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PRIME OSSERVAZIONI SULLE PREVISIONI DEL “LIBRO BIANCO IN MATERIA DI AZIONI PER IL RISARCIMENTO DEL DANNO PER VIOLA-

ZIONE DELLE NORME ANTITRUST” DELLA COMMISSIONE E DEL CODICE DEL CONSUMO QUANTO ALLE RELAZIONI TRA PROCEDI-

MENTI ANTITRUST E GIURISDIZIONE *

Stefania Baratti – Luca Perfetti

1. Premessa Il tema dei rapporti tra giudizio ordinario e provvedimento amministrativo in generale è

stato molto studiato sia sul versante tradizionale della relazione tra (invalidità del) provve-dimento amministrativo e poteri (di disapplicazione) del giudice ordinario, che su quello del valore probatorio del provvedimento amministrativo e dell’accertamento compiuto nel procedimento, compresi i poteri di acquisizione degli atti dell’amministrazione ex art. 213 c.p.c.

Minore attenzione, invece, è stata dedicata ai rapporti tra giudizio ordinario e procedi-menti amministrativi ed in ispecie a quelli che si celebrano avanti le autorità amministrative indipendenti, e in particolare davanti all’autorità antitrust, ed al rilievo processuale dei provvedimenti da queste adottati nel giudizio civile, a causa anche del numero limitato di azioni civili per risarcimento dei danni da illeciti anticoncorrenziali 1.

* Il testo costituisce la rielaborazione della relazione congiuntamente tenuta dagli autori al Convegno “Il Li-bro Bianco della Commissione Europea in materia di azioni per il risarcimento del danno per violazione del-le norme antitrust” tenutosi 17 giugno 2008 ed organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano.

1Bibliografia: ADINOLFI, Art. 16, in L’applicazione uniforme del diritto comunitario in materia di concor-renza, a cura di ADINOLFI, DANIELE, NASCIMBENE, AMADEO, Milano, 2007; ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Napoli, 1979; ANTONIOLI, Mercato e regolazione, Milano, 2001; BARONE, Commento alla sentenza della Corte d’ Appello di Milano, Telsystem c. SIP, 18 luglio 1995, in Foro it., 1996, I, 276; BENVENUTI, Ec-cesso di potere per vizio della funzione, in Riv. Dir. Pubbl., 1950, 1; BENVENUTI, Funzione amministrativa procedimento e processo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, 118; BENVENUTI, Funzione. Teoria generale, in En-cic. Giur. Treccani, 1989, ad vocem, BENVENUTI, L’istruzione nel processo amministrativo, Padova, 1953, BENVENUTI, Per un diritto amministrativo paritario, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Padova, 1975, 807, BENVENUTI, Processo amministrativo (struttura), in Enc. Dir, XXXVI, Milano, 1987; BIANCHI [R.], Tu-tela aquiliana antitrust: verso un nuovo sottosistema della responsabilità civile?, in Resp. Civ. e prev., 2007, 1616; BIAVATI Il diritto processuale e la tutela dei diritti in materia di concorrenza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, 1, 97; CANNIZZARO, BOZZA, Le politiche di concorrenza, in STROZZI, Diritto dell’Unione europea. Parte speciale, X ed., Torino, 2006; CARANTA, Tutela giurisdizionale effettiva delle situazioni giuridiche soggettive di origine comunitaria ed incisività del sindacato del giudice nazionale (Kontrolldichte), in Riv. it. dir. pubbl. com., 1999, 503; CARANTA, Variazioni sull’inesistenza dell’atto amministrativo adottato in situa-zioni di carenza di potere, in Giust. civ., 1999, I, 211; CASSARINO, Problemi della disapplicazione degli atti amministrativi nel giudizio civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1985, 871; CASSINIS, Atti del Convegno VII UAE-LIDC Antitrust fra diritto nazionale e diritto comunitario, in Contr. e impr. Eur. 2006, 736; CIPRIANI, Le sospensioni del processo civile per pregiudizialità, in Riv. dir. proc., 1984, 239; CIPRIANI, Sospensione del processo, voce dell’Encic. Giur.Treccani, Roma, 1993, XXX; FATTORI, TODINO, La disciplina della concor-renza in Italia, Bologna, 2004; FATTORI, Art. 16 Regolamento 1/2003, in MARCHETTI, UBERTAZZI, Commen-

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La questione viene qui osservata da soli due punti di vista, vale a dire da quelli che de-rivano dalla recente introduzione di norme interne che conferiscono rilievo alla sussistenza di procedimenti amministrativi innanzi all’autorità antitrust e dalla pubblicazione del “Li-bro Bianco in materia di azioni per il risarcimento del danno per violazione delle norme antitrust” – COM(2008) 165 – per la consultazione pubblica e la raccolta di commenti da parte degli interessati (2).

Il primo punto di vista si impone in relazione all’introduzione dell’art. 140-bis, comma III, nel Codice del Consumo da parte del legislatore della l. 24 dicembre 2007 n. 244, ai sensi del quale “il giudice può differire la pronuncia sull’ammissibilità della domanda quando sul medesimo oggetto è in corso una istruttoria davanti ad una autorità indipen-dente”. La disposizione provvede così a disciplinare - con specifico riferimento alle sole a-

tario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, 4a ed., Padova, 2007; GIALLONGO, Note in te-ma di sospensione, pregiudizialità e connessione nel processo di cognizione, in Riv. trim. dir. proc., 1985, 670; GOTTI, Considerazioni su recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di sindacato giudiziario di le-gittimità sugli atti amministrativi, in Foro amm., 1981, I, 214; LIBERTINI, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, in Giur. comm., 1998, I, 660; LIEBMAN, Manuale di diritto proces-suale civile, Milano, 1981; MENCHINI, Sospensione del processo civile. a) Processo civile di cognizione, in Enc. dir., XLIII; MENCHINI, La tutela del giudice ordinario, in Trattato di diritto amministrativo a cura di Cassese, IV, Il Processo amministrativo, Milano, 2005, 3710; MONTESANO, La sospensione per dipendenza di cause civili e l’efficacia dell’accertamento contenuto nelle sentenze, in Riv. dir. proc., 1983, 387; MORBI-DELLI, Sul regime amministrativo delle autorità indipendenti, ID., in Scritti di diritto pubblico dell’economia, Torino, 2001, 165; NEGRI, Giurisdizione e amministrazione nella tutela della concorrenza, Torino, 2006; NE-GRI, Il lento cammino della tutela civile antitrust: luci ed ombre di un atteso grand arrêt, in Corr. giur., 2005, 333; PACE, I fondamenti del diritto antitrust europeo, Milano, 2005; PERFETTI, Diritto di azione ed interesse ad agire nel processo amministrativo, Padova, 2001; PERFETTI, Prova (processo amministrativo), voce dell’Enciclopedia del diritto, Aggiornamento, in corso di pubblicazione; POLICE, Tutela della concorrenza e pubblici poteri. Profili di diritto amministrativo nella disciplina antitrust, Torino, 2007; PROTO PISANI, Sulla sospensione necessaria del processo civile, in Foro it., 1969, I, 2517; RAMAJOLI, Attività amministrativa e disciplina antitrust, Milano, 1998; RAMAJOLI, La connessione nel processo amministrativo, Milano, 2003; SATTA, Commentario al codice di procedura civile, Milano, 1960; SCARSELLI, La tutela dei diritti dinanzi al-le Autorità garanti, Milano, 2000; TAVASSI, SCUFFI, Diritto processuale antitrust, Milano, 1998; SCUFFI, O-rientamenti consolidati e nuove prospettive nella giurisprudenza italiana antitrust, in Atti del Convegno V UAE-LIDC, Antitrust fra diritto nazionale e diritto comunitario, 16-17 maggio 2002, 1; TONOLETTI, L’accertamento amministrativo, Padova, 2001; TONOLETTI, Mero accertamento e processo amministrativo: analisi di casi concreti, in Dir. proc. amm., 2002, 593; TOSATO, Il processo di modernizzazione, in TOSATO, BELLODI Il nuovo diritto europeo della concorrenza, Milano, 2004; TRISORIO LIUZZI, La sospensione del pro-cesso civile di cognizione, Bari, 1987; VILLATA, Giurisdizione esclusiva e amministrazioni indipendenti, in Dir. proc. amm., 2002, 794; VILLATA, “Disapplicazione” dei provvedimenti amministrativi e processo pena-le, Milano 1980; ZUMPANO, Sospensione facoltativa del processo civile per pendente impugnazione di un atto amministrativo, in Giust. civ., 2002, I, 217; ZUMPANO, Rapporti tra processo civile e processo penale, Torino, 2000.

2 Il Libro Bianco è stato pubblicato per la consultazione pubblica, come si legge nel comunicato stampa IP/08/515 del 3 aprile 2008, fino al 15 luglio 2008. Il comunicato stampa chiarisce che “Il Libro bianco pre-senta una serie di raccomandazioni volte a garantire che i soggetti danneggiati da questo tipo di violazioni abbiano accesso a meccanismi veramente efficaci per chiedere un risarcimento completo del danno subito” e che “Le altre raccomandazioni principali del Libro bianco riguardano il ricorso collettivo, la divulgazione delle prove e gli effetti delle decisioni definitive emesse dalle autorità responsabili della concorrenza nelle cause per danni avviate successivamente. Le raccomandazioni sono volte a garantire un equilibrio tra i diritti e gli obblighi di ricorrenti e convenuti e prevedono misure di garanzia contro il ricorso abusivo alle contro-versie giudiziarie”.

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zioni collettive risarcitorie - un aspetto molto limitato del complessivo rapporto tra giudizio ordinario e procedimenti antitrust, introducendo la possibilità che il giudizio venga sospeso nell’ipotesi in cui contestualmente sia condotta un’istruttoria da parte di un’autorità indi-pendente (ed ai fini che qui interessano dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mer-cato). La fattispecie deve essere inquadrata nei più ampi confini del rapporto tra la tutela esperibile davanti al giudice ordinario e il procedimento amministrativo istruito in ambito antitrust, a livello nazionale, dall’AGCM ed a livello comunitario dalla Commissione, per un verso, e del valore del provvedimento amministrativo nel giudizio civile, dall’altro. Ri-spetto agli altri casi di rapporti tra il giudizio civile e il procedimento davanti ad autorità in-dipendenti, in materia antitrust è presente una particolare complessità derivante dalla diver-sità delle fonti normative, delle autorità competenti e degli organi giurisdizionali che ven-gono in considerazione: invero, la tutela della concorrenza è soggetta a norme comunitarie – applicate dalla Commissione e dalle Autorità nazionali - e a norme nazionali, applicate solo da queste ultime. Le criticità che questa ripartizione solleva sono particolarmente evi-denti in Italia ove la cognizione delle azioni per risarcimento del danno da illecito antitrust è affidata a giudici diversi secondo la fonte normativa di riferimento, il tribunale ordinario ove si tratti della violazione degli articoli 81 e 82 CE, la corte d’appello in caso di violazio-ne della Legge 287/90.

Il secondo angolo di osservazione, vale a dire quello del Libro Bianco, appare non me-no rilevante e ricco di implicazioni.

Infatti, dopo aver sottolineato che laddove la Commissione “constata in una decisione l'infrazione dell'articolo 81 o dell'articolo 82 del Trattato CE, le vittime di tale infrazione possono, ai sensi della giurisprudenza consolidata e dell'articolo 16, paragrafo 1 del Rego-lamento n. 1/2003, citare tale decisione come prova vincolante in un procedimento civile per danni” (punto 2.3. “Effetto vincolante delle decisioni delle autorità nazionali di con-correnza”), il Libro Bianco pone a tema il fatto che nella gran parte dei Paesi membri non si rileva una simile previsione con riguardo alla relazione con i provvedimenti delle autorità nazionali di tutela della concorrenza anche laddove constatino un'infrazione degli articoli 81 o 82. L’assunto, quindi, dal quale muove la Commissione è quello di non vedere “alcu-na ragione per cui una decisione definitiva adottata ai sensi dell'articolo 81 o 82 da un'au-torità nazionale della rete europea della concorrenza (ECN) e una sentenza definitiva e-messa da una corte, che conferma la decisione dell'autorità nazionale o che constata essa stessa un'infrazione, non debbano essere accettate in ogni Stato membro come prova in-confutabile dell'infrazione in successive cause civili per il risarcimento dei danni antitrust”.

Nella sostanza, quindi, l’assunzione del Libro Bianco è quella dell’utilità dell’estensione delle regole che riguardano il rapporto tra decisione antitrust europea e giu-dizio risarcitorio in sede nazionale, sia quanto al valore vincolante della decisione ammini-strativa (e, quindi, anche dell’autorità nazionale) per il giudice del rapporto controverso, sia quanto all’estensione dell’effetto vincolante della decisione dell’autorità amministrativa na-zionale nei confronti del giudice dell’azione risarcitoria che sieda in altro Paese dell’Unione.

Il Libro Bianco argomenta la sua proposta (sicché “una norma di tale portata garanti-rebbe un'applicazione più coerente degli articoli 81 e 82 da parte dei diversi organismi na-zionali ed aumenterebbe la certezza del diritto”, ed inoltre, “accrescerebbe significativa-mente l'efficacia e l'efficienza procedurale delle azioni per il risarcimento dei danni causati

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da violazioni delle norme antitrust”) e la sintetizza così: “i giudici nazionali che devono statuire in merito ad azioni di risarcimento danni relative a violazioni degli articoli 81 o 82 sulle quali un'autorità nazionale di concorrenza appartenente all'ECN abbia già adottato una decisione definitiva constatando una violazione di tali articoli, o in merito alle quali una corte d'appello abbia emesso una sentenza definitiva confermando la decisione dell'au-torità nazionale per la concorrenza (3) o constatando essa stessa una violazione, non pos-sono prendere decisioni in contrasto con una decisione o sentenza di questo genere.”

Che il Libro Bianco intenda conferire un effettivo valore vincolante della decisione dell’autorità amministrativa antitrust nei confronti del giudice della domanda risarcitoria è confermato – oltre che dai termini utilizzati nelle versioni nelle altre lingue europee – dall’ulteriore argomentazione della regola: “se i convenuti possono mettere in dubbio la violazione degli articoli 81 o 82 stabilita in una decisione di un'autorità nazionale per la concorrenza ed eventualmente confermata da una corte d'appello, i giudici dinanzi ai quali venga intentata un'azione per danni dovranno riesaminare i fatti e gli aspetti giuridici già oggetto di indagine e valutazione da parte di un'autorità pubblica specializzata (e da una corte d'appello). Una tale duplicazione dell'analisi fattuale e giuridica determina conside-revoli costi aggiuntivi, nonché una durata ed un'imponderabilità notevoli per l'azione di ri-sarcimento danni intentata dalle vittime”.

Le due previsioni rammentate, quella del Codice del Consumo e quella del Libro Bian-co, pongono con evidenza il tema del rapporto tra tutela civile e procedimento (e provve-dimento) amministrativo antitrust ed in esso, la pluralità di soggetti e di fonti impongono di distinguere le ipotesi, sia sotto il profilo processuale che sostanziale, a seconda si sia innan-zi a provvedimenti dell’AGCM da un lato e della Commissione Europea dall’altro, poiché, come si avrà modo di osservare, differenti sono le conclusioni.

2. Il rapporto tra il giudizio civile e il procedimento dinanzi alla Commissione In relazione ai rapporti tra giudizio civile e procedimento della Commissione europea,

l’art. 16 del Regolamento n. 1/2003 prevede che “quando le giurisdizioni nazionali si pro-nunciano su accordi, decisioni e pratiche ai sensi dell’articolo 81 o 82 del Trattato che so-no già oggetto di una decisione della Commissione, non possono prendere decisioni che siano in contrasto con la decisione adottata dalla Commissione. Esse devono inoltre evita-re decisioni in contrasto con una decisione contemplata dalla Commissione in procedimen-ti da essa avviati. A tal fine le giurisdizioni nazionali possono valutare se sia necessario o meno sospendere i procedimenti da esse avviati. Tale obbligo lascia impregiudicati i diritti e gli obblighi di cui all’articolo 234 del Trattato”.

Sotto il profilo sostanziale, dunque, la norma esclude la possibilità per il giudice nazio-nale di giungere a conclusioni differenti rispetto a una decisione già adottata della Commis-

3 E’ peraltro evidente che la norma proposta debba essere, da questo punto di vista, letta con considerazione delle regole processuali nazionali – sicché non si parlerà di Corte d’Appello ma di Tribunale amministrativo, né il giudice ha poteri di “conferma” della decisione amministrativa, con il ché dovrà intendersi il riferimento alla reiezione della domanda di annullamento –;il Libro Bianco che alla nota 9 precisa “In tutti gli Stati mem-bri le decisioni delle autorità nazionali responsabili della concorrenza sono soggette a controllo giurisdizio-nale. Le decisioni di tali autorità sono considerate definitive quando non possono più essere impugnate, ossia se non è stato presentato ricorso entro i termini applicabili e le decisioni sono pertanto state accettate dai destinatari, ovvero se le decisioni sono state confermate dalle competenti corti d’appello”.

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sione. Il principio era già stato affermato dalla Corte di giustizia, secondo la quale i giudici nazionali quando “si pronunciano su accordi o pratiche che sono già oggetto di decisione da parte della Commissione, non possono adottare decisioni in contrasto con quella della Commissione”4.

Imponendo ai giudici nazionali il rispetto delle decisioni della Commissione, viene for-temente limitata la giurisdizione del giudice ordinario, attribuendo peraltro alle decisioni della Commissione un effetto più ampio di quello prospettato dal Trattato che ne prevede il carattere vincolante soltanto per i destinatari5.

Tale limitazione del potere di decisione della controversia dei giudici nazionali ha su-scitato dubbi circa la compatibilità dell’art. 16 con la Costituzione, risultando in tal modo le autorità giudiziarie vincolate alle decisioni di un organo amministrativo6. Secondo questa tesi, infatti, il giudice italiano è “soggetto soltanto alla legge” ai sensi dell’art. 101, 2° comma, della Costituzione e non a provvedimenti presi da autorità amministrative, anche comunitarie.

Tali dubbi devono essere superati, secondo alcuni autori, sul presupposto che il Trattato CE ha attribuito alla Commissione la competenza di definire i principi sanciti dagli articoli 81 e 82 CE7. Sempre in tal senso, è stato anche rilevato che il Regolamento n. 1/2003 rap-presenta senz’altro un atto vincolante che, attribuendo espressamente alle decisioni della Commissione il medesimo valore, svolgerebbe un ruolo assimilabile a quello di una “norma in bianco, integrata di volta in volta nel contenuto dalla decisione della Commissione”8.

Secondo un’altra tesi, poi, il divieto di pronunciarsi in modo non conforme a una deci-sione della Commissione risulta comunque contemperato dalla facoltà concessa al giudice nazionale, qualora nutra dubbi in merito alla decisione della Commissione, di proporre una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia9. In tal modo, pertanto, il giudice nazionale non risulterebbe vincolato dalla decisione adottata da un organo amministrativo quanto, e-sclusivamente, dalla pronuncia della Corte in merito.

Oggetto di ulteriore dibattito è costituito dagli specifici atti della Commissione che pos-sono avere portata vincolante ai sensi dell’art. 16 del Regolamento n. 1/2003. Si ritiene che tale portata spetti alle decisioni formali della Commissione, assunte dopo ampia istruttoria, con le quali si constata l’esistenza di un’infrazione e se ne intima l’eliminazione. Ad analo-ghe conclusioni si ritiene debba giungersi in relazione alle decisioni di inapplicabilità degli artt. 81 e 82 CE10.

4 V. la sentenza della Corte del 14 dicembre 2000, causa C-344/98, Masterfoods Ltd, in Raccolta, 2000, I-

11369, § 52. 5 CANNIZZARO, BOZZA, Le politiche di concorrenza, in STROZZI, Diritto dell’Unione europea. Parte specia-

le, X ed., Torino, 2006, 329. 6 TOSATO, Il processo di modernizzazione, in TOSATO, BELLODI Il nuovo diritto europeo della concorrenza,

Milano, 2004, 47. 7 PACE, I fondamenti del diritto antitrust europeo, Milano, 2005, 309. 8 FATTORI, Art. 16 Regolamento 1/2003, in MARCHETTI, UBERTAZZI, Commentario breve alle leggi su pro-

prietà intellettuale e concorrenza, 4a ed., Padova, 2007. 9 ADINOLFI, Art. 16, in L’applicazione uniforme del diritto comunitario in materia di concorrenza, a cura di

ADINOLFI, DANIELE, NASCIMBENE, AMADEO, Milano, 2007,198. 10 CASSINIS, Atti del Convegno VII UAE-LIDC Antitrust fra diritto nazionale e diritto comunitario, maggio

2006, in Contr. e impr. Eur. 2006, 736

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Al contrario non avrebbero la medesima efficacia vincolante le decisioni assunte in sede cautelare, le comfort letters e i provvedimenti di accettazione degli impegni di cui all’art. 9 del Regolamento n. 1/2003. Di questi ultimi si sostiene il carattere non vincolante in quan-to non comportano l’accertamento dell’infrazione e non impedirebbero pertanto ai giudici nazionali di adottare una decisione sul caso11.

Questi orientamenti generali sono confermati nel Libro Bianco, anche se l’effetto vinco-lante delle decisioni della Commissione che accertano l’esistenza della violazione degli ar-ticoli 81 e 82 CE non viene affermato in modo diretto. Si dice infatti che “le vittime di tale infrazione possono, ai sensi della giurisprudenza consolidata e dell'articolo 16, paragrafo 1 del Regolamento n. 1/2003, citare tale decisione come prova vincolante in un procedi-mento civile per danni”12.

Anche in merito alla facoltà concessa al giudice di disporre la sospensione del processo in pendenza di un procedimento aperto dalla Commissione, si rileva che tale principio era già stato sancito dalla Corte di giustizia: “i giudici nazionali, quando si pronunciano su ac-cordi o pratiche che possono costituire ancora oggetto di decisione da parte della Commis-sione, devono evitare di adottare decisioni incompatibili con una decisione che la Commis-sione intende adottare per l’applicazione degli artt. 85, n. 1, e 86, nonché dell’art. 85, n. 3”.13 Di conseguenza, tale facoltà poteva essere esercitata pur in assenza di una disposizio-ne interna che la prevedesse14.

3. Il rapporto tra giudizio civile e procedimento avanti l’AGCM I temi che il Codice del Consumo ed il Libro Bianco pongono sono distinti, per quanto

entrambi concernenti il problema della relazione tra procedimento amministrativo avanti l’AGCM e giurisdizione. Infatti, il primo è un problema di diritto positivo, che deve essere osservato dal punti di vista della regole in essere nel nostro ordinamento, mentre l’altra è questione che attiene alla possibilità – nella specie alla compatibilità con le norme costitu-zionali per la parte in cui non sono cedevoli rispetto al diritto comunitario – di introdurre nel nostro sistema processuale regole che vincolino il giudice dei diritti all’accertamento del fatto ed alla sua qualificazione giuridica compiuta da un’autorità amministrativa (sia pu-re indipendente).

3.1. Giudizio civile e provvedimenti (o procedimenti) amministrativi Le conclusioni raggiunte quanto al rapporto tra la giurisdizione del giudice civile e le

decisioni della Commissione europea non paiono potersi tradurre sic et simpliciter con ri-guardo alla relazione tra giudizio ordinario e provvedimenti e provvedimenti dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, indipendentemente dalla natura della norma – comunitaria o nazionale – che questa è chiamata ad applicare nel caso concreto.

Anzitutto, per quanto il tema sia stato a lungo dibattuto dalla dottrina amministrativisti-ca – e soprattutto dal punto di vista della politica del diritto, più che da quello del diritto po-

11 Ibidem. 12 § 2.3. 13 V. la citata sentenza Masterfoods, § 51 e la sentenza della Corte del 28 febbraio 1991, causa C-234/89,

Delimitis, in Raccolta, I-935, § 47. 14 V. la sentenza della Corte del 19 giugno 1990, causa C-213/89, Factortame I, in Raccolta, 1990, I-2433,

§ 20..

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sitivo – si può dare pacificamente per acquisito che le autorità indipendenti di regolazione esercitino poteri amministrativi e non giurisdizionali, con le evidenti conseguenze in ordine agli atti ch’esse adottano (15). Ne consegue, necessariamente, l’impossibilità anche teorica per il giurista positivo di porsi il problema in termini di pregiudizialità.

Né particolari profili di criticità possono derivare dal fatto che la medesima fattispecie, lo stesso comportamento da parte dell’imprenditore o dell’impresa ovvero la singola dispo-sizione possano esser applicati, ricostruiti o interpretati diversamente dall’autorità ammini-strativa (l’AGCM, nella specie) e da quella giurisdizionale. E’, infatti, del tutto comune che il medesimo fatto possa esser diversamente ricostruito in sede procedimentale e giurisdi-zionale – con il limite per quest’ultima di non poter annullare il provvedimento amministra-tivo se questo non sia frutto di un travisamento dei fatti o di un’incompleta istruzione –, com’è altrettanto consueto che la medesima disposizione possa esser interpretata ed appli-cata in modi difformi dall’amministrazione e dalla giurisdizione ovvero la fattispecie legale e quella concreta ricostruite diversamente (e l’intero giudizio di legittimità avanti il giudice amministrativo vive di questa situazione).

Nella specie, poi, gli interessi che vengono perseguiti dall’AGCM nell’adottare provve-dimenti sanzionatori e quelli che, invece, vengono in rilievo nella domanda della parte al giudice ordinario sono distinti, giacché nel primo caso si avrà cura dell’interesse pubblico e nel secondo tutela di posizioni soggettive che corrono in rapporti interindividuali, di natura privatistica (16).

La relazione tra le due procedure – quella procedimentale avanti l’AGCM, che conduce all’adozione di provvedimenti amministrativi e quella processuale innanzi il giudice ordina-rio – deve essere, quindi, risolta secondo le regole comuni sicché il provvedimento sarà irri-levante (17) per il decidere o, se illegittimo e non irrilevante, da disapplicare.

15 Il problema della natura di questi enti, se giurisdizionale, amministrativa o paragiurisdizionale, è comune a quasi tutte le esperienze europee e non mancano casi in cui la soluzione legislativamente adottata è quella dell’attribuzione di vere e proprie funzioni giurisdizionali a tali organi di controllo (come avviene in Irlanda, Svezia e Finlandia). Sotto questo aspetto, pur nell’autonomia interpretativa che caratterizza il diritto comuni-tario rispetto agli ordinamenti nazionali, è certamente significativa la posizione della Corte di giustizia espres-sa nella sentenza del 31 maggio 2005, in causa C-53/03, Syfait e altri, con la quale la Corte ha affermato che l’Autorità garante della concorrenza greca, configurata dalla legislazione interna come amministrazione indi-pendente, non costituisce giurisdizione nazionale ai fini dell’applicazione dell’art. 234 del Trattato, sicché non è abilitata a rivolgere alla Corte stessa questioni pregiudiziali sull’interpretazione del diritto comunitario. Sul-la natura delle autorità indipendenti – e dell’AGCM in particolare – quale autorità amministrativa, CARANTA, Tutela giurisdizionale effettiva delle situazioni giuridiche soggettive di origine comunitaria ed incisività del sindacato del giudice nazionale (Kontrolldichte), in Riv. it. dir. pubbl. com., 1999, 503, ANTONIOLI, Mercato e regolazione, Milano, 2001, MORBIDELLI, Sul regime amministrativo delle autorità indipendenti, in Scritti di diritto pubblico dell’economia, Torino, 2001, 165 e con rilevanti ricostruzioni sui profili processuali, RAMA-JOLI, Attività amministrativa e disciplina antitrust, Milano, 1998, VILLATA, Giurisdizione esclusiva e ammini-strazioni indipendenti, in Dir. proc. amm., 2002, 794, e, con lo sguardo della scienza del processo civile, SCARSELLI, La tutela dei diritti dinanzi alle Autorità garanti, Milano, 2000.

16 Così, inter alia, FATTORI, TODINO, La disciplina della concorrenza in Italia, Bologna, 2004, 418 e BIA-VATI Il diritto processuale e la tutela dei diritti in materia di concorrenza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, 1, 97; per l’indagine relativa alla giurisprudenza, BARONE, Commento alla sentenza della Corte d’Appello di Milano, Telsystem c. SIP, 18 luglio 1995, in Foro it., 1996, I, 276

17 Ed è in questo senso la posizione di RAMAJOLI, Attività amministrativa e disciplina antitrust, cit, 356 ss. e 503 ss., ove, condivisa la doppia anima della disciplina antitrust (una pubblicistica, governata dalla AGCM, ed una privatistica, che spetta alle iniziative dei singoli avanti la giurisdizione ordinaria, assente ogni vincolo

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Intorno a questi principi, peraltro, è pacifica la giurisprudenza che conferma che il giu-dizio civile è assolutamente indipendente rispetto a quello che si svolge davanti all’autorità antitrust, giacché ad una diversa conclusione “sarebbe possibile pervenire solo qualora il legislatore nazionale avesse configurato i procedimenti devoluti all’AGCM come cause di improponibilità temporanea della domanda davanti al giudice ordinario. Ma in difetto di una simile previsione non sarebbe possibile introdurre un difetto temporaneo di giurisdi-zione in via meramente interpretativa” (18).

3.2. Il rilevo delle decisioni amministrative, in ispecie dell’AGCM, quanto alla sentenza

del giudice civile. L’insussistenza dell’obbligo di sospendere il giudizio. Ai fini della decisione, quindi, l’accertamento compiuto in sede amministrativa ed il

contenuto della decisione non vincolano il giudice ordinario. La giurisprudenza è chiara nel ritenere irrilevante ai fini della decisione del giudice or-

dinario tanto l’assenza (sia aperta o meno un’istruttoria) quanto la sussistenza di decisioni dell’AGCM. Per la Corte di Cassazione (anche recentemente) “come è chiaro nella legge e come è pacifico in dottrina, l’azione di nullità dell’intesa anticoncorrenziale tra imprese e di risarcimento del danno, proponibile davanti alla Corte di appello, non è impedita dal mancato (o non esaurito) accertamento in sede amministrativa di tale intesa illecita” (19); se non rileva la mancanza di una decisione dell’AGCM, allo stesso modo la decisione dell’AGCM in merito all’estensione dell’influenza della posizione dominante di una delle due parti “non assume rilevanza e tantomeno può far stato della procedura in corso, stante l’assoluta autonomia dei due procedimenti sia sotto il profilo processuale (non essendo previsto un rapporto di pregiudizialità), che sotto quello sostanziale (non assumendo i ri-spettivi provvedimenti emessi alcuna influenza o condizionamento sulle decisioni delle di-verse autorità)” (20).

Essendo, quindi, irrilevante ai fini della decisione del giudice ordinario che si sia avvia-ta una procedura avanti l’AGCM sulla medesima vicenda e che questa si sia conclusa con di pregiudizialità – cfr., da 368 a 401 –), si precisa che (cfr. 380, nota 137) il giudice ordinario non è richie-sto di disapplicare il provvedimento dell’AGCM, semplicemente potendolo considerare irrilevante, come del resto avviene nei giudizi relativi alla distanza tra costruzioni ex art. 872 c.c. con riguardo ad ogni eventuale concessione edilizia.

18 Corte d’Appello di Milano, 18 luglio 1995, cit. 19 Cass., 2 febbraio 2007, n 2305 in Foro it., 2007, 4, 1097. A ulteriore conferma della sua giurisprudenza la

Corte di Cassazione, nella medesima decisione, osserva “che questa Corte (Cass. 1 febbraio 1999, n. 827 …), nell’interpretare la L. n. 287 del 1990, art. 2, ha ritenuto che la dichiarazione di nullità dell’intesa anticon-correnziale possa essere presa dal giudice ordinario pur in assenza di un corrispondente provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, alla mera condizione che l’accertamento dell’esistenza di una restrizione di concorrenza "consistente" all’interno del mercato nazionale o di una sua parte rilevante sia congruamente motivata dal giudice di merito”

20 cfr. Corte d’Appello di Roma, 16 gennaio 2001, Stream S.p.A./Telepiù, in Giur. Comm., 2002, II, 362. Per ulteriori riferimenti, SCUFFI, L’antitrust nella competenza del giudice ordinario; l’esperienza delle Corti d’Appello; la competenza diffusa in Incontro di studio del Consiglio superiore della magistratura, Roma 18-20 ottobre 2004. L’Autore richiama in proposito le ordinanze della Corte di Appello di Roma del 14-20 gen-naio 1993, Gruppo Sicurezza c. Aeroporti di Roma, Foro it. 1993, I,3377, e del 9-21 dicembre 1993, De Mon-tis c. Aeroporti di Roma, e della Corte di Appello di Milano del 31 gennaio-5 febbraio 1996, Comis e altri c. Fiera di Milano, del 20-25 settembre 1993, Sanguinetti c. Ania e altri e del 24 aprile-15 maggio 1996, Au-chan c. Faid.

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un provvedimento che accerti l’esistenza o l’insussistenza di eventi contrari alla concorren-za di mercato, il giudice non incontrerà alcun obbligo di sospensione del giudizio in attesa dell’esito del procedimento dinanzi all’AGCM. La sospensione necessaria del giudizio, in-fatti, postula la contestuale pendenza di due giudizi dei quali l’uno in grado di definire (al-meno) parzialmente l’altro (21), il che va escluso nella relazione che qui si esamina (22). Chiara, nello stesso senso, è anche la giurisprudenza, per la quale, “stante l’autonomia e le diverse finalità delle due procedure e non trattandosi, per quanto concerne l’attività del Garante, di procedura contenziosa in sede giurisdizionale (come previsto dall’art. 295 c.p.c.) è fuori luogo richiedere la sospensione del procedimento”, il ché, nel caso specifico, deriva non solo dalla natura non processuale del procedimenti antitrust, ma anche dalla “on-tologica diversità degli interessi posti a base delle rispettive procedure” (23).

Nessuna limitazione a decidere la controversia deriva quindi in capo al giudice ordina-rio.

3.3. (segue) la sospensione facoltativa In questo contesto deve esser valutata la portata dell’art. 140-bis del Codice del Con-

sumo introdotto dalla legge 24 dicembre 2007 n. 244, per il quale “il giudice può differire la pronuncia sull’ammissibilità della domanda quando sul medesimo oggetto è in corso una istruttoria davanti ad una autorità indipendente”. Ci si trova innanzi ad un’ipotesi di sospensione facoltativa, il cui rilievo è limitato alla sola decisione in merito all’ammissibilità della domanda collettiva di risarcimento.

Non sarà superfluo rammentare che la sospensione facoltativa, intesa come potere di-screzionale del giudice di arrestare il procedimento allo scopo di attendere che si concluda un diverso giudizio dal quale potranno essere ricavati elementi utili per la soluzione della controversia pendente (24), non solo non è prevista dal codice di rito – ed è sorta in funzio-ne di supplenza rispetto alla mancata previsione di quella obbligatoria – è istituto più che controverso (25). Si ritiene, per lo più, che si distingua da quella obbligatoria per l’essere di-

21 Il giudice dispone, ex art. 295 c.p.c., che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa. In proposito la Corte di Cassazione ha affermato che “La sospensione del giudizio civile ex art. 295 c.p.c. è necessaria sol-tanto quando la previa definizione di altra controversia civile, penale o amministrativa, pendente davanti allo stesso o altro giudice, sia imposta da una espressa disposizione di legge ovvero quando, per il suo carattere pregiudiziale, costituisca l’indispensabile antecedente logico-giuridico dal quale dipenda la decisione della causa pregiudicata ed il cui accertamento sia richiesto con efficacia di giudicato; al di fuori di tali presuppo-sti, la sospensione cessa di essere necessaria e, quindi, obbligatoria per il giudice, ed è meramente facoltati-va, con la conseguenza che il disporla o meno rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, insinda-cabile in sede di legittimità” (Cass., sez. un., 6 giugno 2000 n. 408)

22 Si pongono il problema della sospensione necessaria del giudizio TAVASSI, SCUFFI, Diritto processuale antitrust, Milano, 1998, 176.

23 Cfr. Corte d’Appello di Roma, 16 gennaio 2001, Stream S.p.A./Telepiù, cit.. 24 In argomento, TRISORIO LIUZZI, La sospensione del processo civile di cognizione, Bari 1987, 483, GIAL-

LONGO, Note in tema di sospensione, pregiudizialità e connessione nel processo di cognizione, in Riv. trim. dir. proc., 1985, 670, CIPRIANI, Le sospensioni del processo civile per pregiudizialità, in Riv. dir. proc., 1984, 239.

25 La dottrina, da parte sua, sul presupposto dell’eccezionalità della sospensione, della tassatività delle sue ipotesi e della mancanza di una espressa previsione legislativa, ha ripetutamente contestato la giurisprudenza che dispone la sospensione facoltativa (cfr. in particolare Trib. Larino 14 marzo 2001, in Foro it., Rep. 2002,

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sposta a fronte di una generica possibilità di influenza di un giudizio rispetto ad un altro, venendo così riferita ad una connessione più attenuata derivante dalla comunanza del fatto o delle questioni giuridiche (26), ovvero per attuare un coordinamento fra pronunce emesse in diversi processi, in modo da garantire il rispetto del giudicato pregiudiziale nella decisio-ne sul rapporto giuridico dipendente, per operare un semplice coordinamento tra le pronun-zie. In ogni caso, la sospensione facoltativa viene disposta nella relazione tra più giudizi, mentre la norma introdotta nel Codice del Consumo opera la sospensione facoltativa nei confronti di un procedimento amministrativo. In questi termini, quindi, specie dopo la mo-difica legislativa dell’art. 295 c.p.c. e l’eliminazione della pregiudizialità rispetto al giudi-zio amministrativo (27), la previsione suona particolarmente dissonante con il sistema.

Può forse osservarsi che la giurisprudenza ordinaria ha assunto un atteggiamento molto possibilista, dopo la riforma dell’art. 295 c.p.c., con riferimento alla sospensione facoltativa del giudizio civile in favore di quello amministrativo. In particolare, s’è ritenuto che “per le sentenze emesse in giudizi amministrativi il problema si pone, però, in termini alquanto di-versi, poiché la possibile rilevanza di tali sentenze nell’ambito di un processo civile si arti-cola su modelli che, a quanto pare, non riproducono la medesima alternativa tra vincolo di giudicato e influenza generica. E così anche il dilemma tra obbligo o facoltà di sospendere non si prospetta secondo i criteri solitamente enunciati in via generale” (28). Il rilievo del giudizio amministrativo non si determina nella giurisdizione di legittimità (perché gli accer-tamenti relativi ad interessi legittimi non vincolano il giudice ordinario e perché l’effetto cassatorio del processo amministrativo porterà all’eliminazione del provvedimento ovvero alla sua conferma, con effetto che non priva il giudice ordinario del potere di disapplicare l’atto illegittimo per conoscere della posizione soggettiva di diritto); l’annullamento voce Procedimento civile, n. 298, e Giust. civ., 2002, I, 215, con nota critica di ZUMPANO, Sospensione facol-tativa del processo civile per pendente impugnazione di un atto amministrativo, che ha dichiarato la sospen-sione facoltativa del processo civile in attesa della definizione di un giudizio amministrativo, anziché procede-re alla disapplicazione incidenter tantum del provvedimento amministrativo, “al fine di garantire l’interesse all’armonia dei giudicati”), sottolineando che con la sospensione facoltativa non solo il giudice si sottrae al dovere di decidere la controversia sottoposta al suo esame, ma inoltre si assiste ad una evidente lesione del diritto di azione costituzionalmente garantito (fra gli altri, ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, I, 966, SATTA, Commentario al codice di procedura civile, Milano, 1960, II, 1, 389 , LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, Milano, 1981, II, 190, MONTESANO, La sospensione per dipendenza di cause civili e l’efficacia dell’accertamento contenuto nelle sentenze, in Riv. dir. proc., 1983, 387, note 9, 14, PROTO PI-SANI, Sulla sospensione necessaria del processo civile, in Foro it., 1969, I, 2517, CIPRIANI, Sospensione del processo, voce dell’Encic. Giur.Treccani, Roma, 1993, XXX, 2, TRISORIO LIUZZI, op. ult.cit., 112, 484, GIALLONGO, op. ult.cit., 672, ZUMPANO, Rapporti tra processo civile e processo penale, Torino, 2000, 222, ID., op. ult.cit. ). Si legga, comunque, Cass. [ord.], sez. I, 28 gennaio 2005, n. 1813, in Foro it. Rep., 2005, vo-ce Procedimento civile [5190], n. 284 che ricorda come “nel quadro della nuova disciplina di cui all’art. 42 c.p.c., come novellato dalla l. 26 novembre 1990 n. 353, non vi è più spazio per una discrezionale, e non sin-dacabile, facoltà di sospensione del processo, esercitabile dal giudice al di fuori dei casi tassativi di sospen-sione legale; dalla esclusione della configurabilità di una sospensione facoltativa ope iudicis, del giudizio, deriva come logico corollario l’impugnabilità, ai sensi dell’art. 42 c.p.c., di ogni provvedimento di sospen-sione del processo, quale che ne sia la motivazione, e che il ricorso deve essere accolto ogniqualvolta non si sia in presenza di un caso di sospensione ex lege”

26 Così, recentemente, Cass. [ord.], sez. III, 14 settembre 2007, n. 19293, in Foro it. Rep., 2007, voce Pro-cedimento civile, n. 260.

27 In tema, ZUMPANO, op. ult.cit., passim. 28 ZUMPANO, op. ult.cit., 218.

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dell’atto da parte del giudice amministrativo, per sé, non può assimilarsi ad una prova ed il giudice ordinario non potrà che considerare che gli effetti dell’atto si hanno per non prodot-ti. Anzi, lo speciale potere di disapplicazione dell’atto amministrativo incidenter tantum fornisce un eccellente argomento per confermare che la contestuale pendenza del giudizio amministrativo di legittimità non determina la necessità di sospendere il processo civile (29). Da altro punto di vista – e rammentando che la legge 10 ottobre 1990, n. 287, art. 33, prevede che i ricorsi avverso i provvedimenti amministrativi adottati dall’AGCM rien-trino nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (30) – a conclusioni non diffe-renti si deve pervenire anche con riguardo alla giurisdizione esclusiva del giudice ammini-strativo non già per l’assenza di vincolo in capo al giudice ordinario quanto agli accerta-menti concernenti interessi legittimi – ben potendo formare oggetto della giurisdizione e-sclusiva anche diritti soggettivi – quanto, piuttosto, in ragione della natura costitutiva del giudizio su provvedimenti amministrativi. Non di meno, nella giurisdizione esclusiva, sia pure con le prudenze della giurisprudenza, potrà esser proposta anche la domanda di accer-tamento del diritto soggettivo (31), sicché la relazione tra giudizio amministrativo ed ordina-rio in ordine alle pretese discendenti dall’azione a tutela della posizione soggettiva in parola andrà risolta secondo le regole consuete riguardanti la litispendenza e la connessione (32).

Tuttavia, la giurisprudenza non manca di presentare orientamenti che sembrano ritenere che il legame fra i due processi sia comunque riconducibile all’area dei nessi pregiudiziali, in quanto la questione sulla legittimità dell’atto amministrativo rappresenta un antecedente logico della decisione civile, sicché – non potendosi più dare ipotesi di sospensione neces-saria – tende ad ammettere sospensioni facoltative (33). Anzi, la giurisprudenza della Corte di Cassazione arriva ad affermare che la conferma della legittimità del provvedimento a-vanti il giudice amministrativo determina l’impossibilità per il giudice ordinario di disap-plicarlo (34). Anche la dottrina che esclude possa darsi pregiudizialità tra giudizio ammini-strativo di legittimità ed ordinario, però, giunge a ritenere utile la sospensione facoltativa

29 Per il giudizio amministrativo, pur nell’evoluzione degli istituti, resta fondamentale ROMANO [A.], La

pregiudizialità nel processo amministrativo, Milano, 1958 30 POLICE, Tutela della concorrenza e pubblici poteri.Profili di diritto amministrativo nella disciplina anti-

trust, Torino, 2007, 361. 31 In merito, TONOLETTI, L’accertamento amministrativo, Padova, 2001, ID., Mero accertamento e processo

amministrativo: analisi di casi concreti, in Dir. proc. amm., 2002, 593 e, se si vuole, PERFETTI, Diritto di a-zione ed interesse ad agire nel processo amministrativo, Padova, 2001, 300.

32 Tema sul quale, di recente, si rinvia a RAMAJOLI, La connessione nel processo amministrativo, Milano, 2003.

33 Cfr. TRISORIO LIUZZI, La sospensione del processo civile, cit., 545, MENCHINI, Sospensione del processo civile. a) Processo civile di cognizione, in Enc. dir., XLIII, in particolare, 39-41, CASSARINO, Problemi della disapplicazione degli atti amministrativi nel giudizio civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1985, 871, mentre il chiarimento circa l’incompatibilità tra disapplicazione e pregiudizialità si deve a VILLATA, “Disapplicazione” dei provvedimenti amministrativi e processo penale, Milano 1980, 78.

34 Per l’indagine su questa giurisprudenza, CARANTA, Variazioni sull’inesistenza dell’atto amministrativo adottato in situazioni di carenza di potere, in Giust. civ., 1999, I, 211. Aderisce a quest’idea GOTTI, Conside-razioni su recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di sindacato giudiziario di legittimità sugli atti am-ministrativi, in Foro amm., 1981, I, 214, che sostiene che la questione di legittimità dell’atto amministrativo si atteggia sempre come questione pregiudiziale al giudizio ordinario (in senso analogo MENCHINI, La tutela del giudice ordinario, in Trattato di diritto amministrativo a cura di Cassese, IV, Il Processo amministrativo, Mi-lano 2005, 3710).

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del secondo “qualora il processo amministrativo dovesse concludersi con l’annullamento dell’atto” (35). Nella sostanza, la giurisprudenza e parte importante della dottrina del pro-cesso civile sembrano ammettere l’utilità della sospensione facoltativa del processo civile in relazione alla pendenza di uno avanti il giudice amministrativo.

A prescindere dall’accoglibilità di simili prospettazioni, resta il fatto che la norma in questione del Codice del Consumo introduce una norma che potrebbe esser astrattamente intesa come un’ipotesi di sospensione del giudizio per fare rinvio alle valutazioni di un’autorità amministrativa. Appare, quindi, necessaria una precisazione.

Infatti, se alla prima lettura la disposizione del Codice del Consumo può esser letta co-me l’introduzione di una sospensione facoltativa – con le conseguenze che ne derivano in ordine alla pregiudizialità – non può neppure negarsi che la stessa norma potrà essere inte-sa, invece, come facoltà per il giudice ordinario di differire l’avanzare del processo all’esito del concludersi del procedimento amministrativo dal quale potrà acquisire elementi di co-noscenza.

E’ evidente che dalla differente lettura della disposizione deriveranno anche diverse conseguenze di natura processuale, giacché laddove la si intenda come ipotesi di sospen-sione facoltativa del giudizio ne conseguirà una riduzione della giurisdizione del giudice ordinario che rinunzierà – sia pure facoltativamente – a decidere una porzione della contro-versia per riportarsi alla qualificazione giuridica della fattispecie che sia data dall’autorità amministrativa, mentre ove la si legga come differimento, dal provvedimento amministrati-vo e dall’istruttoria che lo precede il giudice ordinario riceverà elementi di prova, soggetti al suo libero convincimento.

Ebbene, pare più coerente con il sistema e con la stessa lettera della norma intendere quest’ultima come introduttiva di un potere di differimento e non come una sospensione fa-coltativa. Dall’opposta soluzione deriverebbe una moltitudine di problemi e contraddizioni di non facile soluzione.

In primo luogo, ne riverrebbe la conseguenza che la giurisdizione ordinaria sarebbe vincolata alla decisione di un ente amministrativo - ancorché indipendente - con la difficol-tà di armonizzare una simile conclusione con il sistema. Infatti, il giudice nel decidere non sarebbe soggetto solo alla legge, ma anche alle risultanze del procedimento amministrativo. Ancor più, il cittadino vedrebbe compresso il proprio diritto di agire in giudizio (art. 24 Cost.) avanti il giudice naturale, per la parte in cui quest’ultimo rinunzi a decidere la do-manda proposta dall’attore, decidendo di vincolarsi – attraverso la sospensione – alla deci-sione di un organo amministrativo. Si potrà eccepire che la sospensione è solo facoltativa ed il giudice non viene privato della giurisdizione o assoggettato alle risultanze del proce-dere dell’autorità amministrativa, ma egli stesso vi si sottopone volontariamente.

In questa prospettiva, quindi, si apre il problema della natura officiosa della sospensione e della sottrazione alle parti del diritto esclusivo di introdurre i fatti nel giudizio, con evi-dente alterazione del sistema del codice (36).

35 ZUMPANO, op. ult.cit., 222. 36 Non è possibile dare conto in questa sede del quasi sterminato dibattito sul principio dispositivo. Per un

esame più ragionato sia consentito rinviare a PERFETTI, Prova (processo amministrativo), in Enciclopedia del diritto, Aggiornamento, in corso di pubblicazione.

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In secondo luogo resta difficile comprendere per quale ragione la sospensione debba es-ser facoltativa: o non v’è pregiudizialità – come sembra – ed allora non v’è sospensione, ovvero, nel caso opposto, dovrebbe ipotizzarsi una sospensione obbligatoria se non si vuole incorrere nella conseguenza della disparità di trattamento tra ipotesi nelle quali l’autorità giudiziaria ha atteso la decisione di quella amministrativa ed altre in cui ha ritenuto l’opposto.

Così opinando, però, si apre un problema ancor più rilevante; infatti, laddove si ritenga sussistente la pregiudizialità occorrerà rendere ragione di come la si possa affermare a van-taggio di un procedimento amministrativo e non già di un processo.

Da altro punto di vista, il dato letterale della disposizione non sembra andare nel senso dell’introduzione di un vincolo di pregiudizialità con l’introduzione di una sospensione del giudizio, sia pure facoltativa. Infatti, la disposizione si riferisce propriamente ad un differi-mento della questione di ammissibilità e non ad una sospensione. Inoltre, la questione si pone limitatamente alla valutazione della sola ammissibilità della domanda, sicché sembra chiaramente riferirsi all’accertamento del fatto della sussistenza o meno del comportamento anticoncorrenziale.

Non appena poi si passi ad ipotizzare una casistica, una simile lettura della disposizione apre fatalmente una serie di questioni più che critiche. Infatti, si possono dare ipotesi (i) nelle quali l’istruttoria è in corso innanzi all’autorità ed altre nelle quali nessun procedi-mento è in corso – sicché ad ammettere la natura di sospensione del differimento consegue che il vincolo sul potere di decisione del giudice discende non solo dalla sua scelta latamen-te discrezionale in ordine alla sospensione ma anche dalla circostanza, del tutto casuale, ch’essa sia in corso oppure non –, (ii) nelle quali l’istruttoria si conclude con un provvedi-mento il cui contenuto possa essere illegittimo – sicché si assisterebbe alla evenienza singo-lare per la quale il giudice ordinario invece di dover disapplicare il provvedimento invalido dell’amministrazione dovrà addirittura uniformarsi ad esso –; naturalmente, poi, si potrebbe ulteriormente osservare che (iii) gli scopi cui tendono l’accertamento dell’AGCM e del giudice ordinario sono pacificamente differenti sicché non pare agevole ritenere che quello svolto dalla prima possa vincolare il secondo. In aggiunta si potrebbe indagare il differente perimetro dell’accertamento compiuto dall’Autorità con riferimento alle ipotesi nelle quali la natura anticoncorrenziale del comportamento o dei negozi privatistici venga esclusa o af-fermata.

Sembra, piuttosto, doversi ritenere che la disposizione interpolata nel Codice del Con-sumo possa intendersi come attribuente al giudice la semplice facoltà di differire la decisio-ne sulle questioni pregiudiziali per acquisire da un terzo un accertamento del fatto con sem-plice valore probatorio.

3.4. Le risultanze dell’istruttoria AGCM come prova. Una simile lettura della disposizione in esame non solo sembra corrispondere al sistema

e non prospettare particolari criticità in sede applicativa, ma coerente con l’insegnamento giurisprudenziale e le letture dottrinali della relazione tra procedimento avanti l’AGCM e processo (37).

37 NEGRI, Giurisdizione e amministrazione nella tutela della concorrenza, Torino, 2006, 145.

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Semmai, il problema è quello di stabilire quale sia il valore di una simile prova. Secon-do alcune prospettazioni il giudice sarebbe tenuto ad attenersi agli accertamenti e alle valu-tazioni che l’AGCM in quanto dotata in via esclusiva di competenza amministrativa nel set-tore, abbia dato sui fatti sui quali il giudice stesso è chiamato a pronunciarsi (38); anzi, in alcune prospettazioni si giunge a ritenere che, “in virtù della particolare autorità di chi li compie”, si sarebbe innanzi ad accertamenti che debbono essere distinti “dalle mere consu-lenze tecniche stragiudiziali ma anche dagli accertamenti tecnici preventivi” ed, essendo realizzati in contraddittorio, meriterebbero d’esser considerati “atti pubblici efficaci, ai fini della prova, ai sensi dell'art. 2700 c.c., salva la distinzione tra ciò che è percezione, idoneo a fare piena prova fino a querela di falso, e ciò che è deduzione, rimesso alla prudente va-lutazione del giudice” (39). Secondo un’altra e differente lettura, più aderente agli insegna-menti giurisprudenziali, le risultanze delle istruttorie dell’AGCM possono rappresentare un importante punto di riferimento valutativo del convincimento del giudice nel libero apprez-zamento delle prove (40), restando comunque escluso che i provvedimenti dell’AGCM in materia di intese e abusi di posizione dominante possano rappresentare per il giudice civile fonti di accertamento vincolante in relazione all’esistenza dell’infrazione (41).

Pur senza poter entrare in questa sede nel vasto dibattito relativo al valore della prova, alle prove atipiche ed al provvedimento amministrativo come strumento di prova nel pro-cesso civile (42), non sembra difficile osservare che le risultanze dell’istruttoria sembrano presentare le stesse caratteristiche del provvedimento amministrativo utilizzato come prova documentale nel giudizio ordinario – perché introdotto dalla parte o acquisito dal giudice ex art. 213 c.p.c. – e sottoposto al libero apprezzamento del decidente.

Resta evidente che il valore persuasivo di una simile prova sarà in concreto assai eleva-to, in considerazione del risultare da un procedimento svolto in contraddittorio e debita-mente approfondito, forse anche più di quanto non possa avvenire nel corso del giudizio ordinario per via della specializzazione degli attori procedimentali. E’ questo

38 LIBERTINI, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, in Giur. comm., 1998, I 660. 39 BIANCHI [R.], Tutela aquiliana antitrust: verso un nuovo sottosistema della responsabilità civile?, in

Resp. Civ. e prev., 2007, 1616, nota a Cassazione civile, sez. III, 2 febbraio 2007, n. 2305. 40 SCUFFI, Orientamenti consolidati e nuove prospettive nella giurisprudenza italiana antitrust, in Atti del

Convegno V UAE-LIDC, Antitrust fra diritto nazionale e diritto comunitario, 16-17 maggio 2002, 1. L’Autore richiama a titolo esemplificativo due ordinanze rispettivamente del Tribunale di Modena e di Roma. Nella prima, del 6 giugno 1997, nella causa Panini c. Associazione italiana calciatori, Dir. Industriale, 1997, 1047, il giudice aveva rifiutato l’inibitoria “per condividere i rilievi negativi dell’Autorità Garante che aveva quali-ficato tali accordi come intesa restrittivi della concorrenza” e aveva richiamato il provvedimento AGCM per relationem nel corpo della motivazione; nella seconda, del 14 agosto 2000, Europa Tv c. Stream , in Cass. pen. 2001, 57, il Tribunale di Roma si era rifatto alla valutazione negativa in merito alla natura abusiva del comportamento negoziale dell’impresa in posizione dominante e aveva stabilito che l’ottica del processo civi-le deve essere analoga a quella del provvedimento amministrativo, pur non facendo esso stato nel processo. Nello stesso senso si vedano anche Corte Appello Milano, ordinanza 3 giugno 2004, Moto c. Autogrill e altri, in cui è stato messo in risalto come una collaborazione informativa trovi ragione nel fatto che l’AGCM pos-siede gli strumenti più idonei per compiere tutti quegli accertamenti e analisi necessari per definire il contesto economico in cui inserire il caso concreto; Corte Appello Napoli 3 maggio 2005, Nigriello c. SAI, Foro it., 2005, I, 1880 e Cass. 2305/2007 cit.

41 NEGRI, Giurisdizione e amministrazione nella tutela della concorrenza, cit., 147. 42 Dovendosi, così, rinviare per l’illustrazione del dibattito a quanto altra volta esposto in PERFETTI, Prova

(processo amministrativo), cit.

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l’atteggiamento che sembra esser prevalso nella giurisprudenza di legittimità – e sul punto appare emblematica la vicenda relativa alle assicurazioni per la responsabilità civile auto (43) (in ordine alla quale si deve rinviare alle considerazioni di dottrina autorevole (44)) nel-la quale la Corte di Cassazione ha dato per assodato il fatto storico dell'esistenza dell'intesa, oggetto non di un accertamento giurisdizionale, ma di una decisione dell'Autorità (seppure confermata dai giudici amministrativi di legittimità) – e di merito (sicché la dottrina più volte citata (45) ha osservato che “sembra difficile negare che la giurisprudenza di legitti-mità (per non dire di quella di merito) abbia assunto le acquisizioni dell'Autorità garante, quanto meno, alla stregua di un dato di fatto, di un dato storico, sul quale non si è svolta alcuna ulteriore verifica” sicché si verifica la circostanza, obiettivamente contrastante con il sistema, per la quale “un organo che non ha natura giurisdizionale determina, ai propri fini, la verità di taluni fatti; una volta che la decisione sanzionatoria dell'Autorità garante risulti stabilizzata, dopo il vaglio del giudice amministrativo, anche il fatto che ne costitui-sce il presupposto gode, non certo di un'efficacia di giudicato, ma comunque di una forza storica che rende superfluo ogni diverso accertamento da parte dei giudici civili”, sicché “nei rapporti che dipendono, a valle, dalla decisione dell'Autorità, l'accertamento (questo, tecnicamente tale) compiuto dai giudici non ha una sua autonomia reale, ma si fonda, in concreto, su elementi verificati da un altro organo, in sede non giurisdizionale e con moda-lità di contraddittorio e di prova non identiche a quelle del codice di rito”).

Si tratta di una giurisprudenza che si regge su un fraintendimento di fondo rispetto al ruolo dell’autorità. Se si legge la motivazione della citata sentenza n. 14475/2002 della Corte di Cassazione, sez. I, ci si imbatte presto nell’affermazione che "la legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo, al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere". Ebbene, è invece pacifico che l’interesse agìto dalle parti in giudizio è differente da quello che conduce l’attività dell’AGCM (vale a dire l’interesse pubblico). In questa prospettiva, è fin troppo facile richiamare alla mente la di-stinzione che la più autorevole dottrina amministrativistica che ha studiato il procedimento ha da tempo segnato tra questo ed il processo: nel primo chi agisce non è terzo – com’è il giudice – perché cura, in modo imparziale, un interesse affidato alla sua cura – l’interesse pubblico – e non solo quello dei destinatari della sua azione – come avviene per il giudice – ( 46). Da questo punto di vista, quindi, è del tutto irrilevante che il giudice del rapporto sia quello amministrativo ovvero quello ordinario (47); quel che rileva è che non pare potersi

43 Cfr., Cass., 9 dicembre 2002, n. 14475, in Guida dir., 2003, 5, 68 e Cass., sez. un., 4 febbraio 2005, n. 2207, in Corr. giur., 2005, 333, ove nota di NEGRI, Il lento cammino della tutela civile antitrust: luci ed om-bre di un atteso grand arrêt.

44 BIAVATI, Il diritto processuale e la tutela dei diritti in materia di concorrenza, cit., passim. 45 BIAVATI, Il diritto processuale e la tutela dei diritti in materia di concorrenza, cit., 99 46 Evidente il richiamo a BENVENUTI, Eccesso di potere per vizio della funzione, in Riv. Dir. Pubbl., 1950,

1, ID., Funzione amministrativa procedimento e processo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, 118, ID., Funzione. Teoria generale, in Encic. Giur. Treccani, 1989, ad vocem, ID., L’istruzione nel processo amministrativo, Padova, 1953, ID., Per un diritto amministrativo paritario, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Padova, 1975, 807, ID., Processo amministrativo (struttura), in Enc. Dir, XXXVI, Milano, 1987

47 Affermazione con la quale ci si scosta da BIAVATI, Il diritto processuale e la tutela dei diritti in materia di concorrenza, cit., passim, che pare invece raffigurare il giudice amministrativo come autorità giurisdiziona-

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ritenere che l’accertamento del fatto realizzato nel procedimento possa risultare vincolante per il giudice – e, comunque, suscettibile d’esser viziato per travisamento dei fatti – .

3.5. Lo “effetto vincolante delle decisioni delle autorità nazionali di concorrenza” pre-

visto dal Libro Bianco in materia di azioni per il risarcimento del danno per violazione del-le norme antitrust ed il problema della pregiudizialità.

La discussione relativa alla norma introdotta dal Codice del Consumo mostra ora la sua utilità per l’esame di quanto proposto dal Libro Bianco della Commissione. Come già pre-messo in apertura, il Libro Bianco della Commissione – oggi nella fase in cui è sottoposto ad osservazioni – propone che le decisioni delle autorità nazionali (appartenente alla rete europea della concorrenza – ECN – ) abbiano “effetto vincolante” per i giudici nazionali e quelli degli Stati membri quanto all’accertamento dell’illiceità del comportamento delle imprese al pari delle decisioni della Commissione. Nella sostanza, il giudice nazionale sa-rebbe vincolato dalle decisioni delle autorità amministrative indipendenti garanti della con-correnza e del mercato di qualsiasi Paese della Comunità. Si tratta di una proposta che ri-guarda solo le decisioni che dichiarano la violazione della concorrenza, non anche le deci-sioni negative e sempre a patto che si tratti di decisioni definitive o confermate dai giudici competenti, che si siano pronunciate sui medesimi comportamenti o prassi evocati nel giu-dizio civile di risarcimento nei confronti delle medesime imprese.

La ratio di una simile proposta sarebbe quella di evitare che le imprese convenute per-ché siano condannate a risarcire il danno di una condotta concorrenziale possano “mettere in dubbio la violazione degli articoli 81 o 82 stabilita in una decisione di un'autorità na-zionale per la concorrenza ed eventualmente confermata da una corte d'appello”, vale a di-re di un provvedimento amministrativo inoppugnabile perché non impugnato o perché la richiesta di annullamento sia stata respinta; in particolare si vuole evitare che i giudici di-nanzi ai quali “venga intentata un'azione per danni dovranno riesaminare i fatti e gli aspet-ti giuridici già oggetto di indagine e valutazione da parte di un'autorità pubblica specializ-zata”. L’accertamento del fatto e la sua qualificazione giuridica che vengano compiuti da un’autorità amministrativa (con provvedimento amministrativo non più ricorribile in sede giurisdizionale), quindi, vincolerebbero il giudice ordinario. Il provvedimento amministra-tivo assunto dall’autorità antitrust, quindi, cesserebbe d’essere irrilevante (così come oggi si ritiene che sia) per divenire vincolante.

Ora, sembra che lo “effetto vincolante” per il giudice che si vorrebbe conferire alle de-cisioni dell’autorità antitrust sia ben difficilmente compatibile con il nucleo essenziale delle libertà e dei diritti fondamentali garantiti in sede costituzionale nazionale e contrastante sia con il Trattato UE che nel Preambolo assicura garanzia “ai principi della libertà, della de-mocrazia e del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nonché dello Stato di diritto”e all’art. 6, comma II, impegna l’Unione al rispetto dei “diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e le libertà fon-damentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e quali risultano dalle tradizioni costituzio-

le a cognizione semi – piena e, quindi, incapace di assicurare la protezione delle posizioni soggettive; piutto-sto, la distinzione corre tra procedimento e processo (e non già all’interno di questo a seconda del giudice cui è devoluta la giurisdizione – pena, tra l’altro, ad accettare quell’ordine di idee, la necessaria incostituzionalità della giurisdizione esclusiva su diritti del giudice amministrativo, ove prevista).

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nali comuni degli Stati membri in quanto principi fondamentali del diritto comunitario” sia con il Trattato CE che all’art. 177, comma II, prevede che la Comunità debba contribuire allo sviluppo “all’obiettivo generale del consolidamento della democrazia e dello Stato di diritto nonché al rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”.

Infatti, è ben difficile ritenere che il diritto di agire in giudizio avanti al giudice preco-stituito per legge sia non solo principio fondamentale del nostro ordinamento costituzionale (art. 24 Cost.) ma, anche, elemento costitutivo dell’idea di Stato di diritto.

Ebbene, nella specie il cittadino che agisca in giudizio per chiedere di essere risarcito da condotte anticoncorrenziali vedrà (i) la sua azione si dispiegarsi avanti un giudice che non potrà conoscere interamente della causa proposta – perché la qualificazione giuridica del comportamento dannoso gli è sottratta – , (ii) il giudizio vincolato alle risultanze di un pro-cedimento del quale egli non è stato parte – e, quand’anche casualmente lo fosse stato, non vi avrà goduto le stesse garanzie di cui gode in giudizio – e, comunque (iii) posto in essere per la tutela di interessi differenti da quello che fa valere in giudizio.

E’ piuttosto evidente che, quanto alla considerazione appena svolta, indicata con il nu-mero (ii), si è innanzi ad una violazione del principio del contraddittorio, assicurato invece dalla nostra Costituzione come garanzia essenziale delle posizioni soggettive del cittadino e parte costitutiva della nozione di Stato di diritto.

Quanto alle osservazioni (i) e (iii), invece, si è innanzi alla compressione del diritto di azione in giudizio, anch’esso protetto dalla nostra carta costituzionale con previsioni in-comprimibili da parte del diritto comunitario e parte essenziale della garanzia dei diritti dell’uomo, delle libertà fondamentali e della nozione di Stato di diritto che il Trattato per primo garantisce. Infatti, il perimetro dell’azione sarebbe ridotto dalla sottrazione al giudice (a qualsiasi giudice) di una porzione significativa di giurisdizione (accertamento del fatto e sua qualificazione giuridica) che verrà riservata ad un’autorità amministrativa (profilo (i)).

Ancor più significativamente, però, il diritto fondamentale di agire in giudizio per la tu-tela dei propri diritti ed interessi (art. 24 Cost.) verrebbe violato e compresso a fronte dell’introduzione di una disposizione del tipo di quella vagheggiata dal Libro Bianco per via della considerazione (iii) di cui sopra. Infatti, il cittadino che agisse in giudizio per otte-nere la condanna della sua controparte processuale al risarcimento del danno per condotte anticoncorrenziali che gli abbiano nuociuto si vedrà costretto a sottostare alla decisione di un’autorità non giurisdizionale (amministrativa, nella specie) che non è affatto resa nel suo interesse (ma nell’interesse pubblico). L’attore, quindi, agirà nel suo interesse, facendo va-lere i suoi diritti e, tuttavia, il giudice potrà rendere la decisione nell’interesse dell’attore so-lo in (piccola) parte, perché la sostanza della sua decisione deriva da un provvedimento – alla cui formazione l’attore non ha partecipato – che non è assunto nell’interesse dell’attore (48). Né è disagevole osservare che la questione non è solo dommatica (o riferita alla so-stanza dei principi dello Stato di diritto che pure talvolta sono calpestati dalle norme legi-slative nazionali) ma carica di aspetti applicativi.

Non è infatti difficile immaginare che le ragioni per le quali si sia ritenuta anticoncor-renziale la condotta dal punto di osservazione della protezione dell’interesse pubblico pos-

48 Sulla relazione tra interesse agito e sostanza del diritto di agire in giudizio per come protetto dall’art. 24

Cost., sia consentito il rinvio per conclusioni più argomentate a PERFETTI, Azione ed interesse ad agire nel processo amministrativo, Padova, 2004, passim.

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sano essere riferite all’ordine economico complessivo ed essere del tutto inadatte a com-provare il danno del singolo consumatore o utente, il quale, tuttavia, quando agirà in giudi-zio si troverà avanti ad un giudice vincolato al contenuto di accertamenti e qualificazioni giuridiche che sono rese da un soggetto (l’AGCM, in ispecie) che agisce nel perseguimento di un interesse diverso dal suo ed in sua assenza.

4. Conclusioni Sul piano processuale, qualora sia pendente un procedimento dinanzi alla Commissione

il giudice ha la facoltà di sospendere il giudizio dinanzi a sé pendente, ai sensi dell’art. 16 del Regolamento 1/2003. Tale strumento sembrerebbe da escludere nel caso sia in essere un procedimento dinanzi all’AGCM ed anche caso disciplinato dell’art. 140-bis, III comma del Codice del Consumo, il giudice, al solo fine di statuire in merito all’ammissibilità della domanda, non ha se non la facoltà di dilazionare la decisione al fine di acquisire la decisio-ne dell’AGCM in funzione di prova.

Quanto all’estensione del valore vincolante di alcune statuizioni dell’AGCM (che ac-certano l’illiceità del comportamento delle imprese e che siano state confermate dal giudice del provvedimento o divenute non più impugnabili) o delle corrispondenti autorità degli al-tri Stati membri proposta dal Libro Bianco, non si può che rilevare il contrasto di una simile ipotesi con i principi fondamentali della Costituzione, insuscettibili d’esser derogati anche dal diritto comunitario.

Stefania Bariatti Luca Perfetti

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CONVEGNO 17 GIUGNO 2008

Bruno Cavallone

AZIONI DI RISARCIMENTO DEL DANNO PER VIOLAZIONE DELLE NORME ANTITRUST

COMUNITARIE: PROBLEMI DELL’ISTRUZIONE PROBATORIA

1. Il libro bianco propone l’introduzione “mediante una combinazione di misure a

livello sia comunitario sia nazionale”, tra l’altro, di alcune norme speciali in tema di

istruzione probatoria, dichiaratamente modellate su quelle già introdotte in

materia di tutela dei diritti di proprietà intellettuale e industriale dalla Direttiva

2004/48/CE, c.d. Enforcement, attuata in Italia dal D.Lgs. n. 140/2006 con la

modificazione o l’aggiunta di alcuni articoli della legge sul diritto d’autore e del

codice della proprietà industriale.

2. Peraltro, per quanto riguarda l’ordinamento italiano, le regole contenute

nella direttiva Enforcement erano già parzialmente presenti dal 1996 nella stessa

legge sul diritto d’autore e in quella sui brevetti per invenzioni, per effetto

dell’attuazione degli accordi TRIPs del 1994.

3. All’origine delle proposte del libro bianco, per quanto appunto attiene alle

norme sull’istruzione probatoria, vi è la constatazione della asimmetria

informativa che caratterizza le liti in sede civile sulla violazione di norme

antitrust, per la frequente inaccessibilità da parte dell’attore, e il possibile

occultamento da parte dell’impresa convenuta, di prove indispensabili per

l’accertamento delle violazioni. Anche se i rimedi dovranno pariteticamente

riguardare (come precisa il n. 97 del Working Paper) entrambe le parti in giudizio.

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4. Mi sembra che possano preliminarmente farsi due rilievi di carattere

generale. Il primo: questo libro bianco si riferisce alle azioni di risarcimento del

danno per violazione delle norme antitrust comunitarie, cioè degli artt. 81 e 82

del Trattato CE. Ma naturalmente i giudici nazionali si trovano anche e prima di

tutto a decidere su azioni risarcitorie per violazioni di norme antitrust “interne”,

e per queste azioni, indipendentemente dal fatto che esse vengano conosciute,

come da noi avviene, in unico grado da una Corte d’Appello (ex art. 33 legge n.

287/1990), ovvero da un Tribunale secondo le regole ordinarie di competenza,

non è prevista alcuna disciplina speciale dell’istruzione probatoria. Credo che,

se e quando le raccomandazioni del libro bianco si tradurranno in norme della

legge italiana, bisognerà darsi carico di questa potenziale illogica discriminazione.

5. Il secondo rilievo, di carattere ancora più generale: è giusto introdurre una

disciplina dell’istruzione probatoria differenziata, o privilegiata, solo per certi tipi

di controversie, e non per altri, che pure riguardano fattispecie, eventualmente

analoghe, di responsabilità extracontrattuale? Penso per esempio alle liti sulla

responsabilità del produttore, che furono proprio tra quelle prese a suo tempo in

specifica considerazione nel contesto delle polemiche e dei contrasti (si parlò di

Justizkonflikt) a cui diede luogo l’art. 23 della Convenzione dell’Aja del 18 marzo

1970, che consentiva ad ogni Stato contraente di non eseguire le rogatorie fondate

su un provvedimento di discovery dei giudici nordamericani.

6. Il fatto è che una “asimmetria informativa” può sussistere in una quantità

illimitata di controversie, e non sempre a sfavore della parte attrice (come

laconicamente riconosce anche il n. 97 del Working Paper, senza però rinnegare

l’evidente unidirezionalità di queste proposte). Sarebbe dunque opportuno, forse,

che i legislatori del processo, con riguardo alla estensione dei poteri di iniziativa

istruttoria delle parti e del giudice, facessero scelte omogenee di portata generale,

senza manifestare più o meno esplicite preferenze per una particolare categoria di

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litiganti (i lavoratori, i consumatori, i soci di minoranza, etc.) nei confronti dei

suoi avversari. Con il che non voglio dire, naturalmente, che le raccomandazioni

di questo libro bianco siano eccessivamente vessatorie per i sospetti autori di

violazioni delle norme antitrust (credo di no), ma semplicemente che il favor per la

tutela di certi interessi nei confronti di altri dovrebbe esprimersi a livello di norme

sostanziali, ivi comprese quelle sulla distribuzione dell’onere della prova, e non

interferire con l’organizzazione, necessariamente paritetica e neutrale, del

processo.

7. Fatta salva questa doverosa precisazione di principio, il contenuto di

questo libro bianco – parlo sempre delle regole processuali e in particolare

istruttorie – mi sembra caratterizzato da una alternanza di prudenza e di

coraggio. Si comincia, infatti, chiarendo che “le scelte politiche proposte in questo libro

prevedono misure equilibrate radicate nella cultura e nelle tradizioni giuridiche

europee”. E, come si capisce poco dopo, questa professione di prudenza e per così

dire di conservatorismo si manifesta in primo luogo nella previsione di azioni

risarcitorie collettive ben lontane dal modello statunitense della class action

almeno quanto lo è l’azione risarcitoria collettiva recentemente introdotta nel

nostro ordinamento, e già destinata a radicali riforme (come si legge anche sui

quotidiani di questa mattina), previo rinvio della sua entrata in vigore. Il che, del

resto, sembra coerente con la reticenza, per non dire l’ostilità, sempre manifestata

dagli organismi comunitari nei confronti di questo istituto, che – per molteplici

ragioni storiche e culturali delle quali non è il caso di discutere qui – rimane

difficilmente esportabile al di fuori dei confini degli Stati Uniti.

8. Un’osservazione incidentale a proposito di azione risarcitoria collettiva. La

legge ora citata prevede la proponibilità dell’azione anche in relazione a “pratiche

commerciali scorrette” e “comportamenti anticoncorrenziali”. Nel caso che le

raccomandazioni del libro bianco si traducessero in norme di legge, e nel

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contempo le parole ora citate rimanessero nella versione definitiva dei recenti

nuovi articoli del Codice del consumo, ne deriverebbe una parziale

sovrapposizione di discipline.

9. Una prudenza analoga a quella già segnalata si riscontra nel capitolo

dedicato alle prove: testo forse eccessivamente sintetico, che dovrebbe leggersi in

contesto con la ben più ampia trattazione contenuta nei numeri da 65 a 133 del

Working Paper. Qui lo staff della Commissione si preoccupa subito di dire che ciò

che si raccomanda non è l’introduzione di una pre-trial discovery a tutto campo

come quella americana, bensì un “livello minimo di divulgazione inter partes”.

Dove “divulgazione” – termine non del tutto felice, che sembra suggerire

piuttosto un massimo di pubblicità – traduce disclosure, che copre un’area

semantica probabilmente più ristretta di quella di discovery, riferendosi (o almeno

questa è la mia impressione) più alla comunicazione di singole e selezionate

informazioni che alla ostensione indiscriminata di un coacervo di dati, nel quale

intraprendere battute di pesca (si parla infatti, con connotazione spregiativa e

preclusiva, di fishing expeditions).

10. Il problema, peraltro, non è evidentemente terminologico, ma sostanziale.

E va allora detto che la scelta del libro bianco si allontana da quella della

introduzione di una vera discovery, soprattutto perchè non si prevede qui che il

materiale istruttorio sia raccolto prima del processo, o fuori del processo, o in una

fase comunque preliminare del procedimento, senza la partecipazione del giudice

della decisione, e ciò nella speranza che, una volta messe “tutte le carte in tavola”,

le parti siano più facilmente indotte a una transazione; bensì si pensa a strumenti

istruttorii attivabili nel corso del processo, da parte del giudice o sotto il suo

controllo, addirittura dopo che la parte interessata all’acquisizione delle

informazioni, abbia prodotto o offerto tutto il materiale a cui ha avuto accesso

senza bisogno di ordini di disclosure.

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11. Da questo punto di vista, dunque, si può cogliere un atteggiamento

conservatore della Commissione anche nei confronti di quell’imponente

fenomeno che è la tendenza, in qualche misura comune a tutti i principali

ordinamenti processuali, anche di civil law, a spostare per l’appunto prima del

processo, o fuori del processo, l’acquisizione del materiale necessario al giudizio

di fatto. Il tema richiederebbe ovviamente approfondimenti impossibili in questa

sede, per i quali posso comunque rinviare alla preziosa indagine monografica

comparatistica di Chiara Besso intitolata appunto alla “prova prima del

processo”, che per certi aspetti potrebbe intitolarsi anche “la prova invece del

processo”, nella misura in cui i meccanismi extraprocessuali di formazione e di

acquisizione della prova possono trasformarsi, come il référé probatoire francese, o

il selbständiges Beweisverfahren tedesco, o la nuovissima consulenza tecnica

preventiva dell’art. 696 bis del nostro c.p.c., in veri e propri metodi alternativi di

risoluzione delle controversie.

12. Rimanendo comunque al nostro libro bianco, constatiamo che, come si è

già accennato, ad un ordine di disclosure si potrà arrivare soltanto sul presupposto

che la parte richiedente abbia allegato specificamente i fatti che intende provare

(non solo quelli principali, ma anche i facta probantia), abbia identificato, almeno

per categorie, i documenti che le occorrono, e abbia prodotto o offerto tutti gli

elementi di prova ai quali ha già avuto accesso. Presupposto che coincide

sostanzialmente con quello enunciato dall’art. 156 bis della nostra legge sul diritto

d’autore, introdotto a seguito della direttiva Enforcement, e dall’art. 121 del Codice

della proprietà industriale, dopo le modificazioni introdottevi a seguito degli

accordi TRIPS del 1994, dove si esige che “la parte abbia fornito seri elementi (o

indizi) dai quali si possa ragionevolmente desumere la fondatezza delle proprie

domande ed abbia individuato documenti, elementi o informazioni detenuti dalla

controparte che confermino tali indizi”.

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13. Fin qui, dunque, le raccomandazioni del libro bianco parrebbero rimanere

in un àmbito non molto dissimile da quello della disciplina della esibizione dei

documenti nel nostro codice di procedura civile. O, più esattamente, in un

àmbito ancora più circoscritto, se si guarda alla ambiziosa formulazione letterale

dell’art. 210 c.p.c.; e per contro in un àmbito un poco più vasto, se si guarda alla

scarsa e avara applicazione che della norma fanno abitualmente i nostri giudici.

14. Il Working Paper prosegue tuttavia (n. 84), sempre ricalcando il contenuto

della direttiva Enforcement, con una raccomandazione molto più incisiva e

innovativa che, nel nostro ordinamento, trova per l’appunto riscontro soltanto

nell’art. 156 bis della legge sul diritto d’autore e (in termini un poco più restrittivi)

nell’art. 121 del Codice della proprietà industriale (nella lezione attuale delle

norme), dove si prevede che, in caso di violazioni commesse “su scala

commerciale”, il giudice possa ordinare, sempre su richiesta di parte, anche

“l’esibizione della documentazione bancaria, finanziaria e commerciale che si

trovi in possesso della controparte”. Verrebbe quasi da dire, troppa grazia!

15. Il Working Paper, ai numeri 110-111, dice che i disclosure orders di cui si parla

dovrebbero riguardare qualunque tipo di prova, “irrespective of the medium on

which it is stored” (espressione per la verità un po’ sibillina) e comunque aggiunge,

assai più esplicitamente, che “the Court could also order parties or third persons

to give oral testimony in accordance with the applicable national rules”.

Quest’ultimo riferimento alle norme nazionali applicabili può creare, per noi,

qualche problema. Una disciplina di questo tipo si ritrova, infatti, soltanto nell’art.

156 ter della legge sul diritto d’autore e nell’art. 121 bis del Codice della proprietà

industriale (come introdotti a seguito della direttiva Enforcement), ma con

esclusivo riferimento alle informazioni sulle reti di distribuzione di merci o di

servizi contraffatti, e alle persone coinvolte nello sfruttamento della

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contraffazione. Mentre la disciplina ordinaria della prova testimoniale e

dell’interrogatorio delle parti, sia formale che libero, non prevede

(minacciosamente) un ordine del giudice, sia pure emanato su istanza di parte,

bensì la più blanda “deduzione” della prova ad opera dei contendenti. E’

probabilmente solo questione di parole, ma nel primo caso, e non nel secondo, è

riconoscibile una coloritura inquisitoria dell’istituto.

16. Un problema centrale è poi quello delle conseguenze della

inottemperanza agli ordini di disclosure, o della distruzione delle prove che si

dovrebbero esibire. Ma a questo riguardo il libro bianco dice soltanto che “i giudici

dovrebbero avere il potere di applicare sanzioni con effetto sufficientemente

deterrente, compresa la possibilità di trarre conclusioni sfavorevoli alla parte nel

procedimento civile per danni”. Mentre il Working Paper rimette la soluzione del

problema alle leggi nazionali.

17. Se guardiamo allora al nostro ordinamento processuale, la disciplina

rilevante risulta un po’ schizofrenica. Ed infatti il D.Lgs. n. 140/2006, attuativo

della direttiva Enforcement, ne ha in questo caso travalicato notevolmente i limiti,

inserendo nella legge sul diritto d’autore un art. 171 octies.1, e nel Codice della

proprietà industriale un comma 1 bis dell’articolo 127, secondo i quali chiunque

rifiuti di rispondere alle domande del giudice sui temi rispettivamente considerati

dall’art. 156 ter e dall’art. 121 bis delle stesse leggi (non solo i terzi, dunque, ma

anche le parti), oppure fornisca false informazioni, “è punito con le pene previste

dall’art. 372 del codice penale (reato di falsa testimonianza), ridotte alla metà”.

18. Soluzione, questa, che suscita perplessità di vario genere. Per quanto infatti

riguarda i terzi che in veste di testimoni forniscono false informazioni, non si

vede perchè le pene previste in proposito dal codice penale debbano essere in

questo caso ridotte alla metà. Per quanto riguarda invece la parte chiamata

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all’interrogatorio, il sanzionare come reato un suo comportamento o una sua

dichiarazione resa in sede giudiziaria civile pare una soluzione eccessivamente

severa, priva di riscontri nella storia e nella disciplina comune del nostro processo

civile. In questo caso sarebbe dunque meglio che il futuro legislatore nazionale

non seguisse pedissequamente il modello del decreto legislativo n. 140/2006.

19. Quanto poi alla inottemperanza all’ordine di esibizione di documenti o

altre cose, la sanzione prevista nel nostro processo per la parte (non

espressamente dalla legge, ma dalla tradizionale interpretazione sistematica del

codice) è quella, di cui sostanzialmente parla anche il Working Paper, della

possibilità per il giudice di trarre dall’inottemperanza argomenti di prova, ma

non una vera ficta confessio; mentre, per il terzo, la legge non prevede alcuna

conseguenza, e si è discusso soltanto, talvolta, della eventuale applicazione

analogica della pena pecuniaria prevista dall’art. 118 c.p.c. per il rifiuto del terzo

di consentire l’ispezione di cose in suo possesso. Ma l’importo della sanzione (Lit.

10.000, ovvero Euro 5,16) è tale che non vale neppure la pena di prendere

posizione in questa finissima disputa dottrinale.

20. Del resto, e come si è detto, quello delle conseguenze dell’inottemperanza

ad un ordine di esibizione è un vecchio punctum dolens del nostro ordinamento

processuale. Teoricamente, e se si guarda alla storia e al diritto comparato, le

soluzioni possibili sono almeno cinque: esecuzione forzata (in forma specifica)

dell’ordine di esibire; applicazione, a carico del renitente, di sanzioni penali;

attivazione di altre misure coercitive indirette (per es. astreintes); obbligo di

risarcire il danno causato alla parte interessata all’acquisizione della res exhibenda;

infine, ma ovviamente solo a carico della parte inottemperante, conseguenze

negative sul piano probatorio. Solo quest’ultima si ritrova però, e in termini molto

blandi, nel nostro sistema, ma mi sembra ovvio che il problema debba essere

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risolto prima o poi in termini generali, e non solo con riguardo a un determinato

tipo di controversie, come quello di cui ora si discute.

21. Infine, la consulenza tecnica. Non vi è dubbio che anche e proprio in

materia di violazione di norme antitrust, specie con riguardo ai complessi

problemi economici relativi alla quantificazione del danno, la consulenza debba

assumere – come rilevava già anni addietro Marina Tavassi – un ruolo

rilevantissimo. Al riguardo, mi sembra meritevole di attenzione la norma

contenuta nell’art. 121 del Codice della proprietà industriale (già nell’edizione

immediatamente precedente alla legge attuativa della direttiva Enforcement),

secondo cui “il consulente tecnico d’ufficio può ricevere i documenti inerenti ai quesiti

posti dal giudice anche se non ancora prodotti in causa, rendendoli noti a tutte le

parti”. In realtà, questa previsione altro non fa che razionalizzare una prassi

praeter legem già da tempo esistente, anche in controversie diverse da quelle sui

diritti di proprietà industriale. Ma essa fornisce lo spunto per immaginare che il

consulente tecnico, in materia di violazione di norme antitrust, possa diventare il

protagonista e il destinatario di una ampia disclosure del materiale probatorio

rilevante, e non in possesso della parte interessata ad acquisirlo. Il che poi si

inserirebbe coerentemente nella già ricordata tendenza evolutiva, o involutiva, ad

allontanare dal processo vero e proprio, e dalla presenza e dal controllo del

giudice, la raccolta del materiale utile al giudizio di fatto.

22. Da ultimo, vorrei fare cenno a quanto si legge nel libro bianco, al paragrafo

2.3, circa l’effetto vincolante, per il giudice dell’azione civile risarcitoria, delle

decisioni delle autorità garanti: effetto vincolante che già appartiene alle decisioni

della Commissione europea, ai sensi dell’art. 16 del Regolamento n. 1/2003 e che

si propone di estendere anche a quelle delle autorità nazionali. La questione –

trattata nel libro bianco e nello stesso Working Paper, come forse è giusto, in

termini un po’ semplicistici, e sulla prevalente base di considerazioni pratiche ed

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economiche – è tale, agli occhi di un processualista, da suscitare problemi teorici

enormi, dato che coinvolge sotto molti aspetti nientemeno che la teoria del

giudicato, e dei suoi limiti oggettivi e soggettivi, ovvero, secondo le abitudini

dottrinali tedesche, quella dello Streitgegenstand: il che rende palesemente

impossibile parlarne adeguatamente in questa sede.

23. Non posso tuttavia non rilevare che, nel riferirsi al predetto effetto

vincolante, il libro bianco e il Working Paper usano ripetutamente termini come

“prova vincolante”, “prova inconfutabile”, “irrebuttable proof”, e addirittura “legal

proof”. Il che riecheggia, credo inconsapevolmente, certe dottrine antiche o

comunque demodées, che attribuivano appunto al giudicato, fatto valere in

processi diversi da quello in cui si è formato, la natura e gli effetti di una prova

legale. Penso di non dire nulla di originale, rilevando che qui non si discute della

efficacia di un particolare tipo di prova, bensì degli effetti che un provvedimento

amministrativo, e/o la decisione resa in sede giurisdizionale sulla sua

impugnazione, possono produrre nel successivo giudizio dove i medesimi fatti

vengono conosciuti ad altri effetti (problematica che per esempio si ritrova, nel

nostro ordinamento, negli artt. 651, 653 e 654 del codice di procedura penale).

24. Questi rilievi, peraltro, richiamano l’attenzione anche su una questione che

riguarda direttamente l’istruzione probatoria nei giudizi su azione risarcitoria

civile, in particolare (ma a mio avviso non soltanto) in quelli che la dottrina

dell’antitrust definisce follow-on, cioè promossi dopo che un’autorità garante abbia

accertato e sanzionato la violazione che si deduce come fatto costitutivo del diritto

al risarcimento. La questione è quella della utilizzazione, in sede civile, per

iniziativa delle parti oppure ex officio, del materiale istruttorio acquisito

dall’autorità garante attraverso le sue indagini, quale che sia stato o sia per essere

il risultato del procedimento amministrativo.

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25. Vedo che talvolta si tende a sottovalutare la questione, rilevando che ciò

che normalmente si può trarre ad effetti civili dal procedimento presso l’autorità

garante è soltanto la verifica delle violazioni compiute, e quindi l’accertamento

della illiceità del comportamento dell’impresa sanzionata, materie però già

“coperte” dalla efficacia vincolante della decisione amministrativa. Mentre

difficilmente l’autorità garante può avere acquisito rilevanti elementi informativi

sui c.d. “effetti distorsivi” delle violazioni, cioè sui danni provocati agli altri

soggetti presenti sul mercato, e sul nesso causale tra questi danni e il

comportamento sanzionato. Ho l’impressione però che questa sia una visione

troppo riduttiva, se si pensa che l’ampiezza e l’incisività dei poteri di indagine

dell’autorità garante possono verosimilmente determinare, sia pure

incidentalmente, anche l’acquisizione di documenti e informazioni rilevanti in

sede risarcitoria.

26. Si dovrebbe allora porre attenzione alle modalità (e ai limiti) con cui il

materiale istruttorio formatosi in sede amministrativa può essere versato nel

giudizio civile. E qui potrebbero nascere problemi di varia natura, come quelli

inerenti alla pubblicità ed accessibilità di quel materiale, o quello della

applicabilità, per iniziativa del giudice, dell’art. 213 c.p.c., in tema di richiesta di

informazioni alla pubblica amministrazione. L’indagine diventerebbe tuttavia

molto complessa, e quindi mi contenterò qui di averne fatto cenno.

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Milano, 17 giugno 2008UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO

IL LIBRO BIANCO DELLA COMMISSIONE EUROPEA IN MATERIA DI AZIONI PER IL

RISARCIMENTO DEL DANNO PER VIOLAZIONE DELLE NORME ANTITRUST

Milano, 17 giugno 2008UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO

IL LIBRO BIANCO DELLA COMMISSIONE EUROPEA IN MATERIA DI AZIONI PER IL

RISARCIMENTO DEL DANNO PER VIOLAZIONE DELLE NORME ANTITRUST

Marina TavassiIL RISARCIMENTO DEL DANNO

IN MATERIA ANTITRUST NELLA ESPERIENZA DEI GIUDICI ITALIANI

Marina TavassiIL RISARCIMENTO DEL DANNO

IN MATERIA ANTITRUST NELLA ESPERIENZA DEI GIUDICI ITALIANI

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PRESUPPOSTI PER IL RISARCIMENTO DEL DANNO

PRESUPPOSTI PER IL RISARCIMENTO DEL DANNO

Accertamento dell’an

Contraffazione/ViolazioneColpaEsistenza del dannoNesso di causalità

Accertamento del quantum

Lucro cessanteDanno emergenteDanno da perdita di chancesDanno all’immagine

M.Tavassi

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IL MANCATO GUADAGNOstrumenti utilizzati

dalla giurisprudenza

IL MANCATO GUADAGNOstrumenti utilizzati

dalla giurisprudenza

• Diminuzione del fatturato o dell’utile della vittima della violazione

• Utile tratto dal responsabile della violazione

• (Prezzo del consenso/royalties)

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LIQUIDAZIONE EQUITATIVALIQUIDAZIONE EQUITATIVA

Art. 1226 c.c. – Art. 2056, 2° c., c.c.(Art. 86 l. inv. – Art. 66 l.ma. – Art. 125.2 CPI)

• Danno in re ipsa ? (tesi definita “aberrante” da Cass. n. 2302 del 2007)

• Prova dell’esistenza di un danno effettivamente patito

• Criteri di liquidazione

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RISARCIMENTO DEL DANNO IN MATERIA DI CONTRAFFAZIONE

criteri di liquidazione

RISARCIMENTO DEL DANNO IN MATERIA DI CONTRAFFAZIONE

criteri di liquidazioneBrevetti - Marchi

Modelli di utilità e ornamentali - Disegno Industriale - Nuove Varietà Vegetali - Topografie dei prodotti a semiconduttori

• risarcimento in una somma globale stabilita in base agli atti e alle presunzioni (art. 86 l.inv., art. 66, II c., l.m.; art. 125 C.P.I.)

• ricorso alle regole ordinarie (artt.2043, 2056, 1223, 1226 cod.civ.)

M.Tavassi

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RISARCIMENTO DEL DANNO NELLA VIOLAZIONE DEL COPYRIGHT

criteri di liquidazione

RISARCIMENTO DEL DANNO NELLA VIOLAZIONE DEL COPYRIGHT

criteri di liquidazioneDiritto d’autore (programmi per elaboratore, banche dati, opere del disegno industriale)

normativa specifica ex art. 158.2 L. n. 633/1941 (mod. D.Lgs. n. 140 del 2006) ricorso alle regole ordinarie (artt. 1223, 1226. 1227 cod.civ.)

-lucro cessante: anche utili realizzati e compenso per la licenza (art. 2056.2 c.c.)

- liquidaz. forfettaria: diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti per l’eventuale autorizzazione + danni non patrimoniali (art. 158.3 e 2059 cod. civ)

M.Tavassi

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Art. 125 C.P.I. (testo modificato D. Lgs. 140/06)

• 1 c.: Il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c., tenuto conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali le conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno, del titolare del diritto leso, i benefici realizzati dall’autore della violazione e, nei casi appropriati, elementi diversi da quelli economici, come il dannomorale arrecato al titolare del diritto dall’autore della violazione.

• 2 c.: La sentenza che provvede sul risarcimento dei danni può farne la liquidazione in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano. In questo caso il lucro cessante è comunque determinato in un importo non inferiore a quello dei canoni che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare, qualora avesse ottenuto licenza dal titolare del diritto leso.

• 3 c.: In ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento.

M.Tavassi

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ONERE PROBATORIO A CARICO DELLE PARTI

ONERE PROBATORIO A CARICO DELLE PARTI

Regola generale di cui all’art. 2697 c.c.

Riferimento alle norme specifiche in materia di proprietà industriale

(art. 77 l. inv., art. 58 l. ma.) Art. 121 C.P.I.(non riguardano la domanda di risarcimento,

bensì l’azione di nullità, decadenza, contraffazione)

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MEZZI ISTRUTTORI UTILI ALLA LIQUIDAZIONE

MEZZI ISTRUTTORI UTILI ALLA LIQUIDAZIONE

per iniziativa di parte: - produzione di documenti - prove testimoniali- interrogatorio formale della controparte- deferimento di giuramento decisorio- richiesta di consulenza tecnica- richiesta di ordine di esibizione di documenti

(art.210 c.p.c., art. 77, II c., l. inv., art. 58 bis l. m., art.121.2 CPI)

- istanza al giudice per l’acquisizione di informazioni detenute dalla controparte (art. 77, II c. l. inv., art. 58 bis l.m., art.121.2 CPI)

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MEZZI ISTRUTTORI UTILI ALLA LIQUIDAZIONE

MEZZI ISTRUTTORI UTILI ALLA LIQUIDAZIONE

utilizzati per iniziativa del giudice:- consulenza tecnica

- richiesta di informazioni presso la P.A.

- ispezioni

- interrogatorio libero delle parti

- approfondimento della prova testimoniale

- giuramento suppletorio o estimativo

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LE INDICAZIONI DELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA DI

CONSULENZA TECNICA

LE INDICAZIONI DELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA DI

CONSULENZA TECNICA

• Non può essere sostitutiva dell’onere probatorio a carico delle parti

• Non deve essere esplorativa

• Deve fornire al giudice gli elementi tecnici necessari alla liquidazione e non sostituirsi alla valutazione del giudice

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ALTRI STRUMENTI UTILIZZATI PER L’ACCERTAMENTO DEL DANNO

ALTRI STRUMENTI UTILIZZATI PER L’ACCERTAMENTO DEL DANNO

Presunzioni (art. 2727 c.c.)presunzioni semplici, lasciate alla prudenza del giudice gravi, precise e concordanti (art. 2729 c.c.)

Nozioni di comune esperienza (art.115 c.p.c.)Divieto di private informazioni (art. 97 d. att. c.p.c.)

Comportamento delle parti (art.116 c.p.c., 121.4 CPI):rifiuto a consentire ispezioni, ad ottemperare all’ordine di esibizione e di acquisizione di informazioni.

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CONDANNA GENERICA (art. 278, 1° c., c.p.c.)

è già accertata la sussistenza del diritto, ma è ancora controversa la quantità della prestazione dovuta

PROVVISIONALE(art. 278, 2° c., c.p.c.)

nei limiti della quantità per cui il giudice ritiene già raggiunta la prova

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Misure interinali in astratto idonee al risarcimento

Misure interinali in astratto idonee al risarcimento

• ordinanza per il pagamento di somme non contestate (art. 186 bis c.p.c.)

• ordinanza di ingiunzione di pagamento e di consegna (art. 186 ter e 633-634 c.p.c.)

• ordinanza di pagamento, successiva alla chiusura dell’istruzione, nei limiti entro cui il giudice ritenga già raggiunta la prova (art. 186 quater c.p.c.)

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LA LEGITTIMAZIONE ALL’AZIONE DI DANNI

• Cons. di Stato sent. 30.12.1996 n.1792: esclude il Codacons

• Corte di Cass. 9.12.2002 n. 17475: esclude il singolo assicurato

• Corte di Cass. decr. 17.10.2003 n. 15538: solleva il conflitto

• Cass. S.U. 20.1.2005 n.2207: riconosceva la legittimazione attiva del consumatore finale – nesso causale

• Cass. 2.2.2007 n.2305: legittimazione dell’assicurato – prescrizione – decorrenza – danno “lungolatente”

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CLASS ACTION (art. 140 bis Cod. Consumo)

• Legittimazione delle Associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale: Associazioni iscritte in apposito elenco; Associazioni e comitati adeguatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere.

• Possono chiedere l’accertamento del diritto al risarcimento del danno e alla restituzione delle somme spettanti ai consumatori e utenti, fra l’altro, per comportamenti anticoncorrenziali, quando siano lesi i diritti di una pluralità di consumatori o di utenti.

• C. App. Milano, sent. 3.5.2007, Codacons c. R.A.S.: esclusione della legittimazione del Codacons (prima della novità introdotta con la legge finanziaria 2008); le domande proposte non riguardano diritti dei consumatori che si presentino in modo indifferenziato; esclusione del risarcimento punitivo ex art. 27 L. 383/2000

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LEGITTIMAZIONE PASSIVA• Impresa: accezione ampia della giurisprudenza comunitaria,

recepita dalla giurisprudenza nazionale• Ente non profit (App. Milano, ord. 5.2.1996, Comis c. Fiera di

Milano)• Enti di gestione di interessi collettivi (Trib. Torino, sent.

20.11.1999, Fond. Teatro Nuovo Danza c. S.I.A.E.)• Ordini professionali (App. Torino, sent. 11.7.98, AVI c. CEIAT;

App. Venezia, 14.10.2004, Cons. distrettuale notarile)• Associazioni di categoria (App. Milano, ord 2.7.98, FIAVET c.

Alitalia; ord. 15.5.96, Auchan c. FAID) • Esclusione di enti con finalità politiche (App. Bologna, ord.

18.7.96, Alinet e al. c. Com. Bologna; App. Bologna, 30.9.95, Negrinie al c. Cons. Prosciutto Parma; App. Roma, ord. 12.4.95, Comitato Referendum c. Finivest e al.)

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Cassazione sent. 2.2.2007 n.2305 – IFondiaria SAI c. Nigriello

• è sufficiente allegare l’accertamento dell’intesa anticoncorrenziale da parte dell’AGCM(condotta preparatoria)

• Produrre la polizza (condotta finale)• Danno: la maggior somma pagata rispetto ad

un mercato non viziato nella sua competitività• Ingiustizia del danno: lesione dell’interesse del

consumatore alla trasparenza e alla competitività del mercato

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Cassazione sent. 2.2.2007 n.2305 - II• Nesso di causalità: accertamento in termini

probabilistici o presuntivi (salva la prova contraria dell’assicuratore)

• Liquidazione del danno: in via equitativa (ipotesi di scuola: il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare)

• Liquidazione in base ad una percentuale del premio pagato, al netto di imposte ed oneri a carico dell’assicuratore

• Prescrizione: cinque anni (exartt. 2935 e 2947 cod.civ.)• Decorrenza: dal giorno in cui il danneggiato, con

ordinaria diligenza, abbia avuto ragionevole ed adeguata conoscenza del danno e della sua ingiustizia(indipendentemente dalla definitività della sanzione in sede giudiziaria-amministrativa)

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GIURISPRUDENZA DI MERITO - I• C.App. Milano, sent. 24.12.1996, Telsystem c. S.I.P.:

danno liquidato in relazione al danno emergente (costi sostenuti) e al lucro cessante (perdita di opportunità), tot. €. 1.700.000.

• C.App.Milano, sent. 16.6.2000, Tramaplast c. Agriplast:affermazione del diritto al risarcimento, ma rigetto della domanda per mancanza di prova circa il nesso di causalità e l’ammontare del danno.

C. App. Milano, sent. 30.4.2003, Bluvacanze c. Viaggi del Ventaglio, Turisanda, Hotelplan: danno liquidato per lucro cessante (€. 200.000, contrazione degli utili della attrice – proiezione nel futuro dei dati registrati in epoca pregressa) e danno all’immagine (€. 50.000, campagna stampa denigratoria)

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GIURISPRUDENZA DI MERITO - II• C.App. Roma, sent. 6.7.2000, Wind c. Telecom: danno

liquidato con riferimento alla quota di mercato detenuta dall’attrice sul mercato prima dell’esclusione ed al fatturato conseguito nel periodo di esclusione dall’impresa dominante (€.470.000).

• C. App. Torino, sent. 20.1.2003, Indaba c. Juventus: rifiuto del risarcimento per essere stato il danno traslato sul consumatore finale.

• Giud. di Pace di Bitonto, 21.5.2007: il danno del consumatore era rappresentato dalla differenza tra la somma pagata per la polizza assicurativa ed il prezzo immune dalle alterazioni derivante dall’intesa - in via di equità pari al 20% del premio di polizza – liquidava una somma doppia in funzione deterrente (punitive damage).

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GIURISPRUDENZA DI MERITO – III• C. App. Milano, sent. non def. 20.11.2007, Lince c.

Agenzia del Territorio: accertamento dell’abuso di posizione dominante – affermazione della sussistenza del danno – CTU per determinare i danni, a titolo di danno emergente e di lucro cessante

• C. App.Milano, sent. 16.9.2006, AVIR c. ENI: abuso di posizione dominante – CTU per il calcolo delle restituzioni dovute dall’ENI ad AVIR per il “sovrapprezzo ingiustificato” delle forniture di gas –condanna a restituire €. 1.677.542 e condanna al risarcimento danni da liquidarsi in separato giudizio

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La decisione amministrativa in sede civile

• Per le follow-on actions, la giurisprudenza attribuisce elevata rilevanza alle decisioni dell’AGCM (App. Napoli, sent. 3.5.2005, Nigriello c. SAI; Trib. Roma, sent. 2006, KM Zundholz International c. Consorzio Industrie Fiammiferi)

• Esclusa la pregiudizialità fra accertamento in sedeamministrativa e azione civile per il risarcimento(Cass. 1.2.1999 n. 827; S.U. 4.2.2005 n.2207; Sez. 3, 2.2.07 n. 2305; App. Milano ord. 5.2.96, Comis c. Fiera di Milano; 25.9.95, Sanguinetti c. ANIA; 15.5.96 Auchan c. Faid)

• Indipendenza degli accertamenti (App. Napoli, 9.2.2006, Nigriello c. UNIPOL)

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Grazie per la vostra attenzione

Roma - Corte di Cassazione

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Luigi ProsperettiPROVA E VALUTAZIONE DEL DANNO

ANTITRUST: UNA PROSPETTIVA ECONOMICA(8 luglio 2008)

Professore di Politica Economica, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Milano. Indirizzo: [email protected]. Ringrazio, per la cortese collaborazione nella raccolta dei precedenti più recenti, Marco d’Ostuni (Cleary Gottlieb, Steen & Hamilton), ed Alexandra Szekely (Freshfields, Burkhaus Deringer). Ringrazio inoltre per le discussioni ed i commenti su precedenti stesure: Ginevra Bruzzone (Assonime), Bruno Cavallone (Università di Milano),Roberto A. Jacchia (De Berti Jacchia), Marisa Pappalardo (Libonati Jaeger), Roberto Pardolesi (LUISS), Jacqueline Riffalult-Silk (Cour de Cassation) Ginevra Roscioni (Telecom Italia), Massimo Scuffi (Corte di Cassazione), Alberto Toffoletto (Università di Milano), Luca Toffoletti (Università di Milano), Marina Tavassi (Corte di Cassazione), Claudio Tesauro (Bonelli Erede Pappalardo) oltre alle mie colleghe Eleonora Pani ed Ines Tomasi.

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Sommario

1. Premessa e sintesi pag. 32. Danni derivati da restrizioni nella produzione pag. 5 2.1 Danno sociale e danno privato pag. 6 2.2 Acquirenti indiretti e traslazione del danno pag. 8 2.3 La prova del danno: oggetto ed effetto distorsivo pag. 10

3. Danni derivati da comportamenti escludenti pag. 133.1 Danno sociale pag. 133.2 Danno privato pag. 163.3 La prova del danno: causalità e mitigazione pag. 18

4. Metodologie valutative del danno pag. 224.1. Danno emergente, lucro cessante, perdita di chance pag. 224.2. Il metodo differenziale (but-for) pag. 234.3. Altri metodi di costruzione dello scenario alternativo pag. 25

4.3.1. Before and after pag. 254.3.2. Benchmark pag. 26

5. Conclusioni pag. 34Riferimenti bibliografici pag. 40

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1. Premessa e sintesi Questo lavoro considera, principalmente da una prospettiva economica, i problemi posti dalla prova dell’esistenza di un nesso causale tra un illecito antitrust ed eventuali danni causati ad uno o più agenti economici, nonché dalla valutazione di questi ultimi.

L’evoluzione di tale materia, dopo la recente pubblicazione del Libro Bianco della Commissione Europea sulle azioni civili per danno antitrust1,che delinea un percorso normativo a partire dalle opzioni in precedenza delineate nel Libro Verde del 20052, si profila assai rapida, ed in particolare il Libro Bianco prevede la pubblicazione – già probabilmente nel corso del prossimo anno – di ‘Linee Guida’ non vincolanti sulla valutazione del danno.Per questo appare utile offrire qui una riflessione introduttiva che parta dall’esperienza consolidata in materia di danno antitrust nelle corti civili dei paesi dell’Unione, per interrogarsi sui problemi generali che essa delinea, e sulle linee evolutive più opportune, tenendo naturalmente conto in questa discussione prospettica delle proposte del Libro Bianco.

Le conclusioni principali della nostra analisi possono essere così sintetizzate:

a. È utile, ma improprio, parlare di ‘danno antitrust’: in realtà, comportamenti illeciti sotto il profilo concorrenziale, che generano un danno sociale, possono generare danni privati assai diversi tra loro, ed in particolare è possibile che – ad danno sociale allaconcorrenza – non segua un danno privato ad uno specifico agente economico.

b. Le uniche eccezioni a questo principio generale sono costituite dai (rari) casi in cui l’Autorità per la concorrenza rilevi, alla luce di un’analisi quantitativa, l’esistenza di un effetto distorsivo tangibile, come può talvolta verificarsi nelle intese, e – per così dire necessariamente – nell’ambito di casi relativi a prezzi ingiustificatamente gravosi, basati sull’articolo 82.

c. In tutti gli altri casi, il valore probatorio che appare ragionevole attribuire in sede civile ai provvedimenti che sanzionano una distorsione della concorrenza è molto variabile, sotto il profilo del danno al consumatore o al concorrente. Infatti:

1 Commissione Europea (2008a e 2008b). 2 COM (2005) 672 del 19 dicembre 2005.

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i. nelle intese, la sanzione di una intesa avente oggettodistorsivo non può certamente – da sola – fornire prova dell’esistenza di un effetto distorsivo. Ancor minor valore ha dunque la sanzione di varie pratiche facilitanti, come ad esempio, lo scambio di informazioni;

ii. negli abusi escludenti, è perfettamente possibile che un comportamento unilaterale escludente non escluda tutti i concorrenti dell'impresa dominante, ma solo alcuni di essi.

d. In ogni caso, negli abusi escludenti, la valutazione del danno è opera molto complessa, in quanto – oltre ai problemi sopra sintetizzati – deve essere considerato come probabile che l’attore possa cercare di ottenere il ristoro di danni in realtà non patiti, oppure – con una tipica azione strategica – concessioni di varia natura all’interno di un accordo transattivo, usando quindi – secondo la felice sintesi di Baumol3 – antitrust to subvert competition.

e. Nella valutazione del danno da abuso escludente, occorrerà poi sempre considerare:

i. quanta parte del danno effettivamente derivi da comportamenti illegittimamente escludenti, e quanta invece derivi da altri comportamenti competitivi dell’impresa dominante che rientrino invece in quelli che essa può legittimamente adottare, nell’ambito di una competition on the merits;

ii. se, ed in quale misura, il danneggiato abbia assolto agli obblighi di mitigazione del danno che su di esso gravano, dei quali – come vedremo – sembra ragionevole dare una definizione meno restrittiva di quella frequentemente reperibile nella giurisprudenza italiana.

f. Per quanto riguarda la valutazione concreta del danno emergente nel caso di intese, e del lucro cessante negli abusi escludenti, la metodologia più ragionevole è quella, del resto frequentemente applicata dalle corti civili nelle liti commerciali, di costruire uno scenario ipotetico, che differisce da quello effettivo soltanto per il mancato verificarsi del comportamento dannoso. Tale scenario può essere creato:

i. ricostruendo analiticamente, in base ad informazioni dettagliate sull’impresa, sui suoi piani, e sulla sua effettiva capacità di realizzarli in assenza dei comportamenti dannosi (come vedremo, questo è il modo con cui è stato valutato il danno nel noto caso Telsystem);

3 Baumol – Ordover (1985).

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ii. basandosi, se necessario con alcuni aggiustamenti, sull’andamento economico dell’impresa in un periodo precedente al verificarsi del comportamento dannoso (metodo before and after), oppure infine

iii. confrontando l’impresa danneggiata con un’altra impresa – fortemente simile ad essa – che però non abbia subito il comportamento dannoso (metodo yardstick, o benchmark).

g. Sia nel caso del metodo before and after che in quello del benchmark, la differenza delle due situazioni confrontate deve essere attribuibile esclusivamente, o almeno in via preponderante, al comportamento dannoso. In particolare, per il metodo del benchmark, un'analisi dei precedenti americani ed europei mostra come esso sia accettato dalle corti civili se, e soltanto se, il prodotto delle due imprese è esattamente lo stesso. Inoltre, deve ricorrere almeno una delle due condizioni seguenti: o le due imprese sono in realtà la stessa impresa, e quindi la consociata che ha subito il danno viene confrontata con un’altra consociata che opera su un mercato geografico ove non si sono sviluppati i comportamenti dannosi; oppure, alternativamente, le due imprese sono diverse, ma operano nel medesimo mercato geografico.

Nel seguito, mostreremo come sia possibile giungere ai risultati sopra sintetizzati, discutendo nel capitolo 2 il danno antitrust derivante da intese ed abusi per sfruttamento (meglio: da restrizioni nella produzione), e nel capitolo 3 quello da comportamenti escludenti. Nel capitolo 4 analizzeremo quindi le principali metodologie valutative del danno antitrust. Il capitolo 5 presenterà alcune valutazioni conclusive, esaminando in particolare alcune tra le proposte del recente Libro Bianco della Commissione in materia di azioni di risarcimento del danno per violazione delle norme antitrust.

2. Danni derivanti da riduzioni nella produzione La prima tipologia di danno antitrust deriva da comportamenti che riducono artificiosamente la quantità prodotta, al fine di alzare i prezzi al di sopra del loro livello competitivo. Questi possono derivare da intese restrittive tra concorrenti (il caso più frequente), o dalla imposizione di prezzi ingiustificatamente gravosi da parte di un’impresa in posizione dominante: quest’ultima tipologia è relativamente rara a livello dell’Unione nel suo complesso, ma vi è un numero non trascurabile di casi a livello nazionale4, e – nel complesso – appare probabile che essi appaiano con una crescente frequenza nei prossimi anni, stante lo scenario di forte crescita nei prezzi di vari beni e servizi.

4 Si veda Géradin (2007).

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2.1 Danno sociale e danno privato Poiché le imprese partecipanti ad un’intesa cercano di comportarsi come un monopolista collettivo, massimizzando il loro profitto congiunto, il modo più semplice per illustrare in questo caso il danno antitrust è quello di rifarsi al ben noto grafico riguardante gli effetti della monopolizzazione di un mercato perfettamente concorrenziale5. Supporremo, per iniziare, che l’intesa abbia luogo su un mercato di beni (o servizi, naturalmente) finali, ovvero che non vengono rivenduti ad altri, né utilizzati come input nella produzione di altri beni o servizi: non vi sono dunque i problemi posti dal passing on, che discuteremo nel prossimo paragrafo. Come mostra la Figura 1, in condizioni di concorrenza perfetta, i consumatori disporrebbero di una quantità di beni pari a Qc, ad un prezzo Pc.La monopolizzazione determina la riduzione dell’output sino al livello QM,e il conseguente aumento del prezzi fino a PM, e pertanto:

un danno privato ai consumatori che hanno acquistato il bene pagando la overcharge imposta dal cartello, pari al rettangolo A, che coincide con gli extra-profitti che i partecipanti al cartello conseguono sulle proprie vendite;

un ulteriore danno privato inflitto ai consumatori che hanno rinunciato all’acquisto del bene, pur essendo disposti a pagare un prezzo superiore al costo di produzione, pari al triangolo B, che misura la perdita secca (deadweight loss) derivante dalla mancata soddisfazione sul mercato di questa domanda;

un danno sociale, che consta di diverse componenti, spesso difficili da quantificare, ma non per questo trascurabili.

Vi è infatti il danno, non quantificabile, ma non per questo irrilevante, che il cartello arrecherà all’efficienza del mercato nel suo complesso, influenzando i costi di transazione (i consumatori, vittime del cartello, spenderanno tempo ed energie per cercare altrove, inutilmente, prezzi più bassi, e ciò presumibilmente porterà ad alterazioni anche nel loro comportamento futuro). Vi sono poi ulteriori voci di danno intertemporale,nel senso che il cartello – alterando l’allocazione delle risorse nel periodo in cui viene formato – avrà effetti su diverse variabili nei periodi successivi (un cartello delle trappole per topi ne ridurrà la domanda, e così il numero dei topi aumenterà, con effetti negativi sul benessere collettivo). Le restrizioni sulla quantità prodotta decise dal cartello, ed i conseguenti incrementi dei prezzi, si rifletteranno poi sui concorrenti non collusi, che, protetti dall’ombra del cartello, alzeranno in qualche misura i propri prezzi

5 Supponendo quindi che l’intesa sia perfetta, nel senso che vi aderiscono tutte le imprese presenti sul mercato, e vi sono efficaci barriere all’ingresso di altre imprese.

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(umbrella effects). Gli acquirenti diretti delle imprese non colluse patiranno pertanto a loro volta un danno privato (peraltro non rappresentato nella Figura 1), ritrovandosi a pagare prezzi superiori a quelli che avrebbero fronteggiato in assenza del cartello6.Infine, anche i fornitori delle imprese colluse patiranno un danno privato: la decisione di ridurre le quantità prodotte adottata dal cartello si tradurrà infatti per loro in una diminuzione delle vendite e del fatturato.

Figura 1. Danno privato e danno sociale derivante dalla cartellizzazione

Q M Q C

P C

P M

M e rca t o c o n c o r r e n z i a le

C a r t e l l o

Q u a n ti tà

D o m a n d a

C o s t i

P re z z o

A B

Potremmo enumerare altre voci di danno7, ma dovrebbe essere evidente come il danno sociale sia presumibilmente elevato, ed in generale ben più elevato di quello ‘statico’ illustrato nella figura. Per quanto riguarda il danno privato, esso è – almeno in teoria – più facile da valutare, ed è pari nel caso che stiamo considerando alla quantità acquistata dai clienti dell’intesa moltiplicata per l’incremento di prezzo (o overcharge) da essa causato. Com’è evidente, un modo alternativo di misurare il danno da cartello è attraverso il sovraprofitto che i partecipanti al

6 Negli Stati Uniti, non si riscontra ad oggi una posizione univoca in giurisprudenza sulla possibilità di riconoscere agli acquirenti diretti delle imprese non colluse lo standing per richiedere il risarcimento di tale danno privato alle imprese partecipanti al cartello. Ciò è posto in rilievo in Ashurst (2004), pag. 14. 7 Si pensi ad esempio al danno patito dai fornitori di beni o servizi complementari a quelli fatti oggetto della riduzione della produzione decisa dal cartello. In realtà, anche limitandoci a quelle considerate nella figura o sopra sommariamente descritte, i meccanismi sono alquanto più complicati di come non li abbiamo qui stilizzati: si veda la discussione in Hellwig (2007).

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cartello conseguono dall’overcharge8. Questa osservazione non ha però una validità generale: si pensi ad esempio al caso di un abuso escludente, in cui il profitto perduto dal danneggiato è in generale del tutto diverso da quello di chi ha perpetrato l’abuso, perché diverse sono le quantità che ciascuno ha – o avrebbe – venduto, diversi sono i costi e diversi sono i prezzi9. Dopo questa introduzione elementare, occupiamoci ora dei principali problemi connessi alla prova di questa tipologia di danno.

2.2 Acquirenti indiretti e traslazione del danno Se il bene prodotto dal cartello non è finale, perché è un input in un processo produttivo, o è un bene venduto al primo stadio della catena distributiva, esso sarà rivenduto dagli acquirenti diretti del cartello ad altri soggetti, che ne saranno acquirenti indiretti. In generale, è da attendersi che i primi cercheranno di traslare a valle, sui secondi, una parte dell’aumento nei prezzi pagati ai membri del cartello: in questo caso, chi, ed in quale misura, potrà richiedere il danno? A questa domanda, negli USA, è stata data da tempo una chiara soluzione a livello federale, che però contrasta con la risposta fornita nella maggior parte degli Stati. In Hanover Shoe10, nel 1968, la Corte Suprema ha stabilito il principio che chi causa un danno antitrust (per un comportamento abusivo, in quel caso), non può difendersi da un claim utilizzando l’argomento che l’acquirente diretto non è stato danneggiato in quanto ha traslato l’overcharge sugli acquirenti indiretti: il passing-on non può quindi essere utilizzato come scudo, cioè a fini difensivi. In Illinois Brick11, la Corte ha simmetricamente sancito (nel 1977) che gli acquirenti indiretti non possono agire in giudizio per ripetere danni eventualmente patiti: il passing-on non può quindi essere utilizzato neppure come spada, a fini offensivi. Queste decisioni, ed in particolare la seconda, evidenziano come – a livello federale – la politica antitrust americana assegni un peso preminente alla deterrenza, più che al ristoro del danno: essa infatti privilegia l’obiettivo di obbligare l’infringer a pagare, rispetto a quello di far percepire l’indennizzo a chi è stato concretamente danneggiato, facendo mostra di ignorare che il danno può essere (anzi, normalmente è) traslato, almeno in parte, verso valle.

A livello dei singoli Stati, la questione è però diversa, dato che ben 37 di essi hanno approvato “Illinois Brick repealers”, ovvero normative che

8 Si veda Prosperetti (2007). 9 Renda et al. (2008) analizzano estesamente pro e contro di meccanismi di liquidazione del danno basati sui profitti dell’infringer, problema che esorbita dalla presente discussione. 10 Hanover Shoe, Inc v. United Shoe Machinery Corp., 392 U.S. 481 (1968).11 Illinois Brick Co. v. Illinois, 431 U.S. 720 (1977).

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rendono lecite le azioni degli acquirenti indiretti: in pratica, ormai, gli acquirenti diretti avviano quindi azioni presso le corti federali, e quelli indiretti presso le corti statali12.

In Europa, sia la Corte di Giustizia delle Comunità Europee (CGCE) sia le corti di quei paesi che si sono espresse sul problema concordano nel ritenere che, in generale, il principio della mitigation, ovvero della minimizzazione del danno da parte del danneggiato13 implichi l’esistenza di una obbligazione ad effettuare un passing-on.In un contesto di Francovich liability – diverso da quello qui discusso, ma che Toth ritiene direttamente applicabile al danno antitrust – la CGCE ha sancito infatti che un operatore si debba ritenere “obbligato a trasferire ai propri clienti, sotto forma di incrementi di prezzo, la perdita derivante dall’abolizione dei rimborsi per la produzione”14.

Dunque la traslazione si configura per la CGCE come un obbligo per l’acquirente diretto, ed anzi alcune sentenze recenti di corti civili europee hanno ritenuto che tale obbligo fosse così forte da giungere ad invertire l’onere della prova: sarebbe cioè l’acquirente diretto del cartello a dover provare di non avere traslato a valle l’incremento subito nei suoi costi ad opera del cartello; se non soddisfa tale onere, non risulta in grado di provare di aver patito un danno. Nella sentenza sul caso Juva/Hoffman La Roche15 il Tribunal de Commerce di Parigi non ha infatti riconosciuto alcun danno ad una società che acquistava da un membro del cartello Vitamine16, in quanto essa non aveva provato di non aver traslato l'aumento dei prezzi delle materie prime sul prezzo dei propri prodotti finiti. Nell’analogo caso Arkopharma, il Tribunal de Commerce di Nanterre17 ha sancito che, dato che il cartello era stato molto efficiente nel costringere i clienti dei suoi membri ad accettare incrementi dei prezzi, questi ultimi non avrebbero avuto nessuna difficoltà pratica nell'aumentare, a loro volta, i prezzi ai propri clienti: per questo non vi poteva essere alcun danno18.

12 Antitrust Modernization Commission (2007), cap. III (b). Questa Commissione ha registrato profonde divisioni su se, e come, intervenire su questo quadro così complesso. 13 Sul quale torneremo più oltre nel paragrafo 3.3. 14 Toth (1997), p. 196. 15 Laboratoires Juva v. Hoffman La Roche, Tribunal de Commerce de Paris, 26 gennaio 2007 n. RG 2003/04804. Per una sintesi, si veda Kleiman-Szekely (2007).16 Vitamine, decisione della Commissione del 21 novembre 2001, caso n. Comp./E-1/37.512.17 Tribunal de Commerce de Nanterre 11 maggio 2006, Arkopharma v. Roche and Hoffmann La Roche n. RG 2004F02643. Per una sintesi si veda Debroux (2006) .18 Per note critiche su questi casi, ed una più generale discussione dei precedenti più recenti in materia di danno antitrust, si veda Riffault-Silk (2008).

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Nel caso Indaba, la Corte d'Appello di Torino19 ha similmente sancito che debba esservi la presunzione che l'acquirente diretto di un bene il cui prezzo sia ingiustificatamente gravoso abbia traslato a valle tale prezzo sui suoi clienti: l’Attrice si trovava infatti nella posizione di “acquirente intermedio e ... traslatore integrale del danno, atteso che i maggiori costi furono trasferiti sugli acquirenti finali”. Questa inversione dell’onere della prova appare invero eccessivo, ed è dunque da accogliere con favore la proposta del Libro Bianco della Commissione, su cui torneremo nelle Conclusioni, che lo ristabilisce dove sembra naturale che esso debba risiedere, ovvero in capo alla parte che lo invoca a sua difesa: è il partecipante al cartello che deve provare che i suoi clienti hanno traslato a valle in tutto o in parte l'incremento dei prezzi patito, non viceversa, ad esempio esaminando i listini prezzi dell’attore: se traslazione vi è stata, essi dovrebbero registrare aumenti nel periodo successivo alla costituzione del cartello, che non sia possibile attribuire ad altri fattori.

2.3 La prova del danno: oggetto ed effetto distorsivo Per discutere i problemi di prova del danno da cartelli20, occorre distinguere tra i casi in cui l'azione civile segua il provvedimento sanzionatorio emanato da un'autorità per la concorrenza (follow-on actions), e quelli in cui essa sia invece stand alone.In questo secondo caso, i problemi per l'attore sono complessi, poiché egli deve dimostrare l'esistenza del comportamento anticoncorrenziale, la sussistenza del danno e del necessario nesso causale, nonché l'esistenza del danno. A prima vista, potrebbe invece apparire che almeno il primo di questi problemi non si ponga nelle azioni follow-on, ma in realtà, come vedremo, la questione è molto più complessa.

Il numero dei casi nei quali un’Autorità per la concorrenza sancisce l’esistenza di un accordo avente effetti distorsivi è infatti, in pratica, molto ridotto. Vista la struttura logica dell’art. 81, e quella dell’azione amministrativa, che è volta a sanzionare eventuali lesioni del giococoncorrenziale, evidenti considerazioni di allocazione efficiente delle risorse inducono le Autorità per la concorrenza a percorrere la via meno onerosa di dimostrare l’esistenza di pratiche concordate (anziché di accordi), aventi oggetto (e non effetto) anticoncorrenziale. Ciò pone evidenti problemi nelle azioni civili follow on, perché non fornisce di per sé prova del verificarsi di un danno in capo ad uno specifico soggetto economico.

19 App. Torino, 6 Luglio 2000 in “Danno e Responsab ilità” n. 1/2001. 20 Indicheremo così, per concisione, i danni derivanti da ogni tipologia di illecito che porti a restrizioni nella produzione, in seguito ad intese o a comportamenti unilaterali.

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Nella sentenza già citata nel caso Juva/Hoffman La Roche,, la Corte – prima di valutare l’esistenza di un passing-on – manifesta ad esempio chiaramente le difficoltà che essa incontra nell’accettare come prova il provvedimento della Commissione nel caso Vitamine21, che ha sanzionato un’intesa avente oggetto anticompetitivo. Il Tribunale appare infatti palesemente a disagio quando ricorda che “la decisione della Commissione … non precisa in modo specifico, per prodotti e per anno, le azioni illecite intraprese …, né fornisce indicazioni precise sul valore eccessivo del prezzo di un dato prodotto in rapporto al livello che il prezzo avrebbe dovuto assumere” 22, ma sottolinea poi con visibile sollievo come la Commissione specificamente rifiuti la tesi espressa nel procedimento da Roche secondo la quale gli aumenti dei prezzi avrebbero avuto cause diverse dalle decisioni del cartello, e quindi conclude che la Commissione ha stabilito “d’une manière ou d’une autre”che il convenuto si è reso colpevole di un aumento anormale dei prezzi, e passa oltre.

Peraltro, uno dei motivi per cui la Corte, nella sentenza, ha rifiutato rifiuta le richieste dell’Attrice è che questa non ha provato come i prezzi di acquisto da essa pagati per le vitamine fossero effettivamente aumentati: pertanto, la condanna del convenuto per intesa avente oggetto restrittivo della concorrenza non fornisce – da sola – prova sufficiente che questa abbia effettivamente alzato i prezzi.

In Italia, questo principio è stato del resto chiaramente sancito dalla Cassazione nel caso Fondiaria, che ha indicato che “il giudice potrà desumere l’esistenza del nesso causale … anche attraverso criteri di alta probabilità logica o per il tramite di presunzioni, senza però omettere di valutare gli elementi di prova offerti dall’assicuratore che tenda a provare contro le presunzioni o a dimostrare l’intervento di fattori causali diversi, che siano stati da soli idonei a produrre il danno, o che abbiano, comunque, concorso a produrlo.”23

D’altro lato, erra per la Cassazione il giudice che non consideri tali elementi di prova “esclusivamente ed acriticamente [adagiandosi] sul mero contenuto del provvedimento amministrativo, quasi ad avallare l'aberrante tesi che il danno sia in re ipsa. Tesi tanto più insostenibile se si tiene conto del fatto che il provvedimento antitrust in questione (e le pronunzie dei giudici amministrativi che lo hanno confermato) si limita all'accertamento dell'illiceità dello scambio di informazioni, ponendo in termini di mera

21 Decisione del 21 Novembre 2001, caso n. COMP/E-1/37-512, in GUCE (2003), L 6/1. 22 Laboratoires Juva v. Hoffman La Roche, Tribunal de Commerce de Paris, 26 gennaio 2007 n. RG 2003/04804. “La décision de la Commission… ne précise pas de manière spécifique par produits et par année les actions illicites entreprises..ne définit pas pour un produit donné un prix de référence et ne donné par rapport à ce que prix aurait dû être”. 23 Cassazione civile, n. 2305. Per una discussione, si vedano – tra gli altri – Pardolesi (2007).

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potenzialità l'alterazione del gioco concorrenziale e, dunque, l'aumento dei prezