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Canova

Ennio PouchardEnzo Di MartinoGiuliano MenatoNicola MicieliDiego ColloviniDino Marangon

CARMELO ZOTTISIMBOLI E METAFORE

A cura di

Michele Beraldo

Con le testimonianze di

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Sostenere grandi eventi espositivi, così come sostenere l’attività di

alcuni tra i più importanti artisti italiani, per noi significa soprat-

tutto tener fede ad un’identità di ispirazione tra l’aspetto creativo

del nostro lavoro e quello che ha portato alla genesi dei grandi

capolavori dell’arte. Per questo, da sempre, abbiamo deciso di

affiancare all’impegno imprenditoriale nel settore dell’arredamen-

to, il convinto sostegno ad eventi artistici di assoluto prestigio in

Italia e all’estero. L’attenzione che nel tempo abbiamo rivolto con

sempre maggiore convinzione all’opera di Carmelo Zotti è testimo-

niato dalle numerose iniziative editoriali e culturali che da più di

vent’anni promoviamo nella certezza di trovarci di fronte ad uno dei

maggiori artisti italiani. Siamo perciò felici di condividere assieme

a Carmelo le diverse iniziative che lo coinvolgono e tra queste il pre-

sente libro che riunisce, in poche ma incisive pagine, il racconto

della sua vita artistica. Una testimonianza preziosa che come è nel

suo stile viene resa in punta di piedi, con l’umiltà che gli è da sem-

pre consueta, senza per questo precludere al lettore la possibilità di

cogliere, soprattutto attraverso l’originalità delle sue opere, l’effet-

tiva unicità del suo lavoro.

Antonio, Fiorenzo,Gaspare, Giancarlo Lucchetta

Gruppo Euromobil

Canova EdizioniViale Luzzati, 10 - 31100 Treviso

Tel.: 0422 262397 - 298163Fax: 0422 433673

E-mail: [email protected]

ISBN 88-8409-175-5

Copyright © 2007 by Canova Edizioni© 2007 Michele Beraldo

Foto: G. Canova, Cargasacchi, G. Gennaro, U. Koehler, G. Lazzarin, Merlo, E. Smith

Progetto grafico: Michele BeraldoImpaginazione: Roberto Mantoan

Stampa: Grafiche Antiga - Cornuda (Treviso)

Questo volume è stato realizzato con il contributo di

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Simboli e metafore

Attraverso questo libro si vuole rendere omaggio ad unodei maggiori artisti italiani che attualmente, perimperscrutabili leggi di mercato, è posto ai marginidell’interesse generale. A mio avviso due sono i fattori che hanno contribuito allasospensione del giudizio sulla sua pittura: il fatto che egliabbia condiviso e assimilato un registro formale edespressivo che si confronta con tendenze artistiche direspiro internazionale e il suo rifiuto, non per snobismo maper pudore a quell’insieme di comportamenti eccentrici eambiziosi che conferiscono all’artista e alla sua operal’aurea dell’ingegno ma che in non pochi casi supplisconoalla mancanza di idee e capacità.Ciononostante la pittura di Carmelo Zotti non ha maiconosciuto un disinteresse vero, testimoniato com’è il suopercorso artistico da mostre importanti (la recenteantologica alla Permanente di Milano lo sta a dimostrare),partecipazioni alle Biennali veneziane, premi significativi,varie monografie sino alla catalogazione del corpus diopere degli anni Cinquanta e Sessanta che darà avvio alprimo volume del Catalogo Generale.Carmelo Zotti, pur essendo nativo di Trieste, ha fatto partedi un gruppo di artisti veneziani che nel secondodopoguerra hanno contribuito a far convergere entro la

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naturale vocazione realistica della pittura italiana, nuovicodici e linguaggi artistici accolti in contesti di ampiadiffusione della sensibilità artistica contemporanea, comele Biennali di Venezia. Tutta la generazione veneziana cheha subito il fascino della pittura europea e americana diquegli anni (come Ennio Finzi, Riccardo Licata, SaverioRampin, Tancredi Parmeggiani e naturalmente lo stessoZotti) ha cercato un’emancipazione dalla prassidell’adesione ai valori formali classici di un plasticismorigoroso, volendo segnare in proprio l’appartenenza aduna modalità espressiva profondamente diversa, quelladell’astrazione. Zotti è sin da ragazzo immerso in quest’atmosfera, subisceil fascino dell’astrazione come linguaggio che gli consentemaggiore libertà espressiva: non è una scorciatoia, lui sadisegnare e bene. Lo dimostra alla prima uscita personale,a diciannove anni, nel 1952, alla prestigiosa galleriadell’Opera Bevilacqua La Masa in Piazza San Marco.“Andando su e giù ripeteva con un sorriso largo, forsetriste, sotto il timore nascosto: «Voglio fare una mostra -Voglio fare una mostra. Ne ho bisogno»”. Così scriveva inun commovente articolo Gigi Scarpa, tra i decani dellacritica d’arte a Venezia in quei primi anni Cinquanta. Nonera il bisogno d’apparire, non era la ricerca ambiziosa delsuccesso. Era la necessità di affermare la propriaindividualità, di attestare in quel giorno l’affermazione

della propria aspirazione: diventare un artista. Da quel momento è un continuo salire, un’ascensionegraduale verso i meritati riconoscimenti: l’incarico diassistente alla Cattedra di Pittura del suo maestro Saetti, lepartecipazioni alla Biennale di Venezia nel 1956, 1958 enel 1964 quando gli verrà assegnato il premio dei giovani,i primi premi alle collettive della Bevilacqua, l’accoratointeresse dei critici come Umbro Apollonio, GiuseppeMazzariol e Toni Toniato.Quella di Zotti è una pittura ancora di là da venire, resa inpotenza dalle prime manifestazioni di un astrattismogestuale, pieno di forza e vitalità, poi da un figurativoscabro, stringato, in cui la Figura evita l’estensionevolumetrica per separarsi dalla sua fisicità, e mostra ciòche resta di un corpo tormentato e leso nella sua dignità diDeportato.I lunghi viaggi in oriente, la permanenza per alcuni mesi inMessico e nel nord dell’Europa, l’interesse per una culturadi vasto respiro, apportano nei lavori degli anni Sessantanuovi codici formali, che interagiscono con la creativitàimpetuosa di Carmelo Zotti, e danno vita a germinazioni dicolori e forme volutamente sgrammaticate. Si notanopresenze umane che dalle retrovie annunciano la ribalta,altre invece che si assorbono indistintamente invischiatenelle procreazioni vegetali. È una pittura felice, ricca di contrasti, aspra e forte come

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la natura equatoriale ma a tratti sofferta, scavata e densadi dettagli, totem, simboli dalla configurazione ancoraoscura e impalpabile, figure dal destino precario cheindistintamente attendono il momento della nascita. Straordinario esempio di evoluzione, oserei dire diincarnazione, la pittura di Zotti. Non c’è artista oggi cheabbia precipitato sulla tela un insieme di mondi cosìarticolati, simultanei e indistinti come ha fatto lui. Per di più il processo segue una chiarificazione continua,le immagini nel tempo riacquistano capacità narrativa,divengono chiaramente illustrative ma al contempoenigmatiche.Dagli anni Settanta, dal momento della riacquistataserenità, dal conferimento, a soli quarant’anni, dellacattedra di pittura, la sua opera diviene tutto ciò per cui èdestinata. Le immagini acquisiscono quella leggibilità cheprima non avevano e al caotico moto policentrico diinafferrabili sostanze scomposte si sostituisce la formaintatta e oggettuale di un mistero insoluto. Zotti coinvolge lo spettatore attraverso un percorsodisseminato di enigmi e simboli arcani, intendimentisegreti del suo inconscio si liberano con felice armonia, edevocano in chi li guarda il mistero profondo della sorgentecreativa. Il segno diviene leggibile, conferisce alla formal’integrità e l’armonia che gli è propria, il colore si contraenegli spazi ad esso destinati, dapprima uniformemente per

poi liberarsi nell’evocazione di fantastiche allusioni concrescente libertà di espressione e movimento. L’esotismo e i riferimenti ad archètipi della mitologiamediterranea e tropicale si accordano quasi per incantocon le suggestioni dell’arte nordica. I richiami allagestualità libera ed elettrizzante dell’espressionismo,l’utilizzo di paradigmi simbolici e allusivi, conferisconoalla sua narrazione l’originalità della grande pittura. Così come esiste un’invenzione dechirichiana, un modellorappresentativo unico e originario che coniuga linguaggipittorici differenti e trasversali, possiamo tranquillamenteaffermare che esiste oggi un’invenzione zottiana, unesempio altrettanto unico di grande Pittura.

Michele Beraldo

Ringrazio di cuore Carmelo Zotti per la pazienza e la

disponibilità dimostrate nel concedermi un dialogo sugli

eventi della sua vita d’artista. Ringrazio per l’aiuto

prezioso Brigitte e Johannes; non posso dimenticare il

sostegno continuo di Gaspare e la generosità

dimostrata dai fratelli Lucchetta, nel voler credere a

questa iniziativa e sostenerla. Ringrazio inoltre i

critici e storici dell’Arte che hanno raccolto il mio

invito a testimoniare con la loro prosa l’amicizia,

l’affetto e la stima nei confronti di Carmelo. Ringrazio

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Molte vocazioni...

