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Una competenza, una domanda, un esperto, un libro prof. Valter Danna venerdì 4 febbraio 2011 Palazzo della Provincia di Torino corso Inghilterra 7/9, Sala Stemmi Autoappropriarsi delle proprie competenze cognitive: la sfida dell’unificazione dei saperi nella prospettiva di Bernard Lonergan

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Una competenza, una domanda, un esperto,

un libro

prof. Valter Danna venerdì 4 febbraio 2011

Palazzo della Provincia di Torino corso Inghilterra 7/9, Sala Stemmi

Autoappropriarsi delle proprie competenze cognitive: la sfida dell’unificazione dei saperi nella prospettiva di Bernard Lonergan

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LONERGAN NELL’ATTUALE CONTESTO FILOSOFICO-SCIENTIFICO

di Valter Danna

La visione postmoderna, contraria alla scienza-tecnica e allo sviluppo industriale, ha reso parte della filosofia italiana indifferente agli sviluppi scientifici e sorda alle domande e ricerche epistemologiche e di natura «metafisica» poste da molti ricercatori e scienziati sia nell’ambito teorico che in quello applicativo-tecnologico (si pensi alle innumerevoli branche dell’ingegneria odierna o della biologia e genetica). Molte le domande squisitamente filosofiche e teologiche poste spesso da chi, nel mondo della scienza naturale pura e applicata, si è trovato di fronte e questioni di confine, a domande di senso, a problemi etici, a interpretazioni totalizzanti, a tentazioni riduzioniste e così via. D’altra parte, il filone di opposizione al postmoderno, poiché troppo occupato nella sterile polemica con il pensiero debole, non ha saputo cogliere l’occasione di tale polemica per sviluppare le istanze epistemologiche e filosofiche legate a tutte le problematiche scientifiche, né di offrire delle produzioni significative di collaborazione e integrazione con il panorama scientifico.

Circa la scienza moderna, essa si accontenta sempre solo di essere sulla via della verità,

consegue verità probabili continuamente sottoposte a revisione, ma il suo metodo funziona e conduce a risultati strabilianti. D’altra parte, il mondo contemporaneo ha ormai messo da parte la nozione unica, normativa e permanente di cultura derivata dalla classicità greco/latina. Emerge oggi una nozione dinamica, storica e pluralista di cultura: essa è intesa come un qualsiasi insieme di significati e di valori di un popolo o di una comunità i quali rendono il suo stile di vita degno di appartenerle e di essere vissuto. Tutto ciò ha portato le scienze ad un accumulo ininterrotto di conoscenze sempre più difficili da padroneggiare. Da un lato, infatti, è ormai impossibile l’enciclopedismo o una qualche sintesi unitaria dei saperi, perché dovrebbe basarsi su elaborazioni concettuali sistematizzate e gerarchizzate immediatamente superate dal dinamismo autocorrettivo della scienza. Dall’altro lato, l’incessante ramificazione dei saperi conduce a una tale specializzazione delle discipline da frammentare le conoscenze in compartimenti stagni, fra loro incomunicabili, cosicché il possesso completo anche solo di una scienza non è più appannaggio del singolo esperto ma della comunità degli esperti in quella disciplina.

L’incomunicabilità diventa quasi assoluta tra scienze diverse, ciascuna delle quali ha ormai il suo

ristretto ambito di ricerca, i suoi metodi e strumenti operativi, il suo apparato concettuale e linguistico, le proprie società scientifiche che organizzano congressi e pubblicano riviste specializzate. Sorgono anche discipline miste che sollevano problemi di rapporto interdisciplinare tra le scienze e, soprattutto, questioni al confine o al di fuori della portata e del loro ambito di competenza. Nuove e continue scoperte, ad esempio in campo cosmologico, biologico, genetico, aprono prospettive inaspettate e mettono in questione valori fino a ieri incontestati, ponendo all’etica e alla filosofia, di solite impreparate su questi fronti specialistici come già si è detto, domande di ben difficile soluzione.

Per tutte queste ragioni, riteniamo la proposta filosofica e metodologica di Bernard Lonergan

non solo utile, ma provvidenziale per un rinnovamento del lavoro filosofico e scientifico anche in Italia. Tale proposta è un tentativo originale e fecondo di dare delle risposte operative, e non solo concettuali e astratte, per superare i rischi di frammentazione che l’attuale specializzazione dei saperi corre e per ricercare una via di integrazione possibile tra le scienze e le discipline.

Anzitutto, Lonergan fu attento ai radicali cambiamenti circa la nozione di scienza e di storia

(secoli XVII-XIX) che portarono a profonde trasformazioni della conoscenza circa la natura e l’uomo. La disattenzione o il fraintendimento di tutto ciò ha condotto gran parte della filosofia nell’insignificanza odierna. Per questo, Lonergan, nella sua ricerca metodologica, intese ricondurre la filosofia al suo ruolo di mediazione con le altre scienze, i saperi e le culture umane, le società

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stesse e, anche, la teologia. Riteniamo non solo degne di attenzione, ma confrontabili con le acute analisi epistemologiche di Karl Popper, le analisi lonerganiane sulla nozione greca di scienza (episteme) e sul cambiamento di tale nozione nell’epoca moderna, con il progressivo costituirsi di nuovi metodi di indagine: il metodo classico il cui paradigma è dato dalla fisica classica di Newton e Maxwell fino alle

correzioni relativistiche di Einstein, il metodo statistico con la importante nozione di probabilità emergente che permette il

superamento dell’antinomia determinismo/indeterminismo, il metodo genetico con la nozione di sviluppo e l’attenzione alle novità introdotte dagli studi

darwiniani sull’evoluzione della specie, il metodo dialettico applicabile al campo antropologico con la sua specifica nozione di

dialettica ben diversa da quella hegeliana con la sua pretesa onnicomprensiva. Con la chiara consapevolezza dei limiti della visione metafisica greca, e aristotelica in

particolare, Lonergan prospetta un’alternativa filosofica nuova e all’altezza dei tempi: la filosofia si compone di almeno quattro parti in successione logica.

1) C’è anzitutto una teoria della conoscenza che è in grado di dire ciò che l’uomo fa quando conosce e che include l’intera genesi del senso comune, delle scienze, degli studi storici ed ermeneutici e delle filosofie. Tale teoria risponde anche alle possibili obiezioni che provengono dai saperi del passato (poiché supera in radice la storica contrapposizione tra idealismo e realismo) e, soprattutto, si premunisce contro il rischio di auto-referenzialità a cui ogni teoria del genere si espone; nello stesso tempo è una teoria aperta ai futuri sviluppi della scienza, degli studi culturali e di quelli filosofici.

2) Segue una epistemologia che chiarisce perché l’esecuzione delle operazioni individuate dalla teoria del conoscere costituisce, appunto, il conoscere umano e conduce ad individuare e superare le erronee prospettive sul conoscere e sulla realtà (dall’idealismo al realismo ingenuo, dal relativismo al fenomenismo) che sono facilmente mantenute non solo dagli uomini di senso comune, ma anche da scienziati, studiosi e filosofi.

3) Si può così arrivare ad una «metafisica» che ci permette di cogliere che cosa l’uomo conosce quando compie le operazioni della conoscenza: è una «metafisica» del mondo della nostra esperienza (aperta sull’«oltre»). Essa non va confusa con nessuno dei tanti tentativi di dire l’ordine naturale definitivo del mondo e dell’uomo, poiché è una forma umile di sapere che offre una griglia di base per comporre ciò che l’uomo acquisisce nelle varie regioni delle scienze e dei saperi, che non si sostituisce ad essi, né pretende di dirigerli o normarli, ma che consente l’attuazione di una richiesta da molti sentita: il superamento della frammentarietà e della esasperata specializzazione all’interno delle stesse discipline tradizionali.

4) Infine, la quarta parte di questo programma filosofico, comprende un’etica esistenziale che considera il vivere etico dell’uomo che scopre da sé che ciascuno deve decidere per se stesso che cosa fare della sua vita e che ciò si può attuare attraverso l’amore e la lealtà verso i propri simili.

La soluzione dei molti problemi della nostra epoca non consiste nel ripudio del sapere

scientifico e tecnologico in quanto tale, né nella demonizzazione dell’industrializzazione o della mondo informatico e globale, serve piuttosto individuare un terreno comune sul quale gli uomini possano incontrarsi per riflettere e collaborare per un nuovo ordine sociale ed economico mondiale, oggi quanto mai più che necessario. Lonergan individuò questo terreno studiando i dinamismi delle nostre conoscenze e del nostro agire morale, la struttura del desiderio e dell’esperienza religiosa dell’umanità. E poiché era consapevole che le specializzazioni odierne derivano dal fatto che le discipline mirano alla conoscenza non degli universali astratti bensì di tutte le approssimazioni più vicine al concreto, egli si mosse in due direzioni.

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1) Una è stata quella della macroeconomia a cui, nell’ultima parte della sua vita, dedicò studi seri che portarono a proporre una serie di cambiamenti ritenuti da molti esperti in materia un contributo significativo per un nuovo ordine sociale ed economico a livello mondiale.

2) La seconda direzione è stata quella filosofica nella prospettiva «generalista»: ritornare dalle ristrette specializzazioni dei vari dipartimenti a visioni generali in cui le parti si possano ricomporre in un tutto, sia pure dinamico ed evolutivo e, pertanto, sempre e solo provvisoriamente tematizzabile.

È l’esigenza di interdisciplinarità sentita da tutti e cercata, per esempio, dal movimento

lanciato in America dalla Teoria Generale dei Sistemi di Ludwig von Bertalanffy. Una tale interdisciplinarità comprende molte cose: un posto per la filosofia intesa come visione generalista della realtà e per le scienze umane riorientate secondo criteri metodologici propri, un nuovo sviluppo della teologia cattolica sistematica nell’attuale mentalità storica, un rinnovato dialogo tra le religioni mondiali, un’integrazione delle scienze e delle discipline accademiche con la filosofia e la teologia, un approccio rispettoso e dialogico della letteratura post-moderna e la creazione di un nuovo ordine economico mondiale.

È un programma ambizioso ma possibile, anzi necessario, se si vuole evitare un punto di non ritorno che potrebbe costituire la catastrofe definitiva di un’umanità sempre più smarrita. Tale programma, per usare dei verbi cari a Lonergan, preserva, promuove, porta a termine e sviluppa ciò che di buono l’umanità ha elaborato nel suo cammino, attraverso un lavoro in collaborazione e in creatività.

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UN PENSATORE TRA “DUE MONDI”. Breve presentazione del pensiero e del metodo di Bernard Lonergan

prof. Valter Danna Facoltà Teologica Torino

Premessa esplicativa Può sembrare strano, quando si parla ad un pubblico di insegnanti su temi educativi, parlare di un autore sconosciuto, per di più teologo di professione (già questa, nella mentalità comune di oggi, sembra essere una pessima carta di presentazione), ma è proprio quanto mi propongo di fare presentandovi la figura di Bernard Joseph Francis Lonergan. Ma se avrete la pazienza di ascoltarmi, potreste forse avere la piacevole sorpresa di incontrare un pensatore, un intellettuale nel senso pieno della parola che il prestigioso Time definì “il più sottile pensatore filosofico del XX secolo”. Lonergan è stato soprannominato1 “un pensatore tra due mondi culturali” per varie e giustificate ragioni.

- Dal punto di vista storico/culturale egli si è trovato in mezzo a due mondi: il mondo della cultura classica (che imparò a conoscere ed apprezzare fin da piccolo) e il mondo moderno con i suoi imprevedibili sviluppi scientifici e il suo pluralismo culturale.

- Dal punto di vista geografico, questo Autore ha vissuto tra l’antico mondo dell’Europa e il nuovo mondo dell’America del Nord (viaggiando abbastanza spesso tra i due continenti per motivi di studio e di insegnamento).

- Di origine irlandese, nacque il 17 dicembre 1904 in Canada (a Buckingham nel Quebec) in mezzo a due mondi linguistici (francese/inglese). Sottolineerà lui stesso l’importanza di conoscere bene le proprie radici per poter essere creativi in vista di una efficace progettazione del futuro.

- In questo senso Lonergan fu certamente un pensatore di transizione dall’antico al nuovo, avendo messo a punto un nuovo strumento metodologico, una specie di nuovo Organon, per l’integrazione dei nuovi saperi con gli antichi e per una collaborazione in vista della creatività e del progresso.

Il suo curricolo di studi e di vita, assai interessante, si può dividere in due parti: (i) i suoi studi (1910-1940); (ii) la sua attività di studioso (fino alla morte avvenuta nel dicembre del 1984). I tratti del suo pensiero: i tempi moderni e le rivoluzioni culturali Lonergan colse i profondi e irreversibili cambiamenti della cultura contemporanea rispetto alla cultura antica/classica, avvertendo, come cattolico, la necessità di un serio balzo in avanti, l’urgenza di una riorganizzazione generale del sapere in cui la teologia (e anche la Chiesa e l’annuncio della fede) doveva entrare per non rimanere in ritardo sui tempi. Egli ritiene che oggi ci troviamo forse in un nuovo asse della storia (v. Jaspers) che ci stimola a compiere quel “balzo in avanti” nella cultura che permette all’uomo occidentale di essere “all’altezza dei tempi” (Ortega y Gasset). Questo periodo è stato preparato da alcune autentiche “rivoluzioni” della modernità (secondo l’espressione di T. Kuhn) che riguardano lo straordinario sviluppo della scienza e della tecnica (rivoluzioni scientifiche), la comprensione piena della prospettiva storica nell’orizzonte dell’uomo (rivoluzione storica) e una conseguente problematizzazione e chiarificazione su chi è l’uomo (rivoluzione antropologica). Mentre, però, le scienze della natura hanno raggiunto uno sviluppo enorme grazie alle rivoluzioni dei loro paradigmi scientifici e, utilizzate al meglio, si possono mettere al servizio dell’umanità, le scienze umane e sociali, la storia, la filosofia stessa (le cosiddette scienze dello spirito secondo l’espressione di Dilthey)

1 L’espressione è del prof. Natalino Spaccapelo in una conferenza su Lonergan tenuta al Centro teologico di Torino il 14 giugno 1999. Spaccapelo è uno massimi esperti di Lonergan in Italia e uno dei curatori della traduzione italiana dell’Opera Omnia di Lonergan per i tipi dell’editrice Città Nuova.

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non svolgono lo stesso ruolo benefico per l’umanità. Una denuncia, questa, che Lonergan ricava da Edmund Husserl2. La crisi globale di esistenza e di pensiero che l’Europa sta attraversando è il frutto di un’alienazione scientifica per cui le scienze dell’uomo non hanno ancora trovato un loro proprio metodo e, scimmiottando i metodi oggettivi e quantitativi delle scienze naturali, producono inevitabilmente un’alienazione dell’uomo. L’uomo con la sua soggettività, la sua esistenza quotidiana, i suoi orizzonti pratici, le sue credenze pre-scientifiche (il cosiddetto “mondo-della-vita”) non può essere manipolato a piacere dal dominio tecnocratico, dal cattivo razionalismo e dal positivismo: la reazione è il rifugiarsi in un modo irrazionale, dove si invoca qualche sciamano per essere guariti. C’è una via d’uscita da questa situazione di grandi incertezze, di complesse trasformazioni della nostra epoca e di fronte a sintomi inquietanti di decadenza della nostra civiltà occidentale (basta leggere i giornali...)? Esistono delle soluzioni alla crisi totale dell’uomo europeo, di un uomo - questo animal symbolicum - che pur scientificamente progredito non sa più che è perché le conquiste “esterne” (quelle scientifico/tecnologiche) hanno oscurato la sua interiorità3 (Cassirer)? La risposta che Lonergan propone (il “metodo trascendentale” o M.E.G.) è sostanzialmente un’analisi della propria interiorità (il socratico Γνωθι σαυτον, “Conosci te stesso”), un ritornare in se stessi, lì dove sono spontaneamente operativi i dinamismi umani fondamentali dell’intelligenza, della ragionevolezza, della libertà e dell’amore come norme esistenziali ultime e intrinseche per il proprio personale autosviluppo. Questa è la base fondamentale (un metodo dei metodi) che può aprire la strada a una vera rivoluzione antropologica. Ogni tempo lo si può giudicare secondo quello che dice circa l’uomo e anche noi possiamo leggere il nostro tempo a secondo di quello che dice e capisce dell’uomo. L’invito di fondo di Lonergan è quello di appropriarsi di quel Sé che noi siamo con tutta la ricchezza del suo dinamismo interiore, per un vivere in collaborazione e creatività. Lonergan ha avuto il coraggio di elaborare non una teoria ma un itinerario, una via (metodo: μεϑοδος deriva da οδος = via) concreta da percorrere per un nuovo “Conosci te stesso” e per vivere secondo questa conoscenza di sé. In questo senso, qualcuno (Frederick Crowe, allievo e amico di Lonergan) ha parlato dell’opera di Lonergan come di un Organon per una nuova epoca della storia, in analogia all’Organon di Aristotele e al Novum Organum di Francis Bacon. La ricerca metodologica di Lonergan è un Organon perché somiglia a questi intenti di organizzare i saperi e di rinnovare la vita intellettuale, ma vi somiglia nello scopo e nell’impresa ma non nel modo di concepire la mente (almeno per quanto riguarda Bacone). L’Organon lonerganiano non è tanto costituito dal contenuto della sua opera (pur essendo il suo un pensiero estremamente aperto e dinamico), bensì è costituito dall’itinerario con cui egli ci indirizza alla nostra interiorità coscienziale in vista di una fondamentale auto-possesso o, come dice Lonergan, di auto-appropriazione di sé. Si tratta dunque non di un Organon a tavolino, astratto; ma occorre imitare creativamente la proposta lonerganiana in vista di una realizzazione personale di tale itinerario in se stessi e, per i docenti, di una proposta educativa che aiuti l’alunno a pensare, a essere se stesso trovando la propria strada di apprendimento. Lonergan affermava che bisogna conoscere il nostro passato culturale per avanzare con creatività e successo verso il futuro. Tre sono le espressioni più usate:

(i) la “instauratio in Christo” secondo il motto di Pio XI; (ii) “Vetera novis augere et perficere” (Leone XIII), cioè unire l’antico al nuovo portandolo così a

compimento;

2 Cf HUSSERL Edmund, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, composta in massima parte nel 1935-36; parti I e II pubblicate nel 1936, parte III inedita; il tutto pubblicato nel 1954 (traduzione italiana di Enrico Filippini, prefazione di Enzo Paci, Milano, il Saggiatore, EST, 1997). 3 È questa la tesi di Ernst CASSIRER in Saggio sull’uomo (1944).

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(iii) “Aggiornamento” (Giovanni XXIII), ossia riportare alla contemporaneità la rivelazione e la fede cristiana.

Oltre il suo lavoro come teologo dogmatico e sistematico, Lonergan si era organizzato a uno studio personale almeno su tre aree di interesse:

1. L’area della teoria della conoscenza (gnoseologia) della epistemologia e metodologia scientifica. Si può esprimere questa ricerca con la domanda: “possibile che nell’universo ci siano leggi per ogni cosa e non per la mente umana? Si può conoscere come funziona la mente umana?”, “Che cosa facciamo quando noi conosciamo?”.

