PRIMO NUMERO, Settembre/Ottobre, a.s. 2013/2014

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2 L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

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lea garofalo

malalacanterbury

comunicazione

bose

cinema

bose

milano

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touring club italia

touring club italia

pollockpollock

audiophilesmumford and sons

peter gabriel

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lennon & mccartney

fumetti

clacson

fratello

fratello

concorso letterario

di Alessandra Venezia

L’editoriale

La redazione dell’oblòredattori | Cleo Bissong, Francesco Bonzanino, Bianca Carnesale, Giulio Castelli, Letizia Foschi, Sofia Franchini, Alice de Kormotzij, Martina Locatelli, Edo Mazzi, Beatrice Penzo, Francesca Petrella, Carlo Polvara, Beatrice Sacco, Claudia San-galli, Alessia Tesio, Alessandra Veneziavignettisti | Leonardo Zoia, Silena Bertoncelli.DIRETTRICE | Martina BrandiCapo redattore e impaginatore| Chiara ConselvanDocente referente | Giorgio GiovannettiCollaboratori esterni | Simone Possenti, Beatrice Servadio, Andrea Sarassi

Ben risvegliati Carducciani! Il letargo estivo si è or-mai concluso da un pezzo, la scuola è ricominciata e anche il nostro amato Oblò è pronto per un nuovo

anno. Nuove rubriche, nuovi racconti, nuove vignette e nuovi redattori. Ogni timore nato alla fine dell’anno scorso, quando la redazione ha dovuto salu-tare alcuni suoi membri fondamentali cresciuti con il giornale, oggi non c’è più. In queste settimane il Carducci ha saputo dimostrare quanto tenga al suo giornalino: ragazzi e ragazze, sia del biennio che del triennio, si sono presentati entusiasti e carichi di idee alle prime redazioni. Ed ecco qui, fra le vostre mani, il risultato: un numero ricco e in-tenso. Bisognerà abituarsi a stili e parole diverse e forse all’inizio vi sentirete un po’ disorientati. È difficile distaccarsi da ciò che si conosce bene per buttarsi in un mondo tutto nuovo. Ma in fin dei conti in un giornale e in un liceo è proprio questo che avviene: ogni anno si verifica un silenzioso cambio generazi-onale e volti più giovani sostituiscono quelli ormai più maturi. Ma se le novità sono tante, tutta-via dobbiamo fare ancora una volta i conti con alcune situazioni che non cambiano mai. Noi italiani abbiamo una certa difficoltà ad accorgerci dei

problemi a tempo debito, è più forte di noi, proprio non riusciamo a preve-nire. È solo l’arrivo della tragedia che ci spinge a fermarci un secondo a ri-flettere. Ci bendiamo gli occhi perché noi non vogliamo vedere. Perché ve-dere significa diventare consapevoli e la consapevolezza porta all’azione. E agire ci fa paura. Dobbiamo abituarci sin da ora, qui a scuola, a vedere. Io vedo un barcone di immigrati che af-fonda nel Mediterraneo, nei pressi di Lampedusa. È il tre ottobre scorso. Se strizzo un po’ gli occhi riesco anche

a vederne un altro. Questa volta è l’undici ottobre. Due tragedie nel giro di una settimana, cen-tinaia di morti e un mondo che

piange. Piange perché non è la prima volta, perché è da anni

che il Mediterraneo è teatro di spettacoli dell’orrore, ma nessuno si muove. Abbiamo bisogno di toccare il fondo con il naso per decidere di alzarci. Ma siamo ancora in tempo per cambiare, le speranze sono tutte riposte

in noi, che siamo gli adulti del domani. Iniziamo ora. Iniziamo

con il guardare e il provare emozi-oni. Una volta arrivati a questo pun-to, il desiderio di migliorare verrà di conseguenza. La cosa peggiore che ci possa capitare, come dice Papa Franc-esco, è cadere nella globalizzazione dell’indifferenza.

3 Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

Sabato 12 ottobre 2013 si sono riunite a Roma, in una grande manifestazione, in-numerevoli associazioni, impegnate nei settori più disparati e apparentemente

senza alcun legame. Tra le protago-niste le più note sono Libera, la rete di associazioni da vent’anni impeg-nata nella lotta alla criminalità or-ganizzata; la FIOM, il sindacato de-gli operai metalmeccanici, e la FLC, sindacato dei lavoratori della scuola, entrambi aderenti alla CGIL; l’ARCI; Libertà e giustizia, associazione di giuristi, intellettuali e semplici cit-tadini attiva nella diffusione, difesa e promozione della Costituzione. La Costituzione: difficile immagin-are un documento più al centro del dibattito politico attuale. È da quasi trent’anni ormai che si parla di ri-forma della Costituzione con esiti inconsistenti, se si esclude in parte la revisione del titolo V, nella parte relativa alle autonomie locali. Negli ultimi mesi, tuttavia, sembra che il processo abbia subito una rapida ac-

celerazione con la creazione di un “comitato di saggi” con il compito di studiare le possibili modifiche e con la riforma prevista dell’articolo 138, che stabilisce procedure molto rigide e un lungo iter per le riforme cos-tituzionali. È stata proprio questa mu-tata situazione politica, sicuramente nata dalle larghe intese, a provocare la reazione della piazza del 12 Otto-bre. La manifestazione si opponeva a questa riforma costituzionale: è importante sottolineare, di fronte alle critiche di “conservatorismo” e “immobilismo” avanzate da giornali, forze politiche ed esponenti delle istituzioni, che nessuno in quella pi-azza era contrario a quelle modifiche, come il superamento del bicamer-alismo perfetto, per esempio, che si proponevano di migliorare l’efficienza del nostro sistema politico mantenen-done l’impianto. Ciò a cui da sempre ci si oppone è il tentativo, avanzato in prevalenza, benché non esclusi-vamente, dal centrodestra di questo paese, di trasformare l’Italia in una repubblica semipresidenziale, in to-tale rottura con il disegno di Stato

tracciato dai padri costituenti. Un altro elemento di confutazione delle critiche rivolte ai manifestanti è il fatto che la manifestazione stessa non fosse solo “contro”: il nome stesso, “La via maestra”, indica la volontà di costruire dalla Costituzione e con la Costituzione un percorso program-matico preciso, che la attui in tutti quegli aspetti di diritto al lavoro, all’istruzione e alla sanità pubbliche, di difesa della legalità, di tutela dei beni comuni, ambientali e culturali che sessant’anni di politica italiana hanno purtroppo in gran parte disat-teso. Le associazioni mobilitate at-tuano, in campi diversi, la Costituzi-one tutti i giorni e chiedono soltanto che sia lo Stato ad attuare i suoi stessi principi fondanti. Chiedono solo il riconoscimento reale di diritti per troppo tempo garantiti solo a parole. Chiedono solo che le forze politiche si riconoscano nella Costituzione come frutto della resistenza, maturata dopo la guerra e la dittatura fascista, figlia dell’incontro tra le migliori tradizioni politiche e culturali del suo tempo.

la via maestra

di Carlo Polvara

4 L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

Ormai le vacanze sono terminate e ci si ritrova in classe tra i banchi all’inizio di un nuovo anno scolastico, certamente segnato da novità. Qui

in Italia per esempio la novità prende il nome di “vietato fiumare all’interno dell’intero edificio scolastico, compreso cortile, campetto ecc.” ma questo è ormai risaputo. Quello che forse non vi sarà così noto è ciò che un comunissimo studente francese, giungendo a scuola il primo giorno, noterà all’entrata: la carta della laicità, voluta dal ministro dell’istruzione francese, Peillon, for-mata da due pagine divise in dicias-sette punti e due capitoli: “La Rèpub-lique est laique” e “L’ècole est laique”, che verranno affisse sulla facciata dei 55 mila edifici scolastici Francesi.

Per comprendere meglio tale carta, di cui riporterò in seguito alcuni punti, mi rifaccio alle dichiarazioni del minis-tro che, in occasione della presentazi-one del suo libro “la Rivoluzione non è finita”, afferma: “Non si può fare una rivoluzione unicamente in senso mate-riale, bisogna farla nello spirito. Adesso abbiamo fatto la rivoluzione essenzial-mente politica, ma non quella morale e spirituale. Quindi abbiamo lasciato la morale e la spiritualità alla chiesa cat-tolica. Dobbiamo sostituirla(...) Questa nuova religione è la laicità (…) La scu-ola deve strappare il bambino da tutti i suoi legami prerepubblicani per inseg-nargli a diventare un cittadino. È come una nuova nascita che opera nella scu-ola e per la scuola, la nuova chiesa con i suoi ministri, la sua nuova liturgia e

le sue nuove tavole della legge”. Un ideale di scuola che si sostituisce alla famiglia, sottraendola al suo compito specifico di educare i figli secondo le proprie convinzioni e tradizioni. Inoltre l’articolo 31 della legge di Peillon, inti-tolata “Rifondazione della scuola della Repubblica”, si propone di diffondere l’uguaglianza di genere per “decostruire gli stereotipi” sessuali, ovvero la banale distinzione tra maschi e femmine. Verrà poi introdotta una nuova disciplina, la morale laica, che sarà insegnata in ogni scuola in aggiunta all’educazione civile per formare un “individuo libero”. E verranno sostituite “le categorie come il sesso con il concetto del gender, il quale mostrerà come le differenze tra uomini e donne non siano fondate sulla natura, ma siano storicamente costruite e socialmente riprodotte”. Per vedere concretamente questa nuova religione all’opera basta ricordare la scomparsa dei termini padre e madre dai fogli di iscrizione delle scuole, sostituiti dal re-sponsabile sociale 1 e responsabile so-ciale 2. Oppure il testo consigliato dallo Snuipp, il principale sindacato degli in-segnanti della scuola, intitolato “Papà porta la gonna”. Ma vediamo ora alcuni punti della Carta.

4. “La laicità garantisce la libertà di coscienza di tutti: ognuno è libero di credere o non credere. Essa permette la libera espressione delle proprie con-vinzioni…”7. “La laicità della scuola offre agli stu-denti le condizioni adeguate per for-giare la propria personalità, esercitare il libero arbitrio e formarsi alla citta-dinanza. Essa li tutela da qualsiasi for-ma di proselitismo e da ogni pressione passibile di pregiudicare le loro libere scelte”.8. “Essa garantisce l’accesso a una cultura comune e condivisa”.11. “Tutto il personale è tenuto a tras-mettere agli studenti il senso e il valore della laicità”13. “Il personale deve essere assolu-tamente neutrale: nell’esercizio delle proprie funzioni non deve pertanto esprimere le proprie convinzioni polit-

iche o religiose”.14. “Gli insegnamenti sono laici al fine di garantire agli studenti l’apertura più obiettiva possibile alle diverse concezi-oni del mondo…”16. “…E’ vietato invocare la propria appartenenza religiosa per rifiutare di conformarsi alle regole applicabili nella scuola della repubblica. Negli istituti scolastici pubblici è vietato esibire sim-boli o divise tramite i quali gli studenti ostentino palesemente un’appartenenza religiosa”.

A questo punto mi sorgono spontanee quattro domande: 1) In che modo la scu-ola della Repubblica pensa di tutelare i ragazzi da “ogni pressione passibile di pregiudicare le loro libere scelte”, se nel contempo mira ad “una cultura comune e condivisa”, privilegiandola? 2) Come potrebbe lo studente “forgiare la propria personalità” ed essere aperto “più obiettivamente possibile alle di-verse concezioni del mondo” se agli in-segnanti è vietato “esprimere le proprie convinzioni politiche o religiose” e se gli stessi professori sono tenuti a trasmet-tere i valori della laicità, e quindi di un credo aconfessionale e secolari sta ? E’ solo nel rapporto sincero con l’altro che uno ha davvero la possibilità di crescere e di creare la “propria personalità”; è entrando in relazione vera con l’altro, accettando anche la diversità e dunque aprendosi ad un confronto, che si può pensare di percorrere un pezzo di stra-da assieme, come ci insegnano in questi giorni papa Francesco ed Eugenio Scal-fari. 3) In che modo è conciliabile il pun-to 16 che vieta l’invocare la propria ap-partenenza religiosa ed “esibire simboli

laïcité à la françaisedi Giulio Castelli

Attualità

5 Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

o divise tramite i quali gli studenti os-tentino palesemente un’appartenenza religiosa” con il punto 4 che permette “la libera espressioni delle proprie con-vinzioni”? Quest’ultima è ulteriormente contraddetta nel quattordicesimo punto che proibisce al personale scolastico “l’espressione delle proprie convinzioni politiche e religiose”. Bisognerebbe al-lora chiedersi cosa significhi per Peillon libertà di coscienza, se essa, come egli esplicita nel quarto punto, può essere ridotta alla semplice libertà di pensare e credere in maniera prettamente per-sonale, o forse qualcosa di più. In ultima analisi è chiaro l’intento di trasformare la scuola, dove fino a poco fa si edu-cavano i giovani con la cultura, in una fabbrica di cittadini modello, a cui non è trasmessa la totale conoscenza delle discipline ma solo una parte di essa (quella laica), in funzione della creazi-one di individui mentalmente e ideo-logicamente formati.

Questa carta descrive nitidamente il concetto di laicitè, basata sull’idea dell’indifferenza dello Stato, chiamata neutralità, rispetto al fenomeno religio-so; questa potrebbe sembrare una soluz-ione efficace per garantire veramente

la libertà religiosa a tutti. Bisogna però riconoscere che viviamo in un tempo in cui nelle società occidentali la vera di-visione è tra il secolarismo e una visione della realtà che invece poggia sulla fede in Dio, espressa dalle religioni. Ora, uno stato come quello francese, che abbraccia totalmente la visione atea della società, inevitabilmente prende una posizione, quella della secolariz-zazione e, come abbiamo visto, della scristianizzazione, astenendosi così dall’aconfessionalità, essenziale in uno Stato laico. E’ lo stesso ministro a di-chiarare l’intento di formare una nuova religione, la laicità: “la nuova chiesa con i suoi ministri, la sua nuova liturgia e le sue nuove tavole della legge”. Ma questa è una tra le tante visioni cultura-li della società, che però così, attraver-so la legislazione, diviene cultura domi-nante e finisce per esercitare un potere negativo nei confronti delle altre iden-tità, soprattutto quelle religiose. Infatti in Occidente, dove il modello francese continua a farsi strada, sono numerosi gli atti giuridici che danneggiano la lib-ertà religiosa: “dai divieti all’obiezione di coscienza in ambito professionale, all’interdizione di indossare o esporre simboli religiosi, all’insegnamento

obbligatorio, anche nelle scuole di ispirazione religiosa, di materie basate su un’antropologia contraria al proprio credo, eccetera.” [1] Dunque lo Stato laico, dichiarando la sua aconfessional-ità, non deve assumere una posizione di distacco dalle religioni ma promuovere ed incentivare le singole realtà religi-ose e non solo, affinché con la propria libertà e creatività possano contribuire all’edificazione del bene comune. [1] A. SCOLA, Non dimentichiamoci di Dio, libertà di

fedi, di culture e politica, Rizzoli, Milano, 2013

6 L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

«Anche in Moldova nascono uomini».