Da ragazzo mi sognavo avvolto in un impermeabile allaHumprey Bogart a concludere loschi affari in vicoli fumo-si, anche se tutto faceva pensare che sarei diventato unuomo di mare, eterno straniero in porti esotici.Mio padre era stato funzionario e poi direttore della sedeveneziana della compagnia di navigazione Lloyd Triestino,e a Trieste sono nato nel 1933, quando nella città alberga-va ancora la decadente eleganza mitteleuropea della domi-nazione austrungarica. Mio padre veniva da Lussin Piccolo, mia madre era ciprio-ta. Si erano conosciuti giovanissimi su una nave dove miopadre, allievo ufficiale, prestava servizio. Mia madre avevasolo diciasette anni e stava andando a Beirut a studiaredalle suore di Nevers. Allora Beirut era la Parigi del mediooriente, con casinò ed alberghi di lusso, effervescente per ilcrogiuolo di commerci, etnie e religioni che vi confluiva. Nel 1939 mio padre fu trasferito a Napoli per motivi dilavoro, e lì ricevetti dai salesiani un’educazione severa euna buona dose di sberle. Poi nel 1943, prima dell’arrivodegli alleati, ci spostammo a Venezia. Certi giorni subiva-mo anche cinque bombardamenti ma mia madre, moltofatalista, si rifiutava di scendere nei rifugi, perciò avevamoallestito una stanza con letti a castello e sacchi di sabbiaalle pareti, ed io mi rifugiavo nei libri illustrati che leggevo

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Da Massanzago presto ci trasferimmo a Venezia, tra i vialie le ville liberty del Lido. Lì giocavamo su quell’unicaspiaggia lunghissima, con un occhio sempre rivolto all’o-rizzonte ed alle terre lontane che celava. Il trasferimento al Lido di Venezia, da dove potevo vederetutta l’isola, mi aprì le porte di quella città d’arte che offri-va allo sguardo trasognato di un ragazzo un’infinita serie dicapolavori, chiese, palazzi e dipinti che parlavano un lin-guaggio così vicino alla mia sensibilità e da subito com-prensibile.Amavo disegnare, non facevo altro, volevo essere un pitto-re fin da quando, giovanissimo, avevo letto le lettere di VanGogh al fratello: rimasi stregato dalla forza di quello sguar-do diretto sugli eventi, dalla sofferenza del pittore olande-se, che allora pensavo essere il pegno da pagare per essereun artista. In realtà cercavo di tenere i piedi per terra, pen-savo ad un lavoro che mi piacesse, ma che potesse mante-nermi, mi attiravano i fumetti e speravo in un diploma chemi assicurasse un lavoro. Decisi di iscrivermi allora alla scuola d’arte di Venezia,indirizzo Arte Grafica. Mio insegnante fu il pittore vene-ziano Carlo della Zorza, una persona finissima e piena digusto. Il mio percorso in quella scuola durò soli due annidopo i quali mi iscrissi senza troppa convinzione all’istitu-to nautico, ma anche li durai poco.Il desiderio di viaggiare per mare

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con un a torcia sotto la coperta. Allora eravamo già diecidei dodici fratelli che saremmo poi stati, sei maschi e seifemmine. Quando trasferirono mio padre a Venezia andammo ad abi-tare a Massanzago, in una bellissima casa nobile nell’en-troterra veneziano, e ogni giorno prendevo la corriera perandare alle scuole medie a Padova. Nel 1943 mio padre si unì ai partigiani, e per meriti acqui-siti durante l’occupazione fu fatto sindaco del paese unavolta finita la guerra. Accadde infatti che nei giorni dellaritirata tedesca una colonna di soldati fu attaccata da ungruppo di partigiani, che riuscì poi a dileguarsi. Per rap-presaglia il comando tedesco decise di piazzare i cannonidi fronte al municipio che ospitava l’ospedale minacciandodi aprire il fuoco. Mio padre, che vide la scena, indossò uncamice e parlando tedesco si finse medico chiedendo alcomandante di desistere dal distruggere il paese.L’angoscia di mia madre, che assisteva alla scena dal bal-cone, fu tale che dovemmo trattenerla a forza in casa quan-do i tedeschi decisero di prendere in ostaggio mio padre perconsegnarlo alle brigate nere. Fu portato a Padova ma nella confusione della ritirata riuscìa fuggire e tornato al paese in bicicletta incontrò il medicoproprietario del camice. Quando questi ne chiese la restitu-zione mio padre gli diede uno schiaffo, e il camice fu tenu-to in famiglia a ricordo dell’evento.

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tratta marittima diretta ad oriente, un viaggio di sei mesi suuna nave mercantile per il quale ero in lista d’attesa comemozzo. Era un sogno che avevo da tempo e salpai, trascu-rando l’anno accademico.Era il 1953, partimmo da Trieste su una grande nave cargostipata di container alla volta di India e Birmania, con sostein Egitto e medio oriente. Fu un’esperienza sconvolgente e bellissima. All’epoca nongiungevano molte notizie sul mondo fuori dall’Europa, senon quello favoloso immaginato leggendo Salgari oKipling: non eravamo stati preparati alla miseria e allafame che incontrammo nel nostro viaggio. Era tutto inten-sissimo, quasi stordente, i colori, i profumi e gli odorinauseanti. Lungo il canale di Suez incrociammo le navi della CroceRossa francese che riportavano i feriti della guerra inIndocina; sostammo in Arabia Saudita, in Somalia e nel

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Ottenni comunque il libretto nautico che mi permetteva dinavigare come mozzo, e mi imbarcai subito su una naveche da Piombino andava a Lipari a caricare la pomice. In quel tratto di costa, dove sorgeva la cava e il candoredella roccia si rifletteva sull’acqua, regnava un’atmosferainnaturale. Le pareti digradavano verso il mare soffici ebianche come talco ed i fondali erano illuminati dalla pie-tra pomice, così leggera da galleggiare per tutto il Tirreno. Le navi erano vecchie ed il lavoro di mozzo era duro, biso-gnava continuamente pulire, battere la ruggine, spargere ilminio e ridipingerle, si servivano a tavola gli ufficiali ed albisogno si aiutava il cuoco, il carpentiere o chi altri, aspet-tando la pioggia nella speranza di fermarsi un attimo. Nel 1952 ci trasferimmo definitivamente a Venezia e a miopadre fu assegnato un grande appartamento nell’atticodella sede del Lloyd Triestino alle Zattere, le fondamentache guardano all’isola della Giudecca. La casa aveva gran-di terrazze che offrivano una splendida vista sulla città e lalaguna. Eravamo una famiglia molto numerosa, ma graziealla posizione di mio padre nel Lloyd ognuno di noi ebbel’opportunità di intraprendere la propria strada.Mia madre, visti i miei insuccessi scolastici, mi mise adaccudire l’ultimo nato. A quel punto mi decisi e mi diplo-mai privatamente al Liceo Artistico, per poi iscrivermiall’accademia seguendo le mie aspirazioni d’artista.In quel periodo fui però chiamato a prestare servizio su una

Venezia, primi anni Sessanta. La famiglia Zotti fotografata sulla terrazza delLloyd Triestino.

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che il capitano ci concesse dinon lavorare: tale era lo sforzorichiesto quotidianamente chericordo ancora benissimo quelpomeriggio disteso sul ponte aprendere il sole. Comunqueero contentissimo, avevo rea-lizzato il mio sogno d’infanzia,e sapevo che non ci sarebberostate altre avventure comequella, visto che al mio ritornoavrei iniziato l’Accademia. Le suggestioni di quel viaggioriposarono a lungo dentro di me, per riemergere nelle sfu-mature del sogno in forme antiche e primitive, in una vestequasi metafisica di isolata e quieta solarità. Avevo rimossoi contrasti sociali, le tensioni politiche, ma non il ricordodella vegetazione pulsante e lussuriosa dell’India del sud,con i suoi verdi intensi e le sue memorie arcaiche, e capo-lavori carichi di valore simbolico come le sfingi o le pira-midi che avevo visto al Cairo. Quei sei mesi per mare avevano soddisfatto la mia smaniadi viaggi, dovevo semmai fermarmi e rielaborare tutto ciòche avevo vissuto. Dopo quel viaggio Roma, Milano o Parigi allora mitizzatee considerate così all’avanguardia rispetto a Venezia, non

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Pakistan appena divenuto indipendente. In ogni porto cari-cavamo e scaricavamo merci, ma soprattutto assaporavamobrevemente città nuove e misteriose, ripartendo pieni disuggestioni che sarebbero riaffiorate nel tempo. L’India mi traumatizzò: vissi il fortissimo contrasto tra lamia vita privilegiata in un Italia e la miseria che laggiùdimorava ovunque. Lì per lì mi ripromisi che non ci sareipiù tornato, oggi, con uno sguardo più disilluso, potreifarlo.Anche se dura, sopportai bene la vita di bordo, mi era digrande conforto il cameratismo che si crea con gli altrimarinai quando si convive in modo così stretto per mesi.Un giorno, durante il viaggio verso oriente il sole e l’umi-dità rendevano talmente faticoso qualunque movimento

1953, nel porto di Aden. 1953, a bordo della motonaveSistiana.

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L’Accademia e le prime esposizioni

Decisi di fare l’artista quando avevo dodici o tredici anni,anche se all’inizio pensavo di diventare scultore. Mi porta-rono alla pittura ragioni di ordine pratico. Se gestire i mate-riali per la scultura a Venezia poteva essere complicato,potevi invece portare una cartella di disegni sottobraccio efarli vedere. La figura dell’artista mi affascinava, e all’ini-zio mi calai molto nella parte, sfoggiando un’aria bohe-mien ed un piglio determinato che in fondo non mi appar-tenevano. Pensavo che nel mondo dell’arte si dovesse essereduri e ruffiani, ma alla fine prevalse il mio spirito indipen-dente e un po’ disordinato, e capii che andava bene così.Quando abitavo al Lido i miei amici più cari erano Franzoie Licata, già iscritti all’Accademia e di alcuni anni piùgrandi, e furono loro i primi, visti i miei disegni, a indiriz-zarmi verso l’Accademiadi Belle Arti. Proprio aFranzoi, che ancora oggisi ritiene responsabiledella mia iscrizione, miopadre volle chiedere unparere sulla mia decisio-ne; si interessava semprealle mie scelte, ma non visi opponeva mai e di que-

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esercitavano su di me lo stes-so fascino che avevano suimiei coetanei; erano luoghiche non mi appartenevano epoi a Venezia mi trovavobenissimo. A Parigi in quelperiodo ci andai solo pervedere il museo degliimpressionisti. Per di più, grazie a miopadre, a Venezia avevo lapossibilità di incontrare capi-

tani di nave, marinai e viaggiatori. A casa nostra ebbi la for-tuna di conoscere Ernest Hemingway, di ritorno dall’Africa,dove aveva avuto un incidente col suo piccolo aereo, efinchè rimase in città lo incontrai più volte.Andavo a trovarlo all’Harrys Bar, allora centro di unaVenezia cosmopolita, e una volta mi invitò sul suo motosca-fo a fare un giro della laguna con sua moglie Mary. Un gior-no mi regalò una copia di “Il vecchio ed il mare”, per il qualeaveva vinto il premio Nobel, ed in cambio disegnai per lui ilvecchio pescatore del racconto. Amavo la sua opera, cometutta la letteratura americana del tempo, da Steinbeck a DosPassos a Eliot, ed ero orgogliosissimo di averlo conosciuto.

1958, Venezia, con Ernest Hemingway.

1954, da sx: Riccardo Licata, MariagraziaSbisà e Carmelo Zotti.

