Tu devi ritornare libero e raggiungere al più

presto il conte Guillaume. Questa faccenda non si risolverà senza il suo aiuto».Ian capì che l'amico lo faceva soprattutto per mettere in salvo almeno uno dei due.

«Allora invertiremo le parti» replicò e guardò di nuovo Salisbury. «Io resterò qui in ostaggio e il mio compagno porterà l'ambasciata al posto mio in Francia».

«No» si oppose Daniel.«No» disse Salisbury in contemporanea. «Capisco il vostro generoso intento,

monsieur de Ponthieu, ma la vostra presenza fisica a casa di vostro fratello varrà a placare la sua ira mille volte di più delle parole che potrebbe portare un messaggero, senza contare che vi siete impegnato personalmente a parlare con il Delfino per conto dei baroni. Io nel frattempo farò in modo che la vostra idea circoli tra i nostri feudatari per vedere le loro reazioni».

Daniel prese per il braccio Ian, che avrebbe voluto obiettare ancora. «Tu e io non abbiamo lo stesso peso politico, lo sai» gli disse a bassa voce. «E poi, se c'è qualcuno che può trattare con tuo fratello Guillaume quello sei tu, io non ne sarei capace. Non sono bravo quanto te a parlare e rischierei di compromettere ogni cosa con una frase avventata».

Quelle parole, "ogni cosa", così sottolineate nel discorso fecero capire a Ian che Daniel non voleva prendersi la responsabilità di dover spiegare tutta quell'intricata faccenda al conte di Ponthieu, a partire dalla menzogna raccontata all'abate di Saint Michel per giustificare i lunghi mesi di assenza. Una sola parola sbagliata poteva compromettere tutto. Ne andava del futuro di Ian in quel mondo medievale, dove tutta la sua vita si reggeva su un delicatissimo gioco di inganni.

Daniel aveva ragione: rischiava meno a rimanere al castello sotto la protezione di Salisbury che a tentare una fuga col pericolo di essere ucciso durante la strada da uno qualsiasi di coloro che inevitabilmente si sarebbero lanciati all'inseguimento. Inoltre, se per un qualsiasi miracolo del destino Hyperversum si fosse deciso a funzionare di nuovo, Daniel avrebbe potuto dileguarsi da Dunchester e lasciare tutti con un palmo di naso.

Con la morte nel cuore, Ian capì che non aveva altra scelta se non separarsi di nuovo dall'amico e assecondare il piano di Salisbury. «D'accordo» si arrese. «Ma ritornerò a prenderti».

«Io non abbandonerò Dunchester per scappare come un vigliacco» intervenne però Geoffrey Martewall a pugni serrati. «Non obbedirò al vostro progetto, lasciando la mia famiglia e la mia gente in prigionia senza condividerne il destino».

«Voi obbedirete perché ho io il controllo su Dunchester adesso e perché sarò io ad avere cura della vostra famiglia in vostra assenza» replicò Salisbury, aspro. «Ritenetevi fortunato che io sia diverso da Giovanni e non proceda alle esecuzioni sommarie dei traditori come lui aveva ordinato di fare ai mercenari che ha mandato qui. Dovrei sterminare i vostri cavalieri e i vostri ufficiali, ma io non farò una tale strage. Finché sarà sotto il mio governo, Dunchester non subirà simili atrocità e io vi prometto che la prigionia di vostro padre sarà adeguata alle sue condizioni di salute e che vostra sorella non dovrà patire umiliazioni. Voi, in cambio, farete ciò che io vi ordinerò e seguirete monsieur de Ponthieu come ambasciatore e ostaggio. Siete stato anche voi causa di questo disastro e contribuirete a rimediarvi, che vi piaccia o no. Porterete al Delfino la notizia che i baroni potrebbero anche essere disposti a trattare un premio molto alto in

cambio dell'aiuto militare contro Giovanni e gli direte che Dunchester potrà essere un punto d'incontro per parlamentare... o per organizzarci e agire. Se, quando sarete là, il conte di Ponthieu vorrà rivalersi su di voi per vendicare quanto sofferto da suo fratello minore a causa vostra e del vostro defunto amico Derangale, potrete solo accettare il vostro destino e sottomettervi, poiché raccoglierete quanto avete seminato».

Martewall strinse i pugni così forte da farsi sbiancare le nocche, ma sapeva di non avere alcuna possibilità di ribellarsi. Era legato mani e piedi da quell'intrigo progettato a suo discapito e non poteva venirne fuori senza rischiare gravi conseguenze per la sua famiglia e la sua gente.

Sei in mano mia adesso. Le parti si invertono, pensò Ian con un amaro senso di rivalsa, ma la cosa non gli diede alcuna soddisfazione, visto che a lui invece toccava lasciare Daniel in una posizione altrettanto precaria.

Martewall gli stava rivolgendo uno sguardo d'odio come se avesse voluto incenerirlo con gli occhi, ma poi dovette accettare gli ordini che gli erano stati impartiti. «Andrò in Francia» disse alla fine, sconfitto.

«No!» singhiozzò Leowynn e corse dal fratello per prendergli le mani e stringerle forte. «Non andare! I Francesi ti imprigioneranno di nuovo! Ti uccideranno per vendetta!»

«Morirei comunque anche restando qui, sul patibolo come traditore» le rispose Martewall, ricambiando la sua stretta. «Se con la mia morte potrò tenere al sicuro nostro padre e te, allora ne sarà valsa la pena».

Leowynn si accasciò in ginocchio ai suoi piedi, piangendo con il viso sulle sue mani.«Non fare così, ti prego» l'implorò Martewall, chinandosi su di lei per rialzarla.Anche Salisbury si era proteso in avanti per soccorrere la dama. «Non piangete,

madonna. Vostro fratello è un uomo di valore, saprà affrontare il suo destino come si conviene per il bene di tutti».

Leowynn si risollevò e si fece indietro, rifiutando l'aiuto del conte, come se non volesse farsi toccare da lui. Lo guardò invece con occhi furenti e inondati di lacrime e rivolse lo stesso sguardo d'accusa e d'odio anche a Ian, eppure non si lasciò sfuggire più nemmeno una parola. In silenzio tornò verso lo scranno di sir Harald e gli si fermò accanto. Il vecchio barone le prese la mano per confortarla.

Salisbury intanto aveva chiamato il più anziano dei suoi due cavalieri fidati, rimasti fino ad allora ad assistere in disparte. «Sir Gorvenal, organizzate la reclusione di sir Geoffrey e monsieur de Ponthieu in una qualsiasi parte del maniero che sia utile per i nostri scopi e trovate il modo di creare un provvidenziale diversivo per coprire la loro fuga durante il trasferimento».

«Sì, signore» replicò il cavaliere con un leggero inchino.«Andate alla torre nord» suggerì sir Harald e guardò suo figlio con dolore. «C'è il

vecchio passaggio che porta nella corte esterna. Da lì dovreste riuscire a raggiungere la postierla sul mare».

Martewall annuì cupamente. «Conosco la strada».«Spiegatela anche a me, ora» disse il cavaliere che Salisbury aveva chiamato col

nome di Gorvenal e si avvicinò per avere dal vecchio barone i dettagli e organizzare al meglio la finta evasione.

«Sir Hector de Wrist, voi siete disposto a coprire le spalle al vostro signore?» domandò invece Salisbury al luogotenente di Martewall.

«Anche a costo della vita» rispose Hector senza esitare. Geoffrey Martewall gli rivolse un'occhiata riconoscente. «Allora conteremo anche su di voi» decise Salisbury. «Adesso muoviamoci, prima che questa nostra piccola riunione privata insospettisca qualcuno. Monsieur de Ponthieu, mi aspetto notizie da voi al più presto».

«Le avrete, siatene certo» replicò Ian, cupo. «E io mi aspetto di ritrovare sir Daniel nelle stesse condizioni in cui lo lascio ora, sotto la vostra protezione».

«Non correrà pericoli» replicò Salisbury, secco.Speriamo, pensò Ian, per nulla quietato. Lo sguardo di Daniel tradì lo stesso pensiero,

ma il giovane coraggiosamente non aprì bocca.Il secondo cavaliere di Salisbury riaprì in quel momento le porte della sala per

chiamare i soldati.Martewall andò a prendere congedo dalla sua famiglia. «Padre, abbiate cura di

Leowynn» disse con emozione. «E tu abbi cura di lui» aggiunse rivolto alla sorella.Sir Harald si alzò a fatica dallo scranno per abbracciare suo figlio. «Sei un cavaliere e

un uomo d'onore, non metterlo mai più in dubbio» gli disse con voce spezzata. Leowynn abbracciò entrambi piangendo.

Ian guardò Daniel con enorme tensione, non sapendo che dire. «Tornerò presto» promise per rassicurare soprattutto se stesso.

L'altro giovane gli strinse forte la spalla. «Sii prudente». Ian ricambiò il gesto. «Anche tu».

Nella sala arrivarono i soldati per prendere in consegna i prigionieri.

Capitolo 24All'arrivo dei prigionieri nel cortile, in molti fecero silenzio, sgomenti. I civili erano

stati fatti sgomberare in fretta per ricondurli agli alloggi nella corte esterna, ma i servi del castello, i soldati, gli ufficiali e i funzionari di Dunchester erano stati trattenuti per ordine dei vincitori. I conquistatori volevano mostrare a tutti come i padroni del castello, ora sconfitti, venivano incarcerati per i loro crimini, in attesa di subire il giudizio del re.

Molti tra i mercenari guardavano in cagnesco i signori di Dunchester, tratti in prigionia e disarmati. In disparte da un lato, il giovanissimo Murrow osservava la scena con un'espressione a metà tra la soddisfazione e il disagio.

I prigionieri erano stati divisi in gruppi separati, per volere di William Lunga-Spada. Davanti a tutti camminava sir Harald Martewall, accompagnato e sorretto dalla figlia Leowynn. Daniel veniva dietro di loro, sorvegliato dalle stesse guardie e dal più giovane tra i due cavalieri fidati di Salisbury.

Il secondo gruppo di soldati, capitanato da sir Gorvenal, scortava strategicamente Geoffrey Martewall, Ian e Hector.

Gli altri cavalieri di Dunchester, presi in consegna poco prima, non erano più nel cortile, notò Ian. Probabilmente, Murrow non aveva perso tempo prima di farli rinchiudere nelle segrete.

Il barone adolescente infatti andò incontro anche ai due gruppi provenienti dal maniero e nel contempo fece un cenno ai soldati che sorvegliavano l'ingresso ai sotterranei, ma Gorvenal gelò subito il suo zelo. «Questi prigionieri non saranno rinchiusi insieme agli altri, è troppo rischioso» annunciò, fermandoglisi davanti. «Saranno tenuti in torri separate e non sarà permesso loro di comunicare con gli altri in alcun modo.

Io e i miei uomini li sorveglieremo personalmente e ci accerteremo che il volere del conte di Salisbury sia rispettato».

Il ragazzo rimase sorpreso da quella frase che, di fatto, l'esautorava da ogni autorità sui prigionieri principali del castello. «Ma...» tentò di obiettare.

«A sir Harald Martewall, vista la sua età e la sua malattia, sarà concesso di dimorare in una stanza accogliente, accudito dalla figlia, l'unica ad avere il permesso di entrare a visitarlo» continuò Gorvenal, senza dargli tempo di parlare, come se non avesse nemmeno preso in considerazione l'ipotesi che il ragazzo potesse avere qualcosa da dire. «A dama Leowynn non sarà recata offesa in alcun modo: è sotto la protezione del nostro signore e ogni insolenza ai suoi danni sarà giudicata e punita direttamente dalla Lunga-Spada».

L'uomo indicò Daniel a un paio di soldati con la divisa di Salisbury e questi separarono prontamente il giovane dagli altri, prendendolo in consegna.

Daniel non poté fare a meno di rivolgere un'occhiata ansiosa a Ian, ma non oppose la minima resistenza.

«Questo cavaliere» continuò Gorvenal «è un ostaggio importante del nostro signore, perciò resterà sotto la mia personale sorveglianza».

Con un ultimo gesto indicò Martewall, Ian e Hector. «I comandanti della difesa del castello saranno invece imprigionati nella torre a nord e isolati da qualsiasi contatto con il resto del castello. Attenderanno là il giudizio che li aspetta per aver osato sfidare il nostro re».

Il cavaliere guardò Murrow e i mercenari, quasi ad accertarsi con la sua posa autoritaria che nessuno mettesse in dubbio ciò che aveva appena annunciato. «Questo è il volere di William Lunga-Spada, conte di Salisbury, e non è oggetto di discussione» sottolineò.

Il giovanissimo barone sembrò diventare ancora più piccolo davanti al suo interlocutore. «Non avevo alcuna intenzione di discutere gli ordini di milord» si affrettò a puntualizzare, rinunciando a ogni obiezione.

I mercenari invece non sembravano altrettanto remissivi. «Questi uomini sono gli ostaggi più importanti del castello.

Il riscatto di almeno alcuni di loro ci spetta di diritto» obiettò il loro comandante, con malcelata ostilità.

«Discuterete di questo con lord Salisbury, non con me» lo liquidò Gorvenal. «I riscatti non sono affare mio, questi uomini invece sì e resteranno sotto il mio controllo e quello dei miei compagni fino a ordine contrario del nostro signore».

Di malavoglia, il comandante dovette accettare la risposta, ma esitò a farsi da parte.«Se temete che la nostra sorveglianza non sia sufficiente, vi concedo di mandare due

dei vostri uomini con noi a verificare i luoghi dove i prigionieri saranno rinchiusi. Così sarete sicuro che i vostri preziosi riscatti non andranno sprecati» aggiunse il cavaliere con un chiaro tono di disprezzo.

Ian e Daniel ne ammirarono la scaltra prontezza di spirito, intuendone il piano. Un'evasione e una fuga non sarebbero state credibili senza un tafferuglio armato e Gorvenal non aveva alcuna intenzione di sacrificare gli uomini del suo signore per rendere più veritiera la messinscena che doveva consentire a Geoffrey Martewall e a Ian di abbandonare il castello. Qualche vittima tra i mercenari, invece, era un prezzo trascurabile da pagare.

«Sta bene». Ignaro di quanto si tramava alle 'sue spalle, il capo mercenario accettò l'offerta e mandò due uomini con ciascun gruppo.

«Adesso conducete via i prigionieri» concluse Gorvenal e fece un cenno d'intesa al suo compagno che scortava sir Harald e Leowynn.

Ian sentì una stretta al cuore, vedendosi separare definitivamente da Daniel, che rimaneva nel cortile sorvegliato dai soldati di Salisbury.

Buona fortuna, si augurarono vicendevolmente i due amici con lo sguardo, provando la stessa ansia.

Ian, Martewall e Hector vennero condotti verso la torre nord, senza che fosse consentito loro di dire una sola parola. Sir Gorvenal li seguì.

Daniel rimase a guardare Ian finché non scomparve nell'edificio, con la paura tremenda di non rivederlo più, poi dovette girarsi verso i soldati in divisa blu e oro, che gli ordinarono di sedersi senza protestare in attesa del ritorno di sir Gorvenal.

***

La torre nord era stretta e dava verso il mare. Come tutte le altre torri del maniero era affiancata da una seconda struttura circolare più piccola ma più alta, contenente la scala a chiocciola che metteva in comunicazione i vari piani tra loro e questi ultimi con i camminamenti di ronda.

Era una torre fredda, perché le sue finestre non godevano mai della luce diretta del

sole, e per questo era semivuota, sfruttata pressoché solo come magazzino, oltre che per la difesa.

Alla sua base, infatti, era stato aggiunto un edificio recente, basso e rettangolare, occupato da sacchi di granaglie che prima dell'assedio dovevano essere molto più numerosi. La fitta penombra del tardo pomeriggio era tagliata solo dalla luce che entrava da feritoie nei muri ad illuminare il pavimento polveroso e da una porta rialzata e aperta sui primi gradini della scala a chiocciola, in fondo al vano.

Entrando, Ian provò un senso d'ansia e di oppressione. Quel luogo non gli sembrava offrire molte uscite e il giovane si trovò a pregare che Gorvenal e Martewall avessero davvero pensato bene a ciò che facevano quando avevano scelto la via di fuga. Cercò con gli occhi il vecchio passaggio nominato da sir Harald, quello che doveva condurre verso una postierla nella corte esterna, ma non lo vide da nessuna parte.

Mentalmente ripassò la conformazione del castello, divenuta abbastanza nota in quei giorni di battaglia: la torre nord era nel lato posteriore del castello, quello che si affacciava sul mare, ma non sorgeva esattamente sopra lo strapiombo che nel suo punto massimo raggiungeva un'altezza di una decina di metri. Era piuttosto spostata verso il lato digradante della costa, là dove questa diminuiva in altezza rapidamente per ricongiungersi con i prati. Da quel lato la pianta a diamante del castello presentava solo due cinte murarie, poiché le mura più esterne formavano solo un semicerchio che tagliava il promontorio. Perciò una postierla nella cinta intermedia avrebbe consentito un'uscita diretta sul mare.

Il problema però era arrivarci. Ian continuava a non capire come l'entrare in un magazzino senza finestre potesse avere a che fare con una fuga in mezzo ai boschi.

La sensazione spiacevole aumentò ancora quando il gruppo proseguì il cammino, salì i gradini fino alla porta rialzata ed entrò nel piano terra della torre.

Lì Ian trovò un vano vuoto e semicircolare con mura più solide e feritoie ancora più strette. Nemmeno in quel luogo si vedeva un passaggio che potesse portare fuori, ma una botola era invece aperta nel pavimento di legno. Come molte torri medievali, anche la torre nord di Dunchester aveva una segreta costruita nel piano interrato.

Un muro e un'altra porta aperta dividevano invece quel vano da uno spazio identico, occupante l'altra metà del piano.

Il gruppo armato si fermò proprio in prossimità della botola.Ian deglutì, guardando il rettangolo buio che si apriva quasi davanti ai suoi piedi.

Come si esce da lì? pensò con ansia crescente.Sbirciò Martewall e vide che era cupo ma controllato. Decise di interpretare

quell'espressione come un segno incoraggiante e cercò di imporsi la calma. Lo teneva sulle spine però il fatto di non sapere cosa ci si aspettasse da lui nel prossimo futuro.

Ci sarebbe stato da combattere, probabilmente, ma con quali strumenti, visto che i prigionieri erano stati disarmati prima di arrivare nel cortile per fare in modo che la messinscena fosse credibile a tutti?

«Procuratemi una torcia e una scala» ordinò sir Gorvenal a due dei suoi soldati. «E voi andate ad accertarvi che nel resto della torre non ci siano sorprese di qualche genere» aggiunse rivolto agli altri.

I soldati si divisero: due andarono nel magazzino accanto a procurare ciò che il loro comandante aveva chiesto, il terzo salì a controllare il piano superiore e il quarto perlustrò la stanza adiacente.

Quest'ultimo soldato ritornò quasi subito. «Di là non c'è nulla, signore» annunciò. «Solo un vecchio pozzo chiuso». Ian vide che Martewall e Hector si scambiavano uno

sguardo d'intesa. Si fece più teso, perché capì che il momento di agire era prossimo.«Bene» rispose Gorvenal al soldato. «Adesso va' anche tu al piano di sopra. Esplorate

la torre anche da fuori, dal cammino di ronda qui intorno».«Sì, signore». L'uomo scomparve in fretta su per le scale.La tensione di Ian aumentò. Gorvenal si stava sbarazzando dei suoi uomini uno a uno,

allontanandoli con le scuse più plausibili, e il giovane americano non fece fatica a capirne il motivo. Il momento di agire sarebbe arrivato quando intorno ai prigionieri sarebbero rimasti solo i mercenari sacrificabili per la messinscena della fuga.

Ian cercò di prepararsi a intervenire, ma senza sapere come.Gli altri due soldati tornarono con una scala a pioli di legno e una torcia accesa.

Gorvenal indicò loro la botola. «Assicuratevi che anche là dentro non ci sia nulla, poi vi rinchiuderemo i prigionieri».

I soldati obbedirono coscienziosamente. Infilarono la scala nella botola e scesero per perlustrare il luogo. Il primo dei due portava la torcia accesa per fare luce.

Sir Gorvenal attese appena per un minuto che i soldati fossero spariti dalla vista, poi estrasse un pugnale dalla cintura. Non parlò, non tradì la minima emozione: con una mossa fulminea pugnalò il primo mercenario a portata di braccio.

Il secondo mercenario ebbe un'esclamazione di sorpresa, ma fu agguantato al collo da Hector. Il rumore secco di un osso che si spezzava fece rabbrividire Ian, un attimo prima che anche il secondo mercenario si afflosciasse al suolo senza vita.

Martewall attirò l'attenzione dell'americano allungandogli un colpo sul braccio. «La scala!» gli ordinò. Ian corse con lui alla botola aperta e afferrò la scala di legno.

La tirarono fuori in tempo, prima che i soldati da sotto potessero raggiungerla, e la gettarono sul pavimento. Dalla segreta gli uomini gridarono invano con rabbia, impossibilitati a salire. Per maggior precauzione, comunque, Martewall chiuse la botola sopra di loro e la sprangò con l'apposito chiavistello.

Hector intanto stava recuperando le armi dai due mercenari uccisi. Prese una spada e lanciò la seconda a Martewall.

«Buona fortuna, signore» augurò, scambiando col giovane barone un'occhiata preoccupata. Poi corse su per la scala per intercettare gli ultimi due soldati rimasti nei paraggi e impedire loro di scendere al piano terra a vedere cosa stesse succedendo.

«Buona fortuna anche a te» mormorò Martewall in risposta, ma il suo luogotenente era già troppo lontano per udirlo.

«Da qui in poi è lavoro vostro» disse sir Gorvenal a Ian, a bassa voce, e gli diede la sua spada. «Io fingerò di essere stato preso a tradimento e di non essere riuscito a fermarvi. Nessun testimone può smentirmi».

«Grazie di tutto» replicò l'americano.«Di qua. Non c'è tempo da perdere» disse Martewall sbrigativo, passandogli accanto

per andare nella stanza adiacente. Nel farlo consegnò a Ian un pugnale sottratto a uno dei mercenari morti, il secondo, invece, se l'era infilato nella cintura.

Lasciarono il cavaliere di Salisbury a fare ciò che doveva per confondere le acque il più possibile e si chiusero alle spalle la porta che separava i due vani della torre. Ian si guardò intorno, in quella che sembrava solo una stanza vuota e senza uscite.

Martewall corse al pozzo.

Era formato da una struttura quadrata in pietra, alta poco più del ginocchio di un uomo. L'apertura era sprangata da una solida grata di ferro, fissata con lucchetti altrettanto pesanti.

Martewall appoggiò la spada al muretto di pietra. «Adesso si scende» annunciò, afferrando la grata con entrambe le mani.

Ian spalancò gli occhi quando vide la griglia di ferro sollevarsi senza alcuna difficoltà. I lucchetti erano sempre saldamente serrati nelle loro sedi, ma le cerniere dall'altro lato della grata, invece, erano solo in apparenza fissate alla pietra e si staccarono senza nemmeno un rumore.

Martewall fece ruotare la grata intorno ai lucchetti chiusi, fino ad appoggiarne l'estremità al suolo. «Dentro» ordinò, indicando il pozzo mentre iniziava a slacciarsi l'usbergo, a partire dal camaglio.

Ian esitò, con un tuffo al cuore. «Stai scherzando, spero». Non aveva la minima idea di come fare a scendere attraverso un pozzo, senza una corda, senza rompersi l'osso del collo o, peggio, precipitare di sotto e annegare.

E poi, anche se fosse riuscito a scendere senza ammazzarsi nel tentativo, che cosa avrebbe dovuto fare una volta giù? Proseguire a nuoto forse? C'era un passaggio nell'acqua? E come avrebbe fatto a nuotare con la temperatura bassissima e il peso della cotta di maglia?

«C'è una scala nascosta e poi una galleria da percorrere a piedi» spiegò Martewall, intuendo i suoi pensieri. «In poco tempo saremo nella corte esterna. Adesso muoviti».

Ian non era affatto convinto. Per quanto ne sapeva, Martewall poteva anche tentare di buttarlo disotto con un tranello. «Precedimi» rispose alla fine. «Fammi vedere come si scende e io ti seguirò».

«Non è il momento di farsi prendere dalla paura del buio» replicò Martewall con impazienza. «O invece temi il puzzo di muffa? Eppure voi Francesi non sembravate tanto sensibili agli odori quando ci avete rubato Chàteau-Gaillard14»>

«Non faresti meglio a risparmiare il fiato per la discesa?» lo rimbeccò Ian con una smorfia. «Se cadi in acqua con tutto l'usbergo, io non vengo a ripescarti».

«Questo lo immaginavo già». Martewall gettò il camaglio nel pozzo, poi fece altrettanto con i gambali e le maniche di maglia di ferro, slacciandoli dall'usbergo per rimanere con la tunica, le brache di panno pesante e gli stivali.

In fondo al pozzo si udì il tonfo che i pezzi di maglia metallica provocarono quando caddero in acqua.

«Peccato, era un usbergo ben fatto» commentò Martewall, amaro, guardando giù. «Ma è molto meglio non lasciare tracce che svelino da dove siamo passati».

Si tolse anche la livrea nera con il leone d'oro, ma non la gettò. La rovesciò in modo da nascondere lo stemma e la indossò di nuovo piegando i lembi più lunghi per stringerli nella cintura in cui infilò anche la spada. Adesso sembrava vestito di anonimi panni scuri sopra la cotta di maglia che proteggeva il torace, esattamente come Ian.

«Forse dovremmo toglierci anche tutto il resto del ferro che abbiamo addosso» considerò quest'ultimo.

Il rischio di precipitare in acqua con alcuni chili di maglia di ferro sulle spalle lo spaventava quasi altrettanto del pozzo buio, spalancato come una bocca nel pavimento.14 Le cronache medievali riportano che nel 1204, durante la guerra tra Giovanni Senza Terra e Filippo Augusto, i Francesi conquistarono a sorpresa il castello di Château-Gaillard grazie a un soldato che s'inerpicò per il condotto di una latrina, imo al cuore del maniero.

«Fa' come vuoi, ma quando là fuori cominceranno a bersagliarti con le balestre, rimpiangerai di non avere del ferro addosso» replicò Martewall, poi guardò il suo sgradito compagno di fuga e gli indicò il pozzo aperto. «Se però pensi di non farcela a scendere senza cadere, meglio che tu vada per primo».

Ian non accennò a muoversi. «Sei tu il padrone di casa, fai pure strada».«E tu non perderti mentre mi segui» replicò Martewall.Il pozzo era stretto, buio e scivoloso. Martewall scavalcò il bordo con una gamba e

cercò qualcosa con il piede. Lo trovò e doveva essere un appiglio costruito apposta, perché grazie ad esso il cavaliere riuscì a girarsi, scavalcando il parapetto anche con l'altra gamba, e a tenersi contemporaneamente aggrappato al bordo con le mani, poi scese cauto e scomparve dalla vista.

«Sbrigati. E ricordati almeno di chiudere la grata quando scendi» ordinò la sua voce smorzata dal buio, poi non si udì più nulla.

Ian esitò prima di imitare l'altro cavaliere.Nel fondo invisibile del pozzo si udiva sempre il mormorio dell'acqua e la cosa non

gli piaceva per niente. Il giovane si figurò tunnel bui e canali viscidi scavati nelle viscere del maniero e immaginò se stesso in balia della sua sgradita guida, costretto a fidarsi delle sue indicazioni per non perdersi e ritornare alla luce del sole.

Si protese a guardare nel pozzo. Subito sotto il bordo iniziava una sorta di scala ben mimetizzata, composta da appigli di ferro scuro, piantati nella roccia e impossibili da vedere finché la grata del pozzo rimaneva chiusa. A Ian quella scala ricordò quelle che nei tempi moderni si vedevano nei silos delle fabbriche. Questa però sembrava mille volte più precaria e il ferro arrugginito degli appigli aveva l'aria di voler cedere da un istante all'altro.

Chissà se reggerà il mio peso? si domandò Ian. Ma perché Hyperversum rende sempre le cose così difficili? Protestò mentalmente in aggiunta, ma poi, nonostante il senso di disagio e le incognite di quella via di fuga, dovette decidersi. I rumori provenienti da fuori gli dicevano che la situazione stava degenerando in fretta. Presto tutta la torre nord sarebbe stata setacciata palmo a palmo dagli inseguitori.

Reprimendo a forza l'ansia, il giovane infilò la spada nella cintura. Scavalcò il bordo del pozzo e allungò una gamba per cercare l'appiglio su cui appoggiarsi.

Lo trovò dopo qualche istante, vi posò il piede e cautamente vi spostò sopra tutto il suo peso. Reggeva e Ian si accorse di aver trattenuto il fiato fino a quel momento. Scavalcò del tutto il parapetto di pietra e vi si tenne aggrappato, così come aveva fatto Martewall.

Guardò giù, ma non vide altro che un buio fondo, freddo e assoluto, dal quale proveniva solo l'eco dell'acqua.

Martewall non si vedeva e non si udiva più, nonostante Ian rimanesse in ascolto attentamente per qualche istante.

Per un attimo l'americano fu sfiorato dall'idea che l'altro cavaliere potesse essere caduto di sotto. Cercò di rassicurarsi ricordando di non aver udito né un grido né il rumore di un corpo che cadeva, ma non servì granché. Quello sarebbe capace anche di cadere e morire in silenzio pur di mettermi in difficoltà, pensò con rabbia.

Restava comunque il fatto che lui non poteva evitare di scendere attraverso quel pozzo, se voleva fuggire da Dunchester.

Temendo di scivolare, Ian si decise a scendere un piede alla volta, fino a rimanere con

il bordo del pozzo all'altezza del petto. Allora si protese e riuscì ad afferrare la grata con una mano. Era pesante, ma non al punto da essere inamovibile con la forza di una mano sola. Facendo leva col braccio, Ian la sollevò per richiuderla sopra di sé nello scendere.

Con un gemito la grata ritornò al suo posto docilmente, come se non fosse mai stata aperta.

Ian ebbe l'impressione spiacevole di essersi appena chiuso in una gabbia con le sue stesse mani, ma in quello stesso istante udì voci rabbiose provenire da fuori. Sobbalzò e si ritirò nell'ombra il più velocemente possibile.

Nel rettangolo di luce della bocca del pozzo comparve il mezzobusto di un soldato con la divisa rossa dei mercenari. Ian s'immobilizzò.

«Qui non ci sono!» esclamò una voce fuori campo, appartenente senza dubbio a un altro armato presente nella sala.

«Non ci sono uscite da questa stanza, non possono essere passati da qui» aggiunse una terza voce rabbiosa.

Il mercenario guardò nel pozzo e Ian si sentì perduto. Non mosse un solo muscolo, col fiato sospeso, ma l'uomo scrutò verso il basso e poi si rivolse di nuovo ai compagni con un'espressione di rabbia. Con il cuore che martellava nelle orecchie, Ian si rese conto di non essere stato visto. Il buio nel pozzo era troppo fitto e l'aveva protetto dagli sguardi.

«Il pozzo è sigillato, non possono essersi nascosti nemmeno qui dentro» disse il soldato e Ian sentì dal rumore che l'uomo stava strattonando i lucchetti chiusi della grata senza accorgersi che le cerniere dall'altro lato non erano fissate alla pietra perché i chiodi erano finti.

Il soldato si ritrasse dal pozzo.Ian udì più lontana la voce furiosa di sir Gorvenal che richiamava gli uomini.

«Smettetela di perdere tempo da quella parte, è un vicolo cieco! Cercate fuori o li perderemo del tutto!»

I passi frettolosi dei soldati uscirono dalla stanza, poi rimase solo il silenzio.Senza perdere altro tempo, Ian riprese a scendere verso il fondo del pozzo.

Capitolo 25La discesa non fu lunga ma fece comunque impressione. A Ian parve di infilarsi in

una catacomba. L'aria era più umida, fredda e salmastra, l'eco dell'acqua molto più vicina. Eppure la bocca del pozzo era ancora un quadrato pallido ben visibile sopra la testa, anche se la luce si abbassava in fretta con il procedere del tramonto fuori dal castello.

La scala finì relativamente presto e Ian trovò con lo stivale un pavimento di pietra. Sotto il pozzo si apriva un ambiente non misurabile con gli occhi al buio, ma abbastanza ampio da ospitare un uomo in piedi e all'asciutto.

Ian sospirò di sollievo, perché non aveva alcuna voglia di immergersi nell'acqua gelata. Rimase fermo per abituare gli occhi all'oscurità e anche per calmare il cuore.

La discesa era stata comunque difficile su quegli appigli precari, specie con il peso della cotta di maglia sulle spalle e il corpo dolorante per le ferite e i lividi dei giorni di battaglia. Ian riconobbe che Martewall aveva fatto bene a sbarazzarsi del- l'usbergo prima di scendere, tanto più che l'inglese aveva un braccio ferito da alcuni giorni.

Pensando a Martewall, l'americano si guardò intorno, tenendosi sempre aggrappato alla scala. Dove sarà finito? si chiese, ma non osò chiamarlo in quel silenzio pesante.

Saggiò col piede il pavimento e si rese conto che era un gradino strettissimo, che consentiva di camminare solo restando rasenti al muro. Subito dopo iniziava il vuoto. Il pozzo proseguiva verso il basso. L'eco dell'acqua invisibile proveniva da ancora più giù, a chissà quale profondità.

Ian rabbrividì e cercò di non pensare a cosa sarebbe accaduto se fosse precipitato di sotto.

Il gradino continuava in un'unica direzione ed entrava in un arco di pietra scavato nella roccia. Ian lasciò la scala e percorse con la faccia incollata alla parete umida la breve distanza che lo separava da quell'apertura, poi proseguì in una sorta di tunnel angusto, trovato subito dopo l'arco. Camminò un passo alla volta, nel buio più totale, aiutandosi con le mani per evitare eventuali ostacoli o percepire un improvviso vuoto intorno a sé, e contemporaneamente desiderò di avere almeno una torcia. Non aveva mai avuto paura del buio, ma in quel momento gli sembrava di essere una talpa sotto terra e la sensazione era orrenda.

Per fortuna il cammino non durò molto e Ian trovò un'improvvisa fonte di chiarore davanti a sé: il tunnel sboccava sotto una specie di ampia volta di pietra e Ian vide una porta socchiusa in modo da lasciar filtrare una striscia di luce fioca. Ferma proprio lì accanto c'era una sagoma umana.

«Ce ne hai messo di tempo per arrivare» disse Martewall, quando sentì Ian fermarglisi accanto.

«Ci hanno mancati per un soffio» disse Ian. «I soldati sono arrivati al pozzo, ma per fortuna non si sono accorti del passaggio».

«Per fortuna non ti hanno trovato ancora lì a guardare giù mentre decidevi se scendere oppure no» replicò Martewall, secco. «Ti avevo detto di sbrigarti e avevo buoni motivi per farlo».

«Che posto è questo?» domandò l'americano, per cambiare argomento. Non aveva affatto voglia di sentirsi rimproverare dal suo nemico, specie sapendo che aveva ragione.

Esplorò il luogo con gli occhi. Al chiarore della porta socchiusa poteva intravedere

una discesa di pietra, abbastanza ampia, che dal piano compiva un angolo e proseguiva ulteriormente verso il basso, scomparendo nel buio. Là in fondo, il rumore dell'acqua era ancora più forte.

«Prima che io nascessi il castello aveva anche un accesso diretto dal mare» spiegò Martewall. «C'era una grotta sulla scogliera collegata a questa galleria. Le barche piccole potevano arrivare fino alla base della rampa e attraccare. Poi da li a piedi si saliva fino alla corte esterna, attraverso questa porta».

«E il pozzo?»«E stato costruito per due motivi: da un lato consente di attingere l'acqua del mare,

non è buona da bere ma in casi di incendio fa sempre comodo. Dall'altro lato è un passaggio segreto, adatto per evenienze come questa. Inizialmente conduceva qui e poi al molo sul mare, poi però la parte di galleria che perfora la scogliera è crollata e non è più stato possibile ripristinarla. La via dal mare è ostruita e adesso vi filtra solo l'acqua. Il passaggio del pozzo ora conduce solo fino alla corte esterna».

«Peccato, ci avrebbe fatto comodo fuggire dal mare» commentò Ian.«Dovremo arrangiarci. Sei tu quello delle fughe avventurose, no? Fatti venire un'idea

quando saremo fuori da qui».Ian sospirò seccato. «Tu portami fuori dalla postierla di cui parlava tuo padre e poi

capirò il da farsi».«Ho i miei dubbi» disse Martewall, lapidario, ma poi socchiuse la porta e uscì alla

luce.Li accolse una costruzione in legno, nella quale regnava un odore penetrante e

inusuale. La luce filtrava da piccole finestre con grate fittissime e dalle fessure tra le assi del tetto. Ian vide i trespoli e le alcove imbottite di paglia e capì di essere nella falconaia del castello. Fu sorpreso di trovarsi in un ambiente chiuso e non direttamente nella corte esterna dei maniero, ma poi comprese che, una volta venuta meno la funzione ufficiale del tunnel che portava al mare, i padroni del castello si erano premurati di nascondere a occhi estranei l'ingresso di quello che ora era unicamente un passaggio segreto.

L'americano notò anche che non c'erano falchi sui trespoli né uova o femmine nelle alcove. Sulle prime pensò che i vincitori fossero già passati da lì a fare razzia senza accorgersi della porta segreta, ma poi, valutando meglio le condizioni dell'ambiente, si accorse che la falconaia doveva essere vuota da tempo, forse da anni.

«Mio fratello Peter non amava la caccia, come tutte le altre attività da cavaliere» disse Martewall all'improvviso e aveva il tono di chi si abbandona per un istante ai ricordi. «Mio padre invece è malato da troppo tempo per andare a caccia col falcone. Desideravo riempire di nuovo questa falconaia, ma non avrei mai immaginato che saresti stato tu il primo falco a entrare qui dentro».

C'era una nota molto amara nella sua voce, per questo Ian non replicò. Cercò di immaginarsi invece cosa dovesse provare il suo accompagnatore, costretto a fuggire e abbandonare la sua casa in mani nemiche, senza sapere quando vi avrebbe fatto ritorno.

Ian conosceva bene la sensazione di vuoto che si provava al pensiero di aver perso tutto ciò che è caro e la riconobbe nel tono di Martewall.

Assurdamente, provò un sentimento di compassione istintiva per il suo nemico. Poi lo cacciò, scuotendo la testa: l'ultima persona al mondo per cui voleva provare compassione era proprio Geoffrey Martewall. Non dopo tutto quello che aveva fatto a lui e a Daniel.

«Se hai finito con la nostalgia e i ricordi, possiamo anche uscire da qui. Ci stanno

sempre dando la caccia» esortò, brusco.Martewall gli rivolse un'occhiata furente, ma non replicò.La falconaia dava sulla corte esterna attraverso un semplice portone di legno. Dal

momento che non c'erano animali all'interno, la porta non era sprangata e perciò cedette a una lieve pressione della mano.

Martewall sbirciò fuori per primo.Oltre il portone si estendeva la corte esterna del maniero, striata da ombre lunghe. Il

tramonto era ormai avanzato e la luce si affievoliva in fretta. Presto sarebbe stato buio completo.

In condizioni normali, il castello sarebbe andato via via quietandosi con il calare del sole, per rimanere nel silenzio totale durante la notte, in quel momento invece si udivano in lontananza richiami agitati, insieme al rumore di uomini armati in movimento.

La notizia della nostra fuga si è diffusa, osservò Ian e nel contempo si chiese se Hector fosse sopravvissuto o si fosse sacrificato per coprire le spalle a Martewall. Di certo aveva dato prova di grande fedeltà al suo signore.

Il pensiero gli corse d'istinto a Daniel, anche lui rimasto al castello, in ostaggio, per consentire al suo compagno d'armi di fuggire.

Per il momento, l'allarme sembrava ancora lontano da quella zona del castello. I vincitori non avevano scoperto l'esistenza del passaggio segreto e perciò stavano sicuramente cercando i fuggitivi nel cortile interno e nella torre nord, chiedendosi come avessero fatto a scomparire.

Da dove si trovava, fermo dietro le spalle di Martewall, Ian scorgeva un ampio tratto della cinta muraria intermedia e vide che sugli spalti, almeno in quel punto, non c'erano ancora sentinelle. Cinque soldati, però, sostavano nella corte, armati di tutto punto. Sembravano aver terminato una perlustrazione, perché erano riuniti a scambiarsi informazioni e di tanto in tanto alzavano gli occhi a controllare le mura e le torri. Tutti indossavano le divise rosse dei mercenari del re.

Per qualche attimo Ian sperò che i soldati si convincessero che in quella zona della corte non c'era nulla di sospetto e se ne andassero, ma rimase deluso. Da dov'era poteva vedere chiaramente una postierla nelle mura e quindi i soldati erano lì di guardia. Non avrebbero lasciato incustodita quell'uscita, specie ora che si sentivano suoni allarmanti provenire dal resto del castello.

«Presto qualcuno verrà a informarli della nostra fuga» disse Martewall sottovoce. «Dobbiamo muoverci adesso, prima che ne arrivino altri».

Ian annuì, rassegnato all'inevitabile. Meglio due contro cinque che due contro venti, si disse come magra consolazione.

Martewall si armò con la spada nella mano destra e il pugnale nella sinistra.Ian fece altrettanto.I soldati erano ancora fermi in gruppo, a parlare tra loro indicandosi a vicenda punti

diversi del maniero. Ascoltavano con preoccupazione i suoni che sentivano provenire da lontano, ma non tenevano d'occhio la falconaia. In quella zona della corte erano presenti altri edifici di servizio, tutti costruiti in legno, per lo più magazzini di fieno e altre risorse, e la falconaia era soltanto una porta in più tra le altre.

Approfittando delle ombre fitte gettate dal sole ormai bassissimo, Martewall uscì dall'edificio, corse per un breve tratto tenendosi basso e rasente alle costruzioni, poi scattò veloce.

I soldati lo videro arrivare in quell'istante: alcuni ebbero esclamazioni di sorpresa, quelli di spalle si girarono. Martewall piombò addosso al primo e gli sferrò un colpo violento al braccio destro che stava per impugnare la spada. L'uomo gridò e barcollò all'indietro, tenendosi con l'altra mano il braccio sanguinante, ormai inservibile.

I rimanenti quattro soldati avevano potuto alzare le loro armi, spade e asce, ma nel frattempo era arrivato anche Ian.

L'americano si lanciò sui nemici con il coraggio della disperazione. Tenne a bada le loro armi con la spada e il pugnale e per qualche istante riuscì ad affrontare due avversari contemporaneamente.

Martewall non fu da meno e impegnò altri due avversari.I soldati però non avevano intenzione di rischiare contro due cavalieri. Quello col

braccio ferito abbandonò presto la mischia per correre verso la parte centrale della corte, oltre l'angolo del maniero, là dove sicuramente erano riuniti i compagni e i soldati di Murrow.

«Allarme! I prigionieri stanno fuggendo!» gridò, poi la sua voce si spense in un rantolo, quando il pugnale di Martewall lo raggiunse alla schiena con un lancio impeccabile, piantandosi nella carne fino all'impugnatura.

Il soldato cadde bocconi e non si rialzò più. Il cavaliere inglese si girò per affrontare gli altri due soldati, dai quali era riuscito a disimpegnarsi per un istante.

Ian tenne a bada a stento i due che lo incalzavano, la sua spada stridette sotto i colpi dei nemici. Tentò di fermare un fendente che gli arrivò di lato, ma la spada si spezzò a metà, troncata di netto da un colpo brutale d'ascia.

Il giovane riuscì a fare un balzo per evitare di essere colpito al fianco, nel contempo dovette difendersi dal secondo soldato che tentò di assalirlo dall'altro lato. Lo tenne indietro con un colpo di pugnale vibrato alla cieca, poi schivò un ennesimo affondo dell'altro avversario, che mirava alla testa. Si chinò, lasciando che l'ascia gli sfrecciasse sopra, poi si rialzò di scatto e sferrò un violento sinistro sul volto dell'uomo, con la mano che ancora stringeva l'impugnatura della spada spezzata.

Il soldato vacillò e perse la sua arma, mentre Ian lanciava un grido strozzato per il dolore lancinante che gli attraversava mano e polso. Lasciò cadere il moncherino della spada, ma ebbe comunque la prontezza di riflessi di affondare il pugnale. Il nemico crollò al suolo con una ferita mortale in pieno petto.

L'altro soldato però aveva potuto farsi sotto, approfittando del fatto che Ian era impegnato a tenere a bada il compagno. L'americano se lo trovò davanti all'improvviso e non poté evitare la sua lama. Fortunatamente la cotta di maglia resistette e gli riparò il fianco, eppure il colpo respinse comunque indietro il giovane, impedendogli di usare il pugnale per difendersi. Ian strinse i denti e sferrò dal basso un calcio al braccio dell'uomo, che tentava un nuovo affondo. Con un'esclamazione di sorpresa, il soldato si vide strappare di mano la spada, che volò in aria tracciando un arco.

Una figura nera l'afferrò al volo, comparendo all'improvviso nel campo visivo, poi compì un guizzo con la spada del soldato incrociata a lama di forbice insieme a quella che teneva già nell'altra mano.

Uno stridio rapido, metallo su metallo.La testa del soldato cadde rotolando fino ai piedi di Ian.Il giovane tentò invano di deglutire, mentre la gola gli si strozzava a quel macabro

spettacolo. Alzò gli occhi e vide Martewall con una spada in ogni mano, fermo a fissare

il corpo del soldato senza testa.Come Ian, anche l'inglese ansava pesantemente e aveva il volto sudato per lo sforzo,

ma alle sue spalle c'erano solo cadaveri.Tutti i soldati erano morti.I due cavalieri si scambiarono un'occhiata, in silenzio, e Ian si rese conto

all'improvviso che Martewall era armato più di lui ed aveva dato prova di un'abilità eccezionale con quell'ultimo colpo. Se avesse deciso in quell'istante di regolare i conti con il suo sgradito compagno di viaggio, Ian avrebbe avuto la peggio.

L'americano vide lo stesso pensiero passare negli occhi grigi del suo nemico, che però abbassò le spade.

Ian nascose un sospiro di sollievo e mantenne un'ostentata sicurezza. «Complimenti» disse, accennando con un certo ribrezzo al soldato senza testa e alla pozza di sangue che si stava allargando al suolo.

«Andiamo via» replicò Martewall per tutta risposta e lanciò a Ian una delle due spade, prima di recuperare un pugnale e un fodero per la spada dai soldati uccisi e girarsi verso la postierla. Ian notò che l'inglese si stringeva con la mano il braccio dolorante da giorni.

Anche lui però fece una smorfia di dolore quando si chinò per procurarsi a sua volta un fodero per la spada. Il fianco colpito faceva male, ma ancor più doleva la mano sinistra. Il dito medio e l'anulare formicolavano, quasi intorpiditi, e Ian si rese conto di muoverli con difficoltà. Spero che non ci sia niente di rotto, si augurò, ma con poca fiducia, considerato il dolore che gli pulsava anche nel polso.

Si allacciò con fatica il fodero in cintura e vi infilò la spada, poi corse dietro a Martewall, che era già accanto alla postierla: un piccolo ma solido portone di legno e ferro, appena sufficiente a lasciar passare un paio di uomini alla volta e senza cavalli.

«Renditi utile» ordinò l'inglese e accennò alla pesante sbarra che sprangava il portone, infilata in due appositi supporti di metallo sporgenti dal muro. La sbarra era grossa quanto un giovane tronco, sbozzato in forma quadrata, e sembrava pesantissima. Un uomo solo non sarebbe mai riuscito a smuoverla e Ian si augurò che due uomini fossero sufficienti a farlo, altrimenti la fuga avrebbe conosciuto una fine prematura.

Martewall afferrò una parte della sbarra, Ian fece altrettanto, ma gli sfuggì un'imprecazione istintiva quando il dolore gli si propagò nella mano e nel polso sinistro, costringendolo a mollare la presa. Ignorando lo sguardo indagatore di Martewall, il giovane americano cambiò posizione per chinarsi sotto la sbarra e spingere verso l'alto con la spalla senza usare la mano dolorante.

I due dovettero fare uso di tutta la forza di cui disponevano, ma alla fine la sbarra si sollevò dalla sua sede e uscì dai supporti cigolando. La lasciarono cadere a terra con un mugugno dovuto allo sforzo. Poi Martewall tirò il portone e lo apri, rivelando un tunnel buio che entrava nelle mura.

«Speriamo che la seconda sbarra sia meno pesante da spostare» brontolò Ian, sapendo che l'altra estremità del tunnel era sicuramente chiusa da un portone identico a quello appena aperto con tanta fatica, e nel contempo si strinse il polso dolorante nell'altra mano. «Che hai da guardare?» domandò poi, brusco, a Martewall, fermo sulla soglia del tunnel.

«Niente» replicò l'inglese. «Notavo solo che, per essere un francese, imprechi d'istinto nella mia lingua con molta naturalezza: si vede che le parole sassoni ti vengono meglio di quelle normanne, quando sei adirato».

Ian sentì un brivido segreto a quell'osservazione, sapendo di aver fatto un passo falso che poteva tradirlo. Martewall comunque non gli diede tempo per ribattere perché s'infilò nel tunnel dietro la postierla e scomparve nel buio.

Maledicendo lo spirito d'osservazione dell'inglese, Ian gli andò dietro, attento a non commettere altri errori.

Il tunnel era stretto e soffocante, completamente immerso nell'oscurità. I due fuggitivi dovettero procedere a tentoni con il solo ausilio della luminosità scarsa che veniva dalla postierla aperta alle loro spalle.

Non avevano il tempo per cercare e accendere una torcia e, d'altra parte, non sarebbero riusciti a chiudere la postierla dall'interno sprangandola in modo da non far notare ai nemici la loro via di fuga, perciò si affrettarono il più possibile ad arrivare in fondo al tunnel per trovare la seconda porta.

Il soffitto era così basso da sfiorare la testa di Ian. Il giovane rabbrividì d'istinto nel vedere sopra di sé alcune sottili strisce più luminose: erano le assassine, aperte nel soffitto per consentire alle guardie di tirare con le balestre sui malcapitati che si fossero trovati nel tunnel indesiderati.

Per qualche istante il giovane temette di sentir sibilare i dardi, ma per fortuna il cammino rimase silenzioso fino a destinazione.

Il secondo portone era più solido del primo e sprangato con due sbarre poste ad altezze diverse. Maledicendo in silenzio anche quello, Ian si diede da fare con Martewall per liberare la strada. Spinsero e tirarono per molti secondi, poi la prima sbarra cadde a terra.

La seconda invece non ne voleva proprio sapere.«Da quanto tempo non viene più aperta questa porta?» domandò Ian, ansando, e non

solo per lo sforzo. Passare tanto tempo in quel tunnel angusto e buio gli dava un'ansia profonda, accentuata dalla consapevolezza che i nemici potevano arrivare da un istante all'altro e intrappolare i due fuggitivi come topi.

«Da almeno quindici anni, credo» ansimò Martewall in risposta.«E non era il caso di fare manutenzione un po' più spesso?» Non ci fu replica dopo

quel commento sarcastico.I due giovani continuarono a spingere e tirare con tutte le forze ancora per

interminabili secondi, poi dovettero desistere, senza più fiato.«Dannata porta!» esclamò Martewall, aggiungendo furente una sequela di improperi

contro la sbarra recalcitrante. Tentò di sollevare l'ostacolo da solo, con una spallata, ma ottenne soltanto di farsi male. Ricadde seduto ai piedi della porta con un grugnito di dolore, massaggiandosi la spalla.

«Rompersi un osso non sarà d'aiuto» lo redarguì Ian, anch'egli seduto a riprendere fiato.

Martewall respirò a fondo alcune volte prima di rispondergli e nel buio la sua voce rabbiosa tradì una nota d'angoscia. «Non abbiamo altra via d'uscita se non questa».

«Lo so». Ian tacque qualche istante, poi raccolse le forze e si rialzò. «Riproviamo».Si rimisero al lavoro, raddoppiando l'impegno, stringendo i denti per avere la meglio.

Quando ormai non ci speravano più, la sbarra si spostò leggermente dalla sua sede.«Sta cedendo!» esclamò Ian, speranzoso.Nello stesso istante, dal portone aperto sulla corte interna arrivarono grida lontane e

concitate.

«Ci hanno scoperti!» esclamò Martewall a mezza voce.Ian sentì il cuore accelerare di colpo. «Forza o siamo finiti!» esortò disperatamente,

ricominciando a spingere la sbarra per smuoverla.Martewall lo imitò subito.Sotto i loro sforzi combinati, la sbarra si sollevò ancora un po'.Le grida, fuori, si avvicinavano. I soldati avevano visto i cadaveri a terra. Da lontano

si urlavano ordini e informazioni. Stavano arrivando.Apriti maledetta porta! pensò Ian, quasi nel panico.La sbarra cedette di colpo, uscì del tutto dai supporti e quasi cadde sulle gambe dei

due disperati fuggitivi, che dovettero fare un balzo indietro, poiché non erano preparati a reggere il suo peso tutto d'un tratto.

Martewall tirò il portone con tutte le sue forze e riuscì ad aprirlo.Un balzo e i due giovani furono fuori.La postierla dava sullo scoscendimento che portava al mare, là dove il maniero non

era più protetto dalla terza cinta di mura ma dalla conformazione del terreno, ostacolo naturale e difesa dall'arrivo di nemici organizzati. Il terreno infatti era così scosceso da essere impraticabile per i cavalli o qualsiasi altro animale da tiro o da soma. Non permetteva però nemmeno a due fuggitivi a piedi di allontanarsi di corsa dal castello.

Ian si fermò appena oltrepassata la postierla. «Ma dove diavolo si va da questa parte?!» esclamò con ansia. «Là davanti c'è solo il mare!»

«Non c'è solo il mare, sbrigati!» Martewall era già corso verso l'inizio della discesa. Si fermò solo sul ciglio e guardò giù per individuare la strada migliore per scendere.

Ian fece per raggiungerlo, quando avvertì un movimento sopra la sua testa, sulle mura. Alzò la testa e scorse i soldati affacciarsi dai merli di pietra.

«Giù!» urlò a Martewall, correndogli incontro. L'inglese si voltò in tempo per vedere i soldati armare le balestre e l'americano gettarsi su di lui con un tuffo disperato. Poi entrambi finirono rotolando giù dallo scoscendimento.

Fortunatamente il pendio era composto in gran parte da terra friabile, sabbia e ciottoli, e attutì la caduta. Ian e Martewall si ritrovarono quasi sulla spiaggia, uno sull'altro e completamente coperti di terriccio e di lividi, ma pressoché incolumi. I dardi di balestra erano passati fischiando sopra di loro, mancandoli per andare a perdersi nel paesaggio ormai semibuio.

Tossendo, Martewall sputò la sabbia che gli era finita in bocca. «Rompersi l'osso del collo non sarà d'aiuto!» protestò, citando il rimprovero rivoltogli da Ian poco prima.

L'altro giovane lo spinse di lato sgarbatamente, per sbarazzarsi del peso che gli gravava ancora addosso, e si risollevò. «Perdonami se sono stato un po' sbrigativo. La prossima volta, ti lascerò li a fare da bersaglio» replicò mentre si rialzava e si ripuliva gli occhi e il volto dal terriccio che anche lui aveva dappertutto.

Avrebbe anche rincarato la dose, ma si trattenne quando vide che Martewall faceva davvero fatica a rimettersi in piedi e teneva la mano contratta sul braccio ferito. La sabbia che si era incrostata sulla manica nera della tunica aveva un inconfondibile colore rosso sangue.

«Ce la fai?» domandò Ian, serio, e d'istinto tese la mano per aiutare il compagno di fuga.

Martewall esitò un istante, ma poi si risollevò da solo, senza aiuto. «Ce la faccio» mugugnò a denti stretti.

Ian lasciò ricadere la mano. «Da che parte adesso?»«Di qua, e in fretta». Martewall si diresse verso sinistra, prima zoppicando, poi,

quando ebbe ripreso sufficiente fiato, correndo. Ian gli tenne dietro e fece in tempo a sentire le voci dei soldati arrivare sul bordo della discesa appena percorsa a ruzzoloni.

«Ci sono addosso!» disse a Martewall, raggiungendolo dopo una breve corsa.«Devono ancora scendere alla spiaggia e non credo che saranno disposti a farlo

rischiando qualche frattura come noi due» replicò l'inglese senza voltarsi indietro. «Nel frattempo noi ci dilegueremo».

«Spiegami come» disse Ian, scettico.Anche se l'oscurità cresceva in fretta e le ombre diventavano fitte tra i meandri della

costa, la strada continuava a essere accidentata e non consentiva di correre se non per brevissimi tratti, interrotti da buche e cumuli di terra e pietre. Ogni tanto, inoltre, le onde del mare arrivavano fino a li a spazzare la sabbia: cancellavano le orme, ma contemporaneamente rendevano il suolo più cedevole e vischioso e i due giovani vi affondavano con gli stivali.

«I mercenari di re Giovanni o i soldati di quel cane di Murrow non possono conoscere questa spiaggia meglio di me, che sono cresciuto qui» continuò Martewall, sempre con gli occhi fissi davanti a sé come per individuare qualcosa. D'un tratto abbandonò la spiaggia per inerpicarsi di nuovo su per il pendio, aiutandosi con le mani, nonostante il braccio ferito.

«Dove stai andando?!» esclamò Ian, senza perdere terreno. Seguì l'inglese su per i cumuli di pietre e stava per insistere e farsi dare una risposta quando si rese conto che una delle ombre sulla discesa era diversa dalle altre. Dal basso non era possibile distinguerla, ma si trattava dell'ingresso di una cavità naturale nella roccia, forse una piccola grotta.

Ian ne ebbe la certezza quando vide Martewall infilarsi dentro quell'ombra e scomparire dalla vista. Lo imitò e trovò l'inglese sdraiato supino, ansante, in quella che era davvero una cavità ben mimetizzata nella parete affacciata sul mare.

La grotta non aveva altre uscite e non consentiva a un uomo adulto di stare in piedi in posizione eretta, ma dal basso era praticamente invisibile per chi non ne conoscesse l'esistenza e Ian capì che Martewall voleva usarla come rifugio temporaneo per sottrarsi all'inseguimento dei soldati.

«Io e i miei fratelli ci siamo nascosti qui mille volte quando volevamo sfuggire alla verga di nostro padre» spiegò l'inglese, senza aspettare altre domande. Si guardò intorno e aggiunse con un sospiro: «A quell'epoca però, questo posto mi sembrava molto più grande di così».

Ian si guardò intorno e convenne che il luogo poteva essere un buon nascondiglio, ma allo stesso tempo non poté fare a meno di pensare che, se malauguratamente qualcuno l'avesse notato dal basso, quello stesso nascondiglio poteva tramutarsi in una trappola senza uscita. Non ebbe però il tempo per esprimere a parole quel pensiero, perché dal basso udì provenire rumori, voci e passi rabbiosi.

Il giovane si accucciò su un ginocchio e trattenne il fiato. Anche Martewall aveva rialzato la testa e la sua mano era corsa alla spada.

Attesero in silenzio assoluto, con i nervi tesi.I soldati passarono correndo sulla spiaggia, vociando, imprecando, e proseguirono

oltre. Quando le loro voci si spensero in lontananza, i due fuggitivi ricominciarono a

respirare normalmente.Martewall riappoggiò la testa a terra e chiuse gli occhi per qualche istante.«Prima o poi capiranno che ci hanno persi lungo la strada e torneranno indietro a

guardare meglio» osservò Ian.«Per allora si sarà fatto buio e dovranno munirsi di torce per continuare a cercarci»

rispose l'altro giovane e si risollevò sui gomiti con uno sforzo. «E comunque, io ho fatto il mio dovere, ti ho portato fuori dalla postierla, adesso tocca a te» sfidò sarcastico. «Sei l'uomo dalle mille risorse, no? Adesso inventati qualcosa per portarci in Francia».

Pronunciò l'ultima parola come se gli bruciasse la lingua, ma Ian non raccolse la provocazione e non commentò. Stava pensando piuttosto a come fare per avere aiuto e la priorità di quel momento era trovare un riparo sicuro, insieme a qualcosa da mangiare.

Anche qualcosa per medicare le ferite, ricordò Ian, sentendo il polso fargli male in modo perentorio. Martewall era messo anche peggio di lui, nonostante ostentasse un'aria sprezzante.

Solo dopo aver soddisfatto le prime necessità si poteva pensare a come trovare un imbarco per lasciare l'Inghilterra e ritornare in Francia. Certo, se Salisbury non avesse avuto tanto a cuore la segretezza delle sue intenzioni riguardo la ribellione contro re Giovanni, tutto sarebbe stato molto più facile e i due in fuga avrebbero potuto contare su un aiuto in più per poter abbandonare incolumi l'isola britannica.

Il pensiero di Salisbury ravvivò per analogia l'ansia per Daniel, rimasto ostaggio nelle mani di un personaggio tanto calcolatore. Ian non aveva dubbi che, se le cose si fossero messe male per loro durante la fuga, Salisbury si sarebbe sbarazzato di Daniel senza pensarci due volte, pur di non compromettere la sua posizione davanti al trono di Giovanni Senza Terra.

Il giovane si passò la mano sul viso, cercando di trovare la determinazione e la lucidità necessarie per continuare la fuga senza commettere un solo passo falso.

Niente deve andare storto, si ripeté più e più volte, ma gli fu difficile mettere a tacere la paura che gli si agitava nel profondo. Si concentrò sui primi problemi da risolvere, per trovare una soluzione. Nascondiglio sicuro, cibo, medicamenti: al resto avrebbe pensato subito dopo.

«Dobbiamo arrivare in qualche modo al porto di Dunchester. Solo là posso sperare di trovare marinai compiacenti che ci imbarchino senza storie sulla loro nave» disse in quel momento Martewall. «Gli abitanti ci copriranno, quando mi riconosceranno».

«Ma è anche il primo posto dove i nemici andranno a cercarci e puoi stare certo che terranno d'occhio ogni nave in partenza» obiettò Ian. «Non possiamo presentarci là senza un piano preciso. Ci staranno già aspettando al varco e io non passo inosservato».

Martewall brontolò qualcosa di incomprensibile, ma poi rimase a rimuginare in silenzio, per risolvere il problema.

Anche Ian meditò su tutte le possibili evenienze e gli fu chiaro che comunque avevano bisogno di alleati. Da soli non sarebbero andati molto lontano, stanchi e feriti com'erano, senza contare il fatto che rischiavano di morire di freddo durante la notte, dal momento che non potevano nemmeno accendere un fuoco per timore di essere avvistati.

Ian ripensò a come era riuscito a entrare al porto di Glenhaven unendosi a un gruppo di comuni abitanti del contado che andavano a fare compere al mercato della città. Subito dopo pensò a come aveva trovato nei giorni precedenti cibo e riparo sempre grazie ad altri abitanti dei dintorni.

Gli venne un'idea.«D'accordo. So cosa fare» disse alla fine.Martewall lo guardò incredulo. «E cioè?»Ian si risollevò in piedi, tenendosi curvo sotto la volta bassa della grotta. «Per prima

cosa, andiamo a Willingham».

Capitolo 26Daniel aveva visto tornare sir Gorvenal nel cortile, preceduto di corsa da un soldato.

«I prigionieri sono fuggiti!» aveva annunciato quest'ultimo, trafelato, e nel cortile si erano alzate voci concitate e di toni opposti tra di loro. I soldati del re avevano imprecato di rabbia e subito si erano organizzati per cominciare la caccia, i vinti avevano esultato sfrontatamente, inneggiando al giovane signore di Dunchester che aveva beffato i vincitori.

Daniel era balzato in piedi, con un tuffo al cuore.Sir Gorvenal gli aveva lanciato un'occhiata da lontano, ma poi si era rivolto a Nigel

Murrow, che gli era corso incontro. «Geoffrey Martewall e gli altri due sono riusciti a scappare. Voglio tutti i vostri uomini a disposizione per inseguirli!» gli aveva detto, brusco, prevenendo ogni domanda. «Non possono essere ancora usciti dal castello: setacciate ogni angolo!»

«Ma come hanno fatto a...!» aveva esclamato il barone adolescente, esterrefatto.«Vi volete muovere?! Non c'è tempo per le spiegazioni adesso!»Murrow si era messo quasi sull'attenti ed era corso a dare gli ordini ai suoi uomini.«Questo vale anche per voi!» aveva aggiunto Gorvenal, rivolto ai mercenari che lo

fissavano con rabbia e accusa.Tutti gli armati si erano subito messi in azione e in breve il cortile era stato

sgomberato dagli ultimi prigionieri, ancora riuniti, per lasciare spazio alle operazioni dei soldati. I servi e i funzionari di Dunchester erano stati spinti dentro il maniero, gli ufficiali e i soldati sconfitti legati saldamente per essere condotti nella corte esterna e rinchiusi da qualche parte.

«Tenete d'occhio costui con particolare attenzione» aveva ordinato Gorvenal ai soldati che sorvegliavano Daniel. «Non voglio perderlo di vista un solo istante».

I soldati avevano sguainato le spade, pronti a tutto. Gorvenal si era allontanato per andare a riferire a William Lunga-Spada quanto era accaduto.

Daniel aveva dovuto sedersi di nuovo sul gradino alla base del pozzo, aspettando, ascoltando con trepidazione ogni suono d'allarme proveniente dal maniero.

Erano trascorsi così molti minuti, senza novità, in bilico tra l'ansia per Ian e la speranza che ce l'avesse fatta davvero a fuggire.

Quando ormai Daniel cominciava a sentirsi confortato dalla mancanza di notizie, un grido di esultanza si propagò per il cortile.

«Ne abbiamo preso uno!»Daniel balzò di nuovo in piedi, ma non poté fare un passo, minacciato dai soldati che

lo sorvegliavano ancora.Anche sir Murrow era ricomparso nel cortile insieme ad alcuni armati, attirato dal

clamore.Con il cuore in gola, Daniel vide un gruppo di mercenari trascinare qualcuno di peso

verso il giovane barone. Ringraziò il cielo quando capì che non era Ian, ma subito dopo riconobbe Hector e vide con angoscia che l'uomo era coperto di sangue.

I mercenari lo buttarono nella polvere con violenza. Il cavaliere era ancora vivo, ma non aveva più la forza di risollevarsi nemmeno sulle braccia. Era stato ferito con un'arma da taglio, poiché aveva una lacerazione evidente su una spalla, ma addosso portava anche i segni di un pestaggio violento.

«Questo cane ha finito di correre!» esclamò uno dei mercenari con sarcasmo, allungando un calcio nel fianco al prigioniero sfinito.

Hector emise un gemito strozzato ma non poté reagire.Sir Murrow fece un passo indietro con raccapriccio, senza sapere che dire.«Basta!» intimò al suo posto Daniel, rabbiosamente.Uno dei soldati che lo sorvegliavano lo afferrò per un braccio per impedirgli di fare

mosse impreviste. Daniel esitò una frazione di secondo, ma poi lo sdegno fu dieci volte più forte della prudenza.

Il giovane affrontò il soldato con ferocia. «Toglimi le mani di dosso! Sono un cavaliere e un ostaggio importante del tuo padrone. Toccami di nuovo e ti farò staccare le mani».

La minaccia così decisa fece impressione e il soldato mollò la presa d'istinto.L'approccio a muso duro funzionava e Daniel capì di avere una minima, insperata

autorità. Se non altro, almeno gli uomini di Salisbury gli dovevano rispetto per via della sua posizione di ostaggio speciale.

«E qualcuno fermi quegli aguzzini!» ordinò il giovane agli altri soldati che gli stavano intorno. «O volete stare a guardare mentre massacrano un uomo indifeso?! Siete tutti bastardi o vigliacchi?!»

Gli armati si guardarono l'un l'altro, ma poi si voltarono verso Murrow, i suoi uomini e i mercenari.

«Lasciate stare il prigioniero. Lo prendo sotto la mia custodia» si affrettò a ordinare il giovane barone ai mercenari.

Questi mugugnarono ma non infierirono più su Hector. Uno di loro sputò a terra con spregio.

Daniel si staccò dal pozzo per raggiungere i mercenari con decisione. I soldati di Salisbury gli rimasero incollati alle costole con le spade pronte, ma nessuno osò fermare il giovane quando si chinò su Hector per risollevarlo da terra.

Persino i mercenari furono costretti a farsi di lato, perché i soldati di Salisbury fecero loro capire con le lame di dover stare alla larga da Daniel. L'americano s'inginocchiò per aiutare Hector a mettersi almeno seduto, ma l'uomo gli ricadde sfinito sul petto e dovette sorreggerlo per non farlo cadere.

La ferita alla spalla era molto brutta e perdeva sangue copiosamente. Serviva un medico e anche molto in fretta, capì Daniel, trovandosi le mani completamente bagnate. «Ordinate che qualcuno venga a curarlo, non vorrete lasciarlo morire dissanguato!» disse il giovane a Murrow.

«Avete sentito? Chiamate qualcuno per curarlo!» ripeté il ragazzo ai suoi soldati, ritrovando lo zelo.

Imbecille, pensò Daniel.Hector tossì debolmente tra le sue braccia, poi rialzò gli occhi su di lui. «... ils soni

hors du chàteau15...» disse sottovoce, nel suo francese aspro di fiammingo. Lo sguardo ebbe un lampo di soddisfazione, nonostante il dolore.

Daniel annuì. «Grace à votre sacrifice.16»Con le ultime forze, Hector fece un mezzo sorriso.Speriamo ne sia valsa la pena, si augurò Daniel, correndo col pensiero a Ian in fuga e

15 «... sono usciti dal castello...»16 «Grazie al vostro sacrificio».

a tutto ciò che poteva aspettare lui e Martewall fuori dal maniero.

***

I soldati del re stavano battendo palmo a palmo tutto il circondario, con torce, cavalli e cani.

Fortunatamente la deviazione lungo la spiaggia costantemente battuta dalle onde aiutò i due fuggitivi a far perdere le tracce sottraendosi all'olfatto dei cani, ma il tratto che dovevano percorrere per allontanarsi dal maniero era comunque circoscritto, dal momento che la via per mare non era praticabile senza una barca.

I nemici erano consapevoli di questo fatto e si erano sparpagliati a ventaglio su tutto il tratto di terraferma che da Dunchester proseguiva verso l'interno del paese, perlustrando con accanimento ogni anfratto.

La posta in gioco era troppo alta: i due fuggiaschi erano troppo importanti e di sicuro i mercenari del re o sir Murrow non volevano fare la figura meschina di lasciarsi scappare proprio il giovane padrone di casa, dileguatosi sotto il loro naso insieme a un inaspettato, maledetto intruso francese.

Ian e Martewall abbandonarono la piccola grotta sulla costa solo dopo essersi accertati che i soldati non fossero più nei paraggi: li sentirono tornare indietro al calare dell'oscurità per andare a procurarsi torce e rinforzi, poi i rumori si spensero di nuovo.

Quando furono certi che fuori non ci fosse più nessuno, i due lasciarono la grotta per inerpicarsi fino alla sommità dello scoscendimento e raggiungere il prato aperto.

Ormai il sole era calato del tutto dietro l'orizzonte per lasciare solo un cielo nero con nuvole lattiginose, poche stelle e una luna sbiadita. La temperatura, sempre più bassa e rigida, congelava il fiato e penetrava le vesti fino alla pelle; i due fuggitivi non avevano mantelli pesanti per ripararsi.

Raggiunta la campagna pianeggiante, i due giovani si acquattarono dietro alcuni cespugli per osservare il luogo prima di inoltrarsi allo scoperto.

Sullo sfondo della notte, Dunchester era illuminato su tutte le mura da torce irrequiete, che andavano e venivano in modo concitato. Era spettrale, visto da lontano, ma ancor più incutevano timore i rumori dei gruppi di soldati che si muovevano per la brughiera, quasi invisibili nel buio.

Ian esplorò con preoccupazione tutto l'orizzonte per cercare di capire da che parte arrivassero gli inseguitori. Vide fuochi muoversi nel prato buio, con l'inconfondibile movimento dovuto al trotto dei cavalli, e sentì l'abbaiare dei cani. «Non dirmi che sono i segugi di casa tua, quelli che ci danno la caccia» disse a Martewall, ma la sua voce era più ansiosa che sarcastica.

«Probabilmente sì. Non credo che si siano portati anche i cani da caccia insieme all'esercito» replicò Martewall, laconico. «Non hanno fatto un grande affare, comunque. I soli tre segugi rimasti a Dunchester sono vecchi decrepiti e non hanno più il naso buono».

«Speriamo» mugugnò Ian, per nulla rassicurato.I due s'inoltrarono per il prato, umido di rugiada, e lo percorsero più in fretta che

poterono, tenendosi bassi tra gli sterpi e i cespugli per non farsi scorgere da lontano.Fortunatamente la luna era così fioca da non consentire la visibilità a più di qualche

metro di distanza e questo aiutò i fuggitivi a raggiungere il bosco non visti.

In mezzo ai tronchi neri, Ian rallentò momentaneamente il passo per orientarsi ed esplorare il luogo con lo sguardo. Aveva una vaga idea della direzione da tenere per tornare al villaggio distrutto di Willingham, ma si rese anche conto di non poter ritrovare la strada esatta senza l'aiuto di chi conosceva il luogo. All'andata aveva seguito Bull e i suoi compaesani, ma adesso era in difficoltà a orientarsi nel dedalo di piante e di cespugli contorti. Nel fitto del bosco, inoltre, il buio era più intenso e rendeva ancora più difficile il cammino.

Ian si fermò, impotente, temendo di dirigersi dalla parte sbagliata, in bocca agli inseguitori. «Da che parte si trova Willingham? Tu riesci a orizzontarti?» domandò a Martewall, quando fu certo di non riuscire a proseguire.

«Che c'è, non trovi più il sud?» L'inglese prese la guida del cammino e gli fece cenno. «Da questa parte».

S'inoltrarono tra gli alberi in fretta, cercando di fare meno rumore possibile, anche se sapevano di non poter evitare di lasciarsi alle spalle tracce che sarebbero state senza dubbio identificate dai cani, vecchi o no che fossero, se solo questi avessero avuto la ventura di trovarle sul loro cammino.

«Vorrei che si mettesse a piovere, per una volta. Non ho mai visto un inverno così secco come questo» brontolò Martewall, sapendo che solo la pioggia avrebbe potuto depistare l'olfatto dei cani in modo irrimediabile.

Anche Ian si trovò a pregare ardentemente per un po' di pioggia, ma le nuvole che si intravedevano tra le fronde degli alberi sembravano congelate nel cielo e non lasciavano cadere nemmeno una goccia.

Il buio del bosco era soffocante e spaventoso: a ogni passo si spezzavano sterpi o scricchiolavano sassi sotto gli stivali e il rumore sembrava echeggiare ovunque tra le foglie, amplificato dall'ansia di avere gli inseguitori sul collo.

Il latrato dei cani si udiva di tanto in tanto, portato dal vento leggero, e ogni volta faceva sobbalzare i due in fuga. Per fortuna rimase sempre un suono lontano e poi, alla fine, non si udì più.

I due giovani corsero finché poterono, poi camminarono, infine arrancarono per un tempo che sembrò loro infinito. ' Il freddo si fece opprimente, insieme alla stanchezza. Ian si trovò a rabbrividire sempre più spesso, e sempre più violentemente, nonostante continuasse a camminare senza sosta, con le gambe pesanti. Cercò di sfregarsi le braccia con le mani per generare calore, ma il dolore al polso sinistro gli strappò una smorfia. Le due dita centrali della mano erano quasi insensibili e si piegavano a stento.

Devono essere rotte davvero, pensò Ian con lucida consapevolezza, ma continuò ad andare avanti, sempre seguendo Martewall.

Il cavaliere inglese non parlava più da un bel pezzo. Adesso si teneva la mano costantemente premuta sul braccio ferito e il suo passo era sempre più faticoso.

Su entrambi i giovani, la cotta di maglia pesava come un macigno.Ian perse la cognizione del tempo, sostituita dall'angoscia di essere braccato. Quando

ormai non ci sperava più, sentì aleggiare tra la vegetazione scura l'inconfondibile odore di cenere e materia carbonizzata.

Ringraziò il cielo in silenzio, nello stesso istante in cui Martewall riprendeva energia e allungava il passo, dicendo: «Siamo arrivati a ciò che resta di Willingham» .

Subito dopo, alcune ombre armate sbucarono minacciose dalla vegetazione, sbarrando la strada ai due.

Ian sobbalzò, portò la mano alla spada, ma qualcosa fischiò nell'aria e lo colpì con precisione e violenza alla spalla. Con un'esclamazione di dolore, il giovane si piegò su se stesso, barcollando.

Martewall aveva potuto sguainare la sua spada, ma si trovò un forcone puntato sul petto prima di poter anche solo alzare il braccio.

«Non un passo in più, maledetti!» intimò una voce autoritaria, ma indubbiamente femminile.

Ian si rese conto in quel momento che la sua cotta di maglia non era lacerata sulla spalla, nonostante il dolore feroce provocato dall'attacco inaspettato. Non era stata una freccia a colpirlo ma una pietra. Una pietra da fionda.

Ian aveva riconosciuto anche la voce che aveva intimato l'alt. «Beau! Brianna! Fermi, per l'amor del cielo!» invocò, intuendo alla fine la situazione.

La donna che minacciava Martewall col forcone spalancò gli occhi attraverso il buio, quando riconobbe Ian. «Il bel cava liere!» esclamò e subito indietreggiò di un passo, abbassando la sua rudimentale arma.

Tutto intorno, anche le altre ombre nere fecero altrettanto e si scambiarono sguardi e frasi sbigottite. Erano uomini e donne di Willingham, armati con bastoni e attrezzi da lavoro, evidentemente di guardia intorno a ciò che era il loro accampamento per evitare sgradite sorprese.

Dai cespugli, infine, sbucò Coda di volpe, che corse incontro a Ian, preoccupatissimo. «Sir Ian! Siete voi?!»

Il giovane americano stava muovendo la spalla per attenuare il dolore dovuto al colpo di fionda. «Tu e quel tuo dannato aggeggio farete dei guai seri un giorno o l'altro» brontolò.

Il ragazzino mormorò delle scuse mortificate, quasi nascondendo la fionda dietro la schiena.

«Cosa fate qui?» aveva intanto domandato Brianna, ma la sua voce era stata coperta dalle esclamazioni di sorpresa di almeno due compaesani, che avevano riconosciuto chi stava con Ian.

«Sir Geoffrey Martewall!» disse uno di loro, incredulo. Brianna e Coda di volpe rimasero senza parole.

La rivelazione fece fare un passo indietro agli altri compaesani. I primi a riprendersi dalla sorpresa s'inchinarono con rispetto e soggezione.

«Datemi aiuto e asilo per il vostro signore» annunciò Ian a tutti, indicando Martewall. «I soldati del re ci stanno braccando!»

La frase mise immediatamente in azione il piccolo gruppo di guardie improvvisate.«Correte a svegliare tutti!» esclamò Brianna. «Dobbiamo nascondere questi due

cavalieri prima che li trovino i nemici!»«Penso io a far sparire le tracce!» si offrì subito Coda di volpe. «Spargerò molta

cenere sul terreno per confondere il fiuto dei cani. Conosco anche qualche altro piccolo trucco che dovrebbe funzionare».

Senza aspettare risposta, corse verso il villaggio distrutto, dove avrebbe trovato senza difficoltà ciò che gli serviva.

«Torniamo anche noi verso i rifugi» esortò Brianna, rivolta ai compaesani. «Per stanotte raddoppieremo i turni di guardia».

Ian osservò le donne e gli uomini armati ritornare obbedientemente verso Willingham.

«Siete diventata il loro capo, adesso?» domandò a Brianna con ammirazione.Lei scosse la testa. «Ci mancherebbe. Ve li immaginate gli altri a prendere ordini da

una come me? Ma il fatto è che quasi tutti gli uomini sono partiti con voi verso Dunchester, sono rimasti solo i vecchi, i feriti e i codardi, e qualcuno doveva pur rimboccarsi le maniche e organizzare le cose per tirare avanti. Io, mio malgrado, sono stata anche troppo abituata a farlo».

«Che cosa è successo in questi giorni?» si preoccupò Ian.«Questo dovrei chiederlo io a voi». La donna guardò entrambi i cavalieri

alternativamente. «La nostra vita non è stata più dura del solito, a parte la fatica per trovare da mangiare e la paura che i soldati del re tornassero a fare razzie o rappresaglie. A Dunchester invece non dev'essere andata bene, se voi siete qui, da soli».

Guardò Geoffrey Martewall e aggiunse: «Mi aspetto notizie molto brutte da voi, signor barone».

Il cavaliere, dovette annuire, con un fremito nella voce. «Dunchester è ora nelle mani del re. Io non sono più signore di nulla».

Brianna osservò il suo rabbioso dolore. «Capisco» disse alla fine. «E gli uomini del nostro villaggio? E quelli di Aversly?»

«Sono rimasti intrappolati al castello» rispose Ian. «Molti sono morti durante l'assedio».

Brianna accettò la notizia, di nuovo in silenzio, e abbassò gli occhi a terra.«Se vostro marito era tra loro, non ho parole per esprimere il mio rammarico»

aggiunse Martewall, sincero.La donna scosse la testa e gettò indietro la massa di capelli color fuoco con un gesto

brusco. «Il mio uomo è morto molto prima di ora, non preoccupatevi per me. Al villaggio comunque troverete molte altre famiglie, mogli e figli, a cui spiegare l'accaduto ed esprimere tutto il rammarico che vorrete».

«Lo farò, anche se non potrò mai farmi perdonare il fatto di essere stato incapace di difendere la mia gente» replicò il cavaliere con onta.