Questa frase, pronunciata dal preside della scuola dello sperduto paese di Roşu, è una delle più preziose che mi porto dietro dall’esperienza di volontariato che ha seg-

nato la mia estate. Voglio premettere fin da subito che quest’articolo non ha la pretesa superba di colmare da solo le emozioni vissute in quei quindici giorni tra luglio e agosto, ma vuole offrire de-gli spunti, delle brevi immagini che pos-sano suscitare almeno curiosità. La Repubblica Moldova è un piccolo staterello schiacciato tra Romania e Ucraina, uno di quei posti dimenticati dal mondo, e te ne accorgi appena at-terri all’aeroporto di Chişinău. Sono partito col progetto Cantieri della Soli-darietà di Caritas Ambrosiana con altri dieci ragazzi che avevo già avuto modo di conoscere in Italia, negli incontri di preparazione. E ripensandoci credo che l’aspetto più utile della preparazione sia stato proprio quello di portarci a confrontare che cosa significhi affron-tare certe tematiche qui, e che cosa invece voglia dire viverle là, sulla pro-pria pelle. Ma andiamo con ordine. La nostra attività sul posto era fondamen-talmente di animazione per i bambini, tutte le mattine, mentre il pomeriggio si organizzava la giornata successiva e a gruppi si andava ai “lavori sociali”. Questi potevano essere tra i più vari: dallo spaccare la legna per l’anziana sola, allo sradicare le erbacce attorno alla chiesa. Come si può già intuire la prospettiva è quella di giornate lunghe e stancanti, e confesso di non essere mai stato messo così tanto alla prova.

Bisogna aggiungere che c’erano anche i volontari moldavi, molti dei quali vive-vano con noi, e riuscire a organizzarsi non era facile, dato che loro parlavano solamente rumeno, e anziché l’inglese il russo. Ma se gli ostacoli linguistici non sono mai stati insormontabili, ecco che ne intervenivano alcuni prettamente culturali: le discussioni e i confronti, tuttavia, si sono sempre rivelati un ar-ricchimento reciproco. Col gruppo di italiani si sono subito create una sintonia e un’amicizia stu-pende, quasi forzate dal nostro stare sempre insieme e condividere tutto in ogni momento del giorno (e della notte). Ritrovarsi a cucinare sempre le stesse cose (tonnellate di cetrioli) ac-contentandosi di quel che c’era, organ-izzare le attività, dormire per terra, usare una doccia in venti, l’assenza di un gabinetto, l’acqua sporca per lavare le stoviglie... abbiamo condiviso tutto. E se detto così non sembrerà molto al-lettante, posso garantire che è stato estremamente utile. Non solo per com-prendere appieno la vita che conduce la gente del posto, ma anche per un ritor-no all’essenzialità che in quel contesto era necessaria. Per quanto sapessi che la Moldova è l’ultima economia d’Europa, viverlo sulla propria pelle è molto più sconvol-gente. La speranza è quasi nulla: è un paese di vecchi e bambini, quasi tutti gli adulti sono andati all’estero a lavorare, e manca quella parte della società che può cambiare le cose. Così, le cose non cambiano, e sotto la forte influenza rus-sa, la Moldova non riesce nemmeno ad entrare nella UE. Spesso a Chişinău ab-biamo letto sui muri la scritta “moldavi,

quindi romeni”. Ci hanno spiegato che il “moldavo” non esiste, ma è solo un dialetto del romeno, con piccole vari-azioni d’accento. Per di più sembrava che se avessero avuto l’opportunità di fare un referendum, il giorno dopo la Repubblica Moldova sarebbe stata abo-lita, e avrebbero felicemente accettato di entrare nella Romania. Ma questa è la visione di quella parte del paese più vicina alla Chiesa ortodossa legata al patriarcato di Costantinopoli, se avessi-mo chiesto a qualcuno legato al patriar-cato di Mosca, certo ci avrebbe risposto in modo diverso. Dei militari russi sono ancora nella zona della Transnistria, un’ignota lingua di terra al confine con l’Ucraina, che appartiene alla Moldova per volere dei russi (ma contro quello dei moldavi stessi!). Insomma, la situ-azione politica è molto complicata, e i danni lasciati dalla dittatura comunista sono evidenti. Ma moltissimi paesi del mondo sono in condizioni simili, la dif-ferenza è che qui si avverte molto come la situazione sia pericolosamente stag-nante. Le strade sono tutte sterrate, non ci sono i gabinetti e bisogna prendere l’acqua al pozzo. Questo nell’Europa del 2013. Perché il fatto molto triste da ammettere è che siamo stati abit-uati da decenni di pubblicità e slogan all’immagine del bambino-nero-povero. Così, quando a solo tre ore d’aereo tro-viamo il bambino-bianco-povero, di cui nessuno parla mai, restiamo turbati. Perché viene quasi istintivo pensare a quanto si parli d’Africa solo in vista del-la ricchezza di quel continente, mentre una piccola regione povera e priva di beni particolari come la Moldova può es-sere dimenticata e lasciata a se stessa, anche se è a due passi da noi!Ma cosa possono fare anche i giovani del posto? Una ragazza che è diventata mia amica si stava laureando in psicologia a Chişinău, ma già con la consapevolezza che fuori dalla Moldova quel documento è carta straccia, e può aspirare a fare la badante. È un paese che non offre ga-ranzie di nessun tipo, a nessuno. Così, si ritrova ad avere un solo primato: il tasso d’alcol consumato per persona. È una terribile piaga ed è l’unica alterna-tiva, il mezzo per non pensare. I ragazzi che ho conosciuto erano lì, nel “rifugio” di Diaconia (un’organizzazione della Chiesa ortodossa), altrimenti sarebbero stati facilmente preda dell’alcolismo e della prostituzione. Sì, questo è un al-tro tragico aspetto. Avere delle amiche moldave, e sapere che tantissime raga-zze come loro vengono prese e mandate nei grandi paesi d’Europa come schiave del sesso a pagamento, e che esistono

di Simone Possenti

moldavia: bambini nella polvereAttualità

7 Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

tanti ricchi europei con la faccia tosta di fermarsi e far salire quelle ragazze in macchina, senza chiedersi che storia ci sia alle loro spalle. A Roşu abbiamo visto una casa con dei bambini che giocavano nella terra, completamente nudi, con-trollati da un uomo che stava nascosto dietro, nell’ombra. Sul muro c’era la scritta “rom” e un numero di telefono. Quei bambini erano in vendita. L’idea di esserci passato davanti, e di non aver potuto fare nulla, è così straziante…A Feteşti, invece, avevamo fatto delle scatoline di carta in cui i bambini ave-vano scritto i propri desideri, poi la sera li abbiamo letti. Quasi tutti chiedevano di rivedere i loro genitori, di andare a Parigi o a Mosca, certo per trovarli. Uno aveva disegnato la Torre Eiffel, un al-tro aveva chiesto una grande bambola parlante. Sono tutti segni di un’intera generazione a cui mancano dei punti di riferimento. È molto triste, e mi fa anche riconsiderare la mia personale idea di famiglia. Quei bambini passano tutto l’anno in grandi collegi, con un regime quasi militare, perché non pos-sono essere seguiti singolarmente. Poi, d’estate, tornano al loro villaggio dai nonni. I più fortunati vedono i geni-tori una volta all’anno, ma sono delle eccezioni, molti non li avevano mai visti. E cosa ancora più triste è che sp-esso l’affetto dei genitori lontani arriva tramite soldi e regali, così il bambino che non ha il gabinetto in casa può sfog-giare il suo cellulare touch! Proprio per questi motivi ci avevano detto di stare attenti, di non affezionarci in partico-

lare a un bambino, perché noi sappiamo che non lo rivedremo mai più e l’ultima cosa di cui hanno bisogno è di essere il-lusi. Ovviamente non è per nulla facile: so-prattutto la seconda settimana ero mol-to vicino a un bambino di nome Rostic, e non dimenticherò mai i suoi piedini nudi, sempre sporchi di terra, le sue un-ghie piene di polvere, la ferita infettata sul palmo della sua piccola mano. Come faccio a non interrogarmi sul suo futuro? E sul suo presente. Dove sarà adesso Rostic, che cosa gli starà succedendo? Dopo i lavori sociali ci capitava di fer-marci a parlare con gli anziani, col nos-tro coordinatore che faceva da tradut-tore. Una signora ci ha raccontato gli anni terribili del comunismo, le depor-tazioni, la fame. Suo marito l’aveva ab-bandonata alle prime difficoltà, e lei, sola coi bambini, andava a bere l’acqua degli animali. E in contrapposizione a tutto questo, alla vita della campagna così legata alla Chiesa ortodossa, un po’come in Italia era ai primi del Novecento, c’è la capi-tale: Chişinău è una città poco illumi-nata, per niente turistica, con nulla di famoso da visitare, ma numerosi locali e casinò. Siamo anche andati in un ris-torante di lusso dove abbiamo mangiato tantissimo (e speso “addirittura” sei euro a testa perché era proprio in cen-tro città!). La sera siamo anche andati in un locale molto carino, non diverso da quelli di Milano. Questo è il con-trasto, e questo ci infastidiva: ritornare così, alla normalità, dopo quelle due

settimane di sudore, dopo tutto quello che avevamo visto. Ma ho pensato che infondo, se fossi nato a Chişinău, anch’io avrei voluto uscire in un locale il sabato sera e avere una vita normale. Insomma, la Moldova è anche fatta dei cittadini della capitale (che comunque resta per lo più una cit-tà sporca e decadente).Voglio però concludere questa lunga se-rie di ricordi con delle immagini posi-tive: le verdi colline della campagna dell’est Europa, e quelle infinite dis-tese di girasoli! Il rapporto stretto che c’è tra l’uomo e la terra, e una vita all’essenziale, senza le troppe futilità a cui siamo abituati. Ma soprattutto il cielo: di un azzurro così intenso durante il giorno, con stupendi tramonti rosati e la profonda oscurità della notte. Sono certo di non aver mai visto così tante stelle in vita mia, tutta la Via Lattea era distesa davanti ai nostri occhi, e facil-mente si trovavano i due Carri, la cintu-ra di Orione, Cassiopea. Per di più era-vamo nel periodo di San Lorenzo, così in una sola notte ho visto ben ventidue stelle cadenti!Ritornare in Italia non è stato per nulla facile. Guardo con occhi nuovi la mia ricchezza, le mille opportunità che mi offre il mio paese, con la consapevolez-za di essere molto fortunato. E mi inner-vosisco sentendo gente che non sa far altro che lamentarsi dell’Italia. Il giorno stesso che sono tornato a casa sono scoppiato a piangere, perché avevo troppe emozioni accumulate, un senso d’ingiustizia troppo grande.

8 L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

Il finale di una storia, solitamente, racchiude l’effetto sorpresa che ci spinge a rimanere in silenzio durante l’intera narrazione. Ma con le storie di mafia non fun-ziona così. Spesso il finale già lo

conosciamo. Il finale della storia corre ancora più veloce della storia stessa. La storia di Lea però dev’essere rac-contata a partire dall’inizio. Fingiamo dunque di non conoscere il finale e srotoliamo, dall’inizio, il filo della vita di una giovane piccola donna: Lea Garofalo.Lea nasce nel 1974 a Petilia Policas-tro, in Calabria, e non ha certo un cognome qualsiasi. I Garofalo sono uno dei clan ‘ndranghetisti del paese. È il 7 maggio 1996 quando viene effet-tuato il blitz a Milano, in via Montel-lo, e viene arrestato anche Floriano Garofalo, fratello di Lea. Lo stesso Floriano viene ammazzato nove anni dopo nei pressi di Petilia Policastro. È una guerra fra clan mafiosi. Una rarità, nella ‘Ndrangheta, dove tutti sono parenti di tutti. E non solo per-ché si definiscono “fratelli”, come i camorristi, ma perché sono davvero fratelli, zii, cognati e cugini. E anche qui, Floriano viene ucciso dal cogna-to di sua sorella, Giuseppe Cosco. È

proprio Lea a denunciare l’accaduto al pubblico ministero. Lea decide di collaborare e diventa una testimone di giustizia. Viene ammessa al pro-gramma di protezione già nel 2002, per poi esservi estromessa nel 2006. Si verifica il primo errore: Lea viene las-ciata sola. Nel 2007 viene riammessa nel programma, al quale poi rinuncia nel 2009. Ancora una volta si tratta di una mancanza fisica dello Stato. Perché forse, se l’avessero costretta a rimanere nel programma di protezi-one, Lea ora sarebbe ancora viva. Nel maggio 2009 Carlo Cosco (ex com-pagno e padre della figlia Denise) or-ganizza il rapimento di Lea a tavolino. Manda Massimo Sabatino nella casa a Campobasso dove vivono madre e figlia con l’ordine di rapire ed ucci-dere l’ex moglie ma fortunatamente le due donne riescono a fuggire. La denuncia ai carabinieri ha poco peso e il 24 novembre 2009 Lea, che si era recata a Milano per discutere di Denise con l’ex marito, viene rapita da un camioncino bianco nei pressi dell’arco della pace, in pieno giorno, sotto gli occhi di molti. Torturata e uccisa da Vito e Giuseppe Cosco, viene poi bruciata all’interno di un contenitore metallico, la sua cenere è

gettata in un tombino. La storia con-tinua. Dopo due ordinanze di custodia cautelare per Carlo, Vito e Giuseppe Cosco, Massimo Sabatino, Rosario Cur-cio e Carmine Venturino, nel luglio del 2011 inizia il processo di primo grado. Si tratta di un processo trava-gliato, interrotto nel novembre 2011 e ripreso nel marzo seguente, quando i sei imputati vengono condannati all’ergastolo per sequestro, omicidio premeditato e dissolvimento in acido del cadavere. Infatti il corpo di Lea non è stato ritrovato e la prima ipo-tesi è che sia stato sciolto nell’acido. È solo attraverso la collaborazione di Carmine Venturino che il corpo di Lea viene trovato, carbonizzato, in Brian-za. È il 6 novembre 2012. La sentenza di secondo grado arriva il 29 maggio 2013: confermati gli ergastoli per Car-lo Cosco, Vito Cosco, Massimo Sabati-no e Rosario Curcio, venticinque anni per Carmine Venturino e assoluzione per Giuseppe Cosco. Negli omicidi di mafia le date hanno una loro importanza. I giorni diven-tano fondamentali, perché contribuis-cono a costruire la memoria. Più si hanno punti fissi, più la memoria è stabile. E per fare antimafia è ob-bligatorio avere una memoria il più stabile possibile, addirittura una me-moria incancellabile. Per questo, un altro giorno che dev’essere ben scol-pito nella nostra testa è il 19 ottobre 2013, il giorno dei funerali pubblici di Lea, richiesti dalla figlia Denise e celebrati a Milano, in presenza del sindaco e del presidente nazionale di Libera, Don Ciotti. Non bisogna di-menticare questo giorno perché è il segno di un impegno che Milano, la Lombardia e il Nord Italia si prendono. L’impegno a ricordare le vittime delle mafie e a riconoscere che la mafia al nord c’è, opera e succhia denaro e vite. E anche Denise c’è. E con lei non possiamo permetterci di sbagliare, non possiamo permetterci di lasciarla sola. Denise vive sotto scorta, ha poco più di vent’anni, è orfana di madre, ha un padre mafioso e tutta la vita da-vanti. E la storia continua.