2. L’area dell’etica, della politica e dell’economia (e tecnologia), che sono per Lonergan delle discipline interconnesse. Qui la domanda è: “come trovare dei precetti morali in grado di ispirare l’attività economica, ma basati sulla natura dei procedimenti della stessa economia?”. Alla fine della sua vita, quando insegnava economia a Boston, Lonergan diceva ai suoi alunni: “Se vuoi dare un consiglio morale agli economisti devi sapere come funziona l’economia”.

3. L’area riguardante la società, la cultura e la storia, dove Lonergan si domanda: “come può una realtà concreta [un individuo umano, una comunità, una scienza, una religione, ecc.], passare attraverso fasi/tappe/periodi storici diversi eppure essere fondamentalmente la stessa realtà?”. Nella teologia questa domanda costituisce tuttora un grande problema: qual è la relazione tra una verità cristiana di fede e il suo sviluppo nel tempo (rapporto tra dogma e storia).

Per ognuna delle aree precedenti Lonergan ha elaborato una sua teoria esposta in importanti pubblicazioni: 1) Una Teoria della conoscenza per risolvere la babele delle scienze e l’incomprensione radicale tra i

filosofi (lo scandalo dei filosofi è la mancanza di unità di linguaggio e di metodo, mentre questo c’è nelle scienze empiriche della natura). Per questo problema il capolavoro è Insight: non solo un pensiero (o un trattato), ma invito a una ricognizione di come l’uomo comprende nei vari settori del sapere affinché il lettore raggiunga l’auto-conoscenza del proprio modo di comprendere.

2) Una teoria della storia: abbiamo testi sulla storia anche in età giovanile (“la chiesa oggi non può far

fronte ai problemi dell’idealismo, del marxismo, del nazismo, se non elabora una summa sociologica” (lun. pasqua 1935). L’opera che applica la storia ai grandi problemi della teologia è Method in theology, secondo capolavoro, preparato per decenni e uscito nel 1972.

3) Una teoria dell’economia: testi economici. Per quest’area, il lavoro finale fu svolto dopo il 1972

(lasciando l’approfondimento del tema che per anni aveva posto: “la presenza redentrice del Cristo nella storia”) con studi sulla macroeconomia, e con l’insegnamento (’77-’83) appunto su “Macroeconomia e dialettica della storia”. Due volumi stanno ora uscendo (anche in italiano) sulla sua teoria economica: Analisi dinamica macroeconomica e Studi di economia: primi saggi (1942-1944).

L’auto-appropriazione di sé e il filosofare Due constatazioni iniziali: a. la domanda sulla natura del conoscere umano rimane ancor oggi una domanda fondamentale (che non

sembra ammettere una risposta definitiva) in un contesto di grande specializzazione del sapere e di un’inevitabile processo di frammentazione (con la spiacevole tesi dell’impossibilità di raggiungere una qualche unità del sapere);

b. ogni astratta teoria del conoscere incappa in un “inghippo esistenziale” (Lonergan), cioè nel delicato problema dell’autoreferenzialità, in quanto presuppone ciò che sta cercando di conoscere.

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La proposta per superare questa empasse è quella dell’auto-appropriazione di se stessi in quanto soggetti conoscenti:

- partendo dalla constatazione che c’è conoscenza, che ci sono dei saperi che funzionano, si formula la domanda sulla conoscenza in prima persona: “Che cosa io faccio quando conosco?”.

- Si invita il lettore ad un lavoro di “introspezione” (nel senso illustrato a p. 192) per riconoscere la propria struttura conoscitiva, attraverso una serie strategica di esemplificazioni che mettano in evidenza i vari eventi/atti del nostro conoscere tenendo conto del fatto che ogni operazione conoscitiva è conscia.

- Auto-appropriazione significa giungere ad un primo giudizio filosofico “Io sono un conoscente” con il quale il soggetto umano conosce la natura di sé come conoscente, ossia in concreto le operazioni singole e l’intero processo intenzionale del conoscere insieme all’unità della propria coscienza.

Le difficoltà di questo percorso sono molteplici:

1. Una tale analisi intenzionale del processo umano del conoscere consiste nel passaggio dal piano linguistico e concettuale al piano pre-linguistico e pre-concettuale degli atti operativi che sono “eventi coscienziali”: noi non possiamo che usare parole e concetti per descrivere/spiegare gli atti/eventi che stanno alla base (precedono e fondano) delle nostre stesse parole, immagini, rappresentazioni, idee, concetti e giudizi.

2. Nel conoscere la nostra attenzione va spontaneamente sull’oggetto da conoscere (contenuti della conoscenza) e non è facilmente rivolta invece al soggetto e ai suoi atti, mentre sono proprio questi gli oggetti del percorso dell’auto-appropriazione: si tratta di conoscere il proprio conoscere, cioè i propri atti conoscitivi e le loro reciproche relazioni funzionali ma questo lo si fa a partire da un qualche contenuto conoscitivo (perché la conoscenza è sempre conoscenza di qualcosa). È un cammino concreto che ciascuno può e deve compiere da se stesso (pp. 192-193).

3. In tutti noi è presente una dialettica fondamentale tra la nostra psiche intersoggettiva (fondata sulla percezione comune agli animali, legata al mondo biologico e arricchita dall’intersoggettività: cf. V. Danna, Percorsi dell’intelligenza, Effatà, Cantalupa 2003, p. 306-307) e la nostra intellettualità/razionalità (puro e disinteressato desiderio di conoscere, “eros della mente”) capace di costruire un indefinito insieme di sistemi culturali storicamente situati. Tale dialettica tra conoscere elementare (estroverso, tipico dell’animale, completamente costituito a livello di esperienza empirica ma privo di domande) e conoscere umano in senso pieno (in cui l’esperienza empirica offre solo i materiali per le domande e le risposte intelligenti e razionali) è all’origine di molteplici distorsioni (deformazioni, bias) individuali e collettive che possono trasformare il progresso di una società in un rapido declino (ivi, 308-313).

4. Una tale dialettica dell’uomo implica anche una nativa confusione su ciò che è “reale”: il conoscere elementare ritiene reale ciò che è “già lì fuori ora” con le sue sfide in relazione alla vita biologica, il conoscere in senso pieno considera “reale” ciò che è verificato, ossia viene conosciuto attraverso esperienza, comprensione e giudizio. Lonergan parla anche della natura proteiforme dell’essere che si identifica alternativamente con la materia, l’idea, i fenomeni, l’essenza, un inconoscibile trascendente, le cose che esistono.

Il risultato a cui Lonergan giunge è una teoria del conoscere (che cosa facciamo quando conosciamo?) in cui le operazioni consce e intenzionali si dispongono in una struttura dinamica costituita da quattro livelli (di coscienza):

1. esperienza o coscienza empirica (dati, percezioni, immagini libere, espressioni), 2. comprensione o coscienza intellettuale (indagine sui dati, atti ci capire, formulazioni), 3. giudizio o coscienza razionale (indagine riflessiva, comprensione riflessiva, giudizio di

esistenza), 4. responsabilità/libertà o coscienza morale (deliberazione, valutazione, scelta libera, azione).

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Due elementi antropologicamente rilevanti del conoscere sono da rimarcare: a) Il conoscere umano è un dinamismo conscio che si manifesta come perfezione del soggetto

conoscente (i tomisti parlano del conoscere come di un’assimilazione intenzionale del conosciuto da parte del conoscente: Anima est quodammodo omnia). Ossia per lo sviluppo dell’uomo il conoscere è indispensabile.

b) Nelle sue dimensioni di intenzionalità e trascendenza, il conoscere supera l’immanenza coscienziale per terminare a oggetti conosciuti appartenenti all’universo dell’essere (la coscienza umana è intenzionale e trascendente, ossia costitutiva e previa apertura sull’intera realtà).

Alcune conseguenze filosofiche di un tale realismo critico. Primo. La potenzialità illimitata del nostro conoscere si caratterizza come una finalità radicale verso l’essere in tutta la sua estensione (tendenza conscia, intelligente, razionale e deliberata: desiderio di conoscere l’essere) e diviene essa stessa nozione a priori dell’essere (non un contenuto formale previo, ma dinamismo della mente responsabile di ogni domanda e di ogni risposta). Secondo. La struttura operativa del conoscere è intrinsecamente oggettiva, cioè è fatta per conoscere l’universo dell’essere (inteso in ogni operazione conoscitiva, progressivamente conosciuto attraverso il processo cumulativo della nostra concreta conoscenza). Perciò non c’è alcun problema di ponte (cfr. Cartesio) tra soggetto e oggetto, pensiero ed essere. Terzo. Si supera in radice l’idealismo (immanenza assoluta tra essere e pensiero) e il relativismo (impossibilità di una qualche conoscenza certa per la connessione di ogni cosa con il tutto dell’universo) e si formula il teorema epistemologico: conoscere è conoscere l’essere e l’essere è il reale a cui si arriva né con un’occhiata a ciò che è “lì fuori ora”, né con un’intuizione intellettuale analoga al vedere, ma con un giudizio razionale vero. Quarto. L’oggettività conoscitiva è raggiunta solo da un soggetto autentico (per usare un linguaggio esistenzialista), ossia capace di essere guidato dalle sua operatività dinamica e intenzionale espressa nei cosiddetti “precetti trascendentali”: Sii attento, sii intelligente, sii ragionevole, sii responsabile, ama in maniera irristretta:

- «Al livello empirico, il precetto «Sii attento» invita a sviluppare l’attenzione, ad inserirsi come soggetti senzienti in un mondo/ambiente costituito da altre presenze.

- Al livello intellettuale, il precetto «Sii intelligente» esorta a curare e sviluppare l’intelligenza attraverso la fantasia, il linguaggio, la curiosità, l’interesse, a fare esperienza della novità e creatività del capire, ad impegnarsi in formulazioni concettuali rigorose e coerenti.

- Al livello razionale, il precetto «Sii ragionevole» spinge il soggetto a sviluppare la propria razionalità e senso critico, a seguire le esigenze della ricerca di assolutezza conoscitiva e la capacità di discriminare tra vero e falso, certo e probabile, reale e apparente.

- Al livello responsabile, il precetto «Sii responsabile» comporta di vivere la libertà come capacità di autodeterminazione personale, di discernere tra bene e male, tra valori autentici e inautentici, di decidere e agire per divenire un centro attivo di benevolenza e di realizzazione umana autentica all’interno del mondo degli uomini e nell’universo dell’essere.

- Infine, il precetto «Ama in maniera non ristretta», applicato al livello religioso della coscienza, esorta ad accogliere l’amore donato dall’alto a testimoniarlo attraverso il dono di sé come condizione per sconfiggere il male alla sua radice» (p. 421 ss.)

Ciò conduce ad alcune conseguenze importanti:

- un superamento delle antiche contrapposizioni tra soggettivo/oggettivo, psicologico/ontologico, soggettività/normatività;

- l’importanza dell’oggettività (senza la quale i valori della persona sono distrutti) si compone con lo sviluppo integrale della persona (conoscenza, moralità, religiosità);

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- l’auto-appropriazione di sé come conoscenti conduce a una vera conversione intellettuale.4 Quinto. La peculiarità centrale del metodo seguito (MEG) è il ruolo del soggetto esistenziale nella costruzione del sapere e della cultura: prima della logica, delle scienze con i loro metodi operativi, delle filosofie e delle teologie con i loro principi universali e trascendentali, ci sono i logici, gli scienziati, i filosofi e i teologi, gli uomini di cultura e le persone intelligenti che operano nella vita quotidiana; insomma i concreti soggetti umani con la loro coscienza intenzionale e dinamica che è la base invariante per ogni esercizio di intelligenza critica e di scelta libera nella dialettica fondamentale che caratterizza il soggetto esistenziale nella sua nativa “confusione”. Sesto. La filosofia come sapere dell’interiorità (in base all’auto-appropriazione) riacquista così il suo ruolo peculiare che consiste nel ricondurre tutti gli saperi (fra i quali non vi può essere concorrenzialità) alla loro base ultima (il soggetto conoscente esistenzialmente situato) ed essa diviene metafisica in quanto discorso sulla totalità del reale in dialogo integrativo con tutti i saperi umani, non per unificarli in un quadro superiore di principi primi (come fa la metafisica neoscolastica), ma nelle direzione del soggetto conoscente in quanto sorgente ultima del significato e della razionalità o della loro assenza (funzione critica e dialettica del MEG). In sintesi, le affermazioni che costituiscono la posizione fondamentale del MEG sono tre:

- Primo, la conoscenza è una struttura conscia di operazioni empiriche, intellettuali e razionali (contro il mito per cui conoscere è guardare) e il soggetto è conosciuto (auto-appropriato) quando si afferma intelligentemente e ragionevolmente (contro il soggetto in un precedente stato esistenziale).

- Secondo, l’oggettività è il risultato dell’indagine intelligente e della riflessione critica contro l’orientamento della coscienza biologica estroversa che ritiene oggettivo ciò che c’è da vedere e che l’oggettività sia una mera proprietà dell’estroversione e soddisfazione vitale.

- Terzo, la realtà è l’universo concreto dell’essere, cioè tutto ciò che può essere intelligentemente compreso e ragionevolmente affermato contro il «già esterno qui ora» del mondo del senso, già suddiviso.

Conseguenze educative Una tale auto-appropriazione è soltanto un “buon inizio” di quel viaggio in noi stessi che è una delle condizioni fondamentali per un pieno sviluppo della persona. Si tratta di una lenta e faticosa acquisizione di una coscienza sempre più differenziata, capace di cogliere le opportune distinzioni della realtà, che per l’adulto è il mondo mediato dal significato e motivato dal valore, cioè l’intero universo dell’essere5 (che può essere tematizzato attraverso quattro ambiti: il senso comune, la teoria, l’interiorità e la trascendenza). L’auto-appropriazione dipende anche dai tempi e dalle culture: lo sviluppo delle scienze (naturali e umane) consente oggi un cammino d’interiorità in altri tempi impensabile. In questa avventura dell’uomo 4 Tale conversione implica di tre punti fermi: (1) eliminare il mito che il conoscere sia una specie di guardare/ vedere/ intuire, per intenderlo come una struttura dinamica sui livelli già indicati (fare esperienza, comprendere, giudicare e anche credere); (2) scoprire che i criteri dell’oggettività non consistono nel guardare là fuori per vedere quel che c’è da vedere, ma si arricchiscono con i criteri del nostro modo di comprendere e pensare e del nostro modo di giudicare; (3) modificare e arricchire la nozione di realtà che non è ciò che è «la fuori ora già» costituito da vedere, ma è l’essere cioè tutto ciò che, oltre ad essere sperimentato (e dunque anche visto) e compreso (cioè pensato), è affermato attraverso giudizi veri. 5 Lonergan definisce la nozione di essere come l’obiettivo della nostra intenzionalità conscia (desiderio puro di conoscere), cioè tutto ciò che l’uomo può conoscere attraverso la comprensione intelligente e il giudizio razionale, ed elabora il suo teorema epistemologico per cui “conoscere significa conoscere l’essere, e l’essere è la realtà” (raggiunta attraverso il superamento di ogni sensismo/empirismo che privilegia l’aspetto percettivo, quasi che conoscere fosse simile al vedere). Il passaggio dall’empirismo (e realismo ingenuo) al realismo critico che assume un criterio pienamente razionale di realtà consente poi a Lonergan di costruire una “metafisica euristica” intesa come sapere umile, rispettoso degli altri saperi, ma capace di un’integrazione e di un controllo metodologico fondamentale.

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per umanizzarsi sempre di più, Lonergan afferma fortemente il legame tra il retto pensiero e uno sviluppo autentico della persona, il nesso tra una corretta oggettività e una soggettività autentica6. Se è vero che l’oggettività è connessa con una soggettività autentica, allora una adeguata metafisica [se può fare qualcosa per superare le interpretazioni filosofiche erronee della nozione di mito] «si deve estendere in una filosofia dell’educazione e l’educazione deve essere resa efficace prima che possa essere esorcizzato il rischio di avventurieri che si arrampicano al potere attraverso sagaci costruzioni di miti»7. Tuttavia, lo sviluppo umano deve fare i conti con il polimorfismo della coscienza umana e con tutti gli ideali già precostituiti (e quindi pre-critici) nella nostra coscienza: le nostre pre-comprensioni. Come ben sappiamo, c’è in ciascuno di noi un elemento esistenziale costituito da un ideale già operativo circa la conoscenza, in quanto noi tutti siamo spontaneamente guidati dalla presunzione di sapere già che cosa siano conoscere, oggettività e realtà. E questo ideale è per lo più acritico e facilmente compromesso con qualche mito o ideologia (ad esempio è il primo tipo di conoscenza: quella “animale” dell’estroversione biologica). Lonergan ha lavorato, si può dire, tutta la vita per una metodologia che superi gli ideali ingenui e riduttivi, che spontaneamente e in modo irriflesso ci guidano nell’apprendimento. Le ottocento pagine di Insight lo testimoniano chiaramente, così come altri scritti e l’intera sua ricerca metodologica: è in noi stessi, nel dinamismo della nostra coscienza, che troviamo la norma trascendentale che ci definisce (come soggetti intelligenti, ragionevoli e responsabili) e ci permette di demistificare ogni tentativo di ideologia e di mito intesi come sviamento dal retto pensare, dal vero e dal bene. Lonergan prospetta, dunque, un compito critico ed educativo formidabile: smascherare le ingenuità, i miti, le deformazioni e le ideologie, perché il soggetto si possa sviluppare e cresca in libertà, creatività e in spirito di collaborazione. L’attenzione all’uomo e allo sviluppo dialettico della sua coscienza conduce Lonergan nell’epilogo di Insight a parlare di una scienza dell’uomo (cf Insight, Roma 2007, p. 923), intesa come una collaborazione e una sinergia a più voci: quella dello scienziato empirico, del filosofo e anche del teologo. L’uomo si sviluppa, infatti, non solo sui tre piani biologico, psichico e intellettuale, bensì su quattro piani: bisogna aggiungere il piano soprannaturale che include le forme superiori della fede, speranza e carità. Solo l’aggiunta di questo ulteriore piano offre una soluzione al problema umano del male (cf Insight, cap. XX) e quindi alla dialettica tra l’esigenza di autotrascendenza e di autenticità8 e l’intrinseca spinta all’inautenticità (chiusura egoistica, deformazioni individuali, di gruppo e generale). In aggiunta, solo un’autentica collaborazione di molti permetterà di superare l’attuale crisi della vita e dei valori umani (cf Insight, Roma 2007, p.920 ss.). Citando Ernst Cassirer, Lonergan ritiene che alla domanda su chi è l’uomo sono state date (nel secolo XX) molte risposte (da teologi e scienziati, da politici e sociologi, da biologi e psicologi, da etnologi ed economisti), ma tali risposte non si accordano tra loro e non sembra esistere un qualche principio generalmente accettato che crei un certo ordine e una certa chiarezza in merito. C’è un disorientamento che acquista le dimensioni di una crisi sociale, di una cultura sensista (sensate culture: cf L’intelligenza, p. 921) «in cui moltissimi uomini, in quanto

6 Infatti, «è certamente vero - scrive Lonergan - che la conoscenza umana oggettiva non è ancora la vita umana autentica; ma senza conoscenza oggettiva non si dà vita autentica... Per trattare gli uomini come persone uno deve conoscere e deve invitare gli uomini a conoscere. Una reale esclusione della conoscenza oggettiva lungi dal promuovere, distrugge piuttosto i valori della persona... Il vivere autentico include la conoscenza oggettiva...» (B. LONERGAN, La struttura della conoscenza, in Ragione e fede di fronte a Dio, Brescia, Queriniana, p.102). Tutt’altra cosa dalle attuali e frequenti derive relativiste, immanentiste e, da ultimo, nichiliste che oggi occupano spesso il campo non solo della cultura, ma anche dell’educazione. 7 B. LONERGAN, Insight. Uno studio del comprendere umano, Città Nuova, OBL 3, Roma 2007, p. 687, trad. di S. Muratore con modifiche nostre. 8 È la genuineness, come categoria riassuntiva dello sviluppo umano, già presente in Insight (cf Insight, Roma 2007, p. 606 ss.; purtroppo la traduzione di Muratore è letterale [genuineness = genuinità], mentre io ritengo più adeguato il termine “autenticità”).