Brianna non replicò. «Venite a farvi curare, signor barone, state sanguinando» disse semplicemente. «Anche voi, sir Ian, vedo che avete una mano gonfia. Poi penseremo al da farsi».

Prima di seguire la donna, Martewall lanciò un'occhiata cupa all'altro giovane. «"Sir Ian", eh?» disse, ripetendo l'epiteto usato solo un attimo prima anche da Coda di volpe. «Davvero tu cambi pelle come un serpente. Ne mostri una diversa a chiunque ti incontri».

Ian non gli rispose nemmeno e s'incamminò dietro a Brianna.

***

La stanza al secondo piano del mastio in cui Daniel venne condotto era la stessa che il giovane aveva condiviso con Ian nei giorni precedenti. L'unica differenza fu che la porta venne sprangata dall'esterno e controllata dai soldati di William Lunga-Spada.

Rimasto solo, l'americano andò a guardare fuori dalla finestra stretta e priva di vetri, che dava sul cortile.

Il luogo adesso era quasi silenzioso, illuminato solo dalle torce che le sentinelle tenevano con sé. Anche dall'alto e con quella scarsa luce, però, Daniel poteva vedere il

punto in cui il terreno era sporcato da una macchia scura, causata dal sangue di Hector.Speriamo che stia meglio, si trovò ad augurarsi Daniel, pensando al cavaliere e

gettando lo sguardo verso la porta che dal cortile conduceva nelle segrete del maniero, ora sorvegliata da uomini con le divise rosse o blu.

Per ordine di Murrow, il luogotenente di Martewall era stato rinchiuso nei sotterranei, nonostante le sue condizioni critiche, e Salisbury non aveva obiettato troppo, probabilmente per non concedere ulteriori favoritismi ai prigionieri e rendersi sospetto agli occhi di tutti quelli che lo credevano un leale servitore di re Giovanni.

Daniel però aveva insistito per assistere alla medicazione a cui era stato sottoposto il fiammingo ferito e non si era lasciato condurre via finché non era stato sicuro che la ferita fosse ricucita a dovere, con tutte le cure necessarie per impedire che si infettasse.

Aveva ottenuto che Hector fosse almeno rinchiuso nella stessa cella con Kerwick e Ewen, perché i suoi compagni potessero prendersi cura di lui, e quando era stato costretto a lasciarli aveva ricevuto le occhiate riconoscenti dei cavalieri di Dunchester.

Adesso Daniel si ritrovava solo, a rimuginare su cosa avrebbe riservato il futuro.Su un tavolino gli era stata portata la cena, ma il giovane non vi badava. Guardava

fuori e avrebbe dato qualsiasi cosa per poter vedere il panorama oltre il castello.Chissà dov'era Ian e se stava riuscendo davvero a sfuggire alla caccia serrata degli

inseguitori. Il fatto che per ora nessuna novità fosse venuta turbare il silenzio nervoso del castello sembrava confermare l'ipotesi.

Daniel fece un rapido conto mentale: per arrivare in Francia, raggiungere Chàtel-Argent e ritornare indietro ci sarebbero voluti alcuni giorni, forse addirittura una settimana.

Che cosa faccio io nel frattempo? si domandò nervosamente Daniel.La relativa remissività con cui Salisbury aveva accettato la sorte di Hector non gli era

piaciuta affatto: gli aveva fatto capire che il conte inglese non avrebbe alzato un dito per i prigionieri, se questo poteva mettere in pericolo le sue trame segrete.

Il giovane non aveva dubbi che, se solo il pericolo fosse diventato troppo alto, Lunga-Spada non avrebbe esitato a sacrificare anche i cosiddetti "ostaggi importanti", nonostante ciò che poteva aver promesso a Ian.

E io sono qui intrappolato senza poter fare niente, si disse Daniel con rabbia e guardò giù. Da quella finestra isolata e senza appigli non c'era modo di fuggire inosservato, tanto più che si affacciava proprio su uno dei punti più sorvegliati del castello.

Frustrato, si ritirò dalla finestra e ne chiuse l'imposta accuratamente, rimanendo con la sola luce della lampada. Andò a sedersi sul letto e alzò una mano aperta davanti a sé. «Help» chiamò sottovoce, badando bene a non farsi sentire dai soldati fuori dalla porta.

Hyperversum non diede il minimo segno di risposta.Per puro scrupolo, Daniel tentò tutti i comandi che conosceva, prima di lasciar

ricadere la mano e chinarsi ad appoggiare i gomiti sulle ginocchia.Il pensiero gli corse a casa, a quello che poteva essere successo se la sua famiglia

aveva scoperto la sua sparizione. Di là forse erano passate solo ore, forse nessuno aveva ancora scoperto niente. Forse, invece, avevano scoperto tutto, ma non potevano fare nulla per lui.

Intrappolato di qua per sempre. L'idea lo sfiorò e, come ogni volta, gli fece paura.Lui non era come Ian, non avrebbe mai fatto la stessa scelta e non voleva finire i suoi

giorni nel Medioevo.

Soprattutto, aveva lasciato dall'altra parte la donna che amava. Sentì prepotentemente la mancanza di Jodie e capì più che mai cosa doveva aver provato Ian quando credeva di essere stato separato per sempre da Isabeau. Era un vuoto atroce nel petto.

Daniel strinse i pugni con tutta la forza che trovò. Maledetto gioco, non mi separerai dal resto della mia vita, promise con la rabbia dettata dall'angoscia. Giuro che troverò il modo di farmi obbedire da te, a qualsiasi costo! Uscirò da qui e tu non avrai più potere sul mio destino!

Un suono di corno, fuori dalla finestra, annunciò il cambio della guardia sulle mura.

Capitolo 27L'arrivo al villaggio semidistrutto di Willingham svegliò il resto degli abitanti chiusi

al riparo dei rifugi. La notizia aveva fatto il giro dell'accampamento con scalpore, anche in piena notte: Dunchester era caduta nelle mani dei re, il giovane barone era fuggito e ora cercava salvezza tra i suoi sudditi.

L'arrivo al villaggio semidistrutto di Willingham svegliò il resto degli abitanti chiusi al riparo dei rifugi. La notizia aveva fatto il giro dell'accampamento con scalpore, anche in piena notte: Dunchester era caduta nelle mani dei re, il giovane barone era fuggito e ora cercava salvezza tra i suoi sudditi.

Martewall e Ian furono accolti da quasi tutti gli abitanti; quelli che si erano svegliati si stavano radunando da ogni lato dell'accampamento.

Ian salutò le facce più note e si sentì osservato con sbalordimento. La gente del villaggio l'aveva riconosciuto subito, ma nessuno di loro si aspettava di rivederlo con tanto di cotta di maglia addosso e per giunta in compagnia del barone di Dunchester. Non erano servite parole per rendere chiaro a tutti che lo straniero era un cavaliere.

Martewall si guardava intorno con sentimenti diversi dipinti sul viso. Osservava soprattutto i rifugi di fortuna eretti tra le macerie di quelle che erano state le case del villaggio e i segni ancora evidenti della rappresaglia dei mercenari del re.

«Maledetti... Come hanno osato fare una cosa simile?» lo sentì dire Ian, sottovoce ma in tono furente.

Anche l'americano provava rabbia, nonostante avesse già potuto vedere in passato la situazione del povero villaggio. Nei pochi giorni trascorsi da quando l'aveva lasciato, la gente si era data da fare per migliorare i rifugi e le capanne, ma non era riuscita a fare molto. Il rigore dell'inverno aveva reso più insopportabile il clima e più scarse le risorse, inoltre mancavano le braccia maschili per i lavori pesanti. Adesso, facce spaurite fissavano i due cavalieri fuggiaschi, soprattutto Martewall, con un misto di preoccupazione e disperazione. Sape vano che il loro signore non poteva più aiutarli e temevano per il futuro.

«Alla fine abbiamo deciso di rimanere qui. E dove altro potevamo andare?» spiegò Brianna ai due cavalieri. «Mio figlio e alcuni ragazzi hanno arrischiato un paio di sortite verso Dunchester per scoprire cosa stesse accadendo laggiù, ma per poco non sono stati scoperti e catturati dai soldati del re e perciò abbiamo proibito loro di andare. Per fortuna hanno avuto il buonsenso di ascoltarci».

Per fortuna davvero, pensò Ian, considerando la situazione critica che si era venuta a creare intorno al maniero conquistato.

«Ora a Dunchester non si combatte più» rivelò il giovane. «Il castello è nelle mani del conte di Salisbury e di sir Murrow».

«Sir Murrow di Glenhaven? Il barone confinante?» domandò Brianna, sorpresa, e la notizia suscitò grande apprensione, specie tra gli abitanti di Aversly, che era appunto sotto la giurisdizione di Murrow.

«Davvero non ha perso tempo prima di farsi avanti» considerò ancora Brianna.«Un vero avvoltoio» convenne Ian. «Ha pugnalato alle spalle Dunchester che, da

quanto ho capito, è sempre stato suo alleato».Martewall non aggiunse nulla a quel commento, ma la sua espressione era scura in

modo eloquente.

«Quel ragazzo se ne pentirà prima o poi» disse Brianna, riferendosi a Murrow. «Ha lasciato un alleato leale per scegliersene uno infido: re Giovanni concede e toglie i suoi favori a seconda dell'umore».

Ian rimase in silenzio ma era d'accordo con lei, specie sapendo cosa avrebbe portato la futura rivolta dei baroni.

Nel centro del villaggio era stato acceso un grande falò per fare luce e generare calore. I due fuggitivi furono fatti accomodare su alcune pietre poste come sedili li accanto e ricevettero subito acqua e pane con un po' di formaggio per rifocillarsi.

«Possiamo uccidere una gallina e arrostirla per voi, signore» propose con premura una vecchia donna mentre porgeva da bere a Martewall, ma il cavaliere rifiutò. «Tenete il cibo per chi ne ha più bisogno. A noi basterà un po' di pane».

Un'altra donna si era invece accostata per prendersi cura del braccio sanguinante del giovane. Martewall si lasciò scoprire la spalla e la ferita che si era riaperta nelle ultime ore travagliate. Nel contempo gli altri abitanti, quasi tutti donne, vecchi e feriti, si affollavano intorno a lui per avere notizie dell'assedio e dei compaesani, amici e familiari rimasti intrappolati a Dunchester.

Ian seguì la conversazione in silenzio, lasciando che fosse Martewall a spiegare alla sua gente quanto era accaduto e cosa li avrebbe attesi nel prossimo futuro.

Lo sentì cercare di tranquillizzare i più spaventati, consolare chi temeva per la sorte di un fratello, di un marito o di un figlio partito per la battaglia, e assicurare a tutti gli altri che Salisbury sarebbe stato un signore giusto e clemente, che non avrebbe permesso ulteriori rappresaglie contro la popolazione.

«Almeno così mi auguro» concluse amaramente Martewall. «Il conte di Salisbury è un uomo d'onore e non è un sanguinario, non perseguiterà i vinti».

Ian non disse nulla, sperando che Martewall avesse davvero ragione. Come quasi tutti gli abitanti del villaggio, aveva anche lui una persona cara intrappolata a Dunchester, per la quale temeva.

«Ma voi, signore, cosa farete adesso?» domandò un vecchio tra gli altri.Martewall esitò prima di rispondere e lanciò un'occhiata in tralice a Ian.«Per ora sono costretto all'esilio» replicò, vago. «Se Dio lo vorrà, un giorno ritornerò

alla mia casa».Ancora una volta, Ian non disse niente. Lasciò che gli abitanti del villaggio lo

guardassero con occhi interrogativi, ma non fece trapelare nulla. Anche Martewall glissò sull'argomento e non rispose più a ulteriori domande.

Gli abitanti si rassegnarono quindi a ritornare sull'argomento dell'assedio e della conquista di Dunchester da parte di William Lunga-Spada, sperando di capire cosa avrebbe riservato il futuro. La discussione andò avanti parecchio, mentre tutti si sentivano in dovere di esprimere la loro opinione e i loro timori in proposito.

«E voi che parte avete in tutto questo?» domandò Brianna a Ian, in disparte, distraendolo dalla conversazione. La giovane si era seduta accanto all'americano e aveva con sé una ciotola d'acqua e un piccolo fagotto di tela.

«Devo accompagnare sir Martewall nel suo viaggio» rispose Ian.«Non dovevate cercare un amico a Dunchester?»«L'ho trovato, infatti». Lo sguardo di Ian s'incupì. «E ho dovuto lasciarlo nelle mani

del nemico. Spero di poter tornare al più presto a liberarlo».«È in ostaggio?» Il tono di Brianna si fece più basso, per non farsi sentire da qualcuno

intorno.«Purtroppo sì. Ora devo trovare il modo di negoziare il suo riscatto, ma non posso

farlo qui. Devo trovare una nave per attraversare la Manica».«Andate in Francia?» domandò Brianna con un guizzo d'interesse negli occhi verdi.«Sì, ma vi prego, non domandatemi di più» rispose Ian, un attimo prima di avere un

sussulto di dolore improvviso.Brianna gli aveva preso il polso sinistro tra le mani e stava esplorando con fare

esperto la mano e le dita gonfie. «Fa male?»Ian strinse i denti. «Se non mi vergognassi a farlo, urlerei» ammise.«Le dita non sono rotte e questa è una buona notizia» prosegui lei, senza alzare gli

occhi dal suo lavoro.«Meglio cos...»Ian terminò la frase con un'esclamazione di dolore assoluto, quando Brianna gli

manovrò il dito medio in modo improvviso, facendolo scricchiolare.«La brutta notizia è che devo rimettervi a posto anche l'altro dito allo stesso modo»

continuò lei, tenendo saldamente la mano del giovane nelle sue per impedirgli di sottrarsi alle cure.

La seconda volta fu anche peggio della prima, perché Ian se l'aspettava. Si morse le labbra a sangue pur di non gridare e alla fine si ritrovò con le lacrime agli occhi per il dolore e la mano immersa nella ciotola d'acqua gelata, mentre Brianna gliela massaggiava con fare sapiente.

«Presto andrà meglio» lo rassicurò lei, aprendo il fagotto di tela che aveva con sé per estrarne un vasetto di unguento e alcune foglie. Asciugò la mano di Ian, la spalmò coscienziosamente con l'unguento, poi arrotolò le foglie intorno alle dita doloranti e fasciò il tutto con una striscia di tela. «Non togliete la fasciatura per un paio di giorni. Il dolore diminuirà molto prima del gonfiore».

«Grazie» mugugnò Ian.Lei lo sbirciò, notando il tono offeso. «Vi ho trattato troppo rudemente? Un cavaliere

grande, grosso e valoroso come voi?»«Cavaliere o no, fa male e voi non mi avete nemmeno avvertito» protestò il giovane a

mezza voce, per poi rabbonirsi davanti al sorriso ironico della donna. «Scusate, sorto un ingrato. Grazie, davvero. Sento che va già un po' meglio» disse con riconoscenza sincera.

«Domani andrà ancora meglio. L'importante è che stiate attento a come usate la mano. Non fate sforzi per qualche giorno».

Mentre Brianna riponeva i medicamenti, Ian mosse cautamente la mano e vide che adesso riusciva a piegare almeno un po' le dita. Il polso era sempre dolorante, ma meno contratto.

«Mangiate qualcosa, adesso» gli disse Brianna e gli porse il pane e il formaggio.Ian annuì e, mentre mangiava, notò che a Martewall era stata cambiata la fasciatura

sul braccio ed erano serviti anche altri punti di sutura per chiudere la ferita riaperta.L'americano vide anche che l'inglese ricambiava il suo sguardo, di tanto in tanto, al di

sopra del falò, e capì che vi era un discorso sottinteso tra loro due, solo rimandato. Martewall l'avrebbe affrontato senza dubbio quando si fossero trovati soli e senza orecchie indiscrete intorno.

Ian non aveva dubbi su quale sarebbe stato l'argomento: le fasi concitate della fuga

non avevano consentito ai due improvvisati compagni di viaggio di scambiare troppe parole tra loro, ma Martewall sicuramente voleva dire la sua riguardo l'intrigo che Ian aveva messo in piedi davanti a William Lunga-Spada, invischiandovi fino al collo sia il conte di Salisbury sia i baroni di Dunchester.

Ha tutte le ragioni di farmi domande, gli ho ribaltato il mondo sotto il naso, pensò Ian e faticava ancora a credere di essere riuscito a tanto.

Passò forse una mezz'ora, durante la quale tutti i discorsi via via si quietarono. Gli abitanti di Willingham ottennero da Martewall tutte le informazioni che riuscirono ad avere, poi capirono che il giovane barone non voleva più parlare e non osarono più disturbarlo. In molti si sentirono a disagio a rimanere lì a fissare i due cavalieri mentre mangiavano e perciò ritornarono ai loro rifugi per riposare qualche ora prima dell'alba. Intorno all'accampamento vennero raddoppiate le sentinelle e alcuni ragazzi volontari si allontanarono per sorvegliare un ampio tratto di bosco e avvistare in anticipo gli eventuali nemici in arrivo. Intorno al fuoco rimase una decina di persone appena.

«Anche a voi converrebbe dormire qualche ora, almeno fino all'alba» disse Brianna a Ian.

«Non possiamo rimanere qui a lungo» rispose il giovane, di comune accordo con Martewall. «I soldati del re ci cercano e, anche se momentaneamente siamo riusciti a sviarli, prima o poi arriveranno fin qui. Molto meglio per voi se scompariamo prima che ci trovino».

«Ci basterebbe un cavallo per raggiungere in fretta il porto di Dunchester» intervenne Martewall.

«È il primo luogo in cui vi aspetteranno» obiettò Brianna.«Ma purtroppo è anche l'unico da cui possiamo fuggire con una nave. Glenhaven è

terra nemica e laggiù avremmo molte più difficoltà».La donna tacque, meditando. «Potrebbe scortarvi qualcuno del villaggio. Se arrivate al

porto come un gruppo di contadini per il mercato, sarà più facile passare i controlli. Potremmo travestirvi ad arte».

«Confesso che ci speravo, anche se non osavo chiedervelo» intervenne Ian. «Però sarà molto rischioso: chiunque voglia aiutarci, deve valutare attentamente i pericoli a cui va incontro».

Gli uomini rimasti intorno al falò si dichiararono disposti a tutto per aiutare Martewall a mettersi in salvo, ma Ian accolse le loro offerte temporeggiando per valutare i soggetti più affidabili. Non voleva mettere in pericolo chi, pur animato da buona volontà, non aveva forze sufficienti per affrontare un'eventuale situazione critica, ma nemmeno voleva affidarsi a chi, nonostante le parole spavalde dettate dal momento presente, non aveva avuto il coraggio di andare a combattere a Dunchester con i ribelli.

«Lasciateci pensare, per ora» disse il giovane a tutti. «Entro domattina decideremo cosa è meglio fare».

Martewall non aggiunse nulla, dando la sua silenziosa approvazione alla frase.Mentre la conversazione si divideva e proseguiva a gruppetti di due o tre intorno al

fuoco, Coda di volpe tornò, sbucando dal buio. «Non vi troveranno mai!» annunciò spavaldo, ripulendosi le mani e persino la faccia da una polvere scura dall'inconfondibile odore pungente di bruciato. «Tra le altre cose, ho sparso cenere per un bel tratto tutto intorno al villaggio. Se i cani arriveranno a mettervi il naso sopra cominceranno a starnutire come matti».

«Con la luce del giorno però i soldati si accorgeranno del trucco e prima o poi arriveranno fin qui, a chiedervi spiegazioni» obiettò Martewall.

«Per questo ho scelto solo la cenere più scura» si vantò il ragazzino, con aria fiera. «Entro domattina, si sarà già inumidita abbastanza da confondersi col terriccio del sottobosco e non si noterà più».

Il cavaliere dovette ammettere che era un buon stratagemma. «Sei un ragazzo sveglio» commentò.

Coda di volpe gonfiò il petto per la soddisfazione di quel complimento. Andò a sedersi accanto a Ian e a sua madre, divorato dalla curiosità. «Allora, raccontatemi: cosa è successo a Dunchester?»

«Niente che sia divertente da raccontare» replicò Ian cupamente. «L'assedio è costato molte vite e molto sangue».

Il ragazzino si fece serio. «Mastro Bull è ancora vivo, vero?» domandò. «Era partito con voi, ma non è tornato».

Ian si domandò come stesse il vecchio soldato, che aveva lasciato ferito a Dunchester. Con tutto quello che era successo non aveva avuto modo di rivederlo, però almeno aveva saputo da Daniel che non era in pericolo di vita, nonostante la ferita. «Spero che stia bene. È rimasto intrappolato con gli altri al castello».

«L'ultima volta che sono stato vicino a Dunchester, ho visto divise rosse e blu dappertutto» continuò il ragazzino, impressionato.

«E vero. Riempivano tutto il borgo tra le mura».«E voi come avete fatto a fuggire?»«Questi sono segreti che devi lasciare al padrone del castello, non ti pare?» Ian lanciò

al ragazzo un'occhiataccia ammonitrice. «Tu sei troppo curioso».Coda di volpe tacque per un po', poi si accostò di più all'americano, come per

confidare un segreto. «Non mi avevate detto che conoscevate il barone» sussurrò, approfittando del fatto che Martewall sembrava occupato a mangiare la sua razione di pane con gli occhi pensosi fissi sul fuoco.

Anche Ian sbirciò Martewall al di sopra delle fiamme del falò. «Anche questa è una storia lunga, ma non è il caso di raccontarla adesso».

«Voi non mi raccontate mai niente!» sbuffò il ragazzino, deluso da quella conversazione col contagocce.

«Non lo fa solo con te». La voce cupa di Geoffrey Martewall interruppe Ian e Coda di volpe, attirando la loro attenzione.

«Sir Ian è sempre molto reticente quando deve parlare di sé» continuò l'inglese, con una certa nota di sarcasmo. «E un uomo molto riservato. Il bello è che, quando apre bocca, rivela sempre cose sensazionali. Imprevedibili, oserei dire».

Ian notò che i pochi rimasti intorno al falò stavano smettendo di parlare tra loro per prestare orecchio alla conversazione del barone con il ragazzo. «Se parlo poco è perché ritengo che certe cose vadano dette solo quando è opportuno» intervenne in tono significativo.

Martewall colse l'ammonimento sottinteso e vi rimuginò sopra in silenzio.Coda di volpe invece era stato stuzzicato ancora di più nella sua curiosità. «Oh, io

sono certo che sir Ian sia un cavaliere sensazionale» continuò con sincero entusiasmo. «Ho visto cosa è in grado di fare! Combatte senza paura, come un eroe».

«Basta così, per favore» lo redarguì Ian, temendo gli sviluppi di quel dialogo, ma

Martewall si era già incupito pericolosamente. «No, tu non hai la minima idea di cosa sia in grado di fare davvero quest'uomo» rispose l'inglese al ragazzo. «E da temere. Molto più quando usa le parole di quando usa la spada».

«Io ottengo risultati parlando al momento giusto» ribatté Ian. «Mi pare che il mio ultimo discorso sia stato vantaggioso per tutti».

«Il tuo ultimo discorso è stato una somma di eresie». La sentenza colpì tutti per l'asprezza del suo tono.

Ian capì che non avrebbe potuto evitare la discussione. Martewall nutriva troppa rabbia e non sarebbe stato facile fermarlo adesso che aveva iniziato l'argomento.

L'americano sperò di riuscire almeno a tenerlo dentro un dialogo fatto per allusioni. «Non la pensava come te chi mi ha ascoltato, anzi, sembrava piuttosto colpito» obiettò. «Al punto di voler verificare se quelle "eresie" potevano diventare realtà».

A Martewall sfuggì un gesto nervoso. «Si pentirà di averti dato ascolto quando tu, in qualche modo, cambierai le carte in tavola e lo befferai come hai beffato me, io ne sono sicuro. Tu coinvolgi nel tuo gioco chiunque ti stia attorno, persino me».

L'accusa fece fremere Ian e gli accese un lampo nello sguardo. «Non c'è nessun gioco».

«Tu mi hai trascinato nei tuoi intrighi per i tuoi scopi» l'interruppe Martewall, ormai inarrestabile.

Ian fu sul punto di perdere le staffe. «E tu hai trascinato me e il mio compagno d'armi in una situazione ben peggiore, solo per la tua insensata vendetta. E colpa tua se ci troviamo a questo punto».

I presenti mormorarono, sorpresi e spaventati, sia nel sentire il tono della conversazione che saliva sia nell'udire Ian prendersi tanta confidenza con il barone di Dunchester, in quel discorso di sottintesi di cui stavano capendo ben poco. Anche Coda di volpe e Brianna spalancarono gli occhi.

Martewall stava fremendo di rabbia sempre più evidente. «Non era vendetta. Io...»«Tu, cosa? Osi dire che vuoi giustizia? Non ti conviene iniziare questo argomento. Io

sono sempre stato leale. Mi sono difeso e ho fatto ciò che dovevo in guerra. Non sono io quello che ha arruolato sicari per assassinare il nemico». Ian tentò con tutte le forze di dominare la collera. Non era quello il momento per una discussione violenta con Martewall, però il rancore covato per tutti quegli interminabili giorni di pericolo e di paura stava montando inesorabilmente, insieme alla voglia di avere finalmente soddisfazione per quanto patito.

«La parola "leale" non ti si addice. Non si è leali quando si nasconde parte della verità solo per i propri comodi» sibilò Martewall.

«E non si è giusti quando ci si ostina a ignorare parte della verità solo perché è spiacevole da sentire». Per Ian era sempre più difficile trattenersi. «Peccato che tu non abbia avuto lo stesso amore per la verità quando eri in Fiandra. Se tu avessi chiesto qualcosa in più al tuo amico Derangale, avresti scoperto prima le sue trame criminali».

«Non insultare un morto!» minacciò Martewall.«E tu non far pagare ai vivi i tuoi errori» lo zittì Ian. «Non è colpa delle vittime, se tu

ti sei trovato dalla parte dell'assassino. Sei diventato complice di un farabutto e di certo non sono stato io a spingerti. Incolpa te stesso, piuttosto, per essere stato tanto cieco».

L'inglese balzò in piedi, furioso. «BASTA!» esclamò e sguainò la spada con un movimento secco. «Vieni a parlare con la lama, maledetto!»

Intorno al fuoco, tutti sussultarono con un mormorio di spavento, e trattennero il fiato nel fissare l'arma che il cavaliere puntava verso l'altro. Coda di volpe quasi balzò in piedi. Brianna lo afferrò subito per un braccio, per tenerlo seduto accanto a sé.

Anche se dovette controllarsi con tutta la sua forza di volontà, Ian non abbandonò la sua posizione, seduto con i gomiti sulle ginocchia.

«Metti giù quella spada» ordinò a Martewall, fremendo.«Non voglio arrivare allo scontro con te, ho già visto troppo sangue in questi giorni».«Non mi spaventa vederne un po' di più, specie se si tratta del tuo!» ringhiò l'inglese

in risposta.Ian gli rivolse un'occhiata di avvertimento. «Non puoi uccidermi, rassegnati. Lo sai

cosa c'è in gioco e perché nessuno rischi io devo rimanere vivo fino alla meta. Quindi siediti e cerca di darti una calmata».

Martewall era furente, sapendo bene di essere con le spalle al muro. Continuò a brandire la spada, ma solo come sterile minaccia, senza poter compiere un qualsiasi, ulteriore gesto ostile. «Non darmi ordini» scandì, letteralmente infiammato dalla collera. «Posso essere costretto a seguirti, ma tu non sei il mio padrone! Sarò morto prima che io mi faccia dare ordini da uno come te, francese o no che sia».

Ian s'irrigidì, mentre tutti gli occhi si puntavano su di lui. Coda di volpe aveva avuto un trasalimento. «Francese?!» esclamò con voce quasi strozzata. «Non è vero!»

Ian non seppe come difendersi da quello sguardo che lo ferì e il suo silenzio fu un'ammissione che fece rimanere a bocca aperta il ragazzino.

«Vero, non vero: chi lo sa?» continuò Martewall, con rabbia che ormai andava oltre la prudenza. Prima si era lasciato sfuggire una parola di troppo, spinto dalla furia, ma ora aveva capito di avere almeno un'arma con cui ferire il suo interlocutore al posto della spada. «Cambia molte maschere costui e io non so ancora quale sia la sua faccia. Lui sostiene che sia quella di Jean Marc de Ponthieu».

I presenti ebbero sussurri scandalizzati quando Ian replicò, piano: «E la verità».Coda di volpe balzò in piedi, senza che sua madre potesse più trattenerlo. «Un

cavaliere francese!»«Un conte francese» rincarò Martewall. «Il suo presunto fratello è un feudatario

maggiore di Francia, parente di re Filippo...»«E vincitore a Bouvines, è questo che volevi aggiungere?» l'interruppe Ian di getto.

«Vuoi rimarcare meglio il fatto che io sia uno dei nemici che vi ha umiliati in guerra? L'estate scorsa, quando tu eri in catene, io sventolavo lo stendardo della vittoria».

Martewall si fece pallido, ma Ian si alzò in piedi, ora davvero furioso. «Perché non vuoi lasciarmi in pace?! Cosa vuoi da me, Martewall? Per quanto incomprensibile possa sembrarti, la mia esistenza sta salvando la tua famiglia e la tua gente. Ho salvato la vita persino a te, finora! Ma se vuoi davvero regolare i conti lasciati in sospeso da un bastardo morto che mi ha torturato a frustate, ha cercato di rapire mia moglie e di uccidere me, mio fratello e i miei amici, allora d'accordo: battiamoci ora e chiudiamo la questione!»

Gli abitanti del villaggio ebbero un moto di paura, nel vedere il cavaliere tanto infuriato e pronto alla lotta. Fecero un passo indietro precipitosamente, quando anche Martewall sollevò di nuovo la sua spada, accecato dalla sfida.

«Fermatevi! Basta!» Brianna si alzò per mettersi in mezzo ai due. «Avete nemici dappertutto, volete davvero battervi tra di voi? Che senso ha? Per ora siete nella stessa

situazione e perciò se volete uscirne vivi siete alleati, quindi lasciate perdere il resto. Regolerete i vostri conti più tardi. Visto che avete coinvolto anche noi nella vostra fuga, adesso non createci altre difficoltà».

Il rimprovero colpì Ian che, sia pure a fatica, tolse la mano dall'impugnatura della spada, sentendosi colpevole.

Anche Martewall, però, sembrò trovare un freno alla sua ira e si trattenne dall'andare oltre. Con un gesto esasperato rinfoderò la spada e abbandonò il campo. Non disse nulla mentre si allontanava nel buio.

Ian rimase accanto al falò, fissato da tutti.«E voi che avete da guardare?» sbottò Brianna. «Non avete mai visto un francese

prima di oggi? Be', io invece li conosco bene e vi assicuro che non hanno piedi caprini dentro gli stivali e non si trasformano con la luna piena. Perciò smettetela di fissarlo come se fosse il diavolo in persona. E un uomo come tutti gli altri».

Il discorso acceso troncò sul nascere qualsiasi obiezione. Gli ultimi rimasti intorno al falò si dispersero uno dopo l'altro, mormorando tra loro.

«Forse non proprio "come tutti gli altri"» commentò Brianna a mezza voce, gettando un'occhiata a Ian.

Il giovane non rispose.. Stava sostenendo lo sguardo accusatore di Coda di volpe e si sentiva sempre più a disagio.

«Perché non me l'avete detto? Mi avete ingannato» accusò il ragazzino, a pugni stretti.«Beau, ascolta...» provò Ian.«Io mi chiamo Coda di volpe!» scattò il ragazzo e scappò via prima che Ian potesse

tentare qualsiasi giustificazione.Brianna si sedette in silenzio accanto al falò, sulla pietra dove stava prima. Ian fece

altrettanto, mortificato. Per qualche istante si sentì solo il crepitare del fuoco.«Et donc, vous étes franrais17» disse infine Brianna, alzando gli occhi per indagare a

fondo il giovane che le stava accanto.Ian si scostò i capelli dal viso, stancamente. «Oui. Pardonnez-moi, si je ne votis l'ai

pas dit.18»«Parlate sassone, bel cavaliere. Non sono poi così brava nella vostra lingua»

l'interruppe Brianna con un mezzo sorriso ironico. «Mathieu mi parlava nella mia. Era abbastanza bravo, lui, anche se certo non come voi. Non conosceva tutte le parole e il suo accento francese si sentiva molto. Voi invece avete solo una strana inflessione, diversa dalla nostra».

«Volevo dirvi che mi dispiace di aver tenuta nascosta la verità» ripeté Ian, tornando all'inglese. «Non volevo ingannare nessuno, tantomeno Beau, dovete credermi. Volevo solo evitare guai inutili».

Brianna annuì, mentre gettava pensosamente un ramo nel fuoco. «So cosa significa essere accolti con ostilità e io sono una semplice donna senza valore. Voi invece siete addirittura un uomo importante, a quanto pare».

«Vorrei non esserlo e di sicuro non mi sento tale» replicò Ian, guardando a terra.«Ma lo siete e non potete cambiarlo. Siete uno dei vincitori della guerra, per giunta.

Molti cavalieri inglesi sarebbero pronti a incrociare la spada con voi per questo».«Tutti i cavalieri inglesi, temo» sospirò Ian. «Per questo volevo che nessuno sapesse

17 «Allora, siete francese».18 «Sì. Perdonatemi se non ve l'ho detto».

chi sono. Non ero venuto per combattere».«Ma per cercare il vostro amico, lo so bene» terminò Brianna. «Anche lui è francese

come voi?»«No, è un sassone delle isole del nord. Ma per me è come se fosse un fratello».«La storia che avevate accennato giorni fa, ora credo di averla capita» continuò

Brianna. «Lo sceriffo di cui parlavate era un amico del barone».Ian annuì. «Sì. Tra noi c'è rancore da allora».«Eppure adesso siete alleati».«Non abbiamo scelta, se vogliamo salvare chi ci è caro dagli uomini del re».«Per questo andate in Francia?»«A cercare l'appoggio e l'aiuto di mio fratello, il conte Guillaume de Ponthieu».Brianna fece un'espressione di meraviglia. «Non avrei mai immaginato che voi foste

coinvolto in una trama così grande».Ian non disse niente. Rabbrividì di freddo, avrebbe voluto sfregarsi le mani davanti al

fuoco, ma il dolore alla mano sinistra glielo impedì. Se la strinse al petto faticosamente.Brianna si alzò. «Venite a dormire da noi» propose. «Sir Martewall non farà fatica a

trovare ospitalità per la notte, ma temo che voi non sarete bene accetto, dopo quanto si è saputo».

Ian scosse la testa. «Resterò qui, davanti al fuoco. Nemmeno vostro figlio mi accetterebbe ed è meglio che anche voi non abbiate più a che fare con un francese come me o vi renderò la vita ancora più difficile di quanto lo sia già».

«Ma si gela qui fuori» obiettò Brianna.«Sono solo poche ore da adesso all'alba. Mi arrangerò, non temete».Brianna si rassegnò ad assecondare il giovane. «Buonanotte, allora».«Buonanotte». Ian rimase solo davanti al falò acceso.Faceva davvero molto freddo, ma il giovane si costrinse a non badarvi. In silenzio

rimuginava su quanto era accaduto, sentendosi terribilmente solo, ora che la rabbia era svanita.

Brianna tornò senza preavviso. Portava in braccio una coperta grezza e si chinò a metterla sulle spalle di Ian. «Per tenervi un po' più caldo» spiegò con un sorriso sincero.

La premura confortò Ian. «Grazie» disse, riconoscente.Lei continuò a sorridergli mentre si allontanava nel buio.

***

La notte si fece fonda, il silenzio assoluto.Ian sedeva sempre davanti al falò, aggiungendovi legna di tanto in tanto. Teneva la

coperta ben stretta addosso, coprendosi anche le gambe che aveva avvicinato al petto.Pensava. Cupo, esausto, con gli occhi fissi sul fuoco.Rialzò la testa, quando Martewall arrivò dal buio. Raddrizzò le spalle, preparandosi a

un altro confronto, ma l'inglese si limitò a sedersi dall'altro lato del falò, aggiustandosi addosso una coperta simile a quella sotto la quale anche Ian cercava di scaldarsi. «Ho sentito in giro discorsi che non mi piacciono» disse a mo' di spiegazione per il suo ritorno. «Molti non gradiscono l'idea che tu sia francese e il buio della notte offre fin troppe tentazioni per i codardi. Meglio se non ti lascio solo e ti tengo d'occhio. Con me qui, anche le teste più calde gireranno alla larga».

«Potresti lasciarle fare, invece. Ti risparmieresti la mia compagnia e probabilmente qualcun altro ti risolverebbe lo sgradito problema della mia esistenza» replicò Ian freddamente.

Martewall gli lanciò un'occhiata irata al di sopra delle fiamme. «Io risolvo da solo i miei problemi, non ho bisogno che qualcuno lo faccia al posto mio. In ogni caso, purtroppo per me, sarebbe un problema molto maggiore se tu morissi, perciò sono costretto a fare in modo che non capiti. Almeno non prima che tu abbia mantenuto la tua parola di aiutare Dunchester».

«Ho la guardia del corpo, allora, posso dormire sonni tranquilli: tu mi proteggerai» commentò Ian, sarcastico. «Strano, prima non mi pareva che tu fossi così ben disposto verso di me».

«Prima ho perso la testa come un idiota, non accadrà più» rispose l'inglese, cupo. «Adesso devo solo pensare alla salvezza della mia famiglia».

Ian perse la voglia di fare dello spirito perché l'ansia nascosta di Martewall era la stessa che provava anche lui. «Io ho promesso di aiutare Salisbury e non Dunchester, di questo ti rendi conto, vero?» continuò, cupo. «La verità è che io posso offrire tutto ciò che è in mio potere a William Lunga-Spada ma è lui che tiene in mano le vite di chi ci è caro e può decidere di farne ciò che vuole quando vuole, nonostante tutto quello che posso promettere io».

«Lo so benissimo». Martewall annuì. «Ma non mi resta altro che il tuo stratagemma per sperare di salvare i miei, perciò sono obbligato ad assecondarti. Goditi quindi la tua vittoria su di me, tanto sai di avermi in pugno completamente. Sono persino costretto a ringraziarti per non aver detto davanti a tutti che sono tuo ostaggio: hai risparmiato almeno il mio onore».

«Ma tu credi davvero che mi interessi vendicarmi dite, con tutto quello a cui devo badare adesso?» replicò Ian, brusco. «Tu o il tuo onore siete gli ultimi dei miei pensieri, rispetto a ciò che può accadere a Daniel se tutti i miei sforzi falliscono».

Martewall tacque per gettare altra legna nel fuoco e l'osservò mentre bruciava.Qualcuno passò tra i rifugi ed entrambi i cavalieri ne seguirono le ombre con gli

sguardi. Nessuno tuttavia si avvicinò al loro falò.«Come hai fatto?» domandò alla fine Martewall, riprendendo il discorso. «Come hai

fatto a scoprire il segreto di Salisbury così, senza nemmeno aver mai incontrato il conte faccia a faccia prima di oggi? Chi ti ha passato informazioni che nemmeno noi baroni sapevamo? Voi Francesi avete spie tra di noi, non c'è altra spiegazione».

No, io ho una sfera di cristallo tutta particolare per leggere il futuro, pensò Ian di getto, ma sapeva di non poter dare una spiegazione del genere. «Che tu mi creda o no, non ho nessun informatore. Magari l'avessi: mi sarebbe stato utile in questi giorni, specie se con le sue informazioni avessi potuto scongiurare l'assedio» rispose. «Non posso affermare in assoluto che non ci siano spie francesi tra i baroni, questa è una cosa che anch'io ignoro. Se esistono, io di certo non ho contatti con loro e non avrei potuto averne, visto che sono stato tagliato fuori dal mondo per alcuni mesi».

«Già, dimenticavo. La storia della prigionia in mano alla banda di sicari» sbuffò Martewall. «Il tuo amico me l'ha raccontata».

«E tu farai bene a crederci, visto che è vera».Ancora una volta, l'inglese non rispose.Il suo sguardo diffidente irritò Ian del tutto. «Ascolta: io ho già sprecato abbastanza

fiato per raccontarti la verità su di me. Non ripeterò per la millesima volta le stesse cose. Peggio per te, se non vuoi convincerti. Vedrai con i tuoi occhi ciò che sono quando arriveremo in Francia».

«Temo che non mi basterà neanche quello, perché su una cosa sono d'accordo con Salisbury: tu sei una volpe che lavora ad alti livelli» replicò Martewall. «Sei bravo, molto bravo, forse troppo. Forse ti sopravvaluto: non puoi aver creato davvero un gioco di maschere così complesso, fino al punto di rendere in qualche modo complici tutti quelli che ti stanno intorno e l'intera corte francese, e quindi forse tutto ciò che dici è la pura e semplice verità. Io però non riesco a togliermi dalla testa la sensazione che tu stia prendendo in giro il mondo intero».

«Tieniti pure le tue sensazioni, non mi interessano. Adesso voglio riposare un po'» tagliò corto Ian, ma fece fatica a nascondere il disagio provocato da quell'ultima frase, poiché era vera.

Sto davvero ingannando il mondo intero, fingendo di essere ciò che non sono, si disse Ian con dolore e si sdraiò sotto la coperta per fingere di dormire. Pensò istintivamente a Isabeau e a Guillaume de Ponthieu: nemmeno loro conoscevano tutta la verità su di lui e non l'avrebbero mai saputa perché non poteva spiegargliela. Avvilito, arrabbiato, chiuse gli occhi cercando di togliersi dalla testa Martewall e le sue spiacevoli insinuazioni.

Capitolo 28Il sole non era ancora sorto, quando un cigolio di ruote svegliò Ian. Il giovane rialzò la

testa sentendo tutti i muscoli far male. Si era addormentato davvero, anche se forse per nemmeno due ore di fila. Il falò era ancora acceso ma il freddo gli era comunque penetrato nelle ossa e gli aveva irrigidito i muscoli. Ian li stirò faticosamente con una mezza smorfia, specie quando il movimento gli risvegliò il dolore alle dita, ancora gonfie.

Guardò Martewall e lo vide riprendersi da un torpore simile al suo, con la stessa fatica. Anche l'inglese alla fine doveva aver ceduto al sonno e alla stanchezza per riposare almeno un'ora.

Adesso il cavaliere stava guardando qualcosa alle spalle di Ian.L'americano si voltò e vide un carretto abbastanza maneggevole tirato da un cavallo

grigio. Era il carretto di Thomas Bull e Ian lo riconobbe, così come riconobbe il cavallo rubato a Glenhaven che aveva condotto lui fino a Willingham.

Sul carretto erano caricati due fagotti, ma soprattutto vi era seduto Coda di volpe, con un'aria imbronciata. Brianna conduceva il cavallo tenendolo per le redini.

«Siete pronti a partire?» domandò la giovane. «Non è prudente rimanere più a lungo, con il rischio che i soldati vengano a cercarvi fino a qui. Ormai si saranno persuasi che non siete andati subito verso la costa, quindi cambieranno direzione delle ricerche».

Ian si alzò in piedi, imitato da Martewall. «Brianna, cosa volete fare? Cosa significa quel carretto?» domandò con sorpresa ma anche con preoccupazione, intuendo la risposta.

«Metto in pratica il piano a cui avevamo già accennato» rispose lei tranquillamente e aprì il primo dei due fagotti rivelando alcuni indumenti. «Vi creo una copertura per arrivare

al porto facendovi notare il meno possibile. Reciteremo la parte della famigliola felice».

Tese gli indumenti ai due cavalieri, Martewall per primo. «Voi signore, sarete mio fratello minore: con i capelli corti come portate e sporcandovi il viso appena un po', potrete passare senza fatica per un contadino o un pastore, con rispetto parlando».

Sbalordito, Martewall si trovò in mano un cappellaccio di feltro, una casacca di pelli e di lana grezza e un mantello rattoppato.

Brianna era già andata da Ian, per mettergli in mano un'altra casacca rudimentale e un mantello col cappuccio. «Voi invece sarete il mio povero marito malato, abituatevi alla parte» continuò, non senza una punta di malizia.

«Un altro personaggio da recitare. Tanto, maschera più, maschera meno...» commentò Martewall a mezza voce.

Ian lo guardò male, ma parlò solo a Brianna. «Perché malato?» domandò, senza capire.

«Perché così, divorato dalla febbre che vi consuma, ve ne potrete stare sdraiato sul carretto e nessuno noterà quanto siete alto» replicò Brianna in tono leggero. «Se ci inventiamo una malattia abbastanza contagiosa, le guardie non si accosteranno al carretto a meno di venti passi, potete starne certo. un piano perfetto. All'ingresso in città diremo che siamo venuti a cercare il medico o il farmacista. Poi, appena saremo fuori dagli sguardi indiscreti, potremo andare a cercare una nave in partenza. Sono sicura che

sir Martewall non farà fatica a trovare un capitano disposto ad aiutarlo ad attraversare il mare».

Ian guardò la donna, poi il carretto e infine Coda di volpe, che lo ricambiò con uno sguardo astioso. Era chiaro che il ragazzino non condivideva affatto il "piano perfetto" ideato dalla madre e gli portava ancora rancore per la sua identità tenuta accuratamente nascosta.

Ian tese i vestiti a Brianna per restituirglieli. «No, è troppo rischioso. Se qualcosa va storto, i soldati se la prenderanno anche con voi e non baderanno al fatto che siete una donna e un bambino. Non voglio farvi correre un pericolo simile».

«Non sono un bambino e non ho paura dei soldati!» sbottò Coda di volpe. «Non mi lascio spaventare da così poco, io. Se voi avete paura di provare questo piano, non prendetemi a pretesto per rinunciare».

«Ragazzo» ammonì Martewall a sorpresa. Bada a come parli, suggerì il suo tono severo. «Lascia giudicare chi è coraggioso e chi è vigliacco a chi ha combattuto in guerra. Quando avrai conquistato anche tu il diritto di portare una spada, allora potrai distinguere il coraggio dalla paura e l'eroismo dall'avventatezza».

Coda di volpe si fece piccolo a quel rimprovero e non osò ribattere.«Vero, signora: questo piano è troppo rischioso. Nemmeno io posso permettere che vi

esponiate con vostro figlio a un simile pericolo» continuò poi Martewall.«Ma è l'unico modo per dare a voi qualche possibilità in più di farcela» ribatté

Brianna. «I soldati senza dubbio terranno d'occhio con particolare attenzione gli uomini che entrano in paese, siano essi da soli, in due o accompagnati da altri uomini che abbiano l'aria di saper combattere. Una famiglia con una donna e un bambino attirerà molto meno l'attenzione e non insospettirà le guardie all'ingresso del borgo».

Come Martewall, anche Ian scosse la testa. «No, troveremo un altro modo» tentò di opporsi.

«Ascoltate» insisté però lei. «Non c'è tempo da perdere in chiacchiere inutili: i soldati sono sulle vostre tracce e, dopo quanto hanno scoperto sulla vostra identità di francese, qui a Willingham sono molti meno quelli disposti ad aiutarvi, nonostante la compagnia di sir Martewall. Qualche incosciente potrebbe tentare un colpo di testa ai vostri danni, magari in città, e allora tutto sarebbe compromesso. Dobbiamo partire subito e dobbiamo fare come vi ho suggerito, non c'è una strada migliore».

I due cavalieri si guardarono l'un l'altro, restii ad assecondare Brianna. Purtroppo, le argomentazioni della giovane erano più che fondate.

«Hai avuto tu l'idea di venire a cercare aiuto qui e di sicuro non è colpa mia se sotto le cento maschere che hai c'è un dannatissimo francese» disse Martewall con una mezza smorfia, ma il suo tono era solo apparentemente sarcastico e nascondeva invece una sincera preoccupazione per la coppia di madre e figlio che stava per essere coinvolta nel piano di fuga.

Ian esitò ancora, pur sapendo di avere poca scelta.«Portateci via da qui, magari in Francia» tentò di convincerlo Brianna. «Non abbiamo

più niente per cui restare, solo violenza e soprusi. Voi siete conte e quindi un uomo di potere, basterà la vostra parola per trovarci un luogo tranquillo in cui ricominciare la nostra vita, lontani dalla cattiveria degli uomini».

C'era una nota di dolore nella voce ferma della donna e Ian provò compassione per lei e per la vita difficile che aveva dovuto affrontare fino a quel momento.

«Vorrei che bastasse la mia parola per proteggervi dalle maldicenze, ma io temo che in Francia sarete comunque trattati da estranei» rispose con dolore.

«Non come qui in Inghilterra» replicò Brianna, amara. «In questi anni nessuno ti perdona l'aver fatto un figlio con un francese e la verità, prima o poi, mi raggiunge sempre».

Lo sguardo di Martewall tradì un lampo di sorpresa, ma Brianna lo sostenne a fronte alta, senza mai distogliere gli occhi.

Coda di volpe, invece, aveva abbassato la testa.«Perché mostri vergogna?» lo apostrofò però Martewall. «Non sai distinguere

l'inimicizia dal disonore? Se tuo padre non era un criminale, non hai motivo di vergognarti di lui, anche se era un nemico francese».

Il ragazzino rialzò la testa di scatto. «Mio padre era un cavaliere e non un criminale».«Un motivo in più per portargli rispetto» sentenziò Martewall e Ian vide in lui per un

attimo il riflesso del padre Harald. In quel momento Geoffrey Martewall dimostrava la stessa intransigenza del genitore e Ian non fece fatica a immaginarsi la versione giovanile di sir Harald, come doveva essere stato quando aveva trent'anni. Decisamente, Martewall era il frutto compiuto del vecchio barone, per aspetto e insegnamenti.

Coda di volpe non aveva aggiunto nient'altro, colpito dal rimprovero.«Allora, vogliamo andare?» esortò Brianna. «L'alba sta per arrivare, meglio sparire

prima che si svegli tutto il villaggio».Martewall iniziò a indossare sopra la livrea i panni che la giovane gli aveva porto. Ian

lo imitò di malavoglia, restio a esporre Brianna e Coda di volpe a tanto rischio, ma ugualmente consapevole di dover approfittare dell'occasione se voleva tornare in Francia al più presto e trovare rinforzi che lo aiutassero a salvare Daniel.

Un'altra idea, sia pure spiacevole, lo aveva convinto ad assecondare Brianna: la consapevolezza che presto l'Inghilterra sarebbe stata percorsa dalla guerra civile.

Forse posso tenere Brianna e Beau lontani almeno da quel pericolo, si consolò Ian, ma con una certa ansia.

***

Si misero in cammino spediti, prima ancora che il sole sorgesse; su consiglio di Brianna non salutarono nessuno e si allontanarono in fretta, quando ancora il villaggio era addormentato.

Gli unici che li videro partire furono i compaesani di guardia nel bosco, che rimasero completamente sorpresi. Uno di loro corse al villaggio, ma se anche andò a diffondere la notizia, nessuno degli altri abitanti si svegliò in tempo per assistere alla partenza.

Brianna non si voltò indietro nemmeno una volta.Percorsero più di metà cammino nel pieno del bosco, a passo spedito, seguendo un

sentiero sconnesso, con i sensi tesi a captare qualsiasi movimento o suono allarmante.Fortunatamente la bassa temperatura aveva reso il terreno durissimo e sulla strada non

rimanevano quasi segni del passaggio del piccolo veicolo. Solo gli zoccoli dei cavalli scalfivano il fango solidificato. Gli stivali invece non lasciavano alcuna orma.

Per non affaticare inutilmente il cavallo, Ian e Martewall fecero tutto quel tratto di cammino a piedi, con le spade pronte sotto i mantelli grezzi in cui si erano avvolti. Martewall aveva il cappello calato sulla fronte per fare ombra al viso e non essere

riconosciuto da lontano, Ian si era alzato il cappuccio del mantello sulla testa.Nessuno parlò per un bel pezzo, nemmeno Coda di volpe, che si era seduto sul retro

del carretto e guardava costantemente indietro, giocherellando nervosamente con la fronda strappata a un cespuglio.

Il sole era sorto da un po' quando Martewall fece fermare il carretto nel mezzo della boscaglia. «Siamo quasi alla strada principale. Meglio non correre rischi e dare un'occhiata, prima di procedere oltre allo scoperto».

Ian fu d'accordo. «Vado a fare una ricognizione» propose, ma fu superato sgarbatamente da Coda di volpe, balzato giù dal carretto.

«Vado io» disse il ragazzino a Martewall, senza rivolgere una sola occhiata a Ian. «Sono stanco di questo viaggio noioso e comunque io passo più inosservato».

«Fa' attenzione» si raccomandò Brianna, ma Coda di volpe non si voltò nemmeno indietro prima di sparire tra i cespugli.

Brianna sospirò. «Ce l'ha con me. Gli ho praticamente imposto di venire, anche se lui non vuole abbandonare l'Inghilterra».

«No, è arrabbiato con me perché gli ho nascosto la verità» disse Ian, amaro.«Direi che è un buon modo per cominciare il viaggio» commentò Martewall,

guardando entrambi. «Siete sicuri che non si metta nei guai? Un ragazzo arrabbiato di solito è anche un ragazzo molto imprudente».

«Spero di no», disse Brianna «ma a me non dà ascolto».«Tu non provare neanche a seguirlo o peggiorerai le cose» disse Martewall a Ian, già

sul punto di intervenire. «Possiamo solo aspettare che torni e mostrare di avere fiducia in lui».

Ian non obiettò e si rassegnò a restare al suo posto.Trascorse una mezz'ora, poi Coda di volpe fece ritorno, appena un po' trafelato. «Non

c'è nessuno, ma sono passati da poco» annunciò. «Ci sono impronte di cavalli sulla strada e anche molto recenti. Andavano al galoppo e quindi hanno lasciato segni profondi anche se la terra è dura».

«Quanti erano? Hai potuto capirlo?» domandò Martewall.«Secondo me almeno una decina. Ma le impronte vanno in entrambe le direzioni della

strada: forse ci sono due diverse squadre di soldati».«Non stanno risparmiando forze per cercarci» osservò Ian e Martewall annuì. «Noi

però non abbiamo scelta se non andare avanti e raggiungere il porto».«Se sono appena passati, non torneranno indietro subito. Forse ce la facciamo a

percorrere la strada fino al bivio per il porto» intervenne Brianna.«Tentiamo» decise Martewall e riprese le redini del cavallo per condurre il carretto

verso la strada.«Sei stato un ottimo esploratore» disse Ian a Coda di volpe, mentre il ragazzo gli

passava accanto per tornare verso il fondo del veicolo. Coda di volpe gli lanciò un'occhiata arrabbiata eppure insieme incerta, ma poi non accorciò le distanze e andò a sedersi senza una parola. Ian nascose un sospiro e proseguì il cammino accanto al carretto.

Arrivarono sulla strada principale in una decina di minuti e, poco più avanti, Ian riconobbe il luogo. Era la stessa strada percorsa solo pochi giorni prima, quando aveva tentato di tornare da Thomas Bull e dalla carovana di Aversly per avvertirli dell'esercito del re, invece di raggiungere il porto di Dunchester.

Proseguirono lungo la strada per circa un'ora, carica di tensione, poi Martewall fece deviare il carretto per tornare nel bosco più fitto che cresceva ai due lati della strada. C'era un altro sentiero sconnesso tra gli alberi e il giovane lo conosceva: fece proseguire il cammino ancora un po' poi si fermò di nuovo. «Da adesso in poi c'è solo terra scoperta fino al porto» annunciò, nervoso. «Se vogliamo proseguire, dobbiamo mettere in atto la nostra messinscena e sperare che funzioni».

«Abbiamo forse altra scelta?» disse Ian.«Purtroppo no» replicò Martewall, calandosi ulteriormente il cappellaccio sulla fronte.In silenzio Brianna si sedette meglio sul carretto, aggiustandosi la gonna.Coda di volpe si mosse nervoso e scese sul sentiero. «E se ci sono i soldati lungo la

strada?»«Non devono esserci o non scamperemo mai ai loro controlli in piena campagna»

replicò Martewall. «Dobbiamo sperare di arrivare fino al borgo senza che nessuno ci fermi, poi ci occuperemo delle guardie all'ingresso».

Il ragazzino annuì, ungendo risolutezza, ma era bianco come la cera e tormentava il suo bastone nelle mani. Si allontanò di qualche passo nervoso, vagando per i cespugli come se cercasse il coraggio in mezzo alle foglie.

Martewall guardò Ian. «Cominciamo la recita» esortò. «Fammi vedere quanto sei bravo. Sdraiati nel carretto e cerca di essere un ammalato credibile».

«E tu fa' il bravo contadino» replicò Ian, piccato, ma si avvolse nel mantello per non intralciarsi nei movimenti e sali sul veicolo come gli era stato ordinato.

«Già che vi calate nella parte, siate anche un marito credibile» aggiunse Briarma con un sorriso malizioso, scavalcando il sedile per raggiungere Ian nel fondo del piano di carico e aiutarlo a sdraiarsi e a sistemare panni e mantello. Nel farlo si chinò si di lui e gli rubò un bacio dalle labbra.

Ian rimase completamente spiazzato da quel gesto. Sentì un gran calore sul viso e allo stesso tempo provò vergogna. Cercò di protestare, ma non trovò le parole.

«Non c'è niente di male in un bacio tra marito e moglie» gli disse Brianna, prendendosi gioco del suo imbarazzo e della sua sorpresa. «E poi rende più credibile la messinscena».

Lasciò Ian a rimuginare invano una qualsiasi obiezione e si sedette di nuovo alla guida, richiamando Coda di volpe che nel frattempo si era allontanato.

«Non posso baciare anche voi, mi dispiace: siete mio fratello, non sta bene» disse la giovane a Martewall, sbalordito dalla scena quasi quanto Ian.

Il cavaliere assunse di nuovo la sua espressione scontrosa. «Se avete finito con le smancerie di coppia, possiamo anche muoverci» disse, sbrigativo.

Ian avrebbe voluto rispondergli per le rime, ma lo trattenne l'arrivo dell'ignaro Coda di volpe. Ingoiò le parole insieme all'imbarazzo, ma si ripromise di mettere bene in chiaro un paio di cose con Martewall, non appena ne avesse avuta l'occasione.

***

Ebbero fortuna e non incrociarono un solo soldato del re nell'ultima parte del tragitto che li condusse al porto di Dunchester. Si era fatto ormai giorno pieno e lungo la strada c'era solo qualche raro viandante, per lo più boscaioli o contadini, che si dirigeva al mercato del porto o se ne stava allontanando dopo aver sbrigato le sue commissioni.

Nessuno salutò il gruppo con il carretto e nessuno si fermò a scambiare una parola; tutti proseguirono oltre frettolosamente.

Il clima freddo non invogliava né le soste né il cammino, nuvole grigie minacciavano pioggia o neve, ma soprattutto la notizia di quanto successo il giorno precedente, cioè la conquista di Dunchester da parte del re, teneva nelle case la maggior parte della popolazione e rendeva sospettosi tutti quelli che si trovavano per strada.

Dovendo compiere l'ultima parte del tragitto sdraiato nel carro, Ian passò il tempo a guardare le nubi e a tendere le orecchie per captare eventuali rumori che gli indicassero l'arrivo di qualche minaccia, ma non udì altro che il cigolare delle ruote.

I suoi compagni di viaggio non parlavano. Alzando lo sguardo Ian poteva vedere solo il dorso di Coda di volpe e quello di Brianna, accarezzato dalla fluida massa dei capelli color fuoco, fin oltre la cintura, addirittura fino ai fianchi...

Ian distolse gli occhi, sentendosi colpevole per aver anche solo guardato. Brianna era una donna molto bella, non poteva negarlo, ma quella semplice ammissione gli sembrò un torto fatto a Isabeau. Per giunta c'era stato quel bacio rubato. Ian si sentiva raggirato e confuso come un ragazzino e la cosa lo mandava su tutte le furie.

Nessuna donna era riuscita ad avvicinarsi a lui durante gli ultimi due anni e mezzo, nonostante più d'una ci avesse provato. Ian era rimasto orgogliosamente fedele al suo amore, pur essendo convinto di non poterlo riavere mai più, ed era fiero della sua decisione, fiero di appartenere a Isabeau e a lei soltanto. Adesso aveva appena scoperto di poter tornare da lei, forse era davvero sul punto di rivederla, e Brianna lo aveva colto di sorpresa con un gesto che non si sarebbe mai aspettato. Ian si sentì un idiota nel provare tanto imbarazzo per quell'inezia, per di più estorta contro la sua volontà, ma allo stesso tempo non poteva negare di aver provato in quel momento una sensazione fisica molto coinvolgente, oltre all'imbarazzo.

Come uno studentello al suo primo bacio, brontolò con se stesso e giurò che non gli sarebbe capitato mai più. Non avrebbe mai più abbassato la guardia in presenza di una donna, specie se quella donna era Brianna.

«I soldati non si vedono da nessuna parte. Forse hanno smesso di cercarvi» disse, rompendo il silenzio, Coda di volpe, in un tono che ne manifestava le speranze.

«Non credo proprio» ribatté Martewall, sempre a piedi accanto al cavallo. «Se non sono lungo la strada, hanno senza dubbio un motivo valido».

«Dite che ci stanno aspettando da qualche parte?» domandò Coda di volpe con più ansia.

«Senza dubbio. Non hanno bisogno di perlustrare ancora questa zona, l'avranno fatto durante tutta la notte. Ci staranno cercando verso l'interno adesso, ma di sicuro avranno lasciato truppe a sorvegliare tutti gli agglomerati urbani lungo il mare».

«Il porto di Dunchester per primo» aggiunse Ian, sollevandosi su un gomito per intervenire. «Sanno di me e quindi immagineranno che cercherò di tornare in Francia. Non lo posso fare senza una nave, perciò staranno presidiando tutti i porti con attenzione».

«Perché il fatto che tu sia francese continua a procurarci tante grane?» brontolò Martewall.

«Sei tu ad aver iniziato questa faccenda, quindi non scaricarmi addosso colpe che non ho» lo zittì Ian, infastidito. «Non sarei qui se tu non mi ci avessi portato e senza di me tu probabilmente saresti in prigione a Dunchester».

Il cavaliere inglese incassò la risposta senza obiettare oltre.Ian si accorse che Brianna e Coda di volpe stavano seguendo la conversazione in

silenzio nervoso e preferì abbandonare l'argomento prima di dire di nuovo qualcosa di troppo.

Si sdraiò e si rimise a guardare il cielo. Non avrebbe comunque avuto l'occasione di continuare a lungo la discussione perché dopo appena qualche minuto Martewall si fermò e disse: «Ci siamo. Ecco il porto».

Questa volta, Ian si risollevò abbastanza da sbirciare sopra il bordo del carretto.Rivide lo stesso panorama di alcuni giorni prima: la linea plumbea del mare, staccata

di netto da quella grigia del cielo, il piccolo agglomerato del porto alla sua destra e il maniero di Dunchester sul promontorio alla sua sinistra. Il castello era ancora avvolto nella foschia, nonostante il sole fosse già alto. Nel guardare le sue torri nere, Ian pensò a Daniel.

Anche Martewall aveva indugiato per qualche istante a fissare da lontano la sua casa, poi però aveva riportato l'attenzione davanti a sé. «Sono in tanti» disse, cupo. «C'è un'intera guarnigione laggiù».

Ian vide che sulla palizzata del porto c'erano molti uomini armati. Le sentinelle erano almeno il doppio del normale e non erano vestite con i colori dei Martewall ma con quelli di Murrow.

«Che si fa?» domandò il giovane, anche lui nervoso.Martewall ricominciò a condurre il carretto verso il borgo fortificato. «Tentiamo il

tutto per tutto. Anche rimanendo nelle campagne, prima o poi ci prenderebbero».Brianna si sistemò sul sedile per l'ennesima volta, nervosamente. «Lasciate fare a me.

Andrò dalle guardie a farci registrare e andrà tutto bene».«No» replicò Martewall. «Andrò io a registrare il nostro ingresso in città».«Ma sei impazzito?» esclamò Ian. «Quelli stanno cercando proprio te! Tanto vale che

ti consegni direttamente ai soldati».«È troppo pericoloso, signor barone» aggiunse Brianna con ansia.Coda di volpe guardò tutti uno dopo l'altro, con paura crescente.«No, è il modo migliore per non creare sospetti» replicò Martewall. «Cosa diranno le

guardie, se vedono arrivare una famiglia intera e l'unica donna va a sbrigare le incombenze burocratiche mentre gli uomini stanno a guardare? Il "signor marito" può anche essere ammalato e incapace di alzarsi dal carretto, ma io? Sono adulto e in perfetta salute: che scusa avrei per mandare "mia sorella" a parlare con le guardie al posto mio?»

Brianna tacque, sapendo che con buona probabilità le guardie si sarebbero insospettite. Nervose come dovevano essere in quel momento, avrebbero probabilmente insistito per fare dei controlli in più sulla famiglia di nuovi arrivati.

«Non si aspetteranno mai che io mi presenti di persona davanti a loro e comunque la maggior parte dei nemici non conosce la mia faccia» continuò Martewall, rivolto anche a Ian. «Molti non mi hanno mai visto e gli altri mi hanno conosciuto quasi tutti con l'elmo sul viso. Non è detto che mi riconoscano, specie ridotto come sono ora».

Ian dovette convenire che non era facile identificare a colpo d'occhio il cavaliere inglese, con il volto stanco e sporco, la barba non fatta e il cappellaccio calato sulla fronte. Certo, però, il rischio a cui Martewall si esponeva ed esponeva tutti rimaneva elevatissimo.

«Se qualcosa va storto...» esordì Ian, incerto.

«Allora, Dio ci aiuti» concluse Martewall, senza mezzi termini.Il carretto si rimise in marcia verso il porto.

Capitolo 29Impiegarono una mezz'ora ad arrivare, ma a Ian parve un'eternità. Sdraiato sul fondo

del veicolo, poté vedere l'architrave della porta cittadina passargli sopra la testa e seppe che erano entrati nel borgo. Da sotto studiò le guardie armate fino ai denti che passavano sul camminamento di ronda e vide con mezzo sollievo che quasi tutte avevano gli sguardi puntati verso l'esterno a osservare la campagna. Qualcuna di loro lanciò un'occhiata al carretto e vi guardò dentro dall'alto, ma mai per più di qualche istante e comunque nessuna diede segno di allarme.

Ian, però, non osava provare sollievo. Entrare è stato facile, sarà andarsene da qui la cosa più complicata, pensò.

Si raggomitolò nel mantello, simulando un'aria ancora più sofferente, ma stringersi addosso i panni del suo travestimento lo aiutò soprattutto a controllare la tensione. Sentì la mano sinistra protestare con dolore a quello sforzo.

Il carretto si fermò. Ian capì che era arrivato il momento di registrarsi dalle guardie.«Tieni le briglie» sentì dire da Martewall a Coda di volpe. «Se si mette male, cercate

di scappare».O la va o la spacca, pensò Ian con il cuore che accelerava. Brianna lo raggiunse per

andare a sedersi al suo fianco. Gli prese la mano destra, stringendosi quasi a lui.«Non è il momento!» protestò il giovane sottovoce, sentendo risvegliarsi il senso di

disagio a quel contatto tanto confidente, ma poi si rese conto che la giovane lo teneva forte, tradendo la paura. Non aveva alcuna espressione maliziosa sul bel volto, anzi era pallida e aveva costantemente gli occhi fissi verso un punto preciso.

Ian capì che stava osservando da lontano le mosse di Martewall. «Che cosa sta facendo?» le domandò sottovoce, condividendo la stessa ansia.

«E in fila per registrarsi. Ha un contadino davanti» rispose Brianna con un filo di voce.

«Quanti soldati ci sono?» chiese ancora Ian per figurarsi la situazione. Avrebbe voluto portare la mano alla spada nascosta sotto i panni da contadino, ma Brianna continuava a tenergliela forte tra le sue. Con quel gesto gli chiedeva coraggio e Ian non se la sentì di negarglielo.

«Ci sono sette soldati» rispose Brianna. «Due sono seduti al banchetto, un terzo fa da gabelliere. Gli altri quattro scrutano i passanti».

Sono troppi per poterli affrontare apertamente, pensò Ian, preoccupato. Se ci scoprono non riusciremo a combattere.

Brianna gli strinse la mano ancora più forte. «Ecco, adesso è il suo turno!»Ian s'irrigidì, aspettando il peggio da un momento all'altro.Brianna non disse nient'altro per parecchio tempo. Ian stava quasi per domandare

informazioni, incapace di macerare oltre in quell'attesa, ma proprio allora la giovane si chinò su di lui. Aveva un sorriso sulle labbra, troppo tirato per essere sincero. «Resisti ancora un po', amore mio, presto potremo andare dal medico» disse a voce chiara, ma il tono era tremolante.

Ian capì che stava arrivando qualcuno e si tese ancora di più. Socchiuse gli occhi, si tirò il cappuccio del mantello sul viso come per ripararsi dalla luce e si raggomitolò ancora. Sopra il bordo del carretto vide comparire la faccia di un soldato vestito di rosso.

Ebbe un sussulto istintivo e Brianna lo assecondò prontamente, come se quel gesto

fosse un sintomo della febbre o della malattia. «Tra poco starai meglio, vedrai» gli disse e si chinò di più su di lui. Gli prese l'altra mano, quella sinistra, fasciata, gonfia e chiaramente contusa e fece in modo di esporla allo sguardo del soldato con apparente casualità.

Ian ammirò senza riserve la prontezza di spirito della giovane e la sua ammirazione crebbe ancora quando si rese conto che la mantella di lana che Brianna aveva sulle spalle non le si era aperta inavvertitamente, con il movimento, come sembrava a prima vista. Lo capì quando vide lo sguardo del soldato spostarsi dal malato alla casta scollatura della presunta moglie, sostando sul seno morbido e indubbiamente affascinante.

L'uomo indugiò a guardare sfrontatamente tanta bellezza, poi sparì dalla vista, senza più degnare di un'occhiata Ian dentro il carretto.

Il giovane ricominciò a respirare, quando udì di nuovo la voce di Martewall, vicina. «Ci sono cascati. Siamo liberi di andare».

Il carretto riprese a muoversi.Ian sentì Brianna sussurrare una preghiera di ringraziamento e infine rilassarsi.

Continuava a tenergli la mano, ma con molta meno forza di prima. Adesso però il suo seno era fin troppo sotto gli occhi di Ian e il giovane sentì il disagio ritornare prepotentemente.

Brianna dovette accorgersene perché si scostò un po' e si strinse di nuovo nella mantella, in apparenza per ripararsi dal freddo. Passata la paura, però, con il suo sguardo verde rivolse un'occhiata maliziosa a Ian, con l'aria di chi la sa lunga.

L'americano si rimise a fissare il cielo. «Ce l'abbiamo fatta, per ora» disse, cercando una frase qualsiasi per togliersi dall'imbarazzo.

«Così pare» rispose Brianna con un sospiro.Il cammino proseguì tra vicoli stretti in cui i tetti delle case quasi si toccavano e il

carretto passava appena. Quando trovò uno spiazzo lontano dagli sguardi dei soldati, Martewall fece fermare il gruppo. «Fin qui ci siamo arrivati» commentò, legando il cavallo a una staccionata. «Adesso cerchiamo una nave».

Ian poté finalmente scendere dal carretto e rimettersi in piedi. Lo fece con un senso di liberazione, come se il carretto fosse stato una gabbia fino ad allora. «Sai già a chi rivolgerti?» domandò a Martewall.

«Forse sì, ma devo andare da solo» gli rispose l'inglese. «Dovrò girare un po' e un'intera famiglia che si sposta da una parte all'altra del borgo non passerebbe inosservata. Meglio che mi aspettiate, mentre io trovo l'uomo giusto».

«Potrei aiutarti nella ricerca, se tu mi facessi sapere a chi devo rivolgermi» obiettò Ian, che in realtà non si sentiva affatto tranquillo a lasciare l'intera faccenda nelle mani dell'inglese.

«Potrei, ma poi tu come faresti a convincerli? I capitani a cui sto pensando mi conoscono: non si metterebbero mai in pericolo solo sulla base delle parole di uno sconosciuto, ma accetteranno di farlo se glielo chiederò di persona, spiegando la situazione. Spero di trovare almeno uno di loro alla locanda o ai moli».

«Sei sicuro che invece non ti tradiranno?» obiettò Ian, nervosamente.«Sì, per quanto si può essere sicuri della parola di un altro uomo».La risposta non tranquillizzò affatto Ian. «E noi cosa dovremmo fare nel frattempo?»

domandò il giovane, restio a cedere.«La famiglia felice, già che ci avete preso gusto» replicò Martewall con un mezzo

sorriso sardonico. «Fatevi un giro al mercato e cercate di non dare nell'occhio. Ci sarà molta gente quindi sarà più facile confondersi in mezzo a loro. Ci rivediamo là non appena avrò trovato ciò che cerco».

Non attese risposta e piantò in asso i suoi compagni di viaggio, scomparendo tra le case e i viottoli angusti.

Ian sospirò seccato. Aveva le mani legate, costretto a fidarsi del suo nemico, e la cosa non gli piaceva per niente. Cercò di tranquillizzarsi ripetendosi che Martewall non aveva alcun interesse a mettere in pericolo i suoi compagni di fuga, persino il più odiato di tutti, ma l'idea di dover rimanere ad aspettare con le mani in mano senza poter controllare di persona lo svolgersi degli eventi lo innervosiva.

«Ci muoviamo anche noi? Se rimaniamo qui impalati più a lungo attireremo l'attenzione» disse Brianna. Si stava legando un fazzoletto sulla testa, nel quale raccolse e nascose abilmente la lunga chioma rosso fuoco, per non farsi notare in mezzo alla gente. Terminato il lavoro, tolse dal carretto il fagotto rimasto, nel quale aveva riunito i suoi pochi averi, e poi prese sottobraccio Ian con un sorriso. «Che ne dite, signor marito? Andiamo al mercato?»

Il giovane non seppe sottrarsi a quel gesto scherzoso per timore di essere scortese.«Io vado a farmi un giro da solo» sbottò però Coda di volpe, chiaramente infastidito.

«Ci rivediamo al mercato più tardi».«Aspetta! Non allontanarti!» esclamò Ian, ma il ragazzino non si voltò nemmeno

indietro e scomparve per i vicoli.Brianna ebbe un sospiro addolorato. «Proprio non vuole calmarsi».«Si metterà nei guai» s'impensierì Ian, pur sapendo che Coda di volpe era abituato a

bighellonare da solo in qualsiasi luogo, per molte ore al giorno.«No, conosce la posta in gioco e starà attento» lo rassicurò Brianna, ma aveva una

voce molto triste. «Mi preoccupa piuttosto il fatto che sia tanto arrabbiato con me. Lo sto costringendo a venire in Francia, ma non so se vorrà rimanere. Sta diventando grande e io non posso più controllare le sue scelte. Per colpa mia ha sempre avuto una vita difficile: temo che, quando si stancherà, mi lascerà per proseguire la sua strada da solo».

«È arrabbiato, ma vi ama e non vi abbandonerà» la consolò Ian, colpito da quel discorso così amaro. «Non è un figlio ingrato. Potrete contare sempre su di lui, io ne sono certo».

Brianna annuì, ma non disse niente, persa nei suoi pensieri. Si riscosse solo per stringere un po' di più il braccio di Ian e imporsi un sorriso. «Facciamo un giro anche noi, volete?» propose. «Come se fossimo una coppia vera che fa acquisti al mercato. Lasciatemi fingere solo per un po' di essere ancora amata da un bel cavaliere francese. Non vi disturberò più con gesti impertinenti, ve lo giuro. Vostra moglie non avrà motivi di adirarsi con me».

Ian ebbe compassione di lei, della sua solitudine e del suo dolore, nascosti così bene dietro una maschera di fierezza. «Andiamo al mercato» le disse, sorridendo per confortarla, e le prese il fagotto dalle mani.

***

Si confusero facilmente tra la gente del mercato. Il porto di Dunchester era piccolo, ma in quel momento della giornata buona parte della popolazione era riunita proprio al

mercato per gli acquisti, soprattutto per il cibo e l'acqua. Non vi erano praticamente soldati in vista e i pochi presenti portavano ancora le divise nere dei Martewall. Sostavano lontani dalla gente, con facce cupe, e guardavano solo distrattamente il movimento del mercato.

Ian sapeva che il porto era stato occupato senza battaglia, prima ancora che le truppe del re ponessero l'assedio a Dunchester, e perciò non trovò strano che i soldati di quel borgo non fossero stati imprigionati come quelli che avevano combattuto al castello. I vincitori non erano abbastanza numerosi da controllare tutto il territorio e avevano altre incombenze più importanti a cui badare, specie da quando si era diffusa la notizia della fuga di Geoffrey Martewall. Così avevano lasciato i problemi di normale amministrazione e di ordine pubblico ai soldati in nero, arrogandosi invece il diritto di sorvegliare le mura del borgo e le vie d'accesso e di fuga, come le strade e i moli.

Al vecchio signore se ne sostituiva uno nuovo, ma buona parte delle organizzazioni del feudo rimaneva invariata, compresa la bassa manovalanza dei militari. Presto quegli stessi uomini avrebbero indossato nuove divise, non appena fosse stato deciso ufficialmente quale signore avrebbe avuto giurisdizione sul luogo.

Ian si sentì leggermente rassicurato quando capì che nessuno faceva caso a lui e a Brianna nella piazza del mercato. La gente andava e veniva frettolosa, senza guardarsi intorno, con facce preoccupate e timorose insieme. Come gli abitanti di Willingham, anche quelli del porto si chiedevano come sarebbe cambiata la loro vita, ora che i vecchi signori del feudo erano stati sconfitti. Temevano il dominio di Salisbury o di Murrow, come si teme tutto ciò che è ignoto, perché non sapevano immaginarsene le conseguenze.

Nemmeno i soldati in nero facevano caso alla gente che passava. Parlavano spesso tra loro a voce bassa e avevano sui visi le stesse preoccupazioni che si specchiavano nella gente.

Brianna condusse Ian tra i banchetti dei mercanti, fingendo di interessarsi alle merci. Sembravano davvero una coppia affiatata di marito e moglie, mentre lui portava il fagotto di tela e lei abbandonava il suo braccio solo per andare a curiosare più da vicino tra le merci esposte sui banchi. Nonostante la tensione del momento, Ian vide Brianna sorridere e ne fu felice. La giovane meritava un po' di sollievo dopo tutto quello che aveva passato. Si augurò che in Francia l'aspettasse una vita migliore, per lei e per suo figlio. Di certo, lui avrebbe fatto tutto il possibile perché fosse così.

Aveva giurisdizione su Montmayeur, avrebbe trovato una sistemazione adeguata all'esigua famigliola, decise.

Ricordò di avere ancora alcune monete nella scarsella, quelle rubate alla guardia del faro parecchi giorni prima. Nonostante tutto quello che era successo, non le aveva perse né aveva avuto bisogno di usarle. Pensò di farlo ora, per un acquisto spontaneo. Un mercante vendeva piccole formelle di pietra scolpite con immagini di animali beneauguranti, da appendere sulle soglie delle case. Ian ne trovò una raffigurante una volpe, fatta in modo particolarmente grazioso, e la comprò, approfittando del fatto che Brianna fosse a sbirciare su un altro banco.

Tese l'acquisto alla giovane, quando lei gli ritornò accanto. «Il primo pezzo della vostra nuova casa» le disse.

La giovane s'illuminò di gioia. «Grazie» rispose, tenendo la formella tra le mani. «Siete un uomo davvero adorabile. Dite a vostra moglie di tenervi ben stretto».

«Non avrà bisogno di preoccuparsi per questo» sorrise Ian. Brianna ricambiò il sorriso in silenzio.

«Mi avete preso in parola a quanto pare».Una voce vicina interruppe i due, facendoli voltare. Martewall li aveva raggiunti

attraverso la gente.«Quando dicevo di venire al mercato, non pensavo che veniste sul serio a fare

compere» continuò l'inglese, accennando ironicamente alla formella che Brianna aveva in mano. Da lontano doveva anche aver visto Ian mentre porgeva il dono alla giovane perché aggiunse: «Ci avete preso gusto davvero a fare la coppia felice, voi due».

«Che c'è, sei geloso?» lo rimbeccò Ian, piccato. «Se ti secca così tanto che lei stia in mia compagnia, avresti dovuto rimanere con noi invece di andare a fare l'agente segreto da solo». Martewall lo guardò senza capire. «A fare cosa?»

Ian si morse la lingua per non dire altre cose inusuali. «Lascia perdere» tagliò corto. «Hai trovato chi cercavi, piuttosto?»

«Sì. Ho avuto fortuna e ci ho messo meno del previsto. Il capitano su cui facevo più affidamento era proprio ai moli». L'inglese lasciò perdere il sarcasmo per farsi serio. Era chiaramente soddisfatto. «La sua nave ci aspetterà alla baia tra un'ora». Con il pollice indicò una direzione alle sue spalle, oltre la palizzata del porto.

«Perché non partiamo dai moli?» domandò Ian.«Perché il capitano mi ha detto che i soldati di Murrow stanno perquisendo tutte le

navi in partenza e controllano marinai e passeggeri uno a uno. Non riusciremmo mai a passare inosservati. Quindi il piano è questo: la signora e suo figlio s'imbarcheranno da qui, poi la nave prenderà il mare e verrà a raccogliere noi due alla baia. Non potrà arrivare troppo vicino alla costa, ma tanto tu sai nuotare, no?»

C'era di nuovo sarcasmo nell'ultima frase e a Ian venne voglia di rispondere per le rime. «Sì, nuoto meglio di quanto i tuoi uomini sappiano fare la guardia ai prigionieri».

«Allora non ci saranno problemi» concluse Martewall, fingendo di non aver colto la provocazione.

«Sei sicuro che questo capitano sia un uomo davvero fidato?» continuò Ian, con una certa apprensione. «Non vorrei che tra un'ora alla baia ci aspettassero gli uomini di Murrow al gran completo».