un garofano bianco anche per leadi Alessandra Venezia

Attualità

9 Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

Un anno è ormai passato da quel nove ottobre, ma il mondo non ha di-menticato, non vuole di-menticare. Quel giorno una ragazza pakistana

iniziò la sua lotta contro la morte in una corsa disperata contro il tempo. ‘Iniziò’ non è forse la parola più es-atta da usare, poiché nel suo paese le ragazze rischiano la propria vita per tanti motivi, che rientrano sp-esso nella categoria delle violazi-oni dei diritti umani dell’ONU. Le ragazze muoiono per strada di parto, a soli quindic’anni, perché negli ospedali non ci sono condizio-ni sanitarie idonee, o perché sp-esso viene data la precedenza agli uomini. Un altro di questi diritti trascurati è l’istruzione femminile. Nelle zone tribali al confine con l’Afghanistan infatti, dal 2003 i tale-bani hanno distrutto centinaia di scu-ole, intimato alle ragazze di starsene a casa, hanno costretto le più corag-giose a rischiare la vita per andare a lezione, con i libri nascosti sotto lo scialle. Nei fatti, poco o nulla è cam-

biato; invece tutto deve cambiare. Ed era contro queste ingiustizie che Malala lottava, parlando con i gior-nalisti, denunciando sul suo blog gli orrori della sua vita e di quella delle sue coetanee, difendendo il diritto allo studio dei giovani del paese. Fin-ché quel giorno d’autunno i talebani decisero di farla finita. Ne avevano abbastanza di quella ragazzina di soli quindici anni, che metteva in discus-sione i principi del loro integralismo. Così la seguirono, salirono sul suo pul-mino che doveva riportarla a casa da scuola e le spararono un colpo alla tes-ta, ferendo lei e una sua compagna. Il mondo però non stette a guardare ma reagì: venne trasportata nell’ospedale di Birmingham in Gran Bretagna, dove è stata seguita in lungo proces-so di guarigione. Decine di migliaia di persone firmarono una petizione per assegnarle il nobel per la pace. Pensarono di poterla fermare con quel colpo, ma è stata ella stessa a dire - nel suo discorso all’ONU lo scorso lug-lio - che anziché timore e paura, da quel colpo sono nati coraggio, forza e

energia. Questo dieci novembre sarà il secondo ‘’Malala Day’’ osservato per ricordare gli sforzi internazionali per garantire l’istruzione a tutti e a tutte. Di questo giorno la ragazza, ormai sedicenne la pensa così: “Cari fra-telli e sorelle, ricordiamo una cosa: il Malala Day non è il mio giorno. Oggi è il giorno di ogni donna, ogni ragazzo e ogni ragazza che hanno alzato la voce per i loro diritti.’’ Nel mondo ci sono ancora 61 milioni di bambini che non vanno a scuola, 32 dei quali femmine. Questo è dovuto in alcuni paesi al divario tra i sessi che si allarga al momento della pubertà: l’adolescenza è il momento in cui i maschi scoprono l’indipendenza e le femmine la perdono. Per gli uni il mondo si apre, per le altre si chiude. Si potrebbe dire anzi che per molte bambine l’adolescenza neppure esis-ta: ieri bambina, oggi sposa e domani madre. Non ci resta quindi che sperare che le voci di ogni ragazzo e ragazza che urlano al mondo i loro diritti non si spengano mai e che siano ascoltate.

malala day« Non mi importa se a scuola mi fanno sedere per terra.Tutto ciò che mi interessa è ricevere un’educazione. E non ho paura di nessuno. »di Alessia Tesio

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I10

Welcome every-body! We are F&B, che per gli appas-sionati di Topolino potrebbe essere Filo&Brigitta, ma vi

dico subito che non si tratta di quello. Infatti, siamo Fra&Bianca, due ra-gazze che hanno vissuto quest’anno l’ebbrezza di partecipare allo stage linguistico in Inghilterra, proposto dalla nostra scuola. Abbiamo avuto il grande onore di avere come accom-pagnatori la professoressa Alessandra Frigerio e…., rullo di tamburi, il prof. Giuseppe Russo: la prima, per chi non la conoscesse, è una prof d’inglese che ha sempre partecipato a questi stage, il secondo, la novità di quest’anno, è un valente insegnante di scienze che, parlando un ottimo inglese, ha saputo benissimo gestire la situazione oltre che imparare a giocare a bowling e a travestirsi da crocerossina (sono in vendita le foto al miglior offerente). Con loro abbiamo trascorso dieci gior-ni densi di emozioni, sia positive che negative, abbiamo imparato a collab-orare gli uni con gli altri, a stringere amicizie con persone che ti accetta-no così come sei, siamo diventati un gruppo e per altri qualcosa di più, ma abbiamo anche imparato che, se non hai 18 anni, in Inghilterra non ti danno un solo goccio di alcolico: nemmeno la birra. Io, Francesca, l’ho sperimentato a mie spese. Accade che, nel giorno di venerdì 13, usciamo a cena, visto che le nostre famiglie ci lasciano affamati; alla piz-zeria d’asporto Domino’s ordiniamo, ovviamente, delle pizze. Nel frattem-po, io e un altro ragazzo del gruppo entriamo da Tesco, equivalente del Conad italiano, per comprare delle birre. Appena entrati, ci dirigiamo verso il reparto alcolici. Arrivati in cassa la signora chiede il documento al mio amico, maggiorenne, e dopo averlo visionato, si rivolge a me e chiedendomi la mia “ID card”. Io non ho con me il documento e, pensando che basti quello del ragazzo, spiego

alla cassiera che l’ho solo accompa-gnato e che le birre sono tutte per lui. A quel punto mi domanda l’età e le rispondo “quasi diciotto”. Im-perturbabile mi informa che, anche se io sono con un maggiorenne, ma non ho la carta d’identità, non pos-siamo comprare le birre. Non ci resta nient’altro che andarcene. Usciamo e raggiungiamo gli altri. Ma la storia non finisce qui…La sera seguente ci si ritrova al “car park”, il nostro punto di incontro. La serata sta volgendo al termine e un nostro amico aspetta l’autobus per tornare a casa, ma lo perde. Chiama pertanto la sua mamma inglese, che arriva, lo fa salire in macchina e com-incia a fissare me e i miei amici. Mi chiede di avvicinarmi, io non capisco e mi guardo intorno perplessa. Inizia a chiedermi quanti anni ho: le rispon-do “quasi diciotto” mentre tra me e me mi domando cosa diavolo voglia questa signora. Ma è lei stessa che mi rivela l’arcano mistero. Mi chiede se sono io la ragazza ad aver tentato, il giorno prima, di comprare la birra senza documento e senza essere mag-giorenne. Le rispondo affermativa-mente e a quel punto riconosco in lei la cassiera del Tesco. Così mi becco un’inglese che mi fa il terzo grado sul perché ho tentato di acquistare un’innocua birra. Bla bla bla, non importa se siamo in Italia o in Ing-hilterra c’è sempre qualcuno che fa la ramanzina. Come se non bastasse, due giorni dopo, prendiamo il pullman per andare in gita e chi vedo scendere da una macchina? Mi dicono che è la

“Director of Concorde International”, la nostra scuola, ma io vedo in lei solo la signora che tre giorni prima mi ha negato la birra e quello dopo mi ha fatto il terzo grado. Ecco come farsi riconoscere all’estero!Ma è anche vero che lì esistono luoghi che in Italia non ci sogniamo neanche. Sì, amici lettori, e soprattutto, ami-ci di Cantabbari (forma italianizzata di Canterbury) che state leggendo questo articolo, sto parlando proprio di Poundland, il paese dei balocchi, il posto in cui i sogni diventano re-altà: tutti i generi alimentari e altre sciocchezze a solo £1.00. Anche lì ci siamo fatti riconoscere come italiani all’estero e abbiamo arraffato tutto ciò che ci sembrava carino da com-prare, cioè tutto il negozio. Il nostro è stato un atto di pura necessità pri-mordiale: i packed lunch erano molto scarsi e avevamo spesso fame: Pound-land era lo shop adatto alle nostre esigenze. Gli acquisti più frequenti sono stati, infatti, Twix, Mars, chips e caramelle, di quelle che, se mangiate tutti i giorni, rischiano di farti diven-tare obeso. Naturalmente, oltre a queste divert-enti vicende, abbiamo anche studiato un po’ d’inglese, grazie alle memora-bili lezioni dei nostri insegnanti John e Hendrick.Certo, l’Inghilterra è un paese strava-gante: i nostri “genitori” inglesi erano convinti che un hamburger potesse sostituire la cena, oppure facevano abbinamenti improbabili come fagioli e ketchup. Paese che vai... usanza che trovi!

canterbury talesdi Francesca Petrella e Bianca Carnesale

cronache carducciane

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile 11

Si è aperto così questo pri-mo mese autunnale, con la quarta edizione della “Settimana della Comuni-cazione”. Un evento che si ripete ogni anno, riveland-

osi sempre interessante perché ricca fonte di informazioni e spunti per giovani e adulti. Dal 30 settembre al 6 ottobre Milano si è messa a dispo-sizione dei suoi cittadini fornendo vari spazi, gestiti da Fondazione Milano e adibiti ad accogliere mostre, pre-sentazioni, lezioni aperte, workshop, dibattiti e molti altri eventi, tutti gratuiti, inerenti al mondo della co-municazione nelle sue varie forme. Questa manifestazione culturale vuole essere un mezzo utile non solo alla formazione intellettuale e all’ampliamento della propria cultura nel campo della comunicazione, set-tore che muta e rimane uguale allo stesso tempo, ma vuol anche fornire a noi giovani strumenti concreti per le scelte lavorative future. A tal proposito la “Settimana della Co-municazione” è decollata favorendo studenti liceali e universitari, con un evento finalizzato all’orientamento sulle professioni tradizionali della co-municazione, quali marketing, pub-blicità e graphic design. Dei comp-lessivi 100 appuntamenti tenuti da professionisti del settore ricordo il workshop sul significato della tra-duzione nella quotidianità; un corso di approfondimento sul senso della

parole e sul loro significato, con-nesso all’interpretazione che ne dà l’uomo. Tale iniziativa, in collabo-razione con varie accademie, scuole e aziende italiane, ha fornito anche l’opportunità di visitare redazioni di diverse copertine. Così spazi privati e comunali aprono ogni anno le porte a coloro che de-siderano partecipare ad un’iniziativa creativa, diversa e poco pubblicizzata rispetto a numerosi altri eventi che, come la settimana della moda, attira-no molto di più l’interesse dei media. Il clima che si respira partecipando agli incontri è confidenziale dal mo-mento che vi è grande apertura al dialogo e al confronto. Allo stesso tempo, i temi trattati sono curati da chi fa della comunicazione il proprio mestiere, perciò è necessario che i partecipanti abbiano sufficienti com-petenze a riguardo. Il risultato è la scoperta dei signifi-cati più profondi che il termine co-municazione possiede, oltre a quello più immediato. Lo si fa partendo dal presupposto che indubbiamente si comunica con le parole, ma queste hanno diverse accezioni, possono es-sere intese in modi differenti a sec-onda dei vari significati, quindi la loro scelta nel comunicare,come nel tradurre, è una scelta coraggiosa. E così secondo la teoria affettiva nella comunicazione e nella tra-duzione adoperiamo parole a cui

siamo più legati, che rimangono fisse nella nostra mente e ci con-dizionano inconsciamente nella vita. Queste sono sommarie nozioni ri-cavate dai pensieri di filosofi qua-li Peirce e Kant, ma fanno riflet-tere sull’importanza del valore della comunicazione, su quanto non sia da sottovalutarne lo studio e l’approfondimento per capire i com-portamenti della società. E come ci viene indicato dalla scelta della co-pertina di questo evento, le modalità dello scambio continuo di messaggi di cui sono artefici gli esseri umani ,“Gli animali comunicanti per eccel-lenza”, trovano le loro fondamenta nella comunicazione animalesca, nel recupero della vera natura dell’uomo. Come se il messaggio che noi meglio riusciamo a cogliere ed apprezzare sia quello che fa leva sugli istinti animali.Oltre ad essere un modo piacevole per trascorrere un pomeriggio in-solito nell’atmosfera ancora mite e soleggiata dei primi di Ottobre, gi-rando per luoghi che, poco frequen-tati nella quotidianità, possono essere riscoperti, è soprattutto l’occasione per cogliere al volo le opportunità di una Milano, che ogni anno, anche con questo evento, mostra che ha molto da offrire a chi ne sa approfittare.