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riconoscono una egemonia della verità, danno la loro approvazione non a una rivelazione divina, non a una teologia, non a una filosofia e nemmeno a una scienza intellettualistica, bensì alla scienza interpretata in modo positivistico e pragmatico» (ivi, con modifiche nostre). In conclusione

Utilizzando le categorie concettuali che troviamo in Insight e che Lonergan9 svilupperà ulteriormente nel seguito della sua ricerca metodologica, possiamo dire che il suo modo di procedere comporta: a) l’attenzione privilegiata ai problemi più che alle soluzioni, alle domande più che alle risposte, alla

ricerca più che alle classificazioni, ai concetti euristici più che ai concetti determinati e fissi, delle strutture più che dei contenuti,

b) la complementarietà tra le descrizioni e le spiegazioni, tra il metodo d’investigazione classico (basato

su ipotesi) e quello statistico (fondato sulla nozione di probabilità), tra il metodo genetico (fondato sulla nozione di sviluppo) e quello dialettico (applicato al mondo umano), tra i significati e i valori, tra la natura e la cultura, tra la differenziazione e l’integrazione,

c) l’impegno per l’autenticità contro l’inautenticità, per il progresso contro il declino, per la comunità

contro l’alienazione, per la conversione contro lo sbandamento, per il realismo critico contro il realismo ingenuo, per l’interiorità contro l’estroversione.

Qual è dunque l’eredità di Lonergan? Circa la filosofia, egli osservava che essa ha subito fortissimi cambiamenti, per cui oggi conduce l’uomo ad usare la propria interiorità, la propria coscienza. Come già detto, K. Jaspers afferma che noi ci troviamo verso la fine di un periodo assiale, un asse della storia (crisi generalizzata): c’è il comparire di qualcosa che farà fare all’umanità un salto in avanti (digressione su questo tema...). Anche Lonergan ha contribuito la il suo instancabile lavoro a questo “balzo in avanti”, ne evidenzio i punti principali: 1. un nuovo “conosci te stesso”, un’autoconoscenza dell’uomo al livello della cultura dell’oggi;

2. il raggiungimento di un nuovo livello di coscienza: un livello di coscienza di tipo planetario, non solo di gruppo. Un livello etico/esistenziale: l’età della libertà/responsabilità;

3. una rinnovata dinamica educativa dove il primo e massimo bene è lo sviluppo personale del discente fino al punto più alto a cui può arrivare, acquisendo la capacità di scegliere tra ciò che il livello della conoscenza propone oggi all’uomo: dobbiamo fare ciò che abbiamo imparato a conoscere;

4. un’educazione al livello del bene, poiché l’educazione è il primo bene che la persona umana ha diritto di ricevere: educare è un servizio, una vocazione, perciò

− deve avvenire uno sviluppo educativo: esplicitare le proprie capacità.

− Tale sviluppo educativo deve diventare sviluppo operativo: queste capacità devono essere messe in atto. L’esercizio fa sì che le capacità non rimangano allo stato latente, ma si esplicitino.

Ci deve essere uno sviluppo formativo: quelle capacità che il primo livello di educazione ha fatto emergere, quell’esercizio delle tue operazioni che hai potuto mettere in atto (ecco la scuola attiva), devono essere oggetto di piena appropriazione: appropriati delle tue capacità, appropriati del tuo operare e che questo diventi l’organon del tuo vivere creativo.

9 Per il reperimento di un più completo elenco di tale Begrifflichkeit (concettualità) di Lonergan, cfr. Frederick E. CROWE, Bernard J. F. Lonergan. Progresso e tappe del suo pensiero, edizione italiana a cura di N. Spaccapelo e S. Muratore, Citta Nuova Editrice, Roma, 1995, p. 158.

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I fondamenti antropologici

della filosofia dell’educazione di Bernard Lonergan di Valter Danna

1. Contesto e presentazione di Sull’Educazione Vogliamo situare l’opera di cui ci occuperemo nel contesto della ricerca di Lonergan. Per questo pensatore, infatti, il contesto costituisce un elemento irrinunciabile per comprendere un’opera e un soggetto umano: la coscienza di un soggetto con la sua struttura operativa intellettuale e morale si forma all’interno di contesti storici, culturali e sociali. Il contesto è «lo sfondo dinamico, mentale, psichico a partire dal quale il soggetto vive la propria esistenza e dentro il quale si compie la ricerca, l’elaborazione, l’affermazione di significati»1 e permette al soggetto di collocarsi entro un proprio mondo delimitato da un particolare orizzonte che non è mai statico, ma dinamico e diretto dagli interessi del soggetto stesso in sviluppo. Sull’Educazione è un’opera di Lonergan pubblicata solo in questi ultimi anni in inglese e poi anche in traduzione italiana. È la trascrizione di un seminario estivo tenuto da Lonergan nell’agosto 1959 alla Xavier University di Cincinnati (in Ohio, U.S.A.). Questo seminario fu tenuto appena dopo la pubblicazione della maggiore opera filosofica Insight (1957) e all’interno di una serie di altri seminari in cui egli mette a confronto le sue tesi con l’esistenzialismo e la logica matematica (1957 Logic and Existentialism; 1958 Understanding and Being)2. Il seminario sull’educazione fa parte di un periodo estremamente fecondo per la maturazione del pensiero di Lonergan che allarga sempre più la concezione antropologica (sul conoscere) agli studi umani. Nell’opera Sull’educazione sono evidenti alcuni frutti e progressi compiuti da Lonergan in anni di studio e di insegnamento3.

2. La nozione di coscienza e i suoi elementi La nozione base di coscienza intenzionale: La coscienza è la presenza del soggetto a se stesso4, cioè l’esperienza che egli fa di sé attraverso le proprie attività tipicamente umane (come la percezione, il pensiero, il giudizio, le scelte e decisioni). Esprime il soggetto nella sua vita cosciente a tutti i livelli e aspetti. Si parla di livelli e di aspetti della vita cosciente dell’uomo: I livelli di coscienza sono fondamentalmente quattro: 1. livello empirico del soggetto sveglio che sente, percepisce, immagina, prova sentimenti, parla, si

muove;

1 P. TRIANI, IL dinamismo della coscienza e la formazione, Vita e pensiero, Milano, 1998, p.50. 2 L’occasione del seminario sull’educazione fu il centenario della nascita del filosofo e pedagogista americano John Dewey (28 ott. 1859 - 1° giugno 1952). Il decano della facoltà di filosofia della Xavier University, il prof. Stan Tillman (presente al seminario tenuto ad Halifax su Insight nel 1958) invitò Lonergan a tenere questo corso. Questi accettò prontamente e si preparò con grande scrupolo e studio specialistico non solo di Dewey, ma anche di Jean Piaget e Susan Langer. Parteciparono al seminario 55 persone, in maggioranza religiosi/e che insegnavano nell’ampio sistema scolastico cattolico degli Stati Uniti: da qui il tono strettamente “cattolico” delle sue lezioni (ma nei contenuti filosofici di fondo non c’è confessionalità alcuna). 3 Lo sviluppo nuovo sul bene umano (lezioni 2-4) nella sua concretezza legata alla storia del soggetto, l’abbandono del vecchio schema aristotelico della “psicologia delle facoltà” per un’analisi fenomenologica della coscienza e del suo flusso di dati, l’acquisizione dell’epistemologia genetica di Piaget e di una teoria dell’arte. 4 La presenza coscienziale (presenza terza) del soggetto a sé si distingue dalla presenza fisica (presenza prima) di un oggetto (una sedia) in una stanza, e dalla presenza intenzionale (presenza seconda) di quello stesso oggetto ad un soggetto conoscente.

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2. livello intellettuale del soggetto che domanda, cerca dei significati, comprende, concepisce e formula definizioni, ipotesi, teorie (Che cos’è? Perché? Come è?);

3. livello razionale del soggetto che riflette e mette alla prova le sue teorie, cerca l’evidenza per giungere a un giudizio razionale (è proprio così? è vero?);

4. livello responsabile (etico/esistenziale) del soggetto delibera e valuta corsi possibili di azione (È veramente bene? Ne vale la pena?), sceglie e decide, esegue ciò che ha deciso.

Gli aspetti della coscienza dicono il dinamismo con cui il soggetto si espande verso la sua piena attuazione, attraverso differenziazioni e integrazioni successive. Tali aspetti, che sono presenti anche nella vita collettiva di un popolo o di una civiltà, sono almeno sei: 1. Aspetto affettivo: è l’energia che sostiene e accompagna tutta la vita conscia dell’uomo; affetti,

desideri e sentimenti di vario tipo, compreso il desiderio di conoscere; senza i sentimenti il nostro conoscere e il nostro decidere sarebbero esili come carta.

2. Aspetto conoscitivo: è il processo dinamico e strutturato sui tre livelli di esperienza, comprensione, giudizio che conduce il soggetto a una conoscenza sempre più piena della realtà nelle sue varie sfere.

3. Aspetto normativo: è l’«io» è presente a se stesso nella libera sottomissione a una norma e nel voluto raggiungimento di un bene; è la nostra consapevolezza di tendere a, sentire, conoscere, volere e fare il bene.

4. Aspetto creativo: riguarda la sollecitabilità primaria della nostra coscienza da parte dell’intera realtà, verso il raggiungimento di una gratificazione ontologica attraverso varie modalità estetiche e artistiche.

5. Aspetto associativo: consiste nell’apertura verso l’altro, intesa come una condizione permanente dell’uomo prima ancora di qualsiasi azione o rapporto sociale, in quanto egli ha bisogno di un complemento: sentimento di innata solidarietà e fondamento della relazionalità.

6. Aspetto religioso: consiste nella dimensione recettiva della coscienza nei confronti del «mistero», del «trascendente», del «sacro», e si esprime come stato affettivo di amore sperimentato, ma difficile da nominare a cui le varie religioni storiche cercano di dare un volto.

La coscienza è un proprium dell’uomo non riducibile al cervello (o a uno stato cerebrale) [= riduzionismo biologico], non identificabile con l’anima della tradizione metafisica/sostanzialista, o con qualcosa che sta nel soggetto e a cui si può “dare uno sguardo”. È un modo di dire l’uomo come soggetto attraverso quattro proprietà interscambiabili e interconnesse:

a) dinamismo intrinseco (manifestato per esempio nelle domande del soggetto su ciò che è, e che deve essere) che sorregge lo sviluppo dell’uomo e ch in definitiva dice l’essere vivi e collegati al resto della realtà

b) coscienza come presenza a se stessi negli atti che si compiono e secondo i condizionamenti storici, culturali e sociali in cui si vive

c) movimento continuo di trascendenza da un atto ad un altro e da un livello al successivo mantenendo tutto ciò che è precedente, e ciò dice la apertura dell’uomo sull’universo dell’essere e del valore

d) intenzionalità che significa che le varie operazioni della coscienza (conoscenza e morale) sono transitive, rendono presenti al soggetto dei contenuti distinti da esse, ossia ci orientano verso ciò che è intelligibile, ciò che è vero, ciò che è bene, impedendo che ci si chiuda in se stessi in un mondo autoreferenziale.

L’uomo non sperimenta isolatamente le operazioni dei vari livelli e gli elementi dei vari aspetti della coscienza, ma li vive e ne fa esperienza in un flusso di coscienza come dinamismo di espansione, di progressività circolare e di connessione dei vari e molteplici contenuti nell’unità del soggetto. Un tale flusso, pur non completamente autonomo, è però selettivo. In una certa misura noi possiamo orientare e educare tale selettività (è questo uno dei compiti fondamentali dell’educazione).

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presente una serie di precetti trascendentali che A tale scopo è di fondamentale importanza tenere sono un invito ad appropriarsi personalmente della propria coscienza: 1) Sii attento! Si applica al livello empirico e ci invita a sviluppare l’attenzione, ad inserirsi come

soggetti senzienti in un mondo/ambiente costituito da altre presenze e che ci invia i suoi dati. 2) Sii intelligente! Si applica al livello intellettuale (in cui noi indaghiamo, arriviamo a capire,

esprimiamo ciò che abbiamo capito, elaboriamo i presupposti e le implicazioni di ciò che abbiamo capito) ed esorta a curare e sviluppare l’intelligenza attraverso la fantasia, il linguaggio, la curiosità, l’interesse, a fare esperienza della novità e creatività del capire, ad impegnarsi in formulazioni concettuali rigorose e coerenti.

3) Sii razionale! Si applica al livello razionale (in cui noi riflettiamo, individuiamo e disponiamo in ordine l'evidenza, emettiamo il giudizio sulla verità o falsità, sulla certezza o probabilità di un’asserzione) e spinge il soggetto a sviluppare la propria razionalità e senso critico sviluppando la capacità di discriminare tra vero e falso, certo e probabile, reale e apparente.

4) Sii responsabile! Si applica al livello responsabile (nel quale noi ci occupiamo di noi stessi, delle nostre operazioni, delle nostre finalità, per cui deliberiamo corsi possibili di azione, li valutiamo, decidiamo ed eseguiamo quanto abbiamo deciso) e comporta di vivere la libertà come capacità di autodeterminazione personale, di discernere tra bene e male, tra valori autentici e inautentici, di decidere e agire per divenire un centro attivo di benevolenza e di realizzazione umana autentica all’interno del mondo degli uomini e nell’universo dell’essere.

Tali precetti sono il frutto della constatazione che lo sviluppo umano si dispiega su quattro livelli (sensibilità, intelligenza, ragione, libertà) e della decisione di seguire i quattro precetti trascendentali.

• In quanto emergenti da questa constatazione e da questa decisione, i precetti trascendentali si presentano, appunto, come precetti, cioè norme da seguire.

• In quanto da se stessi non specificano alcun contenuto, alcun atto, alcun codice morale, ma sono ciò che permette di decidere se un contenuto, un atto, un codice morale è autenticamente umano oppure no, quei precetti sono trascendentali (precetti non contenutistici, ma semplicemente operativi, non il prodotto di un processo storico-culturale, la condizione di possibilità di quest’ultimo).

In sintesi, il soggetto può sperimentare e conoscere la sua vita coscienziale come

− aperta sempre a qualcosa d’altro: si tratta di un’uscita da sé, poiché l’apertura è la partenza (l’uscita) verso l’esterno che è l’educazione stessa (pedagogia = παις/αγωγη viaggio [condurre] dei fanciulli), apertura a tutto campo sul reale;

− interrogante attraverso le domande che sempre l’uomo si pone e che trasformano la partenza in un viaggio con le sue infinite tappe esperienziali, conoscitive, decisionali, artistiche ecc.;

− autotrascendente: esprime la capacità umana del soggetto cosciente di aprirsi all’altro da sé, fino al riconoscimento dell’Altro in cui il sé non scompare ma si realizza pienamente; tale autotrascendenza della coscienza è la direzione da percorrere nel “viaggio della vita” ed è stata espressa bene dall’espressione agostiniana delle Confessioni: “Tu ci hai creati per te e il nostro cuore non ha pace fino a che non riposi in te”.

3. L’educazione e lo sviluppo della coscienza Distinguiamo tra formazione ed educazione: 1. Formazione deriva da “formare”, “dare l’essere e la forma”: è l’insieme dei processi/eventi che

comportano nel soggetto la formazione di nuove configurazioni di coscienza: riguarda cioè lo strutturarsi dell’uomo dal punto di vista interno con i suoi processi e la sua storia; oggi questo

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termine, nelle sue valenze dinamica, strutturale e composita (vincolo/possibilità), è preferito ad altri perché “richiama continuamente la sfida dell’imparare a vivere” 5.

2. Educazione deriva da “e-ducere”, cioè condurre fuori/condurre oltre: indica l’insieme delle azioni

formative esterne al soggetto che concorrono alla formazione dell’uomo (come acquisizione o sviluppo di una data forma); l’educazione in questo senso è una parte della formazione di un soggetto non solo come promozione della moralità (soggetto educato in riferimento ai valori/fini ultimi a cui tendere), non solo come istruzione (= promozione dell’intellettualità), né solo come addestramento o formazione professionale (= promozione di un sapere specialistico).