«Avrei avuto timori con qualsiasi altro, ma non con quest'uomo» replicò Martewall. «Lo conosco da molto tempo: è stato in guerra con mio fratello maggiore Richard, poi con la sua nave accompagnò l'altro mio fratello Peter in Francia e riportò indietro il suo cadavere. Non tradirebbe mai la mia famiglia. Piuttosto si farebbe ammazzare lui stesso».

La sicurezza dell'inglese era tale che Ian dovette accettarla. Non obiettò altro e lasciò che Martewall si rivolgesse a Brianna. «Dovete andare ai moli e cercare una mezza galea dalle vele grigie» disse il barone. «Chiedete di Ned Stone, è il capitano di cui vi parlavo. Lui vi aspetta già».

«D'accordo» annuì Brianna. Tese la mano a Ian perché le riconsegnasse il piccolo fagotto con i suoi averi e vi ripose dentro la formella di pietra.

«Dov'è il ragazzo?» domandò Martewall, guardandosi intorno.«In giro da qualche parte» rispose Ian, un attimo prima di essere distratto da alcune

voci concitate dall'altra parte della piazza del mercato.Spostò lo sguardo, come molti altri passanti, per capire l'origine di quell'apparente

alterco e individuò un uomo grasso accanto a un banco di uova e verdura. L'uomo stava battibeccando con un ragazzo tenuto saldamente per un braccio.

Ian riconobbe Coda di volpe. «Oh, no» mormorò.«Maledizione» fece eco Martewall.Brianna si era portata la mano alla bocca con ansia.Il mercante stava strattonando Coda di volpe, che lottava invano per liberarsi. Da

lontano non si capivano esattamente le parole, ma sembrava una discussione molto accesa.

«Tu resta qui, stavolta. Se ti riconoscono, siamo finiti» disse Ian a Martewall e si diresse a grandi passi verso il litigio, seguito da Brianna. «Cosa succede qui?» domandò al mercante, arrivandogli vicino da dietro.

«Madre!» invocò contemporaneamente Coda di volpe, con un misto di speranza e paura sul viso.

Il mercante si voltò ed ebbe quasi un sussulto nel trovarsi davanti Ian: reclinò il capo all'indietro per riuscire a guardarlo negli occhi, tanto il giovane era più alto di lui.

«Che cosa ha fatto il ragazzo?» domandò Ian, cercando di non avere un'aria minacciosa, che poteva solo peggiorare le cose, spaventando l'uomo.

Il mercante si riprese dalla sorpresa per stringere più saldamente il braccio della sua giovane preda. «Siete voi il padre di questo delinquente?» esordì con voce furiosa.

«No» dovette rispondere Ian.«Io sono sua madre» disse Brianna in contemporanea, preoccupatissima. «Che cosa vi

ha fatto mio figlio?»L'uomo si rivolse a lei, con le gote rosse per la collera. «Oggi ancora niente, ma l'ho

riconosciuto e gliela farò pagare! Due settimane fa mi ha rubato un cestino di uova ed è scappato in mezzo alla gente!»

«Non sono stato io, lo giuro!» si difese Coda di volpe con foga, ma Brianna lo stava guardando costernata. «Mi avevi detto che te le eri guadagnate aiutando il fattore ad accudire le sue bestie...»

Il ragazzino arrossì di vergogna e non seppe più cosa dire. «Avevo ragione io a dire che sei un delinquente!» lo apostrofò il mercante con rabbia.

«Sentite, cerchiamo di risolvere la cosa» intervenne Ian, lanciando nel contempo un'occhiata ansiosa tutto intorno. La discussione stava attirando gente ed era proprio l'ultima cosa che il giovane voleva. «Vi ripagherò io per le uova che il ragazzo vi ha rubato. Ditemi quanto vi spetta e chiudiamo la questione».

«Ah, no, non se la caverà con così poco!» rispose però l'uomo. «Merita una punizione esemplare, così gli passerà la voglia di rubare!»

«Andiamo: è poco più di un bambino» insisté Ian, sempre più sulle spine. «Vi pagherò il doppio del valore delle uova».

«Lo consegnerò alle guardie, altroché!» continuò il mercante, imperterrito. «Qualche giorno alla gogna e capirà di non dover più toccare la roba degli altri». S'incamminò, trascinandosi dietro il ragazzo con la forza.

«Madre!» invocò di nuovo Coda di volpe, spaventatissimo.Ian sbarrò la strada al mercante, questa volta con decisione. «Messere, per favore.

Lasciate andare il ragazzo e vi ripagherò» ribadì, a voce bassa ma terribilmente decisa.L'uomo si lasciò intimorire dalla statura del suo interlocutore e si fermò, incerto.A pochi passi di distanza, però, si fecero largo tra la gente due soldati in nero.

«Che cos'è questo baccano?» domandò il primo, imperioso.Ian si preparò al peggio, eppure cercò di mantenere il sangue freddo per non fare

mosse false. «È solo una lite per un cestino di uova, signori, perdonateci» rispose con il tono più remissivo che riuscì ad avere. «Sistemiamo tutto subito e non daremo più altro fastidio».

I soldati guardarono il mercante e il ragazzo tenuto pressoché in ostaggio.«Non sistemiamo un bel niente» disse però l'uomo, presa baldanza all'arrivo degli

armati. «Questo ragazzo è un ladro e io chiedo che sia giudicato secondo la legge».«Signori, vi prego...» tentò di insistere Ian, ma i soldati, già tesi per altri motivi, non

gli prestarono attenzione.«Che cosa ha rubato?» domandò il primo dei due e rivolse un'occhiata minacciosa a

Coda di volpe, che adesso tremava come una foglia.Ian capì di non poter più scongiurare il peggio, quando da lontano vide avvicinarsi tre

soldati a cavallo, provenienti da un vicolo laterale e con addosso le divise blu di Murrow. Con la coda dell'occhio, individuò anche il movimento di Geoffrey Martewall tra la gente. L'inglese si stava spostando rapidamente per essere preparato a intervenire.

«Siate pronta a fuggire» sussurrò Ian a Brianna e infilò la mano sotto il mantello, là dove teneva nascosta la spada. La giovane si strinse al petto il fagotto con tutte le sue forze.

«Il ragazzo viene con noi per accertamenti» aveva intanto sentenziato il soldato, dopo aver ascoltato le lamentele del mercante, esposte con dovizia di particolari.

«Mi dispiace, non lo posso permettere» disse però Ian ed estrasse la spada per puntarla alla gola del primo armigero.

L'uomo fu colto di sorpresa. Il suo compagno mise mano alla spada con qualche secondo di ritardo e Ian fece in tempo a intimare: «Non ci provate, io sono più veloce».

Entrambi i soldati si immobilizzarono.La gente aveva fatto un passo indietro, spaventata. Il mercante adesso era pallido

come un cencio.«Lasciate andare il ragazzo» gli intimò Ian, pur senza alzare la voce.Il mercante obbedì prontamente. Coda di volpe corse da sua madre col cuore in gola.

Brianna lo strinse a sé.«Andate via» li esortò Ian.I due indietreggiarono, cercando una via di fuga tra la gente, ma nel frattempo i

soldati di Murrow avevano notato la situazione critica e la spada sguainata che Ian teneva in mano.

«Altolà!» intimarono, spronando i cavalli in quella direzione.Martewall sbarrò loro la strada all'improvviso. Si piegò su un ginocchio, la spada

tenuta saldamente nella destra con la sinistra aperta e appoggiata col palmo dietro il pomo dell'impugnatura per fare pressione. Il primo dei soldati in blu stramazzò a terra insieme al suo cavallo ferito e travolse una bancarella con tutte le merci. Gli altri due dovettero far fare uno scarto alle loro cavalcature per evitare l'ostacolo improvviso, ma finirono per rovesciare altri banchi del mercato, tra le urla di spavento e di rabbia dei proprietari.

Nel caos che seguì, la gente cominciò a fuggire in ogni direzione, spaventata.Ian ne approfittò: ferì il soldato che teneva sotto tiro e lo gettò a terra con un calcio

violento, poi si occupò dell'altro.

«Scappate!» urlò Martewall da lontano, impegnato a fronteggiare gli uomini di Murrow.

«Mescolatevi alla folla, correte al molo!» disse Ian a Brianna e a Coda di volpe, prima di ricacciare indietro il soldato con cui stava combattendo.

I due non se lo fecero ripetere. Brianna prese suo figlio per mano e si voltò per fuggire. Dall'altra parte della piazza, però, stavano sopraggiungendo altri tre armigeri in nero e almeno due in blu, a cavallo.

Ian capì che stavano per essere circondati.Sono troppi, realizzò con sgomento, poiché anche Martewall era in difficoltà contro i

due avversari a cavallo rimastigli davanti. Il clamore, inoltre, avrebbe presto attirato anche tutti gli altri soldati di stanza nel piccolo borgo portuale. Non ce la faremo mai senza un aiuto, si disse ancora Ian.

Guardò gli uomini in nero. Ebbe un'idea. Pregò che fosse giusta.«MARTEWALL!» chiamò con tutta la voce che trovò in gola.Il cavaliere inglese si voltò di scatto, ma ugualmente di scatto si erano fermati tutti i

soldati con la divisa nera, increduli.Martewall guardò Ian da lontano e capì le sue intenzioni. Gettò via il cappellaccio, si

sbarazzò dei panni consunti che gli coprivano la tunica e la cotta di maglia.I suoi soldati lo riconobbero. Tre di loro, tra i quali quello che stava fronteggiando Ian

e quello che l'americano aveva ferito solo poco prima, si fermarono senza sapere che fare; gli ultimi due, però, alzarono le armi con un grido selvaggio e si rivoltarono contro gli uomini di Murrow.

I soldati in blu furono colti di sorpresa dall'improvviso voltafaccia. Uno venne disarcionato senza poter nemmeno accennare una prima difesa.

Nella piazza infuriò la battaglia.Il soldato in nero davanti a Ian abbandonò la lotta per fuggire, incapace di decidere da

che parte stare. Il compagno ferito fece altrettanto, non appena riuscì a rimettersi in piedi, e sparì in un vicolo. Soltanto i due più agguerriti rimasero ad aiutare il loro precedente signore, ma almeno Ian e Martewall si trovarono con due alleati in più ad affrontare molti meno avversari di prima.

Un soldato in blu si parò davanti a Ian, brandendo un'ascia dall'alto della sella del suo destriero. L'americano lo schivò, poi agguantò un orcio da una bancarella lì accanto e lo gettò sul muso del cavallo. L'animale nitrì di spavento, s'impennò e gettò a terra il suo padrone, poi fuggì scalciando per la piazza.

Ian si avventò sul soldato caduto e lo impegnò a duello prima che potesse rimettersi completamente in posizione di battaglia. Lo ferì, poi lo abbatté definitivamente. Ansando, si guardò intorno nella confusione che ora regnava dappertutto e individuò Brianna e Coda di volpe. Stavano cercando di fuggire, ma un armigero a cavallo sbarrava loro la strada. L'uomo puntò la spada contro Brianna, lei tenne il figlio dietro di sé per proteggerlo, ma non poté fare altro.

Ian corse in quella direzione più veloce che poteva. Nello stesso istante sentì il sibilo stridulo di una freccia passargli accanto e mancarlo di poco. Con un'esclamazione di rabbia e di spavento, si girò e vide un soldato armato di balestra che lo teneva sotto tiro.

L'americano si gettò dietro una bancarella, mandando a vuoto anche il secondo tiro. Ribaltò il pianale e vi si riparò dietro per riprendere fiato. Atri due dardi si piantarono nel legno con un rumore secco, prima che il balestriere venisse atterrato da un soldato in

nero, comparso alle sue spalle. Solo allora Ian ebbe un istante di tregua.Da dove diavolo è sbucato quel balestriere? si domandò tuttavia con angoscia e di

colpo realizzò che le divise blu nella piazza erano diventate più numerose. I soldati di Nigel Murrow, attirati dal clamore, stavano convergendo sul luogo della battaglia dalle strade laterali.

Ian augurò le cose più spiacevoli al barone adolescente, prima di rialzarsi in piedi per affrontare di nuovo i suoi armigeri con la forza della disperazione. Corse da Brianna e da Coda di volpe, ancora minacciati dal soldato a cavallo. L'uomo stava strattonando Brianna, trattenendola per un braccio, Coda di volpe tentava di impedirlo, ma la madre a sua volta lottava con tutte le forze per tenerlo lontano dalla spada affilata.

Ian piombò sul soldato dall'altro lato. Lo agguantò con la mano libera e lo trascinò giù dal cavallo. La mossa gli provocò un dolore lancinante al polso sinistro, ma Ian era troppo adirato per lasciarsi fermare. «Lasciali stare!» esclamò, sferrando al nemico un calcio in pieno ventre che lo lasciò svenuto sul terreno.

Il cavallo si agitò per scappare, ma Ian riuscì ad afferrare le redini in tempo per fermarlo. L'animale strattonò e gli causò di nuovo un dolore fortissimo alla mano ferita. Coda di volpe lo aiutò ad afferrare le redini e insieme i due riuscirono a bloccare il cavallo.

«Andiamo via!» esortò Ian, ansando, rivolto al ragazzo e a sua madre.Coda di volpe annuì, senza nemmeno riuscire ad articolare parola. Ian gli fece cenno

di montare in sella.Successe tutto in un lampo.«Attento!» esclamò Brianna.Ian sentì il sibilo della freccia troppo tardi per poter reagire. Brianna spinse suo figlio

di lato, poi urlò. Ian se la ritrovò di peso tra le braccia. Un altro sibilo e il cavallo scappò, impazzito, nitrendo di dolore.

«Madre!» gridò Coda di volpe.Ian afferrò Brianna prima che la giovane gli sfuggisse dalle mani per cadere a terra, la

cinse con il braccio intorno alla vita e sentì un calore bagnato scivolargli nella mano. Provò un brivido quando avvertì anche l'asta della freccia, che si era piantata nel fianco della giovane, sotto le costole.

Alzò gli occhi e vide un balestriere pronto a un terzo tiro. «Bastardo!» gli urlò furioso e gli scagliò contro la spada. Lo mancò, ma l'uomo dovette scansarsi per evitare la lama in arrivo e non poté tirare una seconda volta. Morì sotto il pugnale preciso di Martewall, che lo raggiunse al petto dopo una traiettoria perfetta.

Ian sosteneva il peso di Brianna che si era aggrappata al lui, prima con tutte le forze, poi sempre più debolmente. Il fagotto con le sue poche cose era sparpagliato per terra,; la formella di pietra giaceva in pezzi.

La giovane guardò Ian con gli occhi sbarrati, ma non emise un suono. Si afflosciò come un pupazzo.

«Madre!» ripeté Coda di volpe in lacrime, sconvolto.Martewall stava accorrendo. Si sbarazzò di un nemico a cavallo, ferendolo a una

gamba in modo da buttarlo giù di sella, poi dovette gettarsi quasi a terra per evitarne un secondo che sopraggiungeva al galoppo con la spada tesa come una falce. La lama gli fischiò sopra la testa, poi però il nemico cadde ucciso da una freccia.

Martewall si rimise in piedi, aiutandosi anche con le mani, e andò da Ian. «Santi del

cielo..!» esclamò a mezza voce, quando vide le condizioni di Brianna.I due soldati in nero che avevano combattuto per Martewall fino ad allora arrivarono a

cavallo, conducendo con loro altre due cavalcature, dopo averle sottratte ai soldati di Murrow abbattuti.

«Fuggite, signore! Ne stanno arrivando altri!» esclamò uno dei due, mentre il secondo teneva sotto tiro i nemici con un arco.

Il giovane barone guardò Ian con ansia. «Portiamola via» esortò, accennando a Brianna esanime. Montò agilmente su un cavallo e tese le braccia verso l'americano. Ian gli consegnò Brianna, poi corse al secondo cavallo e fece salire Coda di volpe prima di sistemarsi in sella dietro di lui, in modo da proteggerlo il più possibile con il proprio corpo, rivestito dalla maglia di ferro, almeno sul torace.

In un lampo, travolgendo tutto ciò che si trovava sul cammino, il piccolo gruppo si allontanò al galoppo dalla piazza del mercato.

Capitolo 30Fuggirono attraverso il borgo, cercando di confondere gli inseguitori tra i vicoli stretti.

I due soldati con le divise nere aprivano e chiudevano il gruppo per scortare e proteggere con maggiore attenzione il loro signore.

Seminarono panico e scompiglio lungo il tragitto, perché i passanti ignari dovettero gettarsi di lato o rifugiarsi nei vicoli laterali o nelle porte aperte delle case per non rimanere travolti dai cavalli al galoppo. Ian urtò una pila di ceste accatastate davanti a una bottega e le sparse per un intero vicolo, inseguito dalle urla di protesta del commerciante. Martewall evitò a stento la testa di un bue da tiro, comparso all'improvviso da una stradina laterale precedendo un carretto di verdure.

Giunsero alla porta del borgo opposta a quella da dove erano entrati e non rallentarono. I soldati di guardia non avevano udito il trambusto del mercato e nessuno aveva ancora portato l'allarme fino a loro, perciò erano del tutto impreparati a fermare il gruppo che arrivava in corsa sfrenata.

Ian vide due uomini armati di lancia spostarsi nel mezzo del portone aperto per fermare i fuggitivi, ma non aveva più una spada per poterli attaccare. Lo fece per lui il soldato in nero che lo precedeva, e con la sua lama falciò uno dei due uomini.

L'altro si scostò rapidamente per non finire sotto gli zoccoli del cavallo di Ian.Il gruppo uscì nella campagna come un tornado, senza mai voltarsi indietro.Il soldati di Murrow avevano necessariamente perso tempo per correre alle loro

cavalcature e lanciarsi all'inseguimento, ma dalla palizzata cominciarono subito a giungere frecce contro i fuggitivi.

Ian si chinò il più possibile su Coda di volpe per proteggerlo dai sibili che sfrecciavano intorno. Il soldato in nero che chiudeva il gruppo venne raggiunto a un braccio e gridò di dolore, ma si aggrappò al cavallo e riuscì a non cadere di sella.

Martewall spronò la sua cavalcatura e prese la guida del gruppo. «Di qua!»Fece deviare il cammino e abbandonò la strada principale per dirigersi verso una

macchia di boscaglia poco distante, che si estendeva quasi ininterrottamente verso l'interno del territorio.

Con una tale deviazione, il mare restava alle spalle del gruppo, ma Ian non obiettò. Aveva già capito che Martewall voleva per prima cosa fare perdere le tracce agli inseguitori nel folto del bosco per poi poter procedere con minor rischio verso la baia di cui parlava.

Speriamo che non sia troppo lontana, si augurò in silenzio.Si voltò indietro: dal borgo portuale era appena uscita una squadra di armati al

galoppo, che li stava già tallonando. «Arrivano!» avvertì, trafelato.A Coda di volpe sfuggì un gemito di paura.Anche Martewall si era girato indietro. «Più veloci!» esortò e s'inoltrò nel bosco.Il tragitto si fece più difficile e tortuoso. La boscaglia era fitta, umida e fredda. Il

debole sole dell'inverno s'intrufolava tra i rami nudi degli alberi stagionali e quelli ispidi delle conifere e dei sempreverdi, punteggiando il terreno di zone d'ombra e di luce, rendendo ancora più difficile individuare le buche e gli ostacoli.

Ciò nonostante i fuggitivi proseguirono senza rallentare, tenendosi bassi per evitare i rami degli alberi, e facendo deviare i cavalli con violenti strattoni alle redini ogni volta che un tronco o un cespuglio spinoso sbarrava loro la strada. Si voltavano costantemente

indietro, col timore di veder apparire gli inseguitori alle loro spalle. Non parlavano, risparmiando il fiato per quella galoppata affannosa. Il soldato ferito si reggeva in sella con tutte le proprie forze, stringendo i denti.

Poi, d'un tratto, Martewall si fermò nel bel mezzo di una zona irta di cespugli intricati. «Noi proseguiamo a piedi» annunciò e balzò giù di sella per lasciarvi solo Brianna, inerte e accasciata sul collo del cavallo. «Scendete e date le redini a loro» ordinò a Ian e Coda di volpe, indicando i due soldati in nero.

Il soldato incolume andò da Ian per ricevere le briglie del cavallo e in cambio gli consegnò la sua spada.

«Grazie» gli disse l'americano.«Non dimenticherò quello che avete fatto per me» aggiunse Martewall, rivolto ai suoi

uomini.«Buona fortuna, signore» gli risposero i soldati, poi ripartirono al galoppo, tirandosi

dietro il terzo animale.«Di qua. Presto, prima che arrivino gli inseguitori» disse Martewall e condusse il

cavallo su cui era rimasta Brianna verso la vegetazione più fitta, con cautela, per non spezzare neanche un ramo che potesse indicare ai nemici che il gruppo si era separato e anche per impedire che la donna ferita cadesse al suolo. «Badate a dove mettete i piedi e cancellate ogni traccia» aggiunse senza voltarsi indietro.

Ian spinse Coda di volpe davanti a sé per rimanere l'ultimo del gruppo. Si accertò che non fossero rimaste orme sul terreno duro, cancellò quelle che vide ed esplorò anche i cespugli con lo sguardo per cogliere eventuali foglie strappate o rami rotti. Aveva appena compiuto una trentina di passi nella direzione di Martewall, quando sentì il rimbombo inconfondibile di cavalli al galoppo. Si appiattì dietro alcuni cespugli, anche se, là dove si trovava, la vegetazione era così fitta da non lasciar vedere attraverso.

Gli inseguitori passarono nel punto esatto in cui il gruppo degli inseguiti si era separato e proseguirono galoppando dietro ai due soldati e al cavallo senza cavaliere.

Ian raggiunse Martewall, Brianna e Coda di volpe con una breve corsa. «Ci hanno oltrepassati!» annunciò.

«Speriamo che i miei uomini li attirino il più lontano possibile da qui» rispose Martewall, con gli occhi sempre fissi davanti a sé mentre camminava spedito. «E che riescano a salvarsi dalla cattura» aggiunse, piano.

Si voltò verso Ian, che gli si era quasi affiancato. «È stata una buona idea quella di rivelare loro la mia identità. Ci ha salvati da un brutta situazione nella piazza del mercato».

Ian fu colpito dal tono serio dell'inglese. Per la prima volta Martewall non gli aveva parlato con ostilità, sarcasmo o diffidenza. «Avevi detto che la gente del porto ti avrebbe aiutato, se ti avesse riconosciuto. Ho contato su quello».

Martewall annuì. «Sei stato pronto di riflessi».«Che cosa vuoi fare, adesso?» domandò Ian e lanciò uno sguardo preoccupato a

Brianna esanime.Martewall non rallentò il passo. «Dobbiamo arrivare alla baia e farci raccogliere dalla

nave di Stone, sempre ammesso che abbia potuto salpare. Non abbiamo scampo se restiamo sulla terraferma».

«Ma Brianna ha bisogno di cure». Ian sbirciò Coda di volpe, che camminava in silenzio, rigido. Aveva il volto rigato di lacrime.

Ian rallentò per farsi raggiungere e proseguì il cammino al suo fianco, mettendogli un braccio sulle spalle. Il ragazzino non si sottrasse. Ian lo sentì tremare in modo evidente. «Martewall, abbiamo bisogno di un medico» insisté.

«Non ce n'è, qui nei dintorni, e non potevamo abbandonarla al porto» rispose l'inglese, con il respiro affaticato per lo sforzo sostenuto fino ad allora. «Gli uomini di quel cane di Murrow potevano anche ucciderla sul posto o lasciarla morire dissanguata. Di certo, non avrebbero chiamato un medico per lei. No, dobbiamo raggiungere la nave. Stone e anche qualcuno dei suoi marinai hanno ricucito ogni genere di ferite quando erano soldati sui campi di battaglia. Sapranno cosa fare anche in questo caso, almeno finché non saremo arrivati a destinazione di là dal mare e potremo cercare un medico vero».

«Non possiamo almeno estrarre la freccia?» domandò Ian, sempre più preoccupato. Da dove si trovava poteva vedere l'impennatura e l'asta di legno spuntare dal fianco di Brianna e ondeggiare per il movimento del cavallo e quello del respiro della donna. La gonna della giovane era sporca di sangue ormai dalla cintura fino alla coscia.

«No, senza strumenti adatti rischiamo di peggiorare le cose e accelerare l'emorragia» rispose Martewall, cupo. «Fidati di quello che dico: dobbiamo arrivare alla nave».

Ma sei sicuro che Brianna ce la farà fino ad allora? avrebbe voluto chiedere Ian. No che non è sicuro, si rispose da solo. Sta sperando di fare in tempo, ma sa che se ci fermiamo saremo in pericolo tutti quanti.

Strinse più forte la spalla di Coda di volpe.«Acceleriamo il passo» lo esortò.Legarono Brianna al cavallo con una striscia del suo stesso vestito, per non farla

cadere, poi proseguirono di corsa finché poterono, incuranti dei rovi e dei graffi, confidando sul fatto che gli inseguitori ormai non potevano udire il rumore prodotto dai loro passi concitati e dallo sbattere dei rami piegati durante il tragitto.

Quando non ebbero più fiato rallentarono, ormai però il bosco si diradava per lasciare spazio a prati aperti. I cespugli erano meno frequenti, tra l'erba rigida affioravano rocce scure. Oltre la vegetazione si vedeva il mare.

«Siamo quasi arrivati» annunciò Martewall col respiro mozzo; fermò di nuovo il cavallo tra le ombre e i tronchi, prima di uscire allo scoperto. «Procuriamoci qualche ramo robusto» continuò. «Lei non può nuotare, dobbiamo costruirle un galleggiante».

«L'acqua sarà gelata, la ucciderà» si preoccupò Ian.«Saranno solo pochi istanti. Ci faremo gettare una cima dai marinai» replicò

Martewall. E comunque non abbiamo scelta, aggiunse il suo sguardo chiaro.Ian non obiettò oltre. Impugnò la spada e si diede da fare per cercare e troncare alcuni

rami abbastanza grossi. Dovette usare entrambe le mani per colpire il legno con forza sufficiente a romperlo e il dolore alla mano sinistra si fece presto insopportabile. Eppure il giovane non rallentò il suo lavoro. Con la coscienza chiara in testa di non avere tempo, strinse i denti e troncò molti rami, per poi gettarli a terra in un mucchio. Martewall fece altrettanto. Coda di volpe s'ingegnò a ricavare trecce di stoffa dal mantello di Ian, per usarle come corde.

In una mezz'ora costruirono una sorta di zattera flessibile, lunga poco più delle braccia aperte di un uomo ma sufficiente a ospitare quasi completamente una persona sdraiata. La arrotolarono su se stessa come una stuoia e la caricarono sul cavallo per proseguire il cammino nel prato aperto.

Ian si sentì totalmente indifeso in quel tratto di brughiera senza ripari. Con la luce

piena del giorno, chiunque avrebbe potuto vedere i fuggitivi da molta distanza e correre verso di loro altrettanto facilmente.

«Credi che possano raggiungerci? Abbiamo perso molto tempo per costruire il galleggiante» domandò Ian a Martewall.

«Spero che non ci riescano» ansò l'altro in risposta. «Ormai ci siamo. Manca poco».Ian tese la mano allo sfinito Coda di volpe per aiutarlo a proseguire, ma il ragazzino si

fece forza da solo e accelerò il passo nonostante la fatica, con la risolutezza di un piccolo soldato.

La brughiera cominciò a digradare. Arrivava a una piccola spiaggia di sassi e sabbia, nel centro esatto di una conca abbracciata dalle rocce. Nel mezzo della conca veleggiava una nave mercantile tozza e con le vele grigie, senza insegne distintive. Non si avvicinava alla riva a causa del fondale basso, ma sembrava in attesa di qualcosa o di qualcuno.

«Bravissimo, Stone! Al posto giusto nel momento giusto!» esultò Martewall con sollievo e si mise quasi a correre verso la spiaggia, per quanto gli fu concesso dalle ultime forze.

Anche Ian sentì un tuffo al cuore e allo stesso tempo provò gioia e ansia. Paradossalmente, la paura di essere raggiunto dai nemici era dieci volte più forte ora che la salvezza sembrava così vicina.

I fuggitivi arrivarono alla spiaggia in pochi minuti e lì Martewall si sbarazzò della cotta di maglia e di tutti gli indumenti inutili che potevano appesantirlo nel nuoto. Ian e Coda di volpe lo imitarono. Fecero un fagotto con gli abiti strettamente necessari, stivali e spade, e lo legarono alla zattera improvvisata con una treccia di stoffa, lasciando sulla spiaggia gli accessori inutili e le cotte, troppo pesanti per non creare impaccio al galleggiante. Ormai non avevano più motivo di nascondere le loro tracce: appena arrivati a bordo della nave, sarebbero stati fuori dalla portata degli inseguitori.

Martewall avanzò nell'acqua fino alla cintola e sventolò la livrea nera verso la nave come se fosse una bandiera di se gnalazione. Da bordo gli risposero agitando un panno di uguale colore.

«Forza!» esortò l'inglese, tornando di qualche passo verso Ian e Coda di volpe.L'americano mise i piedi in acqua, rabbrividendo fino all'ultimo capello, tanto era

gelida. Costrinse il cavallo a proseguire finché poté, in modo da poter immergere Brianna nell'acqua solo all'ultimo istante. Quando vide che l'animale diventava recalcitrante, si fermò e prese la zattera dalla sella. La srotolò e vi legò sopra gli ultimi rami, perpendicolarmente agli altri, per fare in modo che rimanesse rigida.

Martewall e Coda di volpe giunsero ad aiutarlo: mentre il ragazzo teneva fermo il galleggiante per impedire che si allontanasse con la corrente, l'inglese e Ian fecero scendere Brianna di sella. L'adagiarono sui rami intrecciati, assicurandosi che la struttura galleggiasse. La giovane non ebbe la minima reazione quando l'acqua gelida le inzuppò i vestiti e i capelli. Rimase inerte, con il capo reclinato di lato e la bocca socchiusa.

La freccia spuntava sempre in modo raccapricciante dal fianco, attraverso i vestiti intrisi di sangue, e tingeva l'acqua con un sottile filo rosso.

Martewall coprì Brianna con la livrea nera, per quanto il gesto fosse inutile a ripararla dal freddo. Ian legò alla zattera il fagotto con gli abiti e le armi e infine liberò il cavallo per farlo allontanare. L'animale tornò sbuffando verso la riva.

«Coraggio» esortò Ian rivolto a Coda di volpe, che come lui tremava vistosamente per

il freddo. «Dobbiamo fare in fretta, prima di congelare».La nave stava andando loro incontro. Fortunatamente le onde erano placide e basse e

non ostacolarono i nuotatori né la nave nella loro manovra di avvicinamento reciproco. Il percorso però era faticoso, specie perché i fuggitivi dovevano spingere avanti la zattera.

Trascorsero minuti estenuanti.Ian cominciava a sentire pesantemente la fatica della nuotata, oltre al freddo

intensissimo. Cercò di respirare in modo più profondo e regolare, ma le onde, anche se deboli, gli gettavano acqua sul viso costringendolo a chiudere gli occhi per il bruciore del sale.

Il giovane sentì Coda di volpe tossire a poca distanza da lui. Riuscì a voltarsi per vederlo annaspare in difficoltà e allungò la mano per prendergli un braccio. Non poté dirgli nulla poiché non aveva fiato a sufficienza, ma lo aiutò a rimanere in linea con la zattera.

Sfinito, spostò di nuovo lo sguardo sulla nave per calcolare la distanza che ancora li separava dalla salvezza. Sembrava infinita, come se l'imbarcazione non fosse altro che un miraggio immobile e irraggiungibile.

Ian stava per cedere allo sconforto, quando vide un uomo sul ponte della nave sporgersi per tendere un arco verso l'alto. Il marinaio scoccò una freccia, alla quale era legata una corda. Il dardo compì una curva nel cielo e andò a colpire l'acqua a sole poche bracciate da Martewall.

Con uno sforzo supremo, l'inglese raggiunse la corda prima che affondasse e tornò indietro per legarla alla zattera. Dalla nave cominciarono a tirare con forza.

Ian ringraziò il cielo, mentre la corda trascinava anche lui e Coda di volpe verso la nave insieme al galleggiante. Adesso arrivavano ben chiare e distinte le voci dei marinai che incitavano i nuotatori a non mollare.

Gli uomini della nave issarono i fuggitivi a bordo con braccia robuste, a partire da Brianna, esanime, e da Coda di volpe.

Quando Ian mise piede sul ponte, era così intirizzito da tremare come una foglia, senza potersi controllare. I marinai gli portarono subito una coperta e gli tesero anche una fiaschetta di liquore. Volentieri ne bevve un sorso, sentendo un benefico calore scendere nello stomaco. Coda di volpe tossì nel trangugiare il liquido, tanto era forte.

Martewall fu l'ultimo a salire a bordo e venne accolto da un uomo sulla cinquantina, alto e nodoso come un vecchio tronco. Sembrava asciugato dal sole e dal vento. Gli occhi scuri erano penetranti e decisi.

«Signor barone, abbiamo temuto per voi» esordì l'uomo. «Al porto è scoppiato il caos. Per fortuna noi avevamo appena mol lato gli ormeggi, ma tutte le altre navi sono rimaste bloccate al molo».

Martewall mise una mano sulla spalla dell'uomo nel riprendere fiato. «Ci avete salvato la vita. Non potrò mai ripagarvi adeguatamente per essere stato tanto pronto ed efficiente».

Il capitano Ned Stone guardò uno a uno i fuggitivi fradici, esausti e congelati e subito appuntò la sua attenzione su Brianna.

«Ha bisogno di cure immediate, ha una freccia piantata nel fianco» spiegò Ian con ansia.

Stone annuì. «Portate la donna sottocoperta» ordinò ai suoi marinai. «Anche voi. Andate a scaldarvi» aggiunse rivolto agli altri ospiti appena ripescati, prima di girarsi a

impartire tutte le istruzioni necessarie per prendere il largo.Ian seguì i marinai giù per la scala che portava nella stiva.La nave era simile a quella che Martewall aveva usato nel viaggio di andata, solo un

po' più larga e più tozza. Non aveva cabine ma un ampio vano sottocoperta in cui potevano essere caricati merci e animali. In quel momento la stiva era quasi vuota; poche casse di legno erano accatastate verso il fondo dell'ambiente e due cavalli erano legati dall'altro lato, sopra l'usuale strato di paglia. Altra paglia pulita era ammucchiata poco lontano. L'unica fonte di luce era il boccaporto aperto.

La temperatura era molto più accettabile là sotto e consentì ai fuggiaschi di togliersi di dosso anche gli ultimi abiti bagnati per stringersi nelle coperte. I marinai portarono con premura una camicia asciutta a Coda di volpe. Ian e Martewall strizzarono energicamente le brache prima di indossarle di nuovo.

Brianna fu adagiata su un soffice strato di paglia, preparato in fretta. Coda di volpe le si sistemò accanto come un cucciolo smarrito, incapace di dire una sola parola.

Quando Ned Stone scese la scala per occuparsi personalmente della donna ferita, portava con sé una ciotola d'acqua su cui era posata una scatola di legno contenente i medicamenti.

Ian e Martewall accorsero al suo fianco per aiutare e girarono Brianna sul fianco illeso, come ordinò loro il capitano. Quest'ultimo apri le vesti bagnate con un coltello, per scoprire la ferita. «Ci sarà da lavorare un po'» commentò cupamente.

«Vieni via da qui» disse Ian a Coda di volpe, cogliendo il suggerimento che il capitano gli rivolse con gli occhi.

Il ragazzino però rifiutò energicamente. «No! Voglio restare vicino a lei!» protestò con voce incrinata dal pianto.

«Ci spostiamo solo un po' più in là. Qui siamo d'intralcio al capitano che deve medicare tua madre subito» tentò di convincerlo Ian. «Non ci allontaneremo di molto, promesso».

Coda di volpe si lasciò condurre dall'altro lato della stiva senza opporre ulteriore resistenza, come se fosse stordito. Si sedette sul pavimento con Ian e obbedì meccanicamente quando il giovane gli disse di asciugarsi i capelli nella coperta.

Passarono molti minuti. Coda di volpe rimase seduto a lungo, nel rollio crescente della nave, senza mai staccare gli occhi dal capitano e da Martewall, chini su Brianna.

Fortunatamente, la schiena del barone copriva in parte la visuale e non consentiva di vedere cosa stesse facendo il capitano con le mani. Anche le voci erano basse al punto di distinguere con fatica le parole.

Ian guardava la stessa scena in silenzio e rabbrividì per Coda di volpe, quando Ned Stone gettò sul pavimento la freccia coperta di sangue appena estratta.

«Mi sento male...» gemette il ragazzo subito dopo. Balzò in piedi e scappò su per la scala che portava di sopra, agile come un gatto.

Ian lo seguì preoccupato.Sul ponte, trovò Coda di volpe piegato in due sulla murata, scosso dai conati di

vomito. Ian lasciò che si liberasse, sapendo che quello non era semplice mal di mare.Il ragazzino, infatti, gli si accasciò addosso piangendo disperatamente, non appena

trovò la forza di staccarsi dal parapetto. «... è tutta colpa mia...» singhiozzò e per molti minuti non seppe ripetere altro.

Ian lo tenne stretto per confortarlo.

«Tua madre ce la farà e tu non hai colpa di nulla» gli disse, piano. «Adesso calmati e sii forte. La stanno curando e presto starà bene».

Coda di volpe pianse tutte le sue lacrime, finché non crollò sfinito.«Torniamo di sotto, qui si congela» esortò Ian, accompagnandolo di nuovo verso la

scala che portava giù.Nella stiva i due trovarono Ned Stone a ripulirsi le mani nella ciotola dell'acqua, dopo

aver terminato il suo lavoro. Il capitano si asciugò in uno straccio infilato in cintura. «Non sanguina più» annunciò ai due appena arrivati. «Adesso, se non arriva la febbre, dovete solo tenerla al caldo fino a destinazione».

«Non possiamo accendere un fuoco qui...» obiettò Coda di volpe con un filo di voce.«Ci penso io. È il minimo che possa fare per lei» intervenne Martewall e appoggiò lì

accanto la coperta tenuta sulle spalle nude per chinarsi su Brianna e slacciarle i vestiti ancora fradici. Nel farlo alzò gli occhi su Coda di volpe. «Giuro su ciò che mi è più sacro che non intendo mancare di rispetto a tua madre» gli disse, serissimo.

Il ragazzino annuì, con un nodo in gola.Il cavaliere inglese spogliò Brianna fino al punto consentitogli dalla decenza e poi se

la sistemò in grembo, sedendosi in modo da appoggiarsi con il dorso alla parete della stiva e tenere la giovane contro il petto. Raccolse la coperta intorno a tutti e due e cinse la giovane con le braccia per scaldarla con il calore del suo corpo.

Coda di volpe si sistemò accanto a entrambi in silenzio. Ian intercettò Stone vicino alla scala. «Ce la farà?» gli domandò sottovoce.

«Non lo so» ammise il capitano, prima di salire in coperta. A Ian non rimase che andare a sedersi in un angolo e cercare di scaldarsi a sua volta sotto un panno di lana.

Capitolo 31La traversata sembrò a Ian ancora più lunga di quella fatta all'andata, quando aveva

trascorso tutto il tempo legato nella stiva della nave di Martewall. Forse era un'impressione originata dall'angoscia per la salute di Brianna, forse invece la nave era davvero più lenta a causa di correnti o venti contrari. Comunque fosse, il viaggio sembrò infinito.

Ian rimase sveglio per molte ore, seduto nel suo angolo in silenzio, a meditare su quanto accaduto.

Coda di volpe era crollato, sfinito, accanto a sua madre, ma anche Martewall aveva ceduto alla stanchezza e si era addormentato con la guancia appoggiata sul capo di Brianna, ancora inerte sul suo petto. La giovane non aveva mai aperto gli occhi, ma il movimento confortante della coperta sulle sue spalle indicava che respirava ancora.

Ian aveva guardato la luce del giorno spegnersi lentamente attraverso il boccaporto aperto e mangiò in silenzio quando i marinai gli portarono un po' di pane e formaggio, insieme a un boccale di birra.

Martewall continuava a dormire e perciò Ian fece lasciare ai marinai il cibo li accanto, per il barone e Coda di volpe, nel caso che si fossero svegliati entrambi.

Alla fine, il sonno ebbe il sopravvento anche su di lui e il giovane si addormentò quando la luna era già alta tra le nubi grigie e rade.

Si svegliò con il cielo che schiariva leggermente. Era l'alba.Martewall e Coda di volpe dormivano ancora, ma il cibo accanto a loro era stato

consumato, segno che i due si erano svegliati per rifocillarsi mentre Ian dormiva.Il capitano Stone si affacciò brevemente dal boccaporto. «Stiamo quasi per attraccare»

annunciò.Ian balzò in piedi e il suo movimento svegliò Martewall. «Dove siamo?» domandò

l'americano.«A Dunkerque» rispose Stone prima di sparire dalla vista.Dunkerque, nei territori fiamminghi al confine con Montmayeur, pensò Ian e fece un

rapido calcolo mentale.Prima della guerra quella zona apparteneva al conte Ferrand de Fiandre e Ian non

ricordava come fosse stata riorganizzata la zona dopo Bouvines. Il conte Ferrand era finito in carcere, poiché si era alleato con gli Inglesi e aveva rinnegato il suo giuramento di fedeltà a Filippo Augusto. Ian sapeva che il re francese, pur senza infierire sulla famiglia dello sconfitto, aveva preteso alcune zone del feudo come risarcimento per i danni di guerra, intendendo affidarne il controllo ad altri feudatari, per creare un nuovo assetto territoriale di quella zona.

Chiunque fosse il signore di Dunkerque adesso, Ian sapeva dalla Storia che quella regione non avrebbe più creato difficoltà alla Francia, almeno non così presto. Con quell'idea in testa si disse che finalmente il tempo della fuga, dei sotterfugi e della paura era finito. Erano in territorio amico, adesso, e Ian poteva finalmente fare qualcosa di concreto. Tanto per cominciare, sarebbe andato a cercare un medico per Brianna e a chiedere protezione pér i fuggitivi, forte del titolo nobiliare, che in terra francese gli dava una certa autorità, in qualsiasi feudo si trovasse.

Ian indossò in fretta i vestiti e gli stivali. Erano ancora umidi e lo fecero rabbrividire, ma il giovane non si fece rallentare da quel dettaglio. «Vestitevi, si scende» disse a

Martewall e Coda di volpe, che aveva riaperto gli occhi, confuso.Salì la scala e montò in coperta.Il porto di Dunkerque gli apparve davanti, accompagnato dai richiami striduli dei

gabbiani, già alti nel cielo ancora semibuio. L'orizzonte aveva appena iniziato a orlarsi di rosa e anche le onde mandavano brevi luccichii.

Il porto era imponente e ampio, come si conveniva a un'importante città commerciale. Molte navi erano ormeggiate ai moli e altre già manovravano per prendere il mare. Sull'agglomerato di case, magazzini e botteghe dominava una poderosa fortezza di pietra grigia, con torri ornate di stendardi.

La luce era ancora troppo fievole per consentire di distinguere i colori di quelle bandiere. A Ian sembrò che formassero molte righe, ma poi non riuscì a ricavare altri dettagli. Non poté capire a quale feudatario francese appartenesse quel blasone.

Poco importa, pensò. Conosco la maggior parte dei feudatari di questa zona: uno o l'altro non fa molta differenza.

Ned Stone gli si accostò. «Il barone mi aveva detto che da qui in poi avremmo dovuto fare affidamento su di voi».

«Parlerò io con le guardie del porto» annuì Ian, nell'allacciarsi la spada in cintura.La nave attraccò a un molo libero in pochi minuti. Ian balzò giù mentre ancora i

marinai ormeggiavano la nave alla banchina, assicuravano le cime con nodi sapienti e ammainavano le vele.

Percorse in fretta il molo e trovò quasi subito ciò che cercava: due soldati armati, con ampi mantelli a proteggerli dal freddo, erano fermi poco distanti dagli attracchi, a sorvegliare il via vai indaffarato di marinai, pescatori e mercanti, con bestie da tiro e da soma.

«Signori, vi prego, una grazia» esordì Ian in francese, andando direttamente dai soldati. «Su quella nave serve un medico per una donna ferita. Sapete dirmi dove posso trovarlo?»

I due armati si voltarono contemporaneamente verso di lui e sui loro volti, coperti in parte dagli elmi con la nasiera, si dipinse la sorpresa.

«Vi prego, è urgente» insisté Ian. «Se poi voleste anche indicarmi chi ha l'autorità su questo porto...»

«Signor conte... siete davvero voi?!» l'interruppe uno dei soldati. Aveva gli occhi sgranati per l'assoluta sorpresa e il suo compagno non era da meno.

«Il Falco d'argento... è un miracolo!» aggiunse quest'ultimo.Ian rimase ugualmente sbalordito nell'essere riconosciuto a quel modo, così a prima

vista. Osservò meglio i volti dei soldati sotto gli elmi normanni e si rese conto che forse li aveva già visti.

Ma dove? si domandò, perplesso.«Sì, sono Jean Marc de Ponthieu» si presentò poi per arrivare a capire il mistero.I due armati si inchinarono a lui profondamente. «Signor conte, quale miracolo!»

ripeterono. «Nessuno credeva più che voi foste ancora vivo! Vostro fratello non crederà ai suoi occhi quando vi rivedrà!»

Nell'inchino i mantelli dei soldati si aprirono leggermente e solo allora Ian riconobbe i colori delle loro divise: portavano le righe blu e oro in campo rosso del casato dei Ponthieu.

Al suo cuore mancò un battito.

«Mio fratello... è qui?» domandò il giovane, con un fremito nella voce, e contemporaneamente capì dove aveva già visto quegli uomini: erano tra i soldati che Guillaume de Ponthieu aveva portato in guerra.

«Sì, mio signore» gli rispose uno dei due. «Dunkerque è stata annessa a Montmayeur circa tre mesi fa. Adesso appartiene alla vostra famiglia». Con la mano indicò la fortezza che dominava il porto.

Ian riconobbe finalmente gli stendardi dei Ponthieu sulle torri e capì che il conte Guillaume aveva ripreso il controllo del feudo in sua assenza. Gli spettava di diritto, essendo il capofamiglia.

Ora Ponthieu era II, in quella stessa città, per una ragione a Ian ancora sconosciuta.«Da due settimane il conte sta riunendo qui navi e armati, per questo non è al suo

castello in Piccardia» spiegò il soldato, intuendo la sua perplessità. «Presto arriveranno altri rinforzi. Almeno così si dice alla rocca».

«Navi? Armati?» Ian trasecolava. «Per quale motivo?» «Nessuno ancora lo sa, signore. Sappiamo solo che queste coste non sono minacciate».

Quindi è una spedizione offensiva, dedusse Ian, ma contro chi e perché?«Vi scorteremo da vostro fratello immediatamente» propose l'altro soldato, ma Ian

rifiutò. «Prima cercatemi un medico e in fretta. Ho bisogno di lui urgentemente».«Sì, signore». I soldati corsero via.Ian tornò alla nave con tutti i pensieri in subbuglio.Non si aspettava di dover affrontare Guillaume de Ponthieu così presto, non era

preparato.Si era immaginato di avere modo di meditare sulle parole adatte da usare con lui,

credeva di avere tutto il tempo per farlo durante il viaggio dalla costa almeno fino a Chàtel-Argent, invece avrebbe dovuto improvvisare tutto subito.

Cosa gli dico adesso? si chiese in un momento di panico irrazionale, poi però si costrinse a calmarsi.

Durante il colloquio con l'abate di Saint Michel era andato tutto bene. Adesso doveva solo ripetere la stessa storia e aggiungervi quello che era accaduto dopo. La commedia aveva retto la prima volta, avrebbe retto anche la seconda.

L'idea di sottoporsi all'esame di Guillaume de Ponthieu gli faceva comunque molta paura. Allo stesso tempo però, il giovane si sentì riempire di emozione. Dopo due anni e mezzo stava per rivedere l'uomo che era diventato suo fratello.

Sono finalmente tornato a casa, pensò. Subito dopo, un altro pensiero gli provocò un sussulto al cuore. Posso riabbracciare Isabeau.

L'idea gli diede il capogiro. Adesso nessun ostacolo lo separava più da lei. Per andare a riferire la sua ambasciata al principe Luigi avrebbe dovuto arrivare a Parigi e Chatel-Argent era esattamente sul tragitto. Ancora un giorno di viaggio, forse due, e avrebbe riabbracciato il suo amore.

A Ian sembrò di essere più leggero, mentre percorreva a grandi passi la passerella che lo riconduceva alla nave.

Sul ponte ritrovò Martewall, appena risalito dalla stiva dopo essersi rivestito. «Abbiamo avuto fortuna, mio fratello è qui» gli annunciò senza tanti preamboli. «L'incontreremo tra poco e gli spiegheremo la situazione di Dunchester. Potremo iniziare la nostra missione prima del previsto».

«Meglio così» replicò il barone, ma aveva un'espressione molto scura mentre

guardava verso terra.«Qualcosa non va? Come sta Brianna?» gli domandò Ian, messo in allarme.Martewall distolse gli occhi dal porto per rivolgerli in quelli dell'altro cavaliere.

«Respira ancora, è tutto quello che so. Mi auguro che un medico possa aiutarla».«L'ho già fatto chiamare, presto sarà qui».«Molto bene».

Attirati dal movimento in fondo al molo, i due giovani si voltarono per veder arrivare soldati a cavallo e a piedi: gli uomini portavano i colori dei Ponthieu sulle divise e si disposero chiaramente all'attesa uno dopo l'altro. Ian capì che i due soldati incontrati poco prima al molo non avevano perso tempo prima di diffondere la notizia del suo ritorno e adesso le guardie del porto si stavano riunendo alla spicciolata dove avrebbero potuto rivedere il signore di ritorno dopo tanta assenza.

«Una discreta accoglienza per il padrone di casa» commentò Martewall.Un ufficiale arrivò a cavallo con una certa fretta. Smontò di sella, sali la passerella che

portava al ponte della nave e s'inchinò a Ian con deferenza. «Monsieur, bentornato» salutò in francese. «Siamo qui per scortarvi. Quali sono i vostri ordini?»

«Ci sono una donna ferita e suo figlio nella stiva, fate in modo che abbiamo tutte le cure necessarie. Vorrei che fossero ospitati alla rocca sotto le cure di un medico. Sono miei ospiti da trattare con particolare premura» spiegò Ian.

«Sì, signore» replicò l'ufficiale.«Un'altra cosa: gli uomini di questa nave... sono in debito con loro e voglio

ricompensarli. Per ora date loro alloggio, cibo, acqua e tutto ciò di cui possono aver bisogno, poi provvederò io stesso alla loro ricompensa».

«Sì, signore».Ian accompagnò l'ufficiale verso la stiva e si affacciò sul boccaporto insieme a lui.

Vide Coda di volpe ancora seduto accanto a Brianna e lo chiamò dall'alto. «Questo ufficiale e i suoi uomini ci aiuteranno a portare tua madre al sicuro» spiegò, tornando all'inglese. «Ho già fatto chiamare il medico e presto saremo tutti al sicuro alla fortezza del porto. Non devi più preoccuparti, d'accordo?»

Il ragazzino gli fece cenno di sì con la testa, guardandolo con occhi spauriti.Ian si rivolse all'ufficiale. «Sapete parlare la lingua anglosassone? Il ragazzo non

capisce la nostra».«Conosco qualche parola. Ci intenderemo» lo rassicurò l'uomo.«Perfetto» sospirò Ian, un po' sollevato.I soldati intanto erano saliti sulla nave. L'ufficiale spiegò loro cosa fare. Tre di loro

scesero nella stiva, altri due andarono a parlare con Ned Stone, facendosi largo tra i marinai che avevano sospeso i lavori per osservare la scena. Da lontano Ian vide il capitano della nave fargli un cenno di ringraziamento.

E adesso, andiamo da Guillaume, si disse il giovane, con un respiro profondo. «Seguimi» esortò, rivolto a Martewall, nel passargli accanto per scendere di nuovo a terra.

«Aspetta» lo bloccò l'inglese.Ian si voltò e vide l'altro cavaliere porgergli la sua spada con il braccio teso. L'arma

era nel suo fodero, solo allora Ian notò che Martewall non la portava allacciata in cintura.

«Sei tu il signore del luogo, io sono tuo ostaggio. Da adesso in poi sono alla tua mercé» continuò il barone.

Lo disse in tono molto cupo, ma senza astio. A testa alta accettava il suo destino.Ian capì fino in fondo la solennità del gesto e il sacrificio profondo. Lui stesso l'aveva

provato, anche se confusamente, giorni prima, quando la spada gli era stata sottratta la prima volta. Ora poteva mettere a fuoco davvero quel senso di menomazione provato allora: privarsi della spada era l'umiliazione più grande a cui un cavaliere potesse sottomettersi, il suo ridursi in servitù volontaria.

Martewall affrontava quella scelta consapevolmente, pronto a bere fino in fondo il calice amaro della sua sconfitta.

Fino a quel momento, Ian non aveva meditato seriamente sul vero significato di avere autorità su un ostaggio. Non ne aveva avuto il tempo e comunque era una cosa troppo lontana dalla sua mentalità moderna perché gli fosse chiara subito in tutte le sue sfumature.

Ora invece si rendeva conto che l'inglese gli metteva in mano la sua vita, che l'aveva seguito in Francia consapevole del fatto che Ian avrebbe potuto fare di lui qualsiasi cosa. Ricordò in un lampo anche una frase rivolta da Salisbury a Martewall al momento del congedo: «Se il conte di Ponthieu vorrà rivalersi su di voi, potrete solo accettare il vostro destino e sottomettervi».

Con quella frase entrambi gli uomini accettavano che Martewall fosse potenzialmente il capro espiatorio per tutto ciò che era accaduto fino ad allora.

D'istinto, Ian si ribellò. «No» disse deciso. «Tieni la tua spada. Io non voglio ostaggi né prigionieri. Muoviamoci, piuttosto, abbiamo cose più urgenti da fare».

Ignorò lo sguardo sorpreso di Martewall, si girò e percorse la passerella di nuovo imo al molo.

***

Dunchester stava tornando alla normalità. Dopo giorni di assedio feroce e di battaglie, ora il silenzio aleggiava su tutto il maniero.

Erano cambiati gli stendardi e le divise sulle mura e sulle torri, i servi andavano e venivano nel cortile, silenziosi e con le facce cupe. Mettevano in ordine ciò che la battaglia aveva sconvolto, ripulivano il terreno, portavano via gli oggetti sparsi ovunque. Di tanto in tanto alzavano gli occhi verso la torre in cui sapevano che sir Harald era stato rinchiuso.

Daniel poté uscire nel cortile con la luce del mattino pieno, sempre scortato dai soldati di Salisbury che non lo perdevano d'occhio un istante.

Non gli era stato ovviamente concesso di cingere una spada, ma aveva potuto lavarsi via di dosso i postumi della battaglia e persino indossare abiti puliti. Intorno all'ora di colazione i soldati gli avevano aperto la porta della stanza, annunciandogli che poteva raggiungere il conte di Salisbury a tavola.

Così il giovane era uscito nel cortile per andare nella sala grande, accompagnato dallo sguardo di tutti i presenti, vinti e vincitori.

Nella sala c'era gente, ma i commensali erano cambiati notevolmente. Ai tavoli erano seduti i cavalieri e gli ufficiali di Salisbury, di Murrow e delle truppe mercenarie. Anche l'atmosfera era molto diversa, adesso: gli uomini ridevano, vociavano e si vantavano

della vittoria ottenuta.Wlliam Lunga-Spada era fermo accanto al tavolo a cui nei giorni precedenti sedeva sir

Harald e stava redarguendo con asprezza alcuni ufficiali che gli facevano rapporto. Con gli uomini c'era anche sir Gorvenal.

«Non ci sono scuse! Pretendo che li troviate ovunque siano imiti!» lo sentì concludere Daniel, prima che gli ufficiali si allontanassero precipitosamente. Nel passargli accanto, sir Gorvenal gli rivolse un'occhiata silenziosa.

William Lunga-Spada notò l'arrivo dell'americano scortato dai soldati. Fece cenno agli armati di ritirarsi in disparte e rimase da solo con l'ostaggio.

«Ho dovuto strigliare un po' i miei uomini. A quanto pare si sono lasciati sfuggire sir Geoffrey Martewall e monsieur de Ponthieu. Sarà perché hanno setacciato la zona dalla parte opposta rispetto al porto». Ebbe un mezzo sorriso sornione, mentre lo diceva.

«Avete notizie certe?» domandò Daniel, ansioso di mettere a tacere la preoccupazione ché l'aveva tormentato tutta notte.

Salisbury lo invitò a seguirlo verso il tavolo, ancora più lontano dalle orecchie di tutti. «Sono arrivati al porto di Dunchester e hanno fatto perdere le tracce» spiegò. «Avevo lasciato apposta il controllo di quella zona a Murrow. Contavo sul fatto che i suoi uomini incutessero molta meno soggezione dei miei e così è stato. Sir Martewall ha potuto contare sull'appoggio di alcuni suoi fedeli che l'hanno aiutato a fuggire».

«Quindi hanno preso il largo?» Daniel non osava tirare un sospiro di sollievo.«Non ne ho la certezza, ma ritengo di sì».Daniel non disse niente e respirò per calmare la tensione. «Sir Hector?» domandò poi.«Mi risulta che non sia in pericolo di vita» lo rassicurò Salisbury.Meglio così, pensò Daniel e si ripromise di trovare il modo di scendere nelle segrete,

non appena avesse capito quale libertà di movimento poteva avere all'interno del castello.

Non si fidava di Salisbury e più aveva modo di parlargli meno si fidava. Non gli avrebbe permesso di manovrare tutte le pedine e per questo voleva mantenere i contatti con i cavalieri di Dunchester, per qualsiasi evenienza.

C'era già Hyperversum a manovrare la sua vita a capriccio, non avrebbe consentito ad altri di farlo, pensava Daniel, tantomeno a William Lunga-Spada. Qualsiasi cosa potesse escogitare l'inglese, avrebbe dovuto fare i conti con lui.

Rapidamente, il giovane passò in rassegna quelli che potevano essere probabili alleati all'interno del castello e gli venne subito in mente un nome.

Appena possibile, avrebbe cercato notizie anche di Thomas Bull, decise.Un movimento e il cambio di tono delle voci attirarono la sua attenzione verso il

fondo della sala. Spostò lo sguardo per vedere l'ingresso di Leowynn, scortata dalla stessa serva che l'accompagnava il giorno in cui aveva medicato le ferite sue e di Ian. Quest'ultima si guardava intorno con timore, specie quando gli uomini azzardarono apprezzamenti sulle due donne.

Leowynn, invece, procedeva con alterigia, a testa alta. Si era riparata il volto sotto un velo leggero e arrivò di fronte a Salisbury come se gli stesse facendo un favore. «Desideravate vedermi, milord?» domandò freddamente.

William Lunga-Spada sfoggiò il suo sorriso più amabile. «Volevo semplicemente invitarvi a fare colazione con noi, madonna. Consideravo un vero affronto costringervi a mangiare da sola nella vostra stanza come una reclusa. Spero che un po' di

conversazione vi aiuti a superare questo difficile momento».«Siete molto premuroso, milord, ma sono spiacente di non potervi accontentare»

replicò lei, gelida. «Non potevo prevedere il vostro gentile invito e perciò purtroppo ho già mangiato. Spero che mi perdonerete».

Il conte rimase leggermente deluso, ma accettò la risposta sempre col sorriso. «E un vero peccato. Potete comunque rimanere a onorarci della vostra compagnia».

Leowynn accennò un inchino leggero. «Mio padre mi attende, è l'ora della sua medicina. Comprenderete che non posso lasciarlo solo». Fece per congedarsi. «Con il vostro permesso».

«L'invito resta valido anche per il pranzo o la cena» le disse però Salisbury. «Spero che vorrete accettare».

«Lo farò con gioia» rispose la fanciulla. «Sempre se mi darà tregua il mal di testa che mi perseguita di recente. Voi capirete: sono stati giorni molto faticosi».

Il conte dovette accettare anche quella risposta senza obiezioni. «Certamente» disse. «Cercate di riguardarvi, madonna».

Leowynn s'inchinò di nuovo e s'incamminò per abbandonare la sala.Ecco una porta sbattuta in faccia con grazia impeccabile, pensò Daniel che aveva

assistito alla scena da breve distanza. Decisamente la ragazza aveva lo stesso carattere affabile di suo fratello.

Eppure una sfumatura nell'espressone di Leowynn sotto il velo gli fece capire che non c'era solo freddezza e orgoglio dietro il bel viso apparentemente impassibile.

Daniel si accostò d'istinto nel vederla passare. «Madonna, perdonate» esordì.Leowynn si fermò di botto e quasi trasalì. Si controllò ammirevolmente, ma aveva lo

sguardo vigile di una preda.E spaventata a morte, pensò Daniel con compassione. «Volevo solo sapere come sta

vostro padre» le disse.La fanciulla lo fissò sorpresa, ma poi si rilassò leggermente. «Abbastanza bene, vi

ringrazio».Daniel si accostò di un passo e abbassò la voce. «Vostro fratello è sfuggito agli

inseguitori, insieme al mio signore» le confidò. «In Francia sarà in salvo, state tranquilla».

Leowynn rimase in silenzio, assimilando quelle informazioni, poi accennò di nuovo un inchino. «Vi ringrazio per la premura, sir. Buona giornata».

Daniel s'inchinò per salutarla, mentre lei si allontanava.

Capitolo 32La fortezza di Dunkerque era un potente maniero poligonale, con alte torri quadrate e

una duplice cinta di mura, corredata da un fossato profondo. Sorgeva su un rialzo strategico del terreno e ai suoi piedi si estendeva una città vivace, fatta di case, botteghe, laboratori artigiani e locande. Anche qui, come a Glenhaven e al porto di Dunchester, quasi tutte le case avevano un vano a piano terra dove si svolgevano le attività commerciali e fervevano di vita. Le strade principali del borgo erano ampie, per consentire il passaggio più agevole di carri e carretti, ed erano gremite di gente variopinta e affaccendata, con ceste, canestri e fagotti di ogni tipo e dimensione.

Dentro la prima cinta di mura della fortezza, invece, andavano e venivano soldati in uniforme e servi indaffarati. Ian riconobbe i colori dei Ponthieu sulla maggior parte degli armati, ma non solo: molti altri portavano la divisa bianca e azzurra dei Montmayeur, con il Falco d'argento sul petto, mentre altri ancora, meno numerosi, avevano una divisa blu con una banda bianca in diagonale.

Lo stemma dei Sancerre? si stupì Ian, notando quelle divise, e riuscì a spiegarsi meno che mai il motivo di una tale adunanza di forze. Per giunta, il feudo dei Sancerre era a molta distanza da li, nel sud della Francia.

Quando Ian entrò a cavallo nella corte, i soldati con i suoi colori alzarono grida di entusiasmo, facendo scintillare le spade al sole tenue del mattino. Il giovane americano precedeva il piccolo gruppo in arrivo dal molo insieme agli armigeri e salutò i suoi uomini con la mano alzata e una profonda emozione. Accanto a lui cavalcava Martewall e dietro li seguiva un carretto su cui era stata adagiata con cura Brianna. Di fianco a lei sedevano Coda di volpe e il medico.

Il ragazzino si guardava intorno con ansia e meraviglia mescolate insieme perché, come la maggior parte della gente comune del Medioevo, non era mai entrato nel cuore di un castello, limitandosi a frequentarne il borgo esterno.

Arrivato nel cortile del torrione, il gruppo si fermò e alcuni servi corsero a prendere le briglie dei cavalli.

«Signore, vostro fratello vi aspetta» disse uno di loro a Ian, quando il giovane mise piede a terra.

«Arrivo subito» rispose Ian, sentendo nello stomaco una sensazione molto simile a un milione di farfalle agitate.

Cercò di tergiversare ancora qualche istante, prima di recarsi all'incontro fatidico, e andò al carretto, da Coda di volpe. «Tu adesso resta con tua madre insieme al medico. Manderò subito qualcuno a occuparsi di voi, poi verrò anch'io appena possibile».

Il ragazzino annuì, con il volto teso. «Grazie, signor conte» rispose con un filo di voce.

Ian gli strinse la spalla con la mano. «Andrà tutto bene, ne sono certo».Diede tutte le istruzioni ai servi e al medico perché madre e figlio fossero accolti e

curati con il massimo scrupolo, poi tornò da Martewall e gli fece cenno. «Entriamo» disse, laconico.

L'inglese lo seguì in silenzio, ma Ian ebbe quasi la certezza che si fosse accorto di quanto lui fosse nervoso.

Un servo condusse i due cavalieri dentro il torrione, nell'atrio stretto e spartano, poi fece strada lungo una rampa di scale fino al piano superiore.

Sul pianerottolo si affacciava un portone di legno massiccio, aperto. I due cavalieri e il servo lo varcarono e si ritrovarono in un salone ampio, dominato da un grande tavolo, dietro il quale erano allineati scranni severi. Altri tavoli e panche erano spostati agli angoli della sala, in attesa di essere allestiti per il pranzo. Due camini imponenti gettavano calore tutto intorno, contrastando l'aria fredda proveniente dalle finestre senza vetri, aperte per lasciar entrare la luce.

Ian vide subito la figura di spalle, ferma, in piedi a guardare fuori.Si fermò di colpo, appena oltrepassata la soglia. Guillaume, pensò.Il conte di Ponthieu si girò subito verso i nuovi arrivati. Era vestito sobriamente, con

la solita cura perfetta, e portava l'immancabile spada cinta al fianco. I capelli scuri, ordinati come sempre dietro le orecchie, gli incorniciavano il volto aristocratico e abbronzato.

Non era cambiato affatto, anche se una ruga più profonda sottolineava la fronte.Certo che non è cambiato, per lui sono passati solo pochi mesi, si disse Ian, ma subito

abbandonò quel pensiero per concentrarsi solo sulla forte emozione che lo stava invadendo. Fu quasi travolto dal sollievo e dalla gioia di vedere finalmente un volto amico. Di ritrovare, dopo un esilio per lui infinito, l'uomo diventato suo fratello.

Con il cuore che batteva forte, Ian andò incontro a Ponthieu. «Guillaume...» iniziò.«Io dovrei buttarti nella più profonda delle mie segrete e gettare via la chiave»

l'apostrofò il conte, aspro. «Forse sarebbe l'unico modo per avere un minimo di controllo su ciò che fai».

Ian s'immobilizzò a metà salone e ingoiò il resto della sua frase di saluto. Tentò invano di farsi piccolo, sotto lo sguardo temibile del conte. «Anch'io sono molto felice di rivederti» osò dire comunque a mezza voce.

Martewall lo sbirciò ma non fece un fiato, tenendosi a debita distanza, a osservare.Anche Ponthieu tacque, sempre con quell'espressione crucciata negli occhi neri.

«Cosa ti è accaduto, questa volta?» riprese alla fine, dopo aver pensato e taciuto mille frasi diverse, ma poi dimise l'argomento con un gesto imperioso. «Ne parleremo più tardi. Prima presentami il tuo ospite».

Ian notò Martewall irrigidirsi leggermente, come tutti quando erano sottoposti all'esame silenzioso del conte. Fece per aprire bocca di nuovo e presentare l'inglese, quando una voce stentorea risuonò lungo le scale.

«Dov'è? Fatemelo vedere!» esclamò qualcuno e un attimo dopo sulla porta alle spalle di Ian e Martewall comparve la figura vigorosa di Etienne de Sancerre.

Ian non fece nemmeno in tempo a salutare, perché si ritrovò stretto dal cavaliere francese in un abbraccio cameratesco, strozzato quasi fino a perdere il fiato.

«Jean, ci hai fatto morire d'angoscia!» esclamò Sancerre, quando si staccò da Ian per guardarlo in faccia, tenendolo per le spalle. «Ormai ci eravamo convinti che quei maledetti Inglesi ti avessero ucciso davvero!»

Il suo sollievo era tale e così sincero da fargli saltare a piè pari tutti i convenevoli e i titoli di cortesia che avevano sempre usato tra loro per arrivare a dare del tu al suo interlocutore.

Ian ne fu commosso e, allo stesso tempo, si trovò sulle spine. Non si aspettava di trovare Sancerre in quel luogo e adesso il momento di presentare Martewall diventava potenzialmente esplosivo, visto che l'inglese e il francese erano stati nemici in torneo.

«Allora? Raccontaci cos'è successo!» esortò Sancerre, inarrestabile. «Guarda come sei

ridotto! Da dove arrivi? Come hai fatto a sfuggire alla morte? Qui sono arrivate notizie di ogni genere!»

Ian guardò Ponthieu con ansia. «Quali notizie?»«Giorni fa è arrivato un dispaccio dal borgo di Lunes» spiegò il conte, cupamente.

«C'è stato un omicidio in una locanda appena fuori dal villaggio, dopo un tafferuglio causato da alcuni fiamminghi di passaggio. I locandieri sopravvissuti hanno potuto correre ad avvisare le guardie e sostenevano che tra gli avventori del loro locale, al momento della tragedia, ci fosse un uomo che affermava di essere te».

Ian respirò a fondo. «Ero io, infatti».«I due locandieri erano stati imprigionati nella cucina. Quando hanno potuto liberarsi,

nella locanda non era rimasto più nessuno» continuò il conte, e il suo sguardo era sempre più penetrante.

«Stavo tornando a casa. Mi ero fatto riconoscere per evitare il peggio, ma i fiamminghi mi hanno sopraffatto...» tentò di spiegare Ian, mentre Martewall si faceva sempre più teso.

«Tu attiri i guai come il fuoco fa con le falene» commentò Ponthieu, tagliente. «I miei uomini, indagando su questo fatto, sono arrivati fino al monastero di Saint Michel e hanno potuto raccogliere il racconto dell'abate. Ora so cosa ti hanno fatto i sicari dell'inglese in tutto questo tempo, ma i fiamminghi? Che motivo avevano di prendersela con te lungo la strada?»

Ian guardò Martewall. Ora non era proprio più possibile tacere la sua identità.«Guillaume, Etienne, permettetemi prima di presentarvi sir Geoffrey Martewall,

barone di Dunchester» disse, cauto, e si preparò al peggio.Ponthieu trapassò l'inglese con uno sguardo ancora più attento, ma controllò

splendidamente qualsiasi reazione.Sancerre, invece, impiegò solo un paio di secondi sbalorditi prima di scattare come

una molla. «Il compagno d'armi dello sceriffo inglese!» esclamò.Martewall fece un breve, rigido inchino. «Porgo a entrambi i miei saluti» disse

freddamente, nel suo francese dall'accento sassone.La mano di Sancerre ebbe la tentazione di correre alla spada.«Come osi essere tanto sfrontato, maledetto?!» quasi ruggì il cavaliere. «Con tutto

quello che tu e il tuo degno amico avete fatto in torneo e in guerra! Avete tentato di uccidere Jean e al torneo persino Grandpré! Tu hai ferito Henri de Bar e adesso vieni qui a porgere i tuoi saluti?!»

«Etienne, ti prego». Ian faticò ad abituarsi subito a non usare il "monsieur" per dare del tu all'altro cavaliere. «Sir Martewall non è Derangale e non ha commesso torti né in guerra né in torneo. Inoltre voi due avete già regolato i vostri conti in quell'occasione».

Sancerre si quietò a fatica, ma continuò a guardare in cagnesco l'inglese che, da parte sua, mantenne una debita distanza, anche se con assoluta freddezza.

«Sir Martewall, devo intuire dalla vostra presenza qui che anche voi siete coinvolto nei fatti di Lunes?» intervenne Ponthieu, ma la sua non era una vera domanda.

«I fiamminghi di cui parlavate erano sotto la mia autorità. Li avevo presi sotto il mio comando prima della guerra, poi, dopo la prigionia, avevano scelto di seguirmi in Inghilterra» rispose l'inglese con onestà. «Non nego le mie responsabilità.

Uno dei miei uomini ha ucciso un garzone, benché con un atto stupido e contro la mia volontà. Io stesso, invece, ho dato ordine di catturare vostro fratello per condurlo

prigioniero a Dunchester».Ian fece il doppio della fatica a trattenere Sancerre dal mettere davvero mano alla

spada.«Maledetto!» ripeté il francese, furioso.«Posso conoscerne il motivo?» domandò invece Ponthieu,_ calmissimo.Ian dissimulò con tutte le sue forze la tensione che cresceva, ma vide anche che lo

sguardo del conte si era fatto più scuro.«Rancore a causa di un amico ucciso in guerra» rispose Martewall, ricambiando

quello sguardo con uguale intensità. «Immagino che monsieur de Sancerre possa capire appieno il mio stato d'animo».

Questa volta persino Etienne de Sancerre non ebbe niente da obiettare e si limitò a tenere d'occhio l'inglese con aria torva.

«Inoltre» continuò Martewall, sempre rivolto a Ponthieu «intendevo ottenere da vostro fratello risposte per quanto riguarda il passato».

Gli occhi di Guillaume de Ponthieu si fecero attentissimi. Ian li conosceva bene: il conte aveva quello sguardo ogni volta che analizzava i dettagli di una situazione potenzialmente pericolosa.

E le domande che Martewall poteva fare riguardo il passato erano davvero molto pericolose.

Ponthieu era già sul chi vive, capì Ian. Era pronto ad agire per rimettere le pedine al loro posto sulla scacchiera e aveva il potere e la volontà di usare anche i mezzi più estremi, pur di proteggere i suoi interessi.

Anche Martewall l'aveva capito? Di sicuro, con l'ultima frase stava sondando il terreno intorno a Ian. In quel momento tra lui e Ponthieu era in atto un confronto silenzioso, all'insaputa di Sancerre, ignaro dell'intrigo creatosi intorno a quello che per lui era semplicemente Jean Marc de Ponthieu.

Ian capì di non poter intervenire, ma di doversi fidare di Ponthieu. Rimase in disparte, senza dire nulla. Il conte apprezzò, pur mantenendo la massima attenzione sul dialogo.

«Avete ottenuto ciò che cercavate?» domandò al barone inglese. «In caso contrario, forse posso mettere pace-personalmente a tutte le vostre perplessità».

Usava un tono tranquillissimo, da perfetta conversazione, ma Ian, conscio di tutto ciò che rimaneva sottinteso in quel dialogo, colse al volo la minaccia implicita. Guardò Martewall, chiedendosi se anche l'inglese avesse inteso quella sfumatura, ma non riuscì a determinarlo dalla sua espressione impassibile.

«Io e vostro fratello ci siamo chiariti» rispose il barone, semplicemente.Seguì un istante di silenzio e la tensione si allentò. Il confronto si era concluso con un

tacito accordo e Ian sentì le farfalle nel suo stomaco calmarsi finalmente almeno un po'.Forse possiamo chiudere la questione senza altre difficoltà, si disse.Certo Sancerre teneva ancora d'occhio Martewall come se volesse azzannarlo da un

momento all'altro, ma Ian lo temeva molto meno di Ponthieu. Il massimo che poteva aspettarsi da lui era un confronto all'arma bianca con l'inglese, mentre il conte di Ponthieu aveva un raggio d'azione molto più ampio e poteva intervenire in modo decisamente più drastico. Per fortuna, sembrava non averne l'intenzione né i motivi.

«Allora, deduco che non vi sia più motivo di ostilità tra voi e mio fratello?» disse infatti Ponthieu.

«Sir Martewall viene in pace ed è mio ospite» rispose Ian per l'inglese. «Dopo tante

traversie, abbiamo concluso un'alleanza».Martewall tacque, ma gli rivolse un lieve cenno riconoscente con il capo.«Meglio così» concluse Ponthieu, soddisfatto.Sancerre storse il naso, ma non commentò.Un servo arrivò ad annunciare che Brianna e Coda di volpe erano stati alloggiati in

una delle stanza degli ospiti, con la massima premura.Ponthieu colse l'occasione al volo. «Accompagnate anche il barone di Dunchester

dove possa ristorarsi e riposare. Preparategli una camera adeguata e fate altrettanto per mio fratello» ordinò al servo, poi si rivolse a Sancerre e a Martewall. «Vi prego, ora lasciatemi solo con Jean» continuò. «Non lo vedo da mesi, lo credevo morto: spero che capirete il mio desiderio di rimanere in privato con lui. Rimanderemo ogni altro argomento a più tardi».

«Posso immaginare che abbiate molte cose da dirvi» replicò Martewall e s'inchinò per prendere congedo.

Sancerre fece altrettanto, anche se era chiaramente deluso di non poter soddisfare subito tutti i suoi interrogativi su quanto era successo. Prima di uscire, si accostò a Ian e accennò a Martewall, che stava seguendo il servo fuori dal salone. «So io dove meriterebbe ospitalità costui. Il tuo passato in convento ti ha reso troppo buono» brontolò.

Ian abbozzò un mezzo sorriso, ma non replicò. Adesso era di nuovo agitato all'idea di dover affrontare da solo il conte di Ponthieu e il suo inevitabile esame.

Il servo chiuse accuratamente la porta alle sue spalle, quando se ne andò.Rimasto solo con Ponthieu, Ian non osò parlare per primo. Il conte lo squadrò da capo

a piedi, osservandone i vestiti ormai ridotti in condizioni miserevoli, i capelli scarmigliati e la barba lunga. «Sembri reduce da un'altra guerra» commentò alla fine. Aveva un tono meno aspro, adesso, anche se sempre molto cupo.

«Come sta Isabeau?» domandò Ian di getto.«Ha pianto molto per te e si è disperata per la tua scomparsa». La voce di Ponthieu

ebbe un guizzo d'accusa. «Avevi giurato che non sarebbe mai successo».Ian provò una fitta dentro. «Non avrei mai voluto. Non ho potuto impedirlo».Tacque con dolore, mentre tutti i rimorsi che l'avevano tormentato per oltre due anni

si riaffacciavano prepotentemente nella sua testa.«Avevo abbassato la guardia» ammise nel continuare il discorso. «Mi sono fatto

prendere di sorpresa dai sicari. Io non credevo che anche dopo la morte di Derangale ci fosse ancora il pericolo che...» S'interruppe di nuovo, sapendo di non avere giustificazioni. «Mi sono lasciato sorprendere come uno sprovveduto. Non sono stato all'altezza delle tue aspettative. Se puoi, perdonami».

Ponthieu non rispose. «Quella mano è rotta?» domandò dopo qualche istante.Ian rimase sorpreso dal cambio di argomento. Sollevò leggermente la mano sinistra

fasciata. «No, è solo gonfia e fa male, ma non è grave».Ponthieu annuì, pensoso. Andò a uno scranno e appoggiò la mano sullo schienale.

«Tuo figlio nascerà tra un paio di mesi. Dama Isabeau vuole dargli il tuo vero nome, se sarà maschio».

«Lo so. L'abate me l'ha detto». Ian ebbe come sempre un palpito di emozione, pensando a Marc, che sarebbe nato a marzo. «Quello che Isabeau vuole farmi è un grande regalo».

Ponthieu si accomodò. «Siediti» ordinò, vedendo che Ian invece rimaneva in piedi come un imputato.

Il giovane obbedì.«E adesso raccontami tutto» disse ancora Ponthieu.

***

Il racconto durò a lungo e per Ian fu allo stesso tempo un peso e una liberazione.Una liberazione perché Ponthieu accolse senza fare una piega la sua giustificazione

per i mesi di assenza. La menzogna era stata architettata bene, reggeva all'esame, anche grazie alla testimonianza precedente dell'abate, e consolidava definitivamente la vita di Ian in quel mondo medievale.

Lo stesso racconto, però, fu anche un peso perché si trattava pur sempre di una menzogna. Anche sapendo di non avere scelta, a Ian ripugnava l'idea di continuare a mentire all'uomo che l'aveva accolto come un fratello in casa sua.

Ponthieu fece pochi commenti, ma continuava ad avere lo sguardo scuro. «Uno degli uomini che ho fatto giustiziare ha sostenuto fino alla fine che tu fossi ancora vivo, anche se poi ha indicato ai miei ufficiali solo luoghi inutili e privi di tracce» disse dopo un po'. «Alla fine mi ero convinto che mentisse. Avrei dovuto credergli, invece».

Ian annuì, ma non riuscì a provare pietà per quell'uomo finito sul patibolo. Era un assassino e aveva tentato di tutto per salvarsi la vita, anche inventando giustificazioni assurde. Ian si sentiva a disagio al pensiero che qualcuno fosse stato giustiziato a causa sua, eppure non riusciva a togliersi dalla testa quel pugnale che non gli avrebbe lasciato scampo, se non ci fosse stato Hyperversum a riportarlo nel mondo moderno prima che fosse troppo tardi.

«Mi chiedo perché i rapitori non mi abbiano mai chiesto un riscatto per te, in così tanto tempo» considerò ancora il conte, pensoso.

«Credo che fossero in disaccordo tra loro. Li ho sentiti litigare, anche se non sono riuscito a capirne le parole da lontano» mentì Ian, per arricchire il suo racconto. «Altre spiegazioni non so dartene. Forse la tua caccia serrata faceva loro troppa paura per portare subito a termine il loro piano».

«Questa storia mi ha perseguitato per mesi. Sempre con il dubbio in testa, e il tuo corpo che non si trovava da nessuna parte» continuò a sorpresa il conte e la sua voce aveva un fremito di rabbia. «Sono contento di chiuderla finalmente una volta per tutte».

«Anch'io» sospirò Ian con tutto il cuore.«Hai promesso l'impunità ai tuoi carcerieri in cambio della tua vita, vuoi davvero che

io smetta di cercarli?» domandò ancora il conte.«Ho dato loro la mia parola. Non posso rimangiarmela, nemmeno se sono criminali»

si affrettò a sottolineare Ian, nel timore che Ponthieu sguinzagliasse a oltranza i suoi temibili ufficiali per trovare tracce di rapitori inesistenti. Oltretutto, un sicario era rimasto a piede libero e, anche se Ian dubitava che l'uomo si sarebbe mai costituito apposta per smentire il suo alibi, non voleva assolutamente che finisse per essere catturato e interrogato.

