Profilo Linguistico Della Campania Dal Libro Di N. de Blasi

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CAPITOLO I : La regione Campania e la sua storia La Campania nasce dall’unione di tre diverse aree : la Terra di Lavoro,il Sannio (l’Irpinia) e il Cilento zone un tempo abitate da diverse popolazioni che si sono succedute nei secoli lasciando caratteri permanenti nella regione,anche dal punto di vista linguistico. La Campania è una regione abitata da circa 100.000 anni.Dall’età preistorica ha visto passare molti popoli : Etruschi, Greci, Lucani, Sanniti, Oschi, Romani ,Goti, Longobardie popolazioni settentrionali, Normanni e popolazioni lombarde, Angioini(francesi), Aragonesi (spagnoli),Borbone. Nell’età antica le città più importanti erano: Capua abitata sin dal IX sec. A.C dagli Etruschi (che popolavano anche Pontecagnano) Cuma , città costiera fondata nel VII sec A.C dai Greci (che già si erano stabiliti a Pinthecusa “Ischia” e che poi si stabilirono anche più a sud dove fondarono Dicearchia “Pozzuoli”, e Partenope) La zona del Cilento (dal fiume Sele al Golfo di Policastro) non faceva parte dell’antica Campania ed era controllata dai Lucani che nel IV secolo A.C si erano impadroniti della città di Posidonia (rinominata poi Paestum dai Romani) Le zone collinari,la Valle del Calore e il Volturno ,invece,erano occupate dai Sanniti e dagli Oschi. Dopo il 326 a.c i Sanniti furono sconfitti dai Romani(per i Romani la Campania era l’area compresa tra il Vesuvio e la Terra di Lavoro.) Questi entrarono nella regione stabilendovi una serie di roccaforti militari e costruendo una seriedi strade che collegavano le città campane alle regioni vicine: Via Popilia che da Capua arrivava in Lucania , passando per Nola,Nocera,Salerno Via Appia (tuttora esistente) che collegava Roma alla costa pugliese passando per Benevento,Capua e Avellino. Inoltre favorirono la nascita di nuovi centri come le località termali dell’area flegrea e lo sviluppo della città di Napoli” Neà pòlis” che aveva avuto già con i Greci un ruolo rilevante grazie al commercio con le zone interne. Le popolazioni locali continuarono a parlare le proprie lingue (però 180 a.c (oltre un secolo dopo quindi) il latino divenne lingua ufficiale della città di Cuma dopo che i Greci della Campania ne riconobbero la superiorità. A partire dal II secolo d.C iniziò la crisi dell’Impero romano: le campagne si spopolarono ,si ridusse cosi anche la produzione agricola e diminuì l’ importanza dei movimenti commerciali . L’impero romano d’Occidente cadde nel 476 d.C e il centro fu spostato in Oriente, a Bisanzio da cui , nonostante l’arrivo dei Goti nel V secolo (493 d.C) , si cercava di conservare il controllo almeno sulla zona costiera: Gaeta,Napoli e Amalfi (la città al tempo più ricca) furono così raggiunte da genti di origine greca provenienti da Bisanzio. Intorno al VI secolo giunsero nel Sannio i Longobardi che fondarono il Ducato di Benevento(dove si sviluppò il monachesimo benedettino),da cui estesero le loro conquiste fino a Salerno,Nola, Nocera, Acerra e Capua.Quindi i Longobardi occupavano le zone interne,mentre i Greci Bizantini quelle lungo la costa.

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CAPITOLO I : La regione Campania e la sua storiaLa Campania nasce dall’unione di tre diverse aree : la Terra di Lavoro,il Sannio (l’Irpinia) e il Cilento zone un tempo abitate da diverse popolazioni che si sono succedute nei secoli lasciando caratteri permanenti nella regione,anche dal punto di vista linguistico.

La Campania è una regione abitata da circa 100.000 anni.Dall’età preistorica ha visto passare molti popoli : Etruschi, Greci, Lucani, Sanniti, Oschi, Romani ,Goti, Longobardie popolazioni settentrionali, Normanni e popolazioni lombarde, Angioini(francesi), Aragonesi (spagnoli),Borbone.

Nell’età antica le città più importanti erano:

Capua abitata sin dal IX sec. A.C dagli Etruschi (che popolavano anche Pontecagnano) Cuma , città costiera fondata nel VII sec A.C dai Greci (che già si erano stabiliti a Pinthecusa “Ischia” e che poi si stabilirono anche più a sud dove fondarono Dicearchia “Pozzuoli”, e Partenope)

La zona del Cilento (dal fiume Sele al Golfo di Policastro) non faceva parte dell’antica Campania ed era controllata dai Lucani che nel IV secolo A.C si erano impadroniti della città di Posidonia (rinominata poi Paestum dai Romani)

Le zone collinari,la Valle del Calore e il Volturno ,invece,erano occupate dai Sanniti e dagli Oschi.

Dopo il 326 a.c i Sanniti furono sconfitti dai Romani(per i Romani la Campania era l’area compresa tra il Vesuvio e la Terra di Lavoro.) Questi entrarono nella regione stabilendovi una serie di roccaforti militari e costruendo una seriedi strade che collegavano le città campane alle regioni vicine:

Via Popilia che da Capua arrivava in Lucania , passando per Nola,Nocera,Salerno Via Appia (tuttora esistente) che collegava Roma alla costa pugliese passando per Benevento,Capua e Avellino.

Inoltre favorirono la nascita di nuovi centri come le località termali dell’area flegrea e lo sviluppo della città di Napoli” Neà pòlis” che aveva avuto già con i Greci un ruolo rilevante grazie al commercio con le zone interne. Le popolazioni locali continuarono a parlare le proprie lingue (però 180 a.c (oltre un secolo dopo quindi) il latino divenne lingua ufficiale della città di Cuma dopo che i Greci della Campania ne riconobbero la superiorità.

A partire dal II secolo d.C iniziò la crisi dell’Impero romano: le campagne si spopolarono ,si ridusse cosi anche la produzione agricola e diminuì l’ importanza dei movimenti commerciali . L’impero romano d’Occidente cadde nel 476 d.C e il centro fu spostato in Oriente, a Bisanzio da cui , nonostante l’arrivo dei Goti nel V secolo (493 d.C) , si cercava di conservare il controllo almeno sulla zona costiera: Gaeta,Napoli e Amalfi (la città al tempo più ricca) furono così raggiunte da genti di origine greca provenienti da Bisanzio.

Intorno al VI secolo giunsero nel Sannio i Longobardi che fondarono il Ducato di Benevento(dove si sviluppò il monachesimo benedettino),da cui estesero le loro conquiste fino a Salerno,Nola, Nocera, Acerra e Capua.Quindi i Longobardi occupavano le zone interne,mentre i Greci Bizantini quelle lungo la costa.

Il primo effetto linguistico di tale differenziazione interna tra Greci e Latini è data dalla più consistente presenza di parole di origine greca nella zona napoletana e nel Cilento,mentre nelle zone interne si presentano parole e toponimi di provenienza longobarda.

Dopo l’anno Mille,durante l’XI secolo arrivarono in Campania i Normanni che occuparono cronologicamente le città di Aversa (1029), Capua(1062)Salerno(1076)e Napoli(1139) e nello stesso periodo Benevento (1052) si consegnò al Papa sotto il cui controllo rimase fino all’Unità d’Italia. Questo popolo sotto la famiglia degli Altavilla ebbe un ruolo decisivo in quanto fu unificato tutto il territorio meridionale sotto il nome di Regno di Napoli.

Nel 1194 entrò a Napoli il re tedesco Enrico VI,marito di Costanza d’Altavilla e padre del futuro re Federico II sotto il cui regno, Napoli ebbe una funzione politica e culturale ufficiale. Federico II promosse lavori importanti di restauro e abbellimento e regalò proprio alla città di Napoli la prima Università di stato della storia: il celebre "Studium"che aveva il compito di formare giuristi in grado di intervenire nelle dispute tra Impero e Papato e che acquisì presto un gran prestigio internazionale .

Insieme ai Normanni erano scese in Italia meridionale anche altre popolazioni settentrionali definite genericamente “Lombarde” che hanno però lascito tracce della loro presenza nella toponomastica (tutti i paesi che nel nome hanno la specificazione “dei Lombardi”: S.Angelo dei Lombardi) e nei dialetti sia lucani che di alcuni centri irpini.

Dopo la Morte di Federico II , nel 1266, chiamato in Italia dal papa, Carlo d'Angiò, fratello del re di Francia, sconfisse Manfredi a Benevento e assunse la corona di re di Sicilia. Per sua decisione Napoli la città divenne capitale del regno

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al posto di Palermo aprendosi così alle mode e all’influenza dei francesi , e ciò portò inoltre ad un incremento della popolazione e ad un dislivello tra la capitale e il resto del regno.

Nel 1442 il dominio degli Angioini finì e iniziò la dominazione aragonese con il re catalano Alfonso d’Aragona ,detto il Magnanimo,che portò sviluppo economico e civile alla città di Napoli,contribuì al rinnovamento culturale infatti egli si circondò di letterati e artisti che furono tra i protagonisti dell’Umanesimo come Giovanni Pontano e Lorenzo Valla.

In questo periodo Napoli divenne sempre più popolosa e si configurò proprio come una metropoli internazionale e multilingue accogliendo commercianti di diversa provenienza: toscani,genovesi, ebrei ,francesi etc..

Importanti testimonianze di quel periodo ci sono giunte attraverso le opere del cronista quattrocentesco Loise De Rosa (ai cui occhi la capitale sembra una città magnifica che esercitava una forte attrazione su gente di ogni provenienza) e dalle opere del poeta Velardiniello che ancora nel 500 ricordava il periodo aragonese come “un’ età dell’oro “.

La dinastia aragonese finì nel 1503, Napoli perse la sua autonomia e diventò Viceregno spagnolo,ma ciò non arrestò la crescita demografica che rese necessari degli interventi urbanistici e la costruzione di nuovi quartieri (“i quartieri spagnoli” ).La corona spagnola esercitò il suo potere con avidità e incapacità,il peso delle tasse rese difficile le condizioni delle provincie,si ebbero carestie e pestilenze e sul finire del secolo vi furono molte insurrezioni e rivolte (la più celebre è quella di Masaniello 1647). In questo periodo, per difendere il popolo dalle prepotenze iberiche, nacque e si affermò il fenomeno della "camorra", che in un primo tempo costituì quindi una sorta di società segreta con fini di mutua assistenza.

All’inizio del 700, in seguito alla guerra di successione spagnola, il Regno di Napoli rientrò nel dominio austriaco fino al 1734 quando sul trono salì Carlo III di Borbone con il quale Napoli tornò ad essere capitale e vi furono importanti innovazioni anche nell'architettura e nell’urbanistica cittadina. Il re fece costruire monumenti e strade come il Teatro San Carlo e la Reggia di Caserta,ma anche la fondazione dell’Albergo dei Poveri che offriva asilo alla plebe priva di sostentamento e iniziò a pensare ad un progetto si istruzione per tutti (che non si attuò) favorito dalla nascita di un nuovo ceto intellettuale borghese che accanto al dialetto locale usava l’italiano. il Settecento borbonico fu per Napoli quindi un periodo di sviluppo e prestigio internazionale.

Alla fine del secolo dalla Francia giunsero le idee rivoluzionarie e anche a Napoli vi ebbe luogo un tentativo di rivoluzione da parte dei giacobini napoletani che proclamano la Repubblica Partenopea. Quest’esperienza durò molto poco.

Ad inizio 800,con del dominio napoleonico faceva parte anche il Regno di Napoli che fu poi affidato prima a Giuseppe Bonaparte e poi Gioacchino Murat e solo con il Congresso di Vienna, fu decretato il ritorno a Napoli della famiglia dei Borbone che unificò il Regno di Napoli e quello di Sicilia nel "Regno delle Due Sicilie".

Nei decenni successivi vi furono nuove aspirazioni politiche e culturali che puntavano all’unificazione politica italiana e Napoli divenne il centro linguistico e culturale dell’intera area campana grazie alle istituzioni religiose,burocratiche e universitarie.

