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Clarissa Veronico

Un minestronedi fiabe

PRINZ ZAUM

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© 2020 Zaum&Co SNC, [email protected]

Redazione e ImpaginazioneArcangelo Licinio

Illustrazioni di Alba Scarpellino

Illustrazione di copertinaAlba Scarpellino

Composizione in Greta Textdisegnato da Peter Biliak 2007

Stampato su carta XXXXXXXXdelle Cartiere Fedrigoni

Copertina stampatasu carta XXXXXXXXdelle Cartiere Fedrigoni

prinz zaum #1 – isbn ???????????

A Flavia e Soniae alla gioia dell’immaginazione

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Un minestrone di fiabe

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Storia del cavolo che incontrò il diavolone

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C’era una volta, in un grande campo di patate, una pianta strana, molto rigogliosa, con delle belle foglie grandi e color verde grigio.

Nessuno sa come ci fosse capitata, certo è che cresceva, cresceva e diventava sempre più forte.

La signora contadina, che ogni mattina faceva il giro del campo per parlare con le sue patatine, non sapeva proprio che farci.

La guardava e riguardava ma non riusciva pro-prio a spiegarsi come fosse capitata lì.

Cominciò col chiederlo alla patata regina. – Ne sai niente tu?– Io? Per chi mi hai presa? Mi faccio i fatti miei

e ho già tanto da fare a sorvegliare che le altre pa-tate crescano bene ed evitino i colpi di zappa di tuo marito!

Il tempo passava, l’aria rinfrescava e stava ormai per arrivare l’inverno, quando ecco che in mezzo alle foglie di quella bella pianta rigogliosa, comin-ciò a spuntare una specie di palla.

Una pallina in realtà, ma ogni giorno cresceva e diventava più grande.

La contadina si affezionò molto a quella pianta e ogni mattina la andava a trovare, quando un bel giorno sentì provenire dalle foglie una vociona.

– Ehi tu! Dico a te, mi vedi? Mi senti?– Ma allora parli! Palla pallina da dove sei spun-

tata stamattina?– Ma che pallina e pallina, non vedi che sono un

fiore!La contadina era stupita e allo stesso tempo in-

timorita da quell’atteggiamento. Non si aspettava che proprio la pianta a cui aveva dedicato tante at-tenzioni le si rivolgesse così.

– Be’ non assomigli proprio a un fiore in verità, disse

– Sono un fiore ti dico e tu sei una stupida conta-dina che non ha la capacità di riconoscermi!

– Piano con le parole, non sono stupida, sei tu che non profumi.

– Hai il naso pieno dell’odore delle tue amate patate, perciò non mi riconosci. Sono un fiore, un super fiore, sono un cavolo di fiore! Urlò la pianta agitando le sue foglie al vento.

La contadina non perse la pazienza. Del resto la pazienza è la virtù di chi coltiva i campi. Pensò a tutte le volte che aveva aspettato la pioggia, e poi il sole, e poi che i fichi maturassero, che i pomodori arrossassero.

Con un bel sorriso le disse: – Se ci tieni tanto ti chiamerò cavolfiore! Poi si girò e, senza darle altre soddisfazioni, la la-

sciò a sbollire la sua rabbia.La pallina verde intanto ripeteva tra sé e sé: – Sono un fiore, sono un fiore, sono un cavolo di

fiore, fiore cavolo, cavolo di fiore, cavolfiore.Non sapeva però che le sue parole così insistenti

e ripetute stavano proprio in quel momento sve-gliando qualcuno che placido e sereno dormiva sot-

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to terra godendosi il tepore mattutino. Eh sì, perché sotto terra dormiva un Diavolone.

Un piccolo omino in realtà, alto poco più di un mi-gnolo, che ogni giorno aveva il compito di correre da una parte all’altra del campo per controllare che tutte le piante avessero cibo a sufficienza.

E qui versava acqua, lì versava sali, lì zuccheri, qui ancora strane sostanze benefiche. Un gran la-voro faticoso che compensava con certe dormite profonde fino a quando il sole non era alto nel cielo.

– Ehi tu cavolo di fiore mi hai svegliato mannag-gia a te!

Chi ti credi di essere? Vieni qua. Vieni qua che ti prendo. Ti prendo e…

E senza che il fiore pallina se ne accorgesse fu ti-rato sotto terra. Giù giù in fondo, nel buio sempre più buio e poi in mezzo a tanti colori, rosso, arancio, giallo, blu!

– Dove mi trovo? Disse la pallina che non aveva più il vocione di prima ma una voce piccola piccola e titubante.

– Sei sotto terra, carina la mia presuntuosa. Come ti sei permessa di svegliarmi? Come hai potuto es-sere così arrogante con la dolce contadina che per tutto questo tempo ti ha protetta? Chi sei?

– Mmm ma, veramente, io non so chi sono. Non so come sono arrivata qua, tutti sono verdi e io sono grigia, tutti sono magri e io sono una palla. Credo di essere un fiore ma non profumo. Sono un fiore?

Il diavolone che in fondo era buono e lo chiama-

vano così solo per prenderlo in giro, si fece una bella risata e disse:

– Non lo so se sei un fiore, ma che importa? Conta solo come ti senti tu! Puoi essere grigio, verde, bian-co, rosso, liscio, arricciato. Dipende solo da te. Vuoi un profumo? Io te lo darò per ricordarti di essere gentile e del giorno che ti portai sotto terra. Ecco qua:

Diavolino diavoletto tu avrai un bell’aspetto. Ricco, povero e piccino farai bene al pancino. Cotto, crudo o al vapore sarai sempre un gran signore.