«Allora, sia come vuoi» si rassegnò Ponthieu. «Adesso raccontami il resto».La seconda parte della narrazione fu più facile poiché Ian non doveva più mentire, a

parte sul motivo per cui Daniel era con lui durante il viaggio. Ripeté a Ponthieu la stessa

versione che Daniel aveva raccontato a Martewall e cioè che si erano incontrati per caso sulla strada tra Lunes e il monastero di Saint Michel, poi proseguì spedito per il resto della spiegazione e raccontò al conte l'intera verità su quanto era accaduto a Dunchester, compreso lo stratagemma in cui aveva invischiato William Lunga-Spada.

Più procedevano le sue parole, più Ponthieu diventava pensieroso. Era colpito, specie da quanto Ian aveva scoperto sul conte di Salisbury e sul modo in cui l'aveva fatto. Anche lui probabilmente non riusciva a capacitarsi dell'intuizione straordinaria del giovane.

Durante il racconto fece due domande. La prima, Ian se l'aspettava.«Sei sicuro che monsieur Daniel non si sia lascito sfuggire niente sulla tua identità?»

domandò infatti Ponthieu.«Sì, ne sono assolutamente certo» rispose Ian. «Martewall non ha elementi per

mettere in dubbio chi sono».E speriamo che continui così, si disse in aggiunta, nervosamente.La seconda domanda di Ponthieu, invece, lo colse di sorpresa.«Vuoi davvero riportare una simile proposta al principe Luigi?»Ian impiegò alcuni secondi prima di ribattere: «Perché no?». «Perché è molto

pericolosa e il principe è già abbastanza esaltato dalla sua idea dell'invasione».«Invasione?» ripeté Ian, cadendo dalle nuvole, poi ricordò le navi e i soldati che si

stavano riunendo proprio a Dunkerque, sulla costa che si affacciava verso l'Inghilterra.«Che cosa sta succedendo qui?» domandò allarmato.«Anche noi sappiamo che i baroni inglesi stanno covando la rivolta. La notizia delle

loro richieste a re Giovanni è arrivata fino a qui. Il principe medita con sempre maggiore insistenza di approfittare dell'occasione per attaccare l'Inghilterra, come non è stato possibile fare alcuni anni fa. All'epoca fu Papa Innocenzo a fermare la spedizione».

Ian cominciò a capire. «Il Delfino sta riunendo le sue navi qui?»«Sì. Raduna navi e cavalieri: entro qualche mese sarà pronto a partire. Solo suo padre

per ora lo trattiene».«Re Filippo osteggia il piano?»«Almeno per il momento».«Perché?»«Perché non vuole mettersi in contrasto con il Papa e attirarsi una nuova scomunica».«Però, se il Delfino approfittasse dell'occasione, potrebbe ottenere la corona

d'Inghilterra. I baroni hanno bisogno di aiuto e Salisbury ha parlato di una posta molto alta in gioco. Lui stesso, il fratellastro del re, non vuole la corona ma preferisce darla a qualcuno più autorevole di lui».

Ian sapeva bene che quell'ipotesi si sarebbe avverata presto e che il principe Luigi avrebbe ottenuto il titolo di re d'Inghilterra anche se poi quello stesso titolo gli sarebbe stato tolto, in seguito a una nuova rivolta dei baroni. Non era in suo potere alterare la Storia, poteva solo seguirne il corso e sperare di sfruttare le occasioni a suo vantaggio: nel caso specifico, sperava di poter approfittare degli eventi storici per rientrare a Dunchester con buone notizie per William Lunga-Spada e liberare Daniel. Se avesse potuto tornare con una risposta positiva del Delfino di Francia in persona, il conte di Salisbury non avrebbe avuto più motivo di negare la libertà a Daniel e finalmente tutto si sarebbe rimesso a posto.

Ponthieu stava meditando attentamente sull'ipotesi. «Certo, questo è un elemento

nuovo che cambia di molto la prospettiva politica. Ma possiamo fidarci della proposta degli Inglesi?»

No, pensò Ian, ma dovette rispondere: «L'obiettivo potrebbe valere il rischio, anche se le incognite sono tante».

Il conte meditò ancora un po', poi decise: «Non sta a noi giudicare questa faccenda. Seguiremo la volontà del re e del principe. Domani riferirai la tua ambasciata al Delfino e vedremo cosa accadrà».

Ian spalancò gli occhi. «Domani?»Il conte si alzò in piedi. «Ti ho detto che il Delfino sta radunando le sue navi qui, no?

È già in viaggio lui stesso, lo aspetto per domani, in arrivo da Calais».Anche Ian si alzò, quasi di scatto. «Io speravo di poter proseguire per Chàtel-

Argent...»«>J fuori discussione, dopo quello che mi hai riferito» sentenziò Ponthieu. «Tu devi

restare qui, se vuoi ripartire prima possibile per l'Inghilterra con le risposte per Salisbury».

«Ma...»«Manderò a Chàtel-Argent un messaggero al posto tuo, per avvertire dama Isabeau

del tuo ritorno. Tu, invece, devi prepararti all'evenienza che il Delfino risponda negativamente alla proposta degli Inglesi e decida di proseguire i suoi preparativi per l'attacco diretto».

Ian mandò giù tutte le altre obiezioni per meditare su quell'ipotesi inaspettata.«In quest'ultimo caso, la vita di monsieur Daniel sarebbe in grave pericolo» sottolineò

Ponthieu.Ian tacque a lungo. Non aveva nemmeno preso in considerazione l'idea che il Delfino

potesse rifiutare l'offerta dei baroni inglesi, perché appunto sapeva con certezza che nel 1216 sarebbe sbarcato in Inghilterra, salutato come un nuovo re. Non aveva pensato però che doveva trascorrere più di un anno prima di quel momento e non era affatto detto che il principe Luigi fosse fin da subito ben disposto ad aspettare che i baroni lo invitassero sull'isola britannica.

Sui libri di Storia letti in tanti anni di studi c'era poco o nulla sulle trattative segrete che avevano messo in contatto il principe con i ribelli: forse Luigi si era lasciato convincere subito, forse no. E se la sua prima risposta fosse stata negativa, Salisbury non l'avrebbe presa bene...

Su Ian calò la consapevolezza che doveva a tutti i costi convincere il Delfino ad accettare la proposta o sarebbero stati guai seri. Chàtel-Argent doveva attendere ancora.

Ponthieu gli lesse i pensieri negli occhi, come se fossero trasparenti.«La tua sposa smetterà di piangere, se saprà che sei sano e salvo qui. Tu la rivedrai,

quando sarai libero di farlo».Era una sentenza che non ammetteva repliche. Ian provò l'istinto di ribellarsi con

altrettanta fermezza, ma poi non lo fece. Era la salvezza di Daniel e non l'ordine di Ponthieu che gli imponeva di non allontanarsi da Dunkerque, per portare a termine il prima possibile la sua missione di messaggero presso il principe Luigi, e Ian non poteva ignorare quel fatto. Per nulla al mondo avrebbe rischiato l'incolumità di Daniel, meno che mai per seguire i propri desideri personali.

Deluso per quella nuova beffa del destino, Ian cercò di digerire l'ennesimo ritardo nel suo agognato ritorno verso casa, non avendo altra scelta. «Resto ai tuoi ordini» replicò

con un sospiro. «Dimmi cosa posso fare per rendermi utile al meglio. Sempre ammesso che ora tu non mi faccia rinchiudere davvero in una segreta». Lo disse per azzardare una battuta che gli alleggerisse almeno un po' il peso sul cuore, ma non strappò a Ponthieu nemmeno un sorriso.

«Per ora no. Mi servi» replicò il conte, lapidario. «Ma ne farò preparare una per ogni evenienza. Ricordalo, prima di farti coinvolgere in qualche altro caso imprevisto».

Il tono serio smorzò in Ian anche l'ultimo barlume di spirito. Il giovane aveva sperato in un'accoglienza molto diversa da quella, al suo ritorno dopo mesi di assenza, e rimase mortificato da tanto distacco. Chinò il capo, deluso da ogni aspetto di quella conversazione. «Non accadrà più. Non abbasserò mai più la guardia, mio signore».

Ponthieu non abbandonò la sua aria severa, ma tacque a lungo. Infine replicò: «Comunque sia, sono felice di riaverti a casa».

Lo disse come se ammetterlo gli costasse molto, ma c'era un sentimento sincero dietro le sue parole apparentemente brusche.

Ian rialzò la testa, scambiò uno sguardo con il conte e vide ristabilirsi l'antica intesa, al di là delle parole che potevano essere pronunciate a voce.

Ponthieu era arrabbiato, ma era contento di rivederlo, almeno quanto lui.Ian sentì il cuore allargarsi. «Anch'io sono felice di essere di nuovo a casa».

Capitolo 33Con un sentimento di sollievo infinito, Ian s'immerse nella vasca di legno un paio

d'ore più tardi, quando i servi gli mostrarono la stanza in cui avrebbe alloggiato finché fosse rimasto a Dunkerque. Si rilassò contro il bordo foderato di teli di lino e per qualche minuto rimase ad assaporare l'acqua piacevolmente calda, rilassando ogni singolo muscolo, prima di lavarsi.

Era indolenzito pressoché dappertutto e scopriva nuovi lividi o escoriazioni ogni volta che si guardava. La mano sinistra era meno gonfia ma continuava a far male, sull'avambraccio inoltre aveva ancora la contusione lasciata dalla frusta degli esattori di Aversly.

Sono ridotto a uno straccio, pensò con un sospiro.Più che altro, era esausto. In Inghilterra aveva attraversato un guaio dopo l'altro e non

ricordava nemmeno più a quando risaliva la sua ultima notte completa di sonno. Nel radersi sentì sotto le dita un viso ancora più smunto.

Si asciugò i capelli al fuoco del caminetto, mentre mangiava il pranzo trovato allestito su un tavolino, poi si vestì per uscire. I servi gli avevano portato abiti adatti al suo rango e quando ebbe terminato la vestizione, cingendosi la spada in cintura sopra la tunica ricamata, per lui fu come suggellare la sua trasformazione definitiva nel personaggio che aveva scelto di interpretare per tutta la vita.

Era di nuovo e per sempre Jean Marc de Ponthieu, conte cadetto, signore di Montmayeur. Nessuno gliel'avrebbe più negato, ora.

Abbandonò la stanza con soddisfazione, nonostante il rimpianto di non poter ripartire subito per il suo castello e la costante preoccupazione per Daniel.

Prima di ritirarsi in camera aveva visto partire al galoppo il messaggero che andava a riferire a Isabeau la notizia del suo ritorno. L'uomo avrebbe impiegato quasi due giorni per arrivare a destinazione, ma Ian si figurava già l'effetto che avrebbe fatto la sua ambasciata.

Non aveva avuto tempo di scrivere una lettera per Isabeau, ma aveva comunque affidato al messaggero un biglietto sigillato in cui aveva messo le prime parole istintive che gli erano salite dal cuore pensando alla moglie: "ti amo. Sto tornando da te".

Attraversò il corridoio salutando tutti i servitori che incontrò, poi trovò la scala per salire ai piani superiori e individuò una porta precisa tra le tante. Bussò ed entrò, sapendo di avere un altro motivo per essere felice.

Trovò Coda di volpe seduto sul davanzale imbottito della finestra di fronte a un letto a baldacchino, intento a guardare giù.

«Mi hanno detto che tua madre sta meglio» esordì Ian, dopo aver salutato.Il ragazzino balzò in piedi per fare un inchino deferente. Con gli abiti nuovi portati dai

servi sembrava un giovane scudiero, anche se sapone e pettine non erano riusciti a disciplinare la zazzera rossa. «Sì, sta meglio. Devo ringraziarvi per tutto quello che avete fatto per noi, mio signore».

«Ringrazia il capitano Stone, è lui che ha fatto ciò che poteva al momento giusto» replicò Ian, con un sorriso. «E poi abbandoniamo subito questo tono deferente. Quando mi chiamavi "sir Ian" eri molto più diretto con me».

Coda di volpe era impacciato. «Sì, ma voi non siete davvero "sir Ian", voi siete...»«Monsieur Jean. Basta e avanza» l'interruppe il giovane. «Lasciamo perdere i titoli,

d'accordo? Noi due siamo amici».«Grazie, monsieur...» rispose il ragazzino a mezza voce. Esitò un attimo e poi riprese:

«Perdonatemi, se mi sono comportato male con voi. Non lo meritavate e io sono stato uno sciocco».

«E tu perdonami di averti taciuto la verità. Anche se avevo motivi validi, è stata comunque una brutta azione da parte mia» rispose Ian. «Pace fatta?» domandò poi.

Coda di volpe annuì vigorosamente. «Pace fatta».«Posso vedere tua madre?» chiese ancora Ian, accennando al letto con le cortine del

baldacchino chiuse.«Certo, credo che sia sveglia». Il ragazzo andò al letto e sbirciò cautamente tra le

tende. «Madre, avete visite» annunciò poi aprendone una per fare entrare la luce.Ian si accostò per vedere Brianna adagiata tra i cuscini, sotto una coperta di pelliccia.

La giovane era molto pallida e aveva gli occhi appena socchiusi, ma era vigile. «Ah, il bel cavaliere...» mormorò, sorridendo debolmente.

«Come vi sentite?» si premurò Ian.Brianna sospirò piano, toccandosi cautamente il fianco fasciato sotto la coperta. «Fa

male, ma va molto meglio. Mi sento solo debolissima».«Il medico mi ha detto che siete fuori pericolo» annunciò Ian, felice di poterlo dire.

«A rimediare alla debolezza penseremo presto con il cibo» aggiunse, indicando il tavolino che anche in quella stanza ospitava il vassoio del pranzo. I taglieri e le ciotole erano vuoti, segno che madre e figlio avevano avuto già modo di mangiare qualcosa.

«E sufficiente un letto meraviglioso come questo» disse lei, nel rigirarsi un po' sul materasso, poi rivolse di nuovo al suo interlocutore un'occhiata maliziosa. «Sapete? Ho fatto un sogno, quando la ferita mi faceva più male. Ero tra le braccia forti di un valoroso cavaliere e mi sentivo meglio, anzi ci stavo proprio bene» scherzò, nonostante avesse le labbra esangui mentre sorrideva. «Vi giuro però che vostra moglie non ha nulla da temere. Non so perché, ma sono convinta che quel cavaliere non foste voi».

Ian si accorse con la coda dell'occhio che Martewall era comparso sulla soglia della stanza. L'americano ebbe un sorrisetto all'idea che il barone inglese avesse senza dubbio sentito le ultime frasi.

«Potreste parlare di questo sogno a sir Geoffrey» disse, rivolto a Brianna. «Sono sicuro che lui saprebbe darvene un'interpretazione adeguata».

Martewall gli scoccò un'occhiataccia, ma per la prima volta l'imbarazzo gli aveva colorito le guance. «Sono venuto a vedere come sta la malata. Mi hanno detto che va meglio» spiegò, avanzando nella stanza fino al letto.

Dal cuscino Brianna gli rivolse un sorriso riconoscente. «Vi ringrazio, signor barone.. Hanno rimesso a nuovo anche voi, a quanto vedo».

Martewall posò la mano sull'elsa della spada, portata in cintura sopra gli abiti puliti. «Devo ringraziare l'ospitalità del signor conte» replicò, sempre con uno sguardo di sbieco rivolto a Ian.

«E io devo ringraziare entrambi, avete salvato me e mio figlio nonostante il grande pericolo» disse Brianna. «Mi sono persa la seconda parte della fuga, ma Beau mi ha detto che è stata davvero molto avventurosa».

«Portarvi in salvo a qualsiasi costo era il minimo che potessimo fare, visto che è solo per colpa nostra se vi siete trovati in difficoltà» rispose Martewall anche per Ian.

L'altro giovane annuì.

Brianna invece si ricordò di un particolare del discorso precedente. «Davvero voi sapete interpretare i sogni?» domandò a Martewall, con sincero stupore.

Ian decise che era ora di abbandonare il campo. «Perdonatemi. Adesso devo proprio tornare da mio fratello. Ci rivedremo più tardi» annunciò con un sorriso, prima di defilarsi dalla porta.

***

La costante scorta dei soldati di Salisbury cominciava a dare veramente noia a Daniel, che ormai non sopportava più di essere tallonato in ogni sua mossa. Aveva libertà di movimento solo all'interno della sua stanza-prigione, ma per il resto ovunque si voltasse trovava costantemente una divisa blu coi leoni d'oro nel suo campo visivo.

Altro che FBI. Ho più agenti intorno io del Presidente, pensò irritato.Attraversò il cortile sotto gli occhi vigili di almeno tre sentinelle sparse qua e là, al

sole pallido del pomeriggio, e arrivò a una delle tante scale che conducevano al cammino di ronda.

Evitò accuratamente anche solo di avvicinarsi al cancello fortificato che portava alla corte esterna: aveva già capito che i soldati di Salisbury diventavano molto nervosi quando lo faceva ed era meglio non dare loro motivo di limitargli ancora di più i movimenti in qualche modo drastico, ad esempio costringendolo a rimanere chiuso nella sua stanza per tutto il tempo.

Visto che la porta che dava all'esterno gli era proibita, si sarebbe accontentato di poter guardare fuori dall'alto delle mura, facendosi una passeggiata tra le sentinelle sul cammino di ronda.

Ci sarà almeno una decina di soldati lassù: quelli che mi sorvegliano ,non si metteranno in testa che sto cercando un modo per fuggire, spero! si disse. E poi anche volendo, come farei? Mi butto giù dalle mura? Non mi sono ancora spuntate le ali per volare via come un piccione.

Sospirò. In quel castello con le finestre rivolte all'interno e il cortile circondato da mura si sentiva un canarino in gabbia, altro che piccione. Era soprattutto l'immobilità forzata a renderlo inquieto, unita alla consapevolezza di avere ben poco potere sul proprio futuro, ora nelle mani di Salisbury. Aveva tentato di arrivare alle segrete per informarsi sulla salute di Hector, ma non gli era stato permesso di scendere alle celle per accertarsene di persona. Dopo mille insistenze aveva sì e no potuto estorcere ai soldati di Murrow, di guardia alla porta, l'informazione che il cavaliere fiammingo non era in pericolo di vita, ma niente di più. Non aveva potuto vederlo, né parlargli e così anche il suo progetto di mantenere i contatti con i cavalieri di Dunchester era miseramente fallito.

Sono stanco morto di questa situazione, rimuginava il giovane con rabbia crescente.Nel suo cammino si accorse di un movimento a una finestra e alzò gli occhi. Intravide

Leowynn dietro il davanzale. La fanciulla guardava fuori mentre si spazzolava i capelli. Aveva un'espressione assorta e triste. La stessa espressione da canarino in gabbia.

Daniel si fermò un istante, attese che la ragazza lo notasse nel cortile e poi s'inchinò per salutarla.

Leowynn gli rispose con un cenno cortese della testa, poi si ritrasse dalla finestra e scomparve.

Daniel proseguì il suo cammino, verso le mura.

Rallentò quando vide un carretto e alcuni uomini fermarsi proprio tra lui e la base della scala. Gli uomini non erano soldati ma civili, sorvegliati attentamente dagli armati di Murrow. Accompagnavano il carretto e cominciarono a scaricarne sacchi e legna. I soldati diedero loro istruzioni di trasportare le merci verso una porta a pochi passi, là dove altri soldati sorvegliavano quello che sembrava un magazzino.

Daniel aguzzò la vista perché uno dei civili al lavoro gli sembrò familiare. Nascose un sorriso nel riconoscere Thomas Bull.

Arrivò vicino al carretto, dove l'uomo era sceso faticosamente di cassetta per tenere le redini del mulo e impedire che si allontanasse mentre gli altri scaricavano i materiali.

I soldati guardarono l'americano in cagnesco, ma questi si fermò a debita distanza e non fece nessuna mossa che potesse giustificare una reazione da parte loro, anzi tenne addirittura le mani dietro la schiena. «Buongiorno» salutò. «Come va la spalla?»

Bull si accorse finalmente di lui e lo riconobbe. «Chi si vede! L'amico del mangiarane. Siete a piede libero, a quanto pare».

«Si fa per dire,» rispose Daniel, alludendo ai soldati che lo tenevano d'occhio da tutte le direzioni «ma non posso lamentarmi. Voi, piuttosto. Vi hanno messo al lavoro».

Si sentì in colpa al pensiero che, mentre lui era tutto sommato trattato da ospite, a parte le limitazioni alla sua libertà, gli altri sconfitti fossero costretti a condizioni di vita ben più dure, dal lavoro forzato alla vera e propria prigionia.

Bull però sembrava non far caso alla differenza di trattamento, come se fosse una cosa ovvia. «Lavoro ne hanno per tutti. Chi non è ferito fa i lavori pesanti e chi invece è conciato come me fa il resto. È il destino di chi perde la battaglia e non ha riscatti da offrire».

«Dove vi tengono?» domandò ancora Daniel.«Nella corte esterna e non ci lasciano uscire da lì. Hanno ammassato insieme tutti gli

uomini validi al lavoro e tutti quelli che hanno partecipato ai combattimenti. Stanno facendo lavorare anche i soldati di Dunchester insieme a noi. A loro però riservano lavori ancora più pesanti, neanche fossero schiavi».

«E le donne e i bambini?» si preoccupò Daniel.«Li hanno lasciati andare insieme ai vecchi» lo rassicurò Bull. «Almeno hanno avuto

la decenza di non infierire su di loro. Già sarà abbastanza difficile sopravvivere all'inverno senza più una casa». Abbassò la voce e aggiunse, con un lampo di soddisfazione nello sguardo: «Ho sentito invece che il francese ce l'ha fatta, insieme al giovane barone. Hanno lasciato Salisbury e Murrow con un palmo di naso».

«Così pare» annuì Daniel, ora anche lui sottovoce. «Speriamo che la cosa porti buoni frutti, ma questo non ditelo a nessuno per ora».

Bull ebbe un guizzo d'interesse, subito dissimulato a beneficio di chi osservava il dialogo da lontano.

«Basta, tu! Porta via quel carretto! Hai già chiacchierato fin troppo» intervenne un soldato, sgarbatamente, innervosito dalla conversazione tra prigionieri.

«Me ne vado, me ne vado subito» brontolò Bull e rimontò sul carretto che i compaesani avevano finito di scaricare. «Tenetemi informato» disse a Daniel col solo movimento delle labbra, prima di allontanarsi seguito dagli altri civili a piedi.

Be' almeno un contatto fuori da qui sono riuscito a mantenerlo, pensò l'americano, con un minimo di soddisfazione. Ian gli aveva detto di fidarsi di Thomas Bull e lui gli credeva. L'ex-soldato poteva essere un utile alleato, anche se Daniel non sapeva ancora

per quale evenienza.Daniel guardò il carretto sparire oltre il cancello fortificato. I soldati si premurarono di

chiudere immediatamente l'uscita dopo il suo passaggio.Ecco richiusa la gabbia, pensò Daniel con un sospiro.Fece per riprendere il cammino quando fu colto di sorpresa dall'arrivo di sir Gorvenal.

Daniel quasi sobbalzò perché non l'aveva visto avvicinarsi.«Abbiamo un grave problema» annunciò il cavaliere con un'espressione cupa, prima

ancora di salutare. «Seguitemi».Gli fece un cenno del capo e lo precedette verso la scala che portava sulle mura.Daniel obbedì, preoccupato. Tenne dietro al cavaliere sui cammini di ronda, verso la

torre d'angolo, ma a metà cammino si fermò di botto. Da dove si trovava poteva vedere il borgo di Dunchester e il paesaggio circostante. C'era gente al lavoro nel borgo devastato dall'assedio, la gente di Dunchester cercava alla bene e meglio di ricostruire le proprie case, ma l'attenzione di Daniel fu attirata da qualcosa di ben diverso. Una lunga fila ordinata di divise rosse era in arrivo da occidente. Era ancora fuori dal borgo ma le figure erano già distinguibili quasi una a una. Precedeva la fila una squadra di cavalieri con gli stendardi dei tre leoni d'oro. Quegli uomini accompagnavano un carro coperto, ornato con gli stessi colori e lo stesso stemma delle bandiere.

«Che cosa succede?» domandò Daniel, con un orribile presentimento.Sir Gorvenal, che aveva proseguito di qualche passo, tornò da lui per gettare a sua

volta un'occhiata nervosa oltre i bastioni, prima di rispondere: «Re Giovanni è qui».

***

Ian stava ancora sorridendo all'idea un po' perfida di aver piantato in asso Martewall a spiegare a Brianna il suo strano sogno, quando, appena ritornato al piano di sotto, si ritrovò Sancerre alle costole.

L'altro cavaliere evidentemente lo stava aspettando al varco, con la voglia di soddisfare tutte le sue curiosità, e lo accompagnò nel cammino, per la verità senza una meta precisa, che l'americano stava compiendo nel castello.

«Ti prego, Etienne, possiamo fare più tardi?» lo supplicò Ian, dopo pochi minuti di domande agguerrite. «Ho già dovuto fare la cronistoria intera a mio fratello».

Sancerre scrollò le spalle. «E allora? Sei o no lo storico di casa? Raccontare i fatti è il tuo secondo mestiere».

«Ho la gola secca a forza di parlare».«Andiamo a farci dare da bere, allora» decise Sancerre, gioviale, e fece strada lungo

una rampa di scale in discesa.Ian capì che proprio non se lo sarebbe scrollato di dosso finché non avesse risposto a

tutti i suoi quesiti. Sospirò, ma allo stesso tempo era contento di riavere accanto il compagno d'armi con la sua sfrontata esuberanza. Era toccato anzi dall'affetto sincero che il francese gli dimostrava. Gli aveva fatto un'accoglienza calorosissima e Ian gliene era grato. Come Ponthieu, nemmeno Sancerre era cambiato, aveva sempre la stessa espressione gioviale sul volto energico e un sorriso sfacciato a cui non si poteva rifiutare nulla.

«Mentre io riprendo fiato, tu raccontami quello che sta succedendo qui» gli disse Ian, mentre entrambi andavano verso le cucine, dove contavano di trovare un buon sorso di

vino. «Non mi aspettavo di trovarti tanto lontano dalle tue terre. Sei in attesa dell'arrivo del principe Luigi?»

«Be', sì e no» rispose l'altro. «Devo dire che appoggio senza riserve l'idea del principe di dare una bella lezione agli Inglesi in casa loro. Quando ricevetti la notizia che ti avevano ucciso in un agguato al monastero, sarei stato pronto anche a partire da solo, pur di andare a fargliela pagare».

Allora è meglio che tu non parli col principe Luigi quando andrò a proporgli di accettare l'alleanza con i baroni inglesi, pensò Ian. «Quello che è successo non è colpa degli Inglesi, ma di un inglese soltanto, per giunta morto» obiettò poi.

«Non fa differenza, l'avrei fatta pagare a qualcun altro, tanta era la rabbia da sfogare. Peccato che il tuo nuovo ospite inglese non fosse nei paraggi a quell'epoca. Me la sarei presa con lui».

Il tono truce di Sancerre fece sorridere Ian e lo commosse al tempo stesso. «Sono onorato che tu abbia preso tanto a cuore la mia sorte».

«Non solo io. Anche i due Henri chiedevano vendetta per te» rispose Sancerre. «Loro però insistevano sul fatto che si dovesse prima indagare come si fosse svolto l'agguato e acciuffare i sicari che l'avevano compiuto, perciò mi sono dovuto rassegnare ad assecondarli. Ho aiutato tuo fratello a dare la caccia agli assassini. Henri "il grande" e Henri il "piccolo" avevano troppe incombenze da feudatari per poter partecipare efficacemente alla caccia e poi, a un certo punto, re Filippo li ha voluti a corte, quindi hanno solo potuto lasciare le ricerche ai loro uomini. Io invece ero più libero e perciò mi sono reso disponibile a prestare i miei servigi e sono rimasto con il conte Guillaume».

La cucina era già in piena efficienza e colma dei vapori delle pentole e dei fumi appetitosi degli arrosti. L'arrivo inaspettato dei due cavalieri mise in agitazione le cuoche e gli sguatteri, impegnati a organizzare la cena della sera. Il loro zelo preoccupato convinse Ian a farsi dare due boccali di vino e a riportare subito Sancerre al piano di sopra o avrebbero rischiato di intralciare il lavoro di tutti con un conseguente ritardo sulla preparazione dei cibi.

L'americano non era poi troppo sicuro che Ponthieu non l'avrebbe davvero buttato in una segreta se, appena ritornato a casa, il fratello minore ricominciava a scombinare la sua vita perfettamente pianificata, a partire da una semplice cena.

Insieme a Sancerre Ian andò a fermarsi in una saletta con il camino acceso, dalle cui finestre si poteva guardare il mare e il porto fuori dal castello. Si sedettero a consumare il vino con calma.

«Come stanno monsieur de Bar e monsieur de Grandpré?» domandò Ian per riprendere la conversazione, ricordando con affetto anche gli altri compagni d'armi dopo averli sentiti nominare poco prima.

«De Bar è diventato padre da pochissimo» raccontò Sancerre. «Adesso in casa ha un ranocchio biondo, che gli somiglia moltissimo, battezzato Laurent».

«Un figlio maschio, congratulazioni. Sarà stata una grande festa per il casato» osservò Ian.

«E tu hai mancato alla tua parola di essere presente alla festa del battesimo» rimproverò Sancerre. «Ricordi? L'avevamo promesso prima di partire per la guerra».

Ian annuì. «Ho mancato la promessa, ma non per mia volontà. Spero di farmi perdonare».

«Grandpré invece sta cercando moglie» continuò Sancerre. «O meglio, la stanno

cercando gli altri per lui. Non mi sembra molto convinto, il ragazzo, però ormai è davvero ora che si sposi e che generi un erede maschio, visto che attualmente lui è l'unico uomo del casato».

«Metterà su famiglia anche lui, ne sono certo. Al momento giusto troverà la donna che fa per lui».

«O gliela troveranno gli altri. I primogeniti hanno sempre una vita difficile in questo campo» osservò Sancerre, mentre beveva. «Guarda tuo fratello: ha già avuto due matrimoni, entrambi combinati. Il mio invece si è sposato a sedici anni con una fanciulla che non aveva nemmeno mai visto. A proposito: stai per diventare zio, lo sapevi? Tua cognata è incinta».

Ian annuì di nuovo. Aveva scambiato alcune parole anche su questo con il conte Guillaume, prima di congedarsi da lui, e Ponthieu l'aveva aggiornato sulle novità della famiglia. Dama Alinor, la nuova moglie, aspettava un figlio, atteso per l'estate.

«E io non l'ho nemmeno mai incontrata» considerò Ian. «Spero che l'occasione capiti presto».

«E una bella donna» lo informò subito Sancerre. «Si vede che ha sangue reale nelle vene».

Tutto quel parlare di coppie e di sposi fece venire in mente a Ian un dettaglio del discorso dell'abate di Saint Michel. Il giovane decise di indagare. «E tu quando ti decidi a prendere moglie? Avevi messo gli occhi su madame Donna, lo so per certo, quindi adesso racconta: a che punto sei con lei?»

L'imbarazzo non si addiceva proprio all'esuberante Sancerre e perciò la sua espressione d'impaccio strappò a Ian un sorriso divertito, specie quando l'altro cavaliere abbassò il naso sulla sua coppa come per cercare le parole adatte nel vino.

«Mi devi perdonare, Jean, ma credendoti morto, io...» esordì infine Sancerre. «Insomma, so che sei tu il tutore di madame Donna e quindi avrei dovuto chiederlo a te, ma siccome tu non c'eri più... ho chiesto il permesso di corteggiarla a tuo fratello. Adesso siamo ufficialmente fidanzati, spero che la cosa non ti dispiaccia».

«L'importante è che non dispiaccia a lei» scherzò Ian, per poi mettersi a ridere alla faccia offesa dell'altro giovane. «Saprò mantenerla come si conviene» affermò Sancerre con piglio deciso. «Dall'eredità di mio padre ho ottenuto la castellania di...»

Ian alzò subito la mano per interrompere l'amico.«Non mi interessano le questioni economiche, Etienne. So benissimo che un Sancerre

è più che in grado di mantenere come si conviene la sua sposa. Sono contento per tutti e due, piuttosto, perché so che Donna era innamorata di te già mesi fa. Auguro a entrambi una vita felice, con tutto il cuore».

Le nuvole scomparvero dal volto di Sancerre per lasciare il posto a un sorriso raggiante. «L'accompagnerai all'altare» disse il cavaliere. «Non riesco a immaginare modo migliore per festeggiare il tuo ritorno».

Io un'idea ce l'avrei, si disse Ian in silenzio, pensando a Isabeau che l'aspettava a Chàtel-Argent.

Guardò fuori dalla finestra e respirò l'aria fredda dell'inverno come se gli annunciasse già la primavera. Finalmente la sua vita cominciava a ritornare al suo posto.

***

Giovanni Senza Terra era arrivato a Dunchester.Daniel era nervosissimo per quanto gli era stato appena annunciato. Stava ancora

seguendo Gorvenal e la sua testa già rimuginava mille pensieri agitati.Cosa era venuto a fare il re a Dunchester?Quanto si sarebbe trattenuto?Come avrebbe reagito Lunga-Spada alla sua presenza?A quest'ultima domanda il giovane stava per avere risposta.Salì la scala dietro a Gorvenal e arrivò sulla sommità merlata della torre, là dove ci si

poteva affacciare e dominare l'intero castello. Era il luogo più lontano da ogni possibile orecchio indiscreto e li trovò il conte William Lunga-Spada intento a parlare con l'altro dei suoi cavalieri più fidati, lo stesso che insieme a Gorvenal aveva assistito alla proposta di Ian qualche giorno prima.

«Sir Daniel, la situazione è molto grave» annunciò Salisbury, non appena vide arrivare l'ostaggio. «Giovanni è qui a pretendere la punizione esemplare dei traditori».

Daniel provò un brivido. «Come sarebbe?»Salisbury fece alcuni passi nervosi da un merlo all'altro. «Purtroppo l'esempio di sir

Martewall ha seminato scintille nella paglia. Altri feudatari ora mordono il freno per non pagare più le tasse, in attesa che il re si decida ad approvare le loro richieste di ripristinare le antiche leggi. La cosa ha indispettito Giovanni, che ha deciso di passare personalmente in rassegna i suoi feudatari e mettere in riga i baroni recalcitranti».

E doveva cominciare proprio da qui? protestò Daniel mentalmente. «Cosa succederà ora?» domandò invece, con ansia.

«Per prima cosa, dobbiamo trovare una giustificazione più che esauriente per la vostra presenza» replicò Salisbury, serissimo. «Posso liquidare Murrow e i mercenari con poche frasi approssimate riguardo la vostra condizione di ostaggio speciale, ma devo trovare una spiegazione precisa per il re».

Daniel deglutì. Non era bravo a inventare come Ian e di sicuro lo era ancora meno quando si sentiva il fiato sul collo. «Non saprei aiutarvi così su due piedi, signore».

«Io ci ho pensato, invece» disse Salisbury. «Diremo che con voi ho un debito d'onore, che vi ho riconosciuto tra i prigionieri e vi ho preso sotto la mia protezione. Aggiungeremo che mi aspetto un ottimo riscatto, perciò esagerate le ricchezze della vostra famiglia, quando ne parlate, e reggetemi il gioco».

«Farò del mio meglio» rispose Daniel, teso.Qui ci vorrebbe Ian, pensava allo stesso tempo, col timore di inventare chissà quali

dettagli fuori luogo, se messo alle strette durante un dialogo. Non avendo le stesse competenze storiche dell'amico, poteva anche dire qualcosa di assolutamente incompatibile col Medioevo e così rendersi sospetto.

«Avete già idea di quale credito io possa vantare nei vostri confronti?» domandò, per cercare di prepararsi almeno un po' alla parte.

«Qualcosa relativo alla guerra in Francia, ci penserò. Non posso inventarmi niente che sia accaduto qui o tutti ne sarebbero stati testimoni» fu la deludente riposta di Salisbury, anche lui in evidente ansia. «L'importante è che voi confermiate, quando vi sarà chiesto».

Ma perché questo gioco di ruolo non finisce mai? si.chiese Daniel disperatamente. Non gli piaceva recitare menzogne dalle quali poteva

dipendere la sua vita. Farlo davanti a un re gli piaceva ancora meno, specie se il re in

questione aveva la fama di essere poco raccomandabile, come Giovanni Senza Terra.Quel pensiero gliene fece venire un altro, terribile.«Perdonate, signore, ma che ne sarà degli altri prigionieri, di sir Martewall e di dama

Leowynn?» domandò il giovane.Il volto di Salisbury s'incupì. «Cercherò di proteggerli per quanto mi è dato. Ma

davanti al re posso fare ben poco».Daniel raggelò. «Ma voi avevate promesso che non avrebbero corso pericolo! Che

non ci sarebbero stati ulteriori spargimenti di sangue!»«Avevo anche detto: "finché Dunchester sarà sotto il mio controllo"» replicò

Salisbury duramente. «Non posso più promettere nulla, se questo controllo mi viene tolto. Anzi devo stare molto attento che il re non scopra il segreto che ci accomuna, o il sangue che scorrerà sarà anche il nostro. Non crediate che Giovanni sarebbe disposto a fare favoritismi al suo fratello bastardo».

Daniel serrò i pugni. «Tutto questo è inaccettabile».Salisbury gli si accostò per guardarlo dritto negli occhi. «Mantenete il segreto e

assecondatemi, sir. Io cercherò di salvare il salvabile. Altrimenti moriremo tutti».

Capitolo 34La sala grande di Dunchester era stata imbandita in fretta e con sfarzo per la cena del

re. La composizione dei tavoli era cambiata ancora e gli ufficiali di grado inferiore erano stati estromessi dalla sala per lasciare il posto solo ai cavalieri più titolati, a partire da quelli del seguito reale.

Adesso i servi correvano a portare ogni tipo di cibo, a differenza di quanto accadeva nei giorni dei razionamenti forzati durante l'assedio. La birra scorreva ugualmente in abbondanza, ma l'atmosfera era di nuovo diversa rispetto ai giorni precedenti: le voci erano basse, i toni composti. Su tutti i presenti, anche sui cavalieri del re, era palpabile la tensione per ciò che stava per accadere.

Daniel venne scortato da sir Gorvenal all'interno della sala, ma questa volta non per prendere parte alla cena. Il re aveva deciso di non perdere tempo e di unire al banchetto l'udienza con la quale voleva giudicare la situazione del castello appena conquistato. Così Daniel si ritrovò sotto gli occhi di tutti, in un'atmosfera da processo.

Prima di lui erano stati portati nella sala anche sir Harald e Leowynn. Il vecchio barone si sorreggeva alla figlia e al bastone. Nessuno venne avanti per aiutarlo, né venne approntato anche solo uno sgabello per lui. Dovette rimanere in piedi davanti al re, che invece era seduto al centro della tavola principale, con i suoi cavalieri ai due lati.

Daniel rivolse un'occhiata sdegnata a William Lunga-Spada per questo, ma l'uomo aveva un'espressione impenetrabile. Sir Gorvenal oltrepassò il giovane e lo prese in disparte con sé. In silenzio gli indicò di restare dietro lo scranno su cui il conte di Salisbury sedeva, all'estremità della tavola del re. Anche Gorvenal si fermò vicino a lui in attesa.

William Lunga-Spada non sedeva accanto al re a causa della sua condizione di figlio illegittimo, capì Daniel. Il conte aveva un posto d'onore nella sala e perciò poteva mangiare alla stessa tavola col sovrano, ma era trattato come uno dei suoi feudatari e non come un fratello. Lo dimostrava il fatto che i posti più importanti, a destra e a sinistra del re, fossero occupati da due cavalieri dall'aria arcigna, gli unici a non sembrare toccati dall'atmosfera irrequieta, visto che stavano mangiando tranquillamente la cena già servita.

Anche Salisbury aveva il tagliere pieno davanti a sé, ma non l'aveva ancora sfiorato.Daniel individuò alla stessa tavola anche Nigel Murrow, seduto all'estremità opposta

rispetto a Salisbury. Il giovane barone poteva stare al tavolo del re grazie al titolo nobiliare, che lo metteva al di sopra della maggior parte dei cavalieri presenti, e si stava impegnando per mostrarsi a suo agio. Anche lui assaggiava i cibi che gli erano stati serviti, ma Daniel sospettò che non si accorgesse nemmeno della differenza dei sapori, tanto era teso.

La posizione occupata dall'americano era relativamente defilata e Daniel ringraziò il cielo per questo. Dietro lo scranno di Salisbury si sentiva riparato e anche tutti i presenti interpretarono come un segnale preciso il fatto che il giovane fosse tenuto vicino al fratellastro del re e protetto dalla sua presenza. I loro sguardi persero ben presto ogni interesse per lo sconosciuto e si concentrarono invece in modo ostile sugli unici imputati di quel processo sommario.

Davanti a Giovanni Senza Terra erano rimasti solo sir Harald e Leowynn, nell'attenzione generale.

Anche Daniel li guardò.Avrebbe voluto scambiare con loro un'occhiata d'incoraggiamento, ma padre e figlia

stavano fissando solo il re, il primo con un'espressione severa, la seconda con occhi grandi e pieni di paura.

Giovanni Senza Terra era un uomo sulla cinquantina, vestito con sfarzo. Portava un cerchio d'oro come corona sui capelli lunghi, appena striati di grigio, e avrebbe avuto anche un aspetto gradevole, se il sogghigno che gli stava stampato sulla faccia non fosse stato tanto sprezzante.

Mangiava aristocraticamente il suo arrosto posato sul tagliere, staccandone piccoli pezzi con il coltello per poi portarli alla bocca. Tra un boccone e l'altro si lavava le mani nell'acquamanile posato alla sua sinistra e sorseggiava birra da una coppa di metallo.

«Dunque, siamo qui a dirimere innanzitutto una questione di tasse» esordì con un tono affabile che non ingannava nessuno. «Sir Harald Martewall, voi mi dovete i tributi arretrati e anche una giustificazione per non averli versati quando era il momento».

«Se Dunchester non ha pagato le tasse è perché non poteva farlo, sire» rispose sir Harald senza alcun timore. «Voi capirete che io dovevo pensare prima di tutto alla sopravvivenza della mia gente, specie in un inverno tanto freddo. Il denaro che voi pretendevate non poteva essere racimolato senza vendere anche le ultime risorse di cui disponevamo».

«Io capisco invece che voi non avete aiutato economicamente il vostro re, nel momento in cui ve lo chiedeva» replicò Giovanni Senza Terra. «Questo inverno non mi pare poi diverso dagli altri».

«E io fatico a credere che le casse del re siano così vuote, se contengono abbastanza ricchezze da pagare legioni intere di mercenari stranieri» disse sir Harald, severo. «Oppure, devo dedurre che le spese siano dovute proprio a loro? Forse per mantenere gli stranieri non bastavano più le tasse sempre nuove e sempre più alte che abbiamo dovuto pagare negli ultimi anni, mese dopo mese».

Il re prese la sua coppa, infastidito.«Se i mercenari sono stati assoldati è solo perché non ci sono più uomini sufficienti a

garantire un esercito efficace e l'Inghilterra deve difendersi dal nemico che può attaccarci in qualsiasi momento».

«Se non ci sono più uomini a sufficienza è perché le ultime guerre sono state disastrose e inutili» rispose il vecchio barone a tono. «Solo metà dei nostri cavalieri è tornata dalla Francia e non so calcolare quanti altri uomini siano morti o rimasti invalidi. Io vi avevo dato tre figli per il vostro esercito e con quale risultato? L'Inghilterra ha perso su tutti i fronti, compreso quello dell'onore, si è ridotta in rovina e di tre figli non me n'è rimasto nessuno».

L'accusa suscitò un mormorio nella sala, subito spento dall'occhiata furente del re. Salisbury strinse la mano a pugno sul tavolo. Murrow rimase con il coltello a mezz'aria. I due cavalieri vicini al sovrano ebbero espressioni offese.

«Di tre figli non vi è rimasto quasi nessuno» replicò Giovanni Senza Terra, tagliente. «Mi risulta che il più giovane si sia dato alla macchia prima del mio arrivo. Comunque, non temete: lo sto facendo cercare e lo troverò. Allora sì, potrete dire davvero di non avere più figli».

Puoi cercare finché vuoi, ormai non lo prendi più, pensò Daniel di getto, ma vide Leowynn rabbrividire vistosamente alla minaccia del sovrano.

«Nel frattempo, mi occuperò di voi, sir Martewall: è ora di pagare il conto tutto insieme» proseguì Giovanni Senza Terra. «Oltre a non aver pagato le tasse, avete cacciato i miei esattori con la violenza e vi siete rifiutato di sottomettervi all'autorità della corona, arrivando persino a impugnare le armi contro di me. Aggiungo l'aver partecipato a una riunione sediziosa a Natale dell'anno scorso e l'aver osato firmare un documento che richiede a me, al vostro re, di rinunciare al mio potere sancito dal diritto divino. Per tutti questi motivi io vi accuso formalmente di ribellione e tradimento».

Un fremito passò tra i presenti, che bisbigliarono di nuovo tra loro. Qualcuno rise con perfidia.

«La pena è la morte per impiccagione» aggiunse Giovanni Senza Terra, dopo aver lasciato strategicamente una pausa a effetto.

Leowynn ebbe un gemito soffocato e vacillò come se dovesse venir meno. Sir Harald non mosse un muscolo, pur essendo diventato più pallido.

Daniel sentì il ghiaccio lungo la schiena. Si voltò di scatto verso Salisbury, ma il conte intervenne prima che l'americano potesse anche solo aprire bocca.

«Sire, io faccio appello alla vostra misericordia» esordì, con calma simulata. «Sir Harald è un uomo anziano, vi prego di concedergli una pena meno dura. In prigione o in esilio avrà modo a sufficienza di capire la gravità dei suoi errori e di pentirsi. Siate clemente: il barone è sempre stato un uomo integerrimo, per cui noi tutti abbiamo provato rispetto, e la sua nobile famiglia ha già sofferto duramente nelle ultime guerre, col sacrificio di ben due figli».

La richiesta incontrò il favore di alcuni cavalieri tra i presenti, notò Daniel con speranza. Persino il re la tenne in considerazione, mentre vi beveva sopra qualche sorso di birra. Murrow, bianco in faccia, fece uno speranzoso cenno di assenso.

«William, voi avete davvero un cuore troppo buono» commentò Giovanni Senza Terra con un sorriso. «Avete ragione: i Martewall sono una nobile famiglia e nonostante tutto non posso dimenticare i servigi che mi hanno reso. Sarebbe una vera ingratitudine da parte mia. Accoglierò la vostra richiesta e comminerò a sir Harald una pena meno dura. Gli concederò la morte per decapitazione, così avrà una fine più rapida ed eviterà la vergogna di finire sulla forca come un criminale qualsiasi. Vorrà dire che riserverò il cappio per il suo ultimo figlio, quando sarà catturato».

Il breve sollievo che Daniel aveva provato per un istante scomparve, sostituito da un nuovo orrore.

Anche Salisbury aveva avuto un fremito. «Sire, abbiate almeno pietà della sua vecchiaia e della sua malattia» invocò, mantenendo a stento la voce ferma.

«Sapeva quello che stava facendo quando si è ribellato. Oppure la malattia gli ha colpito anche il cervello?» intervenne uno dei due cavalieri accanto al re. L'altro ebbe un sogghigno di spregio.

Giovanni Senza Terra riprese la parola prima che Salisbury potesse rispondere. «È vecchio e malato, dite? Una ragione in più per concedergli una morte rapida. Ha già vissuto a sufficienza e smetterà di soffrire prima che la sua malattia impieghi anni a ucciderlo».

Il tono sarcastico del re fece venire voglia a Daniel di saltargli al collo per strangolarlo. Il giovane si trattenne a stento, perfettamente conscio di non poter fare nulla contro un uomo destinato a rimanere sul trono almeno per un altro anno intero.

Salisbury si alzò in piedi. «Sire, vi prego di riflettere sull'effetto che la vostra scelta

farà sugli altri baroni. In molti stimano sir Martewall e lo considerano un loro decano, potrebbero reagire molto male alla notizia della sua morte, decisa in questo modo, senza nemmeno una giuria».

Perché lo mette in guardia? pensò Daniel, con rabbia. Magari i baroni si decidessero finalmente a fare qualcosa!

«No, l'esempio servirà loro di lezione perché meditino meglio sulle loro azioni» replicò Giovanni Senza Terra. «Sono sicuro che da domani diventeranno tutti più ragionevoli».

Ecco cosa teme Salisbury, si disse ancora Daniel con tensione crescente. I baroni sono indecisi e lui ha paura che si scoraggino del tutto dopo una reazione del genere da parte del re. Non sa che invece si ribelleranno ugualmente. Il guaio è che stanno sprecando tempo per niente.

«Ma sire...» tentò ancora Salisbury.«Chi mi tradisce merita di essere punito con la morte» sentenziò il re, questa volta con

una spietata durezza che cancellò di colpo il sorriso dalle sue labbra. «Nessuno avrà mai sconti sulla pena, con un'accusa del genere. Mi capite? Nessuno. Qualsiasi sia il favore di cui poteva godere davanti alla corona prima di quel momento».

La frase lasciò un silenzio raggelato nella stanza.Persino Salisbury non osò aggiungere altro, sapendo in segreto che quella minaccia

poteva un giorno raggiungere anche lui. Si sedette in silenzio, sconfitto.Giovanni Senza Terra indagò tutti i presenti uno a uno, poi si rivolse di nuovo a sir

Harald, fermo come una statua al suo cospetto. «Avete un'ultima cosa da dire in merito?» gli domandò.

Il vecchio barone sostenne con fierezza il suo sguardo sprezzante. «Sì, rimpiango che il nostro buon re Riccardo Cuor di Leone abbia commesso un solo errore al suo ritorno in patria: perdonarvi e riammettervi in famiglia dopo che voi l'avevate tradito per tentare di usurparne il trono. Se non fosse stato tanto generoso con voi, adesso forse l'Inghilterra avrebbe un re degno di questo nome».

La frase scatenò scandalo e timore.«Come osate?!» esclamarono i due cavalieri del re, balzando in piedi. Salisbury ebbe

un fremito. Murrow ormai sembrava una statua di cera.Giovanni Senza Terra divenne livido per l'ira. Posò la coppa di scatto, producendo un

rumore sordo sul pianale di legno. «Voi morirete domani, sir Martewall» disse. «Avrò il piacere di vedere la vostra testa rotolare a terra prima di mezzogiorno».

«No!» esclamò Leowynn, disperatamente. Si sarebbe forse slanciata in avanti verso il sovrano, se suo padre non le avesse tenuto saldamente un braccio per impedirglielo.

«Dunchester passerà sotto il controllo della corona. Poi, dopo che i miei ufficiali l'avranno ripulito da tutti i traditori, sarà assegnato a un altro feudatario» continuò il re, terribile. «Se non basterà la legna per le forche, ne faremo tagliare altra dai villici».

«Mio sire, no! Pietà!» invocò Leowynn, sconvolta, ma il padre la zittì strattonandole il braccio con ira.

«I Martewall non implorano pietà. Mai» la redarguì, severo. «Tantomeno invocano la clemenza di un tiranno senza onore».

«Portatelo via!» ordinò Giovanni Senza Terra con un gesto furioso. «Chiudetelo nei sotterranei fino a domani!»

Due tra i soldati che avevano scortato gli imputati avanzarono per prendere il barone

sotto custodia. Lo afferrarono per le braccia e poi lo trascinarono via con la forza. Dovettero sorreggerlo perché il vecchio cavaliere fu costretto a lasciar cadere il suo bastone. Eppure sir Harald uscì dalla sala a testa alta, benché zoppicando. Lo seguirono gli sguardi impressionati di tutti.

Leowynn avrebbe voluto corrergli dietro ma venne fermata dagli altri soldati, che la riportarono davanti al re.

Daniel fece per intervenire, d'istinto. Salisbury lo tenne al suo posto, con un gesto imperioso. Gorvenal alle spalle dell'americano gli afferrò la tunica per sottolineare il concetto.

«Lasciatemi andare con lui!» gridava la ragazza e si voltava continuamente verso la porta. «Padre! Padre!» invocò, ma sir Harald e i soldati erano già scomparsi dalla vista.

«Basta con questo strepito!» ordinò Giovanni Senza Terra, con durezza. «Madonna, voi avreste dovuto sapere già da tempo a cosa andava incontro la vostra famiglia, quindi adesso smettetela di fare tante storie».

Leowynn tremò come se quelle parole fossero un colpo di frusta. Distolse a fatica lo sguardo sbarrato dalla porta aperta alle sue spalle per riportarlo sul re. Non disse niente, come se non avesse più fiato. Rimase in piedi in mezzo alla sala, sola in mezzo a tutti, circondata da un nuovo silenzio ostile.

Daniel provò ansia, pena e paura per lei.I cavalieri del re si sedettero di nuovo a tavola.«Adesso devo decidere cosa fare di voi» continuò Giovanni Senza Terra, ritrovando la

compostezza e, mentre lo diceva, riprese in mano il coltello per ricominciare la sua cena. «Purtroppo, non vedo le condizioni per considerarvi un ostaggio degno di nota. La vostra famiglia non esiste più e non credo che voi abbiate modo di offrire un riscatto, dal momento che Dunchester è già sotto il mio controllo».

Leowynn lo guardò smarrita. «... Ma... io...»«Avete parenti o amici in altri feudi che possano garantire per voi?» continuò il re,

senza badare alle sue fievoli parole.«No, sire... non ho altri parenti...» Leowynn guardò Murrow per un istante. o... E

nemmeno amici...»Il giovanissimo barone arrossì di vergogna.«Allora, deduco che non abbiate altro da offrire per la vostra libertà se non la vostra

persona, dico bene?»La ragazza diventò esangue e non rispose.«Suvvia, madonna, cerchiamo di non prolungare più del dovuto questa udienza»

continuò il re, con quel suo sorriso sprezzante appena riaffiorato sulle labbra. Adesso stava godendo nell'infierire sulla figlia di chi l'aveva appena insultato. «Sono sicuro che, ragionando insieme, troveremo un accomodamento alla vostra situazione. Siete giovane e graziosa e qui ci sono tanti uomini che potrebbero prendersi a cuore la vostra sorte. Convincetene uno a pagare il vostro riscatto e saremo tutti soddisfatti. Nemmeno vostro padre avrebbe da ridire, vista la situazione».

Vale a dire: venditi al migliore offerente, se vuoi restare viva, pensò Daniel e serrò i pugni, disgustato da tanta sfrontatezza. Guardò Salisbury, poi Gorvenal, Murrow e infine tutti gli altri cavalieri. Molti tra i presenti erano scandalizzati quanto lui dalla proposta del sovrano, altri invece ridevano apertamente con scherno e commentavano tra loro, forse pregustando l'idea di poter approfittare della situazione. Nessuno comunque

interveniva ad alta voce.«Che ne dite? Voi non sareste disposto a pagare il riscatto per un fiore tanto

grazioso?» domandò Giovanni Senza Terra al cavaliere alla sua destra. «E voi?» aggiunse rivolto all'altro.

«Dipende dal prezzo» rispose quest'ultimo, con un sogghigno. «Non ci avete ancora detto a quanto ammonta la cifra».

«Saprei accontentarmi, ve l'assicuro».«Io ho già dato fondo ai miei introiti per questo mese, ma potrei forse fare uno sforzo»

intervenne l'altro cavaliere, soppesando Leowynn con gli occhi come se fosse una giumenta all'asta. «Tutto dipende da cosa ottengo in cambio».

«Ma che uomini siete? Nessuno la aiuta?!» sussurrò Daniel a Salisbury, incapace di resistere oltre a quella scena ignobile.

Il conte gli fece il cenno di rimanere in silenzio. «Non capite che adesso la ragazza è un giocattolo per il divertimento del re?» rispose, cupo. «A Giovanni non interessa davvero il riscatto e non è il momento di irritarlo ulteriormente davanti a tutti. Gli parlerò in privato più tardi. Comunque sia, non ucciderà la ragazza per ora, potete starne certo».

«E questo dovrebbe consolarmi?!» sibilò Daniel.«Volete farci uccidere tutti per lei? Siamo su un filo di spada» lo zittì il conte.Al diavolo! pensò Daniel, ma non replicò oltre e riportò la sua attenzione sulla scena

in corso. Avrebbe voluto intervenire, ma non sapeva come, col timore di commettere qualche passo falso che peggiorasse la situazione invece di porvi rimedio.

Cosa posso fare, io, se nemmeno Salisbury si muove? pensò con rabbia, sentendosi del tutto impotente.

«I-io non ho niente da offrire» aveva intanto balbettato Leowynn, tentando invano di mantenere un'espressione coraggiosa.

«Così non va bene, madonna» la schernì Giovanni Senza Terra. «Se scoraggiate in questo modo gli interessati, dovrete fare affidamento solo sugli amici ma, come avete già detto anche voi, non mi pare che qui ve ne siano rimasti».

Leowynn non rispose e si torse le mani fino a farsi male.Daniel serrò i pugni. Cercò con gli occhi qualcuno tra i presenti che sembrasse

disposto a farsi avanti per difendere la ragazza, ma non trovò nessuno.«Non vorrete costringermi a farvi rinchiudere in una cella» esortò il re, perfidamente.

«I carcerieri non sono mai gentili con una giovane fanciulla. Vi conviene piuttosto trovare qualcosa da offrire».

Leowynn tremò vistosamente. «Vi prego...» implorò, con voce spezzata.Daniel non poté più resistere. «Signore, perdonate la domanda: sono compreso anch'io

tra i possibili candidati per il riscatto di dama Leowynn? Se è così, sarei interessato a pagare per lei» disse di getto, ad alta voce, prima che Gorvenal o Salisbury potessero zittirlo.

L'intera sala si voltò a guardarlo. Daniel si liberò con un gesto brusco dalla presa di Gorvenal e si spostò per mettersi in mostra. Aveva il cuore in gola, ma si costrinse a ricambiare senza timore lo sguardo interrogativo di Giovanni Senza Terra e dei suoi uomini. Anche Leowynn lo fissava, aggrappandosi a lui con gli occhi.

Daniel si augurò di sapere davvero cosa stava facendo, anche se in quel momento gli sembrava di avere la testa troppo vuota di pensieri e troppo piena di paura per poter

improvvisare.«Mi stavo dimenticando di voi» disse il re, ma non aveva un tono troppo ostile,

almeno per il momento. «Voi siete il famigerato ostaggio di cui William mi accennava».Daniel cercò di immaginare che cosa avrebbe fatto Ian al suo posto e, tanto per

prendere tempo, s'inchinò formalmente e con ossequio al re. «Daniel Freeland, per servirvi, maestà».

Giovanni Senza Terra lo stava studiando con attenzione. «William mi diceva anche che attende un vantaggioso riscatto da voi. Pensate forse di poterne offrire due? Per voi e la fanciulla che intendete garantire?»

Daniel rifletté rapidamente su ciò che era più plausibile dire. Salisbury gli aveva consigliato di sottolineare le sue ric chezze e il giovane decise di assecondarlo, ma senza esagerare. «Ritengo di sì. Avete detto che sareste disposto ad accontentarvi per il riscatto di dama Leowynn» rispose, sperando di fare la scelta giusta e soprattutto di usare il tono giusto.

Giovanni Senza Terra passò dalla sorpresa a una mezza risata sarcastica. «Non siamo al mercato! Credete forse che io faccia sconti come un venditore qualsiasi? Anche se volessi venirvi incontro, non pretenderò meno del riscatto abituale per una donna della bassa nobiltà».

I suoi due cavalieri scossero la testa con commiserazione, probabilmente deridendo l'ingenuità dello straniero.

Daniel non aveva idea di che cifra avessero in mente tutti quanti: doveva essere alta, ma la cosa non faceva molta differenza, visto che il suo era un bluff utile solo a tenere lui e Leowynn lontani da una cella o dal boia fino al ritorno di Ian.

«Se non dovessi avere abbastanza denaro,» riprese ad alta voce «potrei sempre cedere parte del mio riscatto per dama Leowynn, se voi me lo permettete e lei accetta».

Che cosa sto inventando? si rimproverò nel frattempo. Chissà se una cosa del genere è mai stata prevista dagli usi dell'epoca...

Giovanni Senza Terra ebbe un guizzo di stupore. «E rinuncereste alla vostra libertà per lei? Sareste obbligato al lavoro servile per compensare la parte mancante del vostro riscatto, lo sapete, vero?»

Con quella mossa azzardata Daniel aveva suscitato l'interesse del re. Il giovane si augurò che fosse un buon segno. «Conto sul senso dell'onore di lord Salisbury» proseguì. «Spero di non subire un trattamento troppo lungo o duro, visto che il conte ha un debito di riconoscenza con me».

Giovanni Senza Terra sorrise, benché in modo poco rassicurante. «Ah, già, dimenticavo. William è molto sensibile sul punto dell'onore. Un debito lo vincola per sempre. Inoltre, come abbiamo appena visto poco fa, ha un cuore davvero troppo buono. Siete furbo ad approfittarne».

«Sire, riscuoto il mio credito per una buona causa: una bella dama».Il re scoppiò in una risata fredda e posò il coltello per lavarsi le mani. «Non posso

negare che la fanciulla sia sufficientemente graziosa da giustificare anche un simile sacrificio» continuò. «Ma dite: cosa pensate di ottenere da lei? Ha già detto di non avere niente da offrire in cambio».

L'americano nascose accuratamente i pensieri ingiuriosi che gli passarono per la testa e mantenne un'aria tranquilla. «Non pretendo niente da lei, mi basta la sua riconoscenza».

«Sì, sì, immagino. È una risposta degna di un romanzo cortese, a beneficio della dama qui presente» sogghignò il re. Tra gli altri qualcuno si scambiò un commento salace.

Daniel capì che, se voleva compiacere quel farabutto con la corona, doveva abbassarsi allo stesso livello. «Certo, se lei mi fosse molto riconoscente non direi di no» azzardò.

Guardò Leowynn mentre lo diceva, temendo le sue reazioni, ma la fanciulla non reagì con offesa alla sua frase. Continuava a fissarlo come se fosse la sua unica ancora di salvezza.

Giovanni Senza Terra annuì, questa volta divertito. «Siete sfacciato e spiritoso. Devo ammettere che mi piacete. Però, voi comprenderete che io devo giudicare anche la vostra posizione in tutta questa faccenda. Forse fareste bene a preoccuparvi di più per voi invece che per una ragazza. Non è detto che il vostro credito nei confronti di lord Salisbury vi protegga anche da me».

Daniel provò un brivido segreto, ma lo nascose con tutte le sue forze per ostentare calma. «Non ho fatto niente di illegale o di immorale, perciò non ho paura del vostro giudizio: i re d'Inghilterra sono famosi per il loro senso della giustizia».

«Siete un adulatore» commentò Giovanni Senza Terra, ma era chiaramente lusingato.Daniel invece aveva la nausea per essere costretto a fare tanti salamelecchi a un simile

verme coronato.Giovanni Senza Terra si accomodò meglio sullo scranno per bere dalla sua coppa a

fine cena. «William mi ha raccontato del francese che era qui e della sua inimicizia trasformata poi in alleanza con i Martewall, quindi so tutto su questo argomento» continuò. «Raccontatemi di voi, piuttosto: mi è stato detto che siete un cavaliere sassone del nord, eppure eravate al seguito di un francese».

Daniel scambiò un'occhiata ansiosa con Salisbury e vide il conte fargli un cenno d'incoraggiamento con il capo. Con quel gesto gli voleva dire di continuare a parlare liberamente con il re e inventare la sua storia: lui sarebbe stato pronto a intervenire per correggerlo in caso di bisogno.

Il conte aveva raccontato a Giovanni Senza Terra la prima parte della verità, capì Daniel, rigirando poi il finale in modo tale da coprire il vero intrigo che aveva favorito la fuga di Ian e Martewall da Dunchester.

Sì, ma se io adesso dico qualcosa che non va? si domandò Daniel con ansia. Comunque fosse, adesso doveva buttarsi. Decise di stare sul vago il più possibile.

«Non ho molto da raccontare, sire: l'isola da cui vengo è piccola e perciò da ragazzo ho deciso di viaggiare per imparare a essere un buon cavaliere» proseguì. «Così sono arrivato in Francia. La famiglia dei Ponthieu mi trattava bene e sono rimasto al suo servizio. È un casato potente, molto generoso con i suoi famigli. È anche grazie a loro se adesso possiedo un buon patrimonio».

«William mi diceva che eravate sul fronte fiammingo come lui, ma dall'altra parte del campo di battaglia».

Le ultime parole del re ebbero una nota d'accusa, ma Daniel cercò di non mostrarsi intimorito. «Ero al servizio di una famiglia francese, non potevo evitare di combattere per loro, prima o poi. Sono stato fortunato nel trovarmi dalla parte dei vincitori».

Aveva osato troppo? Il mormorio nervoso che Daniel sentì passare alle sue spalle tra gli altri presenti, gli fece sospettare di aver tirato troppo la corda, nel suo dialogo azzardato con il re. Anche i cavalieri fidati del sovrano si erano adombrati. Nigel Murrow invece lo stava guardando con gli occhi spalancati dall'inizio del dialogo.

Salisbury in compenso l'avrebbe incenerito volentieri con un'occhiata, se solo avesse potuto.

Sulle prime, Giovanni Senza Terra s'irrigidì leggermente, poi però sfoderò un nuovo sogghigno. «Siete un temerario, non c'è che dire. Nessun cavaliere qui avrebbe osato dire tanto sfacciatamente una cosa simile».

Daniel scelse di non fare marcia indietro. «Non posso dirvi che mi è dispiaciuto vincere la guerra: offenderei la vostra intelligenza e quella dei vostri uomini. Io però sono meno coinvolto di loro. Non sono né francese né inglese, per questo posso ricordare la guerra senza dolore o particolare soddisfazione. È stato un fatto fortunato per me, niente di più».

«Voi dite? Non mi sembrate tanto neutrale, visto che vi ritrovo di nuovo qui a combattere contro di me». Adesso la voce del re aveva una sfumatura pericolosa.

«Non ho potuto evitarlo» si giustificò Daniel. «Credetemi, sire: se solo avessi potuto scegliere, non mi sarei mai messo in questa situazione».

Poco ma sicuro, pensò in aggiunta, sentendo che quel dialogo sulla lama del rasoio cominciava a farlo sudare.

«Se non foste stato tanto rapido a mandare i vostri uomini a punire i traditori, io avrei fatto in tempo ad andarmene da qui insieme al mio signore» continuò. «Invece siamo rimasti intrappolati nell'assedio».

«E vi siete alleati con i miei nemici».«Dovevamo scegliere tra combattere o rimanere chiusi in cella, prigionieri dei

Martewall, e temevamo che voi, sire, ci avreste consegnati subito al boia, se i vostri uomini ci avessero presi».

«Cosa molto probabile» ammise il re, mentre faceva cenno a un servo per avere altra birra nella sua coppa. «Non sono ben disposto verso i cavalieri francesi in questo periodo».

«Posso capirvi» rispose Daniel, cauto.Giovanni Senza Terra lo sbirciò da sopra la coppa mentre beveva. «E perché pensate

che adesso dovrei trattarvi in modo diverso?» chiese dopo un po'.«Poco fa avete detto di apprezzarmi: speravo bastasse» buttò li Daniel e osò persino

abbozzare un sorriso. «Però potrei aggiungere che non sono francese e che non ho niente contro di voi, così come non ho particolare simpatia per re Filippo Augusto. Infine, c'è sempre il mio riscatto da trattare e io conto ancora sulla cortesia di lord Salisbury».

William Lunga-Spada colse l'occasione al volo. «Sire, vi prego: devo sdebitarmi con quest'uomo, come posso farlo se lo mandate alla forca?»

Nella sala calò il silenzio per un po', mentre il re meditava.«Bene, devo dire che non trovo colpe in questo racconto, perciò per il momento

lascerò le cose come stanno» decise alla fine Giovanni Senza Terra, con aria magnanima. «William, vi consento di tenere il vostro ostaggio senza pretendere altro da lui che il suo giuramento di non alzare più le armi contro di me».

«Giurerà senza dubbio, sire» rispose Salisbury e rivolse a Daniel un'occhiataccia eloquente.

«Avete la mia parola» fu costretto a dire il giovane, ma mentalmente cercava già un modo per aggirare quella promessa estorta controvoglia. Dopo aver dovuto recitare una commedia tanto disgustosa, aveva voglia di sciacquarsi la bocca col sapone, come se così facendo potesse lavare via dalla lingua le menzogne ipocrite.

«In quanto alla ragazza, cosa vogliamo fare?» domandò Giovanni Senza Terra ai suoi due cavalieri, sbirciando nel mentre Leowynn, che ricominciò a tremare. «Avete intenzione di prendere in considerazione la mia proposta o lasciate che lo straniero sia l'unico a fare un'offerta concreta per lei?»

«Il prezzo è troppo alto, io mi ritiro» rise il cavaliere a sinistra. «Il costo non vale la merce».

Anche l'altro si unì allo stesso sarcasmo. «Sarà carina, ma non vale tanto denaro, visto che non possiede più nulla. La lascio senza rimpianti allo straniero».

Giovanni Senza Terra guardò gli altri uomini seduti ai tavoli. «Nessun altro vuole fare un'offerta?»

Non ci furono risposte.«William, credo che il più danneggiato sarete voi» concluse il re. «Il vostro ostaggio

non potrà più darvi tutto il suo denaro, visto che in parte lo darà a me per avere la ragazza».

Salisbury guardò Daniel di sbieco. «Vorrà dire che dovrò accontentarmi di ciò che l'onore mi consente di pretendere da lui. La prossima volta farò più attenzione a non contrarre altri debiti di riconoscenza».

L'americano non disse niente, ma cominciò a provare un tenue sollievo per Leowynn, oltre che per se stesso.

«Vi concederò questa graziosa fanciulla,» gli disse Giovanni Senza Terra «ma prima aspetterò che mi paghiate. Sarete entrambi sotto la custodia di lord Salisbury finché non avrete ripagato lui e me con ciò che ci spetta. Solo allora sarà consentito a voi di lasciare la condizione di servitù e alla ragazza di lasciare Dunchester».

Daniel si costrinse a inchinarsi. «Grazie, sire» rispose ad alta voce. Se potessi, ti ripagherei volentieri con tutto quello che ti meriti, pensò contemporaneamente.

«Potete andare. Ora voglio godermi un po' di pace dopo la cena» decise ancora il re. «Penseremo domani a tutti gli altri prigionieri rinchiusi nelle segrete».

Daniel si ritrovò preso in disparte da Gorvenal che lo tirò indietro verso Salisbury. Il conte era decisamente furente, pur mantenendo la facciata di calma. «Non fatelo mai più» intimò, sottovoce. «Non posso proteggervi, se sfidate la sorte a questo modo».

Daniel non gli rispose nemmeno e si voltò invece a guardare Leowynn che stava per essere condotta fuori dalla sala dai soldati.

«Con il vostro permesso, me ne vado a letto. Stasera non ho fame» annunciò il giovane al conte inglese e s'incamminò deciso verso la ragazza, per andare a porgerle il braccio. Sir Gorvenal dovette tenergli dietro e congedò i soldati con un brusco "ci penso io".

Gli armati si fecero da parte. Gorvenal condusse Daniel e Leowynn verso la porta. I soldati chiudevano il gruppo.

La fanciulla tremava vistosamente per l'emozione violenta e si aggrappò al braccio di Daniel per sorreggersi.

«Coraggio, non date loro la soddisfazione di vedervi crollare adesso» le sussurrò il giovane, ma anche lui ebbe bisogno di tutta la sua forza d'animo per tenere a bada le emozioni che ora rischiavano di travolgerlo. Non sbirciò indietro, ma sapeva di avere addosso gli occhi di tutti, dal re ai suoi cavalieri, da Salisbury a Murrow.

Leowynn sembrava completamente stordita. «Io vi ringrazio per tutto quello che fate per me...» mormorò con un filo di voce, ma Daniel la fece interrompere

premurosamente. «Non c'è bisogno di parlare di questo, adesso. Pensate solo a calmarvi».

Fuori dalla sala, l'aria fredda del cortile ormai quasi buio sembrò una liberazione.Daniel gettò uno sguardo alla porta sorvegliata che conduceva alle segrete ma non si

fermò. Sempre con sir Gorvenal e i soldati alle costole, portò Leowynn al mastio e proseguì fino alla stanza della ragazza, là dove attendeva la vecchia serva.

«Signora, che cosa vi è successo?!» si preoccupò la donna, accorrendo verso la sua padrona sconvolta.

Daniel le consegnò Leowynn. «State accanto alla vostra signora, ne ha molto bisogno».

La serva annuì e accompagnò Leowynn nella stanza, chiudendosi poi la porta alle spalle.

«E anche voi adesso tornate al vostro alloggio» disse Gorvenal a Daniel, secco. «Domani lord Salisbury deciderà cosa fare con voi, vista la nuova situazione».

L'americano non fiatò e si lasciò scortare fino alla sua stanza. Quando oltrepassò la soglia, però, tirò dentro con sé anche il cavaliere inglese per un breve attimo, lontano dalle orecchie indiscrete dei soldati. «Dovete avvertire il mio signore» disse a voce bassissima. «Deve sapere cosa sta accadendo qui!»

«Manderemo un messaggero a cercarlo, ma non abbiamo la certezza di raggiungerlo in breve tempo» replicò Gorvenal. «A meno che voi non sappiate per certo a quale porto intendesse sbarcare».

Daniel scosse la testa, frustrato. «Non ne ho idea. Probabilmente andrà a cercare suo fratello a Chatel-Argent, ma non so per quale strada ci arriverà».

E comunque ci vogliono giorni di cammino per arrivare fin là, pensò in aggiunta, disperatamente.

«Allora possiamo fare ben poco» replicò Gorvenal, cupamente, prima di ritirarsi.La porta venne chiusa a chiave dall'esterno. Rimasto solo, Daniel guardò fuori dalla

finestra la luce che scompariva del tutto dal cielo, sentendo una grande angoscia per l'indomani. Chiamò Hyperversum, ma il gioco, come al solito, non gli rispose. Se anche l'avesse fatto, questa volta, a cosa sarebbe servito? Daniel avrebbe potuto fuggire, ma solo al prezzo di lasciare Leowynn senza aiuto, del tutto in balia del re e dei suoi sgherri.

Non potrei mai farlo, si disse, eppure, anche rimanendo, a cosa poteva essere utile? Era anche lui in balia di chi lo teneva prigioniero, esattamente come la ragazza. Poteva cercare di prendere tempo, come aveva appena fatto, ma la verità era che le cose si sarebbero messe davvero molto male se qualcuno non interveniva in fretta.

Ian dove sei? domandò Daniel al silenzio.

Capitolo 35Il sole calò e sorse di nuovo su Dunkerque. Addobbata di stendardi azzurri con i gigli

d'oro, la città si preparò ad accogliere l'arrivo di Luigi, Delfino di Francia.Poco prima di mezzogiorno, attraccò in porto una nave potente e veloce, una nave da

guerra che inalberava gli stessi stendardi svettanti sulle torri della fortezza.Ian l'osservò dall'alto dei bastioni e la vide completare le sue manovre per far scendere

i passeggeri. Lentamente si formò un corteo di cavalli, di livree e di cavalieri che scomparve dalla vista e si inoltrò nel dedalo di vie dirette alla fortezza.

Ian si staccò dal parapetto merlato e si voltò. Martewall era fermo accanto a lui a osservare la stessa scena in silenzio.

«Ci siamo» annunciò l'americano. «Sei pronto all'udienza? Immagino che il Delfino vorrà vederci molto presto, probabilmente dopo aver mangiato qualcosa».

L'altro cavaliere annuì. «Io mi auguro che ci dia buone notizie per Lunga-Spada».«Anch'io» replicò Ian, pensando a Daniel con l'usuale senso di ansia. «Sei nervoso?»

domandò per dissimulare il fatto che lui era nervosissimo.«Sì» ammise l'inglese con semplicità. «Ho un brutto presentimento che non mi dà

pace. Spero di poter ripartire al più presto per tornare a Dunchester. Tutto questo gioco di intrighi non mi piace affatto».

«Non vorrai ricominciare a discutere su questa faccenda» sbuffò Ian, già abbastanza inquieto per tutto il resto.

Martewall gli rivolse uno sguardo glaciale. «Sono costretto a partecipare a un complotto che mira a togliere il trono al mio re, non puoi pretendere che mi piaccia».

Ian non replicò e tornò a guardare il mare. «Sì, è probabile che Giovanni Senza Terra perda il trono in questo modo» commentò alla fine. «Sono convinto che il principe Luigi sarà molto interessato alla proposta che Salisbury potrà fargli e altrettanto lo saranno i baroni. Troveranno un accordo per allearsi».

«Riguardo al principe, non ho dubbi» disse Martewall. «Perché non dovrebbe essere interessato all'idea di entrare in Inghilterra senza colpo ferire? L'ipotesi farebbe gola a chiunque. Non vedo però perché i baroni dovrebbero accettarlo».

«Lo faranno perché è un alleato potente su cui fare affidamento e perché Francia e Inghilterra non sono poi così lontane» rispose Ian. «La madre di Riccardo Cuor di Leone, in fondo, era francese».

«E gli interessi in comune spingono antichi nemici ad allearsi» sospirò Martewall. «Dovrei averlo imparato sulla mia pelle».

Ian ebbe una mezza smorfia. «Qualcuno una volta ha detto: il nemico del mio nemico è mio amico».

«Io non sono amico tuo» puntualizzò Martewall, secco. «Sono d'accordo» convenne Ian.

«Ciò nonostante, devo ringraziarti per ciò che stai facendo» continuò l'inglese, dopo alcuni istanti di silenzio.

Era in evidente disagio, mentre lo diceva, eppure non tentò di liquidare l'argomento in due parole. «So che desideri salvare il tuo amico almeno quanto io desidero salvare la mia famiglia, ma al di là di ciò che fai per loro, mi consenti di essere un ospite qui mentre potresti trattarmi da prigioniero. Al posto tuo io non l'avrei fatto e tu lo sai».

«Se la cosa ti dispiace, posso sempre rimediare» replicò Ian, sarcastico. «Ti faccio

preparare una cella invece di una stanza degli ospiti».Martewall però non aveva voglia di fare dell'ironia. Era molto serio. «Mi stavo solo

chiedendo perché mi dimostri tanta generosità, dopo tutto quello che ti ho fatto».Già, perché? s'interrogò Ian, ma non aveva risposte precise da darsi. Aveva agito

d'istinto, al molo, quando aveva rifiutato la spada di Martewall e da allora non aveva più riflettuto sulla questione. Non ne aveva avuto il tempo, né la voglia; sapeva solo che, con tutto quello che era accaduto dall'assedio di Dun chester in poi, vendicarsi di Martewall era diventata l'ultima delle sue priorità. Forse non aveva nemmeno più importanza.

Eppure Ian ricordava bene di averlo desiderato spesso in passato. Forse l'aveva semplicemente frenato il fatto di avere una mentalità moderna e di non avere l'abitudine a esercitare il potere di un feudatario, con guardie e carcerieri a sua disposizione in qualsiasi momento.

«Io non sono abituato a buttare in prigione la gente, solo perché mi fa un torto» brontolò Ian alla fine, non sapendo come spiegare altrimenti il suo gesto. «Non approfitto della mia autorità per ottenere vendette personali».

«Nemmeno io l'avrei fatto, un tempo» replicò Martewall. La sua voce aveva una nota assorta e amara. «Sono cambiato più di quanto mi piaccia ammettere».

Ian rispettò le sue riflessioni senza infierire. Gli faceva una strana impressione sentir parlare tanto apertamente il suo nemico e, per la seconda volta in pochi giorni, si trovò a meditare su cosa l'altro stesse provando.

Martewall aveva il senso dell'onore, questo Ian doveva ammetterlo: non aveva mai negato le sue colpe e anche ora aveva fatto un'ammissione che doveva essergli costata molto. In torneo e in battaglia non si era mai comportato slealmente, era addirittura sceso da cavallo e aveva gettato via elmo e scudo per affrontare Ian che non aveva altro equipaggiamento che la sua spada. Era un gesto da cavaliere, che il suo amico Jerome Derangale non aveva e non avrebbe mai fatto.

D'altra parte, avendo conosciuto sir Harald Martewall e la sua assoluta intransigenza, Ian non si stupiva del fatto che suo figlio fosse altrettanto ligio all'onore.

Come poteva uno così essere amico di Derangale? si chiese Ian, perplesso. Martewall sta scoprendo solo ora che razza di farabutto fosse il suo amico, si rispose però subito dopo.

Era senza dubbio quello il solo motivo per cui Martewall si era trovato dalla parte dello sceriffo a Béarne e poi in Fiandra. Ian cominciava a credere davvero che Martewall non avrebbe mai condiviso le trame criminali di Derangale, se solo ne fosse stato a conoscenza.

Quando ha catturato me e Daniel, però, si è comportato da bandito, ricordò il giovane con una fitta di rancore, rimproverandosi di sentire quell'inspiegabile comprensione per il suo avversario. Avrei dovuto davvero buttarlo in una cella, almeno per un po'.

Allo stesso tempo, un'altra voce nella sua testa gli domandò cosa avrebbe fatto lui, se fosse stato nei panni dell'inglese e, dopo aver passato cinque mesi in catene, si fosse trovato davanti l'uomo che aveva tolto la vita a un suo amico.

Derangale era un bastardo e io l'ho ucciso perché non mi ha dato scelta, si giustificò Ian in silenzio. Ma era pur sempre un suo amico e il fatto che fossimo in guerra non attenua la colpa di averlo ucciso, si rispose però subito dopo.