la settimana della comunicazionedi Martina Locatelli

cultura

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I12

Quando sono arrivata il primo giorno non mi as-pettavo nulla da quel posto per me sconosciu-to e di cui mai mi sarei interessata, se mio pa-

dre non me ne avesse parlato.Appena giunta ho trovato un ambi-ente alquanto movimentato; la zona dell’accoglienza, della chiesa, era piena di persone in visita. Tanto era disteso, animato, persino familiare quel clima, che mai avrei detto che quello era un monastero. Mi accolsero un monaco e una monaca dall’aspetto divertito e simpatico. Essi si rivolsero a me con una semplicità, una natu-ralezza, un interesse genuino, tali che io subito (di questo me ne accorsi rip-ensandoci) mi sentii a casa.Ed è così che ha avuto inizio una delle esperienze, se non la esperienza, che più profondamente ha scosso, e spero segnato, la mia vita.Io forse dall’esterno non appaio diver-sa da quella che sono sempre stata, eppure sono consapevole ch’è in me il principio di un cambiamento, di un percorso. E sento davvero il bisogno di raccontare, di condividere con gli altri ciò che ha messo, per così dire,

in moto questo cambiamento.Ho vissuto nel Monastero di Bose tre settimane in tutto, partecipando a due campi-lavoro per giovani in giugno e luglio e, in agosto, alla cosiddetta settimana dei giovani: una settimana di incontri tenuti da un monaco e un filosofo sul tema “Crescere in Uman-ità”. L’esperienza del campo-lavoro mi ha davvero permesso di partecipare alla vita della comunità, condividendo sia il momento spirituale, la preghiera, sia il lavoro. La mattina mi alzavo alle cinque e mezza per la le lodi del mat-tino delle sei. Dopo la preghiera la colazione si faceva insieme agli altri ospiti (giovani che, come me parteci-pavano al campo, ma anche persone di tutt’altro genere, ch’erano li per un ritiro spirituale o per dei corsi bib-lici). Alle otto iniziava il lavoro. Non-ostante molti siano i tipi di lavoro che i monaci svolgono, a livello profes-sionale, erano principalmente tre gli ambiti in cui noi giovani eravamo chi-amati ad aiutare: l’orto, il frutteto e il laboratorio in cui venivano lavorati i frutti per la produzione di marmel-late e confetture. Tra le dodoci e le

dodici e mezza si finiva di lavorare per la preghiera di mezzogiorno; all’una si pranzava insieme con i monaci. Su-bito dopo questi tornavano al lavoro fino alle cinque o alle sei, mentre noi ospiti ne eravamo esentati. Per chi volesse alle cinque c’era un incontro su un qualche tema, oppure una lec-tio divina. Alle sei e mezzo, il vespro, la preghiera della sera, seguita dalla cena in comunità.Come vedete la vita è molto cadenza-ta, molto ordinata e asseconda i ritmi della natura. Forse, penserete,che monotonia! Anch’io lo pensavo, ma, vi assicuro, non è affatto così.

Il silenzio, la pace, la bellezza della natura incontaminata, l’ordine: tutto ciò ci aiuta a pensare. Dapprima il silenzio ci spaventa e ci coglie im-preparati: i pensieri ci assalgono in folla, caotici. Ma poi, a poco a poco, troviamo un ordine, un equilibrio. La nostra mente si libera di tutto ciò ch’è superfluo; tutti quei pensieri che sem-bravano così importanti scompaiono, naturalmente, e ci rivolgiamo a ciò ch’è di più profondo in noi: noi stessi, la nostra verità. E allora scopriamo che in realtà noi non ci conosciamo,

Pensieri di bose:

di Beatrice Servadio

Vita in un monastero

cultura

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile 13

non sappiamo davvero chi siamo e perché siamo. Ci chiediamo: fino a questo momento della mia vita sono stata davvero io? Quante volte nella mia vita quotidiana mi sono fermata a pensare: chi sono? La nostra società, il mondo che l’uomo occidentale è ar-rivato a crearsi, il mondo in cui siamo nati e cresciuti, un mondo frenetico, dove sembra sempre mancare il tem-po, in cui siamo sempre di corsa e pi-eni di affanni, non ci dà l’opportunità di fermarci a pensare, a indagare den-tro di noi, a trovare noi stessi. Vedete, questo l’ho scoperto a Bose: perchè lì si è liberi di essere se stessi, paradossalmente liberi e costretti, in-evitabilmente portati ad essere veri, a cercarci, a volerci cercare. Lì davvero si scopre che l’uomo è una creatura meravigliosa. Lì vedi l’uomo, la donna veri, l’uomo, la donna buoni. E stando lì con loro è più facile essere buoni: proprio perché sei portato ad essere te stesso davvero e sei circondato da persone che sono o ricercano se stessi e il vero, e quindi sei buono. E sco-pri che il vero te stesso è il te stesso buono. Che l’uomo dunque è intima-mente buono; e che la cattiveria è

una maschera, è una menzogna, è un fuorviamento. Cattivo è l’uomo che non si è trovato, che non è arrivato a conoscersi.Ed è questo che tanto mi manca di Bose: il rinnovo quotidiano di questa ricerca del vero, del buono; il rinnovo della ricerca di se stessi, e dell’altro; la semplicità della vita, e quindi la sua essenzialità, la sua autenticità. Par-lare con i fratelli e le sorelle e sentire che non ti giudicano, come con vera gioia e semplicità ti accolgono, la-vorare, pregare con loro e sentire come sono profondamente autentici in tutto ciò che fanno. Sentirti davve-ro prossimo all’altro, sentirti vivo fino dentro nella tua essenza, e amato, ma soprattutto amare. Scoprire che la fe-licità sta nella semplicità della vita, e nella sua autenticità. E cosa di più semplici che essere se stessi?Eppure nel nostro complicato mondo questo è quanto mai difficile. Sp-esso le situazioni in cui ci troviamo, l’insicurezza, il giudizio degli altri, ci obbligano a indossare una maschera. Ma questo a cosa ci porta ? Alla fal-sità: falsi diventano i nostri rapporti con gli altri, e soprattutto falsi di-ventiamo noi. E il rischio più grande

è che indossiamo la maschera senza accorgercene e non ci prendiamo la briga di levarcela, e così il nostro se stesso si confonde con essa, e arrivi-amo a smarrire la nostra identità, o, meglio, a pensare che noi siamo la nostra maschera. Ebbene a Bose non c’è maschera che tenga: lì sei indot-to a spogliarti di tutti gli schermi e i falsi tu che ti eri creato, e che magari anche l’esterno giudizio altrui aveva contribuito a creare, e rimane il tu au-tentico. E cosa scopriamo? Che questo tu autentico per tutto questo tempo l’abbiamo lascito da parte e solo rare volte lo abbiamo aiutato a crescere e a formarsi.Ecco a Bose ho cominciato questo per-corso di ricerca, di me stessa, degli altri, di Dio, in me, negli altri.Parlo da cristiana, ma ho conosciuto a Bose giovani e adulti non credenti per i quali la permanenza in questo luogo ha avuto un forte impatto. E invero, io credo, tutti noi uomini, cristiani e non, tendiamo naturalmente alla ricerca del Vero, ch’è in noi stessi e nell’altro. In Dio cerchiamo la verità, in Dio cerchiamo l’uomo.

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I14

Tratto da una storia vera, girato negli USA nel 2013, Bling Ring è un film prodotto, scritto e diret-

to da Sofia Coppola, figlia del celebre regista Francis Ford Coppola, ambien-tato nei quartieri ricchi di Los Angeles. Con uno sguardo che non giudica, ma che induce a riflettere, la regista ba-sandosi sull’articolo di Nancy Jo Sales, pubblicato nel 2010 su Vanity Fair “I sospetti indossavano Loiboutins”, racconta la storia paradossale di quat-tro ragazze e un ragazzo. Nicki, Sam, Marc, Chloe e Rebecca compiono nu-merosi furti nelle mega ville e nelle auto dei vip: sono ribattezzati dal Di-partimento di polizia di Los Angeles “i

Bling Ring”, ger-galmente “bril-lante” o letteral-mente “banda del ninnolo”. I ragazzi, osses-sionati dalle ce-lebrità, scoprono gli indirizzi delle star e i loro im-pegni tramite siti web. I vip rapi-nati non si accor-gono neanche dei furti: Paris Hilton impiega quasi un anno a real-izzare di essere stata derubata, dopo aver subito ben otto visite. La smisurata ric-chezza delle vit-time le porta a non far neppure caso a ciò che possiedono, tanto da lasciare le chi-avi di casa sotto

lo zerbino, le macchine aperte e non ricorrere ad alcun sistema di allarme. Tali situazioni sono parse irreali alla critica e al pubblico, ma si sono real-mente verificate, a dimostrazione che per questi vip gli oggetti posseduti sono solo il segno ostentato di fama e di ricchezza. Le foto pubblicate sui social network, ricorrenti quanto le lunghe sequenze di oggetti firma-ti, mostrano quanto sia importante l’apparenza per i protagonisti che de-siderano omologarsi al mondo mostra-togli dai media. Del tutto inconsci delle proprie azioni e della vacuità dei miti da loro inseguiti, ai ragazzi non basta vedere come vivono i vip:

vogliono essere come loro.Dopo l’arresto i ragazzi si accusano a vicenda. Nicki, interpretata da Emma Watson, che affianca attori esordienti e sconosciuti, diventa famosa proprio per aver partecipato ai furti, tanto da dichiarare di potere “magari un gior-no diventare presidente.” Colpisce poi una frase di Marc: “L’America ha un fascino perverso per le storie alla Bonnie e Clyde”: ma qui si ruba per noia e non per ribellione e si finisce sui network e non morti ammazzati.Le inquadrature sono veloci, accom-pagnate da un’efficace colonna sono-ra, frammentate dai post su facebook e da brevi pezzi di interviste e inter-rogatori, che inizialmente risultano difficili da comprendere, ma che aiu-tano a cogliere il finale della vicenda. Gli adulti non compaiono quasi mai, ma quando ci sono rappresentano un pessimo esempio per i ragazzi e si comprende la loro superficialità, la loro assenza di ambizioni, quasi fos-sero privi di un’anima, eppure peri-colosi come una pistola senza sicura, proprio come quella che trovano in casa di una star. Sono burattini nelle mani di un bu-rattinaio, che ha costruito un mondo finto in cui a prevalere è solo il vuoto dell’apparenza, purché firmata. Noi questo vorremmo sottolineare: non siamo tutti così, non siamo tutti vit-time di questo sistema, molti di noi del gossip, delle firme, delle notizie sulle star non sa che farsene. Che il film irriti tanto la critica, forse dipende anche da questo, da un senso di fallimento di chi vede, e non vuol credere, di non aver saputo fermare questa discesa verso un grande real-ity. Guardatelo questo film, e pensate che è realtà: non la nostra, non la vostra, ma di tanti, forse di troppi.

di Bianca Carnesale e Alice de Kormotzij

the bling ring

In questa rubrica ci occuperemo tutto l’anno di cinema. Speriamo che in tanti vogliano dare suggerimenti su film nuovi o storici o semplicemente amati.Permettetemi un’osservazione personale. Nel 1994 usciva il film di Gianni Amelio Lamerica, sull’Albania che sog-

nava l’Italia come riscatto dalla miseria. Nella scena finale i migranti scrutavano il mare su un barcone carico e fatiscente, cercando di vedere la loro “Lamerica”. E’ di questi giorni la notizia delle centinaia di morti a pochi chilo-metri dalle coste di Lampedusa, in un viaggio che ci si ostina a chiamare della speranza. Il mare è pieno di morti – hanno detto dalla capitaneria. A noi resta solo la vergogna, perché non si parta più con uno sguardo pieno di speranza e un animo carico di disperazione per andare incontro alla morte. - Bianca Carnesale

INGLORIOUS REVIEWERS

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile 15

Tutto inizia in una fredda gior-nata, tra tuoni e saette, in uno spazio desolato e sullo sfondo

una natura fatiscente. Tranquilli, non sto parlando del primo giorno di scuo-la, non voglio terrorizzarvi, anzi, vor-rei introdurvi nella stuzzicante e af-fascinante atmosfera di “Frankenstein junior”, un film che ci ha fatto, ci fa e ci farà sempre sbellicare dalle risate. È una versione riadattata del romanzo di Mary Shelley, “Frankenstein”. La regia è di un inedito Mel Brooks che da abile Mangiafuoco ha saputo manovra-re come marionette gli attori Gene Wilder e Marty Feldman in questo film comico-parodico. Siamo nell’America degli anni trenta: un giovane profes-sore universitario, interpretato da Gene Wilder, sta tenendo una lezione ai suoi allievi, quando giunge un uomo con una lettera che desta la sua curiosità. A lezione terminata, i due vengono a colloquio e qui si chiariscono gli inter-rogativi dello spettatore: il profes-sore è nientemeno che il nipote del tristemente famoso barone Victor von Frankenstein, mentre l’uomo della lettera è un notaio che gli comunica il testamento di suo nonno. Il buon