Dopo il plebiscito del 1860 il Regno di Napoli fu aggregato al Piemonte e dal 1861 divenne una regione del nuovo Regno d’Italia riassumendo il nome di Campania ( in uso durante l’impero romano).

La regione stava vivendo già una profonda crisi economica e culturale al momento dell’unificazione e dopo questo momento le condizioni divennero sempre più negative: negli anni postunitari Napoli perse la presenza della corte reale,di conseguenza anche il suo prestigio politico ed economico sia nei commerci con l’estero sia all’ interno della regione, progressivamente si avviò anche verso un declino di tipo culturale, si aprì un flusso di emigrazione verso altri paesi europei o verso il Nora America che durò a lungo, nelle campagne si diffuse il fenomeno del brigantaggio e ad aggravare (e a causare) questi problemi sociale ed economici si aggiunse il mutamento di fisionomia della delinquenza organizzata,nota con il nome di Camorra.

Nel 900 l’agricoltura subì una profonda crisi,il numero degli agricoltori si era dimezzato nel giro di un decennio e la popolazione tendeva a concentrarsi ormai nelle città.

Tutti questi grandi cambiamenti furono fattori connessi alle modifiche linguistiche. Con la diffusione dell’italiano però i dialetti non morirono,si modificarono:interi settori del lessico uscirono dall’uso quotidiano e ne subentrarono dei nuovi legati, per esempio,alle nuove tecniche di lavorazione e di produzione artigianale. L’insegnamento dell’italiano non fece dimenticare il dialetto che, nonostante l’esistenza di alcuni atteggiamenti antidialettali (era diffuso il preconcetto che la competenza dei dialetti ostacolava l’apprendimento dell’italiano), rimase la lingua materna degli scolari. Lo dimostra il fatto che i dialetti sono appresi tutt’oggi da coloro che come lingua materna apprendono l’italiano e ciò avviene spesso proprio in ambiente scolastico. Inoltre il dialetto è stato ben conservato e diffuso

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attraverso canzoni,teatro,cinema e televisione,è entrato come oggetto di studio anche nell’ambito accademico e scientifico e ha attirato l’attenzione su di sé da parte di intellettuali estimatori delle manifestazioni artistiche dialettali di grandi autori come Salvatore Di Giacomo,i De Filippo, Vincenzo Salemme,Totò,Carosone,Massimo Troisi e tanti altri.

TERRITORIO E DIALETTI : TOPONIMI e LESSICOLa Campania oggi si presenta come una regione piuttosto differenziata al suo interno sia dal punto di vista del paesaggio(con zone pianeggianti,montuose e collinari),del clima e della temperatura (infatti le zone costiere godono di un clima mite grazie alla presenza del mare,ma sono anche piuttosto piovose e soggette a improvvisi cambiamenti climatici, le zone interne invece hanno un clima più asciutto con inverni piuttosto freddi e nevosi,ma d’estate non si soffre il caldi) sia dal punto di vista linguistico ( dato che i dialetti hanno tra loro qualcosa in comune,ma sono anche molto diversi gli uni dagli altri).

La diversità dei dialetti dipende molto dalla storia della regione perché ogni dialetto nel corso dei secoli ha subito l’influenza di diverse lingue e culture. Il nome stesso della regione ha origine dalle popolazioni etrusche che vi si insediarono nel IX sec. A.C : con “Campania” si indicava originariamente la zona intorno

Capua (poi diventata Terra di lavoro) e il termine è collegabile direttamente al nome con sui si identificavano anche gli abitanti di Capua che prima erano “cappani”poi divennero “campani”. Probabilmente anche il toponimo Capua è di derivazione etrusca perché sarebbe ricollegabile a “Capys” (uccello rapace) così come il nome del fiume Volturno sarebbe connesso a “velthur” (uccello).

Gli altri toponimi di origine prelatina sono sicuramente “Abella” e “ Abellinum” (Avella e Avellino)che risalgono all’osco dalla base indoeuropea * ABEL ‘mela’.

Città come Cuma , Agropoli,Procida(da ‘prochutòs’-> sparso) ,Lacco Ameno (laccòs ‘fossa’) e Forìo (Xoriòn ‘villaggio’) hanno sicuramente origine greca come anche la stessa città di Napoli ( Neà pòlis ‘città nuova’)

Della presenza dei romani è rimasta traccia nei toponimi dell’introterra napoletano che risalgono,infatti, alla suddivisione delle proprietà terriere e ognuno deriva dal nome di un latifondista : Gragnano (Granius),Secondigliano (Secondilius), Marano (Marus) ,Giugliano (Iulius) … Anche i toponimi derivati da nomi di piante sono di epoca romana : Corleto ( Coryletum ‘piantagione di noccioli’) o Laurito (Lauretum ‘alloro’) …

La presenza dei Greci Bizantini ha lasciato il segno nei dialetti dell’area napoletana e del Cilento in cui vi è una serie di grecismi come: poteca ‘bottega’ , scalandrone ‘scala di legno’ e càccavo ‘grossa pentola’…

I più evidenti longobardismi si notano nei toponimi in cui ritroviamo la parola “sala” (Sala consilina) che significava ‘casa padronale’ o la parola wald ‘bosco’ (S. Bartolomeo in Gualdo).Dai nomi di persona di origine germanica derivano invece toponimi come Pontelandolfo (da Landulfo) e Atripalda (da Tripaldo). Di origine longobarda sono anche parola tuttora usate nei dialetti delle zone interne , per esempio ndrengolià ‘scuotere’ deriva da * hringilon ‘tintinnare’.

Anche delle altre popolazioni settentrionali discese in Italia insieme coi Longobardi troviamo delle tracce: dai Bulgari e dai Sassoni derivano i nomi di Celle in Bulgheria e Sassinoro, dal popolo degli Slavi invece deriva l’antico nome della città in provincia di Caserta ribattezzata poi Liberi (“Schiavi”).

Durante il Medioevo vi fu poi la conquista normanna che portarono parole di origine francese tuttora riconoscibili nei dialetti campani : vanella (che a Napoli indica una piccola stradina tra due palazzi) deriva da venella,diminutivo di vena.

Altri francesismi risalgono anche al periodo di dominazione angioina. Gli iberismi entrarono nei dialetti quando il Regno passò agli Aragonesi e tutt’oggi troviamo parole di provenienza catalana come : ammuinare ‘ agitare’ (verbo) e ammuìna ‘ agitazione’ (sostantivo).Gli iberismi di origine castigliana invece sono entrati nei dialetti campani nel periodo tra il 500 e il 700 tra cui ritroviamo ancora :palià ‘bastonare’ e lazzari (così erano chiamati i seguaci di Masaniello e il termine deriva da làzaro ‘poveraccio’)

Nel 700 Napoli fu profondamente influenzato dalla cultura e dalle idee rivoluzionarie provenienti dalla Francia e per questo ai francesismi del periodo normanno e angioino se ne aggiunsero dei nuovi apparteneti ai settori più diversi della cultura,dell’abbigliamento e della gastronomia ( crocchè ‘panzarotto di patate’, gattò ‘pasticcio di patate’,brioschia (da briosche) ma anche babà (che però era una parola di origine polacca entrata nel nostro lessico attraverso il francese).

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CAPITOLO II : Tratti Tipici Dell’area CampanaIn Campania non si trova un unico dialetto proprio perché la regione fu abitata da diverse popolazioni,ma si possono comunque rintracciare dei caratteri linguistici comuni e di certo il peso di linguistico di Napoli,nonostante ma il suo dialetto non sia diventato dialetto regionale ) è notevole.(è stata città capitale per secoli e poi città più popolosa d’Italia fino al 1911)Le caratteristiche linguistiche tipiche dei dialetti campani non sono fenomeni esclusivi e si posso individuare anche negli altri dialetti meridionali. Inoltre sono accompagnati da altre caratteristiche che di volta in volta si aggiungono e rendono specifica ogni area rispetto alle altre. La differenza con i dialetti meridionali sta nel fatto di ritrovarli tutti insieme nel territorio campano e che questi fenomeni sono tra loro collegati come a formare una struttura capace di individuare l’area linguistica campana. Questi fenomeni sono:

Dittongo metafonetico Chiusura metafonetica Femminile plurale con rafforzamento sintattico Vitalità del genere neutro Variazione consonantica Suono indistinto finale

Nel latino classico le vocali si distinguevano in base alla quantità,c’erano quindi 10 vocali: 5 brevi e 5 lunghe. Nel latino parlato(quello da cui derivano le lingue romanze e i dialetti) le vocali si distinguevano attraverso il grado di apertura: le vocali originariamente brevi erano pronunciate come aperte e le vocali originariamente lunghe come chiuse e alcuni suoni tra loro simili si riducevano ad un unico suono (Ĭ e Ē , Ă e Ā, Ŭ e Ō,) delineando così un vocalismo tonico formato da 7 vocali (modello alla base della maggior parte delle lingue romanze).

METAFONESI DI TIPO NAPOLETANO: dittoghi e chiusure

Il termine metafonesi (o metafonia ) indica un fenomeno fonologico che consiste nella modificazione del suono di una vocale tonica (é, è, ó, ò) per l'influsso di un'altra vocale (sia quando la vocale è finale della parola originaria latina è i oppure u, sia quando si trova nella sillaba immediatamente successiva), in un processo di assimilazione. La metafonesi napoletana si realizza sia in sillaba libera che in sillaba chiusa. (la struttura della sillaba è importante per esempio nei dialetti pugliesi o nel toscano).

Le vocali che sono alla base dei dialetti di tipo campano sono i é è a ò ó u . Si parla di dittongazione metafonetica quando,per effetto della metafonesi (quando nella sillaba successiva o in quella finale si trovano

–i o –u etimologica,che dà luogo ad una –o) le vocali aperte toniche -è- e -ò- dittongano in-ie- e in -uo-.

Esempi: carusiello ‘ salvadanaio’, campaniello ‘campanello’,ciento ‘ cento’,curtiello ‘coltello’,gruosso’ grosso’,iuorno ’giorno’,chiuovo ‘chiodo’,vruoccolo ‘broccolo’. Puorto ‘porto’ (dal latino PORTUM)

Di chiusura metafonetica si parla invece quando la metafonesi (sempre per effetto di I o U-etimologica)

colpisce le vocali toniche chiuse -é- e -ó- che si chiudono ulteriormente e diventano –i- e –u-

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Esempi: appiso ‘appeso’ ,cìcere ‘ceci’, friddo ’freddo’,capitune ‘capitoni’,palummo ‘colombo’,curiuso ‘curioso’ .

Entrambi gli esiti metafonetici rientrano nella categoria degli “esiti condizionati” perché essi hanno luogo solo in determinate condizioni :si realizzano SOLO nelle sillabe toniche e solo per effetto di certe vocali(quando una parola risale ad una base con –I e –U finale).

Si realizzano quasi esclusivamente in nomi e aggettivi di genere maschile (tranne perzune ‘persone’) e per questo motivo troviamo i maschili spesso dittongati o con chiusura metafonetica e i corrispettivi femminili senza dittongo e senza chiusura metafonetica.

Esempi: campaniello (m) – campanella (f),guagliunciello (m)- guagliuncella (f), viecchio (m)- vecchia (f),muorto (m)- morta (f), appiso (m)- appesa (f), chillo (m) – chella (f), piccerillo(m)- piccerella (f),palummo (m)-palomma(f)

Inoltre in tutti i nomi che presentano al plurale la desinenza –i ,ma al singolare la desinenza-e ,si determina una distinzione tra plurali con esiti metafonetici e singolari non metafonetici.

Esempi : cìcere’ceci’(pl)- cécere ’ cece’, guagliune ‘ragazzi’(pl)- guaglione ‘ragazzo’

Ciò significa che la distinzione morfologica tra maschile e femminile e tra plurale e singolare è affidata alla presenza/assenza di metafonesi nelle vocali toniche e questo è fondamentale soprattutto per quei dialetti campani in cui la vocale finale è pronunciata come suono indistinto(schwa),in particolare quindi il dialetto di Napoli e dintorni.