E cantando questa filastrocca soffiò sul nostro fiore una polvere gialla e lo rispedì in mezzo al campo.

Fu così che la pallina fiore prese il nome di Ca-volfiore, diventò gentile e…

e profumò di zolfo. Eh sì lo zolfo puzza, direte!Certo, perché il diavolone la punizione gliela ave-

va data, ma con bontà, perché è pur vero che quella polvere gialla e puzzolente fa tanto bene alla salute!

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Il pisello della principessa

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ora sotto la schiena, ora dietro il collo, ora sotto il piede e non le faceva trovare la posizione adatta.

Un bel giorno Caterina, sfinita da sogni inquie-ti e stanca di sognare ad occhi aperti per il troppo sonno, decise di spalancare le finestre, togliere co-perte, lenzuola, sotto lenzuola e materasso. E cosa trovò?

Eccolo lì l’oggetto misterioso: un insignificante baccello verde, tutto schiacciato e storto, calpestato dal suo morbido peso che conteneva cinque piccole palline.

– Cosa sarà mai? Si chiese Caterina infastidita. E siccome tutto quello che vedeva, assaggiava, prese una pallina e se la mise in bocca.

– BBBuooono, pensò. La pallina verde era gustosa, dolce e croccante e

senza rendersene conto mangiò anche le altre quat-tro. Diede il baccello al gatto, rimise a posto il letto e si fece una bella dormita.

Quando la cameriera si rese conto che Caterina aveva veramente dormito, corse a dirlo a sua madre. Il piano era stato scoperto e ora che fare?

– Non ti preoccupare, vedrai che questa volta ha fatto la fatica di rifarsi il letto, ma quella pigrona non lo farà più. Mettine un altro, mettine anzi due e vedrai che domani notte non dormirà e almeno nel sonno si muoverà, disse la madre alla cameriera.

E così fu. Ma Caterina, incredibile mangiona, ogni giorno tirava via coperta, lenzuolo e materasso per trovare il suo baccello, e con quale sorpresa ora

C’era una volta a Firenze una signo-rina che si chiamava Caterina.

Caterina viveva in una bella casa piena di ori e tesori, quadri, dipinti, disegni, gente che andava e veniva.

– Ma che noia, pensava, con tutta questa bellez-za in giro per casa non so proprio che fare.

E così, annoiandosi un po’, Caterina sognava. Sognava di fare un lungo viaggio a cavallo, poi

si stancava e sognava una carrozza, poi diventava principessa, e ancora di più, diventava regina.

E che fa una regina quando diventa regina? Va in cucina e ordina alla cuoca i cibi più buoni, più rari, più impossibili da cucinare.

E sì, perché i sogni di Caterina quando era ancora una signorina erano sogni semplici, sogni di cose buone e belle che non poteva avere e soprattutto non poteva mangiare. Perché? Perché Caterina era grassottella e tutta la sua famiglia preoccupata per la sua salute le raccomandava di muoversi, correre e mangiare poco. E mangiare sano e non mangiare questo e non mangiare quello.

Arrivarono addirittura a mettere nel suo letto, proprio sotto il materasso qualcosa di duro. Un pic-colo oggetto, un frutto, un nocciolo, insomma qual-cosa che Caterina non riusciva a trovare, eppure era lì, pronto a non farla mai dormire rilassata.

Potendo Caterina avrebbe dormito tutto il gior-no, ma c’era lui, l’oggetto misterioso che si ficcava

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ne trovava due, tre, quattro. Li apriva con calma e mangiava.

Mentre ormai da tempo mangiava palline verdi, Caterina si rese conto che si sentiva meglio, non aveva più tanto sonno, correva senza affanno e la pancia non le faceva più male. In men che non si dica i suoi sogni cambiarono e un bel giorno gridò:

– Non voglio più una carrozza con sette cavalli, voglio una piantagione di palline verdi!

E così, diventata grande, Caterina coltivò un campo di palline verdi e fece tanti esperimenti per farle diventare sempre più tenere e succose e da quell’esperimento nacque una varietà conosciu-ta in tutto il mondo: le palline di Caterina furono chiamate «piselli novelli».

Ah dimenticavo! Poi Caterina diventò veramente regina. Sposò un certo Enrico, re di Francia, e nella valigia delle nozze mise tante piante di piselli che piantò nel giardino del castello e da quel momento anche in Francia mangiare piselli diventò tres chic che vuol dire molto elegante.

Era il 1533.

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Il peperoncino che volle viaggiare

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Tanto tanto tempo fa Cristoforo Co-lombo partì per un lungo viaggio in mare.

Organizzò una bella spedizione, tre belle navi in flottiglia, molta cambusa, una bella bandiera in cima all’albero maestro, e via verso nuove avventu-re! Voleva arrivare in India attraversando l’oceano.

Per anni aveva studiato le carte, aveva parlato con scienziati e geografi, chiesto soldi in prestito, convinto i marinai, promesso regali e soprattutto aveva convinto la regina di Spagna che da quel viag-gio sarebbero arrivati enormi ricchezze.

Così un giorno che il tempo era bello e il mare era calmo, partì.