Ian provò un bizzarro miscuglio di rancore e di vergogna. Lo sto giudicando, ma io

l'ho odiato per molto meno, si disse. Lui non ha ucciso Daniel, ma io ero pronto a fargliela comunque pagare col sangue.

Sbirciò Martewall, che era sempre in silenzio e fissava assorto il paesaggio sotto la fortezza, ignaro delle meditazioni del suo accompagnatore.

Siamo poi tanto diversi, noi due? si domandò Ian, sempre più a disagio.Per qualche strano motivo, preferì non darsi risposta.

***

L'aria del mattino sembrava pietrificata, tanto era fredda, immobile e pesante. Il sole non si affacciava su Dunchester, nascosto dietro nuvole che minacciavano pioggia per la prima volta dopo tanti giorni. C'era silenzio nel cortile del castello, benché fosse gremito di gente. Un silenzio raggelato e carico di tensione, rotto solo dal grido di un corvo che volava tra le torri di guardia.

A Daniel quel corvo sembrava l'uccello stesso del malaugurio, venuto a strillare morte sopra il cortile. Se solo avesse avuto un arco, l'avrebbe abbattuto senza pietà.

Invece doveva stare II, insieme agli altri abitanti del castello, ad assistere a una scena che non avrebbe mai pensato di dover vedere un giorno.

Il boia aspettava il condannato con la scure in mano.Non era nemmeno mezzogiorno. Giovanni Senza Terra aveva mantenuto la sua

promessa di far giustiziare Harald Martewall prima di mezzodì e di sicuro non intendeva perdere l'appetito per quello, visto che aveva dato ordine ai servi di preparare il pranzo subito dopo, nella sala grande. Adesso il sovrano stava comodamente seduto su uno scranno che si era fatto portare nel cortile per l'occasione. Non aveva fatto preparare altro: le forche per gli altri condannati erano in costruzione fuori dal cortile, nella corte esterna, là dove lo spettacolo sarebbe stato un monito per tutta la gente di Dunchester.

Da fuori arrivava attenuato il rumore ritmico dei martelli e degli strumenti dei falegnami intenti al lavoro. Le forche sarebbero state pronte probabilmente per il giorno dopo.

Per sir Martewall non era stato costruito niente di così complicato: un grosso ceppo di legno era stato appoggiato nel mezzo del cortile e tanto bastava. Il re non aveva intenzione di perdere troppo tempo con proclami o altri discorsi. Il processo sommario era già stato celebrato, la condanna raggiunta: tanto valeva fare in fretta e occuparsi d'altro. Nel frattempo, i soldati avevano riunito tutti gli abitanti del castello per farli assistere all'evento.

Daniel guardò i presenti per l'ennesima volta. William Lunga-Spada e Nigel Murrow erano stati chiamati accanto al re, il quale scambiava con loro qualche parola tranquillamente, come se stesse per assistere a uno spettacolo invece che a un'esecuzione. Le facce dei due feudatari però erano molto diverse. Salisbury era cupo ma controllato e reggeva la conversazione con nervi d'acciaio; il giovanissimo Murrow invece aveva il colorito verdognolo di chi è sul punto di vomitare, e rispondeva solo a monosillabi.

I due cavalieri che la sera prima erano al fianco di Giovanni Senza Terra non erano a molta distanza da li. Parlavano tra loro, commentando con disinvoltura. Il comandante dei mercenari era impassibile.

Daniel spostò lo sguardo angosciato su Leowynn. La ragazza era stata messa in prima

fila a pochi metri da lui, costretta ad assistere alla scena raccapricciante. Le era stato preparato uno scranno ed era una beffa crudele, più che una galanteria: come se la ragazza potesse davvero stare seduta a guardare come se niente fosse. Infatti Leowynn era in piedi e si aggrappava allo scranno per sorreggersi. Tremava, ma certo non per il freddo.

La tensione divenne tangibile quando alcuni soldati portarono il condannato fuori dalle segrete per condurlo fino al carnefice.

Tutti i presenti trattennero il fiato, non solo gli abitanti di Dunchester ma anche i vincitori. Avevano espressioni diverse: alcuni erano tesi, altri sprezzanti. I due cavalieri del re sorridevano con un ghigno sardonico. Nessuno tuttavia osò alzare una voce.

Daniel non poté reggere oltre a quell'immobilità. Infischiandosene dei soldati che, tanto per cambiare, lo tenevano d'occhio, avanzò deciso verso Leowynn. Un armato provò a fermarlo, ma senza troppa convinzione. Daniel si liberò della sua mano sulla manica con uno strattone e raggiunse la ragazza per cingerle le spalle. Lei sussultò spaventata, poi però lo riconobbe e non si sottrasse al suo gesto di conforto. Gli rivolse un breve sguardo muto in cui c'era la disperazione più assoluta.

Daniel non le disse niente. E cosa avrebbe potuto dirle in un momento simile? La strinse forte il più possibile, anche se temeva di farle male. Se solo avesse potuto, l'avrebbe portata via di corsa. Se solo avesse potuto fare qualcosa...

I soldati avevano condotto sir Harald davanti al ceppo e lo fecero fermare lì. Il vecchio barone era pallido, ma dimostrava un coraggio assoluto. Guardò i presenti intorno a sé e non vacillò mai, se non per la debolezza dovuta alla sua malattia e al freddo intenso della mattina. Senza paura fissò alla fine lo sguardo su Giovanni Senza Terra, seduto di fronte a lui, dall'altra parte del ceppo e del boia.

Il re fu sbrigativo. «Procedete» disse semplicemente e si accomodò meglio nel suo mantello di pelliccia.

Daniel sentì Leowynn aggrapparsi a lui con terrore.«Sire, per l'ultima volta: grazia» disse Salisbury come estremo tentativo.«Prendo nota del vostro buon cuore, William» rispose il re, tranquillamente, poi si

rivolse al barone ragazzo. «Sir Murrow, mi aspetto che voi portiate avanti il giudizio e le condanne dei traditori nei prossimi giorni, finché tutti i colpevoli non avranno ricevuto la giusta punizione. Poiché il conte di Salisbury è di animo troppo tenero, spero che voi abbiate il necessario pugno di ferro».

Il ragazzo sobbalzò. «Io, sire?!» esclamò e aveva l'espressione di chi è stato improvvisamente stretto in un angolo senza via di fuga.

Salisbury si accigliò, ma non disse niente.«Io non rimarrò qui a lungo» spiegò il sovrano con tutta calma. «Domani ripartirò per

il nord, dove altri feudatari hanno bisogno che qualcuno metta loro una mano salda sulla testa, prima che commettano sciocchezze. Vi lascerò terminare al posto mio tutte le incombenze in sospeso. Se mi dimostrerete di essere efficiente e affidabile nell'amministrare la mia giustizia, vi lascerò annettere Dunchester ai vostri domini».

Murrow guardò alternativamente il re e sir Harald, con ansia palese. «Sì... come desiderate, mio signore...» rispose alla fine, a fatica.

Il vecchio barone lo fissò con disprezzo. «Sir Murrow, state attento a compiacere sempre il vostro re o farete la mia stessa fine» disse con voce ferma.

Il ragazzo era cinereo in viso e non rispose.

Giovanni Senza Terra fece al carnefice il cenno di procedere con il suo lavoro.Daniel controllò a stento un tremito e strinse Leowynn a sé. Sir Harald venne fatto

inginocchiare. Gettò un ultimo sguardo commosso alla figlia e poi posò il capo sul ceppo.

Il boia alzò la scure.

***

Luigi, Delfino di Francia era un giovane robusto, coetaneo di Ian, spartano nei vestiti e nei modi. Non sarebbe stato facile distinguerlo da altri cavalieri meno blasonati, se non per l'anello d'oro con il simbolo del Giglio che portava alla mano destra e per la somiglianza evidente con il padre Filippo Augusto. Non pretendeva l'etichetta di corte e si accontentava di bere un buon boccale di vino durante le udienze, rimanendo difficilmente seduto sullo scranno d'onore per più di mezz'ora.

Era un uomo d'azione: non amava né i discorsi lunghi né tergiversare nelle decisioni.L'udienza aveva luogo a porte chiuse, in una piccola sala appartata della fortezza, alla

presenza di Guillaume de Ponthieu, Etienne de Sancerre e di tre cavalieri fidati del principe, ai quali si aggiungevano due vecchi consiglieri.

«Ci offrono l'Inghilterra su un piatto d'argento. È il caso di approfittarne» decretò Luigi non appena Ian e Martewall gli ebbero illustrato l'offerta di William Lunga-Spada. «Se vogliono sbarazzarsi di quell'inetto di Giovanni, sono pronto ad accontentarli» continuò poi, con un sogghigno sul volto energico e abbronzato, da cavaliere abituato alla vita all'aria aperta. «L'avrei fatto comunque con le cattive maniere. Così, mi facilitano il compito».

Ian sentì il cuore allargarsi, quando il Delfino aggiunse: «Potete riferire al conte di Salisbury che sono senz'altro disposto ad ascoltare la sua offerta e a discuterne i termini».

Gli appartenenti al seguito reale si guardarono l'un l'altro scambiandosi parole sussurrate. Il conte di Ponthieu accettò la decisione con freddezza. Etienne de Sancerre fremeva dalla voglia di partire e varcare la Manica.

Anche Martewall, come Ian, aveva avuto un evidente moto di sollievo.L'americano ringraziò il cielo con tutta l'anima. Le cose andavano come previsto.

Presto avrebbe potuto tornare a pretendere la libertà di Daniel e sistemare le cose una volta per tutte.

Il consigliere più anziano, però, si fece avanti di un passo. «Principe, io credo che dovreste meditare bene prima di accettare una simile proposta» esordì. «È molto pericolosa e sono sicuro che vostro padre non l'approverebbe».

Ian lanciò all'uomo un'occhiataccia, ma venne redarguito allo stesso modo da Ponthieu, che in silenzio gli fece capire di non doversi intromettere.

«E perché, di grazia?» aveva domandato il Delfino. «Che cosa c'è di meglio che andare a prendere un paese, invitati dagli stessi abitanti? Nemmeno il Papa, questa volta, potrà avere qualcosa da obiettare».

«L'avrà invece, mio signore, proprio perché gli Inglesi vi inviteranno. La cosa crea un precedente pericoloso: legittima il fatto che i sudditi possano deporre a loro piacimento il proprio re, negando il suo diritto divino di portare la corona. Anche gli altri sovrani avranno di che temere dopo un fatto del genere».

«Che idiozie sono queste?» replicò Luigi, infastidito. «I sudditi non avranno mai l'ardire di deporre un sovrano reso tale per diritto divino. Sono solo cavilli buoni per i ragionamenti astratti dei chierici».

Ian trovò buffa una frase simile sulla bocca di un futuro re di Francia, considerando che le ultime pagine della storia dei re francesi sarebbero state scritte con la ghigliottina azionata dal popolo, ma si guardò bene dall'esprimere quel pensiero.

«In questo caso i sudditi chiedono aiuto a me, che ho lo stesso diritto divino di Giovanni di cingere la corona» continuò il Delfino. «Io deporrò Giovanni, non loro. Non c'è eresia in questo. È un confronto tra re».

«Ciononostante, principe, io credo che il Papa si opporrà e vostro padre gli darà ascolto» obiettò il consigliere e anche l'altro espresse la stessa opinione.

Il principe sbuffò. «Sono stanco che mi vengano tarpate le ali su questo argomento. Aspetto da anni di poter varcare la Manica. Questa volta non mi lascerò fermare da inutili argomentazioni, venissero anche da Roma».

«Principe, cosa dite?! In questo modo rischiate la scomunica!» si allarmarono i consiglieri.

Il Delfino scrollò le spalle, ma non rispose. Era arrabbiato, ma la minaccia della scomunica lo stava facendo meditare. Guardò i suoi cavalieri, che gli fecero un cenno eloquente di diniego con la testa.

Ian cominciò a diventare irrequieto, vedendo il principe esitare, poiché temeva che gli uomini del suo seguito lo convincessero a rifiutare momentaneamente la proposta dei baroni. Sarebbe intervenuto nonostante l'occhiata ammonitrice di Ponthieu, se il principe non avesse alla fine rotto gli indugi, rivolgendosi proprio al conte Guillaume. «Quante navi abbiamo a disposizione?»

«Cinque, per ora, mio signore» rispose Ponthieu.Il Delfino fece alcuni calcoli mentali. «Ci vorranno almeno due mesi per disporre di

una forza militare adeguata, anche chiamando a raccolta i feudatari maggiori più vicini».«Principe, è bene comunque che il Papa e vostro padre siano informati di quanto sta

accadendo, prima di fare qualsiasi mossa» intervenne il consigliere anziano, ora con aria disperata davanti al piglio deciso del principe.

Luigi fece un cenno infastidito di assenso. «Ma sì, sì, saranno informati» rispose. «Non sto per imbarcarmi in questo preciso istante, dico bene? Ci vorrà tempo per organizzare al meglio ogni cosa, quindi state tranquilli: ci sarà tempo anche per mandare un messaggero a Parigi. Anzi, già che ve ne preoccupate tanto, provvedete voi immediatamente. A mandarne uno a Roma penseremo più tardi» aggiunse. «Se lo riterremo opportuno».

Dal gesto ampio del braccio del principe, i due consiglieri capirono di essere stati congedati. Dovettero fare buon viso a cattivo gioco e s'inchinarono profondamente, prima di sparire oltre le porte. I cavalieri, invece, rimasero nella sala in silenzio.

Il Delfino si voltò verso uno di loro. «Monsieur de Vitry, voi siete pronto a partire subito?» gli domandò.

«Certamente» rispose l'uomo.Ponthieu invece obiettò: «Non volete attendere la risposta di vostro padre al

messaggio, mio signore? Sarebbe più prudente».«Preferisco capire meglio e al più presto di cosa stiamo discutendo, in termini pratici»

replicò il principe. «Conosco personalmente William Lunga-Spada e so che non è uomo

da parlare a vuoto. Tuttavia, la sua proposta al momento è ancora troppo vaga e ha bisogno comunque dell'appoggio attivo dei baroni inglesi. Voglio capire se sono effettivamente disposti a offrirmi la corona o se sperano di ottenere la mia alleanza ripagandola semplicemente con promesse vuote, nel qual caso scopriranno di aver fatto male i loro conti».

Terminò la frase guardando Martewall in modo eloquente.«Sono sicuro che lord Salisbury saprà darvi tutte le spiegazioni o le rassicurazioni del

caso» replicò il barone, freddamente.«Sì, ne sono sicuro anch'io» disse il Delfino. «Monsieur de Vitry sarà l'ambasciatore

che potrà parlare in mia vece. A lui affiderò le mie domande e le mie richieste, e mi aspetto che torni con risposte più che esaurienti. Voi, monsieur Jean, lo accompagnerete. Voi invece, sir Martewall, resterete qui, perché sarebbe troppo pericoloso rimandarvi in patria adesso. La vostra presenza non deve ostacolare la trattativa».

Ian vide Martewall chiaramente contrariato, ma poteva comprendere i motivi che avevano portato il principe a una simile decisione: l'inglese era stato proclamato traditore della corona e avrebbe messo in pericolo chiunque gli fosse stato accanto.

Anche Martewall lo sapeva e accettò la decisione del principe senza obiettare. «Come desiderate, signore» rispose con un mezzo inchino, nonostante la delusione cocente.

Il Delfino si rivolse di nuovo a Ponthieu. «Acconsentirò solo a un incontro segreto tra il mio ambasciatore, vostro fratello e lord Salisbury, in un luogo protetto da occhi e orecchie indiscrete. Non pronuncerò la mia decisione finché non saprò tutti i dettagli dagli Inglesi e avrò ricevuto il parere di mio padre. Lo trovate abbastanza prudente, monsieur Guillaume?»

Il conte annuì, soddisfatto. «Senza dubbio, mio signore».H principe Luigi gli fece un sorriso sornione. «Voi comunque non interrompete i

preparativi della mia flotta» concluse, per la gioia di Etienne de Sancerre.

***

Fuori pioveva.Una pioggia fitta e gelata, mista a fiocchi di neve sferzava le torri insieme al vento e

aveva costretto tutti a correre al riparo. Anche le sentinelle si erano rifugiate sotto le tettoie o nei loro gabbiotti, in attesa che le condizioni del tempo consentissero di riprendere i giri di ronda sulle mura di Dunchester. I falegnami avevano momentaneamente smesso di lavorare alle forche nella corte esterna.

Le finestre del maniero erano state chiuse nel solo modo possibile, con le imposte di legno, e ora l'unica fonte di luce all'interno delle stanze erano le torce e i caminetti accesi.

Daniel sedeva in silenzio su uno sgabello, da almeno un paio d'ore, con i gomiti sulle ginocchia e il capo chino. Guardava il pavimento e le ombre guizzanti sulle pietre e sui tappeti di pelliccia, gettate dalle fiamme irrequiete delle torce.

Accanto a lui, Leowynn giaceva immobile sul letto, sotto una coltre di coperte. Erano nella stanza della ragazza. Daniel l'aveva trasportata lì di peso quando lei era svenuta nel cortile.

Leowynn non aveva visto il boia uccidere suo padre, perché Daniel gliel'aveva impedito, costringendola con una mano a voltare il viso e ad appoggiarlo sul suo petto

all'ultimo istante. La fanciulla aveva comunque udito il rumore raccapricciante della lama sul ceppo, si era lasciata sfuggire un gemito di orrore ed era svenuta tra le braccia di Daniel. Da allora non aveva più ripreso conoscenza, nemmeno quando il giovane, sorvegliatissimo dai soldati, l'aveva portata nella sua camera e l'aveva messa a letto con l'aiuto dell'anziana serva.

Adesso la serva piangeva sommessamente, seduta su uno sgabello in un angolo vicino al camino.

I soldati erano fuori dalla porta chiusa, di guardia come al solito.Daniel si passò le mani sul viso lentamente e ve le tenne qualche istante. Aveva

impedito a Leowynn di vedere, ma lui invece aveva visto ogni cosa e continuava a rivivere quella scena orribile davanti agli occhi. Adesso si immaginava la pioggia che diluiva la grande macchia rossa rimasta sul terreno e lavava il ceppo lasciato nel cortile.

Che orrore... pensò Daniel, stringendosi le tempie.Non aveva idea di dove fosse stato portato il corpo di sir Harald, quando i soldati del

re avevano sgomberato la scena. Poteva solo ipotizzare che non avessero sprecato tempo a scavargli una tomba. Probabilmente l'avevano gettato in mare senza tanti complimenti.

Il giovane si guardò le mani prima di intrecciarle una nell'altra e appoggiarvi sopra le labbra.

Che cosa faccio adesso? Era una domanda ormai ricorrente di quei giorni maledetti e come sempre non aveva una risposta.

Daniel poteva sentire il respiro lieve ma affannato di Leowynn. La ragazza aveva la bocca socchiusa, gli occhi che guizzavano sotto le palpebre serrate. Ogni tanto le sfuggiva un gemito lieve. Sognava, e dovevano essere visioni spaventose quelle che le suggeriva la mente sconvolta.

Prima o poi si sarebbe svegliata e Daniel non sapeva proprio come avrebbe fatto a consolarla.

Allo stesso tempo, il giovane pensò a Geoffrey Martewall, ancora ignaro di tutto ciò che stava accadendo al suo castello.

Daniel sapeva per certo che Salisbury aveva inviato un messaggero a cercare Ian la sera stessa in cui Giovanni Senza Terra aveva condannato sir Harald a morte. Per quanto veloce, il messaggero non poteva essere già arrivato a destinazione, sempre ammesso, poi, che riuscisse a scoprire in quale porto Ian e Martewall fossero sbarcati o che avesse la fortuna di incrociarli lungo la strada.

Daniel provò pietà per Geoffrey Martewall, quando si chiese come avrebbe reagito l'inglese nell'apprendere la terribile sorte di suo padre. Se ne immaginava la disperazione, accentuata dalla consapevolezza di non poter più fare niente e dal rimorso di non essere stato presente per impedire il peggio.

Io ero presente e non ho potuto fare nulla, pensò Daniel cupamente.Adesso doveva prepararsi alla prospettiva di assistere ad altre scene simili. Le forche

in costruzione nel cortile non sarebbero rimaste inutilizzate; per ora la pioggia ne aveva impedito il completamento, ma prima o poi sarebbero state terminate e allora...

Daniel pensò a Hector e agli altri cavalieri rinchiusi nelle segrete del maniero. Non aveva dubbi che sarebbe toccato a loro morire, subito dopo il loro signore.

Giovanni Senza Terra non avrebbe assistito a tutte le esecuzioni, poiché intendeva partire l'indomani, sperabilmente insieme ai suoi odiosi cavalieri, ma aveva comunque lasciato ordini precisi a Nigel Murrow. Daniel era sicuro che il ragazzo avrebbe

obbedito, benché chiaramente controvoglia: era spaventato da ciò che il re si attendeva da lui, ma proprio perché aveva paura non avrebbe deluso le aspettative. Aveva visto che cosa era accaduto a un barone che si era ribellato all'autorità di Giovanni Senza Terra e proprio per questo avrebbe fatto di tutto per compiacere il suo sovrano.

Avrà gli incubi per i prossimi vent'anni. Peggio per lui, così impara a immischiarsi quando non dovrebbe e a pugnalare alle spalle i suoi vicini, pensò Daniel, ma non riuscì a provare alcuna soddisfazione a quell'idea.

Se mai Ian e Martewall fossero riusciti a tornare a Dunchester, anche con i rinforzi o con qualsiasi appoggio politico che consentisse loro di non correre troppo pericolo, avrebbero trovato probabilmente un cimitero al posto del castello.

Daniel alzò gli occhi verso la finestra sigillata, sulla quale si udiva il picchiettare della pioggia. Ma non potrebbe piovere per i prossimi dieci giorni? si augurò amaramente. Un bel diluvio universale potrebbe distruggere quelle dannate forche nel cortile! Almeno così guadagneremmo tempo.. .

L'idea lo colpì e gli fece risollevare il mento dalle mani: non c'era bisogno di una calamità naturale per distruggere le forche, bastava soltanto che qualcuno cominciasse strategicamente a levare chiodi quando nessuno guardava...

Be' levare chiodi forse non basta, ma si può tentare di sabotare le strutture in qualche altro modo, pensò Daniel, con improvvisa eccitazione. Loro le costruiscono, noi le manomettiamo. Non riusciremo a tergiversare per molto, ma possiamo sempre guadagnare qualche giorno.

Qualche giorno. Era una misera speranza, ma era pur sempre qualcosa, in attesa che Ian potesse fare qualcosa. Se una dilazione di qualche giorno poteva salvare anche solo una vita, ne valeva la pena.

Daniel si alzò in piedi, incapace di stare seduto più a lungo mentre rimuginava su quell'idea bizzarra eppure potenzialmente fattibile.

C'erano rischi, e tanti. Se il sabotaggio fosse stato troppo smaccato, i fedeli del re se la sarebbero presa con chi aveva fatto il lavoro e potevano esserci ritorsioni violente. D'altra parte, però, Salisbury non aveva alcun interesse a lasciar spopolare Dunchester dal boia e non appena il re si fosse tolto di mezzo avrebbe avuto molta più probabilità di muoversi in qualche modo, anche aggirando l'autorità che Giovanni Senza Terra aveva lasciato formalmente a Murrow. Daniel non aveva dubbi che un ragazzino inesperto come il giovane barone sarebbe stato facilmente ostacolato da uno squalo veterano come William Lunga-Spada.

Salisbury però è restio a esporsi in prima persona, potrebbe non avere la volontà di organizzare la resistenza, meditava Daniel che comunque non aveva alcuna voglia di lasciare tutto nelle mani del conte. Se lo scavalco e riesco a mettere a punto il piano con aiuti esterni, Salisbury dovrà assecondarmi, che gli piaccia o no.

Il vero ostacolo per portare a compimento la sua idea era il fatto di essere confinato dentro il castello, senza poter uscire nella corte esterna dove le forche erano in costruzione. Daniel capì subito che non poteva mettere in pratica personalmente il suo progetto: era troppo sorvegliato, troppo limitato nei movimenti. Doveva chiedere aiuto fuori dal castello, a qualcuno che avesse, almeno potenzialmente, un margine di manovra più ampio. Qualcuno che fosse sorvegliato con meno scrupolo o che potesse contare sull'aiuto di altri per sviare l'attenzione delle guardie.

I mercenari del re o i soldati di Murrow non staranno personalmente costruendo le

forche, meditò Daniel. Avranno reclutato i falegnami tra la gente oppure staranno costringendo i prigionieri, come nei giorni scorsi quando li obbligavano a scaricare i sacchi delle granaglie o la legna.

Ripensandoci, adesso sapeva esattamente a chi rivolgersi.«Signore, che cosa succede?» domandò la vecchia serva, con un tono di voce

lamentoso e allarmato. Si era accorta dell'improvvisa agitazione del giovane e ora lo guardava con ansia, temendo chissà quale altra tremenda notizia.

Daniel si voltò verso di lei, riflettendo più in fretta. «Come vi chiamate?» le domandò, a bruciapelo.

«Birgit, signore...», rispose la donna, esitando per la sorpresa, mentre si asciugava gli occhi.

Daniel la raggiunse in pochi passi nervosi. «Birgit, siete disposta a correre un piccolo rischio per la vostra padrona? Per una cosa che lei approverebbe?»

La serva guardò il giovane da sotto in su, con gli occhi sbarrati, ma decisi. «L'ho vista crescere, è come se fosse la mia bambina. Farei qualsiasi cosa per lei». Era sincera.

«Benissimo. Voi avete la possibilità di uscire nella corte esterna o di parlare con qualcuno che possa farlo?»

«Io non posso uscire dal castello, come la maggior parte dei servi. L'unico che conosco che può ancora muoversi tra fuori e dentro, a parte i soldati, è il prete».

Daniel annuì: come aveva fatto a non pensarci? Il prete aveva ampia libertà di movimento e poteva andare a visitare anche i prigionieri, all'interno e all'esterno del castello. Poteva avvicinare Thomas Bull e metterlo al corrente dell'idea che Daniel aveva appena avuto. Il boscaiolo poi poteva fare il resto mettendo al corrente altri complici tra i prigionieri costretti a lavorare per i vincitori.

Ma il prete sarà affidabile? si domandò Daniel. Il piano sarebbe diventato una catastrofe se solo l'uomo incaricato di riferire il messaggio a Bull fosse invece andato a riferirlo a Murrow o agli uomini del re. In quel caso, Daniel avrebbe rischiato seriamente il collo.

Sulle prime, il giovane pensò di vincolare il prete al segreto, sfruttando il sacramento della confessione, ma questo non gli assicurava comunque che il religioso sarebbe poi andato a riferire il messaggio. Poteva tenerselo per sé e così chiudere la faccenda con un nulla di fatto.

Rimuginando, Daniel si rivolse di nuovo alla serva. «Conoscete bene questo prete? Gli affidereste la vita della vostra signora?»

«Padre Crispin ha battezzato personalmente tutti i figli del povero sir Harald. È vecchio, ma ha coraggio. Potete fidarvi di lui».

Daniel si augurò che fosse vero. «Allora andatelo a chiamare subito. Se i soldati vi chiedono qualcosa, dite che la vostra signora ha bisogno di conforto spirituale dopo una giornata tanto tremenda».

«Ma che cosa volete da padre Crispin?»«Chiedergli di aiutare chi rischia la vita sotto la scure di re Giovanni».La serva spalancò gli occhi. «E come potrebbe farlo un vecchio prete?»«Lo scopriremo presto e insieme, se andate a chiamarlo subito. Vi prego, non

dobbiamo perdere tempo».La serva si alzò dallo sgabello e si strinse sulle spalle la mantella di lana, poi però

esitò.

«Che c'è?» domandò Daniel, perplesso.La donna sembrava a disagio e lo guardava con riprovazione allo stesso tempo. «Non

posso lasciarvi qui da solo con lei» ebbe alla fine il coraggio di dire. «Dopo potreste non avere più motivo di voler pagare il riscatto».

Daniel impiegò qualche secondo a capire davvero la frase della donna. Guardò prima lei e poi Leowynn sul letto.

«Oh, andiamo! Ma vi pare che in questo momento io possa pensare a una cosa del genere?» sbottò, offeso. «D'accordo, sentite: vi do la mia parola d'onore oppure vi giuro sulla Bibbia che la vostra signora non correrà mai alcun pericolo con me» cedette, vedendo che la donna non accennava a smuoversi. «Siete soddisfatta così? Adesso però sbrighiamoci, prima che diventi buio e venga suonato il coprifuoco, o non potremo più muoverci».

«La vostra parola mi basta» replicò la serva finalmente convinta, anche se forse non al cento per cento. Si strinse comunque nella mantella e uscì dalla porta.

Daniel la sentì discutere brevemente con i soldati di guardia fuori e trattenne il fiato, ma poi si fece silenzio, i minuti passarono e la donna non ricomparve nella stanza.

L'hanno lasciata passare, pensò Daniel, con sollievo, prima di tornare a sedersi. Disdegnò lo sgabello per sistemarsi su un cuscino sul pavimento davanti al camino.

Adesso doveva solo aspettare e sperare che la sua idea disperata trovasse alleati e funzionasse. Sbirciò Leowynn, sempre in balia dei suoi incubi silenziosi, e si augurò di poterle evitare altri orrori.

Capitolo 36Una cosa che il principe Luigi aveva in comune con il padre Filippo Augusto era

senza dubbio la passione per la caccia. Ian scoprì ben presto che il principe non amava stare chiuso in un castello, nemmeno durante i mesi invernali, e si ritrovò a salutarlo prima di una battuta di caccia improvvisata nei boschi intorno a Dunkerque, subito dopo il sorgere del sole, complice il fatto che la giornata sembrava bella e senza nubi.

Il gruppo dei battitori era ridotto e veloce. Il Delfino amava tanto stare all'aria aperta quanto odiava essere circondato da gente e da servitori e perciò aveva preteso con sé solo il minimo indispensabile dei servi e dei falconieri per le necessità della caccia e alcuni armati per la sua sicurezza. Del gruppo faceva parte anche un soddisfatto Sancerre che, come il principe, non amava stare con le mani in mano.

Stretti nei caldi mantelli di lana e pelliccia il principe e il cavaliere salutarono Ian nel cortile della fortezza. L'americano sarebbe partito poco dopo di loro, ma in direzione diversa: al molo lo aspettava la nave che l'avrebbe riportato in Inghilterra insieme all'ambasciatore del principe, il cavaliere Enguerrand de Vitry.

Luigi era di ottimo umore e chiacchierava volentieri mentre accarezzava il magnifico esemplare di falco pellegrino appollaiato sul suo avambraccio. «Mi aspetto buone notizie per quando tornerete» disse a Ian, in piedi accanto al suo palafreno. «Non avrei sperato in un'occasione migliore per poter finalmente portare a compimento la spedizione che sogno da anni».

«Sono convinto anch'io che sia un'ottima occasione da sfruttare» replicò Ian. «Avrete soddisfazioni dalla spedizione oltre la Manica».

Dureranno poco, ma ci saranno, pensò tra sé.«Sì, sono d'accordo. Festeggeremo presto» sorrise il principe. «Festeggeremo non solo

per le vittorie militari» riprese poi. «Mi hanno detto che sia voi sia vostro fratello attendete la nascita di un erede».

«Sì, principe» rispose Ian con un gran sorriso. «Mio fratello diventerà padre in estate. Mio figlio invece nascerà tra circa due mesi e io non vedo l'ora».

«Vi auguro che sia maschio» replicò il Delfino. «Potremmo farne un cavaliere da mettere accanto al mio piccolo Luigi. Sono coetanei, potrebbero diventare compagni d'anni».

«Lo spero e ne sarei onorato» disse Ian e provò un palpito al cuore.Il Delfino aveva già molti eredi, ma l'ultimogenito, nato durante la guerra dell'anno

precedente, si chiamava Luigi come lui e sarebbe diventato re dopo la morte dei suoi fratelli maggiori. Uno dei più famosi re di Francia: Luigi IX, san Luigi.

L'idea che suo figlio Marc potesse un giorno stare al fianco di un re tanto nobile e grande dava a Ian un senso di vertigine. Come storico era affascinato dalla prospettiva di conoscere un giorno un personaggio a cui erano state dedicate decine di migliaia di opere tra quadri, statue, libri, saggi e tesi di laurea.

«Sarà maschio di sicuro» intervenne Sancerre. «Ci scommetto, così come scommetto che sarà degno di suo padre».

«Un giovane Falco, allora» commentò il Delfino e sorrise guardando il suo pellegrino sempre saldamente appollaiato sull'avambraccio guantato di cuoio.

Un giovane Falco, si ripeté Ian in silenzio, con emozione.Il corteo della caccia partì poco dopo e Ian lo guardò scomparire oltre il portone

fortificato della fortezza per dirigersi verso gli spazi aperti fuori dalla città.Il giovane invece rientrò nell'edificio, sentendosi finalmente fiducioso in una

mattinata così serena. Sali alla sua stanza per andare a recuperare il bagaglio leggero che avrebbe portato con sé e indugiò qualche minuto alla finestra a osservare il via vai di gente indaffarata nella città sottostante. Dalla sua finestra poteva scorgere anche un lembo di mare, azzurro e calmo, già punteggiato di vele.

Entro sera saremo in Inghilterra, chiederemo un incontro segreto con Salisbury e tutto si sistemerà, pensò il giovane, sapendo che la nave di Ned Stone l'aspettava al porto. Il Delfino è dalla nostra parte, per Salisbury sarà un'ottima notizia. Lascerà libero Daniel e finalmente potremo tornare tutti e due a casa.

Già, a casa. L'idea fece ricordare a Ian che non avevano ancora trovato la soluzione all'improvviso mancato funzionamento di Hyperversum. Una volta ritornati dall'Inghilterra, Ian sarebbe davvero tornato a quella che considerava la sua casa, a Chatel-Argent da Isabeau. Per Daniel invece le cose erano molto diverse: se non fossero riusciti a far rispondere il gioco ai loro comandi in qualche modo, c'era la prospettiva che Daniel potesse rimanere intrappolato per sempre nel Medioevo.

Poteva subire anche lui un esilio forzato di anni in un mondo che non sentiva suo, lontano dai suoi cari e da Jodie.

Niente panico adesso. In un modo o nell'altro riusciremo a far funzionare quel maledetto gioco. Anche solo una volta, cercò di rassicurarsi Ian. Daniel tornerà a casa, basta solo ragionarci con calma.

L'importante adesso era riportarlo in terra amica. Al sicuro. Poi ci sarebbe stato tutto il tempo di riflettere sul problema.

Andiamo a prenderlo, si disse Ian, staccandosi dalla finestra per tornare ai suoi preparativi.

Raccolse mantello e bagaglio, un semplice sacco in cui erano riuniti un abito di ricambio e pochi effetti personali, e uscì dalla porta.

Mentre scendeva fece il riepilogo mentale delle ultime cose da fare prima di andare al porto: ricevere i consigli finali da Guillaume de Ponthieu, salutare Brianna, farsi promettere da Coda di volpe di fare il figlio giudizioso senza andarsene troppo a zonzo da solo.

Martewall l'avrebbe sicuramente raggiunto nel cortile, per vederlo partire insieme all'ambasciatore Vitry. Quest'ultimo era un cavaliere di poche parole, appena un po' più vecchio del principe, ma aveva dato a Ian l'idea di essere un uomo affidabile, posato e riflessivo, doti ideali per chi doveva andare in terra straniera, e potenzialmente ostile a trattare di politica ad alti livelli.

Anche Salisbury è un uomo ragionevole, non c'è motivo per cui non riescano a intendersi, pensava Ian con fiducia. E poi comunque il mio compito è solo quello di fornire l'occasione di parlamentare. Tutto il resto è affare loro.

Aveva promesso a Salisbury di metterlo in contatto con il principe Luigi e così aveva fatto. Aveva mantenuto la sua parola. Ora poteva pretendere la restituzione dell'ostaggio.

Sul pianerottolo il giovane consegnò il suo bagaglio a un servo perché lo portasse nel cortile dove dovevano già essere allineati i cavalli e si diresse col cuore leggero verso la sala grande in cui avrebbe aspettato l'arrivo di Ponthieu.

Qualcuno lo chiamò dalla scala alle sue spalle.Ian si voltò e si vide raggiungere da uno dei suoi soldati in uniforme bianca e azzurra.

Accompagnava un altro uomo, vestito da viaggiatore, e con l'aria esausta.«Mio signore, questo messaggero porta una lettera per voi. Dice che è urgente»

annunciò il soldato. «Fortunatamente ha saputo che eravate ancora qui e non ha proseguito per ChàtelArgent».

Ian spostò la sua attenzione sullo sconosciuto, sentendo tutti i campanelli d'allarme suonare nella sua testa. «Che cosa succede?» domandò.

L'uomo salutò con deferenza e gli parlò in inglese. «Milord, vengo da Dunchester» disse semplicemente e porse al giovane una pergamena piegata e protetta da un sigillo in ceralacca, estratta dalla sua bisaccia.

Ian riconobbe i sei leoni rampanti di Salisbury in rilievo nella materia rossa. Con il cuore che di colpo accelerava, ruppe il sigillo, aprì la lettera e lesse le righe che vi trovò, vergate da una calligrafia nervosa.

Dovette rileggerle, tale fu il brivido che quelle parole gli provocarono. «Mio Dio...» mormorò alla fine.

***

Giovanni Senza Terra era partito da Dunchester. Aveva atteso che la pioggia smettesse di cadere, subito dopo colazione, e poi il seguito reale si era messo in marcia.

Dunchester aveva tirato solo in parte un sospiro di sollievo. Ora il giudizio dei prigionieri era passato nelle mani inesperte, ma non per questo più clementi, di sir Murrow.

«Cosa ne sarà di noi?» mormorò Leowynn con voce atona, guardando oltre la finestra accanto alla quale stava seduta.

Daniel non seppe risponderle. Non sapeva nemmeno cosa stesse accadendo fuori da quella stanza, dal momento che dalla sera precedente non gli era più stato permesso di lasciare il mastio.

Aveva passato la notte e l'intera mattinata chiuso a chiave nella sua camera. Salisbury evidentemente non aveva voluto correre il rischio di lasciarlo a piede libero finché Giovanni Senza Terra non fosse stato ben lontano e perciò Daniel aveva potuto solo guardare dalla finestra il via vai nel cortile, ripreso non appena la pioggia aveva dato tregua.

Nemmeno il servo venuto a portargli da mangiare era stato di grande aiuto, poiché era un garzone giovanissimo e assai poco informato di ciò che accadeva nelle stanze del potere.

Come unica possibilità di movimento, era stato concesso a Daniel di andare a trovare Leowynn per assicurarsi della sua salute, dopo che il giorno precedente l'aveva lasciata svenuta nel letto, accudita dalla fedele serva Birgit e dal vecchio prete.

Adesso entrambi i giovani stavano guardando fuori, di nuovo impotenti. Leowynn sedeva sul davanzale imbottito, esausta. Daniel era in piedi accanto a lei, a rispettosa distanza per non allarmare inutilmente Birgit che fingeva di ricamare in un angolo e in realtà lo teneva d'occhio con sguardo vigile.

Il ceppo del boia era ancora là, nel cortile, e Daniel si rammaricava che fosse chiaramente visibile dalla finestra di Leowynn, ma la ragazza invece non aveva avuto la reazione che lui temeva.

Non aveva pianto né si era disperata. Con occhi stanchi ma con grande forza d'animo,

guardava il cortile in silenzio.«Non so proprio cosa capiterà adesso» ammise Daniel alla fine, quasi sottovoce, ma

sapeva che in quegli stessi momenti, nella sala grande, il giovanissimo Murrow stava giudicando i prigionieri e comminando le pene, così come aveva ordinato il re. Il via vai di uomini e soldati nel cortile non aveva bisogno di spiegazioni per chi guardava dall'alto.

Il re aveva fatto capire fin troppo bene come voleva sistemare l'intera faccenda e il barone ragazzo si era adattato a seguire le orme del suo sovrano: aveva preso il posto del giudice nella sala grande e stava facendo portare al suo cospetto i prigionieri fino ad allora rinchiusi nelle segrete, senza processo.

Gli uomini arrivavano a gruppi di due, tre alla volta, in catene e sorvegliati a vista dalle guardie mercenarie del re. Entravano nella sala grande, vi rimanevano per una ventina di minuti e poi venivano scortati di nuovo verso le segrete per lasciare il posto a un altro gruppo di prigionieri.

Era andata avanti così per due ore almeno, quella mattina.Di certo Murrow non impiega molto a istruire e chiudere un processo, pensava

Daniel con amarezza e non aveva dubbi sulla sentenza che veniva ripetuta nella sala grande, un processo dopo l'altro.

Quel ragazzino manderà a morte una trentina di persone almeno, si disse ancora e non riuscì a provare pietà per Murrow, costretto così giovane a recitare una parte tanto terribile.

Senza dubbio Salisbury assisteva ai giudizi, insieme agli ufficiali mercenari e ai cavalieri di Murrow, ma Daniel non si illudeva che il conte inglese potesse fare molto per evitare o ridurre la strage annunciata. Giovanni Senza Terra era stato fin troppo chiaro nei suoi ordini: i traditori dovevano morire tutti. Era già molto se si potevano evitare esecuzioni sommarie anche tra la popolazione e i soldati per limitarle ai soli cavalieri e agli ufficiali.

I prigionieri andavano e venivano dalla sala grande. Avevano sempre le stesse espressioni fiere, prima e dopo il giudizio. Tutti camminavano a testa alta, ma gettavano un sguardo commosso al ceppo nel passargli accanto.

Daniel notò Leowynn irrigidirsi quando nel cortile arrivarono sir Ewen e sir Kerwick in catene. Anche lui sentì una fitta d'angoscia, perché riconobbe accanto a loro Hector, claudicante, ancora con le vesti insanguinate sulla spalla.

Le guardie stavano conducendo i tre al processo e i cavalieri camminavano in silenzio, a testa alta.

Passando accanto al ceppo, sir Kerwick si fermò a farsi il segno della croce, ma ricevette un brusco spintone da una guardia che lo costrinse a proseguire.

Daniel serrò i pugni, indignato. Leowynn abbassò la testa e per la prima volta distolse gli occhi dal cortile.

«Venite via da qui, abbiamo già visto abbastanza» le disse Daniel, ma la fanciulla fece un cenno di diniego e si ricompose subito per tornare a rivolgere lo sguardo fuori. « È mio dovere assistere. Lo devo a quegli uomini che vanno a morire solo perché sono rimasti fedeli alla mia famiglia».

Daniel non osò insistere per dissuaderla e ne ammirò il coraggio.«Vi preoccupate molto per me e vi ringrazio» continuò Leowynn. «Non lo merito,

visto come siete stato trattato qui». «Voi non ne avete colpa».

«Non è vero. Io appoggiavo mio fratello senza riserve. Ciò che lui vi ha fatto, io lo approvavo, perciò ne sono complice».

«Non pensateci più, è storia passata, e poi potevo essere trattato peggio» replicò Daniel e si chiese nel contempo perché mai si sentisse in dovere di minimizzare l'operato di Geoffrey Martewall davanti a sua sorella. Forse perché in quel momento negli occhi chiari di Leowynn c'era un abisso di dolore.

«Almeno nessuno ha usato su di voi una frusta, è questo che intendete?» replicò lei con vergogna. «Ricordo le cicatrici terribili sul dorso del vostro signore. Posso capire perché nutrisse tanto odio verso sir Derangale e, di riflesso, verso mio fratello».

«Vostro fratello non c'era quando fu usata quella frusta» obiettò Daniel, a disagio.«Mi state consolando. Voi siete troppo buono» continuò Leowynn, con un sospiro.

«Vi preoccupate molto per me e vi siete esposto. Anche sapendo che lord Salisbury vi sarebbe stato complice, avete rischiato la vita davanti al re per una ragazza che ormai non vale più nulla, per giunta sorella del vostro nemico di un tempo. Siete ammirevole».

Daniel era in imbarazzo. «Vi prego. Mi state sopravvalutando».«Non è vero» replicò Leowynn, seria. «Anche ora vi state mettendo in pericolo, io lo

so. Vi ho sentito parlare ieri sera con padre Crispin, quando l'avete fatto chiamare con la scusa di dare conforto a me. Credevate che fossi svenuta, ma io vi ho sentiti. So che volete mettervi in contatto con i prigionieri nella corte esterna e tentare di rallentare le esecuzioni».

Daniel sentì le guance farsi calde. Scambiò un'occhiata preoccupata con Birgit e vide che anche la serva era sorpresa quanto lui dalla rivelazione di Leowynn.

«Non volevamo dirvelo per non esporvi a nuovi rischi» si giustificò il giovane.«E io ve ne sono grata, ma adesso vi supplico di non lasciarmi più da parte».

Leowynn si protese a prendere la mano di Daniel nelle sue, nonostante lo sguardo allarmato di Birgit. «Sono stata debole finora, non ho saputo fare nulla, ma da adesso voglio essere anch'io d'aiuto alla mia gente. Se posso fare qualcosa, qualsiasi cosa, vi prego ditemelo. Sono pronta a dare anche la vita per Dunchester, come ha fatto mio padre e come è pronto a fare mio fratello».

«Mia signora!» gemette Birgit, spaventata.«Io non voglio che succeda» rispose Daniel alla ragazza. «E comunque per ora non c'è

niente che possiate fare, ve l'assicuro. Sto provando a cercare alleati fuori da queste stanze, ma non so se ci riuscirò. Non ho ancora avuto risposta al messaggio che ho affidato ieri a padre Crispin e non so nemmeno se la riceverò mai. La mia è un'idea rischiosa e non so se qualcuno se la sentirà di appoggiarla».

«Posso accertarmene di persona. Posso chiedere alle guardie di andare a confessarmi alla cappella, oggi, o di far venire qui il prete di nuovo. In questo modo potrò parlare con padre Crispin per voi» propose Leowynn.

Daniel volle assecondare l'ansia della ragazza di rendersi utile. «Se non riceverò notizia entro qualche ora, vi chiederò di aiutarmi in questo modo».

«Non vi deluderò» rispose lei, decisa.Qualcuno bussò alla porta, interrompendo la conversazione. «Entrate».Leowynn lasciò la mano di Daniel, prima che sir Gorvenal facesse il suo ingresso

nella stanza, salutando rispettosamente. «Lord Salisbury mi manda a chiedere notizie della vostra salute, madonna» annunciò il cavaliere, ma dal suo sguardo attento Daniel capì che l'uomo era venuto a cercare soprattutto lui.

L'americano sbirciò il cortile, perso momentaneamente di vista mentre parlava con Leowynn. Per il momento era vuoto. Forse il processo a Hector, Kerwick e Ewen non era ancora finito.

«Mi sento meglio, per quanto possibile, vista la situazione» aveva intanto risposto Leowynn, cupa ma composta.

«Ne sono lieto» replicò Gorvenal.«Che notizie ci portate voi, invece?» domandò Daniel.Il cavaliere inglese esitò, guardando Leowynn, ma la fanciulla assunse un'espressione

risoluta. «Ho anch'io il diritto di sapere cosa accadrà ai cavalieri della mia famiglia».Sir Gorvenal si decise. «Sir Murrow sta concludendo il processo agli ultimi

prigionieri. Finora nessuno di loro ha scampato la condanna a morte, come ha voluto il re».

La vecchia Birgit si lasciò sfuggire un gemito disperato e cominciò piangere. Leowynn era bianca come la cera, ma riuscì a non versare una lacrima. «Ti prego, va' a prendermi un po' d'acqua. Lasciaci soli per qualche tempo» disse alla serva.

La vecchia si alzò singhiozzando e uscì dalla stanza, asciugandosi le lacrime che continuavano a scendere.

Leowynn guardò di nuovo Gorvenal con occhi chiari e grandi. «Li impiccheranno?» domandò in un soffio.

«Sì, madonna. A cominciare da domani, appena le forche saranno pronte. Lord Salisbury non ha potuto fare niente per impedirlo. Murrow è terrorizzato dal re e quindi è risoluto a compiacerlo. I suoi cavalieri lo sono altrettanto. Gli ufficiali mercenari invece insistono per vendicarsi di chi ha decimato le loro file durante l'assedio».

«C'era da aspettarselo» commentò Daniel amaramente.«Non c'era alcun argomento per difendere gli imputati dall'accusa di tradimento verso

la corona» continuò Gorvenal. «Lord Salisbury sta riuscendo a tergiversare solo nei confronti di sir Hector de Wrist, poiché è fiammingo e quindi non è mai stato un suddito inglese. Temo lo aspetti comunque una feroce punizione sulla pubblica piazza».

«E quindi tanto vale ucciderlo, visto che è già ferito!» sbottò Daniel con rabbia.«Non possiamo farci niente, purtroppo».Invece dobbiamo fermarli in qualche modo, pensò Daniel e sentì sempre più pressante

l'urgenza di distruggere quei dannati patiboli nel cortile.Certo, anche così facendo si ritardava il momento fatidico di poche ore soltanto,

questo il giovane lo sapeva, ma in un momento come quello ogni cosa era buona per guadagnare disperatamente tempo. Qualsiasi cosa, pur di dare tempo a Ian di tornare o mandare aiuti.

E se invece non riusciamo a fermare il boia? Se Ian non riesce a fare qualcosa in tempi brevi o non può intervenire affatto? si domandò Daniel con un orrendo senso d'impotenza.

Lo distrasse un movimento in basso nel cortile. Non erano le guardie con gli ultimi prigionieri, ma uomini al lavoro.

Daniel vide passare l'inconfondibile carretto.Dal basso anche Thomas Bull lo vide e gli fece un saluto. Era un eloquente cenno

d'intesa e Daniel sentì allargarsi il cuore. Finalmente respirò con un po' di sollievo. Ora sapeva che i falegnami, almeno quel giorno, stavano lavorando a vuoto.

Il giovane si voltò di nuovo verso sir Gorvenal. «Devo parlare con lord Salisbury

appena possibile» annunciò. «In privato».

***

Ian dovette trattenere Martewall con la forza, quando le notizie inviate da William Lunga-Spada gli vennero comunicate.

Quando Ian aveva letto la notizia missiva dal conte di Salisbury, tutto probabilmente era già accaduto. A meno di un miracolo che avesse fatto cambiare idea al re d'Inghilterra o che avesse impedito lo svolgersi degli eventi, il giorno dell'esecuzione era già trascorso.

Non possiamo più impedirla, era il pensiero che continuava a risuonare nella testa di Ian ed era sconvolgente il solo pensare che la lettera di Salisbury fosse stata scritta prima del l'uccisione di sir Harald e fosse arrivata a destinazione solo quando tutto era già compiuto.

Il messaggero aveva impiegato un giorno e mezzo a trovarlo ed era stato fortunato: avrebbe potuto impiegare molto di più.

Un giorno e mezzo... Cos'altro sarà successo nel frattempo? Cosa starà accadendo adesso? si domandava il giovane con angoscia crescente e l'idea di non potersene accertare subito lo faceva impazzire.

Che ne era stato di Daniel? Salisbury era riuscito a proteggerlo come sembrava dalla lettera oppure..?

Anche partendo subito, come era in progetto quella mattina, Ian avrebbe impiegato almeno un giorno per ritornare a Dunchester da Dunkerque ma il viaggio di ritorno non sarebbe iniziato tanto presto.

Saputa la notizia, Ponthieu aveva fermato la nave e impedito la partenza di Ian e dell'ambasciatore Vitry, mentre mandava un messaggero a raggiungere il principe a caccia con i suoi uomini. Niente si sarebbe mosso prima di conoscere le decisioni del Delfino in merito alla nuova situazione. Potenzialmente potevano passare giorni prima che il principe desse l'autorizzazione a partire. La spedizione poteva anche essere annullata definitivamente.

Ian si passò le mani sul viso per l'ennesima volta e si voltò a cercare Martewall con gli occhi.

Lo vide in un angolo, lontano da chiunque, accecato dal dolore come una tigre ferita. Si era lasciato sfuggire un grido sconvolto quando Ian gli aveva fatto leggere la lettera di Salisbury e la sua reazione era stata tanto violenta quanto straziante. Ian l'aveva dovuto trattenere con la forza per impedirgli di raggiungere la nave di Stone al porto e per costringerlo a fermarsi nella sala dove adesso tutti attendevano l'arrivo del principe Luigi.

Era la stessa sala privata in cui si era tenuta la riunione del giorno precedente. Uno dopo l'altro si erano riuniti lì anche gli stessi uomini: i tre cavalieri del principe, tra cui l'ambasciatore, i due consiglieri, Etienne de Sancerre, che non si era nemmeno cambiato dopo il rientro dalla caccia. Mancava Ponthieu perché era ancora nelle stanze d'onore riservate al Delfino, a discutere i dettagli della notizia al posto di Ian, preferendo lasciare il giovane a tenere sott'occhio Martewall.

Ian non sapeva cosa sarebbe stato capace di fare l'inglese in quel momento di dolore, voleva solo impedirgli di commettere qualche follia senza ragionare. L'aveva calmato

come aveva potuto quando l'aveva sentito esclamare: «Avrei dovuto essere là con lui! Io ero pronto a morire, lui doveva salvarsi! L'avevo lasciato al sicuro!».

Poi Ian aveva visto fin troppo bene l'odio sostituirsi al dolore negli occhi chiari dell'inglese. Un odio che cercava vendetta a qualsiasi costo.

Ora Martewall teneva i pugni serrati sul muro, nell'angolo in cui Ian l'aveva momentaneamente isolato, ma quell'immobilità non sarebbe durata a lungo. Martewall non avrebbe mai accettato di restare a guardare, avrebbe preteso di fare qualcosa, e subito, e Ian non poteva dargli torto.

Tra gli altri, solo Sancerre aveva negli occhi la determinazione di agire al più presto. Nei volti dei consiglieri, invece, Ian lesse fin troppo bene il punto di vista che avrebbero esposto al principe Luigi non appena ne avessero avuta l'occasione.

Gli diranno di lasciar perdere tutto. Tenteranno di convincerlo a non intervenire. Gli diranno di lavarsene le mani, pensò Ian con certezza. Non posso permetterlo, aggiunse tra sé, lucidamente, ma non aveva idea di come fare per impedire che ciò accadesse.

I minuti passavano, snervanti, e il principe non arrivava.Martewall si parò davanti a Ian con una decisione disperata, incapace di resistere oltre

a quell'attesa. «Lasciami andare. Non hai più bisogno di me, lasciami libero di tornare a casa!»

Ian condivise con tutta l'anima le sue emozioni, eppure dovette opporsi alla sua richiesta. «No» gli disse per l'ennesima volta. «Non puoi partire così».

«Allora dovrai mettermi in catene, perché io mi imbarcherò sulla prima nave che salperà per l'Inghilterra, dovessi anche farmi strada combattendo fino al porto!» l'interruppe l'altro giovane, furibondo.

«Non puoi partire da solo. Andresti a farti ammazzare inutilmente».Martewall fece un gesto esasperato. «E credi che mi importi?!» urlò. «La mia famiglia

è distrutta, tanto vale che muoia pure io!»«Aspetta. Ascoltami». Ian agguantò Martewall per le spalle, ponendosi di fronte a lui

per trattenerlo quando lo vide andare deciso verso la porta. «Ascoltami!» ripeté con più forza, prima che l'inglese potesse dire qualcos'altro. «La tua famiglia non è ancora distrutta: ti resta tua sorella e tu devi rimanere vivo per lei. Devi trovare il modo di salvarla e non di farti ammazzare senza riflettere. Il principe ci aiuterà, io ne sono sicuro: gli interessa troppo l'Inghilterra per abbandonare tutto». Abbassò la voce quando aggiunse: «Oppure ti giuro che ti aiuterò io con i miei uomini. Non lascerò Daniel nelle mani di Giovanni Senza Terra, in un modo o nell'altro andrò a riprenderlo. Quando partirai io verrò con te, ma prima dobbiamo avere un piano preciso. Andare allo sbaraglio non servirà a niente».

Martewall non voleva lasciarsi convincere.Ian lo scosse, quasi con violenza.«Cerca di riflettere, dannazione! Lo sai che ho ragione io. Da morto non salverai né

vendicherai nessuno!»L'inglese si staccò da lui bruscamente, ma poi non tentò di nuovo di raggiungere la

porta. Tornò al suo angolo, fece qualche passo nervoso verso la finestra aperta, con le mani nei capelli, poi si fermò. Si passò le mani sul viso e infine le appoggiò sul davanzale. Rimase così, a testa bassa, in silenzio. Straziato, furioso, impotente.

Con lo stesso senso di impotenza nel cuore e mille altre paure, Ian guardò Sancerre, non sapendo che altro fare.

Il cavaliere francese era fermo a braccia incrociate, scuro in volto, ma deciso. «Conta su di me. Io sono pronto a partire e i miei uomini con me» disse sottovoce, per non farsi sentire dai consiglieri e dai cavalieri del principe. «Se non sarà una missione ufficiale, sarà una vendetta personale. Ci riprenderemo monsieur Daniel a ogni costo».

Ian non annuì, ma anche lui fece qualche passo per la stanza, riflettendo, cercando di analizzare ogni singolo dettaglio di quella tragica situazione.

Non era così facile come aveva voluto far credere: nonostante quello che aveva detto di getto, sarebbe stato quasi impossibile tentare una sortita a Dunchester se il Delfino si opponeva.

Non era previsto che il castello potesse rischiare di essere spopolato dalla giustizia sommaria di Giovanni Senza Terra, avrebbe dovuto rimanere al sicuro sotto l'autorità clemente di William Lunga-Spada in attesa che si preparasse la rivolta vera e propria, ma adesso la situazione stava precipitando e non poteva più essere risolta con un semplice incontro segreto di ambasciatori. Serviva un'azione di forza per evitare la strage, ma Ian dubitava che il Delfino avrebbe mai messo in campo le sue truppe per questo, né autorizzato altri francesi ad attaccare.

Certo, Ian poteva prendere un'iniziativa personale e partire senza autorizzazione, ma le conseguenze erano potenzialmente catastrofiche. Inoltre, senza un appoggio del re o di chi per esso, le forze che potevano essere radunate si riducevano drasticamente di numero, anche contando sull'appoggio di Sancerre.

Nemmeno Ponthieu avrebbe acconsentito a mandare i suoi uomini ad aiutare Ian e avrebbe avuto tutte le ragioni, perché un atto di tale insubordinazione significava inimicarsi la corona e mettere in grave pericolo l'intera famiglia. Il fratello maggiore di Sancerre avrebbe probabilmente ragionato allo stesso modo e impedito al cadetto Etienne di partire con i suoi uomini. Nessun feudatario avrebbe mai rischiato di disobbedire a Filippo Augusto per pochi ostaggi stranieri.

Adesso che la questione implicava la ragione di stato, Ian sapeva di avere le mani legate, perché nelle decisioni erano coinvolti personaggi con un peso politico molto superiore al suo.

Aveva pensato di trovare una facile via d'uscita facendosi aiutare dal principe Luigi quando tutto sembrava nelle mani di Salisbury, adesso però cominciava a temere di aver commesso un errore enorme nel consegnare la soluzione del caso a uomini tanto potenti, fuori dal suo controllo, e ai quali gli ostaggi non stavano tanto a cuore quanto a lui.

Aveva confidato troppo nelle sue conoscenze della Storia e forse aveva sbagliato.Che cosa farò se il Delfino deciderà davvero di rinunciare? Di rimandare tutta la

questione a più avanti? si domandò.L'idea di lasciare Dunchester alla giustizia sommaria di Giovanni Senza Terra era

terrificante.Ian sapeva dalla Storia che il fratello di Riccardo Cuor di Leone non aveva mai

guardato tanto per il sottile quando si trattava di comminare le pene a chi lo osteggiava: decapitazioni, impiccagioni, esecuzioni sommarie e mutilazioni erano tragicamente descritte nelle cronache del tempo.

Che cosa poteva capitare a Daniel, se per un motivo qualsiasi Salisbury non era più in grado di proteggerlo o riteneva che non fosse più sicuro farlo? E agli altri prigionieri?

Ian pensò a Hector, a sir Kerwick, a sir Ewen, ma soprattutto a Thomas Bull e ai suoi compaesani.

Non li lascio là. Nessuno di loro, costi quello che costi, decise in silenzio, pur non sapendo ancora come fare. L'unica cosa chiara era che non sarebbe stato possibile mettere in salvo tutti senza un attacco massiccio al castello e non era possibile attaccare senza avere tanti uomini a disposizione.

Ian sobbalzò quando la porta si aprì con un lieve cigolio. Tutti i presenti si voltarono per vedere entrare Guillaume de Ponthieu. Ian gli sarebbe andato incontro, se il conte non si fosse fatto da parte per tenere aperta la porta al Delfino in persona.

Ian si fermò subito per inchinarsi al principe. Sancerre, Martewall e tutti gli altri fecero altrettanto.

«Che cos'è questa storia, adesso?» iniziò il principe Luigi senza tanti preamboli, rivolgendo soprattutto a Ian e a Martewall uno sguardo irato. «Mi è stato riferito ciò che sta succedendo a Dunchester. E doveva essere un approdo sicuro per parlamentare!»

«Mio signore, non avremmo mai potuto prevedere una cosa del genere...» cercò di giustificarsi Ian, ma furono i consiglieri a farsi avanti.

«Alla luce dei nuovi eventi, principe, vi scongiuriamo di abbandonare l'idea di mandare un ambasciatore a parlamentare a Dunchester adesso» disse il più anziano dei due. «La presenza di re Giovanni sul posto aumenta troppo i rischi e vi espone in prima persona. Se la vostra disponibilità nei confronti dei ribelli dovesse essere scoperta, sarebbe interpretata come un atto diretto di guerra della Francia contro re Giovanni. Non potete prendervi questa responsabilità senza il benestare di vostro padre».

«Signore, io vi supplico di lasciarmi partire» intervenne invece Martewall, con decisione disperata. «Non pretendo né aiuto né che vi esponiate in prima persona. Solo lasciatemi andare a difendere la mia gente. Non chiedo altro».

Ian gli rivolse un'occhiata severa, cercando di farlo quietare, ma non poté poi mettere a tacere i consiglieri che continuavano a sostenere la loro tesi.

«La situazione è troppo pericolosa, in questo momento» insisterono. «Dovete lasciare che gli Inglesi decidano da soli se hanno la volontà o no di prendere le armi contro il loro re o figurerete come l'istigatore della rivolta. Dovete attendere che facciano loro le prime mosse».

«Volete stare a guardare per giorni? Per allora a Dunchester saranno tutti morti!» intervenne Ian, di getto.

«È una spiacevole conseguenza, purtroppo, ma noi non possiamo interferire» gli rispose il consigliere, con durezza. «Dunchester non è un territorio sotto la giurisdizione del nostro principe. Ciò che accade laggiù è fuori dalla sua responsabilità».

«Io ho dato al conte di Salisbury la mia parola che Sarei tornato al più presto con una risposta ufficiale della corte francese!»

«Che agisca lui per primo, se davvero pensa che ci siano le condizioni per contrastare re Giovanni. Non può pretendere che il principe si esponga al posto suo».

«Non si tratta più di mandare semplicemente un ambasciatore a sondare il terreno in segreto e lo sai bene anche tu. Adesso che re Giovanni ha preso il controllo di Dunchester, le cose cambiano» sottolineò Ponthieu. «La sua vendetta potrebbe anche scoraggiare del tutto i baroni e noi ci troveremmo ad assumerci rischi senza la prospettiva di un'alleanza».

No, i baroni non si scoraggeranno! Si rivolteranno contro il re, non aspettano altro! pensò Ian di getto, ma non poté dirlo perché non sapeva come giustificare la sua certezza del futuro. Trattenne a stento un gesto esasperato. Si sentì in trappola e completamente

inutile. Col pensiero corse a Daniel, chiedendosi cosa ne sarebbe stato di lui.«Adesso basta, tutti quanti» decise il Delfino e il suo tono fermo bastò a imporre il

silenzio.Tutti attesero la sua decisione.«Quel maledetto Giovanni riesce sempre a cambiare la carte in tavola proprio quando

sono sul punto di fare la mia mossa» sbottò il principe, con frustrazione. «Anni fa strisciò ai piedi del Papa e mi costrinse a rinunciare allo sbarco in Inghilterra, quando tutto era già pronto. Adesso devo aspettare ancora! Siano maledetti lui e la sua tempestività nel mettermi sempre i bastoni tra le ruote! Che gli Inglesi regolino i loro conti e decidano da soli cosa fare del loro re, io ho le mani legate».

Ian chiuse gli occhi per un istante a quella sentenza. Adesso si faceva tutto più difficile.

«Sir Martewall, siete libero di partire» continuò il principe. «Monsieur de Vitry, monsieur Jean, se siete ancora disposti, potete partire anche voi, con tutti gli uomini che riterrete necessari».

L'ultima frase lasciò tutti sbalorditi. L'unico a rimanere impassibile fu Ponthieu.Ian quasi trattenne il fiato. «Mio signore..?» domandò, incredulo.«Ma, principe, avevate appena detto...» balbettò uno dei consiglieri.«Che gli Inglesi devono decidere da soli cosa fare? E quello che faranno, infatti»

rispose il Delfino con risolutezza. «Le bandiere francesi non accompagneranno gli uomini in partenza né lo faranno gli stendardi dei miei feudatari. È ragionevole pensare che sir Martewall possa contare su amicizie private e alleati sul continente?»

«Sicuramente sì, visto che per un po' ha militato in Fiandra» rispose Ian per l'inglese, intuendo dove il principe volesse andare a parare.

«E io sfido qualunque inglese a riconoscere se una compagnia senza insegne sia composta di regolari francesi o piuttosto da mercenari fiamminghi, bretoni o normanni» concluse il Delfino. «Quindi il fuggitivo sir Martewall tornerà a casa con i rinforzi per riprendersi ciò che gli è stato tolto. Credo che non ci sia nulla di strano».

«E un sotterfugio che non durerà a lungo...» obiettò il consigliere.«E non deve durare a lungo, perché i baroni devono capire che non hanno molto

tempo per decidere cosa fare» sentenziò Luigi. «Sono disposto a prendere la corona di Giovanni con le buone o con le cattive maniere, con i baroni o senza di loro. Se non si decideranno a muoversi ora, dovranno fare i conti con me e tenersi Giovanni sul trono quando io invaderò l'Inghilterra tra qualche mese. Darò loro una piccola spinta per farli decidere nel verso giusto. E tre giorni di tempo: tanto staranno i miei uomini a Dunchester. Se entro tre giorni i baroni inglesi non avranno fatto alcuna mossa concreta per intervenire, allora riporterò le navi di qua dal mare, ma non prima che i cosiddetti "mercenari" abbiano razziato tutto ciò che trovano sulla loro strada, come risarcimento per il mio e il loro tempo perso».

E un tentativo di destabilizzare la zona, pensò Ian in un lampo. Il principe non vuole che Giovanni Senza Terra riesca a imporre la pace con il pugno di ferro, a costo di forzare la mano ai baroni per indurli a ribellarsi. Intende usare Martewall per mantenere vivo il focolaio della rivolta. In questo modo, Dunchester sarà l'ago della bilancia degli avvenimenti futuri.

Rabbrividì, pensando a quanto sangue poteva potenzialmente costare quella sortita.Luigi era un guerriero temerario e ostinato, gli era stata mostrata davanti una preda

ambita da tempo e adesso non voleva a nessun patto rinunciarvi. Stava azzardando una mossa che suo padre Filippo non avrebbe mai osato, ma Ian sapeva che il principe sarebbe riuscito nel suo intento. Ora sapeva come cominciava la rivolta storica che avrebbe condotto presto alla presa di Londra e poi alla firma della Magna Charta. Tutto partiva da Dunchester.

Il Delfino stava guardando Martewall quando aggiunse: «Lo trovate riprovevole, sir?».

L'inglese era pallido perché sapeva che in quel modo la sua casa veniva a trovarsi tra l'incudine e il martello. Ci sarebbe stata battaglia, ci sarebbe stata strage, ma non c'era più modo di evitare che il sangue scorresse di nuovo a Dunchester, sia che il castello rimanesse nelle mani di Giovanni Senza Terra sia che i francesi mandati dal Delfino tentassero di riconquistarlo. Come unica differenza, nella seconda ipotesi il sangue versato non sarebbe stato solo quello degli uomini di Dunchester, ma anche quello dei fedeli di Murrow e del re.

«Signore, la mia gente sta per essere sterminata e io non ho più nulla da perdere, ormai, se non la mia vendetta. Sono disposto a qualsiasi cosa pur di togliere il trono all'uomo che sta facendo strage in casa mia» rispose alla fine Martewall, con odio evidente.

«Ma cosa direte quando re Giovanni pretenderà spiegazioni?» chiese un consigliere al principe, ormai in tono supplichevole.

Il Delfino fece un gesto irritato. «Avrà tutta la mia solidarietà nel condannare l'accaduto. Purtroppo i mercenari sono un problema per tutti e si vendono al migliore offerente. Dopo la guerra, la Francia ha pochi soldati regolari a disposizione, io non posso far controllare una a una tutte le navi in partenza per vedere se caricano armati o merci».

«Ci accuserà di aver dato le navi a sir Martewall!»«Dovrà dimostrarlo prima. Il re mio padre non ha mai dato un ordine del genere e

senza il suo ordine nessun soldato si muove, in Francia».«Il re vostro padre non autorizzerà mai una cosa simile».«E perché dovrebbe ostacolarla? Non vi sarà coinvolto perché nemmeno io lo sarò

ufficialmente. La responsabilità sarà tutta di sir Martewall e dei suoi compagni di ventura. Il Papa non avrà nulla per protestare. Se dovesse andar male, finirà tutto con un nulla di fatto, ma noi avremo comunque un assaggio del nerbo degli Inglesi. Ci servirà per il futuro».

Il consigliere dovette desistere, sconfitto.«Mandate un messaggio a Parigi, comunque, e subito. Annunciate la mia decisione al

re e usate un piccione viaggiatore stavolta, poiché abbiamo più fretta di prima. Voglio una risposta entro due giorni da oggi, poi deciderò se far partire le navi. Il ferro va battuto finché è caldo e io non voglio che Salisbury si raffreddi nel frattempo».

«Tenteremo il possibile, principe».«Fatelo. Tentare non basta».«Sì, principe».Due giorni di attesa. Sembravano una vita, ma Ian sapeva che non poteva sperare in

nient'altro che quel piano. Era già molto che il principe avesse deciso di tentare ugualmente una sortita pur con condizioni così avverse. Sbirciò Ponthieu per capire cosa ne pensasse. Lo vide pensoso, ma non allarmato. Ian cominciò a sospettare che l'idea del

Delfino non fosse nuova per lui.Forse hanno già discusso in privato, intuì.«Principe, il piano che volete attuare è comunque rischioso» disse alla fine il conte.

«Se vogliamo dare l'impressione di un contingente di mercenari o di soldati irregolari, non potremo mettere insieme molti uomini e questo ci sarà di svantaggio a Dunchester. Rischiamo di non poter organizzare un attacco efficace».

«Il castello però è già danneggiato» ricordò Ian e cercò appoggio da Martewall, che annuì. «L'assedio ha distrutto il cancello del barbacane esterno. Non credo che abbiano potuto ripararlo in così breve tempo. Anche il dislivello sotto il ponte levatoio era già stato riempito con terra e detriti».

«Ma resta il problema di come avvicinarsi al castello senza mettere in allarme tutti» rispose Ponthieu. «Con pochi uomini a disposizione, l'effetto sorpresa è fondamentale».

«Per questo mi aspetto che voi ideiate uno dei vostri stratagemmi perfetti» disse il Delfino per liquidare i dettagli, lasciandoli a chi poteva studiarli per lui. «Conto sulla vostra astuzia. Mettetela a frutto anche stavolta».

Come se fosse facile, pensò Ian, ma Ponthieu invece rispose: «Sarà fatto come volete, ma la presenza di re Giovanni a Dunchester complica le cose notevolmente. Non è consigliabile agire finché il re si trova in quel luogo con le truppe del suo seguito. Inoltre, se vogliamo provocare una reazione dei baroni, sarà molto più facile ottenerla se appicchiamo il fuoco quando il re sarà troppo lontano per poter intervenire subito e spegnerlo con la forza».

Questa volta, il Delfino dovette annuire. «Sì, questo in effetti è un problema».«Dovremo farci aiutare dal conte di Salisbury» proseguì Ponthieu. «Toccherà a lui

limitare i danni del re, fintanto che si troverà a Dunchester. Agiremo appena Giovanni Senza Terra avrà abbandonato il campo per spostarsi altrove».

Di nuovo, Ian sprofondò nell'ansia. «Potrebbero volerci giorni! Re Giovanni potrebbe andarsene solo dopo aver fatto giustiziare tutti!» obiettò disperato.

«Dubito che il re abbia tempo di aspettare tanto» replicò Ponthieu. «Non con le notizie allarmanti che gli arrivano da ogni parte del paese. Lo stesso Salisbury ci ha detto che altri feudatari mordono il freno e le nostre spie lo confermano. Re Giovanni si sposterà presto da Dunchester per andare altrove e lascerà il lavoro sporco nelle mani di qualcun altro. Sperabilmente dello stesso Salisbury».

«Ma se invece...»«E un rischio che dobbiamo correre. Non abbiamo scelta. Dunchester deve avere

meno difese possibili quando attaccheremo».Ian sapeva che il conte aveva ragione, ma non gli era facile rassegnarsi.Altro tempo perso.Sprecato nell'attesa.Tempo in cui poteva accadere il peggio.Non avrei mai dovuto andarmene e lasciare Daniel là da solo, pensò con rimorso

terribile, eppure sapeva che in quel momento non aveva avuto altra scelta.Se gli succede qualcosa non me lo perdonerò mai, pensò in aggiunta.Ponthieu gli lesse dentro quel pensiero come su un libro aperto e gli posò la mano

sulla spalla.Ian non riuscì a provare conforto. Guardò Martewall e vide che l'inglese era più in

ansia di lui. La situazione ci è del tutto sfuggita di mano, pensò amaramente.

«Abbiamo modo di avvertire Salisbury in tempi brevi?» domandò il principe.Ian dovette distogliere la sua attenzione da Martewall per annuire. «Il messaggero che

mi ha consegnato la lettera ha portato con sé anche alcuni piccioni viaggiatori».«Allora informiamo subito il suo padrone che siamo ancora disposti ad aiutarlo, se le

condizioni lo permetteranno. Che ci spiani la strada, se vuole davvero il mio sostegno. Io non posso fare più di così».

Ian s'inchinò, col cuore pesante.

Capitalo 37Pioveva di nuovo ed era una buona cosa. Le esecuzioni perdevano la loro efficacia

con la pioggia, perché nessuno usciva dalle case per assistervi e così si rovinava il loro effetto come monito per la gente comune.

Daniel si ritrovò a pregare che la pioggia durasse ancora per giorni e che continuasse a mischiarsi alla neve come accadeva in quel preciso istante. Aveva iniziato a piovere appena sorto il sole e continuava ancora adesso che mezzogiorno era quasi arrivato. Avevano guadagnato una mattina senza colpo ferire.

«Abbiamo fortuna, non c'è che dire» disse William Lunga-Spada alle spalle di Daniel. «Se continua così, guadagneremo altro tempo».

Daniel si voltò verso il conte inglese, seduto allo scrittoio della sua camera personale. L'uomo guardava oltre la finestra aperta, chiaramente immerso negli stessi pensieri dell'americano.

«Speriamo» replicò Daniel. «Qualsiasi cosa va bene per bloccare le sentenze di Murrow».

«Quel ragazzino zelante, vigliacco e stupido» sbottò Salisbury. «Ieri l'avrei picchiato, se non ci fossero state troppe spie di Giovanni ad assistere. Un feudatario non dovrebbe essere così giovane, non è abbastanza maturo per decidere della vita di altri uomini. Al processo ha avuto l'ardire di trattare come criminali cavalieri ben più esperti e degni di lui. Ma non posso nemmeno fargliene una colpa: è terrorizzato da Giovanni e pur di non incorrere nella sua ira si sta abbassando a usare la scure per lui. Conosco più di un adulto capace di fare altrettanto, nelle sue condizioni».

Daniel non disse niente, ma il conte arguì comunque le parole nascoste nel suo silenzio.

«So cosa state pensando» riprese infatti. «Nemmeno io oso mettermi in aperto contrasto con il re e sono un feudatario ben più esperto e potente di Nigel Murrow. Credo però di aver chiarito esaurientemente la mia posizione a monsieur de Ponthieu. Volente o nolente sono il fratellastro del re: io non mi metterò contro Giovanni finché la mia famiglia vivrà a corte insieme alla sua, nelle sue mani. Posso riconoscere che sia un re indegno ma, parlando senza ipocrisie, a me per ora non ha riservato lo stesso trattamento degli altri feudatari. Non inizierò una guerra contro di lui, rischiando la vita dei miei figli, se quelli che più dovrebbero osteggiarlo non si muovono per primi e non mi danno garanzie per il futuro».

Daniel dovette annuire. Il ragionamento politico di Salisbury, per quanto spietato, non faceva una piega. Nella sua posizione, chiunque avrebbe agito allo stesso modo, in attesa di vedere come si mettevano le cose.

«Il caso di Murrow però è diverso» continuò Salisbury. «Lui non era coinvolto in questa faccenda all'inizio. Si è fatto avanti solo perché voleva approfittare della debolezza del suo vicino e acquistare merito davanti al re. Il suo feudo è sottoposto alle stesse tasse che gravano su Dunchester e su tutti gli altri, ma lui, invece di aiutare i suoi alleati di sempre o almeno restare in disparte per non danneggiare la causa comune, ha preferito tentare di avvantaggiarsi da solo, a spese di chi gli sta accanto. Spero che sia solo la scelta infelice di un ragazzino immaturo, ma certo i suoi maestri hanno fallito nell'insegnargli il senso dell'onore e i suoi consiglieri hanno fallito nell'insegnargli la politica. Forse Murrow annetterà Dunchester ai suoi domini, ma difficilmente gli altri

feudatari lo aiuteranno in caso di bisogno. Lo spoglieranno, piuttosto, quando ne avranno la possibilità, e allora le ricchezze guadagnate con l'annessione di Dunchester se ne andranno miseramente in fumo».

«Peggio per lui, posso dirlo?» replicò Daniel con rancore.«Peggio per lui» convenne Salisbury e lisciò sul pianale dello scrittoio le due

pergamene ricevute pressoché contemporaneamente quella mattina, in due diversi modi: la prima pergamena era minuscola e arrivava da oltremanica con un piccione viaggiatore, la seconda, più grande e sigillata dalla ceralacca, era stata consegnata a mano.

Per quelle due pergamene, Daniel era stato chiamato da Salisbury nelle sue stanze personali, con la scusa ufficiale e banale di discutere i dettagli del suo riscatto o, in alternativa, del suo eventuale periodo di servitù.

Daniel aveva riconosciuto la calligrafia sulla pergamena piccola e il solo vederla gli aveva dato una gioia immensa: era la calligrafia di Ian e annunciava l'intenzione del Delfino di aiutare Salisbury, se solo ci fossero state le condizioni per intervenire. Prima tra tutte la partenza di Giovanni Senza Terra da Dunchester. Nel frattempo pregava il conte di fare il possibile per limitare i danni.

La pergamena più grande era scritta in inglese e portava un sigillo a Daniel sconosciuto: un disegno geometrico composto da due elementi triangolari, sopra e sotto una banda, orizzontale.

«L'esecuzione di sir Harald Martewall sta cominciando a dare i suoi effetti» aveva spiegato Salisbury. «Sir Robert Fitz-Walter è indignato e ha deciso di impugnare le armi. Sta cercando appoggi e se riesce a convincere gli altri baroni, potrebbe essere qui in quattro o cinque giorni».

Eccome se ci riuscirà, si disse Daniel. Ian dice che quell'uomo deve diventare il capo della ribellione. Finalmente si è deciso. Ci voleva una testa tagliata per farlo muovere.

Ora il giovane guardava la pioggia con più speranza perché doveva solo resistere per meno di una settimana, poi Murrow e i mercenari che occupavano Dunchester avrebbero avuto altro a cui pensare che le esecuzioni dei prigionieri nelle segrete.

In quel breve lasso di tempo però potevano ancora capitare molte cose, specie se il boia cominciava a darsi da fare.

«Dobbiamo dare la notizia al mio signore» disse Daniel. «Questo gli darà modo di accelerare gli aiuti dalla Francia».

«Gli manderò a dire che re Giovanni non è più qui e che Fitz-Walter si sta armando. Dovrebbe bastargli». Salisbury indicò le pergamene sul tavolo e aggiunse: «Contemporaneamente informerò Fitz-Walter della disponibilità del Delfino. Si troveranno d'accordo entrambi nell'impugnare le armi. Sono due guerrieri irruenti e aspettano ormai da troppo tempo conle mani in mano. Con la notizia di un simile alleato, per Fitz-Walter sarà più facile convincere altri a scendere in campo».

Il conte tacque pensoso a lungo. «Il sacrificio di sir Harald ha accelerato molto i tempi. Ora sono maturi. Sarebbe contento di saperlo».

Daniel condivise quell'idea. Fiero com'era, il vecchio barone sarebbe stato senza dubbio felice di sapere che la sua morte non era stata vana, ma aveva contribuito al compimento dei suoi ideali. I baroni inglesi avrebbero presto riconquistato i diritti perduti, Giovanni Senza Terra avrebbe perso il suo trono.