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Cadorin e Cesetti, poi c’era Giuseppe De Logu, grande ora-tore ed insegnante di storia dell’arte. Ricordo che duranteuna delle sue lezioni, mentre ero seduto in prima fila, micapitò di addormentarmi. Lui si guardò bene dallo sve-gliarmi e, finita la lezione, fece uscire tutti silenziosamen-te e chiuse l’aula a chiave. Mi svegliai per il freddo che eragià buio, e dovetti chiamare a lungo prima che il bidellovenisse ad aprirmi.Con l’Accademia iniziarono anche le prime esposizioni. Alprimo anno feci la mia personale negli spazi in Piazza SanMarco dell’Opera Bevilacqua La Masa, l’istituzione vene-ziana che la contessa Felicita Bevilacqua aveva fondato persostenere e promuovere i giovani artisti. Avevo diciannoveanni ed era una bella soddisfazione per quell’età: esposi dei

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sto lo ringrazio ancora.Al Lido abitava ancheun giovane professore,Giuseppe Mazzariol, chedurante le nostre conver-sazioni in vaporetto miincoraggiava, come giàfacevano i due amici, adiscrivermi. In quel periodo conobbiMaria Grazia Sbisà, chesposai nel 1958. Anche

lei era pittrice, di grande talento, ma purtroppo presto siammalò e non volle più dipingere.Come insegnante avevo Bruno Saetti, sempre molto atten-to a difenderci e, quando lo meritavamo, a premiarci allemostre collettive. In aula spesso preparavamo la malta pergli affreschi, che venivano poi strappati ed intelati comequadri: ridiede vita ad una tecnica che sembrava ormaisuperata, restituendole la dignità di un mezzo espressivomoderno, al pari dell’olio o della tempera.Facevamo i ragazzi di bottega, come nel Rinascimento, eanche se qualcuno, non capendo, diceva che l’insegnante cistava sfruttando, così facendo imparavamo a conoscere imateriali e ad utilizzarli nelle giuste proporzioni. Oltre a Saetti gli altri titolari delle cattedre di pittura erano

1953, nell’aula dell’Accademia di Venezia.

Inaugurazione di una Collettiva dell’Opera Bevilacqua La Masa, fine degli anni ’50.Da sinistra, Renato Cardazzo, Carmelo Zotti e Giorgio Trentin.

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affinità con il Nord Europa, il Belgio o l’Olanda. Preferivoandare in un paese del quale non conoscevo la lingua, potervedere l’Italia con gli occhi di uno straniero e poi dipinge-re come un nordico. Del nord amavo la luce ed i paesaggi,le sue espressioni pittoriche da Böcklin agli espressionisti.Ero particolarmente attratto dal linguaggio libero e forte diConstant Permeke (che vidi alla Biennale del 1950) e daAlfred Manessier, un pittore francese della generazioneprecedente la mia che cercava di conciliare la tradizionecubista con quella astrattista, e penso che il suo linguaggiointeressasse anche alcuni componenti del Fronte Nuovodelle Arti. Un altro artista a cui in seguito guardai con gran-de ammirazione fu Alan Davie, presente alla Biennale del1958 con la sua pittura ricca di significati simbolici e rituali.

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disegni figurativi che avevo fatto alla Scuola Libera delNudo e in quell’occasione venne stampato un piccolo pie-ghevole con uno scritto molto bello e sincero di GigiScarpa.Ogni anno la Bevilacqua organizzava anche una collettiva,e dato che cadeva a dicembre e poteva portare alla conces-sione di uno studio per cinque anni o ad un premio acqui-sto, noi la chiamavamo “la tredicesima”. Vinsi due volte ilprimo premio, nel 1954 e nel 1961, e ottenni lo studio a CàPesaro per cinque anni. In seguito ho fatto parte per quat-tordici volte della commissione giudicante.All’Accademia molti dipingevano quasi timidamente, bellenature morte ben lontane da qualsiasi ardire sperimentale.Io invece sentivo il bisogno di confrontarmi con l’astratto,come Maria Grazia Sbisà che in quel periodo dipingevadelle tele dai toni scuri che chiamava “specchi neri”.Assimilavo più quel contesto europeo, legato all’astrazio-ne, piuttosto che la pittura veneziana dell’epoca, ancoraattenta alla tradizione naturalista, alla giustapposizione deicolori, alla bella forma. Non che ci sia nulla di male in ciò,molti pittori di scuola veneziana sono degli straordinaripaesaggisti, narratori attenti della società dell’epoca comeMarco Novati o Fioravante Seibezzi, ma io guardavo altro-ve, cercando di imparare dalle esperienze internazionali. In quegli anni erano tutti attratti da Milano, sia gli artistifigurativi che gli astratti, mentre io sentivo una maggiore

Composizione n. 3, 1958, XXIX Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, 1958.

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Milano non mi attraeva, non mi interessava andare a fare lafila dai galleristi di grido, avevo i miei, forse più modesti,a Torino o in Toscana. Allora i galleristi c’erano anche senza andare a Milano,nonostante non si vendesse molto non mancavano privati ecollezionisti che acquistassero qualcosa. Con alcuni di lorosono in contatto ancora oggi, c’era un passaparola tra col-lezionisti e qualcuno veniva anche da lontano, altrimenticapitava che partissimo noi con la macchina e a volte siriusciva a vendere anche tutta la cartella. Di solito eranogiovani industriali che iniziavano ad interessarsi al mondodell’arte ed investivano su artisti della loro generazione.Non mancavano gli imbroglioni, ma faceva parte del colo-re dell’epoca. Arrivavano profumatissimi, con il cappottodi cammello, la sciarpa di raso e le scarpe inglesi, vantava-no l’acquisto di un De Pisis a Cortina e poi chiedevano deiquadri in conto vendita.Sapevi già che non avresti mai visto un soldo, ma i quadriglieli davamo lo stesso, comunque li avrebbero fatti girare.Erano delle figure da commedia all’italiana, attori nati,capaci di ripresentarsi dopo tre mesi e inventare qualsiasidisgrazia pur di non pagarti, e alla fine un po’ mi mancano.In generale comunque sono sempre stato abbastanza pudi-co nell’offrire le mie opere e non ho mai avuto un grandesenso degli affari.

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oppure in OsvaldoLicini, avvolto nelloscialle della nonna perpaura dell’umidità. IlFronte Nuovo delle Arti,lo Spazialismo, le mostredi una certa avanguardiaerano per noi una novità,anche se poi guardandole riviste che venivanodall’estero scoprivamo che spesso erano esperienze giàfatte altrove.A contrastare il movimento dell’astratto e dell’informalec’erano i neorealisti, come Guttuso, Zigaina, e poiPizzinato, che avevo frequentato già prima di iscrivermiall’Accademia nei due anni che feci alla Scuola Libera delNudo: era una persona calma e signorile; da buon comuni-sta dipingeva opere di soggetto sociale ed era un ottimoinsegnante che seguiva con attenzione e fiducia i suoi allie-vi. Dipingevamo con la modella e tanti disegni di quelperiodo li conservo ancora oggi arrotolati nel mio studio.Con lui c’è sempre stato un grande affetto e fino a pocoprima che morisse ci siamo tenuti in contatto.Infine non posso dimenticare Vedova, che a differenzadi Santomaso ebbe la capacità di rinnovarsi, e AfroBasaldella, che ho sempre ammirato molto.

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La Venezia degli anni Cinquanta

Virgilio Guidi rappresentava il contraltare di Saetti; se que-st’ultimo era attento a farci conoscere il passato per poirileggerlo con sensibilità moderna, e non passava anno chenon portasse gli studenti alle Gallerie dell’Accademia perstudiare le opere degli antichi pittori, il primo amava fre-quentare gli artisti, anche giovani, e offriva spesso cene,tant’è che tra noi si parlava della “mensa guidi”. Era faciletrovarlo al bar dell’Accademia, dove passava tanto di queltempo che veniva da domandarsi chi dipingesse al suoposto!Tra i due maestri c’era un reciproco e sentito rispetto.Ricordo che un giorno, ormai entrambi anziani, Guidi scor-se da lontano Saetti in campo Santo Stefano, e prima disalutarlo si fece dare una sistemata al bavero del cappottodal gallerista Gianni de Marco, per essere sicuro di presen-tarsi al meglio davanti all’artista che assieme a lui avevaincarnato lo spirito dei maestri dell’Accademia.In quegli anni Venezia era uno dei centri dell’arte interna-zionale: potevi incontrare gli artisti più importanti allaBiennale così come nelle trattorie, assieme a giovani sco-nosciuti. In quei posti, alla “Colomba” o all’“Angelo”, ci sipoteva imbattere in Lucio Fontana, sempre elegantissimo,o in Giuseppe Capogrossi, che in quegli anni lasciava lafigurazione per iniziare il suo astrattismo fatto di simboli,

1952, Venezia, Scuola Libera del Nudodiretta da Armando Pizzinato.

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Mancano i punti di riferimento, i grandi maestri comeSaetti, Guidi o Vedova, gli artisti internazionali, PeggyGuggenheim e i galleristi, che oggi faticano a tirare avantiproponendo nuove tendenze.La Biennale non è più l’evento di un tempo, la globalizza-zione ha omologato tutti i padiglioni che una volta espri-mevano le specificità di ciascun paese. Fino agli anniSessanta le proposte di ogni nazione si distinguevano chia-ramente, marcando una differenza ideologica e politica maanche artistica.Anche l’Opera Bevilacqua la Masa ha smarrito la suaidentità: era attraverso quell’istituzione che noi potevamoformarci, essere spronati e raccogliere stimoli. Oggi inve-ce non ci si attiene più allo statuto, le mostre raramentecoinvolgono giovani veneziani e di solito attirano pochivisitatori.Nel 1956 finii l’Accademia e due anni dopo fui chiamatoda Saetti come assistente. All’epoca questo ruolo non veni-va assegnato per concorso ma a chiamata: era il titolare dicattedra a decidere da chi farsi affiancare.Saetti allora aveva come assistente Riccardo Schweizer tal-mente affascinato dalla figura di Picasso che ad un certopunto decise di trasferirsi in Costa Azzurra per avere lapossibilità di incontrarlo, e così gli subentrai. Lo stipendioda assistente non era molto alto, riuscivo a pagarci a mala-pena l’affitto, ma la soddisfazione di poter insegnare

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Poi c’erano i critici come Giuseppe Marchiori, GiuseppeMazzariol e Umbro Apollonio, bravi, seri, mai partigiani,che nonostante la loro posizione seguivano molto i giovani,ti invitavano a casa e venivano in studio a vedere i quadri.Apollonio, che preferiva nettamente gli astrattisti, è statoquello che mi ha seguito di più. Toni Toniato era invece ilcritico dei giovani per eccellenza, e mi presentò in diversemostre.Le gallerie erano molto attive: c’erano il “Cavallino” diCarlo Cardazzo, il “Traghetto” di De Marco, il “Canale” diDella Vedova e la galleria “Numero” di Fiamma Vigo, chesi occupava prevalentemente di astrattisti. Oltre allaBiennale c’erano il festival di teatro ed i concerti dellaBiennale di Musica Contemporanea alla Fenice ai qualiandavo con Riccardo Licata, intento ogni volta a incideresu piccole lastre per l’acquaforte ciò che gli ispirava lamelodia.Venezia, insomma, offriva una moltitudine di iniziativeartistiche, come accade ancora adesso, anche se oggimanca quel modo di vivere l’arte dentro la quotidianità,quel senso di appartenenza e la socialità che si creava nellegallerie come nelle osterie. Gli artisti si incontravano e dis-cutevano, litigavano anche, ma tutto rientrava in uno spiri-to di scambio e convivialità che è andato smarrendosi neglianni. Lì dove c’erano gallerie, artigiani, corniciai, oggi cisono botteghe e botteghette di maschere o merce cinese.