Naviga e naviga si vedeva solo mare. Ma dove era finita l’India? L’avevano nascosta gli indiani? Aveva sbagliato rotta? Il mare era diventato più grande?

I marinai diventarono nervosi. Alcuni volevano tornare indietro, altri lo volevano buttare in ac-qua, altri si ammalarono, ma niente, l’India non si vedeva.

Cristoforo fu preso dallo sconforto.

Erano passati molti giorni e stando sempre sul-la prua della nave a inforcare il cannocchiale, si era completamente raffreddato.

Tossiva, starnutiva, sputava, era un vero disastro. Un bel giorno, sotto la pioggia battente, e con la

febbre alta vide un uccello. – Caspita, disse, la terra è vicina!

– Terraaa, gridò un marinaio con tutto il fiato che aveva.

Cristoforo era arrivato in un arcipelago dal mare verde e azzurro, pieno di pesci e di acqua calda. Fiu-mi, prati, alberi, un vero paradiso! Scese dalla nave e cominciò a camminare. Non riconosceva proprio un bel niente dell’India.

Per forza non era l’India… Erano i Caraibi.Quando gli abitanti dell’isola videro quelle gran-

di navi e quei marinai affamati si spaventarono. Non avevano mai visto persone così. Alte, grosse, bianche bianche, raffreddate e armate. Ma poiché era pur sempre una novità, decisero di ospitarle, sperando che presto si sarebbero stancate e se ne sarebbero andate. Fecero una bella tavolata sulla spiaggia e gli diedero da mangiare.

E mangia oggi, mangia domani, i marinai non volevano più partire. C’era chi disegnava tutto quel-lo che vedeva, chi caricava la nave di frutta, chi si faceva il bagno, chi giocava a pallone e tutto quel-lo che vedevano, lo prendevano e lo portavano via come se fossero i padroni del mondo.

La donna che governava l’isola allora ebbe un’idea.

– Adesso vi sistemo io, ospiti ingrati, pensò, e co-minciò a preparare una delizia di carne e verdure condita con un frutto piccolo e rosso chiamato chi-li. Quel piccolo frutto nasceva solo nella loro isola, dove c’era un bel calduccio che gli piaceva tanto e aveva una piccola particolarità: era piccante. Ma

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piccante piccante che quando lo mangiavi ti sem-brava di avere il fuoco negli occhi, nella bocca e nel naso.

La donna preparò porzioni per cinquanta perso-ne, i bambini e gli altri abitanti andarono a racco-gliere tutti i frutti di chili che si trovavano sull’isola e li misero nella caldaia insieme alla carne per fare lo scherzo programmato.

– Vi sistemo io brutti mangioni, non avrete più voglia di stare qui a fare i padroni, pensava la donna mentre rimescolava il brodo piccante.

Quando arrivò la sera, la tavolata era bellissima, c’era la luce della luna e delle stelle, canti, balli, mu-sica tutto intorno. Cristoforo e i suoi marinai si se-dettero e cominciarono a mangiare:

– Aiuto, aiuto, il fuoco, il fuoco, si sentì gridare dopo il primo boccone. Erano diventati rossi in viso, con gli occhi che uscivano dalle orbite, la lingua fuori dalla bocca e correvano, correvano tutti a but-tarsi a mare.

Le donne dell’isola scoppiarono a ridere. Finalmente se ne sarebbero andati. – La cucina può innamorare, la cucina può am-

mazzare, disse una donna tutta contenta e poi an-darono a dormire.

Purtroppo il giorno dopo, allo spuntare del sole, i marinai erano ancora tutti sani e salvi sulla spiag-gia. Non erano partiti, non erano arrabbiati e so-prattutto erano guariti. Nessuno tossiva, starnutiva e sputava. Stavano bene e gli brillavano gli occhi.

Cristoforo andò a parlare con la donna governatrice. – Mi hai salvato dal raffreddore, le disse, come

hai fatto? È certo qualcosa che hai messo nel piatto. E la donna gli mostrò il piccolo frutto rosso.– Oh è questo il frutto salva tutto, disse Cristofo-

ro, ma io lo porterò con me, in Spagna, in Europa, in tutto il mondo. Farò un sacco di soldi vendendolo, la regina sarà contenta, ce l’avremo solo noi e tutti dovranno pagarci per venire a prenderlo dalla vo-stra isola.

E così in men che non si dica, i marinai carica-rono sulla nave le piante di chili e commossi e felici salutarono l’isola. Gli abitanti tirarono un sospiro di sollievo, anche se ormai sapevano che quei seccato-ri sarebbero tornati per prendere altre piante e, per portarsi avanti con il lavoro, ripresero a coltivarle dato che ormai erano finite tutte.

– Chili non è un bel nome, disse Cristoforo al pic-colo frutto, ti chiamerò peperoncino perché somi-gli a un peperone piccolino. Ti farò diventare ricco e famoso.

Arrivato in Spagna, lo fece assaggiare prima alla regina, poi a tutti i nobili, poi a tutti i bambini raffreddati. Poi, siccome ne aveva portato davvero tanto, lo poggiò sul davanzale della sua bella casa spagnola e si addormentò sognando le incredibili ricchezze che avrebbe ricavato dalla vendita di quel piccolo frutto saporito e guaritore.

Mentre dormiva però, si posò sul davanzale un uccello affamato. Vide il peperoncino e lo mangiò.