L’uomo diventa consapevole di sé e della sua distinzione dal mondo in un processo di sviluppo che si può descrivere come processo di differenziazione, di progressiva determinazione e di integrazione. Tale sviluppo umano è insieme individuale, sociale, culturale, storico e religioso. Lo sviluppo umano individuale riguarda anzitutto il processo in cui l’organismo vivente individuale si struttura in stadi successivi: organico, psichico e intellettuale. La comparsa di quest’ultimo stadio comporta l’ulteriore strutturarsi di modi fondamentali nella nostra coscienza che sono i livelli e gli aspetti visti. Il PROCESSO di DIFFERENZIAZIONE consiste nello strutturarsi di livelli, aspetti e modi fondamentali nella coscienza e riguarda le operazioni intenzionali, il dinamismo affettivo e la realtà intenzionata. La coscienza si struttura su vari livelli operativi attraverso l’energia affettiva, e si creano degli orizzonti in cui il soggetto vive e che si possono progressivamente allargare e differenziare in quanto la coscienza, pur non avendo piena autonomia, è selettiva ed è governata da un interesse. Su questo processo influiscono il contesto intersoggettivo, l’educazione in quanto trasmette dei significati, l’eventuale modifica dell’interesse del soggetto Il PROCESSO di INTEGRAZIONE nello sviluppo individuale è sostenuto dal dispiegamento del dinamismo conoscitivo e morale in cui il soggetto subordina e unifica la sensibilità con l’intelligenza, la sensibilità e l’intelligenza con la ragione e subordina e unifica sensibilità, intelligenza e ragione con la libertà e la responsabilità. In tale senso, affinché si possa parlare veramente di sviluppo umano, occorre che lo sviluppo stesso sia conosciuto, voluto, e perseguito dal soggetto stesso. Tuttavia, lo sviluppo umano raramente si realizza con la linearità qui descritta: è raro trovare un soggetto pienamente sviluppato, perfettamente integrato dinamicamente nei quattro livelli. Molti sono i blocchi, i ritardi, le deviazioni dello sviluppo dell'uomo dovuto alla dialettica di base dell’uomo (di cui diremo tra poco). Una parte importante di uno sviluppo mancato o incompleto è da attribuirsi all’ignoranza della natura dello sviluppo stesso e dei livelli che lo compongono. I danni di questa ignoranza sono molteplici. Lonergan ne ha illustrato i principali parlando di soggetto dimenticato, troncato e alienato6:

• Infatti, un soggetto può essere totalmente preso dalle cose, dal polo oggettivo della relazione bipolare soggetto/oggetto (organismo/ambiente), talmente estroverso da dimenticare se stesso: così egli vive come uno smemorato, come uno che non conosce la propria identità: è il soggetto

5 P. TRIANI, Il dinamismo della coscienza e la formazione, cit., p.18. La formazione, secondo il Triani nel testo citato (p.15), si connette anzitutto con la categoria fondamentale del soggetto (con i suoi processi e la sua storia); richiama e rispetta la complessità della realtà umana che è in continuo cambiamento (nel complesso gioco di vincoli e possibilità per l’attuarsi personale); si riferisce a una centralità di competenze non rigide, ma “aperte” e inseparabili dall’attenzione al soggetto e ai suoi processi (collegandosi a concetti sociali del tipo: divisione del lavoro, funzione sociale, specializzazione). 6 Cf. The Subject (1968), in A Second Collection, DLT London, 1974, p. 69ss.

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dimenticato (ignaro di sé).

• Inoltre, un soggetto che non conosce se stesso rischia di non riconoscere tutti e quattro i livelli dello sviluppo o la necessità della loro integrazione; egli rischia di vivere come un "monco", non nel senso di essere privo di un membro bensì nel senso di non sapere di averlo e di non servirsene, e questo è ben peggio! E' il soggetto troncato. Infatti, data l'unità del soggetto, il non uso di una sua realtà comporta quasi inevitabilmente il travisamento delle altre.

• Infine, i soggetti ignari di sé o troncati non sanno che il soggetto è una sintesi dinamica di sensibilità, intelligenza, ragionevolezza e libertà, essi non vivono di questa sintesi dinamica. Di conseguenza, diventano facile preda delle molteplici e ricorrenti forme di mito, di magia, di propaganda, di edonismo: accettano qualsiasi forma di alienazione e diventano dei soggetti alienati.

In un soggetto che vive l'integrazione dinamica dei quattro livelli delle sue attività, tale integrazione influisce positivamente nei molteplici ambiti della vita del soggetto: cioè nei quattro ambiti fondamentali della conoscenza, dell'amore, delle norme e del sociale e negli ambiti che derivano dalle varie combinazioni di questi7. Si parla di integrazione dinamica (ossia mai definitiva e sempre perfettibile), in quanto lo sviluppo della coscienza umana si caratterizza per una dialettica di base. Constatiamo, infatti, che la nostra vita è spesso un composto irrisolvibile di sensibilità e sbadataggine, di intelligenza e stupidità, di ragionevolezza e avventatezza, di moralità e immoralità, di socialità e anarchia, di bontà e cattiveria, di amore e di odio. Da dove proviene questa nostra ambivalenza? Una tale dialettica umana comporta che nell’uomo vi sia tensione tra • conoscere elementare costituito dall’immediatezza della percezione sensibile (che si costituisce in

noi ben prima dello sviluppo intellettuale e morale) la quale ci confina nel mondo dell’immediatezza dell’infante e conoscere pieno (nel senso della struttura conoscitiva completa dei tre livelli di cui la percezione è solo il primo) che ci apre al mondo mediato dal significato e motivato dal valore, cioè all’universo dell’essere;

• coscienza estroversa che ci porta a privilegiare il mondo immediato dei bisogni biologici di base (componente organica e psichica dell’uomo) e coscienza intellettuale e morale che ci spinge ad allargare il nostro orizzonte oltre noi stessi verso l’universo dell’essere e del valore.

Lo sviluppo umano comporta la capacità di padroneggiare tale dialettica sempre risorgente e comporta il doppio movimento di differenziazione della coscienza e di successiva integrazione di ciò che si è costituito. Naturalmente tale sviluppo personale è condizionato dallo sviluppo culturale e sociale in cui ci troviamo, tanto che si può parlare di differenti gradi di differenziazione della coscienza non solo individuale, ma anche della coscienza a livello sociale, storico e culturale. L'espressione «differenziazione della coscienza» sta ad indicare che la mente umana è sempre la stessa, ma le tecniche di cui essa si serve si sviluppano col passare del tempo e pertanto gli uomini hanno idee diverse secondo la diversità dei tempi e dei luoghi. Possiamo individuare almeno tre differenziazioni della coscienza umana sociale e storica: 1) quella differenziazione sorta dopo la nascita del linguaggio primitivo e che ha dato origine alla

cultura pre-filosofica e pre-scientifica fondata sul senso comune e sul linguaggio non specializzato delle prime grandi civiltà e del pensiero come impresa collettiva;

7 Mondo della scienza e della tecnica, della cultura e dell'arte, della società e dello stato, dell'economia e della politica, ecc.

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2) la differenziazione di coscienza della cultura classica, originata nel mondo greco con i suoi epigoni nel pensiero antico e medioevale, la quale controlla il significato come qualcosa di universale e fissato per tutti i tempi (attraverso la logica) e elabora la distinzione tra senso comune e teoria;

3) la differenziazione di coscienza sorta nella cultura moderna che controlla il significato in modo flessibile in un processo continuo e cumulativo; in essa si afferma l’autonomia delle scienze dalla filosofia, e si pongono le distinzioni tra senso comune e interiorità, e tra teoria e interiorità.

L’uomo si sviluppa socialmente a partire dall’interno di una comunità di soggetti (famiglia, gruppo sociale e popolazione nazionale) che risulta dai significati che si condividono e dai valori che accomunano: tale contesto sociale è insieme condizione e fonte dello sviluppo del singolo. L'uomo è storico (libertà incarnata nel tempo): vive in una cultura già fissata da altre generazioni e in tensione verso nuove possibilità (progetto) che costituiscono il suo futuro, poiché gli orizzonti culturali e i mondi sociali in cui avviene lo sviluppo umano non sono statici, ma cumulativi del progresso umano o degli effetti distorti del declino. Lo sviluppo storico richiama, quindi, come suo correlato fondamentale, la nozione di cultura e l’evoluzione di essa nel tempo. Si tratta di considerare il passaggio, oggi irreversibile dalla cultura classica/classicista alla cultura moderna empirica e pluralista. «Ciò che ha infuso vita e forma nella civiltà greca e romana, ciò che rinacque nel Rinascimento europeo, ciò che fornì la crisalide donde uscirono le lingue e le letterature moderne, la matematica e la scienza moderna, la filosofia e la storia moderna, si è mantenuto fino al secolo ventesimo; ma oggi, quasi dappertutto, è morto e pressoché dimenticato» (Lonergan) Molti elementi hanno contribuito al crollo della cultura classicistica:

- le rivoluzioni moderne nella scienza e la concezione della storia, - la scoperta che l'uomo esiste da centinaia di migliaia di anni - la scoperta di una continua evoluzione delle culture da quelle primitive all'emergenza di

un'intelligenza critica nel primo millennio a.C. - fino al trionfo della moderna intelligenza scientifica che segna un cambiamento radicale nella

visione del sapere Tuttavia, lo sviluppo del soggetto dipende ed è misurato non tanto da oggetti esterni rispetto a cui uno opera (allargamento di un orizzonte puramente materiale), ma dall’organizzazione delle proprie operazioni, dei loro risultati e implicazioni e dall’orientamento della propria vita e interesse. Lo sviluppo ritiene e accresce ciò che aveva in precedenza, e lo accresce (a volte anche in modo considerevole) eliminando i mali precedenti, trovando un’integrazione superiore attraverso un lavoro sull’interesse (quindi non lavorando alla periferia, ma alla radice) Nello sviluppo umano sono coinvolti molti elementi: il dinamismo della coscienza con le sue operazioni e i suoi livelli differenziati e sempre più

integrati; il dinamismo della vita affettiva che è la massa energetica di tutta la vita conscia; il differenziarsi di preoccupazioni/interessi; lo strutturarsi delle esperienze umane in configurazioni fondamentali; il contesto intersoggettivo sociale, storico, culturale; la crescita, controllo, elaborazione di significati che si costituiscono in vari ambiti. Il problema della cultura moderna è un problema formativo: quello di favorire un’appropriazione dell’ambito dell’interiorità in modo da raggiungere una coscienza differenziata, cioè capace di fare le opportune distinzioni degli ambiti di significato; e una coscienza integrata nei suoi vari livelli e ambiti. Una categoria riassuntiva dello sviluppo umano: autenticità Nell’uomo c’è una fondamentale esigenza di autenticità che fonda a sua volta le altre esigenze alla base della differenziazione della coscienza e del suo sviluppo.

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Autenticità è un desiderio di realizzazione dell’uomo, ma è anche connessa con l’autotrascendenza, cioè si realizza nella misura in cui non ci chiudiamo in noi stessi, ma andiamo oltre in tre modi: 1) conoscitivamente, verso ciò che ancora non conosciamo (autotrascendenza conoscitiva), 2) moralmente, attraverso l’assunzione libera e responsabile di valori (autotrascendenza morale), 3) affettivamente, attraverso le risposte intenzionali ai valori, fino alla risposta ultima che è l’amore

(autotrascendenza affettiva). Insieme all’autenticità, c’è nell’uomo un altro elemento antropologico che è un’intrinseca spinta alla chiusura egoistica o inautenticità, secondo la dialettica di base, intrinseca nella dinamica di sviluppo della coscienza, una dialettica tra autenticità e inautenticità (autotrascendenza ed egoismo). La soluzione della dialettica consiste nelle conversioni. Quest’ultimo termina va inteso in senso ampio - antropologico - e non immediatamente religioso:

- si tratta di un deciso cambiamento di direzione da parte della coscienza verso l’autenticità, - È un cambiamento in meglio, una liberazione da ciò che è inautentico; - non significa perfezione, traguardo raggiunto, ma un nuovo orientamento fondamentale.

Le conversioni fondamentali sono tre: a) conversione intellettuale: questa conversione comporta almeno tre assunzioni

1) eliminare il mito che il conoscere sia una specie di guardare/ vedere..., ma intenderlo come una struttura dinamica su vari livelli (fare esperienza/ capire/ giudicare e anche credere),

2) scoprire i criteri dell’oggettività (che non è guardare là fuori per vedere quel che c’è da vedere...), 3) modificare e arricchire la nozione di realtà, che è l’essere cioè tutto ciò che può essere

sperimentato/ capito/ giudicato.

b) Conversione morale: significa cambiare il criterio delle proprie decisioni, passando dalla soddisfazione per me al valore in sé.

c) Conversione religiosa: consiste nell’essere presi da ciò che ci tocca assolutamente, consegnarsi totalmente e per sempre senza condizioni e restrizioni... Questa conversione viene interpretata diversamente nel contesto delle varie religioni... Per il cristiano è un dono dell’amore che Dio riversa nei nostri cuori attraverso lo Spirito Santo che li abita (Rom. 5,5).

La presenza o meno delle conversioni comporta orizzonti diversi del soggetto e differenti stati di differenziazione di coscienza, perciò lo sviluppo della persona può consistere, come abbiamo visto, in un progresso (se si compie attraverso l’osservanza dei precetti trascendentali), o un declino (se c’è dimenticanza di tali precetti e quindi c’è alienazione).

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE SULLA FORMAZIONE-EDUCAZIONE 1. Parlare di formazione/educazione dell’uomo significa parlare di un processo estremamente complesso

che riguarda anzitutto l’organismo umano, la sua psiche, la sua mente (= punto di vista interno del soggetto). Però lo sviluppo, la crescita, la maturità dell’uomo non è solo questione di trasformazioni organiche, psichiche e intellettuali, ma ha a che fare con lo strutturarsi e modificarsi di tutta la vita cosciente nel suo insieme: “Il Sé che uno è, è il Sé che uno diventa”8.

8 B. Lonergan, Comprendere ed essere, Roma, Città Nuova, 1993, p.283.

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dell’uomo - come soggetto individuale - è il 2. Pertanto, ciò che unifica la formazione dinamismo e lo sviluppo della coscienza (siamo sempre nel punto di vista interno): è a questo processo formativo della coscienza che bisogna fare attenzione, tenendo presente che la coscienza non è una “cosa” dentro l’uomo, ma è la presenza a se stesso del soggetto umano, una presenza che ha un ruolo operativo enorme in tutta l’esistenza dell’uomo.

3. In tal senso, Lonergan, nel testo Sull’Educazione, assume l’auto-appropriazione non solo come

accesso alla propria interiorità dinamica, ma anche come base di un progetto di “filosofia dell’educazione” (in continuità con la proposta filosofica di Insight) adeguato alle nuovo acquisizioni del sapere contemporaneo ed aperto alle esigenze educative generali.

4. Inoltre se teniamo presente che la formazione/ educazione dell’uomo avviene sempre nell’humus

culturale del suo tempo (= punto di vista esterno al soggetto), non dobbiamo dimenticare che (per quanto riguarda in particolare la scuola) la fonte della cultura generale da comunicare e su cui formare il soggetto umano è l’uomo stesso posto tra la storia e la verità. Formare la coscienza, allora, significa percorrere due percorsi (uno esterno e uno interno al soggetto).

5. Dal punto di vista esterno, “formare” significa organizzare un insieme di contenuti (oggetti: valori,

competenze, conoscenza ecc.) da offrire alla coscienza per la sua formazione, evitando però il duplice rischio di un addestramento precettistico/ moralistico, e di impoverire la formazione riducendola solo alla organizzazione di contenuti. Bisogna tenere presente che i contenuti culturali della formazione contengono due elementi: uno è nozionale (di informazione, di erudizione), l’altro è un elemento di significatività/ simbolicità (fa riferimento al dinamismo conoscitivo). Lonergan ritiene importanti per la formazione non tanto le informazioni, l’istruzione e la loro organizzazione, bensì piuttosto il contenuto di significatività degli eventi, dell’essere delle cose e insieme il loro rimando simbolico. C’è un depotenziamento dei contenuti dal punto di vista della loro descrittività, ma non dal punto di vista della loro significatività/ simbolicità: la meta educativa non è più la crescita della sapienza, bensì la crescita nella sapienza.

6. Dal punto di vista interno, c’è il processo intrinseco di formazione da parte del soggetto conscio (la

cui coscienza assume una serie di forme pratiche, artistiche, religiose, intellettuali). Di tale interno processo formativo bisogna tenere conto, senza scadere né in una specie di pan-spontaneismo o di innatismo ingenuo (nell’uomo c’è già tutto, basta lasciarlo emergere!), né in un riduttivismo che concepisce la formazione come una serie di eventi/processi giustapposti nella coscienza (principio della testa vuota).

7. Si ha formazione, quando gli eventi modificano il flusso di coscienza e i contorni del “mondo del

soggetto” (cioè il suo “orizzonte”) e lo conducono ad una riorganizzazione del proprio mondo, cioè ad una cambiamento significativo nel modo di intendere se stesso e di intendere la realtà. Questo processo - che può essere condizionato da molti fattori - è un cambiamento dell’insieme di significati che ricostituisce il proprio Sé, un (ri)significazione scelta e quindi costitutiva del soggetto esistenziale che «scopre da se stesso che tocca a lui decidere cosa fare di se stesso...». Ed è qui «che gli individui si scindono in fazioni, che le culture fioriscono e si avviano al declino, che la causalità storica esercita il suo potere»9.

8. Se l’esigenza formativa per eccellenza è raggiungere l’autenticità, e se il suo dinamismo

fondamentale è l’autotrascendenza (= la spinta ad uscire da sé per ritrovarsi più pienamente), allora nel processo storico e dinamico di risignificazione di sé (orientato intrinsecamente all’autenticità)

9 B. Lonergan, Ragione e fede di fronte a Dio, Brescia, Queriniana, p.108.

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conversioni, che possono essere intese come assumono un ruolo fondamentale le varie rotture formative di insiemi già costituiti per dare inizio ad un altro insieme/novità. Naturalmente c’è anche la possibilità dello scacco, di produrre delle deformazioni anziché una formazione. Le conversioni sono anche in questo caso la possibilità di superare le deformazioni sempre possibili.

9. Lonergan invita, nel libro Sull’Educazione, a ripensare ad nuova responsabilità educativa per la

odierna presenza di tre nuovi fattori: le masse (per cui il sapere non appartiene più ad un’élite), il nuovo sapere (matematiche, scienze empiriche, scienze umane) e il moltiplicarsi delle specializzazioni. Tali fattori hanno introdotto nuovi pericoli nel campo formativo/ educativo: la massificazione dei comportamenti, la frammentazione dei saperi (molte cose, ma senza sintesi), la moltiplicazione degli specialisti. I suggerimenti di Lonergan sono chiari:

− L’orizzonte dell’educazione (pedagogia) si deve allargare per innestarsi sull’universo dell’essere (non il mondo privato degli specialisti, anche in campo pedagogico!).

− L’uomo non va ridotto ad un ruolo/ funzione/ status, ma occorre educarlo alla riacquisizione del senso dell’essere (dal proprio “mondo” all’universo dell’essere).

− Evitare il pericolo di produrre conformismo: questo avviene purtroppo quando si parte da nozioni/concetti e non si dà importanza (o si dà per scontato) il processo personale del comprendere. Un tale concettualismo toglie agli studenti la gioia dello studio e della scoperta (dopo aver lavorato soprattutto con le domande).

10.Circa la questione del metodo, Lonergan propone il metodo trascendentale (o metodo empirico

generalizzato = M.E.G.) che è fondato su una “struttura euristica integrale” del soggetto-oggetto caratterizzata da un fondamentale isomorfismo (omologia formale) tra la struttura della coscienza con i suoi quattro livelli di base (sperimentare, comprendere, giudicare e decidere) e la struttura dell’essere dinamico (potenza, forma, atto e valore). Alla base del metodo c’è dunque la distinzione tra (i) un metodo a priori trascendentale , lo stesso M.E.G., che è trans-storico e trans-culturale, poiché è la coscienza dinamica e strutturata dell’uomo, e (ii) i metodi “regionali” (particolari) - come a priori categoriali cioè storici.

11.Tutto questo significa che la coscienza dinamica e strutturata dell’uomo è la condizione di possibilità (il trascendentale in senso kantiano) per raggiungere la verità e la storicità dei fatti e per realizzare in concreto il bene umano. La coscienza è dunque un bene! Ed è nella coscienza che risiede il metodo (superamento di ogni concettualismo): gli elementi di questa struttura coscienziale (operatività sui quattro livelli) sono permanenti (quindi transculturali), anche se il modo con cui si realizzeranno nella storia sarà diverso (è l’a priori acquisito). Questa centralità del metodo integra e completa l’antica centralità della logica: la logica è un’importante strumento ma è sostanzialmente statica, mentre il metodo è per Lonergan una “struttura per la creatività”.