Frederick ha infatti ereditato il cas-tello di famiglia in Romania e da qui il destino del nostro uomo è segnato. Arrivato in Romania, il protagonista conosce l’affascinante assistente Inga, interpretata da Teri Garr, e gli altri ab-itanti del castello, come Frau Blucher, impersonata da Cloris Leachman, il cui nome, ogniqualvolta viene pronun-ciato, fa scaturire nel film un nitrito di cavalli, e come l’esilarante person-aggio che tutti noi conosciamo come Aigor, interpretato da Marty Feldman. La storia narra di come Frederick tro-va gli appunti di suo nonno e decide di seguire le sue orme, dando così vita alla Creatura, un essere nato dal corpo di un morto e dal cervello di un pazzo. Alla fine il frutto delle ricerche e de-gli esperimenti del dottor Franken-stin - così si fa chiamare Frederick - è una Creatura socialmente pericolosa e mentalmente instabile; appena la popolazione lo scopre cerca di rep-rimere l’esperimento del dottore. Ma ecco il colpo di scena: il dottor Frankenstin cede il suo cervello alla Creatura, che diventa così un es-sere intelligente, mentre Frederick,

che sembra morto, poi si riprende. Il finale non può essere che lieto: Frankenstein sposa la fedele as-sistente Inga e contemporaneamente assistiamo alle nozze della Creatura, ormai parte integrante della soci-età, con la ex fidanzata del dottore, Elizabeth, interpretata da Made-leine Kahn. Sembra quasi una delle favole Disney, ma questa volta in compagnia delle principesse c’è una sorta di orco buono: la Creatura. Ma non dimentichiamo il buon vecchio Aigor, che sforna battute esilaranti nel corso di tutto il film: celeberrima quel-la in cui il dr Frankenstin nota la gobba sulla schiena del suo assistente: “Sa, sono un chirurgo di una certa fama. Magari potrei fare qualcosa, qualco-sa… per la sua gobba”. Aigor lo guarda come stralunato e risponde: “Gobba, quale gobba?”. Scene comiche a non finire, con allusioni e fraintendimenti. Il film ha una sua morale: a volte la diversità non deve essere percepita come un difetto, ma può diventare un pregio. E’ una storia che vi tiene incollati allo schermo: 106 minuti di risate che ve la renderanno indimen-ticabile!

di Francesca Petrella

Frankenstein Junior

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I16

Hushpuppy ha sei anni e vive in una roulotte situata in una palude nel sud del Louisiana che

si chiama Bathtub (la grande vasca), località dove si verificano spesso cicloni e inondazioni. Ma la bambina affronta queste avversità in una mani-era diversa da come le vediamo noi. Quelle che per noi sarebbero catastro-fi naturali difficile da affrontare, per la bambina sono avvenimenti della vita di tutti i giorni, contro i quali se non si combatte, semplicemente si soccombe. Naturalmente non è da sola, ha un padre che prova per lei un affetto smisurato, ma che sa es-sere anche rude e distaccato, tanto da vivere lontano dalla figlia. Più avanti nel film quando lui si ammalerà gravemente e verrà ricoverato in un ospedale lontano da lei, si comprende che il suo fare brusco e poco amorev-ole è mirato a temprare l’animo della figlia in un ambiente così complicato. Hanno una parte fondamentale nel film gli Aurochs, creature preistoriche che nella mente di Hushpuppy la perseguitano, ma nei confronti dei quali lei non deve mostrarsi debole perché altrimenti verrebbe uccisa. Il messaggio principale che il film cerca di comunicarci è la maniera in cui gli abitanti della Bathtub vivono, coraggiosamente e con gioia pur sa-

pendo di abitare in una zona del pi-aneta destinata ad essere distrutta in poco tempo. Quella degli Aurochs è una metafora nella quale le creature rappresentano la natura, qualcosa di enorme che può schiacciare l’uomo senza difficoltà, ma con la quale è possibile una conciliazione. Nel finale Hushpuppy dovrà scegliere se stare con la natura o contro di essa.La realizzazione del film è stata mol-to particolare, a partire della scelta del cast. Nessuno degli attori scelti è un professionista, e molti di coloro che si erano presentati incuriositi alle audizioni provenivano da New Orleans o da zone del bayou (zone come quelle abitate dalla protagoni-sta del film). Ad esempio Hushpuppy (interpretata da Quvenzhané Wallis), è stata scelta dopo un lungo casting durato nove mesi tra quattromila con-correnti, non solo per le sue naturali doti recitative e per il suo fare profes-sionale, ma anche per la somiglianza caratteriale con il personaggio che doveva interpretare. Stesso discorso per l’uomo che avrebbe interpretato suo padre (Dwight Henry), il quale gestiva la panetteria di fronte alla scuola dove si tenevano le audizioni e che, pur non avendo particolari doti recitative, aveva colpito i produttori per le straordinarie storie che raccon-

tava riguardo a New Orleans in seguito all’uragano Katrina.Così il giovane regista esordiente Benh Zeitlin ha scelto gli attori che avrebbero avuto delle parti rilevanti, cercando quelli che riproducevano meglio lo spirito dei personaggi. Zeit-lin ha tratto l’idea di produrre questo film da un romanzo scritto da una sua amica d’infanzia, la scrittrice Lucy Alibar, da cui è tratto il filo principale della trama. La realizzazione stessa del film ha contribuito ad arricchire la trama, a causa di tutte le fatiche e imprevisti che si sono verificati di continuo du-rante le riprese, come il clima umi-do, l’infortunio di un attore, la per-dita della voce dell’altro, o ancora l’esplosione di un attrezzo al momen-to sbagliato. Produzione inoltre fatta con un budg-et molto limitato, fattore che con-tribuisce a definire questo film un “miracolo cinematografico.” Infatti, “Re delle terre selvagge” senza cast stellari o budget vertiginosi è arri-vato a candidarsi a ben quattro nomi-nation agli oscar: miglior film, regia, sceneggiatura, e migliore attrice pro-tagonista.

re della terra selvaggia

di Cleo Bissong

INGLORIOUS REVIEWERS

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile 17

Esistono molte forme d’arte. A partire da quelle più antiche, come la pittura o la musica, fino

ad arrivare alle più recenti, come la fotografia o il cinema. Il concetto di arte non è fisso, è mutato nel corso della storia, e non sempre tutti sono stati d’accordo su cosa davvero si potesse definire “arte”. Per i greci l’astronomia e la storia erano imper-sonate da due muse, mentre oggi le definiamo discipline tutt’altro che artistiche. Anche diverse branche della stessa materia possono essere considerate o no come forme d’arte. Il cinema, ad esempio. Parte della cinematografia nata per intrattenere i bambini spesso è considerata solo an-imazione, con pochissime eccezioni. Una di queste è quella rappresentata dal grande regista Hayao Miyazaki. Un’eccezione, perché i suoi lavori sono stati in più occasioni considerati veri e propri capolavori artistici. Sarà per le riflessioni a cui inducono i suoi film, sarà per gli ideali, le tematiche ricor-renti presenti nei lungometraggi, la poesia, contenuta nei dialoghi e nelle immagini: una cosa è certa, i suoi non possono essere banalmente defini-

ti “cartoni animati per bambini”. La ragione sta forse nel fatto che non sempre la fantasia del regista, così simile a quella di un bambino, è tranquilla e spensierata, e spesso spaventa chi è ancora molto sensibile alla forza delle immagini. D’altronde, chi non si è inquietato vedendo, ne “La città incantata” i genitori di Chi-hiro trasformarsi in maiali? Ma sta anche nel fatto che definirli solo car-toni li escluderebbe dal mondo de-gli adulti, cui invece sono destinati molti messaggi contenuti nei film. Il maestro Miyazaki inserisce spesso alcuni temi ricorrenti nei lungome-traggi. Ad esempio il suo odio per la guerra è sempre ribadito, nelle sue varie forme: ne “Il castello errante di Howl” si parla della guerra tra uomini, ne “La principessa Mononoke“ di quella tra uomo e natura. È pre-sente anche in “Nausicaä della valle del vento“, in “Porco Rosso” e in altri. Un altro tema ricorrente è quello del volo. Hayao Miyazaki vi è stato a con-tatto sin da piccolo, poiché il padre possedeva una fabbrica di componenti per aerei. L’argomento, infatti, è af-frontato in tutte le sue forme: a par-

tire dai voli di fantasia, a cui siamo abituati sin da bambini, fino all’azione vera e propria del volare, con un ve-livolo o con il solo ausilio della magia. Attorno a questa tematica ha rica-mato due suoi film. Il primo è “Porco Rosso“, in cui si narra delle avventure di un maiale (divenuto tale a causa di un sortilegio non meglio specificato) che vaga per i cieli tra la prima e la seconda guerra mondiale. Il secondo è “Si alza il vento”, che racconta la vita di Jiro Hirikoshi, progettista dei temutissimi Mitsubishi AM6 Zero, im-piegati per l’attacco di Pearl Harbor durante la Seconda Guerra Mondiale. È proprio con quest’ultimo film, pre-sentato al festival di Venezia, in cui tutta la poesia e la fantasia di Jiro e Miyazaki sono simboleggiate dal volo, che il grande regista annuncia il suo ritiro dal mondo del cinema. È stato un duro colpo per tutti i suoi fan, che presenti al festival hanno udito le pa-role di Miyazaki attraverso Koji Ho-shino, presidente dello studio Ghibli. E così, come sempre sulle note di Joe Hisaishi, sfuma dallo schermo anche l’ultimo capolavoro, in un turbinio di ali, speranza e fantasia.

l’addio del maestro

di Beatrice Penzo

Dopo quarant’anni di carriera artistica e undici film il regista giapponese abbandona il cinema. I suoi capolavori hanno raccontato la guerra, l’infanzia, il dolore. Ma guai a chiamarli ‘cartoni’.

18 L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

“Seduto in riva al mare/sotto le stelle paterne/io sono triste pensando/alla lontana gioventù/alla perduta gio-ventù/lassù a Milano. Tanti anni sono passati/ i volti i nomi le immagini/ sono appassiti ormai/ ma batte il cuore se torna/ il ricordo di tutti più caro/ la Galleria.Là sotto la gelida cupola/ in una notte di Novembre/mentre giravo felice/con le stanche speranze e basta,/mi ricordo all’improvviso/ho incontrato la vera Milano.” (da “Galleria” di Dino Buzzati)

Non potevo davvero sperare in nulla di meglio di questi versi del grande Dino Buzza-ti per inaugurare la rubrica su Milano che quest’anno occuperà il suo angolino

all’interno dell’Oblò. L’idea è nata cas-ualmente, una sera, quando insieme ad alcuni amici ci siamo ritrovati sotto l’immenso portale del Duomo per ini-ziare un’escursione notturna alla sco-perta di Milano. Volevamo passeggiare attraverso i suoi vicoli più nascosti e suggestivi, fra i suoi antichi e lussuosis-simi palazzi, che ogni giorno sfuggono al nostro occhio stanco e disattento, of-fuscato dalla nostra proverbiale fretta! Ed è un peccato, ve lo assicuro. Perché non appena ci si sofferma un attimo ad osservare, ecco comparire scorci merav-igliosi, particolari mai visti, fregi, corni-cioni, cariatidi, giardini, chiese, colori, luci, simmetrie che non avremmo nem-meno osato immaginare e che dopotut-

to, dopo tutti i casermoni di cemento e il traffico delirante, sembrano restituire un sorriso fresco alla burbera e indif-ferente città; sono quegli elementi che le regalano una passionale atmosfera e che colorano un po’ del suo eterno gri-giume. Basta riposarvi gli occhi sopra. E allora anche la coltre di nebbia diven-ta d’un tratto vivibile. D’altra parte, Milano io non riesco a immaginarla in altro modo: umida e fumosa, popolata da un turbinio di persone che corrono, urtandosi, da una parte all’altra, rumor-osa e vociante, vivace, trafficata, scal-pitante, illuminata dal bagliore delle luccicanti vetrine, dai bar, dai caffè. Non è una città di quiete, eppure la sua frenesia è bella, è vibrante e carica di energia. Da qui, il passo al caos totale è breve, ma proprio per questo è impor-tante imparare a vivere in sintonia con la città, scoprirla nei suoi piccoli sprazzi di grande bellezza: per capire che, in sé, non è un mostro, bensì un luogo per il quale da anni transitano personaggi sommi, un cuore pulsante nella storia.Ecco dunque che subentra il mio prop-osito: di volta in volta vorrei raccontarvi due, tre, quattro luoghi più o meno ig-noti di Milano e tuttavia meravigliosi, sperando di indurvi a recarvici di per-sona per rimanere anche voi almeno piacevolmente sorpresi...o, con un po’ di sensibilità, letteralmente incantati. In aggiunta selezionerò, tra le numer-ose composte, una poesia dedicata a Milano, città che incantò i poeti di altre generazioni.

Villa Reale - A voi nèpioi che pensate si tratti di Palazzo Reale dirò subito che non è così. Villa Reale, infatti, si af-faccia su Via Palestro e guarda sul lato meridionale dei Giardini di P.ta Venezia, ragion per cui, forse, è così “snobbata” dai più. Oggi la Villa è sede della ric-chissima Galleria d’Arte Moderna, ma attenzione a non confonderla con il PAC (Padiglione d’Arte Contemporanea), os-pitato nel più moderno edificio sorto ac-canto alla Villa. Costruita tra il 1790 e il 1793 su richiesta del conte Ludovico di Belgiojoso (da qui anche il nome di Villa Belgiojoso), opera dell’architetto Lepold Pollack, allievo del celebre Piermarini, l’edificio codifica perfetta-mente lo stile neoclassico assai in voga a fine ‘700. La facciata frontale ci ap-pare sobria ma elegante ed è la fac-ciata posteriore a riservarci la sorpresa più grande. Penetrando all’interno dei Giardini della Villa, infatti, il cui in-gresso è situato appena sulla sinistra rispetto alla facciata, ci si trova sul ret-ro dell’edificio, assai sontuoso e ricca-mente decorato con statue, bassorilievi, semicolonne. La bellezza della facciata nel suo insieme è mozzafiato, soprat-tutto se, bianchissima, si staglia contro l’azzurro di un cielo estivo (ormai lon-tano...). Interessante, poi, è prestare attenzione ai bassorilievi che decorano i timpani degli avancorpi laterali, quello di destra rappresentante il Carro di Apollo, quello di sinistra il Carro di Di-ana; più piccole, corrono lungo tutta la facciata raffigurazioni tratte dalle Met-amorfosi di Ovidio. Incantata è anche l’atmosfera dell’intero giardino, pro-gettato dallo stesso Pollack per la prima volta su modello dei giardini inglesi: le piante crescono rigogliose qua e là seg-uendo in apparenza il loro corso natu-rale; un piccolo ruscello ricco di fauna scorre placido fra i prati e le alture e i ponticelli che lo sormontano conducono alle panchine più appartate; i vialetti si intrecciano lungo le rive fino a giungere al piccolo tempietto o alle finte rovine che furono collocate nel giardino, dove ancora sono leggibili due incisioni tratte dal X e dal VI libro dell’Eneide. Il giardi-no, nel complesso, costituisce una vera e propria oasi di pace, dove i suoni del-la città scompaiono d’incanto e si può trovare un dolce, e un po’ malinconico,

cantaMI LA NOstra città, o Musa...di Martina Brandi

arte

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile 19

momento di raccoglimento in se stessi. Silenziosi e meditativi, si ergono in un angolo del parco anche i Sette Savi di Fausto Melotti, le bianche statue che lo scultore lasciò in dono, oggi di proprietà del Museo del Novecento.Ma la Villa è meravigliosa all’esterno tanto quan-to all’interno. Per ac-cedervi è necessario tornare sul davanti e attraversare il portone principale d’ingresso; esso costituisce anche l’ingresso alla Galleria d’Arte, che è possibile visitare, incredibile dictu, gratuitamente. Si dirama, così, fra le sale della Villa, ancora ornate da sfarzosissimi specchi e lampadari, pa-reti color pastello e par-quet a intarsio, una vastis-sima collezione di quadri e statue dal valore incommensura-bile. Per citarne solo alcuni, lì si tro-vano la celeberrima “Ebe” di Canova, la suggestiva “Maternità” di Segantini, il “Ritratto di Alessandro Manzoni” di Hayez, “Paolo e Francesca” di Putti-

nati, i primi Van Gogh ed altri ancora.Solo in questo luogo incantevole si potrebbe trascorrere un’intera gior-

nata, senza accorgersi dello scor-rere delle ore fra le meraviglie

di opere d’arte senza tempo.