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Al piccolo uccellino il sapore piccante non faceva nessun effetto, anzi non lo sentiva proprio e se lo gustò con tutta calma, poi riprese il volo e cominciò a sputare i semi dappertutto.

Fu così che il peperoncino crebbe e ricrebbe in tutto il Mediterraneo e si diffuse davvero in Spagna, Italia, Grecia, Asia, Africa e in tutti i paesi dove fa-ceva caldo.

Viaggiò nella bocca dell’uccello e in ogni luogo prese un nome diverso diventando davvero famoso.

E Cristoforo? E la regina di Spagna? Addio ricchezze, il peperoncino ormai ce l’aveva-

no tutti gratis.

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L’albero della pazienza

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C’era una volta un contadino che amava la pace e la serenità. Purtroppo però nel suo paese proprio la pace era quello che mancava. Non sapeva nemmeno bene perché, ma era scoppia-ta una brutta guerra. Gente cattiva attraversava le campagne, rubava le galline, distruggeva il raccolto e voleva comandare su tutto e su tutti. Il contadino cercò con tutte le sue forze di resistere a quei bruti ma quando capì che non c’era niente da fare e che presto avrebbero chiamato in guerra anche lui, de-cise di scappare.

Salutò gli anziani genitori, avvolse in un fazzo-letto le poche cose che aveva, inforcò la sua biciclet-ta e cominciò a pedalare.

Con molta attenzione stette lontano da tutti quegli uomini armati che gridavano solo odio e vio-lenza. Appena vedeva da lontano i loro vestiti neri come la notte, cambiava strada e avvisava la gente che stavano arrivando loro, i cattivi.

Pedala e pedala il contadino si allontanò molto dal suo paese. Attraversò colline e poi montagne, boschi e praterie. Ogni volta che il paesaggio cam-biava, si fermava a guardare i campi e vedeva frutti nuovi e nuove colture.

Se la gente era buona, si fermava un poco per dare una mano. Zappava e imparava, imparava e zappava e così ormai sapeva tutto dei frutti, dei fiori e degli alberi di ogni regione.

Ma la guerra correva veloce e lo seguiva, e lui an-

cora più veloce correva con la sua bicicletta. Il mare non si vedeva più, il cielo era diverso, diverse le fac-ce e le lingue delle persone che incontrava.

Ormai era davvero stanco e un bel giorno, arriva-to in un paese dove il sole sembrava vicino vicino, si addormentò sotto un albero che faceva proprio una bella ombra fresca. Dormì per due giorni, anzi quat-tro, e quando si fu finalmente riposato e non senti-va più il rumore di spari e di bombe, aprì gli occhi.

Ma dove era capitato? In quel paese erano tut-ti giovani, anche i vecchietti. Avevano la pelle li-scia, i capelli neri e un bel sorriso dai denti bianchi bianchi.

Il contadino cercò di parlare ma nessuno lo ca-piva. Era arrivato davvero troppo lontano. E adesso? Come sarebbe tornato a casa?

Finalmente un vecchietto che sembrava un gio-vanotto gli si avvicinò.

Gli porse una tazza di the e gli disse delle parole strane. Non era la sua lingua ma il contadino lo capì.

– Sei arrivato in Cina, gli diceva il vecchietto, il paese dove nasce il sole. Non avere paura, qui non c’è la guerra, solo un giardino pieno di fiori. Dormi, dormi ancora e presto guarirai. -

– Guarire! E da cosa? Sono forse malato? Disse il contadino.

Allora il vecchietto gli porse uno specchio. E sì, il contadino non aveva un bell’aspetto. La

pelle riscaldata dal sole e sferzata dal vento era di-ventata sottile e rugosa come un merletto.

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I suoi bei denti bianchi erano tutti gialli, e aveva una barba, ma una barba lunga che non aveva mai visto.

– O mamma mia e quello chi è? Non è possibile che mi sia ridotto così.

– È stata la guerra e la fatica, disse il vecchietto, ma non ti preoccupare, mangia i frutti di quest’al-bero dove ti sei addormentato e vedrai che starai meglio.

Il contadino giorno dopo giorno mangiava quei dolci frutti. Alcuni erano bianchi come il latte del-la sua mucca, altri erano rossi come il sangue, altri erano neri come la notte. Ma tutti buonissimi e non saziavano mai.

Dopo molti giorni il vecchietto che sembrava un giovanotto tornò con la sua tazza di the e con lo specchio.

– Guardati ora ragazzo, guarda come sei diventato .Il contadino si guardò nello specchio e la sua

pelle era di nuovo liscia, i denti bianchi e nel sonno qualcuno gli aveva anche tagliato la barba.

– Ma come si chiama quest’albero? E che potere hanno i suoi frutti? Esclamò il contadino.

– Si chiama Gelso. Come? non lo conosci? Eppure è famoso in tutto il mondo! Ah se avessi studiato un po’ di più!

– Ma non potevo, c’era la guerra.– Dove c’è lui, guerra non c’è. È l’albero della pa-

zienza e della saggezza. Va’, portalo con te. I suoi frutti non fanno mai invecchiare perché la saggez-

za non invecchia mai, né può mai morire. Ma stai attento, saggezza e pazienza sono sorelle. L’una sof-fre senza l’altra. Va’ adesso, torna a casa seguendo il tramonto del sole.

E così il contadino riprese la sua bicicletta e pe-dala pedala, arrivò nella sua dolce campagna. Ritro-vò i suoi fratelli. La guerra era finita finalmente, ma era tutto da ricostruire.