12.Lonergan assume come criterio conoscitivo/epistemologico il realismo critico che comporta una

nozione complessa di oggettività (dice che è come “un cavo a tre fili”...): l’oggettività non è l’oggetto (non è vedere quel che c’è da vedere e non vedere quel che non c’è da vedere...), ma essa viene “costruita” dalla coscienza dinamica del soggetto aperto su tutto l’essere a partire dagli “oggetti” presentati dall’educatore. L’oggettività è, cioè, frutto dell’interazione tra soggetto e oggetto: l’oggetto è il primo momento, il “dato”; poi ci sono gli elementi operativi/costruttivi del soggetto. Pertanto l’oggettività è frutto della soggettività autentica.

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Lucio Guasti

Lo sviluppo del soggetto: competenze e operazioni mentali.

Indice

Premessa La didattica e le competenze Il valore della competenza Alcuni caratteri propri della competenza La competenza e i modelli curricolari La complessa definizione di competenza Competenza e apprendimento Apprendimento e operazioni mentali Osservazioni conclusive Bibliografia

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Premessa La politica dell’educazione in Italia ha avuto una storia abbastanza lunga ed

autonoma, il che vuol dire nazionale, fino a quando non è entrata nell’Unione Europea e, in particolare, fino a quando la stessa Unione non ha cominciato ad interessarsi di problemi di sviluppo economico collegati alla qualità dell’ istruzione e della formazione. La genes i del processo viene collegata alle decisioni formali prese a Lisbona - nella prassi linguistica e amministrativa “Lisbona 2000” -. Per la politica dell’educazione ritengo sia preferibile datare l’ inizio - diversi documenti cominciano anche prima a entrare nell’argomento - dall’incontro di Bologna, il cosiddetto “Bologna Process” del 19991 che ha avuto come scopo prioritar io quello di indicare le linee di sviluppo della formazione universitaria per l’Europa del domani.

Come avviene normalmente nella storia dell’ innovazione dei s istemi educativi, quando il livello più alto, l’Università, modifica qualche suo signif icativo atteggiamento culturale, di seguito, anche se non immediatamente, gli ordini inferiori cominciano ad adeguarsi alle scelte fatte. E così è stato.

A Bologna si decise una diversa articolazione dei periodi di studio, i corsi di laurea tr iennali e i bienni di specializzazione, una conclusione abbreviata del periodo formativo precedente: il diciottes imo anno, una centratura forte sul rapporto tra economia, lavoro e conoscenza con particolare attenzione alla formazione di competenze quale criterio per il rinnovamento dei percorsi di studio più decisamente caratterizzati nella direzione della connessione con lo sviluppo dell’economia e delle prestazioni nel mondo del lavoro.

Per quanto attiene al contenuto “educazione e sistemi formativi”, i documenti dell’Unione non hanno carattere prescrittivo o vincolante ma sono delle raccomandazioni che vanno assunte e ratificate dai singoli Stati. Pertanto, la documentazione europea funge da stimolatore ma non necessariamente da trasformatore. Però negli anni seguenti i diversi Stati hanno comunque ratif icato questi orientamenti anche se la loro traduzione in cambiamenti aderenti a quel modello è ancora assai lontana dalla meta desiderata.

Lo Stato italiano, attraverso i rappresentanti dei suoi diversi governi, si è sempre adeguato alle indicazioni europee fino ad assumere l’idea di “competenze chiave” come base della propria revisione culturale del sistema formativo, sia universitar io sia scolastico.

1 Dichiarazione di Bologna, 19 giugno 1999.

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L’ultimo documento di riferimento2, quello che il precedente “governo Prodi” ha fatto proprio assumendolo nello specifico decreto di istituzione dell’obbligo di istruzione f ino a sedici anni3, è molto esplicito e chiaro nell’ indicare le competenze che dovranno essere la base della formazione per l’Europa dei prossimi anni, si potrebbe anche dire dei prossimi decenni, se non si avesse il timore che oggi tutte le previsioni di lungo periodo possono essere facilmente smentite. Bisogna però osservare che nell’ambito dell’attuale s istema scolastico l’inserimento di una trasformazione non può che avere un periodo lungo di sviluppo se si considerano almeno dodici anni di studio (dai 6 ai 18) all’ interno del sistema formativo e, se si aggiungono gli anni della scuola dell’ infanzia - ormai generalizzata nelle maggior parte delle aree del paese -, si arriva a quindici anni e, con l’aggiunta del periodo universitar io, si giunge a diciotto o a venti.

Se questo obiettivo traduce il desiderio dei legislatori europei, la realtà si comporta in modo diversificato e non sarà facile prevedere con certezza che cosa riserverà il futuro in una campo così fluido come quello dell’educazione contemporanea.

Ciò nonostante, occorre constatare che scuola e università hanno anche una loro tradizionale stabilità, che è anche spesso pura immobilità; di conseguenza, più che andare incontro ad una rapida trasformazione esse accetteranno qualche forma di adattamento alla nuova situazione r ichiesta dagli orientamenti europei. L’equilibrio tra pressione al cambiamento e stabilità produrrà qualche effetto di movimento ma non è pensabile che intervengano fenomeni radicali di trasformazione. Sicché si sta assistendo ad una diffusione sproporzionata dei linguaggi culturali propri della proposta di innovazione; questi si sono fatti intensi, propositivi, alle volte quasi messianici mentre i cambiamenti istituzionali e didattici difficilmente saranno conseguenti a quanto dichiarato o atteso.

Vale come esempio l’idea di competenza che è alla base delle nuove r ichieste per la scuola, per la scuola secondaria in particolare, ma che ha già rappresentato una richiesta generale di trasformazione del sistema fino dalla r iforma del 20034. La riflessione sul tema delle competenze è di fatto appena cominciata anche se sembra ormai prossima alla sua f ine proprio per il difficile impatto che ha con la struttura didattica e culturale del sistema formativo più consolidato, quello della scuola classica e dell’università. I settori più vic ini al mondo della produzione e del lavoro: istituti tecnici e professionali, formazione regionale, le diverse Facoltà tecniche nel mondo universitar io s i trovano paradossalmente in una posizione più prossima alla richiesta delle nuove strategie europee sentendosi così pienamente legittimate nel proprio assetto di quanto non lo siano le Facoltà tradizionalmente umanistiche. Mentre negli ultimi due decenni erano proprio gli istituti a carattere professionale a doversi “umanisticizzare” perché ancora troppo distanti dalla cultura classica, quella considerata esclusivamente proprietaria dell’umanesimo, oggi, a poca distanza di

2 Raccomandazioni del Parlamento europeo e del Consiglio, 18 dicembre 2006. 3 Decreto 22 agosto 2007, n.139. 4 Legge 28 marzo 2003, n.53.

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tempo, si sentono confermare positivamente nel loro indir izzo e impianto culturale. Nulla è di fatto cambiato, ciò che è cambiato radicalmente o oppositivamente nella contemporaneità della politica educativa è la gerarchia dei valori e la visione di elementi nuovi nella definizione dell’umanes imo richiesto per l’uomo del futuro.

In conclusione, le trasformazioni in atto della cultura e della società sono rilevanti e la loro combinazione potrebbe determinare una certa imprevedibilità anche nella ristrutturazione dei sistemi formativi pure là dove le indicazioni politiche sembrano definire precisi modelli di cambiamento istituzionale e didattico. In un mondo in forte movimento come quello del rapporto tra cultura, formazione e lavoro non sarà facile mantenere per lungo tempo la barra fissa verso un modello unico.

La didattica e le competenze Così le “azioni di qualità” nel sistema scolastico oggi non possono prescindere

dalle indicazioni date dalla cultura politica europea e dall’assunzione che ne ha fatto il Ministero della pubblica istruzione in quest’ultimo decennio.

Il decreto ministeriale relativo all’obbligo di istruzione, infatti, traduce gli orientamenti generali e ne specifica anche i contenuti. Tutta la scuola secondaria, ma anche la scuola primaria sebbene in modo non omologo, ha provato a cominciare a rispondere concretamente ai nuovi orientamenti.

Naturalmente si pongono diversi problemi che qui non possiamo affrontare e che rientrano nelle strategie di innovazione relative alle modalità assunte per raggiungere gli scopi; in questo nostro contributo però si tratta di valutarne uno soltanto perché incide direttamente sulla qualità delle azioni formative della scuola. Riguarda il rapporto tra l’elemento chiave: la competenza, e l’effettiva possibilità della scuola di assumerlo.

La normativa giuridica ha deciso che questa è la strada mentre la “normativa” didattica ancora non sa se questa assunzione possa o meno essere signif icativa e praticabile da parte della scuola stessa. Infatti, ciò che le scuole stanno facendo in questo momento riguarda il tentativo di comprensione dell’oggetto: la normativa dice che è di alto valore trasformativo, la scuola e i suoi insegnanti che cosa dicono? La scuola si trova nella fase di comprensione e, nello stesso tempo, ha esigenze immediate di attuazione, per cui paradossalmente ancora prima di capire che cosa è la competenza nell’organizzazione della didattica deve già, da questo stesso momento, “valutare le competenze” in uscita degli studenti. Prima, quindi, si procede alla valutazione dell’oggetto di apprendimento e poi, di fatto, si affronta l’oggetto per capire quale ne sia la sua consistenza. Questa è stata la prima forma di adattamento all’ innovazione praticata dalla scuola: le “azioni di qualità” sono state inglobate in questo evento iniziale. La conclusione potrebbe essere la seguente: prima si fa e poi si capisce oppure, con una versione più pedagogica, si cerca di capire facendo. Per un’istituzione formativa come la scuola, questa non sembra proprio la procedura ottimale.

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Se queste operazioni sono state chieste direttamente alla scuola secondaria di primo grado, quella di secondo grado comincia adesso ad affrontare la consistenza di una richiesta qualitativa dell’organizzazione della didattica che, nell’arco di un breve periodo, dovrebbe concludersi ed essere immediatamente applicata. Si tratta della costruzione del nuovo assetto didattico del biennio, cosa non insignif icante e tutta basata sull’idea di competenza. Due sono i punti critici: la richiesta di aree e il rapporto tra competenza e apprendimento.

Il passaggio discendente è questo: dalle indicazioni europee alla mediazione italiana, cioè come il Ministero ha visto e ha pensato di organizzare per la nostra scuola il disegno europeo. Le otto competenze chiave:

1. comunicazione nella madre lingua; 2. comunicazione nelle lingue straniere; 3. competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; 4. competenza digitale; 5. imparare ad imparare; 6. competenze sociali e civiche; 7. spirito di iniziativa e imprenditorialità; 8. consapevolezza ed espressione culturale,

sono state raggruppate in quattro grandi aree o assi culturali: Asse dei linguaggi,

Asse matematico, Asse scientifico-tecnologico, Asse storico-sociale. A questi quattro campi è associata una r ichiesta di formazione di competenze di cittadinanza in otto punti (Imparare a imparare, Progettare, Comunicare, Collaborare e partecipare, Agire in modo autonomo e responsabile, Risolvere problemi, Individuare collegamenti e relazioni, Acquisire ed interpretare l’informazione) che non costituiscono un campo separato ma devono essere integrate nelle azioni interne dei quattro assi fondamentali. Tutto questo va a costituire il nuovo modello di formazione del biennio. Credo che si possa dire: non solo del biennio ma di tutta la scuola.

Il passaggio a tale tipo di r istrutturazione appare signif icativo e importante, naturalmente a patto che possa essere effettivamente costituito. Avere introdotto l’idea di competenza come base della trasformazione qualitativa del sistema è, di fatto, “pericoloso” per chi l’assume perché deve dimostrare che la competenza della trasformazione è la prima qualità della decisione o dell’efficacia che caratterizza la sua decisione. E bisogna dire che siamo ancora lontani dall’avere “l’ istituzione competente per definizione o per natura” realmente competente nel campo della trasformazione dei sistema istituzionali e formativi.

Gli assi culturali, infatti, richiedono che si metta mano alla revisione dei contenuti e alla ridefinizione delle competenze disciplinari: discipline o aree culturali? Il problema è rilevante, certamente affrontabile ma con una nuova

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riflessione complessiva di carattere culturale e formativo. Con sicurezza si può dire che non è praticabile, nel nostro sistema, in tempi brevi.

Un’osservazione va fatta a questo punto. Il tema “competenza” interpella prima di tutto l’istituzione e la sua capacità di essere all’altezza di quello che chiede al suo sistema. Nelle decisioni politiche prese dal Ministero, invece, la competenza è stata posta primariamente come problema della didattica e, nello specifico, dell’apprendimento. Un tema che interessa e coinvolge i soggetti in apprendimento, gli studenti. La genes i e il senso dell’origine del tema non sono certamente questi. La competenza è una modalità particolare di affrontare il progetto di trasformazione che investe essenzialmente e, prima di tutto, l’istituzione che ne ha la responsabilità. Tale istituzione non può definirsi competente per il fatto che esiste e che ha il potere decisionale nelle sue mani: “per il fatto che posso decidere sono per definizione competente”. Parafrasando Cartesio si potrebbe dire: ”Esisto, dunque sono competente” oppure: “Esisto, dunque decido”.

Con questa certezza del proprio presupposto, l’istituzione ha deciso che il problema della competenza riguardava i destinatari del servizio scolastico: gli studenti, e ha immediatamente investito l’ insegnamento di questa responsabilità. L’istituzione così sottolinea che non ha alcuna necessità di rivedere la propria struttura e organizzazione per raggiungere il risultato, l’ insegnamento è il vero oggetto e la vera sede del problema competenza. Di conseguenza, la competenza degli insegnanti deve immediatamente produrre la competenza degli studenti. I l sistema scuola entra così nel gioco della competenza in modo semplice, lineare, definito; si tratta soltanto di sostenere il “progetto competenza” con qualche aggiornamento e con “nuove indicazioni”.

Il valore della competenza Al di là dei modi con cui la responsabilità politica affronta questi temi, resta il

fatto che sul piano sociale e culturale la competenza è un tema forte e significativo. Si potrebbe tradurre il senso di quest’oggetto culturale con la seguente espressione: “tutti vorrebbero essere competenti”; in altro modo, si potrebbe aggiungere: ”nessuno vorrebbe essere incompetente”. Accusare qualcuno di incompetenza oggi significa attribuirgli un’incapacità specifica a svolgere un compito.

Il tema diventa serio quando dal campo economico, dove il tema è sorto e si è imposto, si passa a quello della formazione, la scuola in particolare. L’impatto del tema sulla scuola risulta immediatamente applicabile a coloro che in essa vi operano: studenti, insegnanti, dirigenti. I dir igenti e gli insegnanti sono per definizione e per titoli competenti, al di fuori di questo recinto restano soltanto gli studenti che, di fatto, vengono a scuola per diventare competenti. Ma corrisponde questo quadro alla situazione reale?

Il concetto di competenza, infatti, mette in crisi l’assunto originario il quale sostiene che alla base del lavoro e della professione ci sia il titolo regolarmente conseguito nelle specifiche istituzioni. La tesi sostenuta dalla competenza è spostata

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sull’asse della prestazione: s i è competenti se s i dimostra di esserlo nell’atto stesso della propria attività, non perché il lavoro ci è stato consegnato da un titolo. Si assiste così al passaggio dal valore del titolo al valore della certificazione che attesta quanta competenza è stata acquisita in un determinato campo ma che non attesta né può attestare quanta competenza dovrà essere messa in campo quando avvengono le specifiche operazioni di lavoro. La competenza è sempre concentrata sul futuro, su ciò che deve essere fatto e per il quale si deve dimostrare di sapere affrontare e risolvere quanto viene richiesto e progettato. La competenza non r iguarda il passato, esso ne è solo la condizione, riguarda sempre il futuro, ciò che ci si appresta a fare.

La competenza è sempre una dimostrazione di capacità r ispetto ad una situazione, piccola o grande che sia. Non è mai un riconoscimento permanente; è soltanto un atto continuo che attesta la sua presenza. La competenza non la si presuppone mai, si dimostra.

Il vertice della competenza, infatti, è la performance, cioè la prestazione che sta lì a dimostrare che si è capaci di produrre quanto richiesto, nel momento in cui è richiesto. La competenza è sempre un atto complesso che ha però una visibilità in un punto che è ciò che si vede e si verif ica. Tutti gli elementi che la compongono e che ne sono la condizione sono essenziali ma sono reali nel momento in cui l’oggetto appare prodotto o risolto, si ha cioè una situazione nuova e verificabile.

La domanda che ci si deve porre è la seguente: se per la scuola, con la sua organizzazione e la sua cultura, tutto questo è possibile e se è effettivamente applicabile.

Alcuni caratteri propri della competenza L’idea di competenza evidenzia il carattere produttivo della sua proposta. La

cultura accentua in questo nostro tempo, ma anche per il futuro immediato, il carattere della produttività. Tutto deve essere orientato alla produzione, tutto deve rientrare nell’attuazione di qualche azione che si possa leggere o vedere e, soprattutto, “toccare”. Il soggetto sembra chiamato a concentrare e convogliare la sua energia in un punto del suo stesso essere teso alla produzione di qualcosa che testimoni la visibilità di un’azione competente, non di un’azione qualsiasi.

L’economia ha sempre più bisogno di persone competenti che sappiamo, appunto, “competere” sul piano dei risultati e che siano in grado di introdurre elementi di definizione degli oggetti accompagnati anche alla loro crescita qualitativa. La competenza garantisce il risultato di un’azione e offre un importante contributo allo sviluppo del sistema nel quale o per il quale opera. Questo non solo per l’economia ma, più in generale, per i diversi sistemi che hanno come obiettivo la qualità della loro produzione. Lo stesso concetto di produzione deve essere considerato l’altra faccia della medaglia, cioè il versante visibile e collettivo della competenza o delle competenze.

La competenza sottolinea il carattere della delimitazione. La competenza di fronte alla totalità è evidentemente selettiva. Una persona è definita competente

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quando riesce a qualificare le sue azioni in un settore specifico che, per essere tale, necessita di un confine. Interviene così la consapevolezza necessaria della delimitazione del campo. La delimitazione favorisce la genesi della specializzazione e questa rappresenta il lato tecnico della stessa necessità di definizione del campo. Nella cultura, e non solo nel mondo del lavoro, la tendenza alla specializzazione è molto forte e consente alla stessa cultura di potersi costruire nuovi percorsi e di entrare nel merito di argomenti sempre più definiti. Il vantaggio, a questo proposito, è evidente: la specializzazione può essere un pericolo se non è inserita in una vis ione generale ma, nello stesso tempo, è necessaria per lo sviluppo della scienza e, più in generale, della cultura. La specializzazione precoce viene riconosciuta come un danno formativo mentre la specializzazione a tempo opportuno diventa elemento essenziale dello sviluppo personale e sociale. La specializzazione è il confine visibile della delimitazione del contenuto della competenza.