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quattro in Messico e Stati Unitie il resto del tempo lo trascorsitra Belgio ed Olanda con miamoglie e la nostra primogenitaAlessandra. Scelsi il Messico perchè datempo mi attraeva quella terra,la sua cultura, le sue musiche, ela sua grande scuola di murali-sti: Rivera, Orozco, Siqueiros,artisti che avevano innovato unatradizione antica contribuendoall’emancipazione economica eculturale dal nord america.In quegli anni il Messico erariuscito a nazionalizzare ilpetrolio, ambito dagli Stati Uniti, anche se poi le cosesarebbero tornate come prima, infrangendo così i sogni diautonomia e riscatto sociale dei messicani.Mi trasferii a Città del Messico e potei assistere alla suacontinua crescita: ogni giorno arrivavano tremila personeche si stabilivano in baracche abusive ai margini di unacittà già allora avvolta da una coltre di smog che smorzavala luce del sole.Città del Messico aveva due facce: quella delle avenidaslussuose e delle ville dei ricchi, costantemente vigilate da

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all’Accademia mi gratificava.Mi dedicavo principalmente ad insegnare agli studenti iprimi rudimenti del disegno, in modo da permettere loro didiventare autonomi e capaci di dipingere; ho ricevutomolto dai miei allievi e spero possano dire altrettanto.All’inizio c’erano sempre tantissime matricole, ma con glianni rimanevano solo i più dotati: gli iscritti al primo annoerano una quarantina, poi man mano molti capivano chenon erano tagliati e di solito alla fine arrivavano meno didieci studenti, quelli con maggiori stimoli. Col passare degli anni però è capitato che gli iscritti supe-rassero le cento persone: in queste condizioni il sovraffol-lamento è andato a scapito di chi aveva più talento e origi-nalità.Saetti ripose in me grande fiducia e credo di aver onoratola sua scelta, cercando di essere sempre un insegnante scru-poloso e attento. Altri insegnanti invece erano piuttostopresuntuosi e spesso non si facevano vedere alle lezioni.

Una visione artistica internazionale

Nel 1962 vinsi una borsa di studio dell’AccademiaInternazionale di San Luca a Roma, un istituto che pro-muoveva e finanziava periodi di studio all’estero per gio-vani. Avevo la possibilità di stare via sei mesi, ne passai

1962, Città del Messico.

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alle periferie si potevano cogliere tutte le diversità e la fre-nesia di una città multietnica e fortemente stratificata, unaltro mondo rispetto all’Italia di allora.San Francisco fu altrettanto entusiasmante, forse piùvicina alle nostre città europee, con le sue case basse instile vittoriano, le strade che salivano e scendevano comemontagne russe arrivando fino al mare e il fascino ine-guagliabile del Golden Gate Bridge.Visitai queste due città nel periodo forse migliore, tra set-tembre e ottobre, quando gli inizi dell’autunno colorano ditoni caldi la città e un’atmosfera nostalgica e surreale cir-conda gli edifici.I due mesi rimanenti li trascorsi con la famiglia tra Anversaed Amsterdam. Erano città molto diverse ma a tratti espri-mevano entrambe l’essenza del credo calvinista, con le lorosemplicissime chiese in legno ed una certa sobrietà nelvivere. Visitai diversi musei dove vidi molti Rembrandt, Rubens epoi Frans Hals e Vermeer, mentre tra i contemporanei rima-si affascinato dai quadri del gruppo “Cobra”; mi impres-sionò la loro carica espressiva e la spontaneità del gesto:opere così diverse e cromaticamente distanti dalla nostratradizione. In Olanda iniziò un lungo sodalizio con Ysbrant, un pittoreche vive tra Anversa e Venezia, tuttora tra i miei più cariamici, e nell’arco di alcuni anni esposi più di una volta

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guardie armate, e quella povera, fatta di contadini che arri-vavano disperati dalle campagne alla ricerca di lavoro e chequasi sempre finivano a vivere nelle baraccopoli.Avevo uno studio in pieno centro, in una casa di studentidove mi trovavo bene, lavoravo molto, ed avevo l’occasio-ne di conoscere molti artisti e fotografi miei coetanei.Da lì partii per New York e San Francisco, dove rimasi duemesi ed ebbi modo di visitare le città e i dintorni. A NewYork la mia guida fu Ruggero Orlando, corrispondente Raie grande appassionato d’arte. Andavamo assieme ai “sup-per party” nei grandi alberghi o vagavamo per GreenwichVillage, il quartiere degli artisti. Viaggiando da Broadway

1962, al lavoro nello studio di Città del Messico.

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dedicato ai giovani: lo ricordo con particolare soddisfazio-ne perché attestava un riconoscimento internazionale delmio lavoro. Dipingevo ancora in un modo molto diverso da quello percui sono oggi conosciuto, ero molto intransigente con mestesso e spesso per nulla soddisfatto di quello che facevo.Per fare un esempio, all’inizio degli anni Sessanta collabo-ravo principalmente con due mercanti, uno di Lucca,Ulrico Guerrieri, ed uno di Torino, Arturo Botello dellagalleria “L’Approdo”, che venivano periodicamente aVenezia per comprare dei quadri che poi proponevanoanche a diverse gallerie. Un giorno Guerrieri venne nel miostudio e trovò i quadri che avrebbe dovuto portare via,tagliati a fettine: non ne ero soddisfatto e all’ultimo liavevo distrutti con un rasoio!Nella vita di un artista arriva quasi sempre un momento divuoto creativo in cui la strada iniziata sembra non portarepiù a nulla e l’unica soluzione pare essere quella di rico-minciare da capo; il mio periodo di stasi è durato piuttostoa lungo, più o meno dal 1965 al 1970, ed è coinciso, forsenon a caso, con la crisi del mio matrimonio. A volte succe-deva perfino che Guerrieri mi ordinasse dei quadri entrouna certa data e che il povero Ulrico dovesse suo mal gradotornarsene a Lucca a mani vuote; avere una scadenza miimpediva di lavorare serenamente.Negli anni Sessanta a Venezia i galleristi erano ancora atti-

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alla Galleria D’Eendt diAmsterdam.In Olanda ci sono tornatoperiodicamente, mentredieci anni fa ho ripercorsocon la mia famiglia il primoviaggio in Messico; ci sonorimasto un mese e non-ostante la modernizzazionenon l’ho trovato moltodiverso da allora.Tornato a Venezia ripresiad insegnare all’Accademia

come assistente di Saetti. La mia pittura allora rievocava i miei viaggi; abbandonai isoggetti legati al periodo della figura umana e realizzaiuna serie di grandi opere ispirate a ciò che avevo visto inMessico. Ancora una volta mi aveva colpito la vegetazio-ne, i cactus e quei fiori bizzarri, ma soprattutto mi avevacontagiato la pregnante sensazione di un mondo di spiritisommerso e parallelo alla quotidianità, che trovava la suamassima espressione nel culto dei morti.Cominciai a dipingere grandi tele di forte impatto espres-sivo, suggestionato forse dalle pennellate accese e vigoro-se degli artisti “Cobra”.Nel 1964 vinsi il premio “Longo” alla Biennale di Venezia,

1962, Carmelo Zotti e l’artistaYsbrant in Olanda.

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San Marco per dipingere le famose marine dell’isola di SanGiorgio e gli appassionati di quel genere dovevano fare lafila prima di avere un quadro con quel suo caratteristicosoggetto. Guidi borbottava: “Gli Alberi e le Figure nessunole vuole, per anni ho mangiato pane e cipolle e se adessovogliono le marine io le faccio!”.La loggia di Palazzo Ducale era il luogo in cui stava meglioe ci andava quasi ogni giorno. A casa lo attendeva lamoglie, mentre nello studio sopra l’Harrys Bar, imperava labaronessa, musa, segretaria e modella.Un’altra personalità molto attiva nella Venezia degli anniSessanta, oltre a De Marco, era Aldo Della Vedova, chegestiva la galleria “Il Canale”; stupiva il pubblico con gran-di mostre ed amava l’arte d’oltralpe, come il gruppo del“Nouveau Réalisme” di Pierre Restany ed il gruppo italofrancese “Anti-Proces” con Licata, che allora ricoprival’incarico di assistente di Severini per il Mosaicoall’Accademia di Parigi.I Cardazzo avevano invece una galleria moderna e curata,che non mi attirava molto per via dell’atmosfera compostae formale che vi si respirava, e daltronde seguivano il lorogruppo di pittori, più vecchi di noi: Bacci, Morandis,Gasperi e Gasparini che appartenevano al movimento spa-zialista. Tante gallerie poi nascevano e morivano nell’arco di pocotempo; tra queste c’era stata quella di Roul Schultz, vicino

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vi e numerosi, e uno diloro è rimasto sicura-mente nella memoriadegli artisti che all’epocali frequentavano: alludo aGianni de Marco.Aveva cominciato tra-sportando quadri ed inseguito aprì una falegna-meria dove si rifornivano

tutti i pittori; era molto popolare e sapeva essere generosocon i giovani. Se a Saetti un telaio costava cinquemila lirea me lo faceva pagare cinquecento, e alle rimostranze diSaetti rispondeva schietto: “Maestro, Zotti per un quadroprende cinquemila lire, lei cinquantamila!”.In seguito aprì una bellissima galleria a Santa Maria delGiglio, “Il Traghetto”, dove realizzò mostre di respirointernazionale, ma tenendo sempre un occhio di riguardoverso noi giovani. Proponeva sia il gruppo degli astrattisti,Licata, Finzi, Rampin e Lucatello, sia i figurativi, Borsato,Basaglia, Gambino, Boscolo, Gianquinto, Silvestri e me.La sua passione iniziale fu De Pisis e la grande pittura ita-liana del Novecento; poi passò a noi giovani e ci promossein ogni occasione, anche se rimase sempre legato a Guidi,del quale era una sorta di impresario factotum: lo accom-pagnava alla loggia di Palazzo Ducale che dà sul bacino di

1970, Venezia, da sinistra Ysbrant, Saetti,Zotti, Morandis.