Allora lui costruì una bella casetta e proprio davanti piantò un albero di gelso. Tutto intorno al tronco costruì una panchina di legno e il pomerig-gio, quando faceva molto caldo, gli piaceva sorseg-giare una tazza di the all’ombra del suo albero pen-sando a quanta pazienza aveva avuto a pedalare per scappare e pedalare per tornare, e che pazienza per costruire e piantare, e che pazienza per imparare!

E mentre uno alla volta guastava i frutti dell’al-bero, uno bianco, uno rosso, uno nero, sapeva per certo che la guerra era brutta e inutile, che i saggi non sono violenti e che l’albero del gelso vive nei cuori delle persone di pace.

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L’invenzione della granita di limone

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C’era una volta, nella città di Paler-mo, un bambino molto povero. Vestito di stracci, senza scarpe, sporco in viso, tutti lo allontanavano e si rifiutavano di giocare con lui. Guardava con tri-stezza gli altri bambini che giocavano a palla, che mangiavano saporiti arancini di riso, che ridevano e scherzavano, ma per lui non c’era niente da man-giare e aveva ogni giorno più fame. L’inverno era arrivato, il cielo era di un azzurro limpidissimo che sembrava vetro e con quel freddo il bambino senti-va le sue forze mancargli sempre di più. Vide in un giardino un bellissimo albero di limoni e, per ripa-rarsi dal vento, decise di accoccolarsi proprio sotto le sue fronde.

I ragazzacci del quartiere amavano canzonarlo:povero bambino, non hai nemmeno un soldinoguarda l’arancinoche non andrà mai nel tuo pancino...e davanti ai suoi occhi spalancati facevano un

sol boccone di quella delizia.Ma il bambino, per quanto povero e solo, aveva

una grande forza dentro di sé. Si arrampicò sull’al-bero e staccò un limone.

– Scusa buon albero se ti tolgo un frutto, ma ho proprio fame. Dammi un po’ delle tue vitamine per rimettermi in forza e vedrai che saprò ringraziarti.

L’albero ascoltò la promessa del bambino e ap-prezzò la sua gentilezza. Gli fece una carezza con le

foglie e gli sussurrò nell’orecchio: –Non preoccuparti carino, vedrai che con le mie

vitamine starai meglio, non ti verrà il raffreddore né il mal di pancia. Anzi, ti dirò di più, avrai mille idee. Quando ne senti il bisogno, vieni a trovarmi e prendi quanti frutti vuoi.

Il bambino non aveva mai sentito un albero par-lare, ma la cosa non gli sembrò strana perché sa-peva che la gentilezza risveglia gli animi di tutti, anche delle piante. Presto si sentì meglio e i suoi pensieri correvano veloci. Pensò ai mille viaggi che voleva fare, ai bellissimi palazzi e musei che voleva visitare, alle storie che voleva inventare e poi disse a se stesso :

– Beh, se voglio fare tutte queste cose belle non posso aspettare, mi devo dar da fare! Qui ci vuole un’idea sensazionale!

L’albero che sentiva tutto, si fece un gran risata agitando le sue foglie al vento, poi si volse verso il sole e gli fece l’occhiolino.

Anche il sole dall’alto aveva visto tutto e volle proprio vedere che idea avrebbe avuto il bambino.

Chiamò tutte le nuvole più nere. Rese il cielo scuro scuro, chiamò il vento più freddo che c’era al polo nord e trasformò la pioggia in ghiaccio.

All’improvviso cadde la neve. Che dico neve... caddero vere palline di ghiaccio, grandine come non se n’era mai vista mentre nessuno aveva con sé l’ombrello e i ragazzi erano fuori a giocare.

Il bambino si preoccupò ancora di più:

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– O mamma mia, come farò? Non ho nemmeno un cappottino! Mi raffredderò. Certo mi ammalerò! Poi ricordò le parole dell’albero e tutti i bellissimi pensieri che aveva fatto dopo aver assaggiato il li-mone. Raccolse la grandine in un pugno, ci spre-mette sopra un po’ di succo di quel bel frutto giallo e cominciò a gridare

– Granite! Granite di limone! Assaggiate il gelato di stagione!

Tutti corsero verso il bambino con un bicchie-re in mano e ognuno aveva un soldino per ogni granita.

– Bbbuonissimaa, dicevano, che bella invenzio-ne il gelato di stagione!

E così, grazie all’invenzione della granita di li-mone, il bambino riuscì a comprarsi un cappottino, a visitare i musei della sua bella città, a fare mille viaggi e a rendere famoso l’albero di limone che l’a-veva aiutato.

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Il paese che non piangeva mai

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C’era una volta un bellissimo paese, proprio alla punta dello Stivale, affacciato sul mare e stretto dai monti, dove nessuno, dico nessuno, sa-peva piangere.

Chi aveva il mal di denti strabuzzava gli occhi, chi aveva il mal di pancia si metteva a cantare, chi era felice rideva, chi era triste rideva lo stesso. An-che i bambini appena nati, che di solito piangono per ogni cosa, in quel misterioso paese non piange-vano mai.

Le prime colichette? I primi dentini? La fame, il sonno, la sete? Erano una gioia per tutti perché nes-suno aveva mai visto una lacrima.