«Come fermiamo Murrow nel frattempo?» chiese il giovane, dopo un po'.Salisbury gli lanciò un'occhiata di sbieco. «Avete già cominciato a provvedere

autonomamente, mi pare. È stata un'imprudenza che non avrei mai autorizzato».Daniel si strinse nelle spalle. «Ognuno fa quello che può con i mezzi che ha».«Vi rendete conto che se qualcosa va storto e voi venite accusato di essere l'istigatore

di un complotto tra i prigionieri, nemmeno io potrò salvarvi la testa tanto facilmente? Non avrò modo di giustificarvi davanti a Murrow e ai mercenari di Giovanni» continuò il conte.

Daniel simulò una tranquillità che non aveva affatto. «Per ora non so nemmeno se la mia idea si concretizzerà davvero, quindi non c'è da temere».

«Oh, si concretizzerà invece, si tratta solo di scoprire come e quando» replicò Salisbury. «Dunchester è fin troppo piena di teste calde pronte a lottare anche con i forconi, lo si è visto dal primo giorno di assedio. Il vostro appello non cadrà nel vuoto. Speriamo solo che i vostri complici ancora sconosciuti non diano a Murrow altri pretesti per far lavorare il boia».

Speriamo davvero, si augurò Daniel, ma invece disse: «È per la loro e la mia sicurezza che ho agito. Conto sul vostro appoggio, nel caso ce ne sia bisogno».

Salisbury fece una mezza smorfia. «Mi avete messo davanti al fatto compiuto e non posso fare altro che assecondarvi, per ora, visto che non posso più fermarvi».

«Guardate la cosa dal suo lato migliore: così darete una mano al mio signore che vi ha chiesto di limitare i danni del re».

Salisbury sospirò. «Comincio a rimpiangere il giorno in cui ho incontrato voi e monsieur Jean Marc de Ponthieu sulla mia strada. Prima di allora la mia vita era più semplice».

Chissà se anche Guillaume de Ponthieu ha mai pensato la stessa cosa? si chiese Daniel in silenzio. «A proposito di incontri» continuò invece ad alta voce. «Che cosa avete raccontato al re riguardo il nostro fantomatico primo incontro? Quello in cui teoricamente avreste contratto il debito d'onore con me?»

«Gli ho detto che avete impedito che i soldati francesi mi uccidessero a tradimento sul campo di battaglia a Bouvines» replicò Salisbury con un'occhiata eloquente. «Credo che questo abbia contribuito ad aumentare la benevolenza del re nei vostri confronti durante il vostro brillante colloquio».

Già, lo credo anch'io, pensò Daniel, sentendo ancora i brividi al ricordo di quel dialogo azzardato che avrebbe anche potuto portarlo al patibolo.

Ripensando a quei momenti, stentava a credere di essere stato in grado di sostenere una tale conversazione addirittura con un re. A forza di vedere Ian in azione, ho imparato qualcosa anch'io, si disse. Oppure il trovarsi con l'acqua alla gola insegna a chiunque a nuotare, aggiunse subito dopo. Ian gliel'aveva detto spesso, anche se lui non era mai riuscito a credergli fino in fondo.

Salisbury ripose con cura le pergamene in uno scrigno chiuso a chiave, poi chiamò sir Gorvenal perché facesse venire le guardie che avrebbero dovuto scortare Daniel di nuovo nella sua stanza. Il cavaliere entrò nella stanza, ricevette l'ordine e scomparve poi per qualche minuto perché i soldati di guardia erano in attesa lungo il corridoio, tenuti strategicamente lontano dalle stanze private del conte, in modo che non potessero udire nulla della conversazione in corso.

«Posso fare almeno una passeggiata per il castello? Mi sento in gabbia tra quelle

quattro pareti» si lamentò Daniel, mentre attendeva che lo venissero a prendere.«Meglio di no, con le idee imprevedibili che avete in testa» gli sorrise Salisbury. «Per

il momento mi sento più tranquillo se il vostro raggio d'azione rimane limitato».Daniel sbuffò in silenzio, ma dovette rassegnarsi.Quando Gorvenal tornò, aveva con sé le solite guardie, ma anche un soldato con la

divisa di Murrow.«Che c'è?» domandò Salisbury, accigliandosi. Anche Daniel si fece ansioso perché

l'uomo aveva una faccia da brutte notizie.«Milord, vengo a informarvi che c'è stato un incidente nella corte esterna» rispose il

soldato. «La struttura delle forche ha ceduto sotto la pioggia ed è crollata».Salisbury lanciò un'occhiata fulminea a Daniel prima di chiedere: «Ci sono feriti?».«Sì, signore. Dopo il primo cedimento parziale i falegnami sono corsi a vedere, ma

mentre ispezionavano le travi queste hanno ceduto del tutto».Hanno progettato la messinscena alla perfezione, si disse Daniel, mentre il soldato

concludeva: «Ci sono due feriti lievi, a un braccio e a una gamba».«Avete già provveduto a soccorrerli?» chiese ancora Salisbury.«Sì, milord. I feriti sono stati ricoverati al coperto».«E allora fate sgombrare la zona e aspettiamo che smetta di piovere» decise il conte,

sbrigativo. «Dite a sir Murrow di non far toccare niente prima che i miei ufficiali vengano a controllare di persona. Voglio accertarmi dell'accaduto, prima di ricominciare a costruire qualcosa».

Salisbury si voltò verso Daniel e allargò le braccia con una finta aria rassegnata, mentre ancora il soldato di Murrow stava prendendo congedo alle sue spalle. «Ci vorrà qualche giorno, temo» sbottò.

Daniel nascose a fatica un sorriso.

***

La fortezza di Dunkerque non aveva un cortile vero e proprio, poiché era arroccata sulla piccola altura che dominava il porto. Aveva invece una piazza d'armi collocata in alto rispetto ai primi piani della costruzione, alla quale si arrivava o con una strada di pietra tra le cinte di mura, inframmezzata da gradoni ampi e bassi, oppure uscendo dal retro del primo piano del torrione, posto allo stesso livello.

La piazza d'armi era circondata di mura merlate e da lì si poteva ammirare per un bel tratto il mare aperto.

Ian la scoprì quasi per caso, passando davanti a un portone aperto del torrione. Era inquieto. Dal giorno precedente passava il tempo ad attendere notizie da Parigi o dall'Inghilterra e si logorava rimuginando sulle ipotesi che gli venivano in mente. Alla fine, per sfogare l'ansia, si era messo a camminare per la fortezza. L'aveva esplorata per metà nel pomeriggio precedente. Quella mattina, continuando il suo pellegrinaggio nervoso, era arrivato alla piazza d'armi.

Si affacciò dalla soglia che dava all'esterno e fu sorpreso di trovare Martewall da solo nel mezzo dello spiazzo.

Ian non aveva più visto l'inglese dal giorno prima e, sapendo per certo che non aveva lasciato la fortezza, si era convinto che, dopo l'udienza con il Delfino, si fosse rinchiuso nella sua stanza tutto il tempo, per rimanere in solitudine a elaborare il dolore e

l'angoscia che le notizie provenienti da Dunchester gli avevano arrecato.Invece l'inglese era II, spada in mano: aveva buttato il mantello in un angolo di

pavimento asciutto e si stava esercitando da solo.Stava sfogando la rabbia e il dolore, lo si vedeva dai gesti violenti con cui brandiva la

spada e la faceva roteare, provando affondi e parate. Sembrava che combattesse un nemico vero ma invisibile: aveva la stessa veemenza negli occhi di quando intorno infuriava davvero la battaglia. Anche su di lui quell'attesa forzata senza notizie doveva pesare come un macigno.

Ian non osò varcare la porta per non farsi notare e disturbare così quel momento di sfogo. Rimase in disparte a guardare e notò per la prima volta appieno quanto Martewall fosse bravo.

Forse il più bravo tra tutti i cavalieri che ho conosciuto finora, si disse l'americano in silenzio, con sincera ammirazione.

Nonostante la furia evidente che animava i suoi gesti, l'inglese era elegante e impeccabile, aveva una rapidità e una precisione assolute, la lama sembrava il prolungamento naturale del suo braccio.

Ian non aveva mai visto una spada muoversi con tale velocità nella mano di un uomo. Per fortuna quando ci siamo battuti uno contro l'altro a Dunchester lui era già stanco per la battaglia, pensò con un mezzo brivido. Altrimenti sarebbe finita molto male.

Una simile abilità era senza dubbio il frutto di un allenamento costante, portato avanti con dedizione e non solo durante l'apprendistato da scudiero. Probabilmente Martewall dedicava a quell'attività la maggior parte del suo tempo anche ora, da adulto.

Essendo l'ultimo di tre maschi in una famiglia nobile ma senza ingenti ricchezze, Martewall non poteva certo aspettarsi di diventare un giorno signore del feudo né di ereditare anche solo una proprietà che gli consentisse di vivere di rendita. Ian sapeva che nel Medioevo un ultimogenito maschio come Geoffrey Martewall aveva solo due modi per guadagnarsi onorevolmente da vivere: entrare nel clero oppure specializzarsi nell'uso delle armi. Le vittorie in torneo fruttavano sempre ottimi guadagni e non erano pochi i cavalieri che si costruivano negli anni una piccola fortuna in quel modo.

Come tanti altri, anche Martewall aveva scelto la seconda strada: non era un caso se Jerome Derangale l'aveva voluto con sé in occasione del torneo di Béarne. Faceva affidamento sull'abilità dell'amico, divenuto veterano di simili competizioni.

Perso in quelle meditazioni, Ian non fu abbastanza rapido da ritirarsi dentro il torrione quando Martewall, compiendo un ennesimo esercizio di scherma, si girò dalla sua parte.

Il cavaliere inglese rimase sorpreso di essere osservato e s'interruppe di colpo. Subito dopo lasciò ricadere il braccio armato lungo il fianco e raddrizzò le spalle.

Non salutò, non chiese nulla. Aveva il respiro leggermente accelerato per lo sforzo.«Battiti con me» invitò.Ian fece cenno di no. «Fa troppo freddo» disse a mo' di scusa.Martewall insisté. «Vieni a batterti con me» ripeté, ma nella sua voce non c'era

ostilità. Era una richiesta e non una sfida. «Accontentami, poi non te lo chiederò mai più».

Ian accettò di malavoglia, sia perché faceva davvero freddo per pensare di rimanere all'aperto senza mantello, nonostante il sole alto nel cielo, sia perché non voleva più incrociare la lama con l'inglese. Non aveva paura di lui, ma non voleva creare un'occasione che poteva potenzialmente riaccendere il rancore tra loro due. Dopo mille

peripezie e contrasti erano arrivati a una tacita tregua e Ian non voleva metterla a rischio.La richiesta di Martewall però era così seria da non poter essere rifiutata senza

scortesia. Ian si rassegnò a esaudirla, chiedendosi nel contempo perché l'inglese volesse misurarsi con lui proprio in quel momento. Aveva una risposta in mente, ma preferì tenersela per la fine dello scontro e verificare prima se fosse corretta.

Guadagnò il centro della piazza d'armi e si fermò di fronte al suo avversario. Snudò la spada senza fretta, poi si mise in guardia, in attesa.

Martewall si preparò con altrettanta calma, poi scattò per primo.Ian apprezzò la sua abilità ancora di più mentre si trovava ad affrontarla, perché lo

costrinse a impegnare ogni singolo brandello di attenzione per tenergli testa.L'inglese era più basso e meno robusto di lui, ma possedeva la maestria che solo un

vero cavaliere poteva avere, quella che Ian, nonostante tutti i suoi sforzi, non avrebbe raggiunto mai.

Ciò nonostante, l'americano riuscì a tener testa all'avversario per alcuni minuti, lo mise anche in difficoltà in almeno due occasioni, ma poi, com'era inevitabile, dovette cedere il terreno.

Martewall gli impegnò la lama con la sua, una mossa che anche Ian aveva imparato a suo tempo dal conte di Ponthieu, gliela strappò di mano e la fece volare in alto. Fulmineo alzò la mano sinistra e afferrò l'arma che ricadeva verso il basso. Ci fu un guizzo, uno stridio di metallo su metallo.

Martewall si bloccò prontamente prima di terminare il gesto, con le lame tese in avanti, incrociate a forbice ai due lati del collo di Ian.

L'americano non tentò di indietreggiare, non si lasciò sfuggire nemmeno un'esclamazione, anche se sarebbe bastato davvero poco perché Martewall gli tagliasse la testa di netto.

Non aveva alcun timore e questa volta non era la certezza del futuro a dagli tanta sicurezza, né la consapevolezza che, nella situazione attuale, Martewall era legato a lui più che mai per salvare ciò che rimaneva della sua casa.

Era piuttosto una questione di fiducia: Ian ormai sapeva che se l'inglese un giorno avesse voluto di nuovo regolare i conti con lui non l'avrebbe mai fatto in quel modo sleale, senza preavviso. L'avrebbe sfidato a duello solenne, piuttosto, e solo allora avrebbe combattuto per ferire o uccidere.

Ian sostenne lo sguardo d'acciaio del suo avversario, senza dire una parola. Anche Martewall lo stava studiando e meditava sul fatto di non vedere alcun dubbio nei suoi occhi.

Per un attimo, l'unico movimento fu quello delle nuvolette bianche che si condensavano nell'aria a ogni respiro, mentre i due giovani riprendevano fiato.

«Di' la verità: volevi metterti in mostra davanti a lui» disse infine Ian per fare dell'ironia e la sua voce interruppe quel momento pensoso, come se rompesse un incantesimo.

Martewall si riscosse e guardò con sorpresa verso l'alto, nella direzione che Ian gli indicò con il pollice.

Affacciato, o meglio aggrappato, al davanzale di una finestra del secondo piano, c'era Coda di volpe che guardava giù con occhi enormi per la meraviglia.

Martewall ritirò subito le spade e le abbassò. «Non l'avevo visto» brontolò a mezza voce.

«Ti ci abituerai» replicò Ian. «È capace di sbucare fuori quando meno te lo aspetti».Guardò anche lui verso la finestra e fece un cenno al ragazzino. «Andiamo, cosa resti

a fare lassù appollaiato come una gazza?» lo apostrofò.«Non avevo mai visto un combattimento così incredibile!» esclamò Coda di volpe

dall'alto, eccitato, ma poi sparì dalla vista, senza dubbio per correre alle scale.Ian fece qualche passo verso Martewall, che si era spostato un po', roteando le spade

con aria pensosa e un movimento fluido dei polsi. Guardava altrove, forse scaricando ancora un po' la tensione, oppure semplicemente infastidito per il fatto di aver dato spettacolo di se stesso.

«Pensi di tenertela o me la vuoi ridare?» domandò Ian, tendendo una mano.Martewall gli lanciò la sua spada senza replicare.Ian l'afferrò al volo, ma non la rinfoderò.«Sei soddisfatto? Vuoi esibirti ancora un po'?» lo provocò, ma senza troppa malizia.

Non era il momento per fare dello spirito, eppure, proprio perché la situazione era così tragica, Ian sentiva il bisogno di alleviare la tensione in qualche modo.

«Volevo riprovare la mossa improvvisata qualche giorno fa. Mi era venuta bene, volevo vedere se mi riusciva di nuovo. Potrebbe essermi utile, se la perfeziono» rispose Martewall, vago, ma la sua risposta non rispecchiava ciò a cui stava pensando davvero, così come le domande di Ian non avevano niente a che fare con i suoi veri pensieri.

Era una conversazione bizzarra, perché nessuno dei due giovani voleva abbandonare per primo gli argomenti superficiali e inoltrarsi in profondità.

«Ti è venuta bene anche stavolta, mi pare» disse Ian per continuare. «Potresti insegnarla anche a me».

Martewall lo sbirciò, torvo. «Adesso chi è che vuole mettersi in mostra davanti al ragazzo?»

Ian scrollò le spalle e si decise a riporre la spada.«Sei bravo» gli disse Martewall a sorpresa. «Sai sfruttare bene la tua altezza. Di

questo mi ero già accorto in passato».Ian scosse la testa. «Non sono al tuo livello, ora credo che sia chiaro a entrambi. Per

fortuna non avevi intenzione di uccidermi».Martewall non rispose subito. Indagò il suo interlocutore a lungo, con gli occhi.«Tu non hai alcun dubbio. Ti fidi davvero di me» constatò alla fine.«Tu no?» replicò Ian, ora serio. «Stiamo per andare in battaglia insieme, le nostre vite

dipenderanno molto probabilmente una dall'altra. Tu affideresti a me la tua, se dovessi guardarti le spalle?»

Martewall meditò sulla domanda e infine annuì. «Sono cambiate davvero molte cose in pochi giorni» ammise. «Non l'avrei mai creduto possibile».

Ian capì che, come sospettava, Martewall aveva voluto battersi con lui in quel momento per fare soprattutto chiarezza dentro se stesso.

C'era riuscito? Chissà.Coda di volpe arrivò in quel momento dalla porta aperta e interruppe il confronto, ora

solo verbale, tra i due cavalieri. «Non vi battete più?» domandò con delusione, vedendo che Ian non aveva più la spada in mano.

«Ma tu non fai altro che pensare alle battaglie? Dovresti averne viste abbastanza» lo rimproverò Ian.

«È che non avevo mai visto un duello tra cavalieri... e questo è stato eccezionale» si

giustificò il ragazzino.«Mica tanto, visto che ha vinto lui» disse Ian con una mezza smorfia.«Vuoi la rivincita? Io non sono stanco» lo provocò Martewall.«Ma io ho freddo, perciò per oggi basta così» rispose Ian. «Se vuoi continuare, puoi

farlo con lui». Indicò Coda di volpe. Il ragazzo spalancò gli occhi. «Io?»«Potrebbe essere un'idea» replicò Martewall a Ian, senza ironia. «Ormai ha l'età per

imparare, anzi ha già perso qualche anno utile».«Stavo scherzando» disse Ian, improvvisamente preoccupato.«Davvero mi insegnereste?!» esclamò invece Coda di volpe, trepidante.«Adesso no. Non è il momento adatto. Lascia in pace sir Martewall: ha altre cose più

gravi a cui pensare» gli tarpò subito le ali Ian.Coda di volpe guardò Martewall mortificato. «Scusate» mormorò, sapendo che il

cavaliere era in lutto, ma l'inglese gli fece un cenno rassicurante. «No, forse è meglio così» rispose. «Ho bisogno di tenermi occupato o non farò che rodermi per l'angoscia. Se sei disposto a impegnarti davvero, posso farti vedere le prime basi».

«Io sono prontissimo!» esclamò il ragazzino, di nuovo eccitato. «Imparerò in fretta, vedrete! Non vi farò sprecare tempo!»

Ian guardò Martewall in modo eloquente. «Non è una buona idea» si oppose. «Non voglio che impari a tenere in mano una spada. Si mette già abbastanza nei guai con la sua fionda».

«Ma io posso rendermi utile, se mi insegnate!» insisté Coda di volpe. «Ho sentito cos'è successo a Dunchester, ne parlano tutti, e voglio venire anch'io con voi, quando partirete!»

«Noi non partiamo» replicò Ian, che non voleva mettere al corrente il ragazzo di cosa si stesse discutendo tra i cavalieri.

«Forse adesso no, ma prima o poi lo farete. Tornerete a riconquistare il castello, ne sono certo. Voglio tornare in Inghilterra anch'io e combattere il tiranno!»

«E fuori discussione» sentenziò Ian, ma Martewall invece disse: «Ne avrebbe il diritto».

«No» si oppose Ian. «E solo un bambino. Lui non ci viene in guerra, se mai ci sarà».«Non sono un bambino» protestò Coda di volpe.«Non lo è più da quando hanno quasi ucciso sua madre sotto i suoi occhi» osservò

Martewall.Era una verità che Ian doveva ammettere, tuttavia il giovane non volle rassegnarsi.

«Non ha la preparazione adatta. Adesso come adesso può solo andare a mettersi in pericolo».

«Questo è un altro discorso» convenne Martewall, per la delusione di Coda di volpe.«Ma...» tentò di obiettare il ragazzino.«Niente guerra» gli disse Ian. «Se vuoi, puoi cominciare a imparare la scherma, ma

non affronterai una battaglia prima di essere diventato un uomo».«Ma ci vorranno anni!»«Allora vorrà dire che sarai pronto per la prossima guerra».«Ci vorranno comunque anni per imparare a usare una spada, non crederai che bastino

pochi giorni o una settimana?» aggiunse Martewall, prevenendo ogni altra obiezione del ragazzino deluso. «Ora, se vuoi che ti insegni, queste sono le condizioni».

«Fatemi venire con voi» supplicò Coda di volpe, un'ultima volta, sperando di

convincere entrambi.Martewall però fu irremovibile quanto Ian. «Hai sentito cosa ha detto lord Ponthieu?

Non andrai in battaglia prima di essere pronto» disse, fermo. «Se vuoi diventare un uomo d'armi devi innanzi tutto obbedire ai tuoi superiori senza discutere. Non c'è posto per gli indisciplinati in guerra, perché la disobbedienza agli ordini fa morire gli uomini. Adesso puoi scegliere se rifiutare la disciplina e tornare a giocare oppure andare a cercare due bastoni di legno da usare come spade e iniziare l'addestramento con me».

Coda di volpe passava di delusione in delusione. «Perché i bastoni? Non possiamo almeno usare una spada vera?»

«Tutti abbiamo iniziato con i bastoni: non vorrai essere tu quello che si taglia una mano durante la prima lezione di scherma?» replicò Martewall.

Il ragazzino dovette cedere. «Ritorno subito» mugugnò e corse via, senza dubbio a cercare i bastoni di cui aveva bisogno.

Ian guardò Martewall, appena rimasero soli. «"Lord Ponthieu"?» ripeté perplesso. Era la prima volta che l'inglese lo chiamava con il nome proprio, per giunta aggiungendovi il titolo nobiliare.

L'altro cavaliere si strinse nelle spalle. «Quando si deve imporre la disciplina, fa sempre bene sottolineare i titoli».

«Se lo dici tu» replicò Ian.Coda di volpe ritornò in una decina di minuti, con due bastoni dritti, lunghi poco più

di un braccio. «Me li hanno dati gli stallieri» spiegò, mentre Ian ancora si chiedeva come avesse fatto a procurarseli in così poco tempo.

«Bene, perché cominciava a fare freddo, fermi qui fuori senza far niente» disse Martewall e rinfoderò la sua spada per impugnare un bastone.

Ian li lasciò entrambi alla loro lezione e ritornò verso la porta. Faceva davvero freddo nella piazza d'armi, fermi senza mantello e senza muoversi, e perciò il giovane si decise a rientrare, visto che non aveva più nulla da fare là fuori. Quando fu sulla soglia, però, si voltò indietro un'ultima volta, a guardare il cavaliere che stava spiegando qualcosa al ragazzino. Sem bravano già affiatati e assorbiti nella spiegazione, facevano quasi uno strano quadretto familiare: entrambi inglesi in esilio lontani da casa e con le famiglie ridotte ormai a un'unica giovane donna da proteggere e amare. Leowynn per Martewall, Brianna per Coda di volpe.

Speriamo che questo momento di quiete sia di buon auspicio per entrambi, pensò Ian, osservandoli.

Vicino alla porta, trovò a sorpresa Guillaume de Ponthieu. «Siete qui, voi due, finalmente. Vi cercavo» disse il conte, prima di ogni domanda. «Ho bisogno dite e di sir Martewall per definire alcune cose riguardo alla logistica del piano di sbarco a Dunchester, se e quando dovremo metterlo in atto».

«Posso aiutarti io per il momento?» domandò Ian, indicando la lezione di scherma nella piazza d'armi. «Vorrei lasciarli in pace per un po' se possibile».

Ponthieu annuì, ma nel frattempo aveva appuntato la sua attenzione sui due inglesi, il ragazzo e il cavaliere.

Ian capì fin troppo bene che l'uomo stava meditando su qualcosa di preciso. «Hai già un'idea?» chiese ancora.

Ponthieu gli indicò Coda di volpe, con un certo interesse. «Il ragazzo è affidabile?»Da quella domanda Ian capì che la sua speranza di tenere Coda di volpe lontano dai

guai era già miseramente svanita.

Capitolo 38Il piccolo drappello di uomini procedeva a piedi nel buio freddo, tra i tronchi umidi,

conducendo i cavalli per le briglie. Nessuno parlava, in silenzio tutti seguivano le due guide del gruppo. Incappucciati sotto mantelli neri, sembravano ombre silenziose, che non lasciavano dietro di sé nemmeno un fruscio.

Il bosco era silenzioso e senza vento. La luce fioca del sole era stata sostituita da poco da quella debole della luna e filtrava dall'alto tra i rami spogli a illuminare il cammino. I passi di uomini e cavalli erano attutiti dall'erba e dalla terra, umide dopo gli ultimi giorni di piogge frequenti.

La prima guida si fermò a osservare la vegetazione immobile, illuminata d'argento. «Non possiamo procedere oltre. Ci stiamo avvicinando troppo. Dobbiamo aspettare che tornino a riferire» disse e guardò l'altra guida, alta sotto il mantello nero.

Ian annuì e osservò a sua volta il panorama silenzioso. «Sicuro che ci trovino? Non abbiamo avuto modo di metterci d'accordo sul luogo preciso dell'incontro, solo sulla zona».

«Abbi fede. Stone ha detto che sono i migliori tra i suoi uomini. Sanno il fatto loro» gli rispose Martewall.

Ian guardò indietro verso il resto del gruppo, una decina di uomini in tutto, e appuntò la sua attenzione soprattutto sulla figura più bassa e minuta di tutte, quella che stava in rigido silenzio accanto a Etienne de Sancerre.

«Tutto bene?» domandò l'americano e lo disse in inglese e in francese, per farsi capire da tutti.

Sancerre mise la mano sulla spalla di Coda di volpe. «Tutto bene» rispose per lui.Un movimento tra gli alberi fece mettere mano alla spada ai soldati nascosti sotto i

mantelli.Dalla vegetazione sbucarono due uomini, vestiti con anonimi panni scuri. Anche loro

conducevano i cavalli a mano, ma era chiaro che venivano da un lungo galoppo in spazi aperti. Avevano il respiro accelerato per la fatica e i cavalli erano visibilmente affaticati.

Ian si rilassò con sollievo, vedendo che gli uomini non portavano divise da soldati e non sembravano affatto sorpresi di vedere il gruppo in nero nel bosco. Erano gli uomini che stava aspettando.

«Che notizie?» domandò subito.«E confermato. Re Giovanni ha lasciato Dunchester. Salisbury e Murrow invece sono

entrambi al castello» rispose uno dei due uomini.«Quindi il porto è controllato solo da soldati?» chiese Martewall.«Quelli di sir Murrow, più alcuni mercenari» annuì l'altro uomo. «Non è cambiato

niente da quando siamo partiti, a parte il fatto che anche i vostri ultimi soldati sono stati rimossi dagli incarichi dopo il tafferuglio del mercato. Salisbury non ha aggiunto i suoi uomini a quelli di Murrow, deve aver lasciato il porto completamente in mano al barone e ai mercenari».

Ian e Martewall si guardarono.«Che l'abbia fatto apposta o no, questo ci è di grande aiuto» disse infine Martewall.«L'ha fatto apposta, ne sono sicuro» rispose Ian. «Sa che stiamo arrivando».«Speriamo allora che questo sia un segno della volontà di Salisbury di aiutarci e non

una trappola per prenderci tutti. Io purtroppo non riesco più a fidarmi di lui. Non dopo

quello che è successo» concluse Martewall con rancore.«Con il re a Dunchester ha avuto le mani legate, questo lo sai anche tu» obiettò Ian,

ma contemporaneamente non poteva fare a meno di provare in parte lo stesso sentimento di rabbia e di delusione.

William Lunga-Spada aveva promesso di proteggere Dunchester e non l'aveva fatto: poteva anche non essere colpa sua, ma i giorni di angoscia che Ian aveva vissuto fino a quel momento offuscavano la logica e lasciavano spazio solo alle accuse. Se fosse successo qualcosa a Daniel, anche Ian avrebbe voluto la testa di Salisbury come risarcimento.

Cercò di non pensare al peggio e di concentrarsi solo su ciò che lo aspettava nelle prossime ore. Ripassò mentalmente gli avvenimenti scorsi per prepararsi a ciò che doveva ancora accadere.

La notizia della partenza di Giovanni Senza Terra da Dunchester era arrivata poco dopo il benestare da Parigi per il progetto del principe Luigi. Re Filippo Augusto approvava, sia pure con mille raccomandazioni alla prudenza, il tentativo che il Delfino voleva fare per destabilizzare il sud dell'Inghilterra e indurre i baroni a fare finalmente il primo passo verso la ribellione aperta, usando Dunchester e Martewall come scintilla per appiccare l'incendio.

Invano i consiglieri avevano supplicato il principe di ritardare la partenza delle truppe e tentare prima la mossa diplomatica di un ambasciatore segreto, com'era stato originariamente progettato. Avendo saputo che i baroni erano ormai pronti alle armi, il principe Luigi non voleva dar loro modo di trovare la forza di ribellarsi da soli, escludendolo dal progetto.

Dunchester, che doveva diventare il simbolo della repressione di Giovanni contro i baroni ribelli, sarebbe diventato invece il focolaio da cui la ribellione avrebbe rialzato la testa, ma non l'avrebbe fatto senza i Francesi. Il Delfino avrebbe cominciato da li a mettere la sua ipoteca sulla corona inglese.

«Occupate quel castello» aveva ordinato il principe a Ian e Ponthieu, in privato. «Quando i baroni arriveranno, dovranno cominciare a trattare con noi».

Era stato un sollievo sapere di poter finalmente fare qualcosa di concreto per aiutare chi era rimasto prigioniero a Dunchester. Così sia Ian sia Martewall avevano potuto sfogare la loro ansia preparandosi alla missione.

Tutto era già pressoché pronto. Guillaume de Ponthieu aveva messo a punto il piano d'azione. Non restava che passare alla pratica.

La nave mercantile del capitano Ned Stone era partita per prima, precedendo di un giorno cinque navi da guerra francesi senza insegne verso le coste dell'Inghilterra.

Quelle navi ora erano al largo da qualche parte, tenute strategicamente fuori dalla vista di chiunque, mentre la nave di Stone doveva già essere attraccata al porto di Dunchester come un mercantile qualsiasi, dopo aver sbarcato Ian, Martewall, Sancerre, Coda di volpe e otto uomini al porto che precedeva Glenhaven. Erano scesi alla spicciolata, come passeggeri qualsiasi, camuffati sotto abiti comuni e portando con loro solo alcuni cavalli con le some cariche di merce. Si erano registrati in modi diversi presso il banco del dazio e nessuno tra le guardie aveva avuto da ridire poiché i controlli erano blandi per chi arrivava al porto. Molto più ferrei erano invece per quelli che volevano partire da Glenhaven via mare: Murrow e i soldati del re stavano ancora cercando i fuggitivi Martewall e Ian e non si aspettavano certo che potessero entrare,

invece che uscire dal paese.Lasciata la città portuale in tempi diversi, Ian e il suo gruppo si erano dati

appuntamento nel bosco, lontano da sguardi indiscreti, e si erano organizzati.Le some dei cavalli avevano rivelato il loro vero contenuto, dopo che le merci messe

in superficie per ingannare i doganieri erano state gettate via: vi erano spade, balestre, elmi, cotte di maglia e livree da battaglia.

Gli uomini si erano vestiti in silenzio e avevano nascosto le cotte e gli usberghi sotto i mantelli neri, poi erano montati in sella. Poiché per non destare sospetti avevano sbarcato solo cinque cavalli dalla nave, avevano comprato gli altri al porto da mercanti diversi, in modo da averne uno per ciascuno.

Ora erano un piccolo drappello bene organizzato di uomini armati fino ai denti.C'era voluta tutta la giornata al galoppo per arrivare al porto di Dunchester da

Glenhaven, ma il gruppo era in orario perfetto: al porto, al calar del buio, avevano appuntamento con la nave di Stone, che li aveva preceduti dal mare.

Due marinai, infatti, avevano avuto tutto il tempo di perlustrare il porto e persino il borgo di Dunchester e tornare a riferire la situazione a chi era appostato nel bosco.

«Al porto sono stati impiccati molti uomini» disse il marinaio cupamente, continuando il suo racconto. «Le forche sono piene nella piazza dei mercato. Lasciano i corpi in bella vista per giorni, come monito per tutti».

«Murrow mi pagherà anche questo» minacciò Martewall con odio. «Guai a lui quando la mia spada lo raggiungerà».

«E al castello che è successo?» domandò Ian, reprimendo a fatica l'ansia.«Per ora non ci sono state altre esecuzioni» rispose l'altro marinaio, facendo sospirare

l'americano per il sollievo. «Là non c'erano forche pronte e la pioggia ha rallentato i lavori per costruirle, oppure c'è stato qualche altro problema nei giorni scorsi, non so. Le hanno completate oggi, però. Non so cosa accadrà domani».

«Domani ci saremo noi. Non si faranno esecuzioni» replicò subito Ian.«Dipende da chi sarà il condannato» lo corresse Martewall, aspro. «Non garantisco

niente. Potrebbe venirmi voglia di far provare a qualcuno le forche che hanno gentilmente costruito nel mio cortile o il ceppo su cui hanno decapitato mio padre».

Ian non era d'accordo, ma capì che non era il caso di contraddire l'inglese in quel momento di rabbia e di dolore. «Domani vedremo» si limitò a rispondere, poi si voltò a tradurre le notizie a beneficio dei francesi che lo accompagnavano.

«Allora possiamo andare?» domandò Sancerre.«Aspettiamo solo che la luna salga ancora un po'» gli rispose Ian e guardò Coda di

volpe. «Tu sei pronto?» gli domandò, questa volta in inglese.Il ragazzino annuì, benché fosse molto pallido sotto il cappuccio del mantello. «Spero

di riuscire a fare quello che mi chiedete» rispose a voce bassissima.Sancerre gli diede una pacca sulla spalla. Non aveva capito le parole di Ian e di Coda

di volpe, ma il tono di quest'ultimo era stato fin troppo evidente e tradiva la paura. «Sarà perfetto e tirerà fuori il coraggio al momento giusto, ne sono sicuro. Il ragazzo ha la stoffa del soldato».

«Sta dicendo che sarai coraggioso come un vero soldato» tradusse Ian a Coda di volpe.

Il ragazzino cercò di farsi più risoluto. «Come si dice: "un giorno voglio diventare cavaliere anch'io?"»

Ian glielo tradusse e il ragazzo cercò di ripeterlo a Sancerre, anche se con un accento molto approssimativo.

Sancerre rise e fu d'accordo. «Ti troveremo un buon maestro, n'est ce pas, Jean?19» replicò.

«Forse ne ha già trovato uno» disse Ian e guardò Martewall che stava assistendo in silenzio. L'inglese non commentò.

«Voglio anche imparare la lingua di mio padre» continuò Coda di volpe, senza aver potuto capire le ultime frasi.

«Sarebbe bene» lo incoraggiò Ian. «E finalmente comincerai a farti chiamare con il tuo vero nome».

Il ragazzino non rispose, ma raddrizzò le spalle con fierezza.Martewall guardò il cielo scuro. «E ora di andare» annunciò.Nel frattempo i due marinai inglesi si erano fatti dare cotta di maglia e divisa,

vestendosi come tutti gli altri.Ian andò da Coda di volpe e gli aprì il mantello. «Ti hanno allacciato l'usbergo come

si deve?» domandò.Il ragazzo si fece aiutare a controllare ogni dettaglio del suo abbigliamento: indossava

la tenuta completa di un cavaliere, con l'usbergo di maglia di ferro, il camaglio e gli speroni. Aveva persino una spada cinta al fianco, sopra una cotta d'armi blu a righe bianche. Si muoveva a disagio, aggiustandosi spesso tutto quell'armamento addosso.

Ian gli sistemò l'usbergo sul corpo. «E pesante?»«Faccio fatica a muovermi, con tutta questa roba. Mi sento imbottito come un

cuscino» si preoccupò il ragazzo, tastandosi il petto e le braccia, riparati dalla spessa trapunta di feltro sotto la cotta di maglia. Anche i guanti di cuoio pesante e metallo gli davano fastidio alle mani.

«Ti ci abituerai e comunque per il momento devi solo camminare o stare sulla sella di un cavallo, perciò non preoccuparti troppo dell'agilità» lo rassicurò Ian.

«Ma voi come fate a combattere con tanto peso addosso?» Coda di volpe guardava Ian armato al suo stesso modo, solo con un usbergo più pesante e colori diversi sulla livrea, e sembrava non riuscire a capacitarsi di come i cavalieri potessero usare le spade o muoversi tanto velocemente come li aveva visti fare nei duelli di allenamento.

«E questione di pratica. E poi noi abbiamo muscoli un po' più robusti dei tuoi» gli sorrise Ian. «A te servirà ancora qualche anno».

Martewall intanto si era avvicinato a guardare. «Tuo fratello ha fatto un buon lavoro in poco tempo» disse a Ian. «Ci ha procurato un usbergo della taglia adatta al ragazzo e anche queste livree per noi, senza contare tutto il resto». Indicò la cotta d'armi colorata che indossava al pari di Sancerre e di Ian.

Tutti gli altri uomini del gruppo portavano invece le righe blu e bianche sulle divise da soldato, gli stessi colori che sfoggiava Coda di volpe sulla sua livrea.

«Guillaume ha una certa esperienza quando si tratta di costruire sosia» replicò Ian con un sospiro, per poi pentirsi subito di quella frase detta d'istinto.

Guardò Martewall, temendo di averlo insospettito, ma l'inglese stava ancora osservando Coda di volpe e non mostrò alcuna reazione. Tese invece al ragazzo un elmo da cavaliere. «Con questo, finiamo la messinscena» concluse.

Coda di volpe alzò il camaglio sulla testa e infine indossò l'elmo, poi si lasciò

19 vero, Jean?

ammirare.Ian ebbe un mezzo sorriso, benché sentisse l'ansia crescere ora che i preparativi erano

finiti e l'azione poteva cominciare. «Signori, vi presento sir Nigel Murrow» annunciò ai compagni.

***

Il gruppo armato uscì allo scoperto fuori dal bosco, nei prati scuri. Fece un giro ampio al galoppo, arrivò alla strada che congiungeva il castello e il porto di Dunchester e prese la direzione che portava a quest'ultimo.

Gli uomini si misero in formazione: Coda di volpe davanti a tutti, Ian, Martewall e Sancerre ai suoi fianchi, i soldati e i due marinai in fila dietro. Non incontrarono nessuno lungo la strada, ma quando arrivarono sotto la palizzata del porto, sorvegliata dalle sentinelle, fecero esattamente l'impressione che speravano.

I soldati di guardia corsero subito con le torce sopra il portone ormai chiuso per il coprifuoco, imbracciarono balestre e snudarono spade, poi però si fermarono, riconoscendo le uniformi con le righe vistose, identiche alle loro, sul gruppo che arrivava di gran fretta dalla direzione del castello. La luce incerta della luna e delle torce aiutava l'inganno, confondendo i piccoli dettagli dei travestimenti.

«Lasciate il passo al vostro signore!» intimò Martewall imperiosamente, attraverso l'elmo che gli copriva la faccia.

I soldati si affrettarono a trasmettere l'ordine ai compagni dietro la palizzata. Il portone si aprì dopo solo qualche minuto, con un cigolio sinistro.

Ian si affiancò a Coda di volpe per farlo proseguire. Il ragazzo spronò il cavallo e i soldati s'inchinarono quando passò tra di loro, scortato dai tre cavalieri e dai soldati del suo finto seguito.

Il gruppo dei francesi entrò senza colpo ferire nel borgo fortificato. I portoni vennero sprangati alle sue spalle.

Appena dentro, Ian si guardò intorno. Non c'erano tantissime sentinelle sulla palizzata e anche i soldati di guardia al portone erano solo un gruppo sparuto: dopo aver esautorato gli ex-soldati di Martewall da ogni compito di sorveglianza, Murrow doveva fare affidamento solo sui suoi uomini e sui mercenari del re. Probabilmente non ne aveva a sufficienza per tenere contemporaneamente sotto controllo anche il castello di Dunchester e così aveva dovuto fare economia. Doveva essere convinto che nessuno potesse avere intenzione di assaltare il porto. Quello sarebbe stato il suo errore più grande.

L'ufficiale di turno arrivò a piccolo trotto da Coda di volpe, dopo essere stato informato dalle sentinelle che sir Murrow era arrivato con tre cavalieri vassalli di casati diversi e un gruppo di soldati di scorta. «Signore, che cosa succede?! Non vi aspettavamo qui stasera! Credevamo foste al castello!» esclamò.

Ian s'irrigidì d'istinto, ora che toccava al ragazzo fare la sua parte nel piano prestabilito.

«Voglio tutti gli ufficiali a rapporto alla rocca. Dobbiamo prepararci allo sbarco delle truppe del re». rispose Coda di volpe e la sua voce distorta dall'elmo suonò autorevole e allo stesso tempo inconfondibilmente adolescente. Nessuno poteva dubitare che ci fosse davvero un ragazzino sotto quell'usbergo.

L'ufficiale sgranò gli occhi. «Sua Maestà manda qui nuovi uomini?»«Sì. L'ho saputo al tramonto e sono venuto di persona a organizzare le cose al meglio.

Cinque navi sono già in viaggio, saranno qui all'alba, quindi sbrighiamoci».«Devo svegliare anche tutti gli uomini?» si preoccupò l'ufficiale.«No!» rispose Coda di volpe, forse con un po' troppa ansia, poi però si diede subito un

nuovo contegno. «Per ora bastano gli ufficiali. Riuniteli nella sala grande della rocca, poi verrò io a darvi le istruzioni necessarie».

«Sì, signore!» L'ufficiale spronò il cavallo e si allontanò in fretta.Ian si rese conto di aver stretto convulsamente le mani sulle redini del cavallo per tutta

la durata del dialogo solo quando le rilassò altrettanto istintivamente e si accorse che gli facevano male per lo sforzo. Respirò a fondo per calmare il cuore e scambiò uno sguardo con Martewall e Salicene. Entrambi annuirono: Coda di volpe era stato bravo e la messinscena per ora funzionava a meraviglia.

Martewall si affiancò al ragazzo, seduto tesissimo sulla sella. «Va tutto bene. Proseguiamo verso la rocca, senza troppa fretta» gli bisbigliò.

Coda di volpe annuì in silenzio e spronò il cavallo, prendendo di nuovo la guida del gruppo.

Ian invece si voltò a parlare con uno dei marinai di Ned Stone. «Andate a controllare quanti moli sono liberi per gli ormeggi» disse loro ad alta voce, a beneficio di chi poteva udirli. «Dite al capitano Stone che può muoversi» sussurrò in aggiunta. «Ci rivediamo alla rocca».

Il marinaio annuì, salutò militarmente come se fosse un vero soldato e si allontanò verso il porto insieme al compagno. Ian accompagnò gli altri verso la piccola rocca quadrata che dominava il borgo portuale.

Il gruppo attraversò le vie ormai semideserte, attirando solo gli sguardi timorosi dei pochi abitanti ancora affacciati alle finestre delle case. Alcuni bambini venuti a curiosare al passaggio degli armati furono richiamati in fretta dalle madri dentro le porte. Due uomini intenti a governare cavalli in una stalla gettarono un'occhiata ostile a quelli che sembravano i soldati invasori con i colori di Murrow sulle livree, ma non osarono dire nulla e distolsero gli occhi quando il gruppo passò vicino a loro.

Sempre scortando Coda di volpe, Ian e gli altri uomini arrivarono nella piazza ora vuota del mercato.

Li accolse uno spettacolo raccapricciante: sei impiccati pendevano da altrettante forche. Cadaveri ormai lividi, sfigurati dagli uccelli e dagli insetti. L'odore nauseante della morte arrivava imo ai cavalieri a ogni alito di vento.

Ian sentì lo stomaco reagire a quella scena crudele e provò un istintivo timore per Coda di volpe. Il ragazzino rabbrividì vistosamente eppure non si lasciò sfuggire un suono. Si comportò ammirevolmente e passò oltre le forche senza voltarsi indietro. Ian fu fiero del suo coraggio, poi si voltò e guardò con pietà quei poveri corpi appesi. La pena diventò strazio e poi rabbia quando, nonostante il buio e i darmi degli animali, il giovane riconobbe tra i condannati i due soldati che l'avevano aiutato a fuggire con Martewall solo qualche giorno prima. I due non portavano più le divise nere, ma abiti completamente laceri, che lasciavano intuire le percosse e le torture subite prima dell'impiccagione.

Senza dubbio erano stati interrogati con i modi più brutali per far loro confessare dove fossero andati i fuggitivi più importanti, cioè Martewall e Ian stesso.

Maledetti bastardi! pensò l'americano all'indirizzo di chi aveva compiuto una vendetta tanto brutale contro quegli uomini coraggiosi. Si voltò verso Martewall e vide che il barone aveva la mano serrata sull'impugnatura della spada, con odio.

Il gruppo proseguì in silenzio verso la rocca, lungo una breve strada in salita.L'edificio era antico e chiaramente ristrutturato di recente. Aveva finestre strettissime

solo ai piani superiori ed era circondato da un'unica cinta di mura, che racchiudeva anche la torre di segnalazione del porto. In cima alla torre bruciava il fuoco del faro. Sulle mura e sul tetto merlato della costruzione si muovevano alcune sentinelle di ronda, alla luce delle torce accese.

Coda di volpe e tutti quelli che lo accompagnavano furono fatti entrare senza difficoltà dai soldati che non temevano nulla. Non c'era quasi nessuno in giro: gli uomini della guarnigione dovevano aver già mangiato ed essersi poi ritirati a riposare, almeno quelli che non dovevano fare i primi turni di guardia.

Nel piccolo cortile qualcuno venne a prendere le briglie del cavallo del ragazzo con sollecitudine. Coda di volpe scese di sella agilmente, nonostante il peso inusuale dell'usbergo che gli gravava sulle spalle e s'incamminò verso la rocca.

Gettò indietro il mantello mentre lo faceva e appoggiò la mano sull'impugnatura della spada, con piglio solenne.

Ian sorrise sotto l'elmo, vedendolo tanto immedesimato nella parte del piccolo feudatario. Smontò a sua volta e seguì il ragazzo. Martewall, Sancerre e i francesi lo imitarono.

Sulle scale d'ingresso, andò loro incontro l'ufficiale che poco prima li aveva accolti all'ingresso del borgo. «Gli ufficiali sono riuniti, signore» annunciò con un inchino e fece largo al gruppo in arrivo verso l'atrio della rocca, dove attendevano due soldati con le torce già accese.

«Molto bene» replicò Coda di volpe, asciutto, e proseguì la sua strada.«Mio signore,» lo richiamò però Ian «ricordatevi che dobbiamo riferire al conte di

Salisbury quanti prigionieri sono attualmente rinchiusi nelle celle».«Ah, già» si affrettò a rispondere il ragazzino, con un po' di ansia, e si voltò verso

l'ufficiale per avere risposta.«Abbiamo diciannove uomini nelle segrete, signore» disse l'uomo. «Tutti soldati della

precedente guarnigione che non hanno voluto giurare fedeltà a voi».Diciannove alleati in più, molto meglio del previsto, pensò Ian e, con una sola

occhiata, scambiò lo stesso pensiero con Martewall.Anche Coda di volpe guardò Martewall, come prevedeva il piano. «Andate ad

accertarvi delle loro condizioni poi tornate a riferire» gli ordinò.Il barone s'inchinò, poi fece cenno a due francesi di accompagnarlo e s'incamminò

verso la porta che dall'atrio portava ai sotterranei. Uno dei soldati con le torce fece loro strada, ignaro di ciò che si preparava alle sue spalle.

«Da questa parte, signore» continuò l'ufficiale, precedendo Coda di volpe verso la scala che portava al piano superiore.

Martewall aveva descritto bene l'interno della rocca quando tutti insieme avevano studiato il piano d'azione e perciò Ian riconobbe senza fatica il tragitto che stavano compiendo. Appena sopra l'atrio c'era la sala grande in cui i soldati si riunivano e mangiavano; dallo stesso pianerottolo la scala continuava per arrivare prima agli alloggi dove la guarnigione dormiva e poi alla terrazza merlata sulla sommità dell'edificio.

Ian lasciò entrare nella sala grande Coda di volpe insieme a Sancerre, all'ufficiale e al soldato con la torcia, poi chiamò due soldati con un cenno muto e indicò loro la scala che portava al piano di sopra. I due annuirono e s'inoltrarono su per i gradini, silenziosi come ombre.

Con i soldati rimanenti, Ian entrò nella sala, sentendo la tensione crescere con l'approssimarsi dell'azione.

Nella sala trovò tre uomini in divisa, oltre ai due che li avevano accompagnati dentro. Tutti si erano disposti in modo da rendere omaggio al finto sir Murrow. Le finestre erano chiuse, il caminetto appena riattizzato. Le tavole dove si era consumata la cena erano state sgombrate e ripulite.

Ian ebbe cura di chiudersi la porta alle spalle e, senza farsi notare, tirare anche il chiavistello. Sancerre gli lanciò uno sguardo d'intesa.

«Siamo ai vostri ordini, signore» dissero gli ufficiali a Coda di volpe.Mentre il ragazzo si toglieva finalmente l'elmo, i francesi di Ian si spostarono con

calma per riempire la sala.Accadde tutto in un lampo: quando gli ufficiali videro che il ragazzo sotto l'elmo non

era Nigel Murrow capirono l'inganno, ma ormai era troppo tardi per difendersi. I francesi puntarono loro le spade alla gola e li immobilizzarono.

«Non un grido o siete morti tutti» minacciò Ian.La scena si fermò all'istante. Gli uomini di Murrow erano cinque ma Ian e compagni

erano di più e tutti con le armi già pronte. Persino Coda di volpe aveva sguainato la spada: non sapeva usarla, ma questo i nemici non potevano sospettarlo. Non osarono reagire e alzarono le mani, sconfitti, quando le armi degli aggressori li minacciarono più da vicino.

«Chi siete?! Come osate fare questo?!» esclamò comunque uno degli ufficiali con rabbia.

«Qualsiasi cosa abbiate in mente, non riuscirete ad andarvene da qui vivi!» minacciò un altro.

«E state zitti!» sbottò Sancerre, infastidito, e la sua frase in francese fece letteralmente sobbalzare gli uomini di Murrow. Non si erano capiti a vicenda, ma lo scoprire di avere a che fare con stranieri d'oltremanica spaventò gli inglesi prigionieri.

«Rendeteli inoffensivi» ordinò Ian ai suoi.I francesi disarmarono gli ufficiali e il soldato e li riunirono in un angolo dal quale

non potevano scappare. Qualcuno bussò alla porta con un segnale convenuto. Ian andò ad aprire.

Martewall entrò in fretta, seguito dai due soldati che lo avevano accompagnato nelle segrete e da un gruppo di uomini sconosciuti. Vestivano in nero, ma avevano gli abiti laceri e i visi sporchi tipici dei prigionieri. Ian capì che erano i diciannove soldati rinchiusi nelle celle sotterranee, quelli che non avevano voluto rinnegare la fedeltà al precedente signore per obbedire ai nuovi padroni.

Quando Martewall si tolse l'elmo integrale, gli ufficiali di Murrow impallidirono ancora di più perché lo riconobbero. Il barone li guardò uno a uno e i suoi occhi grigi erano spietati più che mai.

«A chi devo le forche nella piazza del mercato e le torture inflitte ai miei uomini?» domandò, terribile anche senza alzare la voce.

Nessuno osò rispondergli, per paura.

«Lo vedremo» proseguì Martewall, poi però si voltò verso Ian e Sancerre. «Di sotto abbiamo fatto un lavoro silenzioso» annunciò loro, usando il francese per farsi capire da entrambi. «Nessuno si è ancora accorto di niente».

«Due dei nostri stanno sorvegliando le scale che portano di sopra, finora nessuno è sceso» replicò Ian.

Martewall si voltò verso i suoi fedeli. «Sapete dove sono le armi, equipaggiatevi e poi occupatevi di quelli che dormono al piano di sopra. Niente combattimenti, niente strepiti, se possibile. Portate tutti giù nelle segrete e indossate le loro uniformi, poi andate a dare il cambio alle sentinelle sul tetto, sulle mura e nel cortile. Occupatevi di loro alla stessa maniera».

«Sì, signore» rispose un soldato per tutti, con un sorriso fiero. Gli uomini scomparvero in fretta dalla sala.

«Anche loro. Portateli giù con gli altri. Chiudeteli in una cella poi sorvegliate l'atrio» ordinò Ian ai suoi uomini, indicando gli ufficiali e il soldato tenuti in ostaggio.

Nella sala rimasero solo i tre cavalieri, Coda di volpe e due armati come scorta.«Bel lavoro» disse Sancerre al ragazzo con un gran sorriso, nel togliersi l'elmo.«Bel lavoro» tradusse Ian nel fare altrettanto e si unì calorosamente al complimento.

«Sei stato bravissimo. Siamo fieri di te».Il ragazzo aveva le guance colorite e gli occhi brillanti per l'emozione, la paura e il

sollievo, tutti mescolati insieme. «Grazie...» rispose con la voce ora un po' scossa.«Allora, come ti senti nei panni del cavaliere?» scherzò Ian per alleggerire la tensione

evidente del ragazzo.Coda di volpe cercò di sorridere. «Bene. Ormai mi sono abituato a portare l'usbergo.

Quasi quasi non lo tolgo più e faccio il cavaliere davvero da ora in poi».«E presto per montarsi la testa, giovanotto. Noi abbiamo sudato per anni prima di

poter portare gli speroni» lo redarguì per finta Ian.Magari non proprio per anni, pensò in aggiunta con un po' di vergogna, considerando

quanto fosse stato anomalo il suo personale apprendistato da cavaliere.In quel momento, al piano di sopra, si udirono alcuni tonfi violenti insieme a voci

sorprese e soffocate.Tutti alzarono gli occhi al soffitto, trattenendo il fiato. Coda di volpe sobbalzò con

nuova paura, i cavalieri e i due soldati alzarono le spade d'istinto.Il tramestio durò qualche minuto, poi il silenzio calò di nuovo e non fu più rotto da

suoni allarmanti.«È andata» disse alla fine Ian, rilassandosi leggermente.«Abbiamo espugnato una rocca più o meno con le parole. Non è il mio modo preferito

di farlo, ma devo ammettere che è stato interessante» sogghignò Sancerre.«Avremo modo di combattere fin troppo presto, non temere» replicò Ian.Lungo le scale, fuori dalla porta, si udì il rumore di molti passi: i vincitori spingevano

verso le segrete i vinti sorpresi a riposare nelle brande o addirittura nel sonno.«Andiamo a finire l'opera» esortò Martewall, quando il rumore si spense scendendo.Si fece dare una torcia e aprì la strada per primo. Gli altri gli tennero dietro fino

nell'atrio.Ad attenderli trovarono ancora soldati in divisa blu e bianca, una mezza dozzina circa,

ma quegli uomini li salutarono con ampi sorrisi nel vederli arrivare. Le divise erano le stesse, ma le facce erano cambiate ed erano tutte amiche.

«Siamo pronti a dare il cambio alle sentinelle sulle mura, signore» annunciò un soldato a Martewall.

«Molto bene» annuì il barone e proseguì per il cortile.Mentre i soldati si dirigevano veloci verso le scale che portavano sulle mura esterne

della rocca, Martewall raggiunse la torre di segnalazione. Ne aprì la porta ed entrò. Sancerre rimase giù di guardia con un soldato francese. Ian, Coda di volpe e l'altro soldato seguirono Martewall.

In cima alla scala a chiocciola trovarono una terrazza coperta pressoché identica a quella che Ian aveva visto al faro di Glenhaven, occupata da un grande braciere di ferro nel quale avvampava già il fuoco.

C'era una guardia armata a bada delle fiamme, che sobbalzò quando vide Martewall salire per primo dalla botola aperta. «Allarme!» gridò, sporgendosi dal parapetto, ma nella rocca non c'era più nessuno che potesse dar seguito al suo avvertimento. Dalle mura e anche da alcune finestre della rocca ve nivano voci e suoni soffocati, che ormai non potevano più allarmare nessuno.

Martewall sferrò alla guardia un pugno in pieno viso gettandola a terra in un angolo. Ian la tenne giù sotto la minaccia della sua spada.

Il soldato francese insieme a loro prese una torcia per le segnalazioni appoggiata a terra vicino al braciere, l'accese e poi la sventolò secondo un segnale convenuto.

Il cielo e il mare ormai erano completamente neri. La luna si era nascosta dietro nuvole pesanti e rifletteva solo leggermente sulle onde. In tutto quel buio, però, si accese un piccolo punto luminoso, lontanissimo. Si mosse leggermente, si spense di nuovo, rispondendo al segnale. Un secondo punto si accese poco dopo, a una certa distanza lungo l'orizzonte, poi un altro e un altro ancora.

Ian li contò. Cinque.Coda di volpe si sporse a guardare, a bocca aperta.Le navi da guerra francesi erano là, al largo, nascoste nelle ombre come fantasmi.

Appena il cielo avesse iniziato a schiarire di nuovo sarebbero arrivate in porto per sbarcare le truppe che avrebbero poi proseguito per il castello di Dunchester.

Nessuno poteva più fermare gli invasori sulla costa, perché gli armati scesi dalla nave di Ned Stone dovevano essersi già occupati dei soldati di ronda ai moli.

Dalla rocca conquistata sarebbe partita presto una squadra per dare il cambio agli ultimi soldati di Murrow rimasti alla palizzata. Anche loro avrebbero fatto la fine di tutti gli altri, presi alle spalle da chi meno si aspettavano di dover temere.

«Siamo pronti» disse Ian, piano.

Capitolo 40Daniel venne letteralmente tirato giù dal letto da mani sgarbate. Finì sul pavimento

con tutte le coperte e impiegò attimi a capire che una voce rabbiosa gli stava gridando ordini nelle orecchie, poi qualcuno spalancò la finestra per fare luce. Fuori l'alba era già trascorsa. Il giovane si ritrovò la stanza piena di soldati con le divise rosse dei mercenari del re.

«Alzati!» intimò uno di loro, sventolandogli contro la spada già snudata.Daniel ebbe un brivido freddo insieme alla certezza che la situazione era

improvvisamente precipitata. «Che cosa volete? Che cos'è questa intrusione?!» tentò comunque di protestare, simulando un'aria offesa.

I soldati lo zittirono, buttandogli addosso abiti e stivali.«Vestiti e sbrigati o ti trasciniamo fuori così come sei!»Daniel si affrettò a obbedire, cercando nel frattempo di immaginarsi cosa potesse

essere andato storto. Avevano scoperto i suoi complici tra i prigionieri nella corte esterna o, peggio ancora, era venuta alla luce l'alleanza segreta tra Salisbury e i Francesi?

I mercenari condussero il giovane fuori con la forza, nel gelo del primo mattino, tenendolo saldamente per entrambe le braccia. Daniel capì ogni cosa quando vide cinque uomini fermi nel cortile, seduti a terra, legati, sotto il controllo di altri mercenari, compreso il comandante. I prigionieri erano civili, vestiti con abiti comuni ma insanguinati. Avevano le mani legate davanti alla cintola con corde robuste e tutti portavano i segni di un feroce pestaggio. Uno di loro era Thomas Bull. Il boscaiolo rivolse a Daniel un'occhiata affranta, quando lo vide arrivare spinto dai soldati. I due non fecero in tempo a scambiarsi una sola parola perché un mercenario afferrò un prigioniero e lo tirò in piedi con la forza. «Allora: ripeti ciò che hai detto prima!» ordinò, minaccioso, sotto lo sguardo del suo comandante.

Il prigioniero guardò Daniel disperatamente e non rispose.Il mercenario lo scosse con violenza. «Parla, se non vuoi che ricominciamo da capo!»L'uomo si lasciò sfuggire un singulto di dolore e di paura. «... lo straniero è d'accordo

con noi... è lui che ha avuto l'idea dei sabotaggi..!»«Non è vero!» tentò d'intervenire Bull. «L'idea è stata mia! Non abbiamo mai

nemmeno incontrato lo straniero da quando l'assedio è finito! Come avremmo potuto parlargli?»

Un altro mercenario lo zittì, dandogli un violento spintone con un piede. Per poco non lo gettò del tutto a terra. «Non mentire, bifolco! Ti ho visto io almeno una volta parlare con quell'uomo quando venivi nel cortile con il carretto!»

«E allora? Stavamo parlando del tempo!» replicò Bull con sarcasmo, ma poi dovette tossire violentemente, quando il mercenario indignato gli allungò un calcio nel fianco.

«Lascialo stare!» esclamò Daniel, con rabbia, ma fu punito con un colpo alle reni che per poco non lo gettò in ginocchio.

I mercenari lo tennero in piedi e il loro comandante gli si parò davanti. «Sei d'accordo con loro, confessa!»

«... non so nemmeno di cosa stai parlando» ribatté Daniel con il respiro spezzato. «Ma ti conviene stare molto attento a ciò che mi fai. Sono un cavaliere e un ostaggio di lord Salisbury».

Il capo mercenario gli afferrò i vestiti sul petto. «Non credere che la cosa ti protegga,

se è vero che sei in combutta con questi traditori».Daniel sapeva che l'uomo non minacciava a vuoto, ma sostenne il suo sguardo con

coraggio.«Si può sapere cosa sta succedendo?»Daniel provò sollievo quando vide arrivare William Lunga-Spada, accompagnato da

sir Gorvenal e dal soldato che indubbiamente era corso ad avvertirlo. Il conte inglese si stringeva nel suo mantello pesante e guardava con aria allarmata ora i mercenari ora i prigionieri.

Quasi contemporaneamente arrivò anche Nigel Murrow, scortato da alcuni dei suoi. «Che cos'è questa storia?» domandò il barone ragazzo.

«Questi uomini hanno sabotato le forche, ecco perché sono crollate» accusò il comandante mercenario, indicando i civili legati. «Abbiamo sorpreso uno di loro anche ieri sera, mentre sbagliava apposta il lavoro di ricostruzione. L'abbiamo interrogato e ha confessato tutto. Ci ha indicato i suoi complici e anche loro hanno confessato».

«Non è vero» lo smentì Bull. «Avete estorto con la violenza le parole che volevate sentire e qualcuno più debole degli altri vi ha assecondato pur di farvi smettere di picchiare. Non avete alcuna prova!»

Il comandante lo guardò con astio. «Quasi tutti i complici hanno confessato» dovette rettificare. «Ma quelli che lo hanno fatto hanno descritto gli stessi fatti e indicato gli stessi complici». Alzò una mano a indicare Daniel. «E lui è la mente di tutto» concluse.

Io vi avevo avvertito, disse in silenzio l'occhiata cupa che Salisbury rivolse al giovane.Daniel fece finta di non cogliere il rimprovero.Murrow invece guardava l'americano con gli occhi spalancati. «Lui?! E come avrebbe

potuto..?»«Almeno una volta ha parlato con questi bifolchi nel cortile, poi si tenevano in

contatto attraverso il prete».Murrow andò da Daniel. «E la verità?»L'americano sostenne l'accusa senza battere ciglio. «Non so niente di questa storia. Mi

hanno trascinato fuori dalla mia camera come se fossi un cane, mi hanno minacciato con le armi e le percosse. Se è così che interrogano la gente, costoro possono farsi confessare qualsiasi cosa, anche che questi uomini innocenti stanno tentando di assassinare il Papa».

«Come osi?!» esclamò più di un mercenario, ma fu Salisbury a farsi avanti con autorità. «Basta così. Non permetto a nessuno di trattare in questo modo un mio ostaggio. Qualsiasi accusa contro di lui deve prima essere discussa con me. Non vi consentirò di trattarlo come un criminale solo per i vostri sospetti senza prove». «Quell'uomo è implicato nei fatti» insisté il comandante.

«Lo dite tu e tuoi sgherri. Dovete prima provarlo, come dovete provare che siano colpevoli anche questi uomini» ribatté Daniel con rabbia.

«Abbiamo colto uno di loro sul fatto e gli altri hanno confessato. Lo farai anche tu, te l'assicuro».

«Badate: ho detto che non vi permetterò di toccarlo» minacciò Salisbury.«Allora, lo chiederemo di nuovo ai suoi complici» decise il capo mercenario. «Ho già

mandato a prendere anche il vecchio prete».«Osereste alzare le mani su un uomo di Dio!» l'accusò Bull. «Non tirate troppo la

corda» diffidò Salisbury.

«Non ci sarà bisogno di toccare il prete, basterà farlo assistere agli interrogatori degli altri» ribatté il mercenario e guardò Daniel direttamente negli occhi. «Faremo assistere anche lo straniero. Vedremo se dopo non avrà niente da dire in proposito».

Daniel sentì freddo lungo la schiena.«Non potete fare una cosa del genere» disse, ma con meno fermezza di prima.«E quando avremo finito con gli interrogatori, eseguiremo direttamente le condanne»

continuò il mercenario imperterrito. «Per questi bifolchi, non aspetteremo di avere le forche pronte». Con la spada sguainata indicò il ceppo nel cortile.

«Non permetterò una cosa simile» si oppose Salisbury.«Dobbiamo fare chiarezza su questa faccenda» disse Murrow, con ansia. «Re

Giovanni ci chiederà spiegazioni».«Re Giovanni ci tratterà come imbecilli, se lasciamo che questi mercenari dirimano a

modo loro la giustizia» lo zittì il conte. «Non esistono solo la frusta e la scure. Per emettere un giudizio giusto servono indagini e prove».

«Milord, con tutto il rispetto, i vostri ufficiali sono stati del tutto inconcludenti nel fare le loro cosiddette indagini» intervenne il capo mercenario e guardò anche sir Gorvenal con accusa. «Anzi, sono sbalordito di quanto i vostri uomini si siano dimostrati inaffidabili nel gestire i prigionieri, a partire dalla fuga di Geoffrey Martewall e del francese che stava con lui».

«Ritirate subito ciò che avete detto» minacciò sir Gorvenal, indignato.Qui si mette molto male, pensò Daniel con ansia crescente.Un suono improvviso lacerò l'aria del mattino, facendo sobbalzare tutti. Daniel alzò la

testa verso i bastioni, col fiato sospeso. Il suono era quello inconfondibile dei corni delle sentinelle e dava l'allarme in tutto il maniero.

«Che cosa succede?!» esclamò Murrow. Anche Salisbury, Gorvenal, i mercenari e i prigionieri guardarono sulle mura, con allarme. Tra i merli si vedevano chiaramente le sentinelle correre ai posti di combattimento.

Un esploratore in blu a cavallo arrivò nel cortile di gran carriera. «Milord!» chiamò, rivolto a Salisbury. Fermò il cavallo bruscamente davanti al conte e si sporse verso di lui, trafelato. «Milord, ci attaccano!» annunciò. «Saranno almeno tre guarnigioni, tra soldati e cavalieri! Stanno arrivando dalla direzione del porto!»

Lo sgomento passò tra gli occupanti. Bull e i prigionieri invece lanciarono esclamazioni di esultanza, subito zittite dai mercenari. Daniel sentì il cuore accelerare con gioia.

«Siete sicuri che siano qui per attaccarci?» s'informò subito Salisbury.«Sì, milord. Stanno arrivando in formazione da battaglia e portano già le armi

spianate».«Che vessilli hanno?»Murrow diventò bianco come un cencio, quando il soldato rispose: «Non hanno

vessilli, ma li guida un cavaliere nero con le insegne dei Martewall».Il barone ragazzo ebbe un gemito di paura. «Geoffrey Martewall è tornato?!»«Temo di sì, signore. Il cavaliere indossa il lambello dell'erede del casato, l'ho visto

io. I suoi compagni invece non hanno insegne riconoscibili, per ora».Daniel sentì Gorvenal chiedere a Salisbury: «Come hanno fatto ad arrivare fino a qui,

senza che dal porto ci dessero l'allarme?».Anche il conte inglese era sinceramente sbalordito, nonostante si aspettasse una mossa

di Martewall e dei Francesi in arrivo dal mare. «Hanno già conquistato il porto?» ripeté ad alta voce, ma il soldato non seppe rispondergli. «Non abbiamo ricevuto nessun segnale dal porto, né ieri né oggi» poté soltanto dire.

«Quel diavolo di una volpe» mormorò Salisbury e Daniel sapeva che l'inglese stava pensando a Ian. «Vorrei proprio sapere come ci è riuscito».

«Chiamate tutti gli uomini alle armi!» ordinò Murrow e aveva la voce stridula per la paura. «Chiudete il barbacane!»

«I cancelli non esistono più, abbiamo riparato solo il ponte levatoio e in modo precario. Non li terremo fuori a lungo» gli rammentò Salisbury. «Dobbiamo patteggiare con loro o ci distruggeranno».

«State scherzando?!» esclamò Murrow. «Martewall vorrà vendetta per la morte di suo padre! Ci farà decapitare tutti!»

«Mantenete i nervi saldi, siete un cavaliere» lo redarguì Salisbury, ma contemporaneamente il comandante mercenario diceva: «Abbiamo ancora i suoi uomini e soprattutto sua sorella. Non oserà fare nulla, se la rivuole viva».

«Bastardo! Non puoi farlo!» esclamò Daniel, mentre i mercenari lo trattenevano a fatica. Anche Bull e gli altri civili protestarono indignati.

«Vi proibisco di mettere in mezzo una dama» ordinò Salisbury con altrettanta durezza. «Siamo uomini d'onore, non vigliacchi. Non ci nasconderemo dietro una donna e nemmeno dietro degli ostaggi».

Il mercenario non disse altro, ma non sembrava affatto convinto, notò Daniel.«Preparate gli uomini alla battaglia, ma non fate nulla senza il mio ordine» continuò

Salisbury, con autorità. «Sir Gorvenal, voglio il mio cavallo, adesso. Andrò a parlare personalmente con quegli armati e vedremo cosa pretendono da noi. Saranno tanti, ma anche noi siamo molti e siamo sotto i vessilli di re Giovarmi, non ci attaccheranno a cuor leggero».

Il cavaliere s'inchinò e corse via.«Milord, è pericoloso uscire, i nemici sembrano molto agguerriti» si preoccupò il

soldato a cavallo.«Ma io sono William Lunga-Spada e non ho timore di loro» replicò Salisbury

fieramente. «Se sono uomini d'onore, ascolteranno prima le parole poi, se gli argomenti saranno inutili, faranno parlare le armi».

Commediante, pensò Daniel. Tanto lo sai che quelli là fuori sono tutti d'accordo con te.

Salisbury replicò al suo pensiero silenzioso con un'occhiata ammonitrice.«Chiudete i prigionieri nelle segrete» ordinò Murrow, cercando invano di darsi un

tono autoritario. «Anche lui» aggiunse, indicando Daniel. «Parleremo poi del suo eventuale coinvolgimento nella storia dei sabotaggi».

Daniel guardò Salisbury con protesta, ma capì anche che il conte non poteva opporsi, perché nessun uomo d'armi esperto e prudente avrebbe lasciato un sospetto cospiratore con poca sorveglianza, quando fuori dalle mura del castello si preparava una battaglia.

Salisbury voleva recitare fino in fondo la sua parte di alleato del re e avrebbe accuratamente evitato di suscitare altri sospetti, specie davanti al comandante mercenario che aveva già sollevato qualche accusa. «Che non gli sia fatto nulla» si limitò ad ammonire, severo. «È sempre un mio ostaggio, ricordatevelo».

I mercenari tirarono in piedi Bull e gli altri civili prigionieri, poi quattro di loro

condussero tutti verso le segrete, trascinando via anche Daniel, sotto la minaccia delle armi.

***

L'agitazione sulle mura di Dunchester adesso era visibile da lontano a occhio nudo. I soldati si moltiplicavano tra i merli dei bastioni, i pochi che erano fuori, nel borgo distrutto, correvano a cercare riparo dentro le mura. Nell'aria si udivano i richiami d'allarme dei corni.

Anche i civili al lavoro nel borgo per la ricostruzione delle case erano stati percorsi dapprima da un fremito di paura nel vedere gli armati senza vessilli arrivare veloci e in formazione da guerra, ma pochi di loro andarono poi a rifugiarsi al castello.

La notizia che Geoffrey Martewall era a capo delle truppe sconosciute viaggiava più in fretta del suo cavallo e così gli uomini si fermavano sul posto, con in mano gli attrezzi da lavoro trasformati in armi, a salutare con giubilo il ritorno del signore e aspettando la battaglia imminente, dopo aver mandato le donne e i bambini a distanza di sicurezza dal fronte, verso le mura esterne ancora incomplete.

Martewall aveva indossato apposta la sua livrea nera, appena occupata la rocca portuale di Dunchester, contando sull'effetto che il blasone avrebbe provocato sui suoi compaesani. Già al porto molti uomini si erano uniti a lui, oltre ai soldati della vecchia guarnigione della rocca, liberati dalle segrete, e adesso le truppe in arrivo dal mare potevano contare su una cinquantina di uomini in più, armati alla meglio, ma sicuramente agguerriti.

Ian procedeva accanto a Martewall sul destriero da guerra sbarcato dalle navi francesi insieme al resto delle truppe. Indossava l'usbergo completo, con elmo, scudo e lancia, ma portava una livrea anonima sopra la maglia di ferro, scura e senza dettagli colorati come quella di tutti gli altri, a parte Martewall.

«Di' al tuo amico inglese che non si monti la testa nel fare il comandante d'armata. Se portiamo i suoi colori funerei è solo perché dobbiamo restare in incognito» aveva brontolato Sancerre quella mattina, prima di montare a cavallo, per nulla felice di dover rinunciare ai suoi colori araldici per scendere in guerra senza insegne.

Anche Ian si era sentito dispiaciuto di non poter indossare la cotta d'armi bianca e azzurra col falco d'argento, ma ora che la battaglia si avvicinava, il colore dei suoi paludamenti perdeva via via importanza per lasciare spazio solo alla tensione della lotta imminente.

Insieme a loro cavalcava l'ambasciatore del principe, monsieur Enguerrand de Vitry, sceso insieme alle truppe dalle navi attraccate a Dunchester quella mattina, appena l'orizzonte aveva iniziato a schiarire e la luce era stata sufficiente a consentire l'ingresso in porto. Anche lui portava colori neutri sui suoi abiti sopra l'usbergo.

La preoccupazione di Ian però andava verso le retrovie, là dove, con i carri degli equipaggiamenti pesanti da guerra viaggiava Coda di volpe.

Il ragazzino aveva voluto a tutti i costi assistere alla battaglia e Ian si era dovuto piegare alle sue richieste, anche perché quell'incosciente di Sancerre le appoggiava. Per timore che un rifiuto inducesse il ragazzo a seguire di nascosto le truppe e magari mettersi in pericolo, Ian aveva perciò deciso di far viaggiare Coda di volpe con il resto degli uomini, affidandolo al controllo scrupoloso di alcuni soldati francesi, quelli che

guidavano i carri e trasportavano le armi pesanti.Così si spera che non si metta nei guai, pensava Ian, sapendo anche che i soldati

avevano ordine tassativo di riportare il ragazzo alle navi al primo accenno di pericolo o se qualcosa non fosse andato per il verso giusto.

Adesso il maniero di Dunchester era davanti a lui e il giovane non riusciva a convincersi di essere di nuovo li, per la seconda volta in pochi giorni, a combattere in quel castello, con la differenza che adesso doveva conquistarlo e non difenderlo.

Non ne posso più di vedere quelle torri, protestò in silenzio, ma quel pensiero era niente in confronto all'impressione che gli facevano le mura potenti e sempre più vicine. Ricordava ancora troppo bene lo spettacolo agghiacciante dell'assedio e le morti innumerevoli che era costato, per non temere di trovarsi presto in un inferno simile.

Il suo pensiero corse istintivamente a Daniel, prigioniero dentro il maniero.Niente deve andare storto, niente, si ripeteva Ian, ancora e ancora. Non voleva

nemmeno immaginare cosa potesse accadere ai prigionieri, nel caso che le sorti della battaglia fossero state sfavorevoli ai liberatori. Confidava nella presenza di Salisbury, ma contemporaneamente temeva quella di Murrow e soprattutto dei mercenari del re, più esperti e meno propensi a obbedire senza riserve, sia pure a un lord potente come William Lunga-Spada.

Martewall fece fermare tutti in quel momento e si voltò verso gli altri cavalieri. «E ora di disporsi in formazione da assedio» annunciò, ma aspettò che gli altri si dichiarassero d'accordo prima di trasmettere l'ordine ai soldati.

Monsieur de Vitry si consultò rapidamente con Ian e Sancerre e infine annuì. «Procedete pure».

Gli ufficiali ripeterono gli ordini e il piccolo esercito si organizzò velocemente, a distanza di sicurezza dai bastioni del castello. Gli arcieri e i balestrieri si disposero in squadre ordinate, pronte al tiro, i genieri scaricarono dai carri le poche armi leggere da assedio portate dalla Francia: un ariete e quattro baliste montate su treppiedi di legno, più piccole delle carro-baliste con cui Salisbury aveva assaltato Dunchester giorni prima, ma comunque capaci di lanciare arpioni più lunghi e pesanti di quanto un uomo da solo fosse in grado di trasportare.

L'obiettivo erano il barbacane e il suo ponte levatoio appena riparato, sollevato per ora solo a metà dalle catene di ferro.

I Francesi avevano con loro anche numerosi mantelletti, robuste barriere mobili di legno dotate di feritoie strategiche, dietro le quali si sarebbero appostati gli arcieri e i balestrieri per poter prendere di mira il castello anche da distanza ravvicinata senza troppo pericolo. I balestrieri erano molti e questo avrebbe probabilmente fatto la differenza, poiché le frecce delle balestre erano più precise e micidiali di quelle degli archi e arrivavano molto più lontano.

Ian sentì l'ansia aumentare, come sempre prima di una battaglia. Per di più in quel momento ci si aspettava dal Falco d'argento che sapesse esattamente cosa fare come condottiero e lui si sentiva del tutto sopravvalutato.

Desiderò avere accanto Guillaume de Ponthieu e la sua esperienza, ma il Delfino su questo era stato categorico: nessun feudatario maggiore avrebbe partecipato alla spedizione in incognito, per non rischiare che qualcuno di loro venisse preso o riconosciuto. Quindi Ponthieu aveva solo potuto spiegare a Ian tutto quello che riteneva necessario per il buon esito della missione e poi salutare dal molo le navi in partenza,

rimanendo al sicuro in Francia, lontano miglia dalla zona del combattimento.Sarebbe stato molto più facile giustificare la presenza di cavalieri francesi più giovani

e indisciplinati, in caso di cattura o se anche solo si fossero fatti riconoscere sul campo di battaglia, fermo restando che il Delfino avrebbe sempre negato qualsiasi coinvolgimento nella sortita, per lasciare la responsabilità totale sulle spalle dei diretti interessati.

Insomma, se va bene è merito suo e se va male è colpa nostra, pensò Ian con una certa irritazione, eppure non aveva esitato un solo istante ad accettare l'ordine del Delfino, sapendo che era l'unico modo per tentare di portare in salvo Daniel.

«L'effetto sorpresa è riuscito benissimo, sono rimasti senza parole» osservò in quella Sancerre con soddisfazione, ignaro delle considerazioni dell'altro giovane. L'altro cadetto, a differenza di Ian, aveva accettato subito di partecipare alla spedizione per la pura voglia di mettersi in gioco, rischiare e combattere.

«Hanno comunque avuto il tempo di sollevare il ponte» replicò Ian con disappunto.«Era il minimo che potessero fare» gli disse Martewall e Ian dovette dargli ragione.Per un po' aveva sperato di arrivare talmente di sorpresa da cogliere impreparati i

soldati di guardia e varcare così la cinta di mura intermedia senza colpo ferire, come era stato possibile per la cinta più esterna. Appena il castello gli era apparso davanti, il giovane si era però reso conto subito che il suo desiderio non si sarebbe realizzato. Anche se i Francesi erano arrivati dal bosco e non dalla strada sul mare, per farsi notare il più tardi possibile, le vedette sulle torri e gli esploratori a cavallo nella pianura avevano comunque avvistato gli aggressori con un certo anticipo al loro arrivo nei prati scoperti, nonostante la foschia pesante del primo mattino, e avevano potuto dare l'allarme.

Certo gli occupanti di Dunchester non si aspettavano di dover subire un assedio e così non avevano pronti e a disposizione i materiali per respingerlo, ma nemmeno erano del tutto sprovveduti. Erano più che sufficienti per tener testa all'attacco.

Comunque fosse andata, se si arrivava alle armi, Dunchester non sarebbe stata conquistata a buon mercato.

«Salisbury deve fare la sua mossa, adesso» continuò Ian, speranzoso. «Non abbiamo avuto tempo ne modo di concordare con lui i dettagli di questo assalto, ma si aspettava che saremmo arrivati, quindi avrà pensato a come venirci incontro anche senza compromettersi. Nemmeno a lui conviene arrivare allo spargimento di sangue».

Le sue parole suscitarono un brontolio da parte di Etienne de Sancerre, il silenzio totale di Martewall, ma almeno l'approvazione di monsieur de Vitry, che, da ambasciatore, sperava più nella trattativa che nel combattimento per conquistare il castello.

E come se le parole di Ian fossero un'evocazione, dai bastioni del castello, qualcuno sventolò la bandiera per segnalare l'intenzione di parlamentare. Passò qualche minuto e il ponte levatoio venne abbassato del tutto per lasciar apparire tre cavalieri armati sulla soglia del barbacane. Uno di loro inalberava un vessillo sulla lancia.

Ian non dovette nemmeno chiedersi chi fossero: riconobbe immediatamente dalle livree William Lunga-Spada, sir Gorvenal e l'altro cavaliere che era con loro il giorno della resa di Dunchester, nella sala in cui l'alleanza di Salisbury con il Delfino di Francia era stata ipotizzata la prima volta. Il vessillo era quello blu con i sei leoni d'oro del conte inglese.