La tendenza all’analisi. La competenza è di per sé costituita da una dimensione analitica del proprio operare. Essa accentua un determinato tipo di cultura che ha una sua configurazione f ilosofica e psico-sociale e che, nella cultura contemporanea, è ampiamente diffusa e necessaria. La tendenza all’analisi è essenziale in tutti i s istemi ma non può rimanere l’unico punto di r iferimento o il vertice di una forma alla quale gli altr i elementi devono accodarsi. Occorre una valutazione attenta di questo orientamento formativo essenziale per la conoscenza e la costruzione del sapere e dei suoi prodotti. E’ evidente che la centrazione sull’analisi f inisce per operare una tendenza alla frammentazione e a produrre un’eccessiva distanza dagli oggetti reali del sistema. Occorre pertanto garantire, sul versante metodologico, una controtendenza verso l’aggregazione delle singole parti. L’equilibrio è determinante.

Tale funzione viene assunta da un’altra caratteristica della competenza che è quella della relazione o meglio della strutturazione delle relazioni. La competenza non è un segmento geometrico, è piuttosto un insieme di piccole o grandi operazioni, un ins ieme di azioni più o meno complesse, ma mai uniche e monovettoriali. Anche sul versante strettamente tecnico è sempre un gruppo di elementi che costituisce una competenza. La terminalità vis ibile di una competenza è la sua performance, cioè la sua prestazione. La performance costituisce l’evidenza della competenza e come tale può essere analizzata e conosciuta. Anche in questo caso la prestazione consente di catturare l’azione nella sua empirica manifestazione come atto compiuto e globale, anche nel caso in cui la misura, rispetto alla realtà, sia infinitesimale.

Nella contemporaneità, la formazione deve poter affrontare la competenza dei microatti come dei macroatti. La differenza non consiste nell’ampiezza ma nella strutturazione dei rapporti interni che segnano l’intrinseco valore relazionale dell’atto stesso. La performance o manifestazione della competenza viene valutata positivamente quando il risultato è ottenuto in considerazione dell’avvenuta relazionalità delle diverse parti che la compongono. L’efficacia della performance dimostra la presenza di un “sistema competente” o di un “microsistema competente”.

La scelta dell’azione o, se si preferisce, di una teoria dell’azione sta alla base dell’opzione formativa della competenza. In questa visione, il vero apprendimento

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avviene attraverso l’agire che ha come finalità l’azione produttiva. Si r itiene che la pura assimilazione, intesa come conoscenza, non sia sufficiente a determinare lo sviluppo del soggetto; la formazione s i colloca nell’ambito dell’operatorio e mette in continuo movimento tutte le sue energie. Sono, infine, i dinamismi del soggetto i veri protagonisti della formazione.

Questa filosofia dell’azione che sta alla base della competenza è anche quella che ha determinato, e ancora determina, la collocazione della competenza nel campo della formazione dove prevalgono evidenti azioni operative correlate alla produzione di oggetti, cioè la cosiddetta formazione professionale o formazione al lavoro. Tale orientamento appare oggi eccessivamente ristretto rispetto sia all’assunzione teorica dell’agire sia a quello dello stesso conoscere.

Resta comunque il fatto che l’affermarsi della competenza si è basata sulla ritenuta insufficienza della conoscenza. E’ questo uno dei punti più delicati della teoria dell’azione correlata alla teoria della conoscenza. Il rapporto tra le due posizioni è più problematico di quanto possa apparire ad un primo approccio. Certamente l’enfasi posta sulla competenza ha accentuato la subordinazione della conoscenza alla competenza stessa: la conoscenza, da sola, non sembra in grado di ottenere i r isultati formativi necessari. Essa riveste così un carattere strumentale rispetto alla competenza in quanto le azioni poste in essere dal conoscere non appaiono da sole potenzialmente capaci di determinare il risultato di una produzione certa e qualif icata, risultato che vorrebbe essere garantito dal processo formativo. La conoscenza appare più statica della competenza in quanto non caratterizzata da un agire finalizzato ad una produzione evidente e concreta.

La verif ica di questa problematic ità tra conoscenza e competenza è data dall’applicazione stessa della teoria dell’azione al curricolo del sistema formativo. Le ragione di questa diff icoltà sono oggi diverse: l’insufficienza - ancora - di conoscenza del problema, la mancanza di esperienze controllate, l’applicazione generalizzata del principio, l’impatto con i diversi contenuti e le diverse organizzazioni delle discipline, la complessa identif icazione degli elementi che compongono la competenza, ecc. Questo elenco di punti di discussione non toglie valore al tema della competenza, tende semmai a non assolutizzarlo e, comunque, va interpretato come un segnale di un’esigenza del sistema stesso, quella di investire in r icerca didattica ed epistemologica per poter adeguatamente valutare ed apprezzare il peso e il valore di questo orientamento culturale. In assenza di tale strategia, si avrà un effetto lento ma inesorabile di assorbimento del concetto di competenza nel linguaggio ordinario della prassi con conseguente continuità del consolidato e con relativo assorbimento dello stesso linguaggio nell’uso comune. Si sa, per la verità, che le teorie formative, quando non sono sperimentate vengono consumate dalla stesso dibattito che accendono, finendo così per sfiorare soltanto la realtà che vorrebbero invece modificare.

Il rapporto tra competenze e valutazione è, in questo momento nel nostro Paese, il segnale più evidente delle diff icoltà in corso rispetto alla richiesta della normativa relativa alla verifica delle competenze. La definizione che ne è stata data, invece di

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chiudere il campo e di delimitarlo, l’ha aperto a tal punto da renderlo, di fatto, inutilizzabile. Ciò che si registra nella letteratura di questi ultimi tempi è la tendenza ad ascrivere e ad applicare la competenza a tutti gli aspetti propri dell’individuo e tutto ciò rende sempre più improbabile la possibilità del sistema formativo di oggettivare l’effettiva verifica di tutte queste operazioni. Siamo in presenza di una “competenza pervasiva”. Per le conoscenze specifiche che oggi abbiamo, se il disegno valutativo r ichiesto è caratterizzato da ampiezza e profondità, il rapporto tra valutazione e verifica diventa inversamente proporzionale.

Il paradigma della certezza che è qualitativamente correlato alla competenza mal si attaglia, infatti, alla complessa valutazione di tutti gli elementi che compongono la persona. Probabilmente va ripensata la strategia. Sarebbe preferibile muovere dalla valutazione e chiedersi: che cosa siamo effettivamente in grado di valutare? La domanda richiede una conoscenza delle risorse effettive in campo compresa la qualità degli strumenti di verif ica e della loro padronanza.

Tutto ciò non signif ica annullare il concetto di competenza soltanto perché pone alcuni evidenti problemi, si tratta piuttosto di continuare l’approfondimento sia sul versante teorico sia su quello operativo, in particolare tramite un’accentuazione sperimentale molto forte. Non pare così facile oggi riprendere il concetto di homo faber e attualizzarlo nell’homo ”competens”, l’operazione sarebbe semplicistica. Ritengo invece che sarebbe utile aprire una riflessione sulla nuova antropologia che sta alla base di queste richieste sociali e formative, legittime ma non sufficienti.

La competenza e i modelli curricolari Esemplifichiamo. Per la scuola primaria la traduzione del tema competenza è

stato presentato nella forma delle “nuove indicazioni” che lo assumono ma che non lo svolgono con coerenza fino in fondo. Sembra che si stata fatta la scelta di un’attività quasi propedeutica alla competenza. Per la scuola secondaria di secondo grado - anche se, per il momento, solo per il “biennio” -, invece, si è scelta con determinazione la logica della competenza come matrice delle migliori azioni che possono essere realizzate nella scuola dei prossimi anni.

Con questa impostazione si è voluto comunque affermare la scelta forte del valore della competenza come guida della modellistica didattica e delle conseguenti attività di apprendimento. Sicché si è, di fatto, formato un disegno interno al concetto giuridico di “obbligo di istruzione” che ha nella sua parte terminale l’assunto della qualità delle competenze e che, di conseguenza, richiede che tutto l’impianto che lo precede abbia questa impronta in grado di condurre ad un positivo esito finale. Anche nella scuola dell’infanzia è, infine, apparso il “bambino competente”. Occorre adesso capire meglio la distribuzione del signif icato del termine nei diversi livelli del processo di organizzazione della didattica.

Occorre però rilevare che i due progetti di strutturazione dei cicli sono stati elaborati in due modi diversi e, quindi, non sono rappresentativi di un disegno

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unitar io. Solo una successiva elaborazione sarà in grado di realizzare un impianto coerente nella sua longitudinalità. Nasce così, in modo sempre più diffusa, l’esigenza di affrontare l’elaborazione dei contenuti e, con essa, del curricolo in modo longitudinale, il cosiddetto “curricolo verticale”. Le scuole più attente si sono poste questo problema da anni, anche senza il dibattito sulla competenza; adesso però la questione si fa più acuta rispetto a prima perché la competenza trascina con sé un concetto che l’istituzione ministeriale non ha affrontato per palese incompetenza, quello della progressione dei contenuti o dei livelli, cioè i famosi standards o “content standards” o “standards di contenuto”. Le indicazioni europee li prevedevano e li prevedono tuttora ma il modello italiano non ha preso in considerazione questo aspetto che è strutturale per la competenza: non si danno competenze senza standards.

Così per capire meglio il problema che la scuola si trova a gestire diventa necessario riandare alla genesi del tema delle competenze e al conseguente tema della loro composizione.

Correva l’anno 1970 quando uno ps icologo americano David McClelland fu

invitato dall’ASIA5 ad affrontare il problema dei rapporti tra risultati dei test e capacità di predizione della qualità professionale. L’agenzia non era soddisfatta del modo con cui il personale dir igente delle istituzioni, soprattutto pubbliche, veniva selezionato attraverso i test di intelligenza perché questi non si dimostravano in grado di avere un pos itivo valore predittivo, in particolare nei confronti delle minoranze, rispetto ai comportamenti qualitativi dei soggetti nelle loro ordinarie funzioni di lavoro. McClelland fu invitato a produrre una propria riflessione sulla base degli studi che aveva condotto relativamente al tema della motivazione e dello sviluppo personale. I test, in sostanza, presentavano un loro valore per l’orientamento accademico ma non per quanto richiesto dal mondo del lavoro.

La rif lessione prese corpo in un documento che divenne particolarmente importante per la storia di questo problema, dal titolo: “Testing for Competence Rather Than for “Intelligence”6. McClelland non intendeva misconoscere il valore dei test di intelligenza ma r iteneva che non fossero adeguati a testare l’oggetto per il quale era stata richiesta la sua consulenza. In quel periodo gli studi sui temi della motivazione e della personalità erano al centro dell’attenzione e del lavoro di altr i eminenti ps icologi fra i quali Mas low7 (1954), Allport8 (1965), Guilford9(1967) i quali avevano creato un humus adatto a modificare l’orientamento che era stato in precedenza al centro di tutto il sistema formativo.

5 United States Information Agency. 6 McClelland, D., Testing for Competence Rather Than for “Intelligence, in “American Psychologist”, January 1973. 7 MASLOW, A.H., Motivation and Personality,Addison-Wesley Educational, New York 1954. 8 ALLPORT, G.W., Pattern and Growth in Personality, Holt, Rinehart and Winston, New York 1965. 9 GUILFORD, J.P., The Nature of Human Intelligence, McGraw-Hill, New York 1967.

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Si trattava di spostare l’attenzione dall’oggetto intelligenza ad una pluralità di oggetti relativi all’ individuo che potevano essere considerati altrettanto importanti, se non determinanti, per la f inalità richiesta. La sua riflessione fu poi sintetizzata nell’ormai conosciuta “piramide di McClelland” che è composta, come si può vedere, dalla figura sottostante di cinque parti:

1.PIRAMIDE DI McCLELLAND Al vertice della piramide si ha la performance, cioè il comportamento del

soggetto nella s ituazione concreta nella quale viene ad operare. In questo caso, si può considerare il modello come una specie di iceberg che mostra ciò che è operativo ma che dipende essenzialmente da ciò che non si vede e che sta alla base degli stessi comportamenti. La competenza non è la prestazione ma l’ insieme di tutti gli elementi che la compongono. La prestazione è la sua visibilità, la sua icona che testimonia della presenza e dello sviluppo di tutti gli altr i elementi compresa l’intelligenza e la sua capacità di conoscenza.

Nella posizione intermedia, infatti, si ha la conoscenza (knowledge), accompagnata dalle abilità ( skills) che compongono le due caratteristiche più formalizzate e, quindi, più evidenti e oggettivabili della competenza. In ogni documento che si rispetti, in realtà, ci si trova sempre di fronte al binomio: conoscenza, abilità. Questo è coerente ma non ancora sufficiente perché la competenza al livello di base richiede lo sviluppo di “habitus” cioè di “attitudini” (attitudes) e di altr i elementi che compongono il complesso versante delle sensibilità individuale, le “caratteristiche personali” quali, per esempio, la pazienza.

Una volta definito il modello, si trattava di applicarlo: a chi e come. L’ambiente al quale si intendeva applicare il modello era quello del lavoro e dell’analisi delle qualità che potevano essere predittive di un futuro successo. Pertanto, si trattava di modificare, da parte dei sistemi formativi, i propri modelli di insegnamento, in primis per quelle attività di formazione direttamente rivolte al mondo dell’economia.

Infatti, in conseguenza di ciò, la strategia che il sistema economico assunse - certamente non nella sua globalità - per concretizzare tali presupposti si concentrò sullo sviluppo di tali competenze per il settore manageriale delle imprese. La formazione basata sulla competenza non nasce per i grandi numeri ma per una finalità contenuta e mirata, quella del mondo dell’ impresa che intendeva e doveva modificare i propri comportamenti spesso per migliorare e per trasformare la produzione o per fare fronte meglio alle esigenze poste dalla stessa innovazione e dal quadro internazionale della distribuzione globale della nuova economia di mercato.

Il sistema formativo classico, quella della scuola e delle università, non è stato il primo obiettivo della strategia della competenza, la quale si presenta come un’esigenza della nuova r istrutturazione dei processi di lavoro e, di conseguenza, come richiesta di possesso, da parte della dirigenza, di tutte le capacità personali per trovare le soluzioni adeguate alla situazione e, nello stesso tempo, di sapersi adattare

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alle nuove esigenze. Questi processi non potevano più avere come unico punto di riferimento l’intelligenza conoscitiva ma il quadro complessivo della personalità del soggetto. Ciò che emergeva in modo consistente era così la richiesta di formazione della nuova classe imprenditoriale sulla base di elementi “compositivi” capaci di toccare diversi aspetti della personalità e non soltanto quello della manifestazione di un’intelligenza formale o accademica. La genesi resta economica ma entra già nella nuova dimens ione del rapporto tra sviluppo economico e sviluppo personale. I due elementi cominciano ad essere pensati unitariamente.

La complessa definizione di competenza Se l’ispirazione culturale del concetto di competenza è stata prevalentemente

psicologica, va riscontrato però che il suo concetto, il tentativo di una specifica e condivisa definizione non r isulta univoco anche se la sua matrice originaria viene confermata.

La pubblicistica internazionale, prevalentemente di lingua inglese e francese - solo per sottolineare le due culture che più hanno r iflettuto su questo tema - lascia intendere che ci sono dei margini di variabilità ma che ci sono anche convergenze su pochi essenziali elementi che possono essere considerati comuni e stare così alla base della “teoria” adottata. Persino l’OCDE, ad un certo punto della sua rif lessione, ha sentito il bisogno di commissionare una r icerca su questo tema10 che ha dato risultati interessanti ma che confermano ciò che oggi è evidente per tutti: la semantica non è uniforme ma non è nemmeno così ampia da impedirne una condivisa definizione e delimitazione.

Quando il sistema scolastico si è sentito investito da questa nuova r ichiesta ha cominciato a chiedersi di che cosa si trattasse, quale ne fosse l’oggetto, e tutti coloro che si occupavano di scuola sul versante della sua rif lessività sono stati mobilitati per tentare di spiegare ciò che loro stessi stavano cercando di capire sicché, almeno nell’ immediato, il risultato ha prodotto, fra gli operatori, una buona dose di disorientamento e, nello stesso tempo, di attesa. La scuola reagisce con molto pragmaticità a queste situazioni: adatta i suoi comportamenti, per quanto è possibile, in attesa che il tema abbia una sua più precisa definizione in relazione agli atti didattici che devono essere compiuti. Si muove tra prudenza e diffidenza, senza rifiuti pregiudiziali ma anche senza lasciarsi incantare dal nuovo linguaggio. Sono anni, in realtà, che si parla di competenza e ancora non si sono registrati atti conseguenti se non per pochi casi, ancora tutti da verif icare. Si può così tentare di mostrare come le diverse agenzie abbiano presentato la loro carta di credito.

10 RYCHEN, D.S.; SALGANIK, L.H., Edd., Key Competencies for a Successful Life and a Well-Functioning Society, Hogrefe & Huber, Cambridge Usa/Gottingen Germany, 2003.

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Cominciamo con l’agenzia europea che è preposta al problema del mondo del lavoro e della sua qualificazione: il CEDEFOP11. La sua definizione di competenza può essere considerata paradigmatica per rappresentare il pensiero del mondo del lavoro e della formazione: “abilità di applicare la conoscenza, il sapere-come e le abilità entro una situazione abituale o variabile”. Le componenti che vengono sottolineate sono: conoscenze, abilità, situazione. Di particolare rilievo l’espressione “sapere-come” che sta ad indicare il ruolo e la funzione del sapere nel campo lavorativo. Il sapere va applicato, la sua funzione non può essere contemplativa, quindi i curricoli di formazione dovranno considerare l’aspetto proprio del contenuto-sapere nella sua versione direzionata all’applicazione. In questa definizione va anche osservato il carattere di “neutralità” che l’ente intende assumere.

L’osservazione è di un ente italiano che si occupa di formazione quale è Tecnostruttura, il quale, nel presentare il tema, osserva che “il r icorso ad un linguaggio neutrale che eviti prese di posizione esplicite in tema di teorie della competenza e di specifici sistemi locali di denominazione/classificazione delle tipologie di competenze consente ai sistemi locali di preservare i propri stili di denominazione e classificazione. L’idea di competenza come “insieme di capacità e conoscenze necessarie alla realizzazione di un compito”, costituisce la descrizione più neutrale possibile dell’oggetto, per questo compatibile con la pluralità di terminologie in uso nei diversi sistemi (EBNA, ISFOL, ecc.)”.

Questa precisazione appare opportuna perché il termine e la sua cultura provengono dal mondo della produzione e, quindi, non appartengono alla tradizione del linguaggio proprio dei sistemi formativi r ientranti nella diffusa area della scuola. La scuola è parte di una grande sistema e richiede che la sua specificità venga riconosciuta e rispettata, pertanto l’assunzione di una nuova idea deve essere collocata all’ interno di un contesto e proporzionata alla sua identità.