Quando un bel giorno il Viceré del Regno arrivò per puro caso in paese, subito i soldati lo avvisarono di questa strana situazione:

– Signor Viceré Signore, questo è un paese in aperta ribellione!

– Ribellione? C’è una sola soluzione: presto spe-dirò un battaglione

– Signor Viceré Signore, qui non si tratta di un battaglione, ci vuole uno stregone! Per quante ne abbiamo fatte, per quante ne abbiamo dette, in que-sto paese ridono con le pupille strette.

Il Viceré si incuriosì e, non credendo ai suoi sol-dati, per prima cosa alzò le tasse. Niente, nel paese non si sentiva volare una mosca, semplicemente non le andarono a pagare.

Allora il Viceré decise di arrestare tutti. Niente,

nel paese non si sentiva ronzare un’ape, semplice-mente non si fecero trovare.

Poi proclamò che tutti i giovani uomini partis-sero lontano, che tutti i bambini smettessero di giocare, che tutti i vecchi andassero in ospedale, in-somma ne fece di cotte e di crude ma in quel paese la vita continuava testarda e tranquilla.

Quando ormai fu sicuro che si trattava di un vero caso di stregoneria, chiamò tutti gli scienziati più illustri, tutti i maghi più magici, le fattucchiere più nere e disse:

– Dove non può la legge, dove non può la forza, dove non può la guerra, che arrivi almeno la ragio-ne! Ditemi signori e stregoni come mai in questo paese nessuno ha mai visto una lacrima?

– Li avete tartassati?– Sì ho alzato le tasse dieci volte cento.– Li avete imprigionati?– Sì ma sono scappati.–– Li avete torturati?– Sì ma si arrabbiano, protestano e nessuno pian-

ge mai!– È un bel mistero – disse il dottor Baffon de

Baffoni – È un bell’oltraggio, disse Pantalon Stivaloni – Ehhh è una fesseria, disse Concetta Chicchessia– Fesseria? Come ti permetti? Qui ne va dei miei

rispetti. Non capisci, brutta strega, che senza la-crime perdo tema? Chi non piange, non ha paura e dunque serve la censura. Non si deve mai sapere

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che qui non vale il mio potere. Risolvete, ve ne pre-go, questo atroce «me ne frego».

Concetta Chicchessia si trovò in poco tempo ad essere l’unica speranza del Viceré.

Ma che ne sapeva lei? Non era una vera strega, era solo una donna che da giovane non si era volu-ta sposare perché voleva essere libera come l’aria e viaggiare per il mondo. Chi poteva immaginare che si sarebbe trovata in quel pasticcio?

– Aiutatemi vi prego! Piangete almeno un poco. Fatelo contento, altrimenti mi spedirà in convento, disse Concetta alle altre donne.

Ma niente, quelle non piangevano, si spremeva-no il limone negli occhi, si rattristavano, si dispia-cevano, ma le lacrime non uscivano.

– Vogliamo trovare una soluzione? Concedetemi una piantagione, disse allora Concetta al Viceré.

– Sarà fatto strega, non voglio sapere a cosa ti serve, ma sappi che, se non funziona, pagherai di persona.

Di notte e di giorno Concetta si mise a lavorare. Zappò, arò, potò e poi piantò. Che cosa? Uno stermi-nato campo di cipolle! Con quelle almeno avrebbero pianto! Una lacrima, almeno una, sarebbe uscita dai loro occhi preparando il minestrone!

Quando dalla terra uscirono i primi steli e le ci-polle furono quasi pronte, Concetta andò dal Viceré e raccontò il suo piano. Avrebbe indetto una incre-dibile gara gastronomica, chi del paese avesse fatto il minestrone più buono, avrebbe vinto un magnifi-

co viaggio nel Paese Che Non C’è.Il Viceré tutto contento mandò i banditori a ban-

dire, i soldati a saldare, i camerieri a preparare e poi si sedette alla sua scrivania e scrisse una bella lettera

– Caro Re e Caro Principino, il paese ormai è sconfitto. Venga a festeggiare con noi l’inarresta-bile resa. Ci sarà minestrone per tutti e lacrime in quantità.

Ricevuta la lettera, il Re e il Principino si mise-ro in viaggio e dagli alti monti arrivarono sino al mare. Con carrozze, cavalli, merletti e berretti ar-rivarono nel Paese che non piangeva mai per assi-stere alla mirabile preparazione del piagnucoloso minestrone.

Concetta spiantò le cipolle felice di non andare in convento.

– Ma che strana colorazione, non l’ho mai vista in nessuna nazione, pensò. Le cipolle di Concetta, infatti, non erano venute bianche ma rosse e un po’ viola. Concetta non si diede pensiero, fece traspor-tare casse e casse di cipolle al centro della piazza e diede il fischio di inizio alla gara.

Tutti, uomini, donne e bambini, erano armati di coltelli per affettare le cipolle misteriose. Ma che sorpresa! Taglia la prima, taglia la seconda, taglia la terza: nessuno piangeva.

Il Viceré si strappò tutti i capelli, il dottor De Baf-foni naturalmente si strappò i baffi e il mago Stiva-loni rimase senza scarpe. Il minestrone era pronto

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e quando il Re lo assaggiò, si fece una grande risata e disse:

– Questo minestrone vale un medaglione. Arre-state quello sbruffone e nominatelo mascalzone. Tu, Concetta, sarai la mia coltivatrice prediletta. Tutti allegri e cuor contenti siano chiamati i resi-denti. La cipolla che non piange sia premiata in tutto il mondo. In suo onore facciamo presto un grande girotondo.