Sempre circondato solo da orecchie più che fidate, pensò Ian, ma allo stesso tempo

provò sollievo all'idea di poter parlamentare invece di combattere.Anche Enguerrand de Vitry appariva soddisfatto. Sancerre e Martewall, invece, molto

meno, forse perché, per motivi diversi, desideravano imbracciare le armi.«Li abbiamo già spaventati?» ironizzò Sancerre, pur sapendo che tra le mura di

Dunchester li aspettava un alleato segreto.«Messieurs, seguitemi» annunciò invece l'ambasciatore del Delfino e prese la guida

del piccolo gruppo di quattro cavalieri che andò incontro agli avversari per parlamentare.Le due parti si trovarono a metà strada tra i bastioni di Dunchester e le file degli

attaccanti, osservati dagli occhi di tutti, da un lato e dall'altro. Si salutarono con cortesia e sospetto insieme, togliendosi gli elmi per tenerli sottobraccio.

«Signori, i miei complimenti. Non so ancora come avete fatto, ma siete arrivati fin qui con un colpo da maestro. Non abbiamo potuto vedervi se non quando era, troppo tardi» esordì Salisbury con sincera ammirazione.

«Abbiamo avuto buoni strateghi per questo piano» rispose Vitry e con la mano fece un cenno verso Ian per alludere, grazie a lui, alla famiglia Ponthieu.

«Non avevo dubbi» replicò Salisbury con un sorriso astuto.«Milord, vi presento monsieur Enguerrand de Vitry. È l'ambasciatore che può parlare

a nome del principe Luigi di Francia» disse Ian per introdurre a Salisbury la sua controparte francese.

Lunga-Spada si fece immediatamente serio. «Sono onorato di conoscervi, monsieur».«L'onore è mio» replicò Vitry con un lieve inchino della testa.I convenevoli si conclusero presentando anche Sancerre e il secondo cavaliere che

accompagnava Salisbury, rispondente al nome di Lionel.«Avremo modo di approfondire molto presto la questione più ampia che vi porta qui»

riprese Salisbury, subito dopo le presentazioni. «Prima è necessario sistemare la situazione particolare di Dunchester. Immagino che siate venuti per riprendere il castello con le buone o con le cattive maniere». Fece una pausa e guardò Martewall, rimasto in silenzio fino ad allora.

L'espressione ostile del barone non aveva bisogno di parole, Salisbury infatti si sentì in dovere di aggiungere: «Mi dispiace infinitamente per ciò che è accaduto a vostro padre. Credetemi: ho tentato di evitarlo, ma non mi è stato possibile».

Martewall continuò a tacere, forse per non dire qualcosa di troppo in un momento in cui tutto era affidato alla diplomazia degli ambasciatori.

«Che ne è stato degli altri prigionieri?» domandò Ian al posto suo.«Nessuno ha ancora subito danni» replicò Salisbury. «Meno che mai il vostro amico.

Devo dire anzi che si è dato molto da fare per proteggere i condannati dalla giustizia del re, a volte anche andando oltre la prudenza. Grazie a lui, comunque, non ci sono stati altri morti». Guardò di nuovo Martewall, aspettandosi la sua reazione.

Ian ebbe un sospiro di sollievo a quella notizia.«Dovrò ringraziarlo, allora» replicò invece Martewall, asciutto.«Sì, dovete davvero. Vostra sorella saprà descrivervi i dettagli di quanto è accaduto

molto meglio di me» concluse Salisbury.Seguì qualche istante di silenzio, poi Vitry riprese la parola. «Lord Salisbury, vi

chiedo formalmente di riconsegnare la fortezza al suo precedente signore, sir Martewall. Se non opporrete resistenza, consentiremo a tutti voi di abbandonare il castello con l'onore delle armi e senza colpo ferire».

Sir Gorvenal scambiò un'occhiata con il cavaliere Lionel. Salisbury, invece, non si scompose. «Devo dedurre che Dunchester sarà occupata dai Francesi? Gli uomini ai vostri ordini non sono mercenari veri, dico bene?»

«No, infatti» replicò Vitry. «Sua Altezza il principe Luigi ha mandato personalmente questi soldati, sotto il comando di monsieur de Ponthieu e monsieur de Sancerre, come segno tangibile della sua volontà di agire».

«E in cambio vuole Dunchester».«Solo come approdo sicuro per le truppe che potrebbero essere necessarie in futuro, se

davvero voi e i baroni che rappresentate sarete disposti a concludere alleanza col mio signore. A Sua Altezza non interessa il controllo politico o economico del feudo, che resterà a sir Martewall, come è giusto. Al momento, comunque, poiché sir Martewall non può contare su forze autonome adeguate a mantenere la difesa del castello e dell'approdo, presumo che i nostri uomini resteranno a presidiare il luogo».

Ian sbirciò Martewall per cercare di intuirne i pensieri, ma il barone era assolutamente impenetrabile nella sua espressione cupa.

Anche Salisbury e Vitry si stavano studiando a vicenda con attenzione.«Sono sicuro che troveremo un modo per collaborare» concesse Lunga-Spada. «Le

forze su cui Giovanni può contare sono senza dubbio ingenti e ci sarà bisogno di tutto l'aiuto possibile contro di loro, non solo nella battaglia per Dunchester».

«Sono autorizzato a promettervelo purché, ovviamente, la contropartita sia adeguata allo sforzo bellico e umano che il mio signore è disposto a sobbarcarsi».

I due uomini continuarono a valutarsi per qualche istante, ciascuno meditando sui propri vantaggi nella contrattazione, sotto gli sguardi carichi di attesa degli altri cavalieri.

«Ne riparleremo» disse alla fine Salisbury. «Ora torniamo a occuparci di Dunchester, prima che tutti quelli che ci stanno guardando si insospettiscano».

«Avete già le nostre richieste, milord» gli rammentò Vitry.«La resa immediata è una richiesta pesante, visto che le forze di cui disponiamo

all'interno del castello non sono molto inferiori alle vostre. Io devo mantenere le apparenze e non cedere senza lottare quando la bilancia è così equilibrata» replicò Salisbury. «Certo, poiché i vostri rinforzi sono a meno di un giorno di cammino da qui e considerando che sono tanti, sono costretto a meditare attentamente sulla vostra proposta. Non voglio un eccidio».

«Abbiamo finalmente un aiuto dai baroni?» domandò Ian.«Sir Robert Fitz-Walter sta arrivando e porta con sé altri alleati. Da quanto so, sono

ormai entrati nel feudo di Dunchester e il castello, ridotto com'è, non potrà certo resistere al loro assedio combinato col vostro» confermò Salisbury e fece una mezza smorfia. «Questa è la trattativa più strana che io abbia mai fatto. Non starebbe agli assediati avvisare gli assedianti che i loro rinforzi non sono lontani e coordinare le loro forze».

Vitry non commentò, ma nel frattempo aveva alzato gli occhi a osservare attentamente la struttura del castello, quasi a contare i soldati che si affacciavano dai bastioni. «Dunque, milord, cosa intendete rispondere?»

«Non posso decidere da solo, senza interpellare almeno formalmente le altre due forze che hanno autorità su Dunchester adesso».

«Non vorrete lasciar decidere a sir Murrow o ai mercenari?» si preoccupò Ian.«A Murrow non conviene avere voce in capitolo, o io pretenderò la sua testa»

intervenne Martewall con ferocia. «Mi ha già pugnalato alle spalle, non gli consentirò di decidere ancora del destino della mia casa».

«Convincerò io gli attuali occupanti di Dunchester a scendere a miti consigli, ma dovete consentirmi di parlare con loro, se vogliamo evitare inopportune impennate d'ingegno che ci costringano a combattere davvero fino alla strage» replicò Salisbury. «Porterò loro la proposta di monsieur de Vitry e farò in modo che...»

Prima che il conte inglese potesse terminare la frase, un suono cupo si levò dal castello alle sue spalle. Era un corno, sembrava un allarme.

Salisbury si voltò, sbalordito, e così fecero i cavalieri al suo seguito. Anche i soldati sui bastioni si girarono a guardare dentro il castello e tra loro si diffuse una vistosa agitazione. Il suono del corno continuava ad arrivare direttamente dalla cinta più interna di mura.

Ian provò un brivido di timore, mentre sorpresa e nervosismo serpeggiavano tra gli armati francesi. «E adesso cosa succede?»

Capitolo 40Quando Daniel venne portato con Bull e gli altri prigionieri verso le segrete di

Dunchester fu accolto dall'oscurità fin troppo familiare che iniziava dalla soglia del portone di legno e inghiottiva la scala in discesa.

Il giovane provò un istintivo desiderio di ribellione poiché per nulla al mondo voleva farsi rinchiudere di nuovo in quella catacomba che l'aveva già ospitato fin troppo nei giorni precedenti. Non reagì perché sapeva che in quel momento i Francesi erano fuori dalle mura, che Salisbury era a parlamentare con loro, e non voleva provocare guai che potessero complicare la situazione.

Gli era difficile però fidarsi del tutto di ciò che non poteva controllare di persona. Sperava che sotto Dunchester fosse arrivato anche Ian, oltre a Martewall e ai rinforzi, ma non poteva esserne sicuro e non gli piaceva affatto l'idea di affidare la sua libertà o la sua vita alle mani degli Inglesi, Salisbury e Martewall primi tra tutti.

I mercenari spinsero avanti uno dopo l'altro i prigionieri civili, legati, tenendoli d'occhio con le armi in mano. Apriva la fila un soldato con una torcia nella mano sinistra per fare luce, un altro era a metà tra i prigionieri, Bull camminava quasi per ultimo, subito prima di Daniel.

I due mercenari che tenevano l'americano per le braccia furono costretti a lasciarlo andare, poiché lungo la scala non c'era spazio sufficiente nemmeno per due uomini affiancati, specie se uno dei due voleva essere libero di impugnare una spada.

«Va' avanti e niente scherzi» intimarono quindi i soldati a Daniel, indicandogli la scala con la punta delle lame e s'incamminarono poi dietro di lui.

Daniel non si ribellò, anche se sentiva il senso di oppressione crescere man mano che s'inoltrava lungo i gradini bui, verso le celle.

Non voglio tornare in quella gabbia, era il pensiero che ricorreva nella sua testa, eppure il giovane camminava senza opporre resistenza.

Davanti a sé vedeva le spalle robuste di Thomas Bull. Il boscaiolo aveva la testa china in avanti per guardare con attenzione i gradini su cui posava il piede.

D'un tratto, Daniel vide la sua mole vacillare come se perdesse l'equilibrio. In una frazione di secondo Daniel pensò che l'uomo fosse inciampato, poi capì che Bull aveva mancato di proposito un gradino per buttarsi in avanti, su quelli che lo precedevano.

L'effetto fu disastroso: l'intera fila dei prigionieri si sbilanciò, cadde e fu inghiottita dal buio, tra le esclamazioni di sorpresa dei soldati e degli uomini e il rumore metallico di armi e cotte di maglia che sbattevano sui gradini di pietra.

Daniel s'immobilizzò di botto, subito però uno dei mercenari che gli stavano dietro lo spinse da parte. «Che cosa fate idioti?!» esclamò, oltrepassando l'americano per accorrere verso il tramestio confuso e violento che si udiva più giù. Non si era accorto che uno dei prigionieri era caduto di proposito e pensava ancora che si fosse trattato di un incidente.

«Fermalo!» gridò però la voce di Bull dal basso.Daniel sobbalzò perché capì che l'ordine era rivolto a lui. Fu una reazione istintiva:

senza nemmeno riflettere, il giovane obbedì all'ordine, spinse il mercenario con violenza e lo fece ruzzolare dalle scale, poi si voltò a sbarrare il passo all'ultimo rimasto.

L'armato era rimasto talmente sbalordito dalla mossa improvvisa che reagì con qualche secondo di ritardo. Brandì la spada, ma Daniel se l'aspettava e perciò si era

abbassato, quasi a carponi sulla scala. La spada gli passò sopra la testa, Daniel si risollevò e avvinghiò il nemico. Caddero entrambi malamente sui gradini, lottarono, poi rotolarono qualche metro verso il basso, senza potersi fermare.

L'urto sugli spigoli di pietra riempì Daniel di lividi e gli tolse il respiro. Il mercenario aveva perso la spada nella caduta, ma era riuscito a rimanere sopra all'americano e lo schiacciò sotto di sé con tutto il peso. Daniel si sentì strangolare, poi però il mercenario fu sollevato a forza e dovette mollare la presa.

Nella penombra fitta, Daniel sentì l'uomo emettere un grugnito soffocato di dolore, poi non lo udì più. Mentre riprendeva fiato e tossiva, il giovane vide su di sé la figura massiccia di Bull che gli tendeva la mano.

L'ex-soldato aveva il respiro mozzo ed era chiaramente sofferente, ma brandiva una spada insanguinata. «Scusate se mi sono permesso di darvi un ordine tanto diretto,» ansò «ma stavate perdendo un po' troppo tempo a guardare senza far niente».

«Diamoci del tu, che ne dici?» replicò Daniel, facendosi aiutare a rimettersi in piedi. «Ho le costole troppo ammaccate per aver voglia di continuare con i nomi di cortesia». Sottolineò il concetto con una smorfia di dolore, quando si passò la mano sul torace indolenzito.

«Sei un tipo semplice come il tuo amico conte, eh?» commentò Bull. «E io che mi immaginavo i Francesi boriosi e aristocratici».

«Io non sono francese» mugugnò Daniel, ma si stava già guardando intorno, attirato dal clamore che risuonava appena un po' più giù.

Con il ruzzolone giù per le scale era arrivato pressoché fino alla segreta dove erano caduti anche tutti gli altri prima di lui. Alla luce della torcia, caduta sul pavimento insieme al soldato che la impugnava durante la discesa, Daniel poté adesso scorgere una scena di battaglia nel vano sottostante.

Uno dei prigionieri era riverso al suolo, inerte, forse era solo svenuto, forse era morto, comunque fosse non si muoveva più. Gli altri tre però stavano ingaggiando battaglia con i mercenari. Anche uno dei soldati era immobile a terra. La sua spada era stata presa da un prigioniero che con quell'arma tentava alla bene e meglio di tenere a bada i nemici. I compagni disarmati provavano a essergli d'aiuto, ma la loro lotta era impari contro i due armati rimasti in piedi. Il quarto mercenario, quello che aveva lottato corpo a corpo con Daniel, gemeva invece ferito in un angolo, incapace di risollevarsi.

Dal fondo delle segrete, però, stavano arrivando altri soldati, attirati dal rumore del tafferuglio. Anche i prigionieri chiusi nelle celle si erano allarmati sentendo il rumore e adesso chiamavano e avvertivano a gran voce quelli che avevano impegnato battaglia con i carcerieri.

«Andiamo a dare man forte!» esortò Bull, correndo giù per la scala.Tecnicamente io avevo promesso a Giovanni Senza Terra di non combattere più

contro di lui, pensò Daniel, ma non si sentiva per nulla in colpa per aver infranto la promessa senza riflettere, con il combattimento di poco prima. Anzi, già che il danno era fatto, tanto valeva continuare. Si fermò a sottrarre il pugnale al mercenario ferito e poi seguì Bull.

Sbarrarono entrambi la strada alle guardie in arrivo dal fondo della segreta. Erano solo quattro, ma bene armate e sicuramente preparate a combattere. Daniel si sentì subito in difficoltà, armato com'era di un solo pugnale, anche se Bull e compagni combattevano intorno a lui contro gli stessi nemici.

Il giovane evitò a stento la spada del primo aggressore, scampò a un secondo, poi dovette chinarsi a terra per non farsi trafiggere da entrambi. Così facendo, capitò vicino alla torcia abbandonata sul pavimento. L'impugnò e con quella nuova arma si girò ad affrontare i due nemici che lo incalzavano.

I due dovettero indietreggiare di fronte al fuoco che l'americano sventolava loro in faccia. Tentarono di colpire con le loro spade, ma non riuscirono ad aggirare la torcia accesa.

Daniel li sospinse indietro ancora di qualche passo e i mercenari si accorsero troppo tardi di essere ormai a portata di braccio dalle celle. I prigionieri rinchiusi li afferrarono da dietro con molte mani e li trascinarono verso le sbarre. Il primo dei due mercenari non riuscì a difendersi e finì col dorso contro la gabbia di ferro in cui erano rinchiusi, tra gli altri, sir Kerwick, sir Ewen e Hector.

La reazione dei cavalieri fu fulminea: sir Ewen fece passare il braccio attraverso le sbarre intorno al collo della guardia, trattenuta dagli altri, e la strangolò dopo una brevissima colluttazione.

Il secondo soldato si sottrasse a fatica allo stesso destino, ma non poté poi difendersi dal pugnale di Daniel che lo raggiunse al costato. L'uomo finì a terra con un grido, di nuovo troppo vicino alle celle. I reclusi fecero il resto.

Ansando senza più fiato, Daniel si guardò intorno. Bull e i suoi avevano avuto ragione degli ultimi soldati rimasti, ma avevano lasciato un secondo compagno morto sul terreno e un altro di loro era ferito piuttosto seriamente. Tra le grida di esultanza dei prigionieri in cella, i vincitori del breve tafferuglio s'impadronirono delle chiavi e corsero ad aprire le sbarre, liberando così i cavalieri e gli ufficiali di Dunchester.

Daniel corse da Hector. Il fiammingo era rimasto indietro rispetto agli altri, poiché la spalla ferita non gli consentiva di poter intervenire efficacemente nella colluttazione attraverso le sbarre. Era appoggiato al muro, come se raccogliesse le forze. Daniel lo raggiunse nella cella, dopo aver superato gli altri cavalieri che gli diedero cameratesche pacche sulle spalle.

«Che cosa sta succedendo fuori?» gli domandò Hector, prendendolo in disparte. «Abbiamo sentito i corni suonare l'allarme in tutto il castello poco fa».

«Geoffrey Martewall è venuto a riprendersi Dunchester» gli disse Daniel, mentre a pochi passi da lui Bull e i suoi compaesani stavano riferendo la stessa cosa ai prigionieri appena liberati.

Ci furono nuove esclamazioni di gioia e in modo del tutto naturale il gruppo degli evasi cominciò a organizzarsi per poter attaccare dall'interno del castello e dare un aiuto concreto agli assedianti.

Erano tutti cavalieri e ufficiali e Daniel capì fin troppo bene il loro desiderio di rivalsa e di vendetta contro i nemici che li avevano sconfitti e imprigionati, che avevano ucciso il loro signore e che li avrebbero mandati tutti al patibolo, se solo ne avessero avuto il tempo. Contemporaneamente, però, la loro voglia di combattere preoccupò il giovane che sapeva quali trattative fossero in corso fuori dalle mura.

«Con Martewall ci sono quasi sicuramente i Francesi in incognito. Salisbury è andato a parlamentare con loro» rivelò il giovane a Hector, sottovoce perché nessuno altro lo sentisse. «Si staranno accordando per trovare il modo di far cadere Dunchester senza combattere troppo. Se adesso facciamo scoppiare una rivolta qua dentro, potremmo mandare all'aria i negoziati o qualsiasi altro piano decidano di mettere in atto da fuori».

Hector meditò qualche istante su quelle informazioni. «Voi vi fidate completamente di Salisbury? Così tanto da lasciargli in mano la vostra vita senza far nulla e aspettare il risultato dei suoi negoziati?»

«No» dovette ammettere Daniel. Soprattutto, non si fidava dei mercenari di Giovanni Senza Terra, che avevano già ventilato l'ipotesi di usare i prigionieri come ostaggi contro Martewall e gli attaccanti.

«Nemmeno io mi fido» disse Hector.Non ci fu bisogno di dire altro. L'americano aiutò il fiammingo a camminare e

insieme raggiunsero gli altri.

***

Armati con le poche cose sottratte ai guardiani uccisi, i cavalieri di Dunchester intrapresero la salita che portava al cortile del castello. Prima di muoversi avevano rinchiuso i nemici ancora vivi nelle celle al posto loro. Laggiù nessuno li avrebbe sentiti gridare e quindi non avrebbero potuto rovinare l'effetto sorpresa su cui i fuggitivi contavano.

Non c'erano abbastanza armi per tutti e perciò era fondamentale riuscire a impadronirsi di nuove armi nello spazio di qualche minuto, prima che i nemici potessero riaversi e correre a stroncare sul nascere il tentativo di evasione.

Sir Kerwick aveva teso una delle poche spade a Daniel. «Siete uno dei nostri» gli aveva detto con solennità e l'americano si era reso conto che il cavaliere e i suoi compagni davano per scontato il fatto che lui fosse tra gli ideatori o almeno tra gli istigatori del tentativo di evasione.

«Mi basta il pugnale. Date quell'arma a qualcuno dei vostri compagni» aveva risposto Daniel in imbarazzo.

«Come volete». Il cavaliere aveva teso la spada a Hector, che l'impugnò.Arrivarono sulla soglia della porta che dava sul cortile e guardarono fuori cautamente,

sir Kerwick e Hector in testa a tutti.All'esterno il movimento era animato. Mercenari e soldati correvano a organizzarsi in

vista della probabile battaglia. Urlavano ordini a tutti i servi che trovavano e cercavano con furia di recuperare quei materiali di cui avevano bisogno per sostenere un assalto o un assedio.

Daniel aveva già visto quella scena nel cortile del maniero, ma la situazione era cambiata rispetto alla battaglia di soli pochi giorni prima: a quell'epoca il castello era pronto da tempo ad affrontare il nemico e aveva ammassato scorte di materiali bellici, primi tra tutti sassi e pietre da lancio, olio e pece da incendiare, travi e assi con cui rinforzare e riparare i portoni o le bertesche. Ora invece Dunchester era appena uscito dalla battaglia e i vincitori non avevano pensato all'eventualità di riorganizzarsi immediatamente.

Anche perché Salisbury ha tergiversato un po' in questi giorni, si disse Daniel.Non sarebbe stato facile per gli occupanti trovare in fretta i materiali di cui avevano

bisogno, poiché quelli ammassati prima del loro arrivo erano stati usati in gran parte per tentare di tenerli fuori da Dunchester.

«Dobbiamo distruggere i cancelli o almeno bloccarli» disse sir Ewen sottovoce, indicando attraverso lo spiraglio della porta aperta il tunnel con la doppia grata di legno

e ferro, ancora alzata, che consentiva la comunicazione tra il cortile e la corte esterna.«I cancelli del barbacane sono già in pezzi, i nemici avranno riparato il ponte levatoio,

ma non gli sarà sufficiente» continuò il cavaliere. «I nostri riusciranno facilmente a penetrare le mura intermedie, il vero ostacolo è qui».

Gli altri uomini annuirono. «Com'è la situazione fuori? Come sono organizzati i nemici?» domandò qualcuno.

Fu Bull a incaricarsi di spiegare a cavalieri e ufficiali ciò che era stato fatto nel castello durante la loro prigionia e sottolineare i dettagli tecnici, con la precisione del soldato veterano. In breve cominciò a formarsi un piano d'azione ben preciso, mentre gli uomini si dividevano in gruppi.

«Qualcuno deve andare a proteggere dama Leowynn» aggiunse Daniel. «I mercenari hanno già proposto di usarla come ostaggio per fermare suo fratello. Non vorrei che lo facessero davvero, se vengono messi alle strette».

«Devono solo provarci» ringhiò sir Kerwick.Hector gli batté con la mano sul braccio per farlo voltare. «Andiamo noi» propose.

«Con la spalla ridotta così, non sono abbastanza efficace per combattere in campo aperto, ma nelle stanze di un castello è un'altra cosa».

Daniel venne incluso nel gruppo dei difensori di Leowynn in modo automatico.«Muoviamoci, prima che qualcuno venga e ci scopra» esortò sir Ewen.Gli evasi uscirono fuori dalla segreta. Si tennero rasenti al muro e guadagnarono

ancora qualche secondo di sorpresa poi com'era inevitabile, furono notati.I nemici gridarono di rabbia, ma i cavalieri di Dunchester corsero loro incontro senza

paura e ingaggiarono un combattimento feroce. Si gettarono addosso ai primi armati che trovarono sulla loro strada e sopraffecero facilmente alcuni di loro, ancora troppo sorpresi dall'attacco inaspettato per poter essere pronti a reagire. Gli evasi si procurarono nuove armi e si lanciarono all'attacco di altri nemici.

Fu così che cominciarono a suonare i corni dell'allarme in tutto il maniero.

***

Il suono era rimbalzato all'esterno, raggiungendo le truppe francesi pronte alla battaglia e l'agitazione aveva invaso tutti gli armati. Gli ufficiali tennero calmi gli uomini con ordini perentori, ma poi cominciarono a organizzarsi per la battaglia che appariva inevitabile.

Ian si rivolse a Salisbury con accusa. «Che cos'è questa storia?!»Il conte inglese, però, non era meno sbalordito di lui. «Che cosa stanno facendo quei

pazzi là dentro?» si disse a mezza voce e guardò i suoi cavalieri.Sir Gorvenal fece girare il cavallo all'istante e diede un colpo di speroni per tornare al

castello e accertarsi di cosa stesse accadendo.Salisbury non riuscì a fare altrettanto. Martewall aveva rotto gli indugi e, sguainata la

spada, la puntò alla gola del conte.«Che cosa fate?!» protestò Salisbury, mentre Sancerre, prendendo esempio dal

barone, reagiva con altrettanta prontezza e bloccava con le armi il secondo cavaliere al seguito del conte inglese.

«Milord, sembra che la situazione vi stia sfuggendo di mano. Io non intendo rischiare oltre» rispose Martewall duramente. «Se dobbiamo ingaggiare battaglia, allora entrambe

le parti avranno ostaggi su cui contare. Là dentro c'è mia sorella, io terrò qui voi. Mi avete insegnato che è la migliore garanzia per evitare brutte sorprese».

«Messieurs, calmatevi!» intervenne Vitry, nell'estremo tentativo di non far degenerare la situazione, ma un rumore sordo proveniente dal castello interruppe subito il suo discorso.

Il ponte levatoio veniva rapidamente alzato dalle carrucole e le catene gemevano pesantemente. Nemmeno sir Gorvenal era riuscito a rientrare e si ritrovò impotente a gridare ordini alle sentinelle sulle mura, da fuori. Il ponte si bloccò a mezz'aria per qualche attimo, ci fu smarrimento e disaccordo tra i soldati in blu e quelli in rosso, poi però il ponte riprese a salire. Gli ordini di Gorvenal erano stati ignorati, forse perché qualcuno dall'interno aveva dato contrordini più autorevoli dei suoi oppure perché gli assediati si erano spaventati nel vedere gli aggressori prepararsi in fretta e furia all'assalto.

I francesi infatti avevano immediatamente reagito alla vista del ponte che saliva e le squadre di arcieri e balestrieri stavano già correndo a prendere posizione dietro i mantelletti per bersagliare le mura. I genieri iniziarono a montare le baliste e l'ariete.

Ian capì con sgomento che entrambe le parti si stavano trascinando a vicenda in una reazione a catena che avrebbe portato inevitabilmente alla battaglia, perché ciascuna reagiva alle mosse dell'altra approntando armamenti. Sui bastioni di Dunchester, infatti, i soldati si affrettavano ad allestire le contromosse necessarie per contrastare le macchine d'assedio dei nemici.

Due ufficiali francesi e alcuni soldati a cavallo corsero al galoppo dai cavalieri ancora fermi nella terra di nessuno, tra le due linee degli armati.

«Signori, venite via da li! Siete a portata di tiro!» gridò un ufficiale, concitatamente. I soldati circondarono il gruppo per prendere sotto custodia Salisbury e il suo secondo cavaliere.

Con la morte nel cuore, Ian guardò il conte inglese. «Adesso non abbiamo più scelta».Ora gli occhi che li circondavano erano troppi, da un lato e dall'altro, e la situazione

troppo compromessa: non era più possibile continuare la trattativa tra gli alleati segreti e tutti dovevano perciò comportarsi come imponeva il loro ruolo ufficiale, il che voleva dire impugnare le armi.

Anche Enguerrand de Vitry era cupo in volto, ma non mostrò esitazione. «Vi chiedo di consegnarvi prigioniero, monsieur Salisbury. Non abbiamo rotto noi le trattative in corso, quindi possiamo considerarvi con diritto preda di guerra, ma non vorrei essere costretto a catturarvi combattendo. Vi prego di non opporre resistenza, per il bene di tutti. Se battaglia ci deve essere, costerà molti meno morti se i vostri uomini là dentro combatteranno con poca convinzione o non combatteranno affatto, sapendovi nelle nostre mani».

William Lunga-Spada era furente, soprattutto verso chi all'interno del castello aveva mandato all'aria il suo progetto di trattativa, ma dovette riconoscere che l'ambasciatore francese aveva ragione, tanto più che non poteva sperare di opporre resistenza, trovandosi tagliato fuori dal castello senza rinforzi e con solo due cavalieri al seguito. «Mi arrendo» dovette dire, di malavoglia. «Ma non aspettatevi che vi paghi anche un riscatto».

«La presa di Dunchester mi basterà» replicò Vitry.Il cavaliere Lionel si arrese all'ordine del suo signore. Anche Gorvenal dovette

ritornare verso i Francesi e consegnare le armi.Il tratto di terreno tra il castello e gli assedianti venne sgombrato in fretta, poiché

ormai era soltanto una zona esposta al tiro da entrambe le parti. I corni lanciarono richiami cupi nell'aria, i tamburi presero a rullare con forza.

Ian sentì quel suono rimbombare nel suo stesso petto, ma strinse la lancia e galoppò verso i suoi uomini, mentre Sancerre. faceva altrettanto con i suoi, e Vitry si ritirava, accompagnando i soldati che tenevano sotto controllo gli ostaggi.

Martewall rimase davanti a tutti, lancia pronta nella mano, ad affrontare in prima linea l'assalto al suo stesso castello.

«Pronti alla battaglia!» urlò Ian ai suoi uomini, passando a cavallo davanti alla prima linea. Gli rispose un grido di guerra unanime, mentre gli uomini battevano le spade sugli scudi, scuotevano le lance e picchiavano con archi e balestre sui mantelletti di legno. Sembrò che un tuono rimbombasse sul campo di battaglia.

Ian fermò il cavallo e si girò verso Dunchester. Alzò la lancia in alto sopra la testa. Dall'altro lato della linea di fuoco, Sancerre fece altrettanto. Martewall li imitò per ultimo, ma fu il suo braccio a dare il via alle ostilità.

Non appena lasciò ricadere la mano con la lancia, gli altri cavalieri diedero l'ordine di attaccare. I martelletti furono spinti in avanti, i genieri caricarono gli arpioni sulle baliste. La prima scarica di proiettili si abbatté sulle mura e sul barbacane di Dunchester.

***

«Hanno iniziato a combattere!» urlò sir Kerwick quando il rumore proveniente dalla corte esterna arrivò nel cortile.

Daniel alzò la testa verso le mura che circondavano lo spiazzo e provò una grande ansia. L'assedio era ricominciato, ma questa volta sotto le mura poteva esserci Ian.

Daniel ricordò con raccapriccio la scena terribile dei soldati che gettavano olio e pece bollente dalle caditoie e dalle bertesche, insieme alle torce accese, e gli sembrò di udire di nuovo le urla degli uomini avvolti dalle fiamme sotto le mura. Non tutti morivano, ma la sorte dei sopravvissuti era ancora più atroce di quella dei caduti.

Non deve toccare anche a lui! pensò con ansia, ma non sapeva proprio come scongiurare una simile eventualità.

Una freccia gli passò accanto al viso e gli strappò un'esclamazione di sorpresa.«Giù!» gli gridò Hector e lo spinse di lato per evitare un secondo dardo che sibilò

nell'aria.Daniel si appiattì dietro il pozzo al centro del cortile e da lì sbirciò il combattimento in

corso.C'erano almeno quattro arcieri sulle mura, intenti a prendere a bersaglio quelli che

lottavano sotto di loro. Un quinto invece era nel cortile e teneva sotto tiro il pozzo. Un cavaliere e un ufficiale di Dunchester erano già stati uccisi dalle frecce provenienti da lati diversi e anche due compaesani di Bull giacevano morti sul terreno.

L'ex-soldato invece combatteva accanitamente corpo a corpo con una guardia mercenaria e così facevano tutti gli altri evasi dalle segrete. Due di loro avevano potuto recuperare balestre e frecce e con esse stavano tenendo a bada l'impeto dei nemici.

Il loro scopo era tentare l'assalto agli argani del cancello fortificato per distruggerli e impedire così che le grate venissero abbassate sbarrando l'ingresso agli assedianti.

Daniel, Hector e Kerwick, invece, si erano separati dagli altri per dirigersi verso il mastio e le stanze di Leowynn. Si erano aperti la strada combattendo, poi però erano stati fermati dall'arciere nel cortile che li aveva presi a bersaglio.

Kerwick imprecò quando un'ennesima freccia si frantumò sul bordo del pozzo impedendogli di rialzarsi dalla sua posizione accucciata e riprendere la corsa verso le stanze dei padroni di casa. «Dannato, sta aspettando solo che mettiamo la testa fuori da qui!» disse, alludendo al nemico che li teneva sotto mira.

«Se solo avessi un arco, farei vedere io a quel maledetto come si tira» brontolò Daniel.

«Ve ne procureremo uno» rispose Hector, ma Daniel proprio non sapeva immaginarsi come.

Un proiettile sconosciuto, partito dal mastio, tracciò un semicerchio nell'aria e ricadde nel cortile frantumandosi. L'arciere lanciò un'esclamazione di sorpresa e dovette fare un salto indietro perché il proiettile l'aveva mancato di poco.

Daniel alzò gli occhi di scatto quando si rese conto che il nemico era stato preso a bersaglio da quella che sembrava una ciotola o un vaso di terracotta. Individuò la finestra da cui era partito il lancio e vide un'inconfondibile figura femminile affacciata al davanzale.

«Signora, no! State attenta!» urlò il giovane con sgomento, ma Leowynn non gli badò e lanciò un secondo oggetto contro l'arciere ancora sbalordito. L'uomo indietreggiò ancora, nello stesso istante però sir Kerwick era scattato in avanti, approfittando dell'attimo in cui il nemico non poteva prendere la mira, e si era gettato sull'uomo a lama tesa. Ingaggiò battaglia ed ebbe la meglio. L'arciere nemico cadde al suolo in una pozza di sangue, senza nemmeno fare in tempo a ricorrere alla sua spada.

«Ecco il vostro arco» disse Hector a Daniel, facendogli cenno di seguirlo.Raggiunsero Kerwick in fretta e il cavaliere tese all'americano l'arco e anche la spada,

sottratti al nemico ucciso. Leowynn esultava dalla finestra, trattenuta invano dalla vecchia Birgit che la supplicava di restare al riparo.

«Andate dentro, mia signora!» le gridò Hector dal cortile.Daniel intanto aveva afferrato l'arco e si chinò a raccogliere le frecce cadute dalla

faretra. Alzò l'arma, prese la mira e scoccò. Un tiro preciso che abbatté uno degli arcieri sulle mura.

«Ben fatto!» approvò sir Kerwick.Daniel non gli rispose e incoccò una seconda freccia con rabbia. Era furioso con se

stesso e con tutto ciò che lo circondava per essere costretto a uccidere di nuovo. Eppure non aveva scelta: se voleva sopravvivere doveva lottare. Non aveva fatto altro da quando aveva iniziato quella dannata partita.

Un grido femminile, proveniente dall'alto, lo distrasse, facendolo sobbalzare.Daniel si voltò in tempo per vedere Leowynn scomparire di colpo dalla finestra, come

trascinata via con la forza. I nemici erano da lei, intuì l'americano. Forse i soldati di guardia fuori dalla sua porta si erano accorti dell'intervento della ragazza nella battaglia e adesso gliel'avrebbero fatta pagare.

Sir Kerwick lanciò un'esclamazione di rabbia e corse immediatamente all'ingresso che conduceva all'interno del castello, seguito da Hector.

Daniel si fermò solo un istante a eseguire un ultimo tiro, poi gettò l'arco che non poteva essere utile all'interno dei corridoi di un castello, e impugnò la spada.

Indietreggiò verso la porta e nel contempo vide che Bull e gli altri uomini di Dunchester adesso potevano combattere con maggior sicurezza, momentaneamente al sicuro dalle frecce scoccate dall'alto. Avrebbero potuto forse arrivare agli argani del cancello, prima che sopraggiungessero altri arcieri sulle mura.

Daniel entrò velocemente nel portone del mastio lasciato aperto da Kerwick e da Hector.

Ormai conosceva la strada verso le stanze di Leowynn, avendola già percorsa alcune volte: anche nella fitta penombra trovò la scala che saliva ai piani superiori e corse su per i gradini deserti. Dall'alto arrivavano le grida e il rumore di un feroce combattimento in corso. Tra le altre, Daniel riconobbe la voce angosciata di Leowynn.

Bastardi, non farete del male anche a lei! pensò il giovane, stringendo la spada nel pugno mentre saliva.

Qualcosa lo abbagliò all'improvviso, sbucando dal nulla. Daniel dovette chiudere gli occhi appena abituati alla semioscurità della scala. Così facendo, mancò un gradino e mise un piede in fallo. Cadde in avanti sulla scala con un'imprecazione di sorpresa e dolore, poi però cercò di risollevarsi almeno seduto e di alzare immediatamente la spada per difendersi, qualsiasi fosse l'origine del bagliore.

Rimase così, a terra con le spalle al muro e la spada puntata davanti a sé a minacciare un nemico che non c'era.

Nell'aria fluttuava pigramente una mela luminosa di colore rosso.Daniel si paralizzò, senza fiato, con gli occhi sgranati. Sbatté le palpebre, ma la mela

non scomparve. Compiva lenti giri su se stessa senza produrre alcun rumore. Era spaccata a metà, tanto da lasciar vedere l'interno giallo in cui erano disegnati in modo stilizzato il torsolo e i semi.

Era una forma mai vista prima, ma Daniel la riconobbe ugualmente. Un'icona di Hyperversum...?! pensò, attonito, e sentì il cuore accelerare tanto da sembrare sul punto di esplodere.

A ogni giro su se stessa la mela si completava un po' di più, si riempiva; dopo una manciata di secondi era ritornata integra, perfettamente ricoperta su tutta la superficie dalla finta buccia rossa fosforescente.

Daniel sobbalzò quando sotto la mela comparvero prima una clessidra e poi una scritta:

La percentuale aumentava rapidamente. La clessidra scomparve quando le cifre raggiunsero il cento percento, la scritta svanì subito dopo. La mela cambiò aspetto per trasformarsi nell'usuale icona verde del comando "help". Rimase ferma, a disposizione del giocatore.

Daniel era ancora immobile con le spalle al muro, incapace di credere a ciò che aveva davanti agli occhi.

Eppure l'icona era li, ricomparsa da sola, con giorni di ritardo rispetto ai ripetuti, inutili richiami per farla apparire.

Com'è possibile? si chiese Daniel, completamente sconvolto, ma ben presto nella sua

testa si fece strada un'altra idea, quasi più sconvolgente.Posso andarmene da qui adesso.Il giovane prese coscienza poco a poco del significato completo di quell'idea. Poteva

mettersi in salvo, uscire dalla partita senza che più nessuno lo fermasse, abbandonare Dunchester e l'assedio senza colpo ferire o correre altri rischi.

Non aveva idea del motivo per cui Hyperversum avesse risposto soltanto adesso, dopo giorni di richiami disperati rimasti del tutto senza seguito, ma poteva usare quell'icona per fuggire e ritornare finalmente nel mondo da cui era venuto. Adesso, prima che il gioco smettesse di nuovo di funzionare.

Daniel abbassò il braccio con la spada lentamente, si risollevò in ginocchio e tese la mano libera verso la mela. Lo fece piano, temendo di vederla scomparire. Era come ipnotizzato da quell'icona luminosa: un simbolo semplice, ma che per lui poteva significare la differenza tra la morte e la salvezza.

Arrivò quasi a sfiorarla, poi un grido lo riportò bruscamente alla realtà dell'assedio.Daniel trasalì e alzò gli occhi di nuovo verso la sommità della scala, da dove

continuavano a provenire le voci e il rumore del combattimento in corso. Era stato un grido femminile a farlo sobbalzare, una voce di ragazza piena di orrore.

Leowynn, capì il giovane. Dev'essere successo qualcosa.Subito dopo pensò a Ian, alla battaglia sulle mura, a tutto ciò che poteva accadere

all'amico durante l'assedio.Se me ne vado adesso, non lo rivedrò mai più, si disse Daniel, con un brivido

altrettanto forte. Se spreco quest'occasione di uscire dal gioco, potrei non averne più un'altra, si disse però subito dopo.

Chiuse gli occhi un istante, dilaniato tra le due scelte. Eppure, sapeva cosa gli avrebbe consigliato Ian, se solo fosse stato presente.

Gli avevo promesso che me ne sarei andato alla prima occasione buona, si disse Daniel e si morse le labbra. Lui non vorrebbe che restassi qui a rischiare.

Il buonsenso gli diceva che era ora di andarsene, finché ne aveva la possibilità.Daniel valutò per l'ultima volta tutte le ipotesi, col cuore in gola per la tensione.Doveva farlo.Era il momento.Riaprì gli occhi, maledicendosi per aver preso la sua decisione. «Annulla» ordinò.La mela scomparve.Il giovane strinse la spada nel pugno e si rimise in piedi. Ricominciò a correre verso la

sommità della scala senza più guardarsi indietro.

Capitolo 41Al suo arrivo in cima alla scala, Daniel ritrovò il corridoio ormai familiare e le porte

che conducevano alle stanze signorili del castello. La porta di Leowynn era aperta e proprio lì davanti giaceva scomposto il cadavere di un soldato con la divisa blu di Murrow.

Il combattimento infuriava dentro la stanza della ragazza, dalla quale provenivano rumori inequivocabili di lame incrociate e oggetti spostati con violenza.

Daniel raggiunse la soglia in due balzi e guardò dentro.La stanza era stata devastata dal combattimento feroce. I tendaggi del letto a

baldacchino erano strappati, la cassapanca brutalmente spostata e scheggiata. Gli sgabelli, lo scranno e la piccola toeletta di legno erano rovesciati in punti diversi del pavimento, tra i resti dello specchio, dei pettini e delle boccette di vetro contenenti i profumi e i cosmetici della padrona di casa.

Il profumo degli unguenti però non bastava a coprire l'odore penetrante del sangue che aleggiava ovunque.

Un secondo soldato in blu era riverso accanto alla cassapanca, un terzo era cadavere ai piedi del letto, ma sopra il materasso giaceva immobile anche la vecchia serva Birgit, con il capo rovesciato all'indietro, gli occhi vitrei spalancati sul niente, il vestito completamente zuppo di sangue sul petto.

Hector stava tenendo a bada altri due soldati, ma indietreggiava, messo alle strette. Leowynn era vicina alla finestra, china su Kerwick. Cercava di sorreggere il cavaliere con le mani completamente insanguinate. Kerwick aveva uno squarcio terribile sul fianco, eppure era ancora cosciente, benché non più in grado di combattere.

L'arrivo di Daniel portò un rovesciamento di fronte. Il giovane si avventò a lama tesa verso i due soldati che stavano incalzando Hector, li colse alle spalle, ne ferì uno prima che potesse difendersi poi lo impegnò come meglio poté. Lo tenne occupato quel tanto che bastava da concedere fiato al più esperto Hector e consentire al cavaliere fiammingo di avere la meglio sull'avversario rimastogli davanti.

Il soldato in blu cadde ucciso sul pavimento, l'altro compagno fece la sue stessa fine qualche minuto dopo.

«Grazie» ansò Daniel, rivolto a Hector che aveva posto fine al combattimento.«Grazie a voi» replicò il fiammingo, ugualmente a corto di fiato, ma poi vacillò e solo

la prontezza di Daniel gli impedì di crollare in ginocchio.Il giovane americano l'afferrò per sostenerlo. «Ce la fate?» si preoccupò.«Devo farcela» rispose Hector, stringendo i denti, poi riuscì a tenersi in piedi da solo e

andò verso Leowynn e il compagno ferito. «Madonna, dobbiamo andare via subito prima che ne arrivino altri» consigliò.

La ragazza aveva gli occhi inondati di lacrime. «Che cosa succede là fuori? Ho sentito i corni dare l'allarme...» domandò con un filo di voce.

«Vostro fratello è tornato a riprendersi il castello. Noi lo aiuteremo da dentro» le rivelò il fiammingo, chinandosi per prenderle Kerwick ferito dalle mani.

Leowynn ebbe un lieve moto di speranza. «Geoffrey... è qui?»«E tornato dal mare con i rinforzi» le disse Daniel e l'aiutò a rimettersi in piedi,

mentre Hector si chinava su Kerwick.Leowynn si aggrappò a lui, mentre rivolgeva lo sguardo verso il letto e il corpo

immobile che vi giaceva sopra. «Birgit... cara Birgit!» gemette. «Mi era accanto da quando ero bambina... voleva proteggermi dai soldati..!»

Daniel la strinse per confortarla, senza sapere che dire. La ragazza si fece forza per non cedere alle lacrime.

In silenzio aiutarono Hector a rialzare Kerwick, che si stringeva convulsamente la mano sul fianco sanguinante.

Hector guardò giù, oltre la finestra aperta, per accertarsi della situazione nel cortile. «Sir Ewen e gli altri sono bloccati» annunciò con rabbia. «Sono arrivati altri maledetti mercenari e li tengono in scacco».

Anche Daniel riuscì a guardare fuori e vide chiaramente che Bull e gli altri evasi erano asserragliati dietro il pozzo e ovunque riuscissero a trovare un riparo, cercando di difendersi dal numero aumentato di nemici.

«Non riusciranno mai ad arrivare al cancello, se non li aiutiamo» disse ancora Hector.«Ma come possiamo, soltanto in due?» si preoccupò Daniel.«... tre...» lo corresse Kerwick in un rantolo di rabbia e dolore, ma né Hector né

Daniel presero davvero in considerazione la sua candidatura a potenziale combattente.«Portiamo prima in salvo dama Leowynn, poi vedremo il da farsi» decise Hector.Daniel invece fu sfiorato da un'idea. «Riusciamo a raggiungere gli argani del cancello

fortificato da qui, senza passare dal cortile? Se non possono distruggerli gli altri, possiamo provarci noi dall'interno».

«Non conosco il castello così bene» rispose Hector. «Sono stato qui una volta sola prima di questi giorni, quando venni a prendere il riscatto per il mio signore prigioniero in Francia. Non ho mai avuto modo di esplorare il maniero da cima a fondo. Credo però che il mastio sia isolato dal cancello».

«... no, si può arrivare ai cancelli da qui... si passa il ponte e poi... sul tetto...» intervenne Kerwick a denti serrati, con le ultime forze, ma poi dovette appellarsi a Leowynn con gli occhi per chiederle di continuare il discorso al posto suo.

La ragazza meditò un istante. «Si può passare dal piano di sopra, attraversare il ponte mobile che collega il mastio alle stanze dei servi e arrivare alla scala che porta sul tetto per la manutenzione...» Cercò conferma dal cavaliere ferito per sapere se aveva interpretato bene la sua stessa idea e Kerwick annuì. «... la colombaia...» aggiunse.

«La colombaia è dall'altro lato dello stesso tetto» proseguì Leowynn. «Se riuscite a raggiungerla, poi da lì potrete scendere di nuovo. C'è una stanza delle guardie, ma la scala prosegue e porta agli argani del cancello...»

«La stanza delle guardie non mi sembra il luogo adatto per passare» obiettò Daniel.«Non credo che siano rimaste a dormire sulle brande in questo momento» gli rispose

però Hector. «Sarà più probabile trovarne alcune vicino agli argani, pronte a far cadere le grate al minimo segnale di pericolo».

«Quindi dovremo fermarle prima» dedusse Daniel.Un rumore, fuori, indicò che il combattimento si stava avvicinando in quella

direzione.«Ci penseremo lungo la strada, adesso andiamo via da qui» esortò Hector.

***

Il tragitto verso le stanze dei servi fu lungo perché rallentato dal ferito che non poteva

correre, ma fortunatamente non presentò pericoli. Non c'erano guardie a sorvegliare i piani alti del castello, poiché erano tutte impegnate a combattere il nemico dalle mura o nel cortile. Attirate dai rumori della battaglia, nessuna di loro era rimasta a tenere d'occhio stanze strategicamente inutili come quelle nei sottotetti in cui dormiva parte della servitù del castello.

Il piccolo gruppo di fuggitivi passò senza difficoltà e senza essere notato il brevissimo ponte mobile che collegava il mastio con l'edificio accanto. Era un ponte levatoio in miniatura, coperto, che poteva essere alzato in qualsiasi momento per isolare il mastio dal resto del castello, in caso di pericolo. Oltre il ponte iniziavano subito le stanze dei servi. Entrando, i fuggiaschi suscitarono il terrore di chi vi era rifugiato: alcune donne con gli sguatteri e i garzoni giovanissimi, praticamente bambini, che speravano di rimanere al riparo dalla furia dei combattimenti nascondendosi ai piani superiori.

«Non temete!» esclamò subito Leowynn, correndo dalle donne per quietarle, e le serve si zittirono subito quando riconobbero la padrona insieme agli uomini armati e insanguinati.

Daniel valutò l'ambiente con uno sguardo. Era uno stanzone con un tetto di travi massicce e poche finestrelle anguste senza vetri con una sola imposta di legno, che si apriva ribaltandosi verso l'alto.

Lungo tutto l'ambiente erano disposti dei pagliericci coperti da lenzuola e panni. Qua e là alcune cassapanche e pochi sgabelli formavano l'unico vero arredamento e alcuni teli dividevano l'ambiente in sezioni per dare un po' di intimità a chi vi dormiva.

Il giovane individuò subito una scala di legno che sembrava piantarsi nel soffitto. Sopra di essa doveva esserci la botola che dava sul tetto.

«Da quella parte» disse infatti Leowynn, indicando la scala.Daniel fece qualche passo verso di essa, ma nello stesso istante sir Kerwick crollò

definitivamente per il dolore delle ferite e per l'emorragia.Hector non riuscì a sostenerlo e dovette adagiarlo sul pavimento.«Aiutatemi a curarlo!» esclamò Leowynn, rivolta alle donne e queste corsero

prontamente intorno al cavaliere, stracciando un lenzuolo per farne bende con cui fasciare la ferita al fianco.

«Noi andiamo, non c'è tempo» disse Hector a Daniel, ma sembrava lui stesso in condizioni molto precarie e l'americano si preoccupò seriamente.

Non conosceva il castello e non aveva mai visto una colombaia in vita sua, poteva anche non riuscire a riconoscerla dal tetto e se Hector lo abbandonava a metà strada perché incapace di proseguire come Kerwick, le cose potevano mettersi davvero molto male.

Il fiammingo colse parte dei suoi dubbi e cercò di raddrizzare le spalle per rassicurarlo. «Io ce la faccio a proseguire. Non cadrò dal tetto, siatene certo» gli disse.

Ci mancherebbe solo questo! pensò Daniel, che non aveva pensato a quell'eventualità, ma poi seguendo il fiammingo corse alla scala.

«Vado io per primo, ci vorrà forza per aprire quella botola» gli disse e infilò la spada in cintura per intraprendere la salita. Ora che era più vicino, poté chiaramente individuare il rettangolo di legno che chiudeva l'apertura sopra la scala, trattenuto da robuste cerniere di ferro e da un chiavistello.

Daniel tirò il chiavistello e quindi spinse la botola con entrambe le mani sopra la testa. Dovette fare uno sforzo notevole, ma poi il pannello di legno si sollevò sotto la sua

spinta.Il giovane guardò Hector, che gli annuì.Da lontano Leowynn augurò: «Dio vi accompagni».Daniel sali un gradino ulteriore e ribaltò il pannello verso l'esterno.Sali ancora e si affacciò sul tetto. La vista da quel punto era impressionante,

abbracciava l'intero orizzonte, il mare, i boschi e i prati, illuminati dal sole freddo del mattino pieno. Daniel però abbassò immediatamente lo sguardo sul campo di battaglia, da dove veniva il frastuono spaventoso del combattimento in corso.

Con ansia istintiva, il giovane salì del tutto sul tetto e mise piede sulle tegole di legno inchiodate. Fece qualche. passo cauto lungo lo spiovente per arrivare a vedere meglio ciò che accadeva nella pianura sottostante.

Un ragguardevole schieramento di truppe in nero era spiegato davanti al barbacane, trincerato dietro palizzate mobili di-legno. Dall'alto Daniel poté vedere arcieri e balestrieri scagliare nugoli ben ritmati di frecce contro i difensori delle mura, mentre i fanti e i cavalieri erano in attesa dietro di loro, pronti a entrare in azione appena vi fosse stata la possibilità di varcare il ponte levatoio. Quest'ultimo era sottoposto al micidiale attacco delle baliste. Erano quattro e lanciavano arpioni infuocati da una grande distanza, tenendosi del tutto al riparo dalle frecce dei nemici.

Daniel non poteva vedere l'effetto degli arpioni sul ponte alzato, ma dalla colonna di fumo che saliva dal barbacane intuì che la struttura di legno, riparata provvisoriamente nei giorni precedenti, era già preda delle fiamme. Non avrebbe retto per molto.

Il giovane cercò invano di individuare una livrea bianca in mezzo a quel tumulto per scoprire se davvero Ian fosse là sotto, ma poi dovette rassegnarsi all'idea che l'amico, se c'era, non indossava la sua cotta del Falco d'argento.

Dev'essere mimetizzato in mezzo agli altri guerrieri vestiti di scuro, pensò.Fece ancora un passo, ma improvvisamente i pannelli di legno delle tegole cedettero

sotto il suo peso e si staccarono. Daniel lanciò un mezzo grido e scivolò col piede verso il basso. Cadde di schiena e si sentì precipitare. Si aggrappò ad altre tegole, ma anche queste si ruppero per lo strattone violento e scivolarono con lui verso l'estremità del tetto.

Il giovane si vide perduto.Fortunatamente il bordo del tetto era merlato e fermò la sua caduta sul ciglio

dell'abisso. Daniel si ritrovò aggrappato alla struttura di mattoni, con un piede nel vuoto e il cuore in gola. Le tegole rotte proseguirono verso il basso e precipitarono nella corte sottostante, ma passarono inosservate grazie al clamore della battaglia.

Solo quando capì che non sarebbe caduto e riprese il controllo del proprio respiro affannato, Daniel si rese conto che Hector lo chiamava dall'alto.

«State bene?» domandò il fiammingo, chino sul tetto per non provocare altri cedimenti e scivolare.

«Sì... almeno credo» ansò Daniel in risposta e fece forza sulle braccia per ritirare il piede dal vuoto e issarsi del tutto in un punto più sicuro.

Procedendo a carponi il giovane si arrampicò fino alla sommità dello spiovente. Le tegole gemevano sotto le sue mani e le sue ginocchia ma non cedettero più. Imprecando mentalmente contro i tetti medievali ricoperti di legno e chiodi invece che di laterizi e cemento, Daniel raggiunse Hector e si fermò accucciato accanto a lui per riprendere fiato.

«Dovete stare più attento, la pioggia e il gelo hanno fatto marcire il legno e arrugginire i chiodi e con tutto quello che è successo sir Martewall non avrà certo potuto pensare ai lavori di manutenzione» disse il fiammingo.

«Me ne sono accorto» mugugnò Daniel, poi si guardò intorno per capire la direzione in cui andare.

«Laggiù» gli indicò Hector.Daniel individuò un frullo d'ali nell'aria. A una certa distanza sul tetto, dalla parte

opposta rispetto a dove si trovava, vide appollaiati alcuni piccioni. Altri andavano e venivano in volo, scomparendo apparentemente tra le tegole.

Perplesso e con cautela, Daniel s'incamminò da quella parte, tenendosi basso il più possibile per essere pronto ad aggrapparsi a qualcosa se le tegole avessero ceduto di nuovo.

Percorse tutto il tetto, seguito da Hector, e raggiunse i piccioni. Questi si limitarono a spostarsi di lato al suo arrivo, evidentemente abituati alle presenze umane.

Daniel s'immaginava la colombaia come una specie di voliera costruita direttamente sul tetto, rimase sorpreso invece di vedere una specie di ampio pozzo circolare aperto nello spiovente, dal quale emanava un forte odore di escrementi di uccelli. Le pareti del pozzo erano costellate di nicchie in cui nidificavano i piccioni, alcune aperte altre chiuse da reti, poste a distanza regolare tra loro; nel centro del pozzo, illuminato e in pieno sole, sorgeva un palo su cui erano montate le ciotole per il becchime e per l'acqua.

Infine, il giovane individuò una porta di legno chiusa. Da lì si scende, pensò.Guardò giù e calcolò che poteva arrivare in fondo al pozzo con un salto non troppo

difficile. Prese fiato e si buttò, riuscendo a cadere in piedi.Fu sommerso da un turbine d'ali e di piume, mentre i piccioni, spaventati dall'intruso

piombato all'improvviso tra i loro nidi, volavano via in ogni direzione. Si riparò la testa con le mani d'istinto, poi però il movimento cessò veloce com'era iniziato e intorno a lui rimase solo il silenzio.

Riaprì gli occhi in tempo per vedere Hector raggiungerlo con un salto doloroso, che gli strappò una smorfia e un gemito soffocato.

Daniel si protese verso di lui per sorreggerlo, ma il fiammingo gli fece cenno che poteva farcela da solo. «La porta...» ansimò.

Daniel annuì, sguainò la spada e allungo la mano libera verso la porta. Questa si aprì senza alcuna difficoltà. Dietro di essa si apriva un vano stretto e in penombra.

C'era silenzio, forse non c'era nessuno. Daniel inspirò a fondo e poi entrò per primo.Il vano era davvero deserto, un semplice passaggio per arrivare alla colombaia, e

sfociava in una stanza illuminata da finestre identiche a quelle dello stanzone dei servi e arredata con un camino, panche, un tavolo e alcune brande di legno. Su una parete erano visibili i supporti vuoti a cui appendere spade, archi e altre armi, quando non erano usati.

Le guardie non c'erano e Daniel sospirò di sollievo. Dovevano davvero essere state tutte richiamate in servizio per la battaglia e nessuna era rimasta a riposare o di guardia alla colombaia. La porta era aperta e dava su un corridoio scuro.

«Proseguiamo» gli sussurrò Hector alle spalle.Appostandosi ai due lati della porta, l'americano e il fiammingo controllarono fuori

prima di avventurarsi ulteriormente nel buio e oltrepassare altre porte, stavolta chiuse. Dal fondo del corridoio provenivano rumori brevi e voci di uomini. Non sembravano molti, ma Daniel non seppe capire quanti erano.

Tre, gli segnalò tacitamente Hector a metà corridoio, alzando altrettante dita della mano. Quattro, si corresse subito dopo, appena raggiunse la fine del percorso e poté udire meglio.

Troppi, pensò Daniel con sconforto e la sua espressione fu eloquente, perché il fiammingo la interpretò al volo.

Possiamo farcela, gli fece capire l'uomo e prese la guida del cammino.Daniel seguì lo scintillio della sua lama snudata, cercando di dimostrarsi altrettanto

risoluto, ma la verità era che non sarebbe stato efficace nemmeno la metà di un vero cavaliere con una spada in pugno.

Doveva trovare il modo di aiutare Hector e non essergli d'intralcio, ma proprio non sapeva come.

Possibilmente, vorrei anche evitare di farmi ammazzare, pensò in aggiunta e per un istante ripensò all'icona fatta a forma di mela che aveva rifiutato quando Hyperversum gliel'aveva offerta. Spero di non aver commesso un errore enorme, si augurò in silenzio, con tutto il cuore.

Il corridoio sfociava su una scala a chiocciola incassata nella pietra. La scala scendeva, riceveva la luce da un ambiente sottostante e faceva da cassa di risonanza per le voci.

I due improvvisati compagni d'armi scesero i gradini e si fermarono su un pianerottolo strettissimo, appena fuori da quello che sembrava un ambiente molto ampio, stranamente illuminato dal basso. La scala continuava a scendere, ma le voci di uomini arrivavano da lì, tese ma non allarmate: gli uomini commentavano ansiosamente i rumori della battaglia in corso, ma non temevano di essere attaccati dall'interno del castello. Imitando Hector, Daniel si sporse dalla porta aperta quel tanto che bastava per sbirciare dentro con un occhio.

Vide la grande stanza degli argani, presidiata da quattro soldati con le divise blu di Murrow. Sbirciavano fuori attraverso una stretta feritoia verticale sul muro orientato verso la corte esterna, ma la luce entrava nell'ambiente soprattutto da due aperture ampie e trasversali sul pavimento di pietra, attraverso le quali le grate di legno massiccio e ferro, tenute sollevate dagli argani, avrebbero potuto essere calate in pochi secondi a sbarrare il passaggio sottostante. Altre aperture disseminate sul pavimento dovevano servire a bersagliare eventuali nemici dall'alto, visto che accanto a ciascuna di esse erano sistemate pile di pietre da lancio, balestre e botti di frecce, calderoni d'acqua su bracieri ancora spenti, acqua pronta per essere usata, fredda o rovente, per spegnere eventuali principi di incendio o per ustionare gli incauti invasori. Vicino ai bracieri era già accesa una lampada a olio, pronta a fornire il fuoco con cui accendere la legna nel caso i nemici fossero riusciti a entrare nella corte. Dall'altra parte dell'ambiente, esattamente di fronte alla porta dietro la quale erano appostati Daniel e Hector, si apriva una porta identica che conduceva chissà dove.

Daniel vide il fiammingo farsi il segno della croce, poi alzare la spada.Hector attese che un soldato in blu si spostasse abbastanza da arrivargli a tiro, poi

entrò nella grande stanza con un grido selvaggio. Il soldato cadde falciato dalla sua lama, senza nemmeno aver tempo di abbozzare una difesa. Gli altri tre lanciarono esclamazioni di sorpresa poi sguainarono le spade e ingaggiarono battaglia.

Daniel accorse per rendersi utile come poteva. Impegnò un soldato, ma si trovò quasi subito in difficoltà, impacciato anche dai numerosi lividi che gli davano dolore

dappertutto. Si difese come poté, mentre Hector faceva altrettanto con un altro avversario, poi però con la coda dell'occhio l'americano vide l'ultima guardia correre a un argano e capì che l'uomo, nel dubbio di non riuscire a farlo più tardi visto il momento di pericolo, avrebbe abbassato le grate per sicurezza.

«Assolutamente NO!» esclamò Daniel, con rabbia disperata, e, senza neanche sapere come, riuscì a mettere a segno un affondo fortunato che ferì il suo antagonista e lo gettò a terra. Il giovane non perse tempo a finirlo, lo scavalcò d'un balzo e si tuffò sulla guardia che stava per togliere i fermi al primo argano.

Rotolarono insieme sul pavimento, il soldato cercò di raggiungere il suo pugnale, ma Daniel gli allungò un pugno in faccia e gli impedì di portare a compimento il gesto. Colpì di nuovo, ancora e ancora, finché il soldato non svenne, poi si girò a controllare la situazione.

Hector aveva avuto la meglio sul suo nemico ma era stato ferito di nuovo. Daniel lo vide vacillare e non accorgersi dell'ultimo soldato che si era rialzato in piedi dopo che l'americano l'aveva ferito.

«Attento!» gridò il giovane e indicò a Hector la direzione alle sue spalle. Il fiammingo si voltò e riuscì a stento a evitare la lama del nemico, ma il movimento brusco sbilanciò il suo equilibrio precario e lo fece cadere di schiena a terra, alla mercé del nemico.

Il soldato alzò la spada con entrambe le mani per colpire a morte, ma venne centrato in pieno dalla lampada accesa che Daniel gli scaraventò addosso. L'uomo urlò mentre l'olio gli inzuppava i vestiti e prendeva fuoco. Lasciò cadere la spada per tentare di spegnere le fiamme. Hector lo finì da terra, con un affondo spietato della sua spada dal basso verso l'alto.

Il soldato cadde faccia in avanti. Il fuoco rimase a sfrigolare con l'olio, sui vestiti del morto e in piccole macchie sul pavimento.

Daniel corse da Hector, senza fiato, per trascinarlo indietro dal cadavere e dalle ultime fiamme.

Il fiammingo sanguinava e non era più in grado di risollevarsi in piedi. «Dobbiamo... bloccare meno gli argani...» rantolò.

Daniel annuì e si guardò intorno per capire il da farsi. Corse a un argano e si chinò a esaminarlo. Vide che aveva pioli di legno inseriti in fori appositi per tenere bloccati gli ingranaggi. Potevano essere sfilati con relativa facilità, ma sarebbe servita una mazza da carpentiere o un qualsiasi altro strumento pesante per farli penetrare più a fondo in modo da non poter più essere rimossi. Era l'unico modo per bloccare le grate, poiché distruggendo semplicemente gli argani, questi avrebbero lasciato cadere i cancelli verso il basso.

«E dove la trovo una mazza, io?» si domandò Daniel ad alta voce, poi guardò le grate di legno massiccio e piombato. L'alternativa era distruggerle in qualche modo, ma farlo a mano avrebbe comportato un lavoro spropositato per le sue forze. D'altra parte però, c'era il rischio che i nemici arrivassero e spezzassero le catene, non potendo sbloccare gli argani. Così facendo le grate si sarebbero chiuse ugualmente.

Bell'affare, pensò Daniel disperato. Non possiamo certo stare qui a fare la guardia in due, per di più ridotti come siamo. Ci farebbero a pezzettini.

No, doveva trovare una soluzione definitiva per quelle dannate grate, ma proprio non sapeva immaginarsi come. Si risollevò in piedi. «Vado a cercare qualcosa di utile» annunciò a Hector, poi raccolse la spada e si diresse verso la porta dall'altro lato del

grande stanzone.Sbirciò oltre la soglia e trovò quella che sembrava una piccola armeria. Anche lì erano

ammassate botti con archi e frecce, rastrelliere di lance, pietre e altri oggetti di cui non avrebbe saputo indovinare il nome, ma che apparivano inconfondibilmente come armi. La piccola stanza aveva un'altra porta aperta, che conduceva ulteriormente verso l'interno del castello.

Speranzoso, Daniel andò a ispezionare le armi e riuscì a trovare alcune asce da guerra. Non erano pesanti come le mazze da carpentiere e di sicuro lui non avrebbe avuto forza sufficiente per spaccare le grate con quelle, ma erano comunque abbastanza robuste per essere usate come martelli per piantare in profondità i pioli negli argani. Daniel s'impadronì di un'ascia e in quello stesso momento notò in un angolo due otri.

Si chinò a guardare e vide che i tappi erano unti; li toccò, poi si annusò le dita lucide: era olio combustibile, forse per le lampade, visto che non era sicuramente in quantità sufficiente per essere gettato dall'alto come arma contro i possibili invasori.

L'idea della lampada ne fece venire un'altra a Daniel.Le grate erano in gran parte di legno massiccio.Potevano bruciare.Perfetto, pensò il giovane. Prese un otre e se lo trascinò dietro nella stanza degli

argani insieme all'ascia da guerra.«Forse ho risolto i nostri problemi» annunciò a Hector. Il fiammingo riuscì a girarsi su

un fianco per guardarlo mentre lavorava e fece un cenno di assenso quando Daniel impugnò l'ascia per cominciare a martellare lateralmente sui pioli degli argani, usando la testa dell'ascia di piatto.

Il giovane usò tutta la forza che riuscì a trovare, nonostante il dolore che gli percorreva ogni singolo muscolo, e affondò i pioli più che poté. A lavoro finito, li saggiò con le mani e ritenne che non potessero più essere sfilati.

Asciugandosi il sudore dalla fronte, alzò gli occhi alle grate possenti. «E adesso vediamo se la mia idea funziona» sospirò.

Hector lo guardò interrogativamente quando l'americano andò a strappare la tunica a un caduto per farne uno straccio da inzuppare con l'olio dell'otre. Capì cosa volesse fare quando Daniel cominciò a sfregare lo straccio sulla prima grata, arrampicandosi per arrivare più in alto possibile.

«Ottima idea...» disse Hector con un sorriso, nonostante il dolore che gli irrigidiva i lineamenti.

Daniel balzò giù dalla grata e andò a raccogliere il fuoco ormai languente sulle chiazze d'olio rimaste sul pavimento. Accese un lembo dello straccio unto, poi si affrettò a gettarlo contro la grata, prima che gli ustionasse le mani.

L'intera struttura avvampò in un lampo.«Sì!» esultò Daniel, con Hector. La grata era solida e avrebbe impiegato molto tempo

prima di consumarsi, ma se nessuno interveniva a domare le fiamme prima o poi avrebbe ceduto e sarebbe stata del tutto inutilizzabile come mezzo di difesa o almeno si sarebbe indebolita tanto da non rappresentare più un ostacolo efficace.

Il fumo, però, stava riempiendo rapidamente lo stanzone. Daniel dovette tossire e si rese conto di dover fare in fretta a terminare l'opera, prima che l'aria diventasse irrespirabile.

Andò da Hector e lo risollevò di peso. Il cavaliere ferito non riuscì a trattenere un

gemito di dolore, ma poi serrò i denti e riuscì a camminare. Daniel lo portò su per la scala a chiocciola, là dove il fumo non arrivava, e lo adagiò sui gradini. «Farò presto» promise e tornò giù di corsa.

La stanza degli argani era avvolta dal fumo. Con gli occhi e la gola che bruciavano, Daniel si affrettò a procurarsi un altro straccio da inzuppare d'olio, ma contemporaneamente sentì voci rabbiose e allarmate venire da fuori, dalle due porte e da sotto, attraverso le aperture nel pavimento.

Il fumo aveva iniziato a uscire dalla stanza ed era stato notato, capì il giovane con paura. Guardò giù attraverso le feritoie e vide soldati in divisa rossa correre attraverso il tunnel del cancello. Si stavano dirigendo verso il cortile e le scale, pochi minuti e sarebbero arrivati fin li.

Devo fare in fretta! pensò Daniel con angoscia. Bagnò lo straccio nell'olio e cominciò a ungere la seconda grata, ma le voci si stavano avvicinando in fretta, insieme al rumore di molti passi.

Devo fermarli prima che vengano a spegnere il fuoco, si disse ancora il giovane, ma proprio non sapeva come fare. Lasciò il suo lavoro e corse all'armeria lì accanto, l'attraversò e arrivò all'altra porta, sprangandola in fretta e furia. Appena in tempo, perché da dietro la porta sentì arrivare voci e passi. Subito dopo qualcuno cominciò a strattonare e poi a colpire la porta con violenza.

Non reggerà per' molto, capì Daniel. Devo fermarli in qualche altro modo.Andò a prendere il secondo otre d'olio, lo apri e ne sparse il contenuto dappertutto,

specie sui barili di frecce e sulle rastrelliere delle lance.Corse fuori, recuperò del fuoco e tornò per lanciarlo sull'olio.La stanza diventò un rogo in pochi istanti.Daniel si sottrasse a stento alle fiamme per tornare alla stanza degli argani. Prese l'otre

ormai semivuoto, lasciando dietro di sé una scia oleosa che prendeva fuoco, inseguendolo come un serpente. Il giovane lasciò che anche l'otre cominciasse a bruciare poi, scottandosi le mani, lo gettò contro la seconda grata. Subito anche quella cominciò ad ardere, riempiendo l'aria di ulteriore fumo. Spruzzi d'olio in fiamme caddero anche sulle botti piene di frecce e sulla legna dei bracieri, incendiando ogni cosa.

Tossendo e con gli occhi che lacrimavano copiosamente, Daniel spese le ultime forze per rovesciare i calderoni d'acqua giù dalle feritoie nel pavimento.

Così dovrete andarvene a procurare degli altri, se volete spegnere il fuoco, pensò all'indirizzo dei nemici in arrivo.

Un rumore violento gli fece alzare gli occhi verso l'armeria. Mercenari in divisa rossa, spaccata la porta, lanciarono grida di rabbia quando videro il rogo che aveva invaso la stanza. Nessuno osò penetrare nella stanza infuocata, alcuni tentarono di spegnere le fiamme, altri invece si ritirarono.

Daniel capì che era il momento di fuggire, perché l'esitazione dei nemici non sarebbe durata più di qualche minuto. Forse con molta fortuna avrebbe potuto tornare alla colombaia con Hector e mettersi in salvo attraverso il tetto.

Ferito com'è, non ce la farà mai, si disse allo stesso tempo disperatamente, ma si rifiutò di pensare al peggio e proseguì. Qualcosa l'afferrò a una gamba. Lo fece cadere.

Daniel si era dimenticato che uno dei soldati di guardia agli argani era soltanto svenuto, riuscì a girarsi supino e se lo ritrovò addosso, col volto insanguinato ma torto in una maschera di ferocia.

«Dove credi di andare, bastardo?!» gli ringhiò l'uomo, sfoderando il pugnale.Daniel gridò di spavento e riuscì a fatica a spostare la testa per evitare la lama sulla

gola. Afferrò la mano del suo aggressore per bloccare il pugnale, poi rotolò con lui lottando. Riuscì a spingerlo verso le ampie aperture per le grate e con una ginocchiata lo costrinse a mollare la presa. L'uomo gridò e cadde di sotto.

Sfinito, Daniel si rimise in piedi barcollando, ma aveva perso troppo tempo. Sulla porta si trovò davanti quattro mercenari armati, arrivati dall'altra scala.

«Sei morto!» gli gridarono quegli uomini, puntandogli contro le spade e le balestre.Daniel capì di essere perduto. Aveva l'incendio alle spalle e i nemici davanti, pronti a

tirare. Non poteva fuggire, non avrebbe avuto scampo se combatteva. Le fiamme s'innalzavano dalle grate e strisciavano già sulle le travi del soffitto attaccando i pannelli di legno della copertura. Presto avrebbero divorato tutto.

I mercenari si prepararono a scoccare le frecce.Un lampo, un'idea folgorò Daniel. Aveva una sola possibilità e pregò che funzionasse.

«Uscita di emergenza!» chiamò, alzando la mano davanti a sé.La mela rossa e fosforescente comparve nel fumo, tra il giovane e i mercenari. Gli

uomini sgranarono gli occhi e urlarono terrorizzati. Uno indietreggiò con un balzo. I balestrieri persero l'assetto di tiro, colti dal terrore.

Daniel non diede loro tempo di riaversi dalla sorpresa. Toccò la mela, pur non sentendo niente sotto le dita e il frutto virtuale galleggiò nell'aria. Sotto di esso comparve un rettangolo luminoso con alcune scritte e un cursore:

Il trattino orizzontale del cursore lampeggiava pigramente in fondo alle scritte.Daniel scandì il codice alfanumerico della partita e al posto del cursore comparve una

fila di asterischi, nel momento stesso in cui qualcuno tra i mercenari urlava: «Stregoneria!».

Presi dal panico, gli uomini alzarono di nuovo le balestre.Il rettangolo fosforescente sotto la mela scomparve, sostituito prima da una clessidra,

poi da un altro rettangolo, fitto di parole, numeri e diagrammi in movimento.I mercenari scoccarono le frecce.Daniel si sentì assalire da un violento senso di vertigine, eppure non provò dolore. Fu

piuttosto come se qualcosa gli distorcesse le percezioni, strappandole dal corpo. Il senso del tatto, dell'udito, dell'equilibrio non corrispondevano più alla posizione eretta che il giovane aveva in quel momento. Non sentiva nemmeno più l'odore di fumo e per un attimo non capì se fosse ancora cosciente oppure sprofondato in una specie di sogno.

Il corpo sembrava abbandonato contro qualcosa, il peso gravava sulle cosce e sulla schiena. Eppure gli occhi continuavano a vedere dal punto di vista di una persona eretta la stanza in fiamme e le facce terrorizzate dei nemici che lo fissavano come se fosse un mostro.

Mi hanno ucciso? si chiese Daniel con angoscia e confusamente ricordò che qualcuno sosteneva che la sensazione della morte fosse proprio quella: vedere il proprio corpo da fuori, da un punto di vista diverso da quello che suggerivano gli altri sensi.

Daniel si guardò il torace e vide le frecce piantate nella carne in più punti. Vide il sangue sgorgare e inzuppargli i vestiti, ma non provò né la sofferenza né la sensazione di bagnato.

La visione era strana, come se sulle cose si fosse stesa all'improvviso una patina artificiale.

Un'altra scritta comparve a mezz'aria davanti agli occhi del giovane:

Poi, di colpo, tutto diventò buio.

Capitolo 42Il ponte levatoio di Dunchester saltò, letteralmente fracassato dalle baliste con i loro

arpioni incendiari. Non ci fu bisogno di usare l'ariete: le travi di legno frantumate caddero con fragore, lasciando solo monconi bruciati appesi alle catene. Nelle mura si spalancò l'ingresso al cuore del maniero.

Un ruggito di esaltazione percorse le truppe assedianti, mentre lo sgomento s'impadroniva degli assediati. Molti di questi cominciarono ad abbandonare i bastioni, consapevoli di non poter più fermare il nemico fuori dalla corte esterna per più di qualche minuto. I corni della ritirata risuonavano dentro il castello, mentre da fuori facevano, eco quelli che esortavano gli assedianti a sferrare l'attacco frontale.

Anche Ian provò un tuffo al cuore quando vide la strada finalmente libera.La prima difesa è caduta! pensò. Fece inalberare ai suoi uomini lo stendardo nero col

leone dei Martewall e comandò la carica.«Non possono più fermarci!» sentì Sancerre urlare alle truppe dall'altro lato.Una fila di cavalieri armati di lancia si formò in pochi minuti, davanti alle squadre dei

fanti. I balestrieri e gli arcieri avanzarono ulteriormente dietro i martelletti per proteggere con le loro raffiche micidiali gli uomini che sarebbero partiti alla carica.

Ian raggiunse Martewall al galoppo. Il barone stava trattenendo con pugno di ferro il suo destriero desideroso di balzare in avanti e non perse tempo a dire nemmeno una parola all'americano in arrivo. Piantò gli speroni nei fianchi dell'animale e gli lasciò briglia sciolta. Il destriero si avventò con furia verso il cancello.

Il ponte levatoio non c'era più. Il terrapieno colmato nel precedente assedio non era stato svuotato. Davanti ai cavalieri si aprì una strada senza ostacoli.

Ian corse ad affiancarsi a Martewall, Sancerre arrivò un istante dopo e dietro di lui tutti gli altri guerrieri a cavallo.

I fanti li seguirono di corsa con urla selvagge.Ian sentì il cuore battere all'unisono con il galoppo del suo destriero, il sangue scorrere

veloce nelle vene, l'adrenalina ubriacarlo. Non aveva più paura in quel momento, non aveva più esitazione. Era un cavaliere e davanti a sé aveva il suo obiettivo. Nel pugno stringeva la sua lancia. Niente l'avrebbe fermato adesso.

Sulle mura di Dunchester gli arcieri videro arrivare la carica e tentarono invano di frenarla. Scagliarono frecce, ma fecero poche vittime, poiché quando si affacciavano tra i merli venivano abbattuti senza scampo dai tiratori francesi.

Qualcuno cercò di organizzare una difesa sotto l'ingresso spalancato. Alcuni fanti si misero in posizione, abbassando le picche, poggiandone a terra l'estremità dell'asta per tenerla bloccata col piede e fare più forza. Tentarono di formare una barriera per contrastare l'arrivo del nemico, ma in pochi poi ebbero il coraggio di rimanere a piè fermo davanti ai tre cavalieri in nero, terribili con la lancia in resta e lo scudo chiodato, che arrivavano velocissimi, guidando la schiera degli aggressori.

Ian ne vide molti fuggire davanti a lui, quando capirono che il cavaliere non stava frenando il galoppo del suo destriero ma puntava su di loro con la lancia bassa. «Toglietevi di mezzo!» urlò loro con ferocia e bastò questo per farne fuggire altri o per far loro abbassare le picche con paura.

Il giovane mirò a un ufficiale che teneva uno scudo. Fu un attimo e fracassò la lancia

sulla superficie di legno con tale violenza da sbalzare via l'uomo. Si aprì un varco. Il suo destriero speronò altri nemici e saltò prontamente i corpi di quelli che cadevano a terra, poi si fece strada verso la corte esterna.

Martewall e Sancerre attraversarono la debole difesa con altrettanta furia e proseguirono con Ian. Sul loro cammino i difensori a piedi furono travolti e spazzati via.

I Francesi dilagarono nella corte esterna come un fiume. Nessuno poté fermarli sotto le mura, poiché i difensori non avevano avuto il tempo di preparare materiali da gettare dall'alto sugli invasori. Ci fu qualche sporadico lancio di pietre e di frecce, ma del tutto inefficace. Le truppe fedeli a re Giovanni Senza Terra cominciarono ad abbandonare le mura esterne e a ripiegare disordinatamente verso l'ultima cinta, incalzate dai nemici.

Ian gettò il moncone della lancia spezzata e impugnò la spada. Combatté ogni lama, lancia o arma che osasse sfidarlo e fece il vuoto intorno a sé. Solo allora, nel riprendere fiato, poté calmare almeno un po' il cuore e valutare la situazione della corte esterna. L'esaltazione della carica al galoppo cominciava ad attenuarsi per lasciare spazio a pensieri più lucidi.

Nella confusione della battaglia, Ian alzò gli occhi sull'ultimo cancello fortificato.Era ancora aperto e dalla costruzione uscivano nuvole di fumo denso. Ian non se n'era

accorto da fuori, perché quel fumo si mimetizzava con quello del ponte levatoio in fiamme. Esultò quando capì che qualcuno aveva minato la difesa di Dunchester dall'interno per aiutare gli assedianti.

Ecco perché prima suonavano i corni dell'allarme, si disse.«Il castello è nostro!» gli gridò Sancerre, attraverso il frastuono, indicandogli proprio

il cancello fumante.«Andiamo a prenderlo!» gli rispose Ian.Daniel, sto arrivando, aggiunse col pensiero.Nella corte esterna era il caos totale. Uomini combattevano a ogni angolo, ferivano,

uccidevano. Alle divise nere di Martewall si erano aggiunti molti prigionieri ribellatisi ai mercenari e ai soldati di Murrow non appena il ponte levatoio aveva ceduto. Combattevano con qualsiasi cosa capitasse loro in mano, dalle pietre alle armi sottratte ai caduti. Alcuni civili brandivano forconi e asce da taglialegna. Gruppi di soldati di Salisbury invece si arrendevano dopo una breve resistenza, poiché erano rimasti senza padrone e non tutti i loro ufficiali se la sentivano di mandarli all'attacco ugualmente.

Ian avanzò combattendo, incalzando con la spada i nemici che fuggivano davanti a lui. Ora che si era fatto strada fino al cuore del castello, voleva evitare il più possibile di uccidere. Non voleva una strage e con gli occhi cercava di individuare i capi della difesa. Neutralizzati quelli, anche tutti gli altri si sarebbero arresi.

Nel tumulto della mischia vide infine alcuni cavalieri in sella ai loro destrieri. Dai gesti si indovinava che stavano lanciando ordini, mentre si difendevano dietro gli scudi dalle frecce vaganti. Ian riconobbe dai colori il comandante mercenario, poi alcuni seguaci di Nigel Murrow e infine proprio il giovanissimo barone, dietro tutti gli altri. Aveva già iniziato a indietreggiare verso l'ultimo cancello e il cortile del maniero, era spaventato a morte e lo si vedeva anche da lontano.

Ian chiamò Sancerre. «Etienne! Catturiamoli!» esortò, indicando i cavalieri nemici.L'altro cadetto non se lo fece ripetere due volte. Fece compiere al destriero un giro su

se stesso e poi lo spronò in avanti. Ian cercò Martewall per ripetergli la stessa esortazione.

Lo vide apparire dalla mischia poco più avanti di lui. Aveva già individuato Murrow e ora lo puntava con la spada tesa.

«Aspetta!» gli urlò Ian, intuendo le sue intenzioni assassine, ma l'altro cavaliere non lo udì e non si voltò. Ian gli corse dietro.

Murrow e gli altri cavalieri videro arrivare i tre, velocissimi e agguerriti, e capirono che non potevano sperare di combatterli nello spazio angusto del tunnel sotto il cancello fortificato. Indietreggiarono in fretta verso il cortile; Murrow era letteralmente fuggito per primo.

Come a difendere la loro fuga, una pioggia di materiale in fiamme cadde dal soffitto del tunnel, sbarrando la strada agli attaccanti in arrivo e travolgendo alcuni difensori mentre tentavano di mettersi in salvo.

Ian dovette frenare il destriero di colpo, temendo che qualcuno stesse versando olio o pece dalle assassine, ma poi la pioggia non si ripeté più e il tunnel rimase sgombro.

Accanto all'americano, Martewall incitò il cavallo per riprendere l'inseguimento. Così fece anche Sancerre e Ian si convinse a imitarli.

Passò sotto il tunnel in fretta e con timore. Guardò in alto. Attraverso le aperture vide un rogo unico che stava divorando la stanza dove dovevano esserci gli argani per azionare i cancelli.

I materiali caduti poco prima non erano stati gettati di proposito, capì, dovevano essere piuttosto i detriti causati dall'incendio, forse pezzi dei cancelli stessi, distrutti dal fuoco.

Ian entrò nel cortile del castello e dietro di lui sciamarono i suoi guerrieri a piedi e a cavallo.

La battaglia infuriò ovunque, senza quartiere.Ian si gettò contro il primo cavaliere nemico che incontrò. Era il comandante

mercenario e l'americano lo incalzò subito con furia. Il mercenario era esperto, ma Ian era più forte e combatteva spinto dal desiderio di chiudere prima possibile quella maledetta guerra.

Il mercenario non riuscì a resistere per molto. I due combattenti si scambiarono colpi feroci, mentre le cavalcature scalpitavano, nitrivano e giravano in cerchio inseguendosi, infine, dall'alto della sua statura, Ian calò sul nemico un colpo tale che gli fendette lo scudo. L'uomo barcollò per l'urto, Ian disimpegnò la spada e gliela piantò di punta nella coscia.

Il mercenario urlò di dolore e cadde dalla sella. Ian lo tenne a terra sotto la minaccia della sua spada. Subito molti suoi soldati accorsero intorno a lui per rendere definitivamente inerme lo sconfitto.

«Mettetelo ai ceppi» ordinò Ian, ansando.«Posso pensare io a questo bastardo, signor conte?» domandò una voce inglese e

familiare poco distante.Ian si voltò e riconobbe Bull. Il boscaiolo era ferito, ma non in modo grave. Brandiva

una spada insanguinata e aveva l'aria di chi ha combattuto per un bel pezzo, tuttavia sul volto sudato e contratto sfoggiava un sogghigno soddisfatto.

«Thomas!» esclamò Ian con sollievo. «Sono felice di vederti sano e salvo».«E io ero certo di averti riconosciuto, nonostante l'elmo e l'armatura senza insegne»

gli rispose l'uomo. «In giro non ci sono molti cavalieri con la tua mole. Hai fatto tua la causa di sir Martewall, a quanto pare».

Il frastuono della battaglia che continuava impedì a Ian di rispondere e lo fece guardare tutto intorno a sé. «Rimandiamo le spiegazioni a più tardi, ti dispiace? Prima voglio fermare questa carneficina».

Bull annuì. «Buon lavoro» augurò, prima di occuparsi del mercenario ferito insieme ai soldati francesi.

Ian girò il cavallo per accertarsi delle posizioni degli altri compagni. Vide Sancerre impegnato a lottare con un cavaliere, dopo averne disarcionato un altro, lasciandolo ferito nelle mani dei soldati. Spostò lo sguardo e scorse Martewall. Ormai aveva raggiunto Murrow, spianandosi la via col sangue di tutti quelli che si era trovato davanti.

Ian spronò il destriero in quella direzione, ma anche lui dovette farsi strada combattendo.

Martewall chiuse il ragazzo in un angolo senza via di scampo, lo impegnò all'arma bianca, lo disarcionò con furia, poi balzò giù di sella per continuare il duello a piedi.

Contro di lui l'altro barone non aveva alcuno scampo, troppo giovane, spaventato e inesperto.

Ian vide Martewall fare uso di tutta la sua micidiale maestria per respingere indietro il cavaliere adolescente: lo ferì di striscio, poi gli strappò la spada di mano e l'agguantò al volo.

«GEOFFREY!» urlò Ian da lontano.Martewall si fermò all'ultimo istante, bloccato da quel grido, con una spada in ogni

mano, pronto a decapitare il suo avversario.Ian corse da lui e fermò il destriero lì accanto. «È solo un ragazzino!» esclamò.Martewall non rispose. Non abbassò le spade, ma nemmeno fece l'atto di uccidere il

suo nemico.Nigel Murrow cadde a sedere davanti a lui perché le gambe non lo reggevano più,

tanto era terrorizzato. «... Mi arrendo...» ansimò, tremante.Ian si accostò di più a Martewall. «Basta così. La battaglia è finita» tentò di

convincerlo.L'inglese abbassò infine le braccia e gettò via la spada del suo nemico, con spregio.

«La battaglia è finita» convenne, sia pure con la voce che tradiva la collera ancora accesa.

Grida di giubilo riecheggiarono quasi contemporaneamente da ogni angolo del castello. Sancerre aveva atterrato anche l'ultimo cavaliere; i difensori, rimasti senza comandanti, si arrendevano uno dopo l'altro.

Dunchester era stato conquistato.Ian si guardò intorno, mentre riprendeva fiato. Alcuni suoi uomini vennero a prendere

prigioniero Nigel Murrow, altri disarmavano i vinti per ammassarli in gruppi sorvegliati, altri ancora trasportavano i compagni feriti dove potevano ricevere cure, lasciando i nemici a sanguinare a terra. Qua e là, fuori e dentro il cortile, si udiva ancora il rumore degli ultimi, sporadici combattimenti.

È finita, si ripeté Ian incredulo. Si voltò per dire qualcosa a Martewall, ma non trovò più l'inglese accanto a sé. Cercandolo con gli occhi, lo vide dirigersi verso un punto preciso. Il barone aveva individuato qualcosa in mezzo al movimento concitato di tutto il cortile e Ian rabbrividì d'istinto quando si accorse che si trattava di un grosso ceppo di legno.

Sentì un nodo stringergli il petto all'improvviso, perché vide anche che il legno era

macchiato da un inconfondibile colore rosso brunito.Martewall raggiunse il ceppo e si fermò li davanti. Non disse niente, almeno non ad

alta voce. Piantò la spada a terra e s'inginocchiò a capo chino.Ian si fece il segno della croce, pensando a sir Harald Martewall.«Signor conte!»Qualcuno lo chiamò da lontano. Il giovane si voltò per vedersi raggiungere da alcuni

soldati che inseguivano Coda di volpe. Il ragazzino gli corse incontro, con ansia. «Siete vivo!» esclamò col fiatone. «Ho temuto per voi quando vi ho visto partire alla carica dentro il castello!»

«E tu che ci fai già qui? Non dovevi restare a distanza di sicurezza?» gli domandò Ian, invece di rispondere.

«Perdonate, signore, ma non siamo riusciti a trattenerlo» gli dissero in contemporanea i soldati, fermandosi accanto a lui e al ragazzino.

Ian sorrise sotto l'elmo. «È quasi impossibile, infatti» rispose agli uomini, usando come loro il francese. «Adesso penso io a lui, potete andare, non c'è più pericolo» continuò e congedò i soldati. «E tu non allontanarti da me per nessun motivo» concluse, rivolto a Coda di volpe.

«Sì, signore!» annuì il ragazzino con foga.Ian scese finalmente da cavallo e si liberò il volto sudato. Porse l'elmo al ragazzo

insieme allo scudo. «E già che sei qui, renditi utile e fammi da scudiero».Coda di volpe aveva gli occhi che brillavano, mentre riceveva elmo e scudo come se

fossero reliquie. Seguì Ian per il cortile con assoluto impegno, mentre il giovane passava in rassegna ogni angolo e riceveva i rapporti dai suoi ufficiali, ma non riuscì a tacere per più di qualche minuto di fila e solo quando il cavaliere accanto a lui stava parlando con qualcun altro. Era eccitato e profondamente colpito dall'esperienza della battaglia, che pure aveva visto solo da una certa distanza.

«Vi ho visto passare attraverso la linea nemica come un vero falco!» disse tra le altre cose. «Non avrei mai creduto di vedere un giorno una cosa simile!»

«Quando la smetterai di adularmi?» brontolò Ian.«Non vi sto adulando, è la verità! Siete coraggioso come un leone e i vostri compagni

non sono da meno! Io sarei scappato a gambe levate se avessi visto tutte quelle picche spianate davanti a me».

Forse l'avrei fatto anch'io, se solo mi fossi fermato due secondi in più a pensare che una picca può tranquillamente staccare un braccio a un uomo, rifletté Ian, ma tenne quella considerazione per sé, salvato provvidenzialmente da un ufficiale che veniva a fargli un ennesimo rapporto della situazione.

I combattimenti si stavano spegnendo uno a uno, i nemici ancora vivi erano ormai quasi tutti prigionieri o feriti. Tutto stava procedendo bene.

«Quello è mastro Bull!» esclamò d'un tratto Coda di volpe, indicando qualcuno tra gli uomini armati, impegnati a radunare gli sconfitti e disarmarli per metterli in catene. «E salvo anche lui!»

«Già» replicò Ian, ma contemporaneamente cominciava a sentirsi inquieto. I minuti passavano e di Daniel non si vedeva traccia. Nemmeno i suoi uomini avevano saputo dirgli qualcosa di lui.

Coda di volpe era visibilmente impressionato. «Quanti morti...» mormorò, guardando i cadaveri che venivano allineati nel cortile dai superstiti. «Quelli li conoscevo.

Abitavano a Willingham con me...»Ian non replicò, col senso d'ansia che cresceva. Dove si è cacciato? si ripeteva,

pensando a Daniel.Un rumore di travi spaccate gli fece alzare gli occhi sul cancello fortificato in fiamme

che dominava il cortile. L'incendio si era esteso verso un lato della costruzione e adesso lingue di fuoco uscivano dalle finestre strette, insieme al fumo e a nuvole di scintille. Il giovane temette che potessero attaccare anche il resto del castello e chiamò subito due ufficiali accanto a sé. «Cominciate a domare l'incendio» ordinò loro. «Presto, prima che si estenda troppo per essere fermato!»

Gli ufficiali corsero a radunare gli uomini necessari per eseguire l'ordine. In una decina di minuti si formò una squadra che attingeva l'acqua al pozzo per poi passare secchi di mano in mano a chi era salito lungo le scale verso l'incendio.

Sancerre arrivò accanto a Ian dopo poco, baldanzoso sul suo destriero. «È stato un attacco eccezionale» si complimentò. «Un castello preso in meno di una giornata. Anche questa impresa resterà nella storia».

Ian guardò il sole che volgeva ormai verso il pomeriggio. «Abbiamo avuto molti fattori a nostro vantaggio. Il castello era già danneggiato, i difensori non erano organizzati e il loro miglior condottiero era nelle nostre mani».

Sancerre sogghignò. «Sì, ma non dobbiamo raccontare tutte queste cose a tanta gente. Possiamo vantarci un po' per l'impresa compiuta, giusto? Piuttosto, dov'è monsieur Daniel? Siamo venuti per lui ma non l'ho ancora visto».

Già, dov'è? si chiese Ian per l'ennesima volta. A quest'ora dovrebbe già essere comparso da qualche parte.

«Vado a cercarlo» decise ad alta voce. «Tu aspettami qui» ordinò a Coda di volpe in inglese.

Aveva appena fatto qualche passo verso la porta del mastio quando vide arrivare dalla stessa soglia una figura femminile. Era Leowynn, sconvolta. Aveva le mani e il vestito completamente macchiati di sangue ma si muoveva senza difficoltà.

Non è ferita, il sangue non è suo, pensò Ian con sollievo e le corse incontro. «Mia signora!» la chiamò.

Lei lo riconobbe e si diresse subito da lui, poi però individuò Martewall da lontano. «Geoffrey!» invocò, con voce rotta dal pianto.

Il cavaliere inglese fu nelle sue braccia in un lampo. La strinse forte, le prese il viso tra le mani e le baciò la fronte e i capelli. «Grazie a Dio, non ti hanno fatto nulla!» mormorò con emozione.

Leowynn si aggrappò a lui, sconvolta dalla violenta tensione della battaglia. «Sei tornato..! Sei vivo..!» continuava a ripetere.

«Calmati, adesso sono qui» la confortò il fratello. «L'orrore è finito».«Nostro padre... hai saputo..?»«Sì. Ho saputo. Re Giovanni pagherà per un tale scempio, te lo giuro, fosse l'ultima

cosa che faccio».Leowynn non riusciva a staccare il viso dal petto del fratello. «E i nostri cavalieri...

quanti ne sono morti...»Martewall serrò la mascella, con ira. «Ne ho contati tre tra i cadaveri. Altri non sono

ancora riuscito a trovarli».«Sir Kerwick è rimasto ferito gravemente per salvarmi» disse Leowynn staccandosi

dal fratello per indicargli le stanze ai piani più alti del castello. «L'ho lasciato alle cure delle serve perché non ce la faceva a muoversi. Lui e gli altri erano riusciti a fuggire dalle segrete, hanno ingaggiato battaglia nel cortile. Mentre gli altri lottavano con i nemici, in tre sono corsi da me per difendermi: sir Kerwick, sir Hector e il cavaliere straniero...»

S'interruppe, guardando Ian, come se esitasse a continuare.«Che cosa ne è stato di lui?» si allarmò subito il giovane. «Vi prego, madonna, se

sapete qualcosa dovete dirmelo!»Leowynn accennò al cancello fortificato in fiamme. «Insieme a sir Hector voleva

andare a bloccare gli argani per facilitarvi l'ingresso al castello... Non li ho più visti tornare...»

Ian si sentì ghiacciare il sangue, mentre alzava gli occhi alla costruzione avvolta dal fumo. Si staccò dai due inglesi per correre verso la scala.

«Jean!» lo chiamò Sancerre, che aveva notato anche da lontano la sua agitazione. «Che cosa succede?!»

«Forse Daniel è là dentro!» gli gridò Ian senza fermarsi.Corse su per le scale col cuore in gola, superando gli uomini che si passavano i secchi

d'acqua per domare le fiamme. Il fumo cresceva a ogni gradino, ben presto gli fece lacrimare gli occhi e bruciare la gola.

«Signore, è pericoloso!» gli gridarono gli uomini al lavoro, che si erano riparati il volto con fazzoletti bagnati, ma Ian non badò a nessuno di loro e proseguì fino a quando non si trovò la strada sbarrata da altri che scendevano trasportando un corpo.

Ian riconobbe Hector, esanime. Il fiammingo sembrava in fin di vita ed era coperto di sangue.

«Dove l'avete trovato?!» domandò Ian e si sentiva impazzire per l'angoscia.«Lungo le scale più su, quasi in cima» gli risposero. «Era nascosto dal buio. Se non ci

avesse chiamati, non l'avremmo mai trovato».«C'era qualcun altro con lui?» domandò ancora Ian.«No, signore e lassù non c'è altra uscita, se non attraverso la stanza degli argani».Ian guardò in alto verso le scale e contemporaneamente invocò il cielo. Non può

essere vero! pensò disperato, mentre un timore orribile lo afferrava dentro come una morsa.

«... milord...» Hector aveva socchiuso gli occhi al suono della sua voce.Ian si chinò su di lui. «Dov'è finito Daniel?!»«... era... nella stanza degli argani... non so altro...» rantolò il fiammingo.Ian oltrepassò gli uomini per correre su perle scale.Lo accolse una visione d'inferno. Arrivato a un pianerottolo della scala, vide uno

stanzone completamente annerito e pieno di fumo, in cui gli uomini si affannavano a gettare secchi d'acqua. Le fiamme serpeggiavano ancora ovunque, sul soffitto e su oggetti ormai irriconoscibili. Dall'alto pendevano catene robuste ma inutili, perché sorreggevano solo monconi di trave e ferri coperti di cenere. Gli argani erano distrutti, con gli ingranaggi ridotti a ruote incandescenti, e cedettero in quel preciso istante. Le catene si srotolarono verso il basso con violenza e ricaddero in un mucchio disordinato sopra i detriti che bloccavano le aperture nel pavimento.

Sollevarono una nuvola di scintille e di fumo. Lo sguardo di Ian però era stato inesorabilmente attirato da alcune forme agghiaccianti sul pavimento. Fagotti di vestiti

in cenere, avvolti su corpi umani carbonizzati.«No! NO!» urlò Ian con orrore. Si sarebbe slanciato dentro la stanza, se gli uomini

con i secchi non avessero tentato di fermarlo. «Signore, siete impazzito?! Brucerete anche voi!»

Ian si liberò con furia. «Lasciatemi!» esclamò, ma fu afferrato da qualcuno più robusto degli altri e trascinato indietro dal fuoco con la forza.

«Jean! Calmati!» gli gridò Sancerre.«C'è Daniel là dentro!» Ian era sconvolto. «Lasciami andare!»«Calmati! È troppo tardi!»«NO!»«Là dentro ci sono solo corpi morti, Jean!»Ian smise di lottare, annientato da quella verità. Non è vero! Non è possibile!

continuava a ripetersi, ma non riusciva a emettere più un solo suono. Si trovò gli occhi annebbiati dalle lacrime e non era colpa del fumo denso.

Sancerre lo costrinse a indietreggiare ancora, lo tenne stretto finché non fu certo che non si sarebbe più ribellato, poi allentò la presa per tenergli solo le mani sulle spalle. «Mi dispiace» mormorò.

Ian non ebbe la forza di rispondergli. Rimase a fissare il fuoco, gli uomini che continuavano ad affannarsi a gettare secchi d'acqua, le nuvole di vapore che salivano sfrigolando verso il soffitto... e quei cadaveri bruciati, contratti sul pavimento, devastati dalle fiamme. Non avevano nemmeno più un aspetto umano, erano solo forme nere e rigide.

Se Daniel era tra loro, Ian non l'avrebbe mai riconosciuto. No, Daniel non è uno di quei cadaveri! pensò il giovane, rifiutandosi disperatamente di accettare un'idea tanto atroce.

Ma il fatto rimaneva: Daniel non si trovava da nessuna parte, nessuno l'aveva più visto da quando si era diretto alla stanza degli argani, quella stessa stanza che ora bruciava fino all'ultima pietra.

Ian chiuse gli occhi, incapace di guardare oltre.«Vieni via da qui» gli disse Sancerre.Ian si lasciò condurre verso il cortile, senza più opporre resistenza, completamente

stordito.Era stato tutto inutile. Era tutto imito.Le battaglie, l'assedio, le trattative sul filo del rasoio, i pericoli corsi a ogni passo, a

cosa erano serviti?Daniel aveva perso la vita in quell'avventura assurda perché Ian ve l'aveva trascinato

dentro e poi non aveva saputo salvarlo.È colpa mia... tutta colpa mia... si accusò il giovane ancora e ancora.Pensò alla famiglia Freeland, che avrebbe atteso invano il ritorno di un figlio

scomparso nel nulla. Immaginò lo strazio di John e Sylvia e quello di Martin e Jodie, gli unici a sapere la verità su Hyperversum.

Non aveva più alcun modo di comunicare con loro, non poteva spiegare loro l'accaduto. La partita di Hyperversum si era chiusa con la scomparsa di Daniel. Non c'era più modo di tornare indietro.

Ma se anche avesse potuto comunicare... con che coraggio avrebbe dato una notizia simile alla famiglia che aveva fatto tanto per lui?

Daniel è morto. L'ho ucciso io.Ian credette d'impazzire per il dolore.Martewall gli andò incontro, quando lo vide tornare, spinto da Sancerre. «Hector mi

ha accennato cos'è successo. Avete ritrovato sir Daniel?»Ian lo guardò senza nemmeno saper rispondere. Scosse la testa.«C'erano solo cadaveri nel fuoco» spiegò Sancerre, in francese, intuendo dal tono la

domanda del barone.Martewall tacque, impressionato.Leowynn, dietro di lui, aveva assistito alla scena da poca distanza e si portò le mani

alla bocca, quando capì l'accaduto.Arrivò anche Coda di volpe, poiché aveva visto da lontano Ian camminare come se

fosse in difficoltà. «Che cosa succede?» domandò allarmato, afferrando il giovane per la livrea.

Martewall lo prese in disparte, ma senza durezza. Il ragazzo dovette rinunciare a chiedere e rimase a guardare ora uno ora l'altro cavaliere, con grande preoccupazione.

Ian si allontanò da loro, con l'improvvisa necessità di stare da solo, ma non era facile in quel cortile pieno di uomini che aspettavano ordini da lui. Finse di ascoltare ancora altri ufficiali che gli riferivano notizie sparse sulla situazione del maniero, poi però si trovò davanti Bull, che si stava trascinando dietro, quasi per la collottola, un uomo legato, con addosso la divisa rossa dei mercenari.

«Che cos'è questa storia?» domandò l'ex-soldato a bruciapelo. «Questo pazzo sostiene che un cavaliere straniero è scomparso tra le fiamme! Parla del tuo amico?»

Ian impiegò qualche istante per rispondere, poi si passò le mani sul viso. «Sì» ammise in un soffio e desiderando nel contempo di non doverne parlare. «In mezzo all'incendio... era pieno di cadaveri». Chiuse gli occhi, come se così facendo potesse togliersi dalla testa quella scena orribile, quelle forme nere.

«No!» gemette il mercenario e la sua voce tradiva un sincero terrore. «Voi non capite! Quell'uomo... non è morto! È ancora vivo! È scomparso davvero! Nel niente! Era un diavolo! È scomparso in mezzo al fuoco senza lasciare traccia!»

Ian si bloccò di colpo. «Che... cosa..?»«Ti avevo detto che era un pazzo furioso» brontolò Bull e scosse la testa. «Mi

dispiace tanto per il tuo amico. Era un brav'uomo. Non doveva finire così».Ian lo ascoltò con un orecchio solo. Aveva il cuore in gola. «Voglio sentire cos'ha da

dire costui».Il mercenario si appellava a lui, sconvolto dalla paura. «È la verità, signore, ve lo

giuro!» Si sarebbe proteso verso il cavaliere, se Bull non l'avesse tenuto a rispettosa distanza. «L'ho visto io e l'ho udito recitare stregonerie! Ha fatto comparire nella mano una mela di fuoco con strani segni. L'ha toccata ed è sparito nel nulla!»

«Una mela?» ripeté Ian e, mentre lo diceva, capì.Un'icona di Hyperversum.Si sentì mancare il respiro.Il mercenario non poteva sapere, non poteva capire. Per lui non poteva essere altro

che stregoneria...Ma non può essersi inventato Hyperversum e le sue icone! Non può aver immaginato

una cosa simile e con tale precisione! Deve aver visto per forza ciò che dice di aver visto! si disse Ian.

«Sì, una mela!» stava intanto insistendo il prigioniero. «Una mela rossa come quella del serpente tentatore!»

L'icona dell'uscita di emergenza, capì Ian e il sollievo, insperato, lo invase, sostituendosi all'angoscia di poco prima.

Daniel è salvo! È a casa! pensò e ringraziò il cielo con tutta l'anima.Si asciugò gli occhi con un gesto nervoso, prima che le lacrime scendessero davvero

sulle guance, evidenti a tutti.«Non dare ascolto alle farneticazioni di costui» disse Bull e strattonò indietro il

prigioniero per zittirlo. «Capisco che tu volessi sentirti dire che il tuo amico era ancora vivo, ma questo tizio è matto e si inventa cose senza senso».

Ian annuì, lottando per non far trapelare i suoi veri sentimenti. «Sì, sono solo follie» disse piano. «Portalo via, ti prego». «Signore, è la verità!» implorò il mercenario.

«E basta, tu!» lo zittì Bull e lo spinse verso gli altri prigionieri che i soldati stavano portando via dal cortile.

Ian fece qualche passo senza meta, per calmarsi.«Fatti coraggio. È dura perdere un compagno d'armi, io lo so bene» gli disse Bull

interpretando erroneamente il suo turbamento.Ian guardò il cielo terso e non rispose, cercando di mandare giù il nodo che gli

stringeva la gola per l'emozione.L'ho perso, ma è vivo, si disse. È vivo.

Capitolo 43Qualcuno lo stava strattonando con forza. Daniel impiegò alcuni istanti a riconoscere

la voce angosciata di Martin attraverso le cuffie del visore. Si riscosse di colpo, con tutti i sensi in allarme. Si liberò il viso in fretta, si strappò i guanti in fibra ottica dalle mani, balzò in piedi di scatto. Fece quasi ribaltare la sedia imbottita. Si guardò addosso e vide che la maglietta era intatta. Si tastò il torace e non trovò ferite. Era incolume, anche se sentiva il dolore dei lividi e delle contusioni sulle costole, sotto gli abiti.

Era nella sua camera da letto.Le frecce dei mercenari non l'avevano raggiunto davvero. Hyperversum l'aveva

portato via prima.«Daniel!» lo chiamò Martin, tornando ad afferrargli le spalle. «Grazie al cielo sei

tornato!» Aveva gli occhi spalancati per il terrore e la voce che tremava.Daniel aveva il respiro affannoso e i pensieri completamente frastornati. Guardò il

fratello quindicenne, che ormai lo uguagliava in statura, e dovette convincersi di averlo davvero davanti, poi riportò la sua attenzione sullo schermo del computer in cui troneggiava la scritta:

«Dio mio... che esperienza!» stava balbettando Martin. «Sei ricomparso... dal niente! Prima eri nello schermo... e poi qui!»

Daniel non sapeva cosa dire né cosa pensare. La camera da letto gli sembrò irreale nella sua tranquillità, con il letto rifatto, il comodino ingombro di libri, la luce accesa, le tende tirate sul giardino ormai immerso nella penombra del tramonto. Dalle finestre arrivava solo il rumore di qualche rara automobile di passaggio.

Una voce, fuori lungo le scale, fece sobbalzare entrambi i fratelli.«Martin? Cosa sta succedendo là sopra?» domandò Sylvia Freeland dal piano di sotto,

oltre la porta chiusa della stanza.«Niente, mamma! Sto giocando con i videogiochi di Daniel!» urlò Martin in risposta.«Tieni il volume più basso, allora. Non è il caso di fare tanto rumore».«Sì, mamma».I due fratelli si guardarono col fiato sospeso, temendo di udire i passi della madre

salire le scale, ma tutto rimase in silenzio e nessuno venne ad aprire la porta.«... che... giorno è oggi?» domandò infine Daniel, in un soffio, ritrovando la voce.«Sabato sera» gli rispose il fratello.Daniel cercò di ricollegare tempi e date. «Sabato sera?» ripeté, incredulo, ma Martin

lo scosse con un'altra domanda angosciata: «Dov'è Ian? Cosa gli è successo?».Daniel sobbalzò come se fosse stato colpito da una scarica elettrica. Guardò accanto a

sé e vide la poltrona su cui Ian si era seduto per giocare: era vuota. Il visore e i guanti erano a terra li davanti, ancora collegati al computer.

Daniel corse alla scrivania. Prese la sedia, si sedette, tirò a sé la tastiera. «Andiamo, riparti!» esortò mentre digitava i comandi per uscire dalla schermata del game over. Hyperversum ripartì dall'inizio, con il filmato ricco di effetti speciali che ne costituiva la

sigla.Mentre Martin si appostava ansiosamente alle sue spalle, Daniel fece proseguire il

videogioco saltando l'introduzione animata, arrivò al menu principale, cercò tra le voci luminose sullo sfondo scuro.

Daniel selezionò "riprendi partita", col cuore in gola.Il computer lanciò una musichetta e lasciò apparire una semplice scritta:

«No!» esclamò Daniel con rabbia, picchiando un pugno sulla tastiera. «Maledetto gioco schifoso!»

«Così lo rompi!» gemette Martin.Daniel non lo ascoltò. Tentò tutti i comandi che conosceva, poi dovette arrendersi

all'evidenza: la partita iniziata con Ian era stata terminata dal game over. Non ne era rimasta traccia nel sistema, se non la statistica del punteggio.

Ma perché?! Il mio personaggio è stato ucciso, quello di Ian no! Perché la partita è finita quando un personaggio era ancora in gioco?! pensò Daniel. E poi ho diritto a tre vite! Ne ho usata soltanto una!

«Perché fai sempre quello che ti pare?!» accusò rivolto al videogioco, mentre digitava invano altri comandi.

Disperato, tentò di iniziare una nuova partita. Con la consueta melodia di sottofondo, Hyperversum fece apparire la schermata delle impostazioni generiche iniziali:

Daniel ebbe un'esclamazione di frustrazione e si fermò con la testa tra le mani.Era tutto finito, tutto perduto. La partita si era chiusa e non era più possibile

ricominciarla. Hyperversum gli proponeva di iniziare una partita nuova completamente da capo, una delle mille partite che Daniel aveva sempre giocato da solo senza successo.

Certo, era rimasto il CD su cui Ian aveva salvato i parametri della partita, ma Daniel era sicuro che, anche usando quei dati per iniziare un nuovo gioco, non sarebbe riuscito nell'intento. Non aveva mai funzionato senza Ian. Non aveva alcuna speranza.

«Daniel, dov'è Ian?» domandò Martin, ora sottovoce.Il fratello maggiore impiegò qualche istante prima di rispondergli.Quanto aveva temuto di dover dire quelle parole... e ora doveva farlo davvero.«È rimasto di là. Questa volta per sempre».Martin andò a prendere la poltrona in silenzio, la spostò accanto alla sedia imbottita di

Daniel e si sedette senza una parola.Per lungo tempo nessuno dei due parlò.

«Perché siete già qui, se è solo sabato sera?» domandò Daniel alla fine, con voce atona. «Non c'era la tua partita in trasferta oggi pomeriggio? Non dovevate restare via fino a domenica?»

«È stata annullata per maltempo, così siamo tornati subito indietro» spiegò Martin. «Mamma è venuta qui dentro e ha trovato il computer acceso e la stanza vuota. Ha pensato che tu fossi uscito dimenticandoti del gioco e ha spento tutto. Io me ne sono accorto soltanto un quarto d'ora fa».

Ecco perché tutto d'un tratto Hyperversum non mi rispondeva più, pensò Daniel, sempre con la testa tra le mani.

«Mi sono spaventato a morte» continuò Martin, ancora scosso. «Credevo che non sarei più riuscito a far ripartire il gioco. Temevo che, quando mamma ha spento tutto, avesse chiuso per sempre il passaggio». Si passò tutte due le mani sul viso. «Ho avuto paura che tu non riuscissi più a tornare...»

Daniel si risollevò per abbandonarsi contro lo schienale della sedia. «Ho avuto la stessa paura anch'io, quando Hyperversum mi aveva tagliato fuori e non obbediva più ai comandi» confessò. «Come hai fatto a farlo ripartire?»

«Io ho solo riacceso il computer e il gioco ha avviato da solo la procedura automatica di ripristino. Deve aver reagito come dopo un black-out. Ho visto comparire la partita sullo schermo per qualche secondo, poi tu hai spento tutto».

«Io ho spento..?» ripeté Daniel incredulo, poi si ricordò di quando aveva annullato la connessione apertasi all'improvviso, con giorni di ritardo rispetto alle sue invocazioni disperate.

«Sì, credo che sia stato tu a chiudere tutto» proseguì Martin. «Io vedevo la scena sullo schermo in soggettiva, attraverso gli occhi deLpersonaggio giocante: c'era una scala di pietra dentro quella che sembrava una torre, il personaggio era seduto sui gradini e aveva una spada, poi ha alzato la mano libera e il gioco è andato in pausa».

«Ero io» ammise Daniel.«Che cosa ti è successo?» domandò Martin, preoccupatissimo. «Sei pieno di lividi».Daniel si guardò le braccia lasciate scoperte dalla maglietta e vide i segni violacei e le

escoriazioni dappertutto, specie sui polsi. Aveva le dita in parte scottate dal fuoco. «Devo nascondere tutto prima che mamma e papà mi vedano».

«Dobbiamo anche trovare il modo di farti rientrare a, casa senza insospettirli. Loro credono che tu sia fuori, non puoi ricomparire all'improvviso al piano di sopra, come per magia».

«Avete già cenato?»«No, papà pensava di ordinare le pizze».«Allora convincili ad andare a mangiare la pizza fuori. Tienili lontani per un paio

d'ore, io farò finta di rientrare nel frattempo».«D'accordo».Daniel fece un respiro profondo. «E poi cos'è successo? Dopo che io l'avevo fermato,

il gioco è ripartito da solo?»«Sì. Io non ho toccato niente». Martin annuì e aveva ancora gli occhi pieni di paura.

«L'hai chiamato tu, non è vero? Sul video è comparsa un'altra scena. C'era fuoco dappertutto e vedevo alcuni balestrieri pronti a tirare. Poi... non so cos'è successo... ho sentito un rumore lungo le scale, ho avuto paura che fossero mamma e papà e sono uscito a controllare... quando sono tornato, tu eri II... e il gioco era finito».

Daniel teneva gli occhi fissi sullo schermo del computer, che lampeggiava sempre in attesa di input. «Tutta questa storia è impossibile» mormorò.

Martin tacque ancora un po' e quando riprese era sull'orlo delle lacrime. «Davvero Ian non tornerà più?»

Daniel sentì una fitta atroce dentro. «È a casa, adesso. Dobbiamo essere contenti per lui».

Il fratello minore crollò la testa, poi però si alzò dalla sedia.«Vado a convincere mamma e papà a portarmi a mangiare fuori» disse, andando

mestamente verso la porta. «Posso tornare a farmi raccontare tutto più tardi? O preferisci stare solo?»

«Ti aspetto» disse Daniel, allungando una pacca sul fianco del fratello mentre Martin gli passava accanto. «Facciamoci forza» concluse, piano. «Sapevamo che sarebbe successo. Dovevamo essere preparati».

Martin uscì in silenzio e si chiuse accuratamente la porta alle spalle.Daniel rimase immobile per qualche attimo, fissando il logo di Hyperversum. Non

credere di averla avuta vinta, pensò con rancore all'indirizzo del gioco. Non mi arrenderò così facilmente, dovessi anche giocare fino a perderci gli occhi!

Ma il gioco continuava a ripetere la sua melodia allegra, come se volesse prenderlo in giro, e il giovane si sentì di nuovo sconfortato. Ma che cosa credo di fare? Ci ho già provato mille volte da solo e non ha mai funzionato, si disse amaramente.

Affranto, si alzò a spegnere la luce e il video del computer per non far trapelare nemmeno un bagliore che tradisse la sua presenza. Nella stanza rimase solo il buio, appena rischiarato dai riflessi dei lampioni già accesi nella strada attraverso le tende leggere della finestra.

Daniel si sedette sul letto a pensare. Non aveva la forza di fare altro. Si sentiva completamente svuotato.

Non sono nemmeno riuscito a dirgli addio, si ripeté più e più volte. Poi fu assalito di colpo dai ricordi dell'avventura spaventosa appena conclusa.

Aveva rischiato la vita, aveva combattuto e sofferto, aveva avuto paura, aveva ucciso...

Aveva perso un amico per sempre.La marea dei sentimenti lo travolse con violenza e per poco non lo stordì.Daniel sentì l'istinto prepotente di gridare con quanto fiato aveva in gola per liberarsi

di quella tensione insopportabile che minacciava di farlo esplodere da dentro.Si dominò con tutte le forze, ma sentì il suo bisogno di sfogo trasformarsi in pianto e

salirgli agli occhi di prepotenza.Meccanicamente cercò il cellulare sul comodino. Lo trovò, lo accese, azionò i tasti

della chiamata rapida quasi senza guardare, perché la vista era così annebbiata da rendere difficilmente distinguibili i pulsanti luminosi tra le lacrime.

Il telefono squillò per qualche istante, poi nel microfono risuonò la voce ansiosa cali Jodie. «Daniel?»

Quella voce riempì il giovane di conforto, come nemmeno la presenza di Martin era riuscita a fare.

Daniel sentì le lacrime scendere sulle guance senza poterle più fermare.Era a casa. Jodie era là, a portata di voce. Presto avrebbe potuto riabbracciarla di

nuovo.

«Ho bisogno di vederti» sussurrò al telefono.

Capitolo 44Enguerrand de Vitry entrò in Dunchester a battaglia finita, scortando insieme ad

alcuni soldati William di Salisbury e i suoi cavalieri tenuti in ostaggio. Il conte inglese era stato disarmato e non aveva un'espressione contenta mentre attraversava a cavallo le cinte di mura, passando in rassegna con lo sguardo i risultati della battaglia, i caduti, i feriti e soprattutto i suoi uomini resi inermi e legati, prigionieri dei Francesi.

Ian andò incontro al gruppo in arrivo nel cortile, a piedi insieme a Martewall e Sancerre.

Vitry fece cenno ai suoi soldati di condurre via sir Gorvenal é il suo compagno Lionel, per lasciare solo Salisbury sotto la sua personale custodia.

«Messieurs, i miei complimenti per una vittoria tanto bella» disse l'ambasciatore di Francia a Ian e agli altri due cavalieri, quando i soldati si furono allontanati con gli ostaggi. «Sua Altezza il Delfino vi sarà riconoscente e saprà onorarvi come meritate».

«Siete troppo buono, signore» rispose Ian, stanco.«Abbiamo avuto ugualmente delle perdite, speriamo che ne sia valsa la pena» disse

Sancerre dopo di lui e aveva un'espressione molto cupa, insolita sul suo volto di solito così gioviale.

Martewall non disse niente. Chinò semplicemente lo sguardo a terra, in silenzio.Salisbury notò il contegno dei due cavalieri accanto a Ian e il modo con cui entrambi

lo guardavano, mesti. «È successo qualcosa al vostro compagno d'armi?» indovinò, allarmato.

Ian annuì. «È scomparso nell'incendio che ha distrutto il cancello fortificato» rispose e, anche se quelle parole significavano per lui qualcosa di diverso rispetto a ciò che gli altri avrebbero creduto, gli fecero male allo stesso modo.

Daniel adesso era al di là di una barriera invalicabile. Per Ian era come se fosse morto davvero. Separati per sempre, non si sarebbero rivisti mai più.

Non ho potuto salutarlo un'ultima volta, pensò Ian, ma la consapevolezza che l'amico fosse almeno in salvo gli diede la forza di sopportare il dolore.

Salisbury era impallidito. «Ma come è stato possibile?» domandò. «Io l'avevo lasciato al sicuro con gli altri cavalieri! Erano prigionieri, ma nessuno avrebbe fatto loro del male».

«C'è stata un'evasione dalle segrete» spiegò Ian. «Non conosco ancora la dinamica esatta, ma Daniel era con loro. Gli evasi hanno attaccato il castello dall'interno per dare a noi la possibilità di entrare con minori perdite».

Salisbury tacque, intuendo il resto. «Mi rammarico di una tale perdita. Era un uomo di valore» disse con sincerità.

«Sì, lo era» rispose Ian. «E per me era come un fratello».«L'abbiamo vendicato conquistando questo castello» tentò di consolarlo Sancerre. «È

ciò che lui avrebbe voluto. Ciò per cui ha dato la vita».«Ha rischiato tutto per me, per aiutarmi» lo corresse Ian. «Non gli sarò mai grato

abbastanza per la sua amicizia».Seguì un breve silenzio, nel quale ciascuno meditava chiuso nei suoi pensieri, poi però

Vitry riprese la parola.«Sir Martewall, il castello ora è di nuovo vostro, spero che vorrete onorare gli accordi

e consentire alle nostre navi di approdare qui senza difficoltà».

Geoffrey Martewall sollevò il mento con fierezza. «Il vostro principe mi ha dato l'aiuto necessario per togliere la mia casa dalle mani degli assassini di mio padre. Avrà il mio appoggio in cambio, come ho promesso».

«Allora una guarnigione di nostri uomini rimarrà con me nei prossimi giorni e vi sarà di ulteriore aiuto nel riportare l'ordine nel vostro feudo e difenderlo. Io vi chiederò ospitalità finché non avrò definito con lord Salisbury tutte le risposte che il mio principe attende, poi ripartirò appena le trattative saranno concluse».

«Sarò onorato di ospitarvi, signore».«Dovrete ospitare anche me, anche se immagino di dovermi rassegnare a un

soggiorno nelle segrete» intervenne Salisbury. «In quanto ostaggio non potete lasciarmi andare senza riscatto. Spero però almeno che lascerete liberi i miei uomini. A parte sir Gorvenal e sir Lionel, gli altri non conoscono il mio accordo con voi e troverei ingiusto che dovessero subire la prigionia, quando il loro comandante è alleato col nemico».

«Se sir Martewall è d'accordo, io proporrei di tenere qui soltanto voi e i vostri due cavalieri fidati e chiedere un riscatto direttamente al vostro re» replicò Vitry. «Dunchester non avrebbe comunque le risorse per trattenere e sfamare tanti prigionieri e perciò nessuno si insospettirà se lasciamo andare i soldati semplici di tutte le formazioni. Terremo qui solo gli ufficiali e gli uomini necessari ai lavori di ricostruzione, mentre chiederemo riscatti per il comandante mercenario, gli ufficiali e i cavalieri tenuti in ostaggio. Ci vorranno giorni prima di concludere le trattative e così noi avremo tutto il tempo di discutere gli altri argomenti in privato e voi di pensare con comodo alle spiegazioni da dare al vostro re quando tornerete libero. Poi noi due ci lasceremo, come se non ci fossimo mai incontrati, mentre il denaro dei riscatti servirà a pagare almeno in parte i danni subiti da Dunchester».

«Allora dovrete chiederli alti, i riscatti, con un disastro del genere» commentò Sancerre.

«Non temete che chiedere al re un riscatto per lord Salisbury scateni la ritorsione di Giovanni Senza Terra su Dunchester?» si preoccupò Ian.

«Credo che avrà altro a cui pensare molto presto» lo tranquillizzò Vitry. «Mentre la battaglia era in corso, una staffetta è venuta ad annunciare che sir Robert Fitz-Walter, signore di Woodham, è ormai a breve distanza da qui. Arriverà al tramonto. Porta con sé molti uomini, ma soprattutto i rappresentanti degli altri feudatari. Vengono per discutere la strategia da tenere contro il loro re».

E presto attaccheranno, sapendo di avere alleati potenti oltremanica, concluse Ian mentalmente. La rivolta è iniziata

e porterà il principe Luigi a togliere la corona a Giovanni Senza Terra. Respirò a fondo, conscio di essere ancora una volta testimone di un momento importante della Storia che nemmeno l'intrusione di Hyperversum era riuscita a cambiare.

«Finalmente si sono decisi» aveva intanto commentato Martewall, alla notizia dell'arrivo degli altri baroni.

«Cercate di non far scoppiare una guerra prima di aver ottenuto il riscatto dal re o non lo vedrete mai più» aggiunse Sancerre con sarcasmo.

«Mi farò risarcire da Nigel Murrow» replicò Martewall, deciso, e alzò gli occhi verso Salisbury. «Milord, io intendo esercitare i miei diritti di guerra su sir Murrow e il suo feudo di Glenhaven. Il mio vicino ha contribuito allo scempio della mia casa, ora pretendo che ripaghi il danno che ha causato volontariamente».

«Che volete farne di lui? » domandò Salisbury, accigliandosi.«Lo terrò prigioniero, ma non gli sarà fatto alcun male» replicò Martewall e gettò

un'occhiata in tralice a Ian. «Qualcuno mi ha fatto capire che è solo un ragazzino e quindi non subirà la mia vendetta sulla sua pelle, anche se lo meriterebbe. Vedremo quanto potrà pagarmi di riscatto, con le terre del suo feudo se non riuscirà con il suo denaro».

Salisbury annuì. «Così è accettabile».«Messieurs, credo che per voi sia ora di lasciare le armi e finalmente riposare» esortò

Vitry. «Siete stanchi ed è stata una giornata dura. Avremo tempo di fare il punto della situazione con calma e credo che ci riusciremo meglio davanti a qualcosa da bere».

«Senza dubbio» convenne Sancerre e anche Ian si rese conto all'improvviso di avere la gola riarsa. Sì, qualsiasi cosa da bere sarebbe stata davvero una manna dal cielo.

«Quello che posso, ve lo metterò volentieri a disposizione» disse Martewall. «Seguitemi alla sala grande, farò gli onori di casa».

Vitry e Salisbury lo precedettero a cavallo verso il centro del cortile, dove lasciarono i destrieri in custodia ai soldati.

Ian, Martewall e Sancerre s'incamminarono dietro ai due, fianco a fianco.Il cortile cominciava finalmente a quietarsi. Molti prigionieri erano già stati condotti

via, nelle segrete oppure nelle baracche della corte esterna. Si curavano i feriti, si portava loro almeno da bere e si fasciavano provvisoriamente le lesioni e i tagli in attesa che qualcuno più esperto potesse venire a curarli. Ian vide Leowynn darsi da fare più che poteva in mezzo a loro: aveva reclutato tre aiutanti, tra i quali Coda di volpe, e si faceva procurare da loro l'acqua e le bende di cui aveva bisogno.

Ian alzò gli occhi sulle torri per vedere che gli uomini stavano già ammainando prontamente gli stendardi nemici per inalberare di nuovo quelli neri con il leone d'oro dei Martewall. Sulle mura si organizzavano nuove sentinelle per sorvegliare il panorama circostante. Presto ci sarebbe stato bisogno di esploratori che battessero tutto il territorio del feudo per individuare eventuali nemici in arrivo, di turni di guardia più efficaci intorno al castello, vulnerabile perché ormai privo di cancelli, e anche di maggiore sorveglianza al porto, senza contare i pattugliamenti nelle nuove terre che Dunchester avrebbe probabilmente incluso presto nei suoi confini.

«Occorreranno più uomini» osservò Ian, rivolto a Martewall. «Oltre a rimpiazzare i caduti, ti serviranno altri soldati per controllare un territorio più ampio».

Il barone annuì. «Sì, dovrò arruolare uomini e trovare soprattutto nuovi ufficiali. Abbiamo avuto molte perdite e mi servirà gente fidata, almeno nei posti chiave al porto e al castello. Il problema sarà trovare gli uomini adatti in breve tempo».

Ian guardò avanti, in mezzo a tutti quelli che si affaccendavano nel cortile. «Se ti serve un buon capo della guardia, potrei consigliarti un ottimo candidato» disse, osservando in modo specifico una figura robusta tra le altre.

Ignaro di essere chiamato in causa, Thomas Bull vide Ian da lontano e lo salutò con un cenno della testa.

***

Arrivò finalmente il tramonto di quella giornata lunghissima e ancora una volta truppe di armati si profilarono all'orizzonte di Dunchester.

L'allarme però non risuonò tra le mura e le torri del castello, perché quelle truppe erano attese e inalberavano vessilli d'oro con due scaglioni e una banda rossa: lo stemma di sir Robert Fitz-Walter.

Gli alleati erano finalmente giunti.Erano in tanti, forse un migliaio di armati e facevano impressione, divisi in gruppi di

colori diversi e preceduti da altrettanti stendardi nobili.Ian non conosceva quei blasoni né gli dicevano qualcosa i nomi dei baroni che sentì

elencare mentre si trovava sulle mura con Vitry, Salisbury e Sancerre. Non era esperto della rivolta inglese quanto lo era diventato invece della battaglia di Bouvines grazie ai suoi passati studi per il dottorato, ma William Lunga-Spada era sinceramente impressionato mentre annunciava a Vitry nomi e casati uno alla volta, man mano che ne riconosceva gli stemmi, e perciò l'americano dovette dedurre che tra i futuri ribelli vi erano uomini importanti della nobiltà inglese.

L'armata di Fitz-Walter rallentò a breve distanza da Dunchester, quando vide che l'assedio era ormai finito e che gli stendardi neri sventolavano di nuovo sulle torri.

Adesso devono venire a patti con i Francesi, pensò Ian e sapeva che il Delfino si sarebbe rallegrato per essere riuscito a stendere la sua mano sulla rivolta dei baroni, prima ancora che questa avesse inizio.

Lasciò gli altri a discutere la scena e le prospettive per il futuro e andò a cercare Martewall, che si era separato dal gruppo già da un po', per accertarsi dei danni del suo castello.

Presto da quelle truppe in arrivo si sarebbero staccati gli ambasciatori per venire a presentarsi al padrone di casa e la presenza di Martewall sarebbe stata richiesta nel cortile.

Ian trovò l'inglese vicino alla struttura annerita del cancello fortificato.Il fuoco era spento. Mentre gli uomini erano al lavoro per sgomberare i detriti e la

cenere, Martewall osservava in silenzio lo scempio fatto dalle fiamme.«Fitz-Walter sta arrivando» annunciò Ian, raggiungendolo. «Lo so. Ho visto le truppe

dai bastioni». replicò Martewall, ma non accennò a muoversi da dov'era.Ian rimase accanto a lui a guardare le rovine del cancello per alcuni minuti.«Mi dispiace per il tuo amico. Non avrei mai voluto che andasse a finire così» disse

infine l'inglese, alzando gli occhi sulla colonna di fumo che ancora saliva dalle finestre delle stanze in cui Daniel aveva appiccato l'incendio.

«Nemmeno io» rispose Ian piano e nel cuore sentì ravvivarsi quel dolore forte, mescolato al senso di vuoto e di perdita.

«Potrebbe essere riuscito a fuggire. Forse si è salvato» buttò li Martewall, vedendolo l'altro tacere tristemente. «I corpi nella sala degli argani sono irriconoscibili e il racconto di quel mercenario prigioniero è delirante. Chissà cos'ha creduto di vedere in mezzo al fumo e alle fiamme. Farò cercare sir Daniel ovunque. Forse è semplicemente ricoverato da qualche parte tra i feriti e gli ustionati».

«Me lo auguro, ma non mi illudo» rispose Ian. «Non lo rivedrò più».Martewall dovette annuire. «Purtroppo, è molto probabile. Pregherò per lui».«Ti ringrazio».Ci fu di nuovo silenzio.«Che farai adesso?» domandò Ian alla fine.Martewall accennò alla direzione da cui arrivavano gli alleati: «Continuerò a

combattere. È quello che mio padre si sarebbe aspettato da me» rispose. «Siamo appena all'inizio. Ci sarà una guerra e io sarò con i ribelli contro re Giovanni. Costi quello che costi, farò ciò che mio padre avrebbe fatto al posto mio».

«Avrete successo, io ne sono sicuro» replicò Ian. «Con la vostra determinazione e l'appoggio del principe Luigi otterrete risultati che nemmeno immaginate».

«Lo spero, ma accetterò quello che mi porterà il futuro» rispose Martewall, semplicemente.

Già, il futuro, pensò Ian. Riserva sempre delle sorprese anche quando pensi di conoscerlo.

«Tu quando ripartirai?» gli domandò l'inglese.«Appena possibile. Domani, se riesco» rispose Ian. «Questa non è la mia guerra e io

manco da casa da troppo tempo». Abbassò il tono di voce con emozione, quando aggiunse: «Voglio vedere nascere mio figlio».

Martewall annuì. «Quando tutto questo finirà, se sarò ancora vivo, forse ci rivedremo».

Ian lo sbirciò. «Spero non per regolare i vecchi conti».«Conti? No. Io non ho più nulla da regolare con te». Lo sguardo chiaro di Martewall

non aveva nemmeno un'ombra, mentre il cavaliere pronunciava quelle parole. «Jerome è morto e io ho fatto tutto ciò che mi è stato possibile per onorare la mia amicizia con lui, anche andando al di là del buonsenso. Adesso devo lasciarmi alle spalle la sua ossessione e pensare solo al bene della mia gente».

Ian si sentì enormemente sollevato e Martewall forse lo notò perché aggiunse: «Comunque non sono convinto che tu sia davvero Jean Marc de Ponthieu. Ti ho osservato, ho notato dettagli, anche nei rapporti tra te e tuo fratello, e devo dire che ciò che Jerome insinuava non è poi tanto inverosimile, perché se c'è qualcuno al mondo in grado di architettare una simile commedia, quelli siete voi due, ne sono più che certo».

Tacque ancora, indagando l'altro giovane con gli occhi, ma poi concluse: «Questo però non m'importa più. Per quanto mi riguarda, io ho imparato a conoscere il Falco d'argento, cavaliere, uomo d'onore e di coraggio, e a lui vanno la mia riconoscenza e la mia lealtà. Poco importa quale sia il suo vero nome di battesimo».

Ian rimase sorpreso da quel discorso tanto serio e inaspettato, poi però si sentì invadere da una profonda soddisfazione. «Anch'io ho conosciuto nel Leone di Dunchester un cavaliere e un uomo d'onore. Qualsiasi cosa ci riservi il futuro, avrai la mia stima e. spero che un giorno tu voglia accettare anche la mia amicizia».

«Amicizia...» ripeté Martewall, pensoso. «Chi l'avrebbe mai immaginato solo due settimane fa?»

«Il nemico del mio nemico è mio amico» ricordò Ian. «Pare sia proprio vero» convenne Martewall.

Capitolo 45Il viaggio di ritorno durò sei giorni, passando per Dunkerque. Dopo aver di nuovo

varcato la Manica e portato a Ponthieu la notizia del buon esito della missione, Ian non indugiò nemmeno un minuto prima di organizzare la sua nuova partenza e in quattro giorni di cammino attraverso boschi e campagne rivide finalmente all'orizzonte le torri chiare di Chàtel-Argent, ornate di stendardi.

Erano bianche e azzurre quelle bandiere, portavano i colori del Falco d'argento e garrivano nel cielo come per dare il benvenuto ai viaggiatori in arrivo. Tutto intorno i boschi e i prati erano così netti sullo sfondo del cielo invernale da sembrare dipinti.

A quella vista Ian non sentì più la stanchezza del lungo viaggio a cavallo. Non sentiva nemmeno più il freddo che si faceva strada attraverso il mantello di lana. Raddrizzò le spalle e la schiena, strinse le briglie con più determinazione. Avrebbe anche spronato il cavallo al galoppo, se avesse potuto.

«Dove vai?» lo frenò invece Ponthieu immediatamente. «Cerca di avere un po' di pazienza e mantieni il contegno. Non sta bene che il padrone di casa si precipiti alla porta come un ragazzino in ritardo per la cena».

Che m'importa? C'è Isabeau ad aspettarmi là dentro! pensò Ian d'istinto, ma lo tenne per sé e cercò di accontentare il conte per quanto poté. Si accorse solo dopo qualche istante che Ponthieu aveva un sorrisetto astuto sulle labbra.

«Tu lo fai apposta, perché godi nel vedermi sulle spine» brontolò Ian.Il conte scrollò le spalle, mentre guardava avanti, guidando con mano sicura il suo

palafreno. «Il minimo che ti meriti, per averci fatto preoccupare tanto, è sudarti fino all'ultimo passo il viaggio di ritorno».

Ian fece per protestare, ma Ponthieu continuò: «E poi devi fare gli onori di casa e scortare fino alla soglia i tuoi ospiti. Non vorrai lasciarli a metà strada per correre avanti da solo».

La seconda obiezione fu più convincente e Ian si rassegnò a proseguire il cammino con il passo lento della carovana che lo seguiva. Era un piccolo gruppo per la verità, appena una decina di soldati di scorta, lo scudiero di Ponthieu e due servi, che però guidavano rispettivamente un carretto su cui erano caricati i bagagli e un carro coperto. Era quest'ultimo a rallentare il cammino, ma Ian sapeva di non poter chiedere agli uomini di accelerare perché sul carro viaggiava Brianna, non ancora rimessa dalla ferita al fianco.

Girandosi indietro, Ian vide Coda di volpe seduto sul carro al fianco del servo che lo guidava. Rallentò ulteriormente il passo per farsi raggiungere, poiché notò che il ragazzino aveva la bocca aperta per l'assoluta meraviglia.

«È quella la vostra casa?» domandò infatti Coda di volpe, appena il cavaliere gli arrivò a portata di voce. «È un castello magnifico. È tutto diverso dal castello di Dunchester».

«Perché sorge su una collina in mezzo alla pianura e non a picco sul mare. Per questo ha le mura concentriche e un torrione nel mezzo». Ian buttò il discorso sull'argomento architettonico perché non voleva far vedere quanto fosse orgoglioso lui stesso della bellezza di quel castello. Rivedendolo dopo tanto tempo, Chatel-Argent gli sembrò persino più bello di come se lo ricordava nei sogni.

Brianna nel frattempo si era affacciata per poter guardare. «È davvero splendido. Sarà

bello abitarvi per un po'».«Per tutto il tempo che vorrete» le disse Ian.«Siete buono e io non vi ringrazierò mai abbastanza per ciò che fate» replicò la

giovane. «Dimostrate davvero tanta generosità nei confronti di due poveri viandanti senza casa come noi».

«Ho avuto un buon esempio in famiglia da cui imparare» rispose Ian e rivolse un'occhiata riconoscente a Ponthieu: se non fosse stato per la sua generosità, quando Ian e gli altri amici erano solo naufraghi senza casa nel Medioevo, le cose sarebbero andate in modo molto diverso e quasi certamente sarebbero finite male.

Ponthieu udì la frase ma, signorilmente, fece finta di nulla.Ian tornò a rivolgersi a Coda di volpe. «Allora, che dici? Pensi di poter rimanere per

un po' di tempo in Francia?»Il ragazzino annuì. «Per un po', sì. Voglio imparare la vostra lingua. Voi dite che ci

riuscirò?»«Senza dubbio» sorrise Ian. «Troveremo qualcuno che ti insegni, vedrai, non sarà

difficile. L'importante è rimanere qui un numero sufficiente di mesi».Sufficiente soprattutto per lasciar trascorrere la guerra e poter ritornare in

Inghilterra solo quando la situazione sarà finalmente tranquilla, pensò in aggiunta e scambiò quel pensiero con Brianna in silenzio.

Ne avevano parlato insieme a Dunkerque, prima di partire per Chatel-Argent, e si erano messi d'accordo. Avrebbero fatto in modo che Coda di volpe rimanesse al sicuro fino a quando i baroni non avessero cessato le ostilità e deposto le armi.

Più di un anno, si disse Ian, sapendo già per certo quanto tempo sarebbe durata la guerra. Nel contempo il giovane ripensò a Martewall che si era dichiarato disponibile ad accogliere Brianna e Coda di volpe a Dunchester in qualsiasi momento avessero voluto tornare.

«Li accoglierò sempre volentieri,» aveva detto il barone «perché con entrambi sono in debito di riconoscenza».

Di qua o di là dalla Manica, avranno un luogo sicuro in cui vivere, concluse Ian e si sentì estremamente soddisfatto.

«Voi pensate che potrò anche imparare a usare la spada?» domandò ancora Coda di volpe.

«Sir Martewall ha detto che hai talento: se ne hai voglia, potesti cominciare a farti insegnare dai soldati di Chàtel-Argent» disse Ian. «Certo non saranno bravi come il tuo primo maestro, ma avrai tempo di perfezionarti con lui, se tornerai a Dunchester».

«Oh, io tornerò di sicuro. L'Inghilterra è la mia casa» disse Coda di volpe, convinto. «E tornerò per diventare un cavaliere. Come mio padre».

«Posso cominciare a chiamarti Beau, allora» sorrise Ian. Brianna si protese verso suo figlio per accarezzargli i capelli spettinati.

***

L'intero castello acclamò con gioia il ritorno del signore.Nella piccola corte, là dove lo spazio tra le due cinta di mura esterne e intermedie era

occupato dalle case e dalle botteghe del borgo, la gente accorreva a formare due ali al passaggio del piccolo drappello. I bambini salutavano gridando, gli adulti s'inchinavano

ai due fratelli Ponthieu o li salutavano da lontano, dalle finestre, con la mano o con i fazzoletti.

Nell'alta corte, i soldati e gli ufficiali alzarono le armi in alto in segno di rispetto, inneggiando il nome dei Ponthieu; il conestabile venne à porgere i suoi omaggi insieme ai cavalieri del castello.

Ian li salutò tutti, ma non riusciva a concentrarsi davvero sui loro discorsi. Con il cuore che accelerava, non pensava ad altro che al cancello che consentiva l'ingresso nel cortile ai piedi dell'altissimo torrione poligonale.

Eccola, la sua casa. Solo pochi minuti e avrebbe riabbracciato Isabeau.Oltrepassata l'alta corte e varcato l'ingresso del cortile, Ponthieu fece fermare il

gruppo, quando vide l'amministratore Hugues arrivare in fretta insieme a molti servi ad accogliere i feudatari di ritorno a casa. «Tu va' pure avanti» consigliò a Ian con un sorriso d'intesa. «Penso io a tutto il resto e poi ti raggiungerò. Va' da lei. Ti aspetta da troppo tempo».

«Grazie» disse Ian con tutto il cuore, grato di poter evitare altri convenevoli che l'avrebbero tenuto lontano ancora per interminabili minuti dalla sua meta. Balzò giù dalla sella, salutò in fretta Hugues, passandogli davanti senza nemmeno fermarsi, e salì tre gradini alla volta la scala che portava al camminamento sulle mura interne. Da II proseguì di corsa e varcò il ponte levatoio per entrare nel torrione.

Avrebbe volato, se solo avesse potuto. Attraversò l'atrio, quasisenza vedere i servi o chiunque si stesse affacciando dalle porte. «Ian!» lo chiamò

Donna, dalla prima rampa di scale.Il giovane si fermò di botto per guardare in alto.Donna gli corse incontro e gli si gettò al collo. «Ian bentornato!» esclamò, commossa.

«Che spavento abbiamo avuto! Abbiamo saputo quello che è successo, il conte ci ha informate! Temevamo che potessero farti del male!»

Ian si staccò da lei per guardarla in faccia. Questa volta era Donna a essere cambiata, poiché per lei erano trascorsi mesi da quando si erano rivisti a Saint Michel. Aveva i capelli molto più lunghi, trattenuti da trecce sottili sulle tempie, per lasciare scoperto il viso finalmente colorito. Indossava un bell'abito adorno di ricami, come si addiceva alla dama di compagnia della castellana.

«Ti trovo bene» le disse Ian. «E anch'io sto meglio, adesso. Finalmente sono a casa».Donna guardò oltre l'amico, come se si aspettasse l'arrivo di qualcuno. «Daniel?»

domandò.«E a casa anche lui» rispose Ian con commozione, ma sottovoce. «Grazie al cielo è in

salvo, anche se tutti lo credono morto. Ti racconterò. Sarà il nostro segreto».Donna annuì in silenzio, pensando.«Come sta Isabeau?» chiese Ian, trepidante.Donna gli posò una mano sul braccio per rassicurarlo. «Sta bene, nonostante tutto. La

gravidanza procede senza complicazioni e non le ha dato alcun problema». Accennò alle scale alle sue spalle. «E nella vostra camera e ti aspetta. Ti ha visto arrivare dalle finestre».

Ian sospirò di sollievo al pensiero che Isabeau fosse in salute, poi alzò gli occhi verso la sommità della scala, verso il pianerottolo e le stanze che vi si affacciavano. Adesso il cuore martellava come se volesse uscirgli dal petto. Ian fece un respiro profondo, prima di affrontare i gradini.

Donna però gli strinse il braccio per trattenerlo ancora un po' accanto a lei. Abbassò ulteriormente il tono di voce perché nessuno la sentisse, anche se stava parlando in inglese. «Ian, lei sa tutto».

Ian fu colto completamente alla sprovvista. «Tutto... cosa?»«Tutto» ripeté Donna con uno sguardo molto grave negli occhi. «Nessun altro sa, ma

a lei ho dovuto dirlo. Ti ha tenuto tra le braccia mentre agonizzavi, mi ha sentito parlare degli ospedali e delle ambulanze, di un ritorno a casa che sarebbe stato rapidissimo e senza navi o mezzi di trasporto normali. Lei sapeva che i sicari non ti avevano portato via e non è una stupida. Non potevo inventare niente per giustificare tutto questo, perciò ho scelto di raccontarle la verità».

«E lei ha capito?» domandò Ian, con ansia, temendo la risposta.«Ha capito quello che poteva capire. Non ho potuto spiegarle davvero un videogioco

o un computer, perché sono troppo lontani dalla sua esperienza. Non ho potuto nemmeno spiegarle come funziona il passaggio attraverso Hyperversum...»

«E chi potrebbe mai spiegare come funziona? Non lo sappiamo nemmeno noi» mormorò Ian.

«Le ho spiegato però com'è il nostro mondo e il fatto che non si raggiunge con un viaggio, ma solo con un "salto"...»

Ian si passò la mano sul viso, ora spaventato. «E lei come ha reagito? Posso solo immaginare cosa le sia passato per la testa...»

Ricordava ancora troppo bene il volto terrorizzato del mercenario fatto prigioniero a Dunchester, quando accusava Daniel di essere un diavolo scomparso nel nulla con la stregoneria. L'idea che Isabeau potesse pensare le stesse cose di lui lo mise quasi nel panico.

Donna lo capì e gli afferrò anche l'altro braccio. «Hai una moglie eccezionale, devi avere fiducia in lei e nell'amore che ti porta. È spaventata come tutti quanti noi da questo mistero, ma nonostante la sua paura ti ha coperto e mi ha aiutata a preparare il tuo ritorno, senza mai farsi fermare dai suoi dubbi. Adesso va' a rassicurarla, solo tu puoi farlo».

Ian annuì, cercando di seppellire la sua paura in fondo al cuore. Salì qualche gradino, poi si fermò e si voltò indietro. «Perdonami, sono un ingrato. Non ti ho ancora ringraziato per tutto quello che hai fatto e stavo persino dimenticando di dirti che Etienne sta bene» disse a Donna. «Tornerà presto dall'Inghilterra quando anche l'ambasciatore francese lascerà Dunchester».

Donna gli sorrise. «Grazie. Non preoccuparti, lo sapevo già. Etienne non ha mancato di informarmi, sai? È molto premuroso a questo riguardo, nonostante gli scarsi mezzi di comunicazione di quest'epoca».

«Sono molto felice per voi due, vi auguro ogni bene» le disse Ian con sincera partecipazione, poi corse su per le scale.

***

Entrò nella grande stanza da letto con timore e gioia mescolati insieme. Le cortine ad arazzo la dividevano in due e nascondevano alla vista il grande letto a baldacchino, ma Ian fu attratto subito dalla figura ferma in controluce davanti alla finestra aperta.

Si fermò appena oltrepassata la soglia, incapace di andare oltre, tanta era l'emozione

che rischiava di fargli tremare le gambe.«Isabeau...» fu l'unica cosa che riuscì a mormorare.La fanciulla non rispose. Lo guardava da lontano con quei suoi occhi grandi, da

cerbiatto. Era bellissima, nonostante il colorito pallido del viso, e la luce le illuminava da dietro i capelli d'oro, sciolti e sparsi sulle spalle. Indossava un vestito verde scuro, ricamato ma severo, e non aveva gioielli. Lo sguardo di Ian però cadde immediatamente sulla mano che lei teneva sul ventre rotondo e pronunciato, segno di una gravidanza ormai giunta quasi al termine.

Nostro figlio, pensò Ian e sorrise per non piangere di commozione. «Isabeau» ripeté, mentre faceva ancora un passo per andarle incontro.

Lei però si ritrasse, muta. Aveva il volto teso, le labbra serrate in un'espressione di timore. Non disse niente, come se non avesse parole.

Il sorriso di Ian morì immediatamente. Il giovane si fermò di nuovo, perché lo sguardo di lei lo rese incapace di fare un solo passo in più. Vi erano mille emozioni in quegli occhi, ma certo non la gioia. Ian si rese conto che Isabeau non l'aveva mai guardato così prima di allora. S'irrigidì, avvertendo un muro invisibile tra lui e la fanciulla.

La paura ebbe il sopravvento sulla felicità. Mille timori riempirono la testa di Ian, uno peggiore dell'altro, primo tra tutti il pensiero che qualcosa fosse irrimediabilmente cambiato tra lui e la moglie.

«Ti prego...» implorò il giovane, osando appena tendere la mano verso di lei.Isabeau non si allontanò ulteriormente e si vide che si stava imponendo il controllo a

forza. Si appoggiò con la mano al davanzale, come cercando nella pietra la saldezza che le mancava. «Sei tornato» disse, con voce che tremava leggermente nonostante tutti gli sforzi.

«Sono tornato da te» le rispose Ian, piano.Lei non replicò.«Non sai quante volte ho pregato di poter vivere questo momento» continuò Ian, dopo

aver atteso invano una risposta.Ripensò ai due anni e mezzo trascorsi senza nessuna speranza, prima di scoprire il suo

futuro nel codice miniato, e ne rivisse attimo per attimo la disperazione, le notti insonni, l'angoscia profonda sempre presente nei pensieri, giorno e notte. «Ho temuto di non rivederti più. Credevo d'impazzire» disse ancora, con dolore.

Isabeau non accennò a voler abbassare la guardia. Era a soli pochi passi dal marito, ma a Ian quella distanza adesso sembrava invalicabile. Il giovane si morse le labbra, addolorato, respinto e senza sapere che fare. Abbassò la testa. «Perdonami se ti ho fatto soffrire» mormorò come ultima cosa.

Il silenzio si fece pesante.«Donna mi ha detto tutto» riprese Isabeau e Ian risollevò lo sguardo per sostenere

l'esame di quello di lei. «Lo so» le rispose.La mano della fanciulla stringeva le pietre del davanzale, tradendo la tensione. «Io ho

cercato di capire, ma non ci sono riuscita» continuò Isabeau, faticando a trovare le parole per esprimere la sua angoscia evidente. «A volte credevo di sì, a volte no... Ho cercato di accettare, ma non è facile. È tutto così... innaturale».

Per Ian ogni parola era uno strazio. Poteva immaginare i dubbi e i timori che si agitavano nella mente di una ragazza medievale e la parola "innaturale" ne nascondeva

un'altra, molto più spaventosa.«Ho paura di questa cosa» confessò Isabeau alla fine.«Anche a me fa paura» rispose Ian con onestà. «Nemmeno per me è facile accettare

ciò che è successo. Vorrei poter dare una spiegazione logica a ogni tua domanda, ma la verità è che non posso. Nemmeno io riesco a capire, so solo che è successo e che grazie a questo mistero ho potuto incontrarti».

Lei continuava a guardarlo, soppesando ogni parola, indagando ogni sfumatura della sua voce. Aveva una domanda sulle labbra e non osava farla. Alla fine si decise, a voce bassa, sussurrata. «Non c'è niente di maligno in tutto questo, vero?»

Ian sentì il cuore stretto in una morsa. «No, te lo giuro. Ti prego, non credere una cosa simile, non pensarci nemmeno» rispose disperato. «Io non so spiegarti cosa sia accaduto, ma per me è stato un miracolo. Sono stato strappato alla mia casa e alla mia vita di prima, sono finito qui senza sapere perché e ho avuto paura, ma ho incrociato la tua strada e non poteva capitarmi cosa più bella. Come può esserci qualcosa di male in ciò che ci ha unito? In ciò che mi ha riportato da te, quando credevo di averti perso per sempre?»

Isabeau taceva. Taceva sempre, valutando quel discorso agitato.Ian osò farsi ancora avanti di un passo. «È stato il destino oppure la Provvidenza, io

credo in questo. Ho pregato tanto per ciò che credevo di aver perso e sono stato esaudito. Sono di nuovo qui e questa volta per sempre. Ho rinunciato al mondo a cui appartenevo, con l'unico desiderio di poterti stare accanto per il resto della vita».

Raccolse tutto il suo coraggio prima di fare la sua ultima richiesta. «Non avere paura di me. Io ti amo e voglio solo proteggerti da ogni altro dolore. Ti scongiuro, accettami».

Isabeau lo fissava intensamente, forse cercando le parole per rispondere. D'un tratto però vacillò e si appoggiò con la spalla alla cornice della finestra.

«Che cos'hai?» si allarmò Ian, con paura.La fanciulla inspirò a fondo passandosi la mano sul ventre. «Tuo figlio si muove con

energia» rispose, appena riuscì ad articolare le parole. Respirò ancora e poi disse: «Vieni a conoscerlo».

Ian provò un fremito profondo. Si accostò piano, un passo alla volta. Isabeau non indietreggiò più davanti a lui. Gli guidò la mano e gliela fece appoggiare sul vestito ricamato, là dove prima lei teneva la sua.

Per la prima volta il giovane percepì sotto le dita l'esistenza di suo figlio.Cadde in ginocchio, sopraffatto dall'emozione. Gli si riempirono gli occhi di lacrime.

Mio figlio... pensò, tremando. «Nostro figlio» si corresse ad alta voce, ma poi gli si strinse un nodo in gola e non poté più continuare. Sentì che le lacrime gli scendevano lungo il viso.

Inaspettatamente, la mano di Isabeau gli accarezzò la guancia. Ian rialzò gli occhi e vide che anche la fanciulla piangeva.

«Anch'io ti amo... Che Dio mi perdoni, ti amerei anche se tu fossi davvero il più diabolico frutto di un incantesimo» mormorò lei.

Prese il viso del marito tra entrambe le mani per guardarlo negli occhi azzurri. «Ho pregato tanto... a volte per rivederti, a volte per dimenticarti» continuò tra le lacrime. «Donna mi diceva che saresti tornato da quel vostro mondo lontano e io avevo paura di lei e dite, ma quando ero sola mi disperavo col terrore che non saresti tornato mai più. Eri sempre nella mia testa, nel bene e nel male. Di notte, nei sogni, ti rivedevo

sanguinante e mi svegliavo piangendo, poi mi facevo forza perché avevo una parte di te, nostro figlio, che mi cresceva dentro...»

Ian le prese le mani, le strinse forte, le baciò, tenendosele contro le labbra. «Adesso sono qui. Non ci saranno più incubi, né per te né per me».

Lei lo tirò leggermente per farlo rialzare, ora sorrideva mentre piangeva. Sembrava fragile come una porcellana.

Ian non poté più trattenersi: le prese le spalle senza abbracciarla, per timore di farle male stringendola, ma si chinò su di lei e la baciò sulle labbra. Il suo profumo di vaniglia e di rose gli fece sciogliere quel nodo pesante nella gola e nel petto. «Ti amo» sussurrò il giovane sulle labbra della moglie e niente era più importante di quelle due parole.

«Ti amo».

***

Quella sera, al tramonto, Ian sali sulla torre più alta di Chàtel-Argent. Non lo fece con intenzione, semplicemente si ritrovò là dopo aver visitato ogni angolo del castello, come chi ritorna a casa dopo tanta assenza e vuole ritrovare ogni singolo ricordo nelle stanze che non vede più da lungo tempo.

Aveva lasciato Isabeau a riposare, in attesa della cena. Aveva cercato inconsciamente un po' di solitudine per riordinare le idee, prima di riunirsi a tutti gli altri per mangiare.

Il vento della sera lo accolse benevolmente, sussurrando tra i merli di pietra. Ian andò al parapetto e vi sedette sopra. Non aveva mai avuto paura dell'altezza e perciò si accomodò nello spazio tra due merli, piegando una gamba e appoggiando la schiena alla pietra.

Rimase a lungo a guardare il panorama che si tingeva via via di rosa e di viola. Intorno al castello c'era solo natura a perdita d'occhio: boschi, i campi e i frutteti della gente del borgo, e il fiume placido che concedeva la sua acqua al fossato prima di proseguire e nascondersi tra gli alberi. Il silenzio era rotto solo dai richiami degli ultimi uccelli che cercavano riparo per la notte.

Lassù, in quella quiete totale, Ian pensò a Daniel, a ciò che avevano passato insieme e alla vita che li attendeva ora lungo strade diverse, separate l'una dall'altra da ottocento anni di Storia.

Era cosciente di aver fatto una scelta drastica e definitiva. L'aveva meditata a lungo e alcune volte ne aveva avuto paura. Ora però sentiva di aver trovato il suo posto in quel mondo difficile e ostile e non aveva rimpianti. Non riusciva a immaginarsi una vita lontana da lì, da quel castello dove aveva affondato le sue radici quando aveva accettato di diventare ciò che era: Jean Marc de Ponthieu, il Falco d'argento.

Buona fortuna a te e a tutti quelli che ho lasciato, pensò rivolto a Daniel, lontano, irraggiungibile. Ti auguro di essere felice con Jodie, Martin e i tuoi genitori. Io lo sarò qui, accanto a Isabeau.

Il vento soffiò allegro, a scompigliargli i capelli e gonfiargli il mantello, e sembrò quasi volerlo abbracciare. Ian si rialzò dal parapetto, sentendo la temperatura farsi più fredda e si preparò a scendere verso il salone in cui entro poco sarebbe stata servita la cena. Non poté però resistere alla tentazione di allargare le braccia e farsi avvolgere ancora dai soffi di brezza prima di andarsene.

Si sentì bene per la prima volta da due anni e mezzo. Le angosce erano finite, i giorni

del buio e del pianto finalmente alle spalle. Aveva trovato la sua pace.Grazie L. pensò e non sapeva nemmeno lui a chi si stesse rivolgendo, se a

Hyperversum, al destino o alla Provvidenza che forse era dietro a entrambi.Si riscosse quando udì voci provenire dal basso. Arrivavano fino a lui ed erano

militaresche e gioiose allo stesso tempo. Guardò giù e vide le sentinelle sulle mura alzare in alto le loro armi mentre gridavano. Erano rivolte verso la torre, guardavano lui. Ian riuscì alla fine a capire le loro parole: «Le Faucon! Le Faucon!20»

Ian abbassò le braccia di colpo per rendersi conto che i soldati avevano visto in lui l'animale del suo soprannome. Il falco ad ali aperte, appollaiato sulla torre più alta, a contatto col cielo.

L'idea lo colpì e lo riempì d'orgoglio allo stesso tempo. Il giovane salutò dall'alto i suoi uomini, rispondendo al loro omaggio. Sopra la sua testa, sul pennone più alto sventolava lo stendardo con lo stemma d'argento.

Sì, il Falco era tornato finalmente al suo nido.

20 Il Falco! 11 Falco!

NotaHo giocato di nuovo con la storia e con la geografia.Dunchester non è mai esistito e nemmeno Glenhaven; i Martewall e i Murrow,

inventati da me, non hanno avuto parte nelle vicende d'Inghilterra.È invece storicamente vero che a Natale del 1214 i baroni inglesi si riunirono in una

località chiamata Bury St.Edmunds, per decidere la loro strategia contro re Giovanni Senza Terra. A gennaio 1215 iniziarono la rivolta armata che portò prima alla firma della Magna Charta Libertatum e poi allo sbarco di Luigi, Delfino di Francia, in Inghilterra.

Nel mio racconto ho quindi intrecciato ancora una volta figure di fantasia come Geoffrey e Harald Martewall a figure storiche come il famigerato Giovanni Senza Terra, William di Salisbury, detto Lunga-Spada, o Robert Fitz-Walter, che le leggende vogliono padre della celeberrima lady Marian, promessa sposa di Robin Hood.

Le ricerche sulle tecniche di guerra e d'assedio sono state laboriose e divertenti e spero abbiamo dato buoni frutti.

Chiedo in ogni caso perdono agli storici per eventuali imprecisioni o ingenuità che dovessero essermi sfuggite nel corso di questa trama.

RingraziamentiUn grazie enorme, infinito, ai miei genitori e a mio marito Lorenzo. Sono i pilastri del

mio mondo. Sarei persa senza di loro.Grazie, grazie e ancora grazie a Simonetta, la madrina ufficiale dell'intero clan

Maayrkas, in tutte le sue ramificazioni, passate, presenti e future. Spero che continui sempre a divertirsi nel vegliare sui suoi protetti.

Un grazie sentitissimo a tutti coloro che si sono appassionati alle vicende di Ian e Daniel, per l'appoggio l'entusiasmo che mi hanno trasmesso in questi mesi per avermi dato la possibilità di continuare quest'avventura.

E, come sempre, grazie a Maria Chiara e a tutti quelli che hanno lavorato per fare arrivare questo libro nelle vostre mani.