Santa Maria presso San Satiro - Ci sarete pas-sati davanti almeno al-meno un centinaio di volte senza notarla, e su questo non ci sono dubbi! Incastonata fra il Foot Locker e un al-tro insignificantissimo negozio di via Torino, al civico 15/17, esiste da più di cinque secoli la piccola chiesa di S. Maria. Costruita fra il

1476 e il 1482 per cus-todire un’immagine della

Vergine divenuta icona miracolosa per aver san-

guinato -si dice- sotto i colpi di pugnale di un vandalo, la chiesa

divenne subito meta di pellegrinag-gio per molti fedeli, e tale è rimasta tutt’ora. L’affresco in questione, custo-dito all’interno della chiesa, costituisce oggi la pala dell’altare maggiore.

Ma l’attrattiva a mio avviso principale è costituita dal coro della chiesa, real-izzato da Donato Bramante, principale architetto di S. Maria. La genialità dello stratagemma con cui Bramante realizzò il coro, infatti, mette chiaramente in luce l’eccezionale padronanza dell’arte prospettica e architettonica da parte dell’artista. Entrando dall’ingresso principale si ha la normale impressione di trovarsi all’interno di una chiesa a “croce latina”: davanti a sé si può ve-dere l’altare, seguito dalla concavità dell’abside destinata al coro. Avanzan-do sino a giungere al punto d’incrocio fra il transetto e la navata principale, sovrastato dalla bellissima cupola cas-settonata in oro e azzurro, ci si accorge però dell’inganno, dell’incredibile illu-sione prospettica! Il coro, infatti, che sembrava per l’appunto proseguire in profondità per qualche metro alle spalle dell’altare, fu in realtà realizzato in una concavità della parete profonda appena 97 cm: la chiesa infatti è priva di abside e proprio per ovviare a questo inconven-iente Bramante dipinse una finta abside prospettica fino ad ottenere l’effetto di un reale sfondamento della parete. Sarà inevitabile girarvi attorno per osservare l’opera da ogni angolatura, increduli di ciò che (non) vedono i nostri occhi!

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I20

Tutto è cominciato l’anno scorso, quando ho seguito un corso di arte contem-poranea organizzato dalla Feltrinelli. No, aspetta, forse è iniziato quando,

in quarta ginnasio, siamo andati a ve-dere la mostra di Roy Lichtenstein con la classe. Non mi è chiaro quando, né come, ma un giorno ho cominciato a interessarmi all’Arte più del giorno prima, e il giorno dopo ancora un po’ di più. Quest’estate a Londra mi sono sorpresa ad aggirarmi non solo per i grandi e famosi musei quali la Nation-al Gallery e il British, ma nelle piccole sale di quelle case museo, solitamente molto pittoresche, dei protagonisti indiscussi della letteratura inglese. Luoghi graziosi, che fanno rivivere il clima suggestivo dei nostri amati ro-manzi. Non solo, mi sono ritrovata anche in grandi sale completamente affrescate che costituivano le mense

di storiche caserme militari. Ma chi si è mostrato disponibile per un chia-rimento sulla vita del proprietario di casa? Chi ha risposto alle mie doman-de sui protagonisti dell’affresco? Vo-lontari. Questa parola, che da sempre accostiamo al sostegno dei malati, alla sensibilizzazione sui temi sociali e ai servizi medici di pronto soccorso, si può finalmente impiegare senza timore anche in riferimento alla cura del Patrimonio Culturale. Ed eccoci in Italia, Paese con la ricchezza cul-turale più invidiata al mondo, in cui queste iniziative esistono e, a dis-petto dei pessimisti cronici, stanno riscuotendo un successo superiore ris-petto alle previsioni. Il Touring Club Italiano ha consolidato questo tipo di volontariato ormai da cinque anni con un’iniziativa chiamata Aperti per voi, partita proprio da Milano e diffusa at-tualmente in diciassette città con più di quaranta siti. Questo progetto of-

fre la possibilità di tenere “aperti” alcune chiese, case museo, gallerie, che altrimenti non avrebbero modo di esporre i propri tesori al grande pubblico. A Milano questi luoghi sono dodici, se si escludono le prossime aperture della Fabbrica del Duomo e del suo Archivio Storico, e impiegano più di cinquecento volontari. Io, come molti altri, mi sono fatta coinvolgere in prima persona in un percorso che ovviamente comincia con una fase di formazione del volontario, che deve essere in grado di rispondere alle domande dei turisti. I luoghi si trova-no quasi tutti all’interno della cerchia dei bastioni, tra Missori, Cordusio e Duomo. Tra questi uno dei più visitati è la Chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore in corso Magenta, definita da Sgarbi “la cappella Sistina di Milano”: una costruzione del ‘500 divisa origi-nariamente in due zone, l’una riserv-ata ai fedeli e l’altra alle monache,

volontariato culturale a milano

di Chiara Conselvan

arte

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile 21

che ospita assai spesso concerti grazie al grande organo di cui dispone. Una facciata molto più spoglia ci accoglie, invece, vicino all’Università Statale: si tratta della chiesa di Sant’Antonio Abate dentro alla quale riconosciamo lo stile tipico del periodo barocco mil-anese; anche qui abbiamo il piacere di riconoscere un organo che la leg-genda narra essere stato suonato da Mozart bambino. Spostandoci verso via Torino troviamo lo Studio Franc-esco Messina, ricostruito dalle fonda-menta di un’antica chiesa. Fuori dai bastioni, in zona Lima, la Casa Museo Boschi Di Stefano, dimora storica do-nata al Comune di Milano negli anni ’70, contiene una ricca collezione di arte contemporanea. Non mancano le vere e proprie gallerie d’arte, come la Collezione Grassi, che i volontari tengono aperta nel suo ultimo pi-ano. Poi la Cripta di San Giovanni in Conca: originariamente una basilica

di epoca paleocristiana di cui rimane solamente un abside e la cui cripta è stata in seguito destinata dai Vis-conti alle sepolture nobiliari. Il Parco dell’Anfiteatro Romano e l’ “Antiquar-ium” Alda Levi sono tra i luoghi più antichi, risalenti al II-III secolo, cos-truiti su vie di comunicazione molto sfruttate e intitolati all’ archeologa che ha guidato i primi scavi negli anni ‘30 del Novecento. Lungo via San Vittore vediamo, invece, i Resti del Mausoleo Imperiale di San Vittore al Corpo, che, nato come luogo di sepol-tura, è diventato una cappella, dis-trutta nel XVI secolo. Lungo il Corso di Porta Romana troviamo poi l’Area Archeologica dei Santi Apostoli e San Nazaro Maggiore, una basilica fondata da Ambrogio proprio lungo la princi-pale via d’accesso alla città. Tornando in via Torino si riconosce la Basilica di Santa Maria presso San Satiro, il cui primo edificio nasce come dono per

il fratello di Ambrogio, San Satiro, ricostruito in seguito per conservare un’icona miracolosa. Di essa è famo-so il coro prospettico del Bramante, artista che è riuscito, nonostante il problema della mancanza di spazio, a dare armonia e monumentalità all’interno della chiesa. C’è inoltre la Cripta della Beata Vergine Annunciata nell’Ospedale Maggiore, luogo di pri-ma sepoltura dei caduti delle Cinque Giornate di Milano. In ultimo Palazzo Litta, in corso Magenta, fino a pochi anni fa sede delle Ferrovie dello Sta-to, è ora aperto al pubblico solo per eventi specifici.I luoghi sono molti e li consiglio a tut-ti: a chi è curioso per natura, a chi è appassionato di arte figurativa o di architettura, ma anche a chi desidera conoscere qualcosa di più riguardo della storia artistica, politica e cul-turale di Milano.

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I22

pollock e gli irascibili

« Quando sono “dentro” i miei quadri, non sono pi-enamente consapevole di quello che sto facendo. Solo dopo un momento di “presa di coscienza” mi rendo con-

to di quello che ho realizzato. Non ho paura di fare cambiamenti, di rovin-are l’immagine e così via, perché il dipinto vive di vita propria. Io cerco di farla uscire. È solo quando mi capi-ta di perdere il contatto con il dipinto

che il risultato è confuso e scadente. Altrimenti c’è una pura armonia, un semplice scambio di dare ed avere e il quadro riesce bene. »

Se a prima vista si dovesse descrivere uno dei quadri di Pollock sono sicura che l’aggettivo non sarebbe di sicuro “armonioso”. Schizzi di vernice, linee frammentate, colori casuali e occa-sionalmente sabbia, frammenti di ve-tro, bottoni, tutti accostati in modo

confusionale su una tela di dimen-sioni enormi. È questo lo straordinario stile del cel-ebre pittore che rivoluzi-onò l’arte degli anni ’50 dando vita a quel mov imento poi chiama-to “Action Pa i n t i n g ” . Infatti, sem-pl icemente osservando il dipinto, si possono ricostruire i m o v i m e n t i dell’artista, i suoi stati

d’animo, le emozioni che cerca di tr-asmettere allo spettatore.Il carattere scontroso di quasi tutti gli artisti di questa corrente è chi-aramente visibile dalle linee intri-cate che si avvolgono sulla tela. Non a caso si chiamano irascibili: il nome è un appellativo dispregiativo datogli in seguito alla loro protesta contro il Metropolitan Museum di New York. A seguito della loro esclusione da una un’importante mostra di pittori nas-centi organizzata dal museo, gli iras-cibili – ovviamente risentiti ̶ prima scrissero una lettera al direttore del museo, poi si vestirono da banchieri e, per protesta, si fecero fotografare come degli impiegati appena usciti dall’ufficio. Ma come iniziò Jackson Pollock a dipingere? Sappiamo che tutti gli iras-cibili si ispirarono molto a Pablo Pi-casso, il famosissimo pittore cubista: Pollock in modo particolare rimase tanto colpito dal dipinto “Guernica” ̶ in cui Picasso raffigura un episodio della guerra civile spagnola ̶ che i suoi primi dipinti finirono per esserne in un moo o nell’altro delle imitazi-oni. Ricalcò anche l’arte dei mural-isti messicani, che gli lasciarono in eredità la passione per le grandi di-mensioni, e dei nativi americani, da cui imparò una speciale tecnica di pittura con la sabbia: la “Sand Paint-ing”. Solo più tardi maturò il suo stile unico. Dipingeva nel fienile dietro

di Sofia Franchini

arte

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casa, che aveva trasformato in studio. Aveva infatti bisogno di spazio per le sue tele non riposte sul cavalletto, dato che preferiva dipingere per terra per facilitare il “dripping”: la sua tec-nica esclusiva. Consisteva nel cam-minare intorno alla tela con un pezzo di legno in una mano e un barattolo di vernice nell’altra, facendo colare, sgocciolare e schizzare il colore. Non amava il pennello, quindi si serviva di spatole, cazzuole e coltelli. La mostra di Palazzo Reale non è dedi-cata esclusivamente a Pollock. Vi tro-viamo Mark Tobey, con il suo tratto finissimo e preciso, completamente diverso da quello di Pollock, ma ugual-mente privo di riferimenti a figure ri-conoscibili: i suoi dipinti sono infatti composti da sottili trame di colori che si intrecciano e costruiscono un deli-cato disegno.E ancora Franz Kline, che dipinge spesse fasce nere su sfondi bianchi. Era inizialmente un disegnatore di architetture contemporanee, fino a

quando un suo conoscente, il pittore Willem De Kooning gli fece notare che ingrandendo un disegno geometrico, ad esempio una sedia, ne risultava un quadro che non rappresentava più la sedia in sé ma qualcosa di più miste-rioso e intrigante. Kline stesso diceva: “ A volte la gente pensa che io prenda una tela bianca e che ci dipinga sopra un segno nero, ma non è vero. Dipingo il bianco cosi come dipingo il nero, e il bianco è altrettanto importante.”Un altro artista è William Bazotes, che si ispira alle poesie di Baudelaire e dipinge figure più simili alla realtà rispetto a quelle dei suoi colleghi.Morris Louis, invece, fece parte della “Colorfield Painting”: un altro movi-mento di quegli anni che consisteva nel dipingere grandi campi di colore molto diluito senza alcun senso raffig-urativo facendo scorrere il colore sul-la tela. Morì giovanissimo, ucciso da un cancro ai polmoni causato da un tipo di pittura acrilica che era solito usare.

Il massimo esponente della “Color-field Painting” fu probabilmente Mark Rothko, il quale riempiva intere tele di colori puri accostati: abba-glianti rettangoli di colore che sem-brano avanzare o arretrare rispetto all’osservatore, a seconda dei con-trasti. L’allestimento annovera numerose sale, con non più di sei dipinti cias-cuna in modo da permettere al visita-tore di concentrarsi su pochi dettagli. C’è anche la possibilità di confrontare i vari periodi di uno stesso artista e l’evoluzione del suo stile nel tem-po grazie a quadri esposti vicini. La mostra è inoltre arricchita di alcuni filmati in cui si possono ammirare le varie tecniche di pittura e confron-tare le tendenze musicali, letterarie e artistiche degli anni ’50. Una mostra interessantissima, che permette di comprendere le idee di questi pittori un po’ stravaganti e imparare a non guardare un quadro dicendo: “Potevo farlo anche io!”