Già all’ inizio di questo percorso di revisione della scuola basato sulle competenze, il Ministero si preoccupò di dare una sua definizione che valesse, appunto, per il proprio sistema e in uno dei suoi documenti, con funzione di larga diffusione, dice che la “competenza è l’intreccio di conoscenze e abilità e/o capacità, di “sapere” e di “saper fare”.12 Anche in questo caso sono presenti termini già individuati: conoscenze, abilità, sapere, saper fare. Il sapere-come del Cedefop si trasforma in saper-fare ma il significato complessivo non muta: s i tratta sempre di assegnare ai contenuti un versante operativo che rappresenta la primarietà della logica della competenza.

Con un intervento successivo13 il Ministero ripropone una sua definizione di competenza molto più ampia proprio in conseguenza della r iforma del 2003: “La competenza è l’agire personale di ciascuno, basato sulle conoscenze e abilità

11 European Centre for the Development of Vocational Training. (“The ability to apply knowledge, know-how and skills in an habitual or changing situation”) 12 Cfr. il Glossario dell’autonomia allegato al Dpr n. 275/1999. 13 Circ. 84/2005.

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acquisite, adeguato, in un determinato contesto, in modo soddisfacente e socialmente riconosciuto, a rispondere ad un bisogno, a risolvere un problema, a eseguire un compito, a realizzare un progetto. Non è mai un agire semplice, atomizzato, astratto, ma è sempre un agire complesso che coinvolge tutta la persona e che connette in maniera unitaria e inseparabile i saperi (conoscenze) e i saper fare (abilità), i comportamenti individuali e relazionali, gli atteggiamenti emotivi, le scelte valoriali, le motivazioni e i fini. Per questo, nasce da una continua interazione tra persona, ambiente e società, e tra significati personali e sociali, impliciti ed espliciti”.

La scuola viene così messa di fronte ad una trattazione del tema più che ad una definizione sintetica. E’ un approccio descrittivo con funzione comunicativa che dovrebbe servire agli operatori quale strumento di identità considerando che la riforma fonda i suoi contenuti pedagogici proprio su questi punti. Si mette in evidenza che conoscenza e abilità sono i due assi centrali ma che vanno collocati all’ interno di un contesto più ampio che è quello della complessità. La competenza è sostanzialmente “l’agire personale” le cui basi sono ascrivibili al modo col quale si sanno usare conoscenze e abilità e, quindi, al modo col quale queste sono state acquisite. Questo agire personale deve rispondere ad un bisogno, finalizzato alla risoluzione di un problema in un contesto all’interno di un disegno progettuale. Inoltre, deve considerare diversi aspetti dell’ individuo: gli atteggiamenti emotivi, le scelte valoriali, le motivazioni. Proprio per questo non è un agire isolato ma sempre in relazione con l’ambiente circostante, costituito da soggetti in rapporto personale o di lavoro. Insomma, un sintetico trattato della qualità pedagogica che la filosofia della competenza vorrebbe introdurre nella scuola.

Si transita da una definizione semplice e precisa della competenza nel mondo della formazione e del lavoro ad una definizione complessa propria del mondo della scuola. Al fondo di tale difformità c’è la preoccupazione che la scuola si lasci trascinare nella competenza al lavoro senza affrontare il sostrato della competenza che è quello della formazione generale del soggetto. La competenza appare così inserita in un tutto molto più ampio che identifica anche la visione che la scuola intende affidare al suo sistema rispetto all’oggetto in questione. Ma la definizione tradisce anche un evidente disagio espresso indirettamente ma molto palpabile: la scuola non è il mondo dell’ impresa e le sue modalità di approccio al tema non possono essere le stesse. Ma questo non viene detto ma solo suggerito.

La trattazione probabilmente più emblematica riguardante il disegno che il

Ministero ha della competenza è presente nello stesso documento quando si cerca di dire in che cosa consiste la valutazione della competenza. Il Ministero suppone che la scuola, in un tempo pressoché immediato, assimili e traduca l’orientamento della competenza in azioni didattiche e che, quindi, si rapporti direttamente alla sua valutazione. Definito concettualmente l’oggetto, scambiata la definizione dell’oggetto per la sua operatività, ci si appresta a dare indicazioni per la loro valutazione, in questo modo: “Rilevazione e accertamento delle competenze = Accertare e certificare la competenza di una persona richiede strumenti caratterizzati da

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accuratezza e attendibilità che, a differenza di quelli utilizzati per valutare soltanto la padronanza delle conoscenze e delle abilità, eccedono, senza escluderle, le consuete modalità valutative scolastiche disciplinari (test, prove oggettive, interrogazioni, saggi brevi, ecc.), ma richiedono anche osservazioni sistematiche prolungate nel tempo, valutazioni collegiali dei docenti che coinvolgano anche attori esterni alla scuola, a partire dalla famiglia, autovalutazioni dell’allievo, diari, storie fotografiche e filmati, coinvolgimento di esperti e simili. Il livello di accettabilità della competenza manifestata in situazione scaturisce dalla somma di queste condivisioni e coinvolge nella maniera professionalmente più alta i docenti che si assumono la responsabilità di certificarla”.

La competenza qui non può più essere descritta ma viene data come elemento da

accertare. Il tema è rilevante perché la normativa richiede la certificazione finale della competenza acquisita e, quindi, per la scuola la funzione di accertamento è dirimente e prescrittiva. In questo testo, si è di fronte a tutta la difficoltà di procedere in modo coerente con l’affermazione del principio di competenza: non è più possibile comportarsi come nel passato perché la proposta è nuova: oggetto nuovo, vita nuova. La sottolineatura è sui mezzi che devono essere utilizzati per la valutazione. Quelli tradizionali rispondevano ad una cultura lineare e direttiva, poco idonea al cambiamento in atto:”…a differenza di quelli utilizzati per valutare soltanto la padronanza delle conoscenze e abilità, eccedono…”. L’uso del verbo eccedere è signif icativo: devono eccedere, devono andare oltre quelle tradizionali senza negarle, evidentemente. Le prove tradizionali non sono più sufficienti perché consentono “soltanto” di accertare la padronanza delle conoscenze e delle abilità, cose non da poco evidentemente, ma ritenute insufficienti. Per realizzare l’obiettivo qualitativo vengono richieste: osservazioni sistematiche, valutazioni collegiali anche con attori esterni alla scuola, autovalutazioni, diari, storie fotografiche e filmati, coinvolgimento di esperti e simili. Senza affrontare il problema della valutazione nella scuola, dibattito non risolto che dura da decenni, va rilevato che il Ministero ritiene che nella scuola italiana tutte quelle operazioni r ichieste siano un fatto ordinario o che comunque siano di facile applicazione purché i docenti si impegnino, evidentemente. La logica del Ministero appare chiara: ad un oggetto complesso bisogna accompagnare una valutazione complessa. La competenza è un oggetto complesso per la definizione che ne è stata data nella c ircolare stessa, quindi anche l’apparato valutativo deve essere conforme alla richiesta. In questo caso, la circolare sintetizza il proprio pensiero valutativo in poche righe capaci di descrivere tutta la fenomenologia delle modalità valutative ritenendo che il problema sia facilmente risolvibile. D’altronde, la competenza tradizionale del Ministero è quella della semplif icazione e l’elenco delle operazioni che possono esser effettuate per valutare è certamente articolato, cioè rapportato ad una dato plurimo ma costituito da elementi singolarmente semplici nella loro esecuzione. Sicché il tutto appare percorribile e lampante. Il messaggio mantiene comunque tutta la sua ambiguità, ben espressa

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dall’espressione: “…coinvolgimento di esperti e simili”. Chi siano i simili agli esperti sarebbe un interessante test di accertamento da proporre al Ministero.

Una definizione simile nella sostanza a quelle precedenti ma più meditata e

sintetica viene espressa nel documento del Ministero relativo al nuovo obbligo di istruzione14 e anche più composta come stile amministrativo: “Le competenze” indicano la comprovata capacità di usare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale; le competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia”.

Anche in questo caso la competenza è costituita conoscenze, abilità e capacità personali, dove il termine personale sottolinea tutti gli elementi visti in precedenza e che non vengono ripresi. Si evidenzia in modo più definito l’equiparazione tra l’ambiente del lavoro e quello dello studio, lasciando intendere che esiste una reciprocità tra i due ambienti; inoltre si pensa che le competenze siano applicabili a tutti e due secondo il pr incipio che anche lo studio è una forma di lavoro. La distinzione tra i due campi viene sottolineata come funzionale con l’ intenzione di superare decisamente la dicotomia tra i due mondi, dicotomia che ha sempre caratterizzato il dibattito sociale e culturale fino a determinare più che distinzioni vere e proprie, divisioni tra i due campi r iconducibili anche ad una precisa vis ione della ripartizione della società in classi.

Inoltre, si è di fronte ad una sottolineatura che nella letteratura sulla formazione delle competenze è sempre più presente, il r ichiamo alla responsabilità personale e al senso di autonomia. In una società che è stata dipendente dalle diverse gerarchie costituite e che vorrebbe centrare i suoi obiettivi sulla personalizzazione, si sono voluti evidenziare due dimensioni qualitative dello sviluppo correlate essenzialmente all’essere competenti. Tutto questo non elimina comunque il problema centrale che è costituito dal fatto che la scuola non è il campo del lavoro in situazione e che nonostante si cerchino di avvicinare i due mondi, resta con tutta la sua pregnanza un fatto ancora non eludibile: il lavoro che si svolge a scuola non ha le stesse caratteristiche del lavoro che si svolge nel campo dell’economia e della produzione. L’intersezione tra le due parti non è sovrapposizione.

Le definizioni sono un buon indicatore per capire il senso della direzione di

questo nuovo contenuto che dovrebbe portare verso una maggiore integrazione fra i due insiemi e che dovrebbe anche dare il sostegno alle azioni didattiche che devono essere coerentemente attivate. Vediamo come.

Nel recente documento europeo: Towards A European Qualifications del 2005 relativo allo sviluppo dei s istemi formativi, s i indicano quattro differenti settori afferenti alla competenza:

14 MPI, Documento Tecnico, Regolamento Obbligo di Istruzione, agosto 2007.

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La competenza cognitiva (cognitive competence) che coinvolge l’uso di teorie e concetti, oltre naturalmente a tutte le conoscenze acquisite tramite le esperienze dirette che ciascuno può fare.

La competenza funzionale (functional competence) che consiste nelle abilità (skills) e nel sapere-come (know-how) cioè di tutte quelle cose che una persona dovrebbe essere capace di fare quando si trova in una situazione di lavoro, di apprendimento o di attività sociale.

La competenza personale (personal competence) che consiste nel sapere condurre bene se stesso nelle condizioni in cui il soggetto opera.

La competenza etica (ethical competence) che si rivolge al possesso di valori personali e professionali.

Con questa ripartizione del concetto di competenza in quattro aree, tutte

ugualmente importanti, il documento europeo colloca la competenza in un quadro ampio relativo alla persona di cui la componente tecnica ne è soltanto una parte. L’aspetto cognitivo e quello funzionale rappresentano ciò che nella tradizione dei sistemi formativi ha sempre avuto una presenza, mentre la parte più nuova sembra concentrarsi sugli altri due aspetti, quello della persona e dei suoi valori. Ma anche su questo secondo punto diventa necessaria una precisazione.

La competenza personale e quella etica, inserite come elementi essenziali della cultura della competenza, non hanno lo scopo di indicare dei punti di carattere metafisico o universale che necessariamente devono essere presenti nelle menti delle singole persone. Non si tratta di decaloghi di principi che sono alla base delle attività umane, di tutte le attività umane. In questo caso, si tratta di azioni legate allo sviluppo della personalità dei soggetti, cioè si tratta di stabilire una connessione tra persona e personalità. La personalità del soggetto è una persona in azione, ciò che diventa pertanto rilevante non è tanto l’affermazione dei principi generali quanto la formazione delle capacità per la loro realizzazione nel processo di formazione individuale. E’ il possesso di alcuni elementi afferenti al buon comportamento della persona nelle diverse situazioni di rapporto interpersonale o di situazione decis ionale che deve essere sviluppato, presente e dimostrato. Così per quanto riguarda la dichiarazione di valori nella scelta e nella conduzione delle azioni, si sostiene che alcuni valori sono e devono essere sempre presenti. Ciò che viene richiesto è la loro identificazione e la loro cura in modo tale che possano contribuire a fare della competenza un atto sempre umanistico e non esclusivamente tecnico.

La didattica, pertanto, assume un particolare ruolo e una specifica connotazione proprio perché sulle conoscenze e sulle abilità ha una buona storia a disposizione mentre sullo sviluppo di elementi interni e valoriali riferiti alla personalità è profondamente scoperta nonostante tutte le sue dichiarazioni “personalistiche” e “umanistiche”.

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Si può vedere uno sviluppo di questo orientamento nel documento di uno dei gruppi più conosciuti che si occupano di formazione15 per cogliere la direzione di marcia di questa proposta cioè il rapporto tra competenze e abilità di base (basic skills and competencies). L’articolazione che viene proposta si basa su alcuni punti:

Autoconsapevolezza (self-awareness) che consiste nel verificare i propri

sentimenti, gli interessi, i valori, i punti di forza e il mantenimento di un ben fondato senso di fiducia.

Autocontrollo (self-management) che consiste nel sapere regolare e gestire le proprie emozioni, lo stress, gli impulsi, nel saper perseverare di fronte agli ostacoli, nel definire e monitorare i progressi verso gli obiettivi personali e culturali, nel saper esprimere adeguatamente le proprie emozioni.

Consapevolezza sociale (self-awareness) che si traduce nell’avere empatie e progetti in prospettiva con altri, di saper riconoscere e apprezzare elementi di somiglianza o di differenza negli individui e nei gruppi, di saper r iconoscere e utilizzare le risorse che provengono dalla scuola, dalla famiglia, dalla comunità.

Abilità relazionali (relationship skills) che si concretizzano nello stabilire gratificanti relazioni basate sulla cooperazione, nel saper resistere a inopportune pressioni sociali, nel prevenire, gestire e r isolvere conflitti interpersonali, nel cercare aiuto quando è necessario.

Responsabilità decisionali (responsible decision-making) che si traducono in decisioni basate sull’esame delle norme etiche, sull’attenzione alla sicurezza, sul rispetto degli altr i, sulla valutazione delle conseguenze delle azioni; che consistono nel sapere applicare le abilità decisionali a situazioni accademiche e sociali e che sono tali da contribuire al benessere della scuola e dell’università.

Come si può vedere, questo elenco di competenze entra con maggiore

determinazione nelle pratiche ossia negli aspetti specifici che devono essere presi in considerazione dopo l’enunciazione di orientamenti più generali. La strategia formativa si definisce sempre di più entrando nel merito di aspetti anche analitic i che comunque caratterizzano proprio la vita lavorativa nella sua quotidianità.

Sempre seguendo la ricerca in corso e anche il dibattito accademico sul valore e

il contenuto della competenza, si deve necessariamente affrontare l’approccio che l’OECD ha dato a questo tema.16

Il concetto di competenza mantiene il suo valore ma all’interno di una visione più ampia quale quella del “capitale umano” (human capital) che viene definito come

15 CASEL: Collaborative for Academic, Social, and Emotional Learning, Chicago 2005. (Ente di ricerca e formazione fondato da Daniel Goleman nel 1994). 16 Cfr. Organisation for Economic Co-operation and Development, The Well-being of Nations. The Role of Human and Social Capital, Paris 2001. (“The knowledge, skills, competencies and attributes embodied in individuals that facilitate the creation of personal, social end economic well-beeng”).

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insieme delle conoscenze, delle abilità, delle competenze e degli attr ibuti presenti negli individui che facilitano la creazione del benessere personale, sociale ed economico.

La definizione appare importante perché inserisce il termine competenza all’ interno del disegno generale del capitale umano come una delle sue caratteristiche. Nelle altre definizioni la conoscenza e le abilità erano considerate elementi della competenza, qui invece la competenza viene accostata a queste due qualità in funzione di un’ulteriore specificazione che può essere vista come una particolare capacità del soggetto di tradurre le sue diverse potenzialità in un comportamento operativo, nel senso di applicabilità. A chi opera necessitano qualità proprie della personalità (attributes), conoscenze (knowledges), abilità (skills) che raggiungono il loro obiettivo soltanto se il soggetto ha la capacità di tradurle in comportamenti efficaci (competencies). Va notato, inoltre, che queste quattro generali caratteristiche del soggetto sono f inalizzate alla creazione di un benessere personale, sociale ed economico.

Inutile qui sottolineare che lo scopo fondativi dell’OCDE è quello di studiare lo sviluppo economico e che un suo settore è proprio dedicato al rapporto tra sviluppo economico e sistemi di istruzione e di formazione. Pertanto, la f inalità dello sviluppo economico viene evidenziata come un obiettivo pari a quello dello sviluppo personale e sociale. Sembra dire, l’ente in questione, che non vanno create facili illus ioni come quelle di chi r itiene che lo sviluppo sociale possa avvenire senza lo sviluppo economico, di più, vuole sottolineare che anche lo sviluppo personale non diventa possibile senza lo sviluppo economico.

In terzo luogo, s i ha una sottolineatura non secondaria sulla specif ica finalità, indicata come raggiungimento del benessere (well-beeing). Il benessere diventa la voce riassuntiva della funzione formativa ed economica della società. Una volta si sarebbe detto che tutto è finalizzato allo sviluppo della persona, voce in grado di riassumere tutto quanto può essere presentato in senso positivo. Il concetto di persona all’ interno di questa letteratura appare troppo astratto e metafisico mentre l’idea di benessere personale lascia intendere con maggiore chiarezza che cosa si vuole effettivamente raggiungere.

La quarta accentuazione r iguarda lo stesso concetto di “capitale umano”. Alla sua apparizione sembrava quasi volere ridurre l’ idea di uomo al suo valore economico in quanto nella tradizione linguistica l’idea di capitale è associata al campo economico, ma poi è apparso con più evidenza l’ intento del proponente di capovolgere la percezione tradizionale proprio accentuando il valore umano con l’associarlo all’idea di capitale. Nell’uomo ci sono tutti i valori potenziali di cui la società ha bisogno, pertanto il dovere di tutte le istituzioni, comprese quelle economiche, è di metterlo al primo posto, al posto più alto e determinante. Lo sviluppo economico non dipende soltanto dalle sue leggi interne, ma soprattutto dalla centralità e valorizzazione del capitale che esso ha al proprio interno. L’uomo possiede un capitale che deve essere sviluppato, se non lo si sviluppa il dire che è persona diventa soltanto un “flatus vocis”.

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Alla fine, comunque, resta evidente il fatto che l’idea di competenza, in questo disegno, viene ricollocata lasciando intendere che non si è di fronte alla formazione dell’uomo competente (homo competens) ma alla formazione dell’uomo costituita dallo sviluppo di tutte le sue potenzialità concepite sinteticamente come un vero capitale.