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al ponte di Rialto. Era un bravo disegnatore, un “artistamatto”, genuino e simpatico, ma purtroppo ha giocato conla vita: gli piaceva bere e si è bruciato presto. Era una bellapersona, mite e sensibile, e lo ricordo sempre assieme adAmedeo Renzini, un pittore della scuola di Pizzinato, neo-figurativo, impegnato a dipingere operai e pescatori.

La cattedra di Pittura all’Accademia e il rinnovato lin-guaggio pittorico

Dopo la nascita della seconda figlia Cecilia, il rapporto conmia moglie era entrato definitivamente in crisi e avevodeciso di andare a vivere da solo in una casa di campagnaa Meolo, nell’entroterra veneziano. Vi rimasi per alcunianni, lavorai moltissimo, mi dedicai il più possibile allamia pittura e grazie a questo riuscii col tempo a risollevarmi.Dopo che per un periodo ebbi la cattedra di Saetti in affi-damento, nel 1973 vinsi il concorso da titolare.Ebbi il posto assegnato ad Urbino e avrei dovuto trasferir-mi, ma l’avrei fatto con difficoltà, preferivo stare aVenezia. Fortunatamente lo stesso anno Concetto Pozzatiaveva vinto la cattedra da titolare a Venezia e acconsentì ascambiarla con quella ad Urbino.Quando insegnavo gli altri titolari erano Viani, Vedova,Bacci e per un periodo Plessi, con il quale negli anni

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e il suo lavoro veniva prima diogni cosa.Anche se i nostri rapportierano cordiali, non mancavanole sorprese. Una volta non lotrovai all’Accademia, e lesegretarie mi dissero che lamoglie mi aspettava urgente-mente a casa loro. Ci andaiincuriosito, pensando di trovar-lo malato; invece camminavanervoso per la casa farfuglian-do continuamente due numeri,“novantotto centootto, centootto novantotto...”. Non capen-do chiesi alla moglie a cosa si riferisse, e lei mi spiegò chesi trattava degli iscritti al suo corso, che erano dieci inmeno rispetto al mio. Non capacitandosi di ciò, imputaval’accaduto ad una congiura nei suoi confronti messa in attodalle segretarie, che in realtà erano totalmente estranee alfatto.Colleghi che hanno avuto molta importanza per gli allievidel mio corso di pittura sono stati i professori Abis,Fiorentin, Guadagnino, Magnolato, Frazzi, Montanaro ealtri che attraverso l’insegnamento della storia dell’arte,dell’anatomia, delle tecniche dell’incisione e lo studio deinuovi media hanno aiutato molti studenti a trovare il mezzo

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Sessanta dividevo uno studio in una casa alle Zattere.Assieme a lui e alla moglie nel 1965 esponemmo alla St.Martin’s Gallery di Londra presentati dallo storico dell’ar-te Guido Perocco. Il mio assistente era Carlo Maschietto, al quale poi suben-trò Ennio Finzi che non consideravo assistente ma contito-lare di cattedra. Tra i docenti a volte si avvertiva una certagelosia e qualcuno tendeva essere molto possessivo coipropri allievi.Vedova aveva un carattere forte e difficile, era uno dei verimaestri dell’accademia. Ogni tanto si lamentava che leriunioni dei docenti gli rubavano tempo per opere “chetutto il mondo aspettava”! Inutile dire che queste uscitescatenavano l’ironia di noi colleghi; era molto egocentrico

1972, l’interno dello studio nella casa di campagna a Meolo (Venezia). 1976, l’aula di pittura all’Acca-demia di Belle Arti di Venezia.

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tico riguarda un docente che ottenne la cattedra di Tecnichedel marmo. Poi venne fuori non si sa come che Tecnichedel marmo era “affine” a Tecniche della pittura, e Tecnichedella pittura “affine” a Pittura, e così per regolamento qual-cuno che non ha mai dipinto è arrivato alla cattedra diPittura.Anche l’indirizzo di Scenografia penso abbia perso presti-gio, forse per l’attivazione del corso alla facoltà diArchitettura che si avvale della collaborazione di registi escenografi di chiara fama, mentre all’Accademia hannoinsegnato persone che non hanno mai calcato un palcosce-nico. L’Accademia per fortuna ha avuto anche molti inse-gnanti prestigiosi, purtroppo messi in ombra da altriincompetenti.In quei primi anni Settanta mutai definitivamente il miolinguaggio pittorico, trovai maggiore libertà espressiva eriemerse in me quel desiderio di surreale di cui avevo sen-tito l’urgenza per molto tempo.Tramutavo in simboli i ricordi dei miei viaggi, creavo cor-rispondenze tra il mio spazio onirico e le tele che andavodipingendo. Mi affascinava il simbolismo e la pittura sur-realista di Magritte e Delvaux, mentre Dalì mi parevatroppo freddo, e anche se osservavo l’Italia con lo sguar-do di un nordico, non potevo non amare Sironi, Saetti,Cassinari, Afro ed il primo Morlotti.Nel 1974 lasciai la campagna e mi spostai in campo

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espressivo loro più congeniale, formando nel contempodegli splendidi docenti.Quand’ero professore cercavamo di dare ad ogni studenteil suo spazio, un luogo dove dipingere, e tutti e quattro glianni di corso lavoravano insieme, nella stessa grande aula,in modo che i più giovani potessero sbirciare l’opera diquelli più avanti. Era un’esperienza molto utile, non si trat-tava di copiare ma di apprendere insieme per poi maturareuna ricerca personale; io giravo tra i cavalletti, discutendoe dando consigli, e ogni tanto ci si riuniva con l’assistentee gli studenti per parlare delle opere e proporre eventualisuggerimenti. A vent’anni è essenziale lavorare a contattocon altre persone, “rubare” anche, relazionarsi e contribui-re con il proprio lavoro, le proprie idee e spero che siaancora oggi possibile per i giovani vivere quest’atmosfera.Ho sempre insegnato con passione, e nonostante il passaredegli anni il rapporto di stima e amicizia instaurato con glistudenti, molti dei quali stranieri, dura ancora oggi.Purtroppo le vicissitudini della vita non hanno permesso atutti quelli che l’avrebbero meritato di affermarsi comeartisti, e molti si sono dedicati all’insegnamento.Ritengo che col tempo l’Accademia abbia iniziato ad anda-re in declino, per colpa di leggi troppo permissive e di sin-dacati autonomi che hanno fatto entrare insegnanti nonadatti al ruolo, fino ad arrivare a docenti di pittura dei qualinon si è mai vista un’opera. Forse l’esempio più emblema-

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opera con mostre e cataloghi. Nel 1975 si interessò perso-nalmente ad organizzare una mostra importante, la miaprima antologica, a Pordenone, corredata da un catalogonel quale Crispolti definiva la mia pittura “teatro onirico”,una definizione in cui mi riconobbi perfettamente.Borgo, che è a tutt’oggi uno dei miei più fedeli amici, si ètrasferito poi a Treviso dove ha aperto una galleria moltopropositiva nella quale ho esposto varie volte.In quegli anni a Mestre nasceva anche un’altra galleria,l’“Acquario” di Franco Beraldo, che col suo amore per leopere su carta, tempere, acquerelli e disegni, mi stimolòverso quelle tecniche.Anche con lui, che dagallerista è divenuto unnoto pittore, è sorta unasalda amicizia che duraormai da trent’anni. Nel frattempo proseguivoil mio lavoro e per unperiodo ricoprii la caricadi direttore provvisorio epresiedetti alla commis-sione che ammetteva glistudenti; conobbi cosìBrigitte Brand, venutadall’Accademia di Stoc-

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San Polo, in un nobilepalazzo veneziano semiabbandonato ma ancoraabitabile, con delle gran-di quadrifore sul canale.Le mie figlie ed io occu-pavamo un piano, poic’erano Eulisse, il foto-grafo Mark Smith, degliamici francesi di Licata einfine Basaglia, che allo-ra lavorava alla sculturadel “marco cavallo” perl’ospedale psichiatricodiretto da suo cugino.

Purtroppo negli anni Ottanta ci arrivò lo sfratto da parte diuna società milanese che avrebbe acquistato tutto l’immo-bile e ce ne saremmo dovuti andare.Sempre in quel periodo conobbi Vito Trevisan e GuidoBorgo, affettuosamente soprannominati il “gatto e lavolpe”, che gestivano la galleria “Fidesarte” a Mestre; cre-devano in me e mi proposero di fare alcune mostre per dif-fondere la mia pittura, nonostante allora non fosse facileproporla sul mercato. Trevisan mi ritiene giustamente unasua scoperta, mi ha sempre sostenuto e sin dall’inizio delnostro rapporto si è adoperato per promuovere la mia

1974, nello studio di Venezia.

1991, Zotti e la moglie Brigitte Brand.