Le chiusure metafonetiche e i dittonghi metafonetici assumono una funzione morfologica anche nelle voci verbali: nella flessione di un verbo la vocale tonica si adegua per metafonia alla vocale della desinenza.Nella seconda persona (che ha desinenza –i) si determinano,appunto,quel le condizioni morfologiche per cui si distingue dalle altre.

Esempi: io corro - tu curri , io scéngo - tu scinni , io sento- tu sienti, , io porto - tu puorti.

RAFFORZAMENTO SINTATTICOIl rafforzamento sintattico è la pronuncia rafforzata delle consonanti iniziali che sono precedute da monosillabi o da alcune particolari parole. E’ un fenomeno non presente nei dialetti settentrionali,ma accomuna invece quelli meridionali e quelli centrali. E’ presente anche in italiano,ma nei dialetti campani assume una funzione morfologica più importante perché si presenta solo nei femminili plurali e nei nomi di genere neutro, facilitando così l’identificazione.

A provocare il rafforzamento sintattico sono di solito delle parole,monosillabi, (che in italiano sono “a,tre,più” che in latino avevano la terminazione consonantica “ad,tres,plus” che fa così avvertire ancora la sua antica presenza rinforzando la consonante che segue) e in Campania le forme che determinano questo fenomeno non sono le stesse che lo provocano nell’italiano,anzi sono:

le congiunzioni e,né la negazione nu (non) le preposizioni a,cu , per gli indefiniti ogne, quacche, il che interrogativo accussì cchiù ‘più’ tre l’articolo neutro ‘o il pronome neutro ‘o gli articoli femminili plurali e in genere le forme pronominali o aggettivali femminili, i pronomi maschili e femminili plurali (‘e / le) le forme verbali so’ (1° e 6° indicativo di essere) e si’ (2° persona) la prima persona del verbo stare : sto

Da notare che la terza persona del verbo avere (ha) non provoca rafforzamento.Inoltre bisogna sottolineare che questo fenomeno avviene solo quando tra le parole coinvolte c’è un effettivo legame di frase, cioè quando non sono separate da una pausa (rilevante sul piano sintattico)

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IL FEMMINILE PLURALE E IL RAFFORZAMENTO SINTATTICOIl rafforzamento sintattico in Campania assume una funzione grammaticale molto importante perché permette di distinguere i femminili plurali dai singolari.Una funzione morfologica che di norma sarebbe affidata alle desinenze finali e che diventa ancora più rilevante se si pensa che a Napoli e dintorni le vocali finali sono pronunciate indistinte. Nei femminili plurali infatti la consonante iniziale è rafforzata sia quando è preceduta dall’articolo ‘e sia quando è preceduta da aggettivi o dimostrativi quindi alcune forme, in assenza di opposizione fondata sul rafforzamento, rischierebbero di risultare ambiguità lessicali. Il rafforzamento sintattico permette quindi di trasferire sull’articolo e sulla parte iniziale l’informazione morfologia che dovrebbe essere veicolata dalla desinenza e dalle vocali finali.

ESEMPI: ‘a figliə - e’ ffigliə , ‘e pilə - ‘e ppilə , ‘e tavulə - e’ ttavulə .

VARIAZIONE CONSONANTICAQuando si determina il rafforzamento sintattico,tutte le consonanti ad inizio parola sono pronunciate come intense (in posizione forte) mentre, nel caso in cui si trovano in posizione debole sono pronunciate n on intense o scempie. Nel caso di alcune consonanti la pronuncia nella posizione forte e la pronuncia nella posizione debole sono completamente diverse, questo è il fenomeno della variazione consonantica e si spiega perché semplicemente un unico fonema viene realizzato con due allofoni diversi a seconda della posizione in cui si trova nella sequenza fonetica.

I fonemi che subiscono la variazione consonantica sono:

La i semivocalica /j/ in posizione debole è [j] in posizione forte è [ggh] :na jurnata- che gghiurnata! L’occlusiva dentale sonora /d/ : è [ r ] in posizione debole e [dd] in posizione forte : ‘e’ riente – tre ddiente’ L’occlusiva velare sonora /g/ in posizione debole tende a scomparire o essere pronunciata con leggera aspirazione, mentre in posizione forte viene rafforzata [gg] : nu’ uaglione – si’ gguaglione L’occlusiva bilabiale sonora /b/ in posizione debole è [v] in posizione forte è [bb]: a’ vocca – ‘e bbocche La fricativa labiodentale sonora /v/ in posizione forte è [bb]: ‘e bbalige. Questo fenomeno è detto BETACISMO

La pronuncia delle consonanti dei dialetti campani e affini è quindi poco stabile ed è condizionata dal contesto. Alla variazione consonantica si riconduce anche la “gorgia” toscana,ma nei dialetti campani è importante perché spesso la pronuncia delle consonanti sorde e quella delle sonore non è ben marcata e tendono a confondersi.

IL GENERE NEUTROIn quasi tutta la Campania, oltre il genere maschile e quello femminile, esiste il genere neutro. Non tutti i nomi di genere neutro corrispondono allo stesso genere anche in latino,anzi in molti casi i nomi neutri dialettali sono dei neologismi di recente coniatura e quindi parole che in latino non esistevano. Il neutro è una categoria ancora altamente produttiva nel dialetto partenopeo e nei dialetti campani,il che dimostra l’evidente vitalità di questi dialetti!La caratteristica fonetica che ci permette di riconoscerlo subito è il raddoppiamento sintattico innescato dall'articolo determinativo (o dal dimostrativo) singolare il quale sembra in apparenza identico all’articolo maschile ‘o,ma ha in realtà un’altra origine etimologica perché deriva dal latino ILLUD (e non da ILLUM).Si può quindi dire che la –D finale anche se non si vede si fa ancora sentire nella pronuncia .

Sono trattati come neutri tutti i nomi che esistono solo al singolare(come entità materiali o concettuali) non sono pluralizzabili e che designano un qualsiasi genere visto nel suo insieme(anche una lingua o dialetto),come :

Materiali nel loro complesso ( ‘o fierro ‘o ssapone’o lligname ‘o cuttone) Generi alimentari o bevande considerati come insieme ( o’ccafè ,o’ppane, o’gghiaccio) I nomi dei colori ( ‘o rrusso , 'o nniro) Infiniti sostantivati (‘o ppenzà , ‘o mmagnà) I nomi astratti che si riferiscono a categorie generali (’o mmale , ‘o passato o’ppecchè) Nomi di generi musicali ,anche in forestierismi (‘ o rrep, o’ffolk, ‘o rrock)

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In alcuni dialetti campani però l’articolo neutro ( ‘u , lu )non è uguale a quello maschile (‘o ) e quindi rende ancora più immediatamente visibile l’appartenenza a questo genere.

All’interno di una frase l’appartenenza al genere neutro non è svelata solo dall’articolo,ma anche da un pronome personale ‘o che, essendo neutro e non maschile, provoca il rafforzamento della consonante che segue.

ESEMPIO : da” Napoli Milionaria!”di De Filippo i pronomi (pronunciati in dialetto da Amalia) che si riferiscono alla parola “burro” (detta in italiano da Riccardo) hanno tutti la consonante iniziale rafforzata nelle sequenze : ‘o ttrovano a vénnere , ‘o pporta, ‘o pputarrìa accattà ecc..

La forma pronominale ‘o è molto importante perché talvolta ci permette di capire che sono trattate come neutre anche parole che in apparenza sembrano femminili .

ESEMPIO : “la medicina”(che può avere plurale “le medicine”) è trattata come neutra infatti il pronome riferito a questa parola non è la ,ma ‘o ( chi ‘o ttene e nun ‘o ccaccia cfr De Filippo), ma anche il sostantivo roba /rrobba è trattato come neutro perché ha valore collettivo.

Hanno funzione di neutro anche il sintagma ‘ tutte cose’ ( che ha valore collettivo ) , ma anche ‘ chilo’ perché è usato in combinazione con nomi di generi alimentari.

ESEMPIO: “che bellu chilo e’ carne, chesto ‘o ffacimmo a brodo” (da notare che i pronomi e gli aggettivi con valore neutro non presentano esito metafonetico, infatti nella forma maschile avremmo avuto ‘chisto’ con chiusura metafonetica qui troviamo ‘chesto’,ma potremmo trovare anche ‘chello’).

Il dimostrativo ‘chesto / chello’ rivela infatti che alcuni nomi che sembrano maschili sono trattati come neutri . ESEMPIO: ‘vino’ non ha rafforzamento sintattico,ma si dice ‘chesto è ‘o vino’ .

LA FINALE INDISTINTA ə come chiave di volta : un fenomeno di collegamento e sostegno

Un’altra caratteristica tipica dell’area campana, in particolare quella napoletana, è l’indebolimento della vocale finale atona,che viene articolata come suono centralizzato indistinto [ə].

Questo fenomeno è strettamente collegato alla funzione morfologica degli esiti metafonetici e del rafforzamento sintattico perché ,semplificando, la vocale finale può essere indebolita nella pronuncia in quanto non è più indispensabile per veicolare informazioni morfologiche dal momento che,in determinati contesti, queste sono già veicolate dalla sillaba tonica metafonetica (che permettono di distinguere i maschili dai femminili) o dal rafforzamento della consonante iniziale.(in caso del neutro o nei plurali femminili).

Tali fenomeni quindi,combinandosi tra loro,si rinforzano e conferiscono stabilità alle strutture morfologiche e fonetiche dei dialetti dell’area napoletana. Non c’è un vero rapporto di causa-effetto,ma semplicemente ognuno acquista maggiore vitalità e resistenza se combinato con gli altri.

Questo dimostra quanto siano ancora vitali i dialetti campani.

ALTRI FENOMENI FONETICI :

Bisogna ricordare alcuni esiti fonetici frequenti nei dialetti campani come:

L’evoluzione dei nessi CONSONANTE + L : FL -> [] ‘FLOREM > sciore’ (fiore), BL -> [j] ‘ BLANCU> janco ‘ (bianco), Sonorizzazione dopo nasale : CANTARE > candà ( ‘cantare’) Pronuncia fricativa della s- -> [] prima di labile e velare: battere ‘sbattere’ , pesso ‘spesso’, cuola ‘scuola’ Conservazione della semivocale [j] (che in italiano diventa affricata palatare sonora [d ̠ʒ]) : juorno = ‘giorno ‘

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CAPITOLO III : Una Regione Tanti Dialetti Nelle diverse aree campane si delineano alcune caratteristiche specifiche che contribuiscono a rendere variegato il panorama linguistico regionale. Per esempio nella gran parte della Campania ‘ragazzo’ si dice guaglióne mentre ‘ragazza’ ha forme diverse a seconda della zona : a Napoli si dice guaglióna , a Solopaca (provincia di Benevento) è invece uaglióla, in una parte dell’Iripinia e della provincia di Salerno è vagliótta, a Vallata (Irpinia) è uagnarda , lo stesso suffisso –arda lo troviamo a Potenza ed è quindi un residuo dei dialetti settentrionali . Il guaglione era l’aiutante (giovane) nel lavoro dei campi e deriva dal francese (g)uagnor e nei dialetti lucani era guagnone( che a Potenza indica infatti l’aiutante nel lavoro dei campi) , da cui poi in area napoletana si è avuto guaglione. Nella campania interna ,invece, ragazzo si dice anche ‘ quatrano’ o ‘quatràle’,mentre dalle parti di Sessa Aurunca si usa ‘picciuotto’ (simile al siciliano) da cui poi è derivato ‘picciotto’ che nel gergo della camorra era il giovane malavitoso che prima era chiamato ‘scugnizzo’.

I DIALETTI DELL’AREA SALERNITANA E DEL CILENTO

La provincia di Salerno comprende un’area di oltre 200 km di costa e varie aree montagnose che va da dalle zone vesuviane (Scafati,Angri) fino al golfo di Policastro e a Sapri e i dialetti che vi si parlano sono piuttosto diversi.

Nell’area Agro nocerino-sarnese (tra il Vesuvio e Salerno) il dialetto è simile al napoletano,ma le vocali toniche – è - e –ò – sono pronunciate molto più aperte,mentre la vocale –a- ha un suono quasi simile alla –ò - aperta (a Pagani).L’articolo determinativo è più frequentemente ‘u (mentre nel napoletano è ‘o ).