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I24

Paul Simon – Con-cert in the Park (Warner Music, 1991)

di Edo Mazzi

Le canzoni eseguite durante lo storico concerto di Paul

Simon –famoso can-tautore statunitense- nel Central Park

di New York, il 15 agosto 1991, sono state racchiuse in quest’album. I brani eseguiti, costituiti dai molti successi del cantante, sono stati distribuiti su due dischi, dai quali emerge tutta l’adrenalina e la vitalità di un live ( essendo perfettamente udibili le urla, gli applausi e l’entusiasmo del pubblico presente).“The Obvious Child”, con le esotiche percussioni eseguite dagli OLODUM(Grupo Cultural), apre le danze del concer-to, seguita da una splendida versione di “the Boy and the Bubble”. L’abilità di cantante di Simon si evince da subito in“Kodachrome®”, nel favoloso assolo vocale.In questo concerto, inoltre, Paul Simon, con una splendida interpretazione, si riappropria della paternità di “Bridge Over the Troubled Water”- canzone fino ad allora sempre cantata da Art Garfunkel -. “The Coast” chiude la prima parte del concerto, in una versione resa ancora più speciale dall’accompagnamento delle percussioni, e del coro dei Waters. Il lato C si apre con la famosa “Graceland”, seguita da una piacevole “You Can Call Me Al”. Splendidi ritmi africani ed esotici caratterizzano, invece, “Diamonds on the Soles of Her Shoes”. Nella parte finale ritroviamo “Late in the Evening”, in cui emergono moltissimi ottoni, come trombe e sax, e nuovamente allegre percussioni; inoltre sono pre-senti anche alcuni dei pezzi più famosi del duo Simon & Garfunkel, come: “America”, “the Boxer” e “Cecilia”. La storica “the Sound of Silence”, che ha inizio, sotto scro-scianti applausi, con la celebre strofa: « Hello darkness, my old friend, I’ve come to talk with you again, Because a vision softly creeping, Left its seeds while I was sleeping, And the vision that was planted in my brain Still remains Within the sound of silence.» va in fine a chiudere uno straordinario album, in cui si possono davvero apprezzare le melodie e i testi di splendidi capolavori.Un album singolare, consigliato a tutti quelli che vogliono as-coltare il meglio di Paul Simon, in un’eccezionale versione live.

U2 – The Joshua Three (Island Re-cord, 1987)

di Andrea Sarassi

Disco epico, realiz-zato da una band che non ha alcun

bisogno di presentazi-oni.

E’ il lontano e toccante suono di organo a presentare la canzone entree, “Where The Streets Have No Name”, e a proiettare immediatamente l’ascoltatore nell’atmosfera del disco. La prima traccia è un crescendo di suoni e melo-die, dove la calda e irraggiungibile voce di Bono invoca un amore incontrollabile e privo di limiti in un confronto catartico ed empatico con la grandezza del mondo natu-rale. Segue poi “I Still Haven’t Found What I’m Looking For” che, sulla scia emotiva della prima traccia, invita a un quête del proprio io e scoperta dell’amore.« I have run, I have crawled / I have scaled these city walls / only to be with you/ But I still haven’t found what I’m looking for» canta Bono, imponendo prepotentemente la potenza del suo io all’ascoltatore, che non può fare a meno di las-ciarsi trasportare dolcemente. La melodia è semplice e tuttavia appare quasi soprannaturale grazie all’armonica sincronia di percussioni, batteria e chitarra elettrica. La terza traccia con la melodica armonia di “With or With-out You” spezza l’atmosfera fin qui portata avanti: «My hands are tied, my body bruised/ She got me with noth-ing to win/ and nothing else to win/ and you give your-self away». Dolcemente straziante è la conclusione della canzone, lasciando una vaga consapevolezza impressa nell’ascoltatore dal verso «With or Without You I can’t live». L’assegnazione del numero sette non è un caso per la meraviglia dell’album intitolata “In God’s Country”. Questa canzone può essere considerata migliore delle al-tre tracce e, ad ogni modo, completa in ogni suo aspetto. Il testo esterna un forte senso di misticismo col quale ogni uomo prima o poi si andrà a confrontare, con la particolar-ità che la divinità in questione è la Libertà. «She is Liberty, and she comes to rescue me/[…]Sleep comes like a drug in God’s country» è il triste messaggio di questa canzone, accompagnato e addolcito da un trascendente giro di chi-tarra che ben rende l’altezza dei sentimenti in questione.Infatti, l’ascolto di quest’album lascia aperti molti inter-rogativi di cui vi lascio una libera e piena interpretazi-one. L’album è dedicato a Greg Carroll, assistente di Bono, morto in un incidente stradale nel 1986.

audio philes “ Every day the dreamers die to see what’s on the other side ” (U2, In God’s Country)

musica

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile 25

I Mumford and Sons sono un grup-po indie-folk formatosi nel 2007 a Londra. E’ composto da Mar-cus Mumford, Winston Marshall, Ben Lovett e Ted Dwane, quattro polistrumentisti di tutto rispetto;

è proprio in virtù di questa caratter-istica che i loro pezzi appaiono così ricchi e dinamici pur riproponendo le stesse strutture e le stesse vari-azioni. Quattro ragazzi semplici, con capelli arruffati e maglioni di lana: viene quasi naturale immaginarseli “on the road” come personaggi di Kerouac, in viaggio verso l’ignoto, pronti a portare per il mondo la loro arte tradotta in musica. Loro stessi si definiscono “Gentlemen of the Road”, espressione che dà nome anche alla casa discografica di loro proprietà.

Debuttano il 6 ottobre 2009 con l’album “Sigh No More”, titolo tratto da una celebre commedia di Shake-speare, “Molto rumore per nulla”. La naturalezza con la quale questi dodici brani riescono a stamparsi nella me-moria di chi ascolta è disarmante: in un primo momento si viene cullati dal calore della voce di Marcus, poi l’ordinato affollarsi degli strumenti musicali ti cattura; le pause tra una canzone e l’altra spiazzano, e quando si arriva alla fine del disco ci si sente spaesati, come quando un amico ti abbandona senza preavviso. Le danze vengono aperte dalla canzone che intitola l’album: un’invocazione al cielo lamentosa al punto giusto, che viene sdrammatizzata dal suono del banjo. Proprio come il secondo brano The Cave, attira l’attenzione con una voce sussurrata, per poi tra-volgere e stupire con un ritmo più deciso e incalzante. Winter Wind è tutt’altro che un vento gelido inver-nale: il suono della tromba addolcisce l’eterna e faticosa lotta tra il cuore e la ragione. White blank page, è la sto-ria di un cuore tormentato con tutte le sue pagine bianche ancora da scri-vere; sullo sfondo è facile immaginare

il mare di un’Irlanda verde e piena di speranza. Il singolo Little lion man richiede una forza straordinaria, ov-vero il raccogliere i cocci di una vita che non è così facile come si pensava. Negli ultimi brani i toni calano e si fanno elegiaci, ribadendo e sottolin-eando i temi sin qui presentati: las-ciatevi rapire e condurre da tutta la dolcezza e delicatezza possibile fino alla fine del disco. Immagino, però, che le suole delle vostre scarpe non siano ancora com-pletamente consumate: ebbene, non stupitevi se anche voi sentirete il bisogno di partire ancora in com-pagnia della musica senza barriere di questi ragazzi. Sono nuovamente pronti a scaldarci il cuore e a farci girare il mondo, e lo dimostrano con il loro secondo album intitolato Babel (2012). La sottile insicurezza e titubanza del primo cd sono solo un ricordo: i Mumford hanno ormai il passo di chi ha già raggiunto la piena padronanza dei propri mezzi. Hanno le idee chi-are e i piedi ben piantati per terra. L’immagine di copertina è un indizio: hanno saputo restare composti e con-centrati mentre alle loro spalle impaz-zavano confusione e caos. “Babel” non

è una rivoluzione ma un’evoluzione: il suono è sempre quello, e incon-fondibile. Rimangono attaccati con forza alle loro radici, ma l’anima e la passione rimangono. Il loro scopo è quello di mescolare musica antica e sentimenti moderni, donando gioia a chi li ascolta. La voce ruvida di Marcus ci racconta altre storie, accompagna-ta sempre da un banjo incandescente. Veniamo accolti in un clima familiare, che poi come nel primo disco esplode in un’euforia contagiosa. I brani che non mi stancherei mai di ascoltare sono Lover of the light, che immagino ambientata in un’iniziale oscurità, lacerata da una luce intensa e acce-cante che cresce insieme alla musica, e Hopeless Wanderer, canzone che si è intrecciata con la mia vita. Chiudendo gli occhi senti la strada che corre e sparisce, sei un girovago senza sper-anza ma sai che non sarà sempre così, perchè una possibilità c’è per tutti, e devi cercarla negli angoli più remoti del mondo oppure in un semplice ab-braccio. Io non voglio svelarvi altro. Correte il rischio di affidare il vostro cuore a questi quattro ragazzi: girerete il mondo, scaverete in voi stessi. Ve lo prometto, ne varrà la pena.

mumford & sonsdi Claudia Sangalli

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I26

Oserei dire che lo sbatti che ho è pari a zero. Ci mancava pure di seguire mio padre ad Assago Fo-rum per il concerto di Peter Gabriel… In preda

ad un raptus aveva comprato i bigli-etti mesi fa, ed ora sono costretta ad andarci. Sarà di sicuro una noia pazzesca. Il forum è pieno zeppo, e ad occhio l’età media sembrerebbe essere sulla cinquantina/sessantina. Io, i miei fratelli e qualche altro ra-gazzo rassegnato come noi siamo i più giovani, persi in questo mare di adulti invasati ed entusiasti che inizi il con-certo.Dopo una particolare esibizione di due musiciste svedesi, che accompagner-anno poi il protagonista della serata come coriste, a luci accese, tra brividi di emozione degli ascoltatori che non stanno più nella pelle, Peter Gabriel entra in scena con una spensieratezza invidiabile di un ultra-sessantenne an-cora pieno di voglia di vivere. Sedu-tosi al pianoforte presenta la serata,

in un italiano m o d e s t o , come potreb-be essere un tipico pranzo italiano: ci sarà un anti-pasto acus-tico, un primo elettrico e un gustoso dessert com-posto di tutte le canzoni d e l l ’ a l b u m “So” nel me-desimo ordine del disco. Di pezzi ne con-osco solo al-cuni; a quanto pare mio pa-dre non mi ha trasmesso la sua stessa passione per questo artista. Ma nel frat-tempo, tra un

brano e l’altro, ci rifaccio un pen-sierino: non è così male come pensa-vo; d’altronde sembra simpatico dal modo in cui si atteggia, saltando con vivacità sul palco. Ma nell’aria si percepisce qualcosa di strano. Forse è nostalgia, nostalgia dei vecchi tempi che si legge negli occhi delle persone attorno a me, intensi e illuminati dai bagliori scenografici. Deve certamente aver lasciato un bel segno nella storia musicale questo Ga-briel.Finalmente in sala è buio: siamo al primo piatto, un misto elettrico di “Family Snapshot”, “Digging in the Dirt”, “Secret World”, “No Self Con-trol” accompagnati da un contorno di fasci abbaglianti di luci bianche. Tutti i musicisti sono vestiti di nero, lo scenario e alcune canzoni sono un po’inquietanti. Ma quando parte “Sols-bury Hill”, il primo successo di Peter in cui racconta i motivi per cui ha las-ciato nel 1975 il suo vecchio gruppo, i formidabili Genesis, anch’io mi lascio

travolgere dal clima caldo e sincero che si crea fin dal primo accordo. Al termine di “Why don’t you show your-self” tutti si preparano per ricevere il dessert; un posticino nello stomaco lo si trova sempre per il dolce finale, nonché la parte migliore. Peter eseg-ue per intero il disco della maturità e di maggior successo “So”, del 1985. Archiviata l’esperienza con i Genesis degli anni ‘70, dopo quattro dischi in-cisi da solo (tutti con lo stesso titolo, e la sua immagine in copertina sempre deformata, se non irriconoscibile), in questo disco si mostra finalmente così come è (‘So’) senza più maschere. E’ una scioccante esplosione di colori, dal rosso di “Red Rain” all’arcobaleno di “In Your Eyes”, che rispecchiano la stravagante solarità della musica. Come al solito l’ultima canzone, last but not least, forse la migliore, è ded-icata a Steven Biko, attivista sudafri-cano ucciso in carcere nel 1977. Peter ricorda che Steven Biko è morto per sconfiggere l‘apartheid e chiede di non dimenticare coloro che ancor oggi vengono incarcerati solo per motivi di opinione, in quei Paesi del mondo in cui i diritti umani non sono rispettati. Tra un coro di voci da tutto il mondo che accompagna Peter con le parole “Oh Biko, Biko, because Biko…” e un pugno alzato al cielo ho capito che Peter Gabriel è un artista completo, coinvolgente, libero di esprimersi come vuole, dallo sguardo sincero e altruista. E’ una persona umile, sem-pre aperta ad accogliere nuovi spazi e tempi. Trent’anni fa non esitava di sicuro a ‘tuffarsi’ dal palco durante i concerti e a fare surfing sorretto solo dalle mani dei fans, proprio per ab-battere ogni barriera tra pubblico e artista. Di personaggi del genere, così estranei ai condizionamenti dello show business, ne sono rimasti vera-mente pochi.Oh beh, dal sentire mio fratello che in camera sua canta a squarciagola “Solsbury Hill” credo proprio che Peter sia riuscito a coinvolgerci, noi giovani, che finora eravamo rimasti all’oscuro di un tesoro così vicino e prezioso.