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alla loro attività imprenditoriale, di arte contemporanea, unpercorso che negli anni li ha portati a diventare sostenitoridi importanti eventi internazionali.Avevano visto le mie opere nella galleria Borgo a Treviso evolevano conoscermi; così, una nebbiosa domenica inver-nale vennero a trovarmi nello studio che occupavo allora aConcordia Saggitaria, vicino a Portogruaro, per vedere imiei quadri.Gli interessavano in particolar modo le grandi tele che dif-ficilmente arrivavano alle gallerie, e si instaurò da subitoun rapporto di stima ed amicizia che continua ancora oggi;tutti e quattro hanno creduto in me, e in qualche modo sonodiventato per loro una scommessa che portano avanti da

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carda con una borsa di studio per frequentare il corso tenu-to da Emilio Vedova. In seguito chiese di visitare il mio stu-dio con la sua amica viennese Martina Braun, cominciam-mo a frequentarci e ci innamorammo. Ci sposammo nel1983 e nello stesso anno nacque il nostro primo figlio,Johannes. All’epoca vivevamo ancora a Venezia nello studio di SanPolo, ma l’anno dopo ci trasferimmo a Treviso, per poi tro-vare una casa in campagna che finalmente ci offriva ampispazi per dipingere.Ciò ha permesso un confronto costante con lei, mi ha datomodo di poter ripercorrere i suoi viaggi nelle sue granditele suggestive e di averla come prima critica del mio lavo-ro in un clima di armoniosa collaborazione.Nel 1990 è nata Marlene e, dopo trentadue anni di inse-gnamento, ho lasciato l’Accademia. Considerando anche ilperiodo da studente vi ho trascorso trentasei anni, ma daquando ho smesso d’insegnare ci sono tornato solo unavolta, per la commemorazione del mio maestro Saetti.

L’incontro con i fratelli Lucchetta e le grandi mostre

Nel 1985, grazie a Guido Borgo, ho conosciuto i fratelliLucchetta, titolari del gruppo Euromobil. Da qualche tempo avevano iniziato ad occuparsi, a fianco

2003, San Gimignano, Carmelo Zotti assieme ai fratelli Lucchetta (da sinistraFiorenzo, Giancarlo, Antonio e Gaspare).

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quali la recente antologica a Palazzo Pretorio a Cittadella.Ricordo inoltre Toni Toniato e Paolo Rizzi, che mi hannopresentato in diverse occasioni nelle gallerie veneziane epoi naturalmente Enrico Crispolti che con il suo testo del1975 ha posto le basi critiche del mio lavoro recente.Nicola Micieli ha invece curato l’antologica al museo d’ar-te moderna di San Gimignano del 2003, sempre con il con-corso dell’Euromobil.Sono poi affettivamente legato a critici che mi hanno segui-to negli ultimi anni, come Diego Collovini, oggi assessorealla cultura di Portogruaro, Giuliana Carbi che assieme aFranco Jesurum gestisce lo studio Tommaseo a Trieste, eDino Marangon. Quest’ultimo sta realizzando il primovolume del catalogo generale della mia opera, dedicato aglianni Cinquanta e Sessanta, un’altra iniziativa fortementevoluta dai fratelli Lucchetta.Indubbiamente mi fa piacere che si stia organizzando l’ar-chiviazione delle mie opere, è un’occasione per mettere unpo’ d’ordine nella mia produzione, dato che si tratta di unaspetto che ho sempre trascurato.D’altra parte riesumare articoli ingialliti vecchi di cinquan-t’anni e foto appiccicate tra loro impone una constatazionesul tempo che passa. La critica si è occupata della mia pittura in maniera quasisempre pertinente, ed ancora oggi riesce a fornire al letto-re una chiave interpretativa del mio lavoro, ma questa

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anni. Lavorano sempre come una squadra unita e sugli stes-si obiettivi, così come in azienda, e ciascuno contribuisce asuo modo ad ogni progetto. Grazie a questo affiatamentoriescono a sostenere eventi di altissimo profilo come l’e-sposizione di disegni di Leonardo al Louvre o la serie dimostre sulla pittura europea dell’otto e novecento a Trevisoe in questi anni a Brescia, curate da Marco Goldin.La prima importante monografia che contribuirono a rea-lizzare fu edita da Mondadori nel 1991 e curata da ClaudioCerritelli con un commento molto significativo che pren-deva in esame tutta la mia produzione dagli anni Cinquantafino ad allora. La mostra antologica del 1993 a Palazzo Sarcinelli aConegliano, a cura di Marco Goldin e Guido Giuffrè, fu laprima di una serie di grandi esposizioni sponsorizzatedall’Euromobil.Il 1995 è stato l’anno della mostra al Museo d’ArteContemporanea Cà Pesaro a Venezia, curata da Enzo diMartino. Ha avuto il merito di rilanciare il museo primadella ristrutturazione, con tre esposizioni dedicate allagenerazione di mezzo. Ha presentato l’opera di Licata eBasaglia, oltre alla mia, tutte supportate da un volumemonografico molto bello edito da Fabbri.Tra i critici, oltre a Di Martino, nutro particolare simpatiae affetto per Giuliano Menato che dagli anni Settanta hacurato molte mostre in spazi privati e istituzionali, tra le

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attenzione mi ha sempre un po’ imbarazzato; non sonoportato a spiegare, a giustificare le mie opere, anzi non lecommenterei mai, e per questo quando un critico cogliepuntualmente degli aspetti della mia pittura, dei quali avolte nemmeno io mi accorgo, rimango come spiazzato,messo a nudo.Io colgo altro rispetto allo spettatore, registro delle sensa-zioni che poi cristallizzo sulla tela, spesso non spiegabiliperchè non filtrate razionalmente.Se penso alla mia pittura e a come è cambiata nel corsodegli anni direi che l’effetto del surrealismo, che assieme alsimbolismo mi aveva influenzato profondamente, ha manmano perduto la sua forza originaria. Il tempo li ha in uncerto senso storicizzati, collocati nel passato, mentre prima

li sentivo vivi e molto vicini alla mia sensibilità.L’atmosfera surrealista si è pian piano dissipata e ad uncerto punto i miei personaggi hanno cominciato a togliersila maschera e ad essere più riconoscibili: molti hannoguadagnato le ali, a volte angeli a volte più umanamentemaliziosi. Credo che dagli anni Settanta la mia pitturasegua una cifra stilistica più coerente, riconoscibile, abbiaun carattere di inconfondibilità. Oggi continuo a dipingere spinto dalle stesse sollecitazionidi una volta, con la stessa passione, accogliendo nella miainteriorità e traducendo in pittura quelle immagini che ognigiorno vivono e prendono forma intorno a me.

Raccontando una vita i ricordi si associano casualmente,

probabilmente sono più le cose tralasciate che quelle dette:

ripensandoci bene rimangono fuori dal racconto la vita a

Venezia e nell’adottiva Treviso, gli inverni nella campagna

veneta, molti incontri e amicizie durature, ma spero che

tutto quello che non ho citato rimanga ugualmente nel

cuore di chi mi ha vissuto.

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Opere1956-2006

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TESTIMONIANZE

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ENNIO POUCHARD

Cinque anni fa, quando Carmelo ne compiva sessantotto,presentandolo in una personale, esordivo definendolo “nar-ratore per natura: o per atavismo, forse, essendo nel sanguemetà istriano (di parte paterna) e metà cipriota (per viamaterna). Originario di terre, cioè, dove l’affabulare rac-conti era un impegno non fatuo, non giudicato inutile, nonda perditempo, ma esistenziale anche nei primi anni dellavita…”.Ora, nel rispondere a Michele Beraldo che m’invita a scri-vere sinteticamente dell’uomo e non del pittore, per questolibro da lui edito, mi viene spontaneo riprendere il discor-so sulla sua parola: quella pronunciata, beninteso, perchénon mi è mai accaduto di leggere una sua riga; e non sulsenso di essa, ma unicamente sulla voce che l’articola. In confronto con il grande fisico del maestro, infatti, èminuta, soffice, armoniosa, pacata, sotto tono. Sono con-vinto che, se riuscissi a farla registrare da un tecnico delsuono, analizzandone poi graficamente l’andamento, ildiagramma complessivo risulterebbe assolutamente privodi guizzi e sbalzi. Ma — e questo mi sembra quasi un para-dosso dell’acustica, che essendo scienza non ne vorrebbeammettere — è udibile distintamente anche nel frastuonodei nostri frequenti e ben frequentati incontri conviviali,

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nel clima acceso delle discussioni più coinvolgenti: sull’ar-te, ovviamente, ma anche di società, di politica, di lettera-tura, d’amore e di amori; nonché di luoghi e di vini specia-li. Discussioni nelle quali lui immette senza pause quellache definisce “l’ultima” (barzelletta, ovviamente), dettacon il medesimo tono privo di enfasi. Mi dicono che l’hasempre fatto: ne parlano ancora certi suoi allievidell’Accademia di Venezia, ricordando quando inframmez-zava nel discorso le storie più estranee ai temi della didat-tica senza mutare il suo normale atteggiamento; o, nel suostudio alla Giudecca, con la medesima nonchalance ripren-deva il discorso critico, interrotto in aula dal campanello difine ora, mentre tutti i presenti si aspettavano di sentirlodire sui fagioli preparati da lui, per loro. È mai possibile accostare tutto ciò al suo dipingere, a quel-l’aspro “spargere, dipanare e frangere scie secche di bian-co puro su fondi altrettanto secchi di impasto colorato” chegli è proprio (è ancora quel mio scritto che riaffiora); aimiti, alle fantasie, alle culture di posti e tempi remoti, allaforza di cui s’intridono i suoi dipinti?Sentendocelo chiedere, sorriderà, il patriarca; e io non miaccorgerò di riconoscerlo come tale, dimenticando gli anniche ho più di lui. Pensandoci, mi viene spontaneo pormiuna domanda: patriarchi, forse, si nasce?