Nel Cilento,la parte meridionale più estrema della provincia salernitana,il dialetto è nettamente diverso rispetto agli altri perché è di tipo siciliano(che include pure le parlate del Salento e del sud della Calabria) . Le caratteristiche più rilevanti sono:

Sistema pentavocalico : 5 vocali toniche /a, e , i, o , u/ , perché non c’è differenza tra vocali aperte e chiuse,

che hanno anche diversa corrispondenza rispetto alle vocali latine(vocalismo siciliano). ESEMPI : ‘chista’(questa),’fimmini’(donne),’paisi’

(paesi) Prevalenza delle vocali estreme –i- e –u- in posizione atona finale: in alcune aree del Cilento nelle sillabe toniche si trovano –i- e –u- mentre nel resto della Campania si trovano –e/-o-. Conservazione migliore della vocale finale: il suono vocalico finale non è indistinto come in area napoletana

Altre caratteristiche accomunano questo dialetto anche a quelli lucani e irpini e sono:

Evoluzione di LL>dd. ESEMPIO: ‘castieddu’ (castello), ‘capiddi’ (capelli), ‘addumà’ (accendere) Esito del nesso FL > [j] : mentre negli altri dialetti si evolve in [] ESEMPI: FLOREM>jore (‘fiore’ e non ore) Presenza dell’affricata dentale sorda [ts ]invece della palatale [t]. ESEMPI: ‘fazzo’ (faccio), ‘lazzo’ (laccio)

Altri fenomeni sono:

Dileguo della occlusiva velare intervocalica: ‘putéa’(bottega), ‘fatià’ (lavorare) Uso dell’affricata palatale [ʤ] invece della nasale palatale [ɲ] : ‘chiange’ (piangere)e non chiagnere (a Napoli) Propagginazione : fenomeno per il quale la vocale dell’articolo –u si ‘estende’ alla prima sillaba della parola successiva : ‘lu cuane’ (il cane)

Tra le caratteristiche morfologiche troviamo invece:

Il condizionale in –era / -ara : formato dall’indicativo piuccheperfetto latino : PUTERAM>putèra ‘potevo’

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1° persona plurale del presente indicativo senza rafforzamento di –m-: ‘facimo’ e non ‘facimmo’ (Napoli) 2° persona plurale del presente indicativo con finale in –i : ‘faciti’ e non ‘facite’ (Napoli) Gerundio con palatalizzazione della vocale tonica a>e : ‘iuchènno’ e non iucanno ‘giocando’ (Napoli) Pronome personale terza persona singolare è ILLO o IDDU : (e non isso) forme derivanti dal tipo latino ILLE

I DIALETTI IRPINI

I dialetti irpini sono quelli parlati nella provincia di Avellino.Questi hanno una serie di tratti in comune coi dialetti del Cilento,ma anche aspetti simili al dialetto napoletano.

I tratti in comune con i dialetti del Cilento sono:

Presenza dell’affricata dentale sorda [ts ]dal latino CJ: ESEMPIO: ‘fazzo’ (faccio), Esito del nesso FL > [j] : ESEMPIO:joccà ‘nevicare’ Uso dell’affricata palatale [ʤ] invece della nasale palatale [ɲ] : ‘mangià’ (mangiare) Presente indicativo : 1° pers. pl. senza rafforzamento di –m-, 2° pers. pl. con finale in –i: ‘facimo’ ,’faciti’

Altri fenomeni fonetici che individuano i dialetti di questa zona sono:

La sonorizzazione di dentale dopo vibrante o liquida : ESEMPIO: stordo ‘stupido’ L’evoluzione da liquida intensa in vibrante : ESEMPIO: quiro ‘quello’ che in napoletano è invece chillo La conservazione della sequenza iniziale in QU- (diventata in napoletano <ch>) : ESEMPIO: quiro vs

chillo Presenza della palatale [t] invece che [ts] : ESEMPIO: citto ’zitto ’ , paccio ‘pazzo’ (fenomeno inverso a ‘fazzo’) Aggiunta della sillaba d’appoggio –NE negli infiniti : ESEMPIO: cantàne ‘cantare’ , venìne ‘venire’ Dileguo dell’occlusiva velare ESEMPIO: RUGA> rua ‘stradina’, fatìa ‘lavoro’ vao ‘vado’ ( e non vaco) Evoluzione del nesso consonantico latino -GN- con inserimento di vocale di transizione e dileguo della velare: ESEMPIO: lèona ‘ legna’ Vocalismo tonico con 7 vocali e esiti metafonetici come in napoletano (però nell’area irpina a confine con la Puglia il dittongo metafonetico si riduce ad un solo elemento vocalico : ESEMPIO: firro vs fierro ,ucchio vs uocchio Femminili in –i (quelli che in italiano rientrano nella classe dei nome in –e) : ESEMPIO: la faoci ‘la falce’

Le caratteristiche morfologiche più rilevanti sono:

Conservazione degli articoli determinativi in lo,la,li,le nonostante la diffusione delle forme aferetiche ‘o, ‘a Distinzione dell’articolo neutro ru da quello maschile lo (nelle zone prossima a Puglia e Lucania) Conservazione del pronome relativo chi con funzione di soggetto (< lat QUI) e del pronome con funzione oggetto che (< QUEM) : ESEMPIO: ‘l’anno chi vène’ Passato remoto con forme deboli : ESEMPIO: corriò ‘corse’ , 6° pers. Presente Indicativo di potere,volere,venire con dittongo metafonetico .ESEMPIO: puónno ‘possono’ Uso del doppio imperativo : ESEMPIO: va’ti corca ‘ va a dormire’

Esistono poi alcune località irpine che presentano caratteristiche specifiche meno diffuse o assenti nelle altre zone. Per esempio:

A Vallata: la –à- tonica nei nomi maschili e neutri (preceduti dagli articoli lu e ru) è pronunciata quasi come –o- (vocale innalzata posteriore),è un fenomeno interpretabile come una particolare forma propagginazione,(ru c ò so ‘ il formaggio’) inoltre la 3° persona del verbo essere si presenta come èja ‘ è ‘ A Bonito: è tipica la dentale sonora in posizione intervocalica diventa sorda e non –r- infatti troviamo mié t eco ‘medico’

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A Monteforte irpino: il pronome personale di terza persona è illo e deriva dal latino ILLE e

I DIALETTI SANNITI

Sono i dialetti della zona del beneventano. Ogni dialetto tende a gravitare intorno ad un centro mentre le zone periferiche tendono a conservare tratti di relativo arcaismo,questo fa sì che i dialetti del Sannio siano piuttosto diversi sia dal napoletano su cui sono basati sia tra di loro per diverse caratteristiche fono-morfologiche. Per esempio il genere neutro con rafforzamento sintattico e gli esiti metafonetici di tipo napoletano si presentano in forme attenuate o seguono regole diverse in base alle zone.

Nelle zone del Sannio più vicine alla provincia di Avellino, per esempio a Benevento e nelle aree più vicine alla Valle Caudina,gli esiti metafonetici sono simili a quelli degli altri dialetti campani, mentre nei dialetti di zone come Cusano Mutri, Morcone, Ponteladolfo, Sassinoro, Cerreto Sannita ecc invece dei dittonghi –ie- /-uo- si incontrano esiti riconducibili al fenomeno della metafonesi di tipo sabino (presente i una parte del Lazio) dove le vocali chiuse –e- /-o- in condizioni metafonetiche si chiudono in –i- /-u- mentre le vocali aperte non dittongano in –ie/-uo- ma si chiudono in –e-/ - o- chiuse. ESEMPI : cappèllo vs cappiello (con e chiusa), nóvo vs nuovo, bóno vs buono (con o chiusa)

I dialetti sanniti si distinguono da quelli campani anche per l’assenza di rafforzamento sintattico dei femminili plurali e per l’assenza del neutro. Perciò non si ha le mmanə ma le manə , lo pane e non lo ppane.

Il polimorfismo dell’articolo è un’evidente prova della differenza interna che corre tra i vari dialetti sanniti:

A Cerreto Sannita inoltre si dice le pèn e le sèl senza rafforzamento sintattico, l’articolo per il maschile singolare è ‘i’ che produce una propagginazione quindi avremo i muer = il mare.

In altre zone l’articolo maschile è ju mentre prima della vocale abbiamo al oppure ll’ che diventa gl’ : gl’ammore ‘l’amore’.In qualche altro paese invece l’articolo è sempre ‘u sia al maschile che al neutro( distinti però dal rafforzamento dell’iniziale).

Importa è notare che nelle zone a confine con il Molise ci sono fenomeni come:

La palatalizzazione di s- in [ ] prima di labiale e velare,ma anche dentale. ESEMPI: scì ‘si’ , coscì ‘ così’ Le terze persone plurali dell’indicativo sono prive di desinenza –no. ESEMPI: avo fatto ‘ hanno fatto’ Palatalizzazione di –a- tonica > è ESEMPI: a chesa ‘la casa’ , le sèl ‘il sale’

Tra i fenomeni diffusi altrove troviamo invece :

La sorde dentale in posizione intervocalica : ESEMPI: i puet ‘i piedi’ , chiotini ‘ chiodini’

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La palatalizzazione di –LL- ESEMPI: uagl ‘gallo’ ,begl ‘bello’ chigliu ‘quello’ L’esito palatale affricato PL> [t] ESEMPI: ciesco < PLESCUS ‘roccia’ (a Solopaca e nelle zone del casertano) Il verbo avere è usato come ausiliare in casi in cui in italiano c’è essere. ESEMPI: iti venuti ‘siete venuti’ , imo venuti ‘siamo venuti’ La forma ino per la terza persona plurale del verbo avere ‘hanno’. ESEMPI: nun ino stati ‘non sono stati ‘ Passato remoto sigmatico con la desinenza –se. ESEMPI: penzèse ‘pensò’ ( S.Bartolomeo in Galdo)

In certi casi quindi la pronuncia di alcuni dialetti sanniti è più vicina a quella irpina,ma è diversa dal napoletano.

LA PROVINCIA DI CASERTANella parte alta della provincia di Caserta i dialetti sono in parte diversi da quelli della zona napoletana perché si avvicinano più a quelli del Lazio meridionale con cui confinano ,inoltre molti centri della provincia di Frosinone fino ad inizio secolo scorso rientrava nel territorio campano.

Le caratteristiche tipiche di questi dialetti sono :

Articolazione della –a- come vocale posteriore ESEMPI: sòccio vs saccio ‘so’

L’ articolo determinativo è aferetico (come napoletano ‘o),ma è ‘u ,si trova anche ju ,(o gliù) ,o ru Palatalizzazione del gruppo –LL. ESEMPI: capigliu ‘capello’ , chigliu ‘quello’ (zone al nord del fiume Volturno) Assenza del rafforzamento sintattico a causa del cedimento del genere neutro. ESEMPI: u’ sale , u’ latte Dal nesso latino PL si produce l’affricata palatale [t] . ESEMPI: ciòvere ‘ piovere’ , ciù ‘ più’(Pignataro maggiore) Infinito terminante con la sillaba d’appoggio –ne. ESEMPI: cantàne ( area verso il Molise,Pietramelara) Passato remoto in –ette anche coi verbi della 1°coniugazione. ESEMPI:penzette ‘pensò’(fenomeno disomogeneo)

LA PROVINCIA NAPOLETANATutti i dialetti campani non possono essere compresi sotto l’etichetta del napoletano,anzi proprio ai confini di Napoli,nella provincia i dialetti assumono caratteristiche lontane dal napoletano.