peter gabriel: live at assagodi Beatrice Sacco

musica

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile 27

A prima vista ogni cantante o attore sembra una per-sona che vive in posti lus-suosi, assalita dagli am-miratori ogni volta che si affaccia alla finestra, del

tutto priva di una vita sociale; ma cosa sono in realtà? Ve lo dico io: sono esattamente come noi. L’esempio più bello che ho sono proprio Paul McCa-rtney e John Lennon: migliori amici, grandi autori e ottimi musicisti. Non è che perché stessero nei Beatles le loro vite fossero avvantaggiate, o che trascinassero un rapporto falso avanti negli anni al solo scopo di avere fama e successo, anzi, come raccontò Paul dopo lo scioglimento, non potevano stare l’uno senza l’altro; anche Yoko Ono, moglie di Lennon all’epoca, rib-adì più volte che, secondo lei, John amasse davvero l’amico. Tutto è cominciato il 6 luglio 1957, ad un concerto dei Quarrymen. Nas-costo tra la folla, il quindicenne Paul ammirava il cantante della band, che suonava la chitarra solo su quattro corde.In quel momento si accesela scin-tilla. McCartney chiese ad un amico in comune di presentaglielo, e così si conobbero John e Paul, e, di con-seguenza, iniziò la storia dei favolosi Beatles.L’intesa tra i due cominciò rapida-mente a sfornare successi, facendo diventare i Fab Four la prima band di Liverpool, della Gran Bretagna, e, in-fine dell’America. Si sviluppò in fretta anche una specie di protezione, un istinto, che John aveva nei confronti dei tre compagni, a lui più giovani di età, in particolare per Paul. Ad esempio, quando facevano le trasferte, erano obbligati a comp-iere strani cambi di auto per evitare l’assalto delle ammiratrici urlanti e John faceva salire l’amico per primo con la scusa che fosse il più bello dei quattro e che le fans avrebbero po-

tuto mangiarlo vivo. In fondo erano persone nor-mali, come noi, che vivevano in posti normali e facevano tutte quelle cose che fanno i ragazzi normali, stupid-aggini comprese (Paul a 19 anni dette fuoco ad un preservativo facendosi ban-dire dalla Ger-mania quando si trovava ad Amburgo con la band).I contatti si rup-pero nel mo-mento in cui fu dichiarato lo scioglimento dei Bea-tles. Si scrissero sempre meno lettere e smisero presto di vedersi. Ciò non significa, però, che non si mancasse-ro: ammisero entrambi che, in futuro, non ci sarebbe mai più stata una cop-pia come la loro, per il resto della vita e che qualunque compagno di av-ventura non sarebbe valso il primo. Intrapresero carriere soliste, Paul formò i Wings con sua moglie Linda, John dette vita alla Plastic Ono Band, meno conosciuta, con la moglie Yoko.La loro fantasia come cantautori non finì con i Beatles nel 1970, anzi, Len-non compose altre splendide can-zoni quali “Imagine” e “Give peace a chance”.Si videro l’ultima volta nel 1976, a casa di Paul, e quello è l’ultimo ricor-do che hanno uno dell’altro. John fu ucciso l’otto dicembre 1980, all’età di quarant’anni, da un suo stesso ammiratore, impedendo così una possibile rinascita dei Beatles e distruggendo una delle più grandi menti creative della musica pop/

rock.Tutt’oggi, durante i suoi concerti, Paul McCartney ricorda il suo migliore amico e canta per riportarlo nei cuori della gente, anche solo per un attimo.“John mi manca tutte le volte che mi siedo a scrivere una canzone. Mi man-cano i suoi commenti, quando ci in-sultavamo a vicenda se non ci piaceva una parte della canzone, e poi faceva-mo pace e ci rimettevamo a scrivere in pace, cercando un compromesso. In fondo, non era solo il mio migliore amico, per me era quasi un fratello, e i Beatles sono stati la mia famiglia per dieci anni. Ora che John non c’è a parlare con me quando scrivo, ho cap-ito che certe cose riuscivo a farle in pace solo con lui” ha detto McCartney pochi anni fa. In fondo, come ho detto prima, erano ragazzi normali, e di loro oggi abbia-mo più di cento canzoni targate “The Beatles” e, per chi può, il ricordo di un concerto, o di un incontro casuale per strada. I loro nomi sono incisi a caratteri cubitali nella storia. E la leg-genda continua.

LENNON & McCARTNEY: LA COPPIA

di Letizia Foschi

che HA SCRITTO LA STORIA

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I28

fumetti

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile 29

racconti

Clacson, le persone che urlano in strada, il fis-chietto del vigile, il mer-cato poco distante e l’odore pungente di pesce fresco, l’acqua. L’acqua

della Senna che scorre imperterrita, l’acqua che scroscia dal cielo come se dovesse spegnere un incendio in-finito, la sua prima sigaretta della giornata. In piedi, affacciata al ter-

razzo dell’attico di turno, rilassata e perfetta, appagata e a suo agio, si sta gustando la sua sigaretta come fosse una boccata d’aria fresca. Ha pochi minuti ancora, ma non le interessa, lei ama il rischio. Sono quasi le nove e ha saltato la colazione, sente fame e programma un brunch al Cafè de la Paix. Ama quel cafè. Ci andava con mamma e papà quando erano a Parigi per lavoro, quando ancora erano una famiglia. Questa volta è stato facile, ama i la-vori facili, puliti, perché le ricordano suo padre e i suoi insegnamenti, della madre ha una sola foto, in quel med-aglione vintage che più di una volta l’ha messa nei guai: nel lontano 2007, al Cremlino, uno dei suoi primi lavori da free-lance, mentre all’entrata pas-sava sotto il metal detector. Nella vil-la-vacanze in Venezuela, 2011, in cui ha rischiato di strozzarsi nell’impianto di aerazione. Dopo una doccia nelle terme private del magnate industriale Andrèes, Siviglia, l’anno prima, quasi dimenticandola sul piano in marmo.Ma non le importa il pericolo se ha ac-canto sua madre. Lavoro semplice: lei ha un orec-chio sopraffino, un tentativo per imbeccare la giusta sequenza, uno basta, e quell’ebrezza allo sblocco e all’apertura automatica: quello è il momento che preferisce, quando

viene ripagata della fatica. È la più brava in quello che fa, e ne è total-mente consapevole. Spegne la siga-retta, rientra nello studio e ripone lo zippo placcato in oro di fianco al portasigari. Ha un altro cliente ma non le importa. Inizia una “perlustrazione” come la chiama lei, o impicciamento, come in realtà è. Ampio ingresso, sobrio, corridoio lungo, asettico, anonimo, stanza padronale ordinata, ben tenuta, arredamento moderno grigio metallo e bianco latte, cabina armadio sor-prendentemente grande, completi maschili, scarpe lucide, cravatte in seta della miglior qualità, nota la to-tale assenza di un tocco femminile, se non quello della colf. Si è fatto tardi, meglio andare. Rac-catta la sua roba, la solita e la novità del giorno. Attraversa l’enorme sa-lone, apre la pesante porta in mogano e si dirige all’ascensore. Se qualcuno vedesse una stanga in tailleur in uno tra gli stabili più cos-tosi di Parigi, con fare quasi regale e occhi magnetici, non penserebbe mai che sia una ladra professionista.

di Silena Bertoncelli

clacson

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I30

racconti

Il mio esercito rimane immobile, men-tre il vento spira tra la sabbia rossa delle dune. Sono tutti paralizzati dal-la paura, non tanto quella di morire - a quella avevano rinunciato una volta dopo esserci schierati contro i Pro-fondos, la dinastia regnante, i nostri carcerieri - quanto quella di perdere la guerra. Temono che tutto quello in cui credono, in cui hanno riposto le loro speranze, per il quale hanno rinunciato alla loro patria, alla loro famiglia , ai loro stessi amici, si an-nulli. Come quando una statua di sale, posta sotto la pioggia, si scioglie len-tamente fino a quando non ne rimane più nulla. In me, la paura aveva las-ciato spazio alla certezza e quando la sicurezza alberga in noi, la calma reg-na sovrana. Quando mi alleai con i La-vakon credevo fermamente in quello che pensavo e non mi tirai mai indi-etro. Ora sono sicuro che perderemo, che il mio sogno di un mondo migliore non si avvererà mai e con questa con-vinzione guardo calmo il procedere degli eventi. La regina osserva il cam-po di battaglia dal suo altissimo trono.

Splendida come sempre, nel suo ves-tito di lino bianco e con la sua corona scintillante, ostenta la sicurezza di chi ha la vittoria nel palmo della pro-pria mano. I suoi occhi, verdi come un prato in primavera, non si staccano dal profilo di Fansiata e i suoi capelli scintillano sotto il sole come le arma-ture dei suoi soldati: le Guardie della Regina, coloro che avevano portato distruzione nel regno, i veri malvagi di questa storia. Sono tutti sul campo di battaglia, schierati ad uno ad uno e a guidarli, davanti a tutti, mio fra-tello, colui che non ha pensieri e non ha coscienza. Un uomo trattenuto a forza in una prigione senza avere al-cuna colpa perde la capacità di avere idee, giuste o sbagliate che siano, e a quel punto, una volta smarrito il senso del bene e del male, è facile impiantargli i nostri ideali. Quando venne rapito, non solo un membro della mia famiglia ma una parte di me mi venne strappata a forza. Soffrii in modo talmente profondo che nessuna guerra, nessuna dittatura, poteva dis-trarmi da quello che stavo provando.

Però, nel momento in cui seppi che si era schierato con la monarchia, al-lora l’odio ed il sangue colmarono il vuoto che mi aveva lasciato lui. Per tutto questo tempo sono stato cieco: la guerra ha serrato i miei occhi. Ora riesco a vedere ciò che mi si prospetta davanti in modo così chiaro e nitido da rendermi completamente asettico a qualsiasi sentimento. Posso vedere perfettamente gli occhi lucidi di mio fratello, le sue mani tremanti men-tre regge la bandiera, ma non ho più intenzione di amarlo o di odiarlo, di soffrire o di combattere per lui e non mi rimprovero per questo. Lui crede nella monarchia. Si è immerso sino al punto più profondo della sua convinzi-one. La fede brucia viva in lui. Lo log-ora con i sensi di colpa, con i dubbi, con la vergogna, come un leone, ap-postato dietro l’erba alta, che sceglie e scruta la sua preda per poi spiccare un grande balzo e piombarvi sopra, conficcare le sue unghie nella carne tenera, sbranarla e divorarla. Volgo lo sguardo agli uomini di mio fratello. Sono delle vere e proprie macchine

a mio fratello

di Ilaria Porro

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile 31

da guerra, uomini scelti tra i migliori combattenti di Fansiata. Se una co-lomba non conosce il cielo, mai potrà adempiere alla sua natura: spiccare il volo e librarsi alta. Potrebbero aspira-re a fini ben più alti di una dittatura, di padroni a cui rendere conto, ma questo non l’hanno mai saputo. Questi soldati non sono dei mercenari, ma in-dividui ben peggiori: degli schiavi. Es-sere liberi, in tutti i sensi, è il nostro più grande dono, ma, se questo non ci viene insegnato, siamo solo macchine per raggiungere altri scopi. La falsa realtà delle Guardie della Regina non potrà mai competere con la paura dei miei uomini: questa è un’emozione momentanea, che presto volerà verso altri destini, ma le bugie rimangono con noi per tutta la vita, in un modo o nell’altro.Il sole è ormai alto nel cielo, è il mo-mento di caricare. Salgo svogliata-mente a cavallo: l’ultima cosa che vorrei in questo momento è scon-trarmi con altri soldati. Credo sem-pre nel mio ideale più che in qualsiasi altra cosa: mi ha salvato mentre ero perso. Capisco però che ormai la mia sia una causa destinata a perire e che

non debba più combattere per lei. Come quando un meraviglioso vaso di porcellana cade a terra e si rompe in mille pezzi: rimarrà sempre mag-nifico, ma cessa di esistere. La mia, la nostra rivoluzione ormai fa parte della storia ed il suo destino è già segnato.Ormai sono nel pieno della battaglia. Galoppo in mezzo alle spade sguain-ate mentre il terreno si tinge di rosso. Lo scintillio del ferro sotto il sole ed il suo stridore accompagnano i miei gesti. Vedo i miei compagni cadere sotto i miei occhi, come alberi colpiti da un fulmine. Damos, un mio fedele amico, è a terra gravemente ferito ad una gamba. Faccio per caricarlo sul mio cavallo e portarlo alle tende, poco distanti, quando sento qualcosa i gelido affondare nella mia gola. Mi sento fiacco e debole, non riesco a reggermi e cado a cavallo. Ho i bri-vidi di freddo, mentre sento ancora il sangue caldo sgorgare dal mio collo. Ci hanno sconfitto, quindi. Io, il capo dei ribelli, la figura da temere di più, sono morto. Non c’è più speranza or-mai. Come quando la neve cade dal cielo incessantemente, coprendo ogni cosa con il suo manto bianco, candida

ma nello stesso tempo inarrestabile, così la monarchia ha soppresso i nostri desideri. Alcuni compagni si radunano intorno a me. Volgo lo sguardo a mio fratello. Lui si avvicina velocemente a me. Ormai non riesce più a tratte-nere le lacrime. Si piega su di me e chiede perdono. Una sensazione i ca-lore inizia a spandersi nel mio basso ventre: mio fratello è tornato da me. Ormai non c’è più sicurezza o calma che tenga, perché la mia famiglia è qui davanti a me e io lo perdono: non potrei fare altrimenti. Vorrei dirgli di non piangere, ché non serve a niente: siamo di nuovo uniti, ma tutto quello che riesco a fare è stringergli la mano un’ultima volta, forte. Per quanto possiamo esserne certi, non ci lasciamo mai alle spalle le persone che amiamo: un sentimento davvero forte è universale, non cessa mai di esistere. Quando lo riscopria-mo è tutto più bello, come un bruco che esce dal suo bozzo e diventa una splendida farfalla. Riesco persino a lasciare questa guer-ra con un sorriso.

concorso carducciano: arte & racconti

L’Oblò mette alla prova la creatività dei Carducciani! Noi vi proponiamo un quadro, voi ne ricavate ispirazioni per un racconto. Ne verrà pubblicato soltanto uno, messo a

confronto con quello di un redattore. Cosa vi trasmette “Morte e Vita” di Klimt (1916)? Scavate dentro di voi, andate oltre, e impugnate una penna. Ne siete capaci!