Queste alcune definizioni di competenza possono essere sufficienti per chiarire

come il campo sia semanticamente complesso ma che, pur nella diversità di interpretazioni, si trova un nucleo fondamentale condiviso e, soprattutto, che si ha convergenza sul signif icato trasformativo che tale oggetto assume nell’ambito degli attuali sistemi di scolarizzazione. La convergenza riguarda le istituzioni politiche che hanno deciso di percorrere questa strada; le posizioni risultano invece più sfumate con atteggiamenti anche di distanza critica quando s i transita dalle decis ioni di politica educativa a quelle proprie della r icerca culturale. Non è questa la sede per entrare nel merito di questo interessante dibattito, qui il nostro scopo è soltanto quello di presentare e di capire il signif icato complessivo della proposta in corso che coinvolge sia l’Unione europea sia gli Stati nazionali.

Competenza e Apprendimento Una volta definito il quadro dei significati di competenza e, soprattutto, quello

della sua composizione interna, si deve necessariamente passare alla presentazione di ciò che viene chiesto in termini di azioni qualitative per l’ intero sistema. Il tema centrale diventa così quello dell’apprendimento.

L’introduzione del concetto di competenza è strettamente correlato alla visione dell’apprendimento. Nella proposta generale di innovazione che è stata presentata e adottata, va ricordato che il termine originario che indicava la linea del cambiamento era, ed è ancora, quello di apprendimento. La critica al sistema tradizionale era sostanzialmente basata sulla critica al primato del contenuto per affermare il pr imato dell’apprendimento. Su questo nuovo oggetto si sono scritte tante pagine per cui non conviene nemmeno tentare di identificare un punto o un momento ritenuto determinante. Dalla f ilosofia alla psicologia alle scienze naturali si sono avuti contributi decisivi per rendere tale scelta imprescindibile anche per la pedagogia della scuola.

Il termine apprendimento va direttamente correlato a quello di competenza per evitare l’equivoco che, invece, potrebbe essere alla base del possibile “fallimento”, nell’attuale s istema scolastico italiano, della reale assunzione e dello sviluppo di tale prospettiva. Il legame che oggi va definito è quello tra competenza e apprendimento: competenza-apprendimento. La correlazione “competenza-contenuto” o, meglio, l’apprendimento di conoscenze-contenuti in funzione della loro applicazione al campo della vita e del lavoro lascia il passo al rapporto apprendimento-competenza; in questo nuovo disegno viene contestata la priorità assoluta del contenuto, non è contestato il contenuto.

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Nella competenza il contenuto è tanto fondamentale quanto il resto, ma non è

più il primato del contenuto a determinare lo schema di azione. La nuova correlazione r iguarda il rapporto “competenza-apprendimento” dove si sottolinea la priorità dei dinamismi del soggetto e, in particolare, della mente rispetto alle azioni che devono essere intraprese, compresa quella del possesso delle conoscenze-contenuto necessarie. La mente, con le sue operazioni, diventa la priorità che intende affermarsi come permanente, mentre il contenuto può anche diventare obsoleto. Nasce così il concetto di “apprendimento permanente” lungo tutto l’arco della vita; non si può dire la stessa cosa per il contenuto: lo stesso contenuto può non essere essenziale per tutta la vita. L’apprendimento ha un potenziale “quasi- infinito” mentre il contenuto è inevitabilmente circoscritto. La dialettica tra i due termini è strutturale e permanente: il primo ha dalla sua parte il potenziale, il secondo ha dalla sua i signif icati.

Sulla base di queste poche notazioni di apertura, si può capire meglio - così spero - come nei documenti promossi dalla commissione europea s i passi, in generale, dal tema della competenze a quello dell’apprendimento. Il termine chiave è “learning”.

In un documento comunitario del 200117 si stabilisce tale connessione in modo definito e orientativo: “The most important of these competences is the ability to learn - maintaining the curiosity and the interest in new issues and skills - without which lifelong learning cannot exist”. La competenza più importante è l’abilità di apprendere. Dove il concetto di apprendimento si r ivolge alla generalità delle situazioni e non solo agli atti strettamente formali di tipo cognitivo quelli, per intenderci, che sono realizzati concretamente nella classe come sede degli apprendimenti formali. L’apprendimento è un atto personale e mentale, pertanto è sempre attivo in qualsias i s ituazione. Questo è l’aspetto didattico che occorre coltivare.

La scuola, con il suo apprendimento, rappresenta una parte di questa strategia ma deve fare lo sforzo didattico di mettere il soggetto nella condizione di attivare sempre, in qualsiasi circostanza, i processi di apprendimento necessari in quella situazione. Mai r inunciare all’apprendimento, mai fermarsi; l’apprendimento avviene quando avviene, non lo si può demandare al futuro o anche al giorno dopo. Quando all’ interno della scuola si affronta un contenuto, si può anche decidere di posticiparne la lettura e la conseguente comprensione, ma l’apprendimento non va posticipato; è attivo nel momento stesso dell’ impatto con una qualsiasi situazione.

La seconda osservazione riguarda proprio la vitalità dell’apprendimento per la vita: se non si sviluppa l’abilità di apprendere non ci può essere apprendimento

17 EU, Report from the Commission of 31 January 2001: The concrete future objectives of education systems. “La più importante di queste competenze è l’abilità di apprendimento – mantenendo la curiosità e l’interesse per le nuove questioni e le abilità – senza la quale l’apprendimento permanente non può esistere”.

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durante tutto l’arco della vita. Questo è l’obiettivo generale e, nello stesso tempo, l’obiettivo più importante.

Per realizzarlo vanno opportunamente sostenuti l’interesse e la curiosità sia verso le nuove questioni che si presentano sia verso le abilità che sono necessarie. La didattica deve trovare le modalità per mantenere vivo l’ interesse verso le nuove e, alle volte anche controverse, situazioni nelle quali sono indispensabili tutte le abilità a disposizione compresa quella del saperne acquisire di nuove.

Va mantenuta alta l’attenzione alle proprie abilità per verif icarne, nelle situazioni concrete, il reale possesso ed essere disponibili a svilupparne altre indispensabili per affrontare nuove situazioni. Le competenze si muovono sempre su due binari: il pr imo è quello del possesso delle conoscenze e delle procedure, il secondo è quello dell’attenzione alle proprie motivazioni, all’adattamento e allo sviluppo di nuove abilità. I temi dell’attenzione e della motivazioni diventano pertanto essenziali quanto l’oggetto che si intende affrontare.

Le operazioni mentali

Per comprendere il rapporto tra apprendimento e operazioni mentali r itengo che possa essere esplicativa e utile una sintetica affermazione di Piaget fatta in occasione della presentazione del lavoro del suo allievo Hans Aebli: “La reale assimilazione delle cognizioni anche sotto il loro aspetto più intellettuale, presuppone l’attività del fanciullo e dell’adolescente, perché ogni atto d’intelligenza implica un gioco di operazioni e che queste operazioni non pervengano ad un vero funzionamento (cioè a produrre un pensiero e non solamente delle combinazioni verbali), che nella misura in cui esse sono state preparate da azioni propriamente dette; le operazioni non sono infatti altra cosa che il prodotto dell’interiorizzazione e della coordinazione delle azioni, in modo che senza attività non vi potrebbe essere autentica intelligenza”.18

Vanno evidenziati alcuni termini che consentono anche di accedere meglio al signif icato della stessa teoria piagetiana. I termini usati sono i seguenti: intelligenza, operazioni, funzionamento, azioni, attività. Possono essere collegati in questo modo: il funzionamento dell’intelligenza si basa su operazioni che hanno la loro base nelle azioni generate da attività che costituiscono le condizioni dell’apprendimento. Le operazioni, elemento centrale del discorso, sono il prodotto dell’ interiorizzazione delle azioni e della loro coordinazione.

Il soggetto, in condizioni di apprendimento, agisce mediante una serie di attività che gli consentono di interiorizzare le diverse forme dell’azione mediante le operazioni stesse che l’azione r ichiede. Questo schema procedurale forma l’interiorizzazione del processo operazionale che costituisce e produce lo sviluppo mentale del soggetto.

Il punto di partenza è l’attività, la quale è costituita di operazioni che generano interiorizzazione dei processi di sviluppo continuo del soggetto. La mente pertanto

18 AEBLI, H. Didattica psicologica, Barbera, Firenze 1966 (1951), p.2.

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apprende mediante attività strutturalmente costituite da operazioni. Come infatti potrebbe essere possibile un’attività in assenza di operazioni? Ecco perché il gioco diventa importante, perché il laboratorio diventa importante, perché il lavoro diventa importante.

Sulla base di questa affermazione si potrebbe affermare che un curricolo che assuma questa posizione come fondamento epistemico dell’apprendimento, dovrebbe essere pensato come un insieme di attività compiute dal soggetto tali da sviluppare un complesso di operazioni in grado di metterlo nella condizione di dare al proprio apprendimento una struttura dinamica.

La struttura dinamica della mente del soggetto si costituisce come obiettivo essenziale e prioritar io per la sua formazione, di conseguenza l’apprendimento su base dinamica non ha fine, è generatore di un’apertura pressoché permanente. La proposta di fare dell’apprendimento un dinamismo continuo che metta il soggetto nella condizione di avere a disposizione una struttura operativa viva, appare come il grande fine ma anche il grande sogno delle affermazioni di politica dell’educazione presenti in questo secolo.

Ha certamente un rilevante fascino l’idea che si possa dotare il soggetto di una capacità permanente di fronteggiare le diverse situazione nelle quali verrà certamente a trovarsi lungo l’arco della sua vita. Situazioni non mai uguali tra di loro ma che possono essere fronteggiare perché le operazioni che il soggetto compie e che “materializzano”le sue capacità hanno la potenzialità interna di potersi espandere e di poter essere applicate ad eventi nuovi. Tali eventi problematici sono anche forier i di nuova ricchezza e di nuova maturazione delle stesse operazioni che sono impegnate nella migliore soluzione degli eventi.

Ciò che diventa importante è che tutte le potenziali operazioni mentali del soggetto vengano poste in campo, nei modo e nei tempi necessari. Colui che apprende non deve pensare che esistano solo alcuni elementi che possono favorire il suo sviluppo. Come si è visto, la psicologia della mente si trova di fronte ad un’ampia pluralità di operazioni che possono essere compiute. Esse vanno tutte attentamente utilizzate e, nello stesso, padroneggiate. Si tratta di avviare un percorso formativo basato, per una parte, sulla teoria dell’azione e, dall’altra, sulla teoria della conoscenza delle stesse operazioni effettuate; il soggetto va messo nella condizione di poterle padroneggiare in quanto ha avuto il modo e il tempo di vederle in opera e di riflettere su di esse e sul loro effettivo possesso.

In sostanza, l’impianto formativo basato sulle operazioni non va considerato una forma di semplificazione ma un sistema composto da più parti interagenti le quali necessitano sempre di essere usate, conosciute, padroneggiate.

Definirei questa capacità del soggetto di mettere in movimento tutte le sue operazioni mentali come una forma di “umanesimo formativo” indispensabile per tutti e capace di sostituire la base tradizionale del curricolo costruita sul “leggere, scrivere e fare di conto”. Il salto qualitativo è notevole perché la preoccupazione centrale della formazione diventa la mente del soggetto relazionata ad alcuni contenuti che sono ritenuti utili per la cultura e per la società.

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Nella versione tradizionale del curricolo si diceva che tutti avevano il diritto di imparare a leggere, a scrivere e a conoscere quel tanto di “far di conto” che poteva servire nella vita quotidiana. Nella visione nuova, nulla di tutto questo è scartato, ma la centralità dell’investimento riguarda lo sviluppo delle operazioni della mente come criterio di approccio ai contenuti perché il soggetto ha il primario diritto di vedere che le sue energie mentali ricevono tutta l’attenzione a loro necessaria. E tali dinamismi mentali sono quelli essenziali per fronteggiare la realtà. Questo orientamento chiama in causa il rapporto con la posizione espressa da buona parte della tradizione relativa alla tesi dell’educazione integrale; il rapporto tra queste due componenti della proposta curricolare dovrà diventare un tema di lavoro per una nuova riflessione.

Dopo gli studi di Piaget - non solo i suoi, ci sono contributi provenienti da diverse discipline non psicologiche - si sono susseguiti vari tentativi per dare un certo peso al cambiamento di prospettiva o almeno con l’intenzione di contribuire a prestare l’adeguata attenzione ad aspetti operatori r itenuti essenziali per lo sviluppo del soggetto. Le condizioni organizzative e istituzionali non hanno favorito questo approccio anche se non rifiutato. Con l’avvento della teoria della competenza come cornice generale del curricolo e come motore di azione delle sue attività, tale prospettiva dovrebbe prevedere un’ulteriore spinta verso la sua realizzazione, naturalmente a condizione che diversi aspetti dell’attuate assetto curricolare vengano modificati.

Per dare una certa concretezza alla teoria appena esposta, ci si può riferire al tentativo fatto dalla collana “Didattica per operazioni mentali”19 di poter rappresentare questa linea di sviluppo dell’impianto curricolare e della sua intenzionalità formativa. La collana è stata costruita sulla base della r iflessione fatta da diverse teorie del curricolo e da diverse studi della mente, con l’ intenzione di raccogliere quegli elementi che vengono ritenuti comuni ed essenziali per ogni tipologia di formazione nella sua fase di sviluppo. Se s i analizzano, per esempio, i contenuti che provengono da proposte già fatte di organizzazione tassonomica della formazione della mente, da quella classica e più famosa di Bloom20 a quella più recente di Marzano21, ci si rende conto che è in corso un’ampia impresa culturale per trasformare il progetto di formazione.

L’ipotes i formulata, invece, dalla collana non si basa su una premessa tassonomica ma su una rilevazione culturale delle princ ipali operazioni che la mente deve affrontare nella sua vita per poterla comprendere e padroneggiare. Le dodici operazioni indicate:

19 La collana “Didattica per operazioni mentali” comprende 12 volumi che trattano delle seguenti operazioni: Creare, Descrivere, Giudicare, Interpretare, Ipotizzare, Osservare, Produrre, Riflettere, Sperimentare, Valutare, Comparare, Comprendere, Erickson, Trento 2008-2009. 20 BLOOM, B., Taxonomy of educational objectives: Handbook I, The cognitive domain. New York, David McKay & Co. (With D. Krathwohl et al.), 1956. 21 MARZANO, R.J., Designing a New Taxonomy of Educational Objectives, CORWIN PRESS, Thousand Oaks, California 2001

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Creare

Comparare Comprendere

Descrivere Giudicare

Interpretare Ipotizzare Osservare Produrre Riflettere

Sperimentare Valutare

stanno alla base di ciò che si ritiene tutti debbano possedere per essere presenti e coscienti nel contesto dove si sviluppa il proprio vissuto. Le dodici operazioni non hanno certamente il compito di esaurire il campo, si sa che la loro pluralità possibile è molto alta. Hanno soltanto il compito di coagularsi come indicatori indispensabili di area al fine di costituire un nucleo essenziale che tutti devono poter percorrere.

Com’è evidente, non tutti possono accedere a tutti i contenuti di un curricolo ma tutti possono invece accedere a queste operazioni perché esse sono indispensabili per lo sviluppo della propria formazione. Si tratta di traghettare il curricolo dall’obbligo di istruzione, cioè di possesso di una serie di conoscenze, all’obbligo di praticare tutte le fondamentali operazioni che l’esperienza di vita ci mette nella condizione di dover possedere.

Vorrei eliminare subito un facile equivoco che può essere ricondotto alla classica critica di formalismo. Credo che non si possa mettere in pratica nessuna operazione mentale senza un contenuto. Questo non mi pare nemmeno un oggetto di discussione; in questa proposta si tratta, invece, di organizzare un curricolo che renda ben evidenti i criteri di costruzione che si vogliono seguire per raggiungere l’obiettivo di formazione della mente. E tale obiettivo non s i raggiunge senza concentrarsi sulle operazioni che rendono apprendibile lo stesso contenuto. Le operazioni di apprendimento hanno, in questo caso, la priorità intenzionale e organizzativa. L’impatto che tale spostamento può avere sull’organizzazione del curricolo non sarà indifferente senza considerare gli effetti sul sistema valutativo.

Osservazioni conclusive Le azioni qualitative che sono richieste alla scuola italiana - ma anche alla

scuola europea - appartengono al quadro concettuale esposto e vi sono strutturalmente inserite; possono essere meglio capite partendo dalla cornice generale

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tracciata dai documenti comunitari. Le competenze sono al centro del disegno politico-pedagogico dell’Unione europea e degli Stati che la compongono. La strada intrapresa avrà un lungo periodo di incubazione, di adattamento, di revis ione al di là delle diverse opinioni che possono essere convergenti o divergenti. Resta il fatto che, per molti anni, questa sarà la visione di qualif icazione dei processi di istruzione e di formazione. In questa nuova situazione che cosa può fare la didattica? Molto.

La didattica in questi ultimi decenni ha lavorato intensamente e ha prodotto molte proposte che meritano di essere studiate e sperimentate. Il problema può essere questo: la didattica ha avuto intuizioni ed esperienze s ignificative anche quando la teoria delle competenze non era ancora apparsa e non era stata assunta ufficialmente dai diversi paesi e dai loro sistemi di istruzione. L’Italia si è affrettata a usare l’espressione “didattica per competenze” come prima aveva assunto l’espressione “didattica per obiettivi” e i vari fans non mancano mai; sono corsi a promettere interventi dal carattere messianico per cui la nuova scuola per competenze è presentata come la soluzione di tutti i problemi. Assomigliano a quella diffusa pedagogia italiana che non riesce mai ad affondare le mani né nella didattica né nella filosofia rimanendo a metà strada più come pedagogia dell’ illus ione che della realtà.

La storia della didattica dovrebbe rendere più prudenti ma siccome anche nei corsi di formazione universitaria una seria Storia della didattica non viene presentata ai futuri insegnanti, questi giovani “pieni di belle speranze” - così nel linguaggio popolare - pensano di stare entrando nel mitico mondo delle soluzioni a “portata di mano“. Inoltre, la pedagogia italiana si muove tra personalismi vari alla ricerca di un discorso fondativo che non arriva mai e gli studenti, futuri professionisti, possono imparare realmente qualcosa della scuola operante solo dai “tirocini” e dai “laboratori” quando questi sono condotti da insegnanti effettivamente dotati di esperienza e di senso critico. La storia della didattica ci mette a disposizioni alcune informazioni che vanno considerate attentamente perché rientrano nella r ichiesta di “azioni qualitative”.

Tali azioni possono essere prioritariamente ricondotte alle operazioni che ogni mente deve mettere in pratica per poter vivere dignitosamente la propria esperienza. Occorre che il soggetto esca dal s istema formativo con la capacità metodologica di sapere usare in primis le proprie operazioni della mente. Questo orientamento dovrebbe porre un nuovo interrogativo ai responsabili dei sistemi educativi: non sarà il caso di cominciare a centrare il curricolo sulla mente del soggetto in modo tale che quando questa incontra i contenuti della cultura e della realtà non ne venga travolta ma sappia mettere in movimento la molteplicità delle sue operazioni le quali formano nient’altro che il metodo con cui la realtà stessa chiede di essere capita, affrontata e ordinata?

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