Un esempio concreto è il dialetto dell’isola di Procida che pur essendo cosi vicina presenta differenze sostanziali,anzi sembra conservare proprio tutte le caratteristiche di altre aree che a Napoli sono assenti:

L’articolo determinativo è lu (diversamente dal napoletano e come il Cilento) ESEMPI: lu parrucchiano La vocale tonica –a- palatalizzata in –e- nei maschili (esito metafonetico) (anche a Ischia e nel Sannio) ESEMPI: chiètto ‘grasso’, cainèto ‘cognato’ Il gruppo –LL- si evolve in vibrante [r] ESEMPI: bèr ‘bella’ L’articolo femminile plurale è re ESEMPI: re quarantore ‘le quarant’ore’ Imperfetto indicativo: fòve ‘era’

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Pronuncia della –à- che si innalza verso la –ò- in posizione finale. ESEMPI: fò ‘fare’ , baccalò ‘baccalà’

Altri vistosi elementi di differenziazione si ritrovano nel vocalismo (per esiti metafonetici) di Pozzuoli:

Al singolare –i- tonica lunga produce dittongo –ai- ESEMPI: failə ‘filo’ , Al plurale invece la –i- tonica diventa –öi- . ESEMPI: föilə’fili’ Al posto di –o- tonica si produce il dittongo –au- . ESEMPI: nəpautə’nipote’

Diverso è invece il vocalismo di Torre del Greco che prevede:

La –a- tonica è articolata con una pronuncia che l’avvicina a –o- nei maschili (esito metafonetico con innalzamento velare invece che palatale). ESEMPI: ‘u marenòre’il marinaio’

Ad Acerra,inoltre, si può anche incontrare il condizionale che finisce in –era. ESEMPI: vivèra’berrei’

NAPOLI

Il dialetto napoletano non è diventato nel tempo un dialetto regionale né si è mai proposto come il dialetto per eccellenza di ogni cittadino campano da affiancare alla pluralità dei dialetti più propriamente locali. Il napoletano ha dato vita ad una ricca e prestigiosa letteratura in dialetto,ma non è mai stato lingua ufficiale del Regno,né è stato quasi mai lingua di corte(dove hanno prevalso le lingue dei regnanti: francese,catalano,castigliano e infine l’italiano),solo il re Ferdinando Borbone usava il napoletano nella conversazione,ma i documenti ufficiali erano comunque in italiano.(testimonianza del dialetto del re è presente anche ne’Il Gattopardo’ Di Tomasi di Lampedusa) Inoltre la Napoli capitale aveva sempre ospitato parlanti di diverse province diventando luogo di confluenza di dialetti diversi,ma anche come centro di irradiazione dell’italiano come sede dell’unica università delle regioni meridionali. In quanto città capitale del Regno,Napoli non ha mai avvertito la necessità di imporre il proprio dialetto e così il dialetto cittadino è rimasto tale,parlato solo nella città. Inoltre nel Regno come lingua ufficiale all’inizio si preferiva il latino e poi l’italiano (che ha acquisito terreno dal 500 in poi) ed erano queste le lingue che sia nello scritto che nel parlato fungevano da punto di riferimento unitario che assicurava un certo tipo di comunicazione. I parlanti campani quindi non hanno mai sentito la necessità di abbandonare il proprio dialetto a vantaggio del napoletano. Solo in epoca postunitaria il dialetto napoletano si è diffuso ,paradossalmente quando ormai Napoli non era più capitale, attraverso i canali della letteratura scritta,della canzone, del teatro sia di varietà che drammatico, e in seguito anche del cinema,raggiungendo così un pubblico sia regionale che nazionale. Grazie a questi generi di larga diffusione il napoletano si è imposto come immagine cittadina al di fuori della città proprio nel periodo in cui la diffusione dell’italiano era più consistente (scuola,istituzioni pubbliche,movimenti migratori,mezzi di comunicazione di massa ecc).

D’altronde i dialetti delle varie aree regionali hanno acquisito nei secoli alcune caratteristiche comuni che in Napoli hanno trovato un centro di aggregazione e si sono rafforzate.

Nonostante abbia in comune con gli altri dialetti della Campania il dittongo metafonetico,la variazione consonantica,il genere neutro e la vocale indistinta, si è però evoluto nel tempo senza che i parlanti ne prendessero consapevolezza e presenta qualche elemento tipico che a Napoli è accentuato più che altrove:

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L’indebolimento del suono vocalico finale che spesso indebolisce la pronuncia dell’intera sillaba finale forse dovuto alla maggiore velocità di pronuncia rispetto agli altri Troncamenti e elisioni ESEMPI: ‘sapè’sapere’ Rafforzamento ella –m- intervocalica ESEMPI: ‘cammera’camera’ Dittongo –io- nei possessivi ESEMPI: ‘tuio’tuo’, suio ‘suo’ Novità nella forma ridotta di Gennaro che diventa sempre più spesso Genny/i a posto di Iennà Alcune voci del dialetto nel tempo hanno assunto una sfumatura di arcaicità (Carlo De Frede).Non sono uscite assolutamente dall’uso,anzi sono ancora molto vitali ESEMPI: ‘spingula’spilla’‘chiummo’acciaio’ ‘nudeco ’nodo’ ‘pierzeco’pesca’‘purtuallo’arancia’

LESSICO DELLA REGIONE E LESSICO LOCALE

La diffusione delle caratteristiche di una lingua è favorita sicuramente dalla circolazione delle parole,al seguito delle quali si spostano anche i tratti fonetici e morfologici di cui i parlanti non hanno consapevolezza. E’ proprio nel lessico di una lingua che si riflettono,inoltre, gli usi ,i comportamenti reali e gli atteggiamenti culturali di una comunità anche in relazione alle innovazioni linguistiche. La storia delle parole evidenzia anche il rapporto tra lingua e cultura per questo è significativa la presenza e la diffusione di un certo tipo di lessico in determinate aree.In Campania per esempio si distinguono con un diverso grado di diffusione :

1. Parole che sono presenti sia nella regione che in gran parte dell’Italia meridionale: forme che risalgono ad un’ antica matrice comune che sono rimaste in tutte le regioni meridionali i cui dialetti sono in qualche modo affini o parole entrate come innovazioni(ossia come prestiti) dal Medioevo in poi. Per esempio parole che hanno origine latina come: accattà ‘comprare’ , assettarse ‘sedersi’ ,scarparo ‘calzolaio’ la capa ‘la testa. Spesso ci troviamo anche davanti a uno stesso referente che ha due forme lessicali concorrenti nell’area regionale,uno che si estende verso nord ( isso < IPSE, cerqua ‘quercia’) e una verso sud ( illo < ILLE , cerza ‘quercia’).Se si volessero delineare bene queste due zone si potrebbe riconoscere un’isoglossa che va da Eboli a Lucera,considerabile un vero e proprio confine linguistico che divide l’area ‘napoletana’ (a nord, che comprende Campania centrale e settentrionale: ‘magnà,isso,ecc’) dall’altra (a sud, che comprende Cilento,Irpinia,Lucania e Puglia: ‘mangià,illo,ecc’). l lessico dei dialetti non è immutabile,ma si evolve come quello di qualsiasi lingua e il fatto che tuttora persista l’esistenza di un confine dimostra che i mutamenti linguistici dei dialetti sono lenti e progressivi. Innovazione recentemente entrata nei dialetti dell’Italia meridionale è per esempio ‘tenere’usato nel senso di ‘possedere’ e lo conferma il fatto che nei testi antichi invece troviamo ‘avere’ con il medesimo significato.( tenere è forse entrato grazie all’iberismo tener ’avere’).

2. Parole diffuse più o meno in tutta l’area campana : si tratta i un tipo di lessico più tipicamente campano che non ha raggiunto le altre regioni meridionali. Per esempio è di diffusione campana il tipo lessicale mola ‘molare’ che al di fuori dei confini regionali è presente più come gangale. Parole considerate tipicamente campane sono ancora : alluccà ‘urlare’ ,azzeccà ‘ippiccicare’,appiccicà ‘litigare’,ntuppà ‘urtare’, sfruculià ‘prendere in giro’, tuzzà ‘sbattere’, sparagnà ‘risparmiare’ ecc.

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3. Parole in uso solo nei dialetti di una parte della Campania,ma non nel resto della regione : solo nell’area campana di tipo napoletano troviamo il termine ncoppa ‘sopra’ mentre nel Lazio,in Abruzzo,In Puglia,Basilicata,Calabria e Sicilia prevalgono forme derivate da SUPRA (tranne in Cilento dove troviamo ngimma o nguödde). Sono parole soltanto napoletane (cioè in uso solo nella città di Napoli e dintorni) : coviglia ‘semifreddo’ , nturzato ‘gonfio’, pàccaro ‘schiaffo’, vaco ‘n freve ‘perdo la calma’, sapunaro ‘straccivendolo’ , scugnizzo prima ‘giovanissimo delinquente’ ,ora più ‘ragazzino vivace’ (è una parola che è giunta anche in italiano,ma no nei dialetti del resto della Campania). Parole invece esclusivamente dell’area sannita sono vritto ‘sporco’ e donna/dònnema ‘suocera/mia suocera’, nell’Irpinia sono diffuse parole come acciòppola’litigio’,ammantonà ‘ammaccare’, bàbbolo ‘pupazzo’ ecc .

Queste specificità locali non sono sempre esito di una conservazione del lessico tradizionale, posso essere anche prestiti (occasionali o radicati nell’uso) importati dagli emigrati di ritorno.

Alcuni prestiti sono entrati nel dialetto anche attraverso la comunicazione ufficiale burocratica,ecclesiastica o giudiziaria (i cosiddetti ‘cultismi’)che possono essere comuni ad un certo numero di dialetti o variare da zona a zona.

Al lessico giuridico e burocratico risalgono parole come : ligittimo ‘puro, genuino’ ( ad Ariano) iusso re passaggio (<IUS) ‘diritto di passaggio ‘ (a S.Mango sul Calore) ecc

Al campo della medicina appartengono i modi di dire popolari : artéteca ‘ irrequietezza’ , appucudria ‘malinconia’ (< ipocondria ‘ fobia’)

All’ ambito religioso e al latino della Chiesa si collega : Marcosalemme (< Matusalemme,’saccente’ nel dialetto di Montella).

LESSICO e TRADIZIONI POPOLARI

Le parole del dialetto conservano spesso uno stretto legame con la cultura materiale, ciò è particolarmente evidente negli ambiti lessicali culinario di area locale che va dai piatti tipici natalizi (mustacciuoli, roccocò, susamielli, menestra maritata ) a quelli pasquali (la pastiera, termine documentato già nei testi in latino del XiV secolo redatti nella cura papale con sede ad Avignone,inoltre la troviamo in Sannazzaro che la ricorda come uno dei piatti preferiti del re angioino Andrea e questo spiega la desinenza in –iera che si presenta come un francesismo,la prima attestazione in un testo in volgare è dello stesso periodo ed è riscontrata nell’Inferno redatto dal napoletano Maramauro,la troviamo poi nell’elenco di piatti tipici del periodo pasquale stilato da Giovan Batista del Tufo dove troviamo ‘pastiede’ – con variazione consonantica di –d- in –r-) infatti le parole della gastronomia sono infatti talvolta documentate anche nei testi antichi.

I piatti tipici infatti conservano in genere le antiche denominazioni tradizionali,ma anche le parole che si ricollegano alle credenze popolari tradizionali come controra (con cui in genere si indicano le ore del primo pomeriggio) che a Procida è chentrora e si riferisce ad un essere favoloso,una specie di strega che si aggira per le strade dell’isola nelle ore più calde per convincere i bambini a dormire.Un’altra presenza magica è la ‘Mbriana ,una presenza domestica benigna, spesso identificata con un geco, che è considerata di buon auspicio per la casa in cui alloggia, una figura simile è il munaciello (o munaciddu in altre zone della regione) che si insedia nelle case come lare domestico.

DIALETTO, GERGO,GIOVANI E NEOLOGISMI

I dialetti campani traggono molti elementi lessicali dai gerghi tradizionali, dalla camorra(a cui risalgono termini come scugnizzo,picciotto,babbio ‘carcere’,bobba ‘veleno’) ad altri generi come la musica (da cui deriva per esempio parlèsia ‘atto del parlare’ tuttora usata da musicisti e cantanti,forse di origine greca data la terminazione in –èsia, è comunque ricollegabile probabilmente al calabrese parlasìa ‘loquacità’ o al siciliano parra(s)cìa ‘parlantina’)

I giovani della Campania non parlano tutti allo stesso modo,alcuni parlano prevalentemente il dialetto come prima lingua,altri invece sono esclusivamente italòfoni e apprendono una conoscenza del dialetto passivamente o lo acquisiscono in un secondo momento proprio nell’ambito scolastico dove è preferito come lingua della comunicazione informale. Questo recupero come seconda lingua dimostra ancora una volta la vitalità del dialetto,che entra così tra le opzioni comunicative (in contesti di informalità) dei giovani adolescenti.