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ENZO DI MARTINO

Forse è più facile fare il mondo in sei giorni che racconta-re una amicizia nel segno dell’arte che dura da quasi qua-rant’anni, come quella che mi lega a Carmelo Zotti dallametà degli anni Sessanta.Allora non ci frequentavamo molto, io ero più giovane, maacquistai nel 1964, senza dirglielo, un disegno espostonella Galleria il Traghetto di Gianni De Marco in occasio-ne di una sua mostra.Quando lo vide, molti anni dopo, ne fu davvero sorpreso,credo piacevolmente, perché quel piccolo disegno era ilsegno storico della mia stima per il suo lavoro di artista.Negli anni successivi la nostra amicizia è cresciuta facil-mente e naturalmente, senza interessi e senza molte parole,come è nel suo stile, con incontri, telefonate e visite nellostudio.Spesso parlavo di lui con Bruno Saetti, che andavo a trova-re quasi tutti i giorni nello studio a San Vidal, perchéCarmelo era stato uno dei suoi allievi preferiti e l’aveva poivoluto come suo assistente, succedendogli infine nella cat-tedra di pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia.Nel frattempo si verificavano le occasioni di collaborazio-ne, sia curando innumerevoli mostre – a volte assieme aBrigitte Brand – e sia sollecitando l’edizione di alcune sueopere grafiche per il Centro Internazionale della Grafica

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che allora dirigevo.Naturalmente la preparazione della sua grande mostraretrospettiva al Museo d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, nel1995, è stato forse il punto più alto della nostra “amiciziacollaborativa”.Anche perché segnava il maggior riconoscimento cheVenezia, la sua città d’elezione, finalmente gli tributava. Ma non posso dimenticare quella sul “sacro” al Museo diSanta Apollonia a Venezia – con le sue straordinarie“annunciazioni” – o quella allestita nel Museo di PalazzoFarnese ad Ortona.Né quella, voluta dal comune amico Toni Biloslav allaObalne Galerije di Pirano, quando Marlene era appena natae se ne stava tranquilla, silenziosa, nella sua carrozzina inmezzo alla naturale confusione di una inaugurazione.Ma forse il ricordo più bello di una mostra curata perCarmelo è quello legato alla grande esposizione allestitaalla Fondazione Manes di Praga, che era molto bella e checi diede la possibilità di passare alcuni giorni assieme inquella straordinaria città.La mia amicizia con Carmelo, come accade anche tra per-sone che lavorano nello stesso ambiente, è fondata natural-mente sugli aspetti umani del carattere.Ma anche, e forse soprattutto, sul fascino che ho sempreavvertito nella sua opera, densa delle inquietanti atmosfereromantiche di Böcklin e delle conturbanti suggestioni delsimbolismo di Moreau. In fondo faccio il critico d’arte.

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GIULIANO MENATO

Caro Carmelo, la notizia della tua mostra alla Permanente di Milano mi hariempito di gioia. Da tempo auspicavo una tua presenza nelcapoluogo lombardo, facendo leva sui tuoi sponsorizzatori.Era ora che ad un artista della tua levatura, giunto nella suapiena maturità, si offrisse l’opportunità, con una rassegnadi ampio respiro, di uscire dal Veneto. Questo ti è familia-re, ma ti sta stretto, nonostante gli amici sinceri e i convin-ti estimatori che qui annoveri e i tanti allievi memori deltuo appassionato insegnamento all’Accademia di Venezia.La mostra è curata da un valente esegeta, FlaminioGualdoni, il quale, disponendo di tutto il tuo lavoro, è ingrado di operare le scelte adatte a documentarlo conve-nientemente – egli ha questo vantaggio su Enrico Crispolti,autore nel 1975 di una monografia esemplare sull’artistagiovane, qual eri, che aveva però dato prove straordinariedel suo talento –, e si svolge in un crogiuolo disincantatoed aperto, in cui le idee e i gusti maturano nel confrontocon esperienze diverse.Non ti sono mancati, nel frattempo, importanti riconosci-menti, in Italia e all’estero. Occasioni propizie noi stessi tele abbiamo presentate, ospitandoti nelle sedi in cui lanostra voce era ascoltata. Quante mostre, a partire dal

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1973, ti abbiamo dedicato in tanti anni di assidua frequen-tazione!E’ difficile contarle e imbarazzante citarle. Una cosa ècerta: la tua disponibilità non ha fatto distinzione tra luoghiprestigiosi e umili. Abbiamo allestito mostre bellissime incittà come Vicenza, Venezia, Mestre, Firenze e in piccolicentri come Alte Ceccato, Trissino, Lonigo, Arzignano,mossi dalla stima per il tuo lavoro e dall’affetto per la tuapersona. Consentimi di ricordare, perché più di altre rigo-rose ed esaustive, le antologiche alla Galleria Civica diValdagno (1987), con opere dal 1974 al 1986, e a PalazzoPretorio di Cittadella (2003), con opere dal 1956 al 2003.Per queste esposizioni siamo riusciti a rimuovere dalle casedi gelosi collezionisti – quelli veri della prima ora – i gran-di teleri degli anni Settanta, fondamentali nella tua storia diartista, studiati con curiosità ed acume da GiuseppeMazzariol, Umbro Apollonio, Toni Toniato, Paolo Rizzi,prima ancora che da Enrico Crispolti.Dopo i maestri dell’astrattismo veneziano, Santomaso eVedova, tu e Gianquinto siete le personalità di maggiorespicco della figurazione veneta contemporanea. Lontanientrambi dall’essere apprezzati per quanto valete, pagate loscotto dei vostri inflessibili principi, dell’avversione per unsistema dell’arte che celebra chi cede ai suoi ricatti. Avetedipinto per la gioia di farlo, pensando che la fedeltà allapittura, da voi sempre onorata, meritasse di per sé un pre-

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mio. Purtroppo avete sperimentato, a vostre spese, cheesporre a Ca’ Pesaro o al Correr non paga più di tanto, sele scelte sono improvvisate e arbitrarie, non sorrette da unpensiero critico.Sono sicuro, caro Carmelo, che Flaminio Gualdoni e i fra-telli Lucchetta daranno, con questa mostra, un validoimpulso alla promozione del tuo lavoro, riaffermando conla loro autorità, l’alto profilo del tuo impegno.

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NICOLA MICIELI

Ho conosciuto di persona Carmelo Zotti solo nel 2001,complice Giorgio Di Genova che mi aveva chiesto di scri-vere il testo introduttivo alla mostra dell’artista in prepara-zione al Museo Bargellini di Pieve di Cento. Accolsi l’in-vito con grande piacere, trattandosi della mia prima occa-sione d’incontro critico con un pittore del quale ammiravoil linguaggio e la poetica di ispirazione metafisica. Pensavoal suo mondo come a un teatro iniziatico di apparizioni,disseminato di erme, edicole, arche, tempietti; abitato dafilosofi, sfingi, sirene, angeli; contrassegnato da palme,acque marine e lustrali, insenature, colline, e altri oggetti eluoghi e creature investiti d’una speciale funzione evocati-va e simbolica. Nell’insieme leggevo la pittura di Zotticome una sorta di iconostasi consacrata alla segreta circo-lazione di archetipi, miti e figure emblematiche delle civil-tà mediterranee, i cui depositi ancora pervadono la culturae la spiritualità del nostro tempo.L’impressione che di lui ebbi allora, conversando nella suacasa-studio davanti alle tele che non si stancò di mostrarmie di commentare con me, fu d’un uomo di grande discre-zione e incline all’ascolto piuttosto che alla parola. Eppurenel suo parlare parco e pacato – di sé pittore allo specchiodell’opera, e delle occasioni ed evenienze esterne transita-te non senza frizioni e lasciti nella sua vita – traspariva una

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sedimentazione e persino un’eloquenza del non detto, o deldetto per indizi e sospensioni, da rendere sin troppo chiarae quasi sintomatica la percezione di un’analogia tra il suomodo di porgersi come persona e il silenzioso comunicaredelle “presenze” che popolano le sue tele. Nelle quali simanifesta il visibile parlare dell’artista, che ipotizza o insi-nua intrecci colloquiali affidandoli agli sguardi, ai gesti,agli atti, alle stesse posture dei personaggi, o anche solo alnon neutro ergersi d’un reperto, un tumulo, una stele.Insomma, un segno portatore di senso, oltre che di mistero,al di là dei significati emblematici e simbolici loro asse-gnati dalla tradizione delle diverse culture, da Zotti inter-rogate e convocate a farsi interlocutrici della contempora-neità nella sua ormai lunga indagine.Calate nel “paesaggio”, che partecipa per simpatia dei loromessaggi arcani, quelle “presenze” intrecciano tra loro econ noi colloqui sui generis, poeticamente enigmatici, noncerto riconducibili a un qualche episodio o circostanza divita vissuta che rimandi al privato e al pubblico di CarmeloZotti. Tuttavia è indubitabile che in essi l’artista riversi erestituisca sotto specie di metafora pittorica il proprio sen-timento del tempo, della storia, del destino, la propriariflessione sulla condizione umana. E in questo suo comu-nicare in figure ovvero parole sospese il sommerso interio-re, in cui Eros e Thanatos fluttuano compresenti, consiste iltratto distintivo della sua visionarietà metafisica. In seguito ho curato una mostra antologica di Zotti, scalata

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dal 1958 al 2003, ai Musei Civici di San Gimignano.L’artista teneva molto ad esporre nella città toscana celebreper le agili torri che svettano sul tessuto medioevale dellestrade e piazze e spazi muniti, rendendola luogo per eccel-lenza dell’immaginario.Scelsi di intitolare Nel segno della sfinge la discesa dei suoidipinti a San Gimignano, tenendo conto della ricorrenza diquesta mitica creatura nel mondo di Zotti e della funzionesimbolica che la sua ambiguità vi svolge. Non intendevoassegnargli particolari implicazioni riferibili all’attualesituazione culturale, tanto meno implicazioni di ordine cri-tico.A posteriori posso però dire che quel titolo suggeriva ancheuna sorta di discreta lezione intorno a un’idea della cono-scenza e della comunicazione che, per essere fondata sullasostanza degli archetipi, dei miti, della cultura figurativaregistrata ai tempi lunghi della storia, nella sua complessi-tà e concentrazione poteva ben essere assunta a contraltaredella tendenza, propria del nostro tempo, al consumo rapi-do e superficiale di ogni esperienza culturale ed esistenzia-le. Senza riflessione, senza depositi, senza comunicazione.Ne sono un esempio l’assedio e la falsificazione del turi-smo di massa, che in San Gimignano riconosce uno deisuoi santuari.Anche di questo abbiamo conversato con Carmelo Zotti. Iocon un certo profluvio di parole. Lui con il suo parlareparco e pacato, e pieno di sospensioni.

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DIEGO COLLOVINI

Ho visto, per la prima volta, Carmelo ai 3 scalini aPortogruaro. Erano i primi anni ottanta (credo fosse il1983, cominciavo allora ad interessarmi attivamente almondo dell’arte). Era autunno avanzato e lui portava unagiacca marrone chiaro e al collo un fazzoletto rosso anno-dato, in testa – ma non ricordo bene – aveva un cappello.Mi era sembrato molto più grande di quanto lo fosse vera-mente. Spesso la memoria tradisce e i ricordi si ingiganti-scono.Curioso chiesi chi fosse. “Un pittore” mi rispose Danielache con lui aveva appena consumato un caffè. Vestito cosìnon poteva che essere un pittore, mi confermai.Lo conobbi due anni dopo in campagna. Passava le estati aConcordia Sagittaria, anzi a Cavanella Lunga. Le vie cheportavano a casa sua avevano nomi delle stagioni: viaPrimavera e via Inverno. Ci ospitò (ero assieme ad un suoex allievo, Pope) in un’ampia cucina con due spazioseporte che davano sul davanti e sul retro della casa. Mi strinse la mano, come la stringe un padre. Avvertii calo-re in quella stretta di mano.Prima di parlarmi del suo lavoro volle mostrarmi i quadridi Brigitte, che non conoscevo. Solo alla fine me la pre-sentò. Di lei mi è rimasto impresso il sorriso, i lisci e lun-

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ghi capelli biondi e una sigaretta stretta tra le dita.Davanti ad un bicchiere di vino rosso esposi il mio proget-to per una sua esposizione presso la Galleria comunale diPortogruaro. Ci scambiammo opinioni sul video cheavremmo girato in settimana e che avrebbe accompagnatola mostra.Due giorni dopo arrivai con il tecnico del video. Carmeloaveva approntato il suo studio. Un cavalletto, un grandefoglio, dei carboncini, uno stereo, una bottiglia e dei bic-chieri. Sapeva che avrei gradito un sorso di rosso.Pronti disse. E fece partire la musica.Non poteva che essere un blues molto cadenzato. Dallecasse usciva, a volume sostenuto, il greve suono di una chi-tarra, la batteria teneva il ritmo e una voce roca intonava leparole. Conosco il blues abbastanza bene, ma non avevoriconosciuto il musicista (né chiesi chi fosse).Rimasi incantato da come si approntò. Prima di posare ilcarboncino sul grande foglio bianco si mise in equilibrio.Seguii con lo sguardo il segno tranquillo, continuo, ininter-rotto, scorrevole, che andava dolcemente disegnando le duefigure contrapposte che in quel periodo caratterizzavano lesue composizioni. Il mio occhio accompagnava quellamano sicura, priva di incertezze e ripensamenti; certa diquello che raffigurava su quella grande superficie di carta.Era come se un’altra mano guidasse quella che io vedevo.Finì il suo lavoro e si girò. Il sorriso, sotto i baffi, lasciava

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trasparire una certa soddisfazione e contentezza. Guardaidalla finestra per non incontrare i suoi occhi (volevonascondere l’emozione che provavo) e vidi un cielo azzur-ro. Capii che quando i suoi quadri sono azzurri lui è piùcontento.

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DINO MARANGON

L’amico Michele Beraldo mi chiede una testimonianza perCarmelo Zotti.Confesso di essere un po’ in difficoltà perché non credopossano interessare a un pubblico i ricordi che mi legano aquesto artista.Formato alla scuola di Giuseppe Mazzariol che pureapprezzava Zotti e aveva scritto per lui una bella presenta-zione già nel 1964, avevo, tra l’altro ereditato una certadiffidenza per la pittura di matrice simbolica: un atteggia-mento che solo col tempo ritengo di essere riuscito a supe-rare.Il mio primo approccio diretto risale comunque al 1991,allorché Vito Trevisan, titolare della Fidesarte e uno deipochi, nel Veneto, con la voglia di provare a fare ilGallerista, mi chiese una paginetta di introduzione a unamostra.In quella circostanza, sottolineando l’ambiente più intimoe familiare dei quadri più recenti, ebbi l’occasione di scri-vere che il fatto che “… accanto agli umanissimi protago-nisti dei dipinti di Zotti … continuasse talvolta ad apparireuna piccola domestica sfinge”, poteva “forse risponderesolo al bisogno di manifestare l’esigenza di superare le fos-silizzazioni e gli svianti giudizi del senso comune.” Al

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momento della consegna del testo, Carmelo non mi dissenulla.Ma in seguito, quando mi incontrava, mi guardava e dice-va: “sfinge domestica”, e sorrideva tra i baffi.Confesso che io non riuscivo a capire se fosse un rimpro-vero, o una specie di formula di riconoscimento.In ogni caso, proprio a partire da quella mostra, cominciaia frequentare Zotti e la sua famiglia con maggiore assidui-tà.Ad esempio posso dire di essere stato il primo, durante unafesta in campagna, a ballare con la splendida, sorridenteMarlene, allora forse di pochi mesi.Recentemente quando Gaspare, Antonio, Fiorenzo eGiancarlo Lucchetta mi hanno chiesto un parere su cosasarebbe stato utile fare per valorizzare un artista comeZotti, da loro prediletto, pensando a come fosse, alla fine,estremamente limitato il numero dei quadri esposti e cono-sciuti rispetto a quello delle opere da lui realizzate e risa-lendo anche alle esperienze della catalogazione dei dipintidi Virgilio Guidi e di Bruno Saetti, alle quali ho partecipa-to, ho osservato che sarebbe stato opportuno fare altrettan-to anche per Zotti.Eccomi quindi impegnato in questa nuova e tutt’altro chesemplice avventura.Per fortuna questa volta sarà il maestro a dirigere l’impre-

sa, e inoltre si potrà contare sull’apporto attento di Brigitte

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e sulla collaborazione di Franca Bizzotto, e, magari, anchedel biografo ufficiale Michele Beraldo, se la smetterà dichiedermi testimonianze varie.Devo dire che, cominciando, per questo nuovo lavoro, ascorrere le fotografie delle opere, mi sono imbattuto anchein alcuni quadri intitolati Sfinge domestica.

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Indice delle tavole a colori

I Libertatem Testor 2, 1956, olio su tela, cm 99x62,5

II Figura Rossa, 1959, olio su tela, 120x80

III Purgatorio, 1964, olio su tela, cm 92x61

IV Racconto, 1964, olio su tela, cm 140x180

V Purgatorio, 1964, olio su tela, cm 150x150

VI Personaggio, 1967/69, olio su tela, cm 115x90

VII Lazzara, 1973, acrilico su tela, cm 100x130

VIII Il circo, 1972, tec. mista su tela, cm 120x90

IX Lazzaro, 1973, tempera su carta, 1973, cm 180x160

X Il prigioniero, 1974, acrilico su tela, cm200x250

XI Il giardino incantato, 1974, acrilico su tela, cm 200x250

XII Giuditta, 1974, tempera su carta, cm 150x200

XIII Bagni Termali, 1974, tempera su carta, cm 150x200

XIV Il colombo, 1978, acrilico su tela, cm 150x180

XV Signorina, 1981, acrilico su tela, cm 250x200

XVI Al circo, 1985, olio su tela, cm 180x150

XVII La bella e la bestia, 1986, olio su tela, 150x90

XVIII Balletto, 1986, acrilico su tela, cm 200x250

XIX Eva e Adamo, 1987, olio su tela, cm 200x150

XX Sogno, 1986, olio su tela, cm 130x150

XXI Pittrice e modella, 1987, olio su tela, cm 140x170

XXII Mediterraneo, 1986, acrilico su tela, cm 200x250

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Bibliografia essenziale

Enrico Crispolti, Zotti, Centro Iniziative CulturaliPordenone, 1975.

Claudio Cerritelli (a cura di), Carmelo Zotti, ArnoldoMondadori Arte, Milano 1991.

Marco Goldin (a cura di), Zotti, opere 1958-1992, MariniEditore, 1993.

Enzo Di Martino, Zotti, Fabbri Editore, 1995.

Giovanni Granzotto, Zotti - Chartae MCMLXII-MMII,Fidesarte, Mestre-Venezia 2002.

Giorgio di Genova (a cura di), Confronti da Museo, Finzi-Zotti, Bora Edizioni, Bologna 2001.

Nicola Miceli, Carmelo Zotti, Nel segno della Sfinge,Opere 1958-2003, Bora Edizioni, Bologna 2003.

Giuliano Menato, Carmelo Zotti, Il mito della pittura,Palazzo Pretorio Fondazione Onlus, Cittadella 2003.

F. Gualdoni, D. Marangon (a cura di), Zotti, L’epica, ilracconto, l’elegia. 1956-2006, Cinquant’anni di pittura,Skira, Milano 2007.

XXIII Duo sul divano, 1989, acriico su tela, cm 200x230

XXIV Icaro, 1989, olio su tela, cm 200x200

XXV Coppia (part.), 1983, tec. mista su carta, 150x100

XXVI Tentazione, 1989, olio su tela, cm 180x200

XXVII Camera con abat-jour, 1989, olio su tela, cm 200x180

XXVIII Primavera, 1990, olio su tela 200x200

XXIX Estate, 1990, olio su tela, cm 200x200

XXX Al mare con lo struzzo, 1994, acrilico su tela, cm 140x170

XXXI Duo con albero, 1993, tec. mista su carta, cm 140x100

XXXII Figure, 1994, tec, mista su tela, cm 150x180

XXXIII Cristo in Bosnia I, 1994, acrilico su cata, cm 150x170

XXXIV Cristo in Bosnia II “Pietà”, 1994, acrilico su carta, cm 150x170

XXXV Istria, 1995, tecnica mista su tela, cm 120x160

XXXVI Angelo e figura distesa, 1996, acrilico su tela, cm 120x160

XXXVII Grecia, 1997, olio su tela, cm 130x150

XXXVIII Sfinge, bella e ermafrodito, 1996, olio su tela, cm 150x180

XXXIX Coppia (part.), 1983, tec. mista su carta, cm 150x100

XL Donna e lupa, 1999, olio su tela, cm 150x180

XLI Angelo sentinella, 2004, olio su sup. rigido, cm 103x118

XLII Tempietto, 2004, olio su sup. rigido, cm 103x118

XLIII Duo, 2005, olio su sup. rigido, cm 120x120

XLIV Faro, 2005, olio su sup. rigido, cm 120x120

XLV Sfinge (part.), 2006, olio su sup. rigido, cm 120x120

XLVI Eva, 2006, olio su sup. rigido, cm 120x120

XLVII Eva, 2006, olio su sup. rigido, cm 120x120

XLVIII Al lago, 2006, olio su sup. rigido, cm 120x120

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Indice

7. Simboli e metafore13. Molte vocazioni...16. Il desiderio di viaggiare per mare21. L’Accademia e le prime esposizioni28. La Venezia degli anni Cinquanta32. Una visione artistica internazionale41. La cattedra di Pittura all’Accademia e il rinnovato

linguaggio pittorico48. L’incontro con i fratelli Lucchetta e le grandi mostre55. Opere, 1956-200657. Testimonianze59. Ennio Pouchard63. Enzo Di Martino67. Giuliano Menato73. Nicola Micieli79. Diego Collovini85. Dino Marangon91. Indice delle tavole a colori93. Bibliografia essenziale

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Stampato nel mese di gennaio 2007 da Grafiche Antiga - Cornuda (Treviso)

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