Fu così che il Viceré fu arrestato per tutte le sue malefatte, Concetta non andò in convento, i bam-bini tornarono a giocare e la cipolla rossa di quel paese diventò famosa nel mondo come Cipolla di Tropea.

Il Re e il Principino caricarono la carrozza con molti e molti chili di cipolle e sulla cipolla più gros-sa misero una corona per annunciare a tutti che era nata la Regina delle Cipolle.

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Il colore della carota

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La felicità del ragazzo fu grande, cosa sperare di più? I libri erano la sua passione!

Ora dovete sapere che in quella biblioteca si af-fannavano e studiavano i più importanti scienziati del Regno. Avevano un grande problema da risolve-re: dovevano curare l’imperatore del mondo.

Di cosa era malato? Nessuno lo sapeva, ma aveva le gambe gonfie, i piedi grossi, il collo grosso e quasi non ci vedeva più. Il suo impero era vasto, anzi va-stissimo, era un impero dove non tramontava mai il sole. Se si metteva a cavallo, poteva percorrere mi-glia e miglia, per giorni e giorni, e tutta quella terra era sua.

Ma l’imperatore era stanco. L’impero era trop-po grande, il suo popolo non era contento: quelli dell’Est volevano pagare meno tasse, quelli del Nord volevano più libertà, quelli dell’Ovest cercavano l’oro e quelli del Sud si sentivano trascurati. Quel collo così gonfio poi non lo faceva dormire, non sapeva come poggiare la testa sul cuscino e i piedi non entravano più nella staffa, quindi addio belle cavalcate!

Gli scienziati si affannavano, studiavano, legge-vano ma nessuno trovava la giusta medicina.

Anche Pablito studiava, anzi per meglio dire, in-seguiva un’intuizione, e così quando arrivò il gior-no in cui tutti gli scienziati andarono a fare visita all’imperatore, anche Pablito si presentò con loro.

– Tu chi sei ragazzino? Non ho voglia di senti-re barzellette, disse l’Imperatore dall’alto del suo

Tanto tempo fa, quasi cinquecento anni da oggi, viveva in Spagna un ragazzo di nome Pablito. In realtà non era quello il suo vero nome, ma poiché nemmeno lui sapeva come si chiamava, accettò di buon grado che lo chiamassero così.

Pablito era arrivato in Spagna su una nave dopo aver viaggiato anni e anni nel mar Mediterraneo. Nessuno sapeva quando era salito su quella nave, forse in Egitto, forse in Grecia, fatto sta che tutti i marinai gli volevano bene e ognuno a suo modo cercava di insegnargli qualcosa. Pablito a sei anni già parlava cinque lingue. Sapeva leggere, scrivere e disegnare, fare i nodi e cucinare. Ma la sua più gran-de passione era studiare. Il comandante della nave quando c’era burrasca lo chiamava nella sua cabina e gli dava il permesso di sfogliare i suoi grandi libri e così Pablito sapeva tutto di Scienze, Storia e Geo-grafia. Quando la nave fu troppo vecchia per conti-nuare a solcare il mare, Pablito abbracciò i suoi vec-chi amici, li ringraziò e purtroppo li salutò.

Ma ora dove andare? Non era mai stato a terra e non sapeva proprio orientarsi tra tutte quelle per-sone indaffarate. Fu così che appena vide una bi-blioteca si fece coraggio e chiese di poter lavorare. All’inizio nessuno credeva che un ragazzo così, un po’ colto e un po’ selvaggio, potesse essere utile, ma quando videro che davvero Pablito leggeva e scrive-va correntemente, gli diedero un letto, un piatto di pasta e mille libri da catalogare.

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qualcosa.Pablito fece portare nella stanza del trono tre

cassette di terra, e in ogni cassetta c’era una pianta dalle lunghe foglie verdi. Spiantò la prima, spiantò la seconda, spiantò la terza e apparvero le sue radici. Erano radici lunghe e affusolate, una di colore viola, una di colore rosso e l’altra di colore verde.

– Vede Signore, queste radici si chiamano caro-te. Le conoscono lungo tutto il mare e i marinai le usano spesso quando sono ammalati. Guariscono le infiammazioni, le scottature, il rossore degli occhi, il fegato e fanno fare tanta pipì.

– Pipì?– E sì signore anche gli Imperatori fanno la pipì

e io scommetto che lei ne fa poca poca e per questo è gonfio gonfio.

All’Imperatore non faceva piacere che si parlas-se della sua pipì, ma accettò con gentilezza il dono del ragazzo e senza dirlo a nessuno cominciò ad as-saggiare quelle carote. Mangia la viola, mangia la rossa, mangia la verde, l’Imperatore ormai si senti-va meglio e quando fu sicuro del benefico effetto di quelle radici fece chiamare il ragazzo.

Carissimo Pablito.Le tue carote mi hanno guarito.Ora ho un problema da affrontare E tu per me dovrai viaggiare.Se mi senti parlare in rimaÈ perché per te ho tanta stima

trono.– Barzellette non ne so, ma un’idea io ce l’ho. –Ah sai fare le rime vedo. Io le rime le odio, quin-

di dimmi che cosa vuoi e poi vattene via, rispose l’imperatore severo.

– Tutti mi chiamano Pablito e vengo dal mare. Sono amico dei marinai e degli scienziati e le ho portato dei regali, disse il ragazzo in tutta fretta per paura di essere scacciato.

– Regali? Questa è bella. Pensavo ti aspettassi dei regali da me, tra noi due sono sicuramente io il più ricco. Sentiamo, sentiamo cosa mi hai portato?

Vede Imperatore, io non sapevo che lei fosse il mio Signore, viaggiavo libero nel maree pensavo solo ad imparare,ho con me un frutto di tre coloriper lenire i suoi doloridisse Pablito in preda alla sua ispirazioneoh scusate ancora rime non mi prenda per le cime.

L’Imperatore, vedendo che il ragazzo era spaven-tato e pronto a scappare, gli fece un gran sorriso e decise di ascoltarlo. Cacciò via i nobili, i dottori e gli scienziati e si dedicò con attenzione al giovanotto. In fondo cosa aveva da perdere? Aveva proprio vo-glia di sentire la voce di qualcuno che non chiede-va nulla, anzi pur essendo povero, voleva regalargli

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di guerre e di lotte. Una bella mattina si svegliò, si tolse la corona dalla testa, prese una matita e sulla cartina del suo impero segnò una riga:

– Questa parte andrà a mio figlio e questa a mio fratello, basta non ne voglio più sapere, mi ritiro in biblioteca a leggere un bel libro.

Quando Pablito finalmente arrivò in quella terra piena d’acqua, appena sceso dalla nave ebbe la tri-ste notizia che il vecchio Imperatore aveva lasciato la corona. E ora che fare? Il suo passaporto specia-le non serviva più. Doveva rimanere lì per sempre. Seppe anche che il principe Orange era in guerra contro la Spagna e che ormai i suoi doni non sareb-bero più serviti a portare la pace. Con un po’ di pau-ra prese le sue tre cassette di terra e andò alla reggia sull’acqua.

– Mio Signore porto un dono dell’Imperatore, so che ha rinunciato alla corona, ma vi prego di accet-tare lo stesso le carote che vi manda.

– Carote? Che banalità! Voglio il suo oro in quantità.

– Queste carote valgono quanto l’oro, guariscono da tanti mali e poi guardi che bei colori, rispose Pa-blito sforzandosi di non fare le rime.

– Viola, rosso, verde. Farò la pace solo quando esisterà la carota che avrà il mio nome. La carota arancione.

Pablito orami non credeva più nella pace perché aveva capito che per la ricchezza e per l’oro i potenti sarebbero sempre stati pronti a fare la guerra, ma

Agli ordini MaestàDi viaggiare mi vaDica cosa devo fareE mi metto subito in mare.

L’Imperatore spiegò a Pablito che c’era una ter-ra lontana del suo Regno con bellissime pianure e tanto mare, ma così tanto mare che entrava anche nelle case. Bene, quella terra non lo voleva più come Imperatore perché voleva essere libera e diventare ricca, voleva seguire un’altra religione, non pagare le tasse e avere un Re tutto per sé.

– Prova Pablito, falli rimanere con me. Portagli in regalo le tue carote. Di' al principe che sono da parte mia in segno di pace e di ricchezza per tutti. Ti darò un passaporto speciale che ti farà attraversare le mie terre dall’alba al tramonto e quando la tua missione sarà compiuta, torna da me e ti farò di-ventare amministratore della biblioteca del trono.

– Grazie Maestà per quest’opportunità.– Non parlare in rima! Lo rimproverò bonaria-

mente l’Imperatore. E ricordati che il principe si chiama Orange che vuol dire arancione!

Pablito viaggiò e viaggiò lontano dalla Spagna, andava verso Nord dove il mare era completamente diverso. Ci furono tempeste e burrasche. Passaro-no gli anni e l’Imperatore non ricevette più notizie del suo giovane amico. Pensando che ormai non ci fosse più nessuna soluzione, prese una decisione che prima di lui nessuno aveva preso. Era stanco

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poiché era un vero scienziato, chiamò tutti i conta-dini di quella terra piena d’acqua e insieme fecero tanti, ma tanti esperimenti. Dopo anni di fatica vide finalmente spuntare una carota dal colore diverso, color Orange.

Tempo ci è volutoMa bastava essere risoluto. Ci era riuscito, la carota arancione era forte e ri-

gogliosa e cresceva facilmente. Presto si diffuse in tutto il mondo tanto che a poco a poco le carote vio-la e rosse quasi sparirono.

Un bel giorno nella biblioteca di Madrid, l’Impe-ratore ormai vecchio chiese che gli si portasse il suo cibo preferito. Ma che sorpresa quando vide sul vas-soio d’argento una carota arancione!

– Sei proprio un presuntuoso, ora sì che sei fa-moso, disse tra sé pensando al principe Orange.

Ma in fondo non gli importava. Sapeva che il suo amico Pablito era vivo, chi se non lui avrebbe potu-to creare una carota di quel colore? Chiuse gli occhi e trovò un po’ di pace.

E Pablito?Rimase in quella terra lontana che ormai si

chiamava Olanda, rifiutò la mano della principessa arancione per sposare una contadina scienziata an-che lei e insieme, di nascosto, continuarono a colti-vare carote di tutti i colori.

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Finito di stampare, nel mese di xxxxxxx xxxxxx,presso la tipografia xxxxxxxxxxxxxx,per conto di Prinz Zaum, Bari.