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Il lessico gergale giovanile,inoltre,spesso è ripreso proprio dal dialetto e i giovani parlanti ne sono ben consapevoli anche se non tutti conoscono il significato dialettale originario. Per esempio menare la séccia è usato spesso per ‘portare sfortuna’ ma non è sempre trasparente il significato dialettale di séccia’seppia’ (<SEPIAM ) oppure il verbo pariare (< lat. PADIARE ‘digerire’) diffuso tra i giovani con significato ‘spassarsela ‘, ma anche l’usatissimo termine cazzimma che ha assunto il significato metaforico di ‘furbizia opportunistica’ che potrebbe essere o un neologismo novecentesco o potrebbe essere affine a scazzimma ‘secrezione cisposa’.Nel linguaggio giovanile si sono consolidate con evidenti segni di dialettalità anche le locuzioni stà fore ‘ essere fuori’ che è in un certo senso riconducibile all’inglese to be out , ce lo vuole con me ‘si interessa a me’, schiéa ‘o cinco traslato ‘qua la mano’ (schiéa < EXPLICARE’dispiegare’> banalizzato in ‘schiacciare rumorosamente’) o neologismi come tirarsela /atteggiarsi ‘darsi delle arie’ .

Tra gli altri usi lessicali giovanili si annoverano anche (essere/fare)‘a mostro ‘essere molto bravo’,ammoccarsi ‘baciarsi’,azzeccato ‘ ansioso,paranoico’,capa’e chiuovo ‘testa dura’, bono ‘bellissimo’, cuozzo ‘tamarro’,freakkettone ‘ sessantottino,pacifista’,intalliarsi ‘bloccarsi’, ntrunatu ‘intontito’ , pezzottato ‘falso,difettoso’, schifare ‘provare forte antipatia’,sfottere ‘prendere in giro’, sclerare ‘esaurirsi’,tranqui ‘non preoccuparti’ , altri invece si presentano come anglicismi diretti o indiretti: dark ‘persona tenebrosa che veste di nero’, fashion/féscion ‘elegante,alla moda’,grande! ‘ esclamazione di contentezza forse un calco di great!,pusher ‘spacciatore’ , rave’ festa illegale’(parole presenti anche in italiano).

Dai giovani inoltre sono percepiti come appartenenti al proprio lessico delle voci presenti da tempo anche nell’italiano colloquiale e informale come : cagare’considerare’, imballato ‘confuso’,fregare ‘imbrogliare,rubare’,palla’bugia’,sballarsi ‘drogarsi,prof ‘professore,secchiona ‘persona studiosa’,stare a rrota ‘ essere in astinenza’,tirato ‘tirchio’,sòla ‘fregtura’ ecc.

Neologismi in Campania sono sicuramente l’appellativo amò, la locuzione avverbiale ‘a ffinale’dopo tutto’ , bombolone ‘lecca lecca’,pezzotto e tutti i derivati.

NUOVI SPAZI DEL DIALETTO NELLA SCRITTURA

Tra la fine del XX secolo e l’inizio del XIX° il dialetto ha conquistato nuovi spazi anche nella comunicazione scritta, attraverso i nuovi canali comunicativi delle chat-line, degli sms,della posta elettronica ,ma anche in scritture non destinate alla comunicazione privata,ma ad un’esposizione in zone pubbliche come le insegne pubblicitarie o i messaggi delle campagne di sensibilizzazione verso alcuni problemi particolari,ma a volte anche per comunicare alcune iniziative. Un tipo di scrittura creativa esposta in pubblico è quella degli striscioni sportivi che spesso contengono scritte in dialetto,ma anche le scritte murali.

CAPITOLO IV : L’ Italiano Regionale

Nel periodo postunitario si è diffuso in Italia il falso luogo comune della fine dei dialetti,i quali sarebbero stati soppiantati dall’italiano data,forse,l’incapacità dei parlanti ad avere più competenze linguistiche. La scuola, l servizio militare,la burocrazia,la Chiesa,la radio, il cinema, la televisione e gli spostamenti della popolazione che hanno favorito contatti diretti con altre realtà linguistiche hanno senz’altro favorito la diffusione dell’italiano,ma questa ,in realtà, non ha comportato assolutamente la crisi dei dialetti. Contrariamente a quanto si è creduto, i dialetti non sono usciti finora dall’uso anzi negli ultimi anni il dialetto è entrato anche in quegli ambiti in cui il suo uso sembrava assai limitato :la comunicazione televisiva,la pubblicità,il cinema,internet ecc.

La situazione dei dialetti non è uniforme, in alcune aree l’uso è maggiormente circoscritto,in altre invece è molto radicato e consistente. Questo dimostra che l’unificazione politica non è per forza sinonimo di unificazione linguistica, anzi se tutt’oggi si svolgono studi linguistici e dialettologici è perché il territorio linguistico italiano è piuttosto vario,la lingua stessa è variabile e si modifica nel tempo( diacronia), nello spazio (diatopia), in rapporto al canale di comunicazione usato, scritto o parlato, (diamesìa), al grado di formalità- informalità ( diafasia) e al profilo socio-culturale dei parlanti (diastratia), ciò significa che in una qualsiasi comunità linguistica parlanti diversi parlano in modo diverso la stessa lingua usando a seconda delle situazioni comunicative diverse varietà linguistiche. In Italia il repertorio delle varietà a disposizione di un parlante è costituito per esempio dalle varietà di italiano dell’uso medio, italiano letterario,italiano popolare,italiano regionale e,ovviamente, dei dialetti.

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In gran parte dell’area campana i dialetti convivono con l’italiano e non sono minacciati da questo,anzi spesso costituiscono la lingua materna per una buona parte della popolazione. Per esempio secondo un sondaggio a Napoli il dialetto è usato abitualmente da circa il 70 % dei parlanti e solo il 12% non userebbe mai il dialetto. Ciò significa che almeno in un terzo delle famiglie napoletane il dialetto è lingua materna e che gli altri che non lo apprendono come prima lingua ne vengono comunque sempre in contatto nel quotidiano e quindi hanno occasione di impararlo come seconda lingua.

Dato che italiano e dialetto convivono è ovvio che spesso interferiscano l’uno con l’altro influenzandosi a vicenda: i dialetti acquistano forme e caratteristiche dell’italiano e l’italiano assume tratti dei dialetti delle diverse zone. L’italiano parlato oggi risente molto dell’influenza dei dialetti e le sue varietà che mostrano tratti dialettali prendono il nome di ITALIANO REGIONALE (o locale).

L’italiano locale è,appunto, l’italiano influenzato dal dialetto di ci si hanno notizie già nei secoli passati,almeno per Napoli. A Napoli più che altrove si erano verificate da tempo le condizioni per l’instaurarsi di varietà intermedie simili all’italiano regionale(nate dall’incontro tra italiano e dialetti) perché la città era stata a lungo una capitale caratterizzata dalla compresenza di parlanti e lingue di diversa provenienza quindi i napoletani e il napoletano erano messi continuamente a confronto con gli altri modi di parlare (situazione di interferenza e ‘studio’ reciproco)

Autori come Benedetto di Falco(‘500),Giovan Battista del Tufo (‘500),Giulio Cesare Capaccio (‘600),Niccolò Amenta (‘700) , Carlo Mele (‘800) danno notizia nelle loro opere di un italiano parlato a Napoli di tipo quasi locale e confermano che già tra ‘500 e ‘600 una parte dei cittadini si accostava all’uso dell’italiano (non senza interferenze)almeno in determinate occasioni.

Nel primo ‘500 Benedetto di Falco si rivolgeva ai napoletani dicendo che se anche non erano obbligati a essere” toscani” almeno dovevano parlare in un modo più regolato evitando quelle “parole basse” con caratteristiche fonetiche fortemente dialettali.

G.B. del Tufo nell’opera “ritratto o modello delle grandezze,delitie e meraviglie della nobilissima città di Napoli” distingue il modo di parlare della plebe o popolaccio “lingua malnata” dal “favellar gentil napolitano” che a suo parere è uguale al toscano e superiore al milanese.

Nel ‘600 il Capaccio parla di un “parlare napoletano” diventato molto “regolato che viene usato dai nobili che si dilettano con la lingua cortigiana”.

Nel ‘700 il giurista Nicola Amenta nel trattato “Della lingua nobile , e del modo di leggiadramente scrivere in essa non che di perfettamente parlare” offre esempi del parlare imperfetto della città di Napoli ossia di un italiano pronunciato con interferenze dialettali (vocali aperte che in toscano sarebbero chiuse o viceversa).

Carlo Mele nel primo 800 in “Cenno sulla diritta pronuncia italiana” segnala i frequenti errori di pronuncia diffusi a Napoli che danno testimonianza ancora una volta dell’italiano locale ( g al posto di c “stanga”, quanno per quando assimilazione, s-palatale pronunciata come affricata ecc) e dopo di lui anche altri autori segnaleranno le parole “provinciali” da evitare quando si parla italiano.

Questi diversi documenti testimoniano l’esistenza di un italiano regionale anche molto prima che avvenga l’unificazione e ci aiutano ,indirettamente, a conoscere il lessico tipicamente locale dell’italiano regionale del passato.

La continua osservazione della lingua tipica del popolo e le prescrizioni linguistiche dei vari autori hanno fatto sì che i parlanti (napoletani) acquisissero una maggiore capacità di tenere tra loro separati napoletano e italiano (toscano) e hanno richiamato l’attenzione dei letterati sui dialetti favorendo così una fruizione letteraria ed estetica del dialetto. Situazione favorevole che acquisterà poi maggior rilievo dopo l’unificazione infatti un atteggiamento largamente positivo e di apprezzamento per il dialetto locale si incontrerà anche in quegli ambienti in cui prevalgono l’italiano e l’italiano regionale. Tanto più i parlanti acquisteranno maggiore consapevolezza dell’italiano tanto si indurrano osservazioni metalinguistiche sui dialetti (sul napoletano).

TRATTI DELL’ITALIANO REGIONALE

L’italiano pronunciato dai parlanti campani presenta alcuni tratti fonetici inconfondibili come :

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La pronuncia chiusa delle vocali toniche dei dittonghi mentre in italiano la vocale tonica è aperta : scuóla Pronuncia aperta di alcune vocali toniche che in italiano invece sono che chiuse : giòrno La –i dopo palatale sorda viene pronunciata , in italiano non si sentirebbe : c-i-elo Tendenza a pronunciare indistinto il suono vocalico finale anche parlando italiano Rafforzamento delle consonanti –b- e –g- in posizione intervocalica : *sabbato, *paggina L’affricata palatale [t] sorda è resa come fricativa [] : piae S- prima di velare e labiale è resa come palatale fricativa,mentre dopo nasale,vibrante e liquida diventa

affricata dentale : salza ‘salsa’ (in situazioni di maggiore informalità e più nella provincia che a Napoli) Caduta dell’ultima sillaba nei vocativi : dottò, professò, Giovà

Quando l’influenza del dialetto si fa più consistente, dalla pronuncia dell’italiano regionale si percepiscono alcuni fenomeni che sono molto più dialettali e sarebbero collegati in modo più corretto all’ITALIANO POPOLARE.

I fenomeni fonetici più evidenti sono per esempio:

Presenza della vocale d’appoggio (anaptissi) nei nessi consonantici : pisichiatra ‘psichiatra’ Indebolimento nella pronuncia dell’intera sillaba finale non solo dell’ultima vocale Accentazione sistematica sull’ultima sillaba delle parole che terminano per consonante : Mercedès o Ritrazione per ipercorrettismo dell’accento sempre su parole che terminano in consonante: Càvour Assimilazione dei nessi consonantici che risultano più difficili : abbitro ‘arbitro’, soppresa ‘sorpresa’ Assimilazione dei nessi consonantici in sequenze complesse : no pposso ‘non posso’ Dissimilazione : zambaglione Ipercorrettismo in alcune forme : pulmandino ‘pullmanino’ ( in dialetto ND>nn ) Rafforzamento della consonante in alcune parole : disoccupato ‘disoccupato’, gassolio ‘gasolio’

Tra i fenomeni morfosintattici i più frequenti sono:

Uso del congiuntivo imperfetto invece del condizionale : chi l’avesse detto! ‘chi l’avrebbe detto’ Uso del passato remoto in riferimento a eventi del giorno prima (non della stessa giornata) : ve lo dissi ieri Complemento oggetto riferito a persona introdotto da “a” : faccio venire a qualcuno , a questo lo odio Uso esclusivo della preposizione “a” nello stato in luogo (a casa mia) e nel paragone (come a ) e prima di

un infinito soggettivo ( ti conviene a spendere tanto?) Costruzione transitiva (per ipercorrettismo) di alcuni verbi : dispiacere (non voglio dispiacerle) ,voler bene,

telefonare,ma anche scendere,salire,entrare (tradotti dal dialetto dove sono transitivi) Anticipazione in funzione di tema di “quello” e “quella” : quello/a , Mr X, ha detto…., Posposizione del possessivo: le cose mie, Funzione avverbiale espressa da un aggettivo : (guida troppo lento) o a un sostantivo (state una bellezza) Costruzione delle interrogative con CHE+INFINITO+FARE : che me lo dici a fare?

LESSICO DELL’ITALIANO REGIONALE

Il lessico che qualifica l’italiano di tipo campano semplificato alle voci più diffuse, spesso adottate consapevolmente dai parlanti per dare una “macchia di colore” , comprende:

abbuscare’guadagnare’,accattare ‘comprare’, acchiappanza’occasionale conquista sentimentale’,addormuto ‘svagato’, alice ‘acciuga’, ammappuciato ‘sgualcito’,appiccicarsi’litigare’,arrevotare ‘mettere a soqquadro’, arronzato’approssimativo’, buatta ’recipiente’ ,corto’basso’,fare cerimonie ’fare complimenti’,fare l’amore’essere fidanzati’,faticare’lavorare’,impennacchiato’agghindato’,inchiommare’frenare di colpo’,insallanuto’rimbambito’,inciucio’pettegolezzo’,inguacchio’pasticcio’,inguacchiare’imbrattare’,meza cazetta’persona dappoco’,mappina’straccio’,pàcchero’schiaffo’,paliatona’solenne bastonatura’,pazzièlla’gioco,cosa di poco conto’, pirchio’tirchio’,provola’mozzarella affumicata’,punessa’puntina da disegno (<punaise.fr.), scancellare’cancellare’,schiattare’scoppiare’,scarrafone’scarafaggio’,scetato’molto sveglio’, sparatrappo’cerotto’, sfruculiare’prendere in giro’, stipare’conservare’, tenere’avere,possedere’.

Molte parole tipiche dell’italiano regionale si riferiscono ai prodotti locali,cibi compresi (dagli antipasti ai dolci).Per esempio troviamo : crocchè, arancini,pasta cresciuta,cicenielli,paccheri,spaghetti a vongole ( alle

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vongole),gattò,sartù,braciole,cuoccio,spigola (branzino),alici(acciughe),purpetielli,taratùfoli,melanzane a funghetti,gli zucchini (genere maschile),sfogliatelle,babà,zuppette,delizie,caprese,sciù ecc…

Anche nell’italiano locale è produttiva la sequenza di nomi derivati senza aggiunta di suffisso (“suffisso zero” tipico anche del dialetto) come:

allucco ‘urlo’ (<alluccare), sfratto ‘trasloco (<sfrattare), scasso ‘luogo di raccolta auto rottamate’, scippo ‘furto a strappo’, arrevuoto ‘sovvertimento’ (<arrevotà) ecc..

Anche l’italiano regionale si modifica nel tempo e può risentire in modo maggiore o minore dell’influenza di una delle due varietà da cui è composto (italiano e dialetto). E’ probabile che in passato la componente dialettale sia stata predominante,ma oggi invece ,forse per effetto della maggiore alfabetizzazione,la situazione vede diminuito il numero di parlanti che usano lessico napoletano credendo di usare quello italiano. Ciò significa che all’interno di un discorso in italiano forse compaiono meno termini napoletani,ma in una frase è spesso frequente il ricorso a certe voci come una sorta di ‘citazioni’ dal dialetto.

CAPITOLO V : Testimonianze letterarie e documenti

Alle origini della scrittura in volgare

Nel Medioevo la lingua usata per la scrittura è stata per molto tempo esclusivamente il latino. Chi sapeva scrivere erano soprattutto i monaci,che leggevano e ricopiavano i manoscritti, e i notai che scrivevano per motivi professionali.Questi ultimi per primi avvertirono l’esigenza di mettere per iscritto la lingua davvero parlata perché volevano farsi capire bene dai loro clienti nel momento della lettura degli atti ed evitare i futuri fraintendimenti. Inserirono così nei documenti le parole dell’uso. I primi documenti notarili in cui latino e volgare sono accostati,ma non confusi sono i Placiti Capuani,il più antico dei quali è del 960 d.C. Questo atto è interamente redatto in latino,ma trascrive fedelmente le dichiarazioni di tre testimoni che dichiarano la proprietà dei monaci dell’Abbazia di Montecassino posseggono un ampio territorio da 30 anni.Il documento è in realtà frutto di una strategia ben precisa ai fini di invocare il principio di usocapione e ci sono molti indizi che i testimoni avrebbero ripetuto una frase concordata precedentemente all’atto in modo che questa contenesse i riferimenti fondamentali per rendere l’atto valido e per dare massima ufficialità e massima valenza alla testimonia. La verbalizzazione non è quindi dovuta ad un fatto casuale o alla volontà di chi scrive di agevolare i testimoni (che non erano ignari del latino dato che si trattava di uomini di chiesa).Allo stesso periodo (963 dC) corrispondono altri testi importanti dello stesso genere, sono il Placito di Sessa Aurunca, il Placito di Teano e il Memoratorio di Teano,che si riferiscono ad altre indicazioni di proprietà,ma ricalcano la stesa formula prestabilita dei Placiti Capuani (perfino nella costruzione sintattica con dislocazione a sinistra :in cui l’oggetto è evidenziato perché anticipato e poi ripreso con il pronome clitico,e il soggetto è messo in rilievo perché posticipato dopo il verbo a fine frase) .

Nei secoli successivi in Campania saranno usati nella scrittura solo il greco e il latino e il volgare compare solo sporadicamente nelle sezioni dei testi notarili che si riferiscono agli usi quotidiani e agli oggetti più comuni (caso’formaggio’,cammara ‘camera’,camisa ‘camicia’ecc).

Alla fine del 200,con l’arrivo degli angioini, giungono a Napoli mercanti di diversa provenienza,in particolare fiorentini e si diffonde la scrittura in volgare in quei testi che si riferivano alle attività commerciali. Un documento che testimonia l’uso del volgare nelle scritture a scopi pratici in ambito commerciale è una antica carta di prestito,la cosiddetta “Scritta amalfitana” (c.a 1280) con cui una monaca di Amalfi conserva memoria di una somma prestata a due conterranei. In questo periodo si diffonde negli scritti degli uffici,della cancelleria e della contabilità una lingua di koinè comune ad un’area piuttosto ampia :un volgare non identificabile né con la lingua d’uso locale né con quella

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che diventerà poi il dialetto napoletano,ma una lingua scritta influenzata da siciliano,napoletano e fiorentino con frequenti di latinismi e abbastanza priva dei fenomeni tipici del volgare locale (dittonghi metafonetici).

IL NAPOLETANO NELLA LETTERATURA

Nel 300 a Napoli si delinea un nuovo pubblico di lettori che si mostra interessato a leggere opere in volgare (oltre quelle colte ed erudite scritte in latino). A metà del secolo un autore anonimo traduce in volgare napoletano ( NON ANCORA DIALETTO,MA VOLGARE ) l’opera latina “Storia della distruzione di Troia” scritta dal giudice messinese Guido delle Colonne. Grazie a questa opera si ci può rendere conto di come il napoletano si sia evoluto e modificato nel tempo rispetto a 700 anni fa . Innanzitutto nella scrittura ci sono ancora grafie tipiche del latino che oggi non sono più in uso : h- in honore e humile , -ti- in gratiose, il nesso pl- in plu, -ct- in facto e-.mpn- in solempne,poi alcune parole sono differenti da quelle di oggi per esempio gli articoli (lo,la,li che in napoletano non esistono più,ma si conservano nel dialetto irpino) o il passato remoto “sposao” oggi sarebbe spusaie in napoletano,ma la stessa forma la possiamo trovare in altri dialetti campani,in quelli Irpini e del Cilento. Altre parole che si trovano all’interno del testo, invece, si sono conservate stabili fino ad oggi e le si ritrovano sparse qua e la per i dialetti campani, alcuni esempi sono : accattare’comprare’,allummare ‘accendere’,cecato ‘cieco’,iuochi ‘ giochi’,iuorno ‘giorno’ (in posizione debole senza variazione consonantica),pertuso ‘buco’,’ntorzare ‘gonfiare’, scassare ‘rompere’, scalfare’scaldare’, verace ‘vera’ , vattere ‘percuotere’ ecc…

Sempre nel ‘300 il toscano Giovanni Boccaccio usa occasionalmente il napoletano per scrivere un breve testo in cui sotto firma di lettera racconta che a una giovane napoletana è nato un bambino e descrive la festa di battesimo. L’argomento centrale è lo spunto poi per riflettere sulle abitudini tradizionali e sul modo di parlare dei napoletani che lo avevano sempre affascinato e incuriosito. Egli infatti non vuole attenuare i fenomeni locali,ne vuole registrare fedelmente maggior numero possibile. Nel testo introduttivo che funge da prefazione,però,l’autore si serve dell’abituale volgare letterario toscano. Dal punto di vista dell’autore, il napoletano è una lingua locale,cioè è visto come un dialetto,mentre il toscano è il miglior volgare letterario. Questo testo è quindi da considerare la primissima anticipazione della letteratura dialettale napoletana e in esso è già presente un elemento che sarà poi costante in tutta la storia letteraria napoletana : l’uso del dialetto abbinato all’osservazione attenta della realtà locale. La lettera di Boccaccio registra cosi dei fenomeni tipici della lingua popolare :

o Il passaggio l > r : puorpo ‘polpo’o L’esito locale di –PL- in affricata palatale [t] : chiena (<PLENA)o L’alternanza tra articoli lo e lu o Il condizionale derivato dal piuccheperfetto latino in –era / -ara (in Cilento) : facèramo ‘avremmo fatto’o La tendenza all’accumulo dei pronomi enclitici : mandicaosìllo ‘se lo mangiò’o Presenza della sillaba d’appoggio - ne: mene ‘me’ , tene ‘te’, tune ‘tu’o Anticipazione del dimostrativo son valore di tema del discorso : E chillo me dice judice Barillo ca isso sape

quan’a lu demoneo Presenza del dittongo metafonetico (anche in parole che oggi sono senza) : biello , mieglio o Abbondante ripresa del lessico di origine francese, indizio di come la società napoletana fosse esposta

all’influenza della lingua degli angioini : bien ‘bene’ , che sono ormai anche scomparsi

Inoltre vi ritroviamo alcuni sicilianismi nel finale della lettera come : tia ‘tu’ , minchia ,possibili riflessi di un’effettiva circolazione di forme siciliane nella Napoli trecentesca.

Solo alla fine del ‘400 possiamo affermare che nasce la vera letteratura dialettale scritta da autori napoletani,che pur affermando il loro legame con quel mondo cittadino non se ne sentono del tutto partecipi,anzi è come se lo osservassero dall’esterno,in lontananza. La lingua usata da questi autori è una lingua letteraria vicina al toscano ,ma in alcuni testi , in particolare negli “gliòmmeri” (gomitoli) questi letterati (come Jacopo Sannazzaro) usano la lingua del popolo. Negli “gliòmmeri” si coglie una realtà altra rispetto a quella della cultura elevata,una sorta di distacco tra due ambienti culturali differenti: quello del mondo popolare cittadino e quello del ceto colto con abitudini linguistiche e culturali proprie ( una sorta di differenziazione diastratica).

Jacopo Sannazzaro, uno delle figure più importanti dell’umanesimo, ha scritto opere sia in latino che in un volgare letterario molto raffinato che ormai non sembra quasi più napoletano,indice che la lingua letteraria comincia ad essere tendenzialmente la stessa per tutti. I suoi gliòmmeri erano scritti in occasione delle feste di Carnevale e recitati a corte,in questi testi l’autore imitava il modo di parlare e i tipici atteggiamenti popolari. Importante

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testimonianza è lo gliòmmero in cui nei primi versi la voce poetica (che si esprime nella lingua abituale del genere lirico)introduce sulle scene un popolano (il quale incarna il punto di vista del popolo) che,rimpiangendo i tempi andati (epoca angioina) elenca una serie di piatti tipici del tempo passato rimpianti,appunto,per la loro “ricchezza e abbondanza” (cfr “la pastiera”) e racconta degli episodi ‘prodigiosi’ raccontati dalla gente in giro per la città. Il rimpianto per il passato perduto cela una sottile polemica contro il tempo presente infatti le critiche riferite alle novità gastronomiche portate dagli aragonesi nascondono il diffuso malcontento popolare verso questi nuovi regnanti. Nella parte finale del testo ritorna nuovamente la lingua del poeta in una descrizione dai toni arcadici.

Intorno alla metà del 500 il poeta Velardiniello nella sua opera in versi “Storia de cient’anne arreto” presenta momenti della vita popolare del suo tempo e rievoca i tempi passati come un’età dell’oro,tanto che il passato appare più bello di quanto non sia stato realmente. In realtà in questo secolo Napoli aveva perso la sua autonomia diventando Viceregno spagnolo , la crescita demografica non si era però arrestate e sotto volere del vicerè Pedro de Toledo furono iniziati degli interventi urbanistici necessari per costruire dei nuovi quartieri. La vita cittadina inizia a diventare così sempre più difficile e caotica quindi non è impensabile che il testo del Valardiniello sia un’effettiva testimonianza di un periodo di crisi e carestia.

Alcune farse dialettali in versi compaiono poi verso la metà del XXVI secolo. Questi testi rientravano nel genere della farsa cavaiola (in cui sono protagonisti gli abitanti di Cava de’ Tirreni,vicino Salerno , che vengono presi a oggetto di beffa per l’ingenuità e per la rozzezza) che era un genere teatrale del rinascimento fiorita tra la fine del secolo XV e i primi decenni del secolo XVII,ma viva ancora oggi. l’autore più importante di questo genere drammatico - letterario, fu, senza dubbio, Vincenzo Braca. La sua principale opera è la farsa intitolata “Lo mastro de scola” (‘il maestro di scuola’) in cui troviamo litigi,libri strappati e mal ridotti,un maestro che cerca di richiamare l’attenzione de suoi scolari indisciplinati che,invece, protestano. La scuola è presentata come il luogo in cui si incontrano lingue diverse:quella abitualmente parlata e quella acquisita attraverso lo studio. Questo maestro parla in latino,lingua che allora era ancora normalmente usata nella scuola e in cui erano scritti i libri studiati(solo a fine ‘700 l’italiano diventa materia di studio rimpiazzando il latino) ma poi di fronte alla confusione creata dagli alunni parla anche lui nella lingua materna per guadagnarsi il loro rispetto. Essendo ambientate a Cava,le farse del Braca, sono importanti documenti linguistici che ci permettono di confrontare i tratti linguistici di quelle zone con quelli dell’area napoletana,per esempio risalta la caduta della liquida intervocalica (maedetta ‘maledetta’) e l’elisione dell’articolo che si stabilizzerà poi nella scrittura del napoletano verso la fine dell’800.

Nel ‘600 la letteratura napoletana conosce le opere di due illustri autori : Giulio Cesare Cortese e Giambattista Basile,le cui opere più celebri sono appunto in dialetto. Cortese usa il dialetto per dare un tocco di originalità alla sua opera anche se, nella lettera dedicatoria di un suo romanzo indirizzata a Basile, egli afferma che se il napoletano fosse stato “ripulito” come Boccaccio ha fatto con il fiorentino sarebbe stato più illustre. Egli voleva quindi dimostrare che il napoletano poteva essere usato in letteratura,anche nei generi più disparati. La scelta di scrivere in napoletano l’opera “ Vaiasseide” è per G. C. Cortese una sorta di sfida contro le abitudini dei letterati napoletani che ormai scrivono opere in toscano. Rilevanti in quest’opera sono i versi “confezionati alla maniera toscana” che un negoziante recita in occasione di un brindisi durante un banchetto . Il suo intento è caricaturale allude al fatto che,anche chi non fa il letterato di professione , può esprimersi imitando il volgare toscano. In questo suo poema,il poeta presenta la vita del popolo cittadino descrivendone aspetti della realtà e abitudini ,dedicando poi attenzione anche al mondo plebeo e alla sua lingua senza nessun intento satirico.

Importante contributo alla letteratura dialettale viene sicuramente da Giambattista Basile che in napoletano scrisse la sua opera maggiore , “ Lo cunto de li cunti, ovvero lo trattenemiento de piccerille” (noto anche come il "Pentamerone" perchè la struttura richiama quella del Decameron di Boccaccio,,ma è un titolo aggiunto da un editore e non dal Basile) una raccolta di 50 fiabe (i ‘cunti’) raccontate da 10 vecchiette in 5 giorni. I protagonisti sono principesse,orchi,fate,principi e altri personaggi che vivono avventure magiche di vario genere dietro le quali si cela una rappresentazione molto realistica della cultura tradizionale e popolare napoletana. Quest’opera fu tradotta anche in italiano da Benedetto Croce che l’apprezzò particolarmente. Questo testo è molto importante per gli studi linguistici perché offre una ricca documentazione sul lessico locale e sulle caratteristiche fonetiche e morfologiche del napoletano seicentesco . Una delle fiabe più note è certamente “La gatta Cennerentola” scritta in una lingua che per noi non è proprio facile perché in certi aspetti è ancora vicina a quella trecentesca. L’uso del dialetto in Basile (ma anche in Cortese) può essere letto come un intento di “fissare” nello scritto letterario il proprio dialetto che proprio in quei secoli stava mutando a causa della crescita urbana della Napoli vicereale,ma anche come una sorta di rivendicazione della cultura cittadina come alternativa ,non solo alla crescente “toscanizzazione”,ma soprattutto allo spagnolo dei dominatori.

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Tra il ‘600 e l’800 ci sono stati anche altri autori che,influenzati dai modelli di Basile e Cortese, hanno scritto in napoletano opere letterarie,sia in versi che in prosa,e testi teatrali. La lingua di questi secoli è ,paradossalmente, orientata più verso il modello dei letterati (auctores dialettali) che verso la ripresa del’uso reale. La letteratura dialettale non sembra indirizzata al popolo (anche se non di rado si ispira a questo mondo) ,ma agli uomini di cultura e agli alfabetizzati.

Dopo l’Unità , in parallelo con le tendenze della cultura nazionale ispirate da Manzoni,si verifica una svolta anche nella letteratura dialettale e alcuni giungono alla conclusione che la scrittura del napoletano non debba discostarsi dall’uso parlato. Questa nuova tendenza si afferma definitivamente attraverso le opere di Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo che,per i napoletani di oggi, sono sentite molto più vicine alla realtà della lingua parlata rispetto alle opere degli autori del passato. I testi di poeti come Di Giacomo sono veicolati anche attraverso la canzone e raggiungono così anche il pubblico di non lettori. Nelle sue opere la realtà è filtrata attraverso la soggettività del poeta, egli descrive (nella raccolta di poesie ‘O Funneco Verde) la vita malsana e triste delle zone in cui vivevano i cittadini più poveri della città di Napoli durante un’epidemia di colera.

Anche nelle poesie di Ferdinando Russo troviamo un ritratto realistico della vita cittadina,ambienti che l’autore stesso conosce bene dato il suo passato da cronista. Egli concentra la sua attenzione sui ceti emarginati,in particolare sui ragazzi che,abbandonati a se stessi, trascorrono la loro vita in strada seguendo la via della malavita,degli scippi e dei borseggi diventavano oggetto di scandalo per i turisti . “ ‘E scugnizze” è infatti il titolo della sua raccolta di sonetti e lo dichiara esplicitamente nella prefazione alla seconda edizione. Il poeta spiega che questi scugnizzi erano l’evidente prova dei malesseri della Napoli postunitaria. La sua commiserazione per questi bambini vittime di una condizione sociale difficile trabocca da tutte le pagine.

Tra fine 800 e inizio 900 Eduardo Scarpetta fu il più importante attore e autore del teatro napoletano a cui va il merito di aver creato i presupposti per il teatro dialettale moderno.

Uno dei maggiori autori d’ inizio 900 è invece Raffaele Viviani ,( su cui Eduardo Scarpetta scrisse un saggio evidenziando i caratteri innovatori della sua arte)interprete di canzoni e macchiette,poi poeta è uno degli autori del teatro più illustri del secolo scorso insieme a Pirandello e al conterraneo Eduardo De Filippo.Ha scritto e recitato molti drammi in dialetto mettendo sempre al centro della sua attenzione il mondo popolare napoletano e le diverse manifestazioni della realtà quotidiana. Il teatro di Viviani non è integralmente dialettale: alcuni personaggi si esprimono in italiano, altri sia italiano che dialetto( scelta diafasica) egli dunque mescola dialetto e italiano proprio come avviene nella realtà per portare in scena il vero mondo della gente comune senza tralasciare nemmeno gli aspetti più veri e crudi. Basta pensare al dramma “ I vecchi di San Gennaro” in cui è presentata la vicenda di Cosimo Pompei, un anziano insegnante che, ricoverato in ospizio , se ne allontana per trovare conforto e compagnia tra i suoi vicini di casa prima di morire.

Insieme al Viviani,tra i massimi esponenti della cultura teatrale italiana del 900 c’è sicuramente Eduardo De Filippo,che nella sua vasta opera teatrale coniuga la tradizione dell’intreccio comico (alla maniera di suo padre Eduardo Scarpetta con cui è andato in scena sin da bambino) con un teatro aperto a tematiche sociali contemporanee (la crisi della famiglia,la solitudine dell’individuo,la critica delle convenzioni borghesi,le ferite della guerra ecc). Il suo teatro è stato diffuso prima attraverso la radio e poi attraverso la televisione,mezzi di comunicazione che inizialmente tendevano ad ‘italianizzare’ i testi . Nei suoi testi egli rappresenta sempre la realtà in modo verosimile,ma la grande importanza di questi testi sta anche nel costituire un prezioso repertorio degli usi linguistici novecenteschi in area napoletana. Un perfetto esempio è sicuramente la commedia Napoli Milionaria! (1945) in cui si raccontano le vicende della famiglia popolare napoletana,ambientate in un tipico basso napoletano nel periodo della Seconda Guerra Mondiale. La trama narra la dissoluzione morale della famiglia che Jovine che , durante la guerra, spinta dalla miseria si "arrangia" con la borsa nera(vendita di contrabbando di generi alimentari) tenendo all’oscuro il capofamiglia, don Gennaro.Il commercio si amplia, la ricchezza affluisce nel "basso" del vicolo, ma i milioni sono poco puliti. La moglie, donna Amalia, ubriacata dal benessere, trascura i suoi doveri di madre e Maria Rosaria, la figlia più grande, diventa accompagnatrice fissa di militari americani e la piccolina si ammala gravemente. L'improvviso ritorno del capofamiglia dalla sua prigionia, scampato miracolosamente alle insidie della guerra, riporterà l'equilibrio e l'onestà nella famiglia,riallacciando i legami affettivi che si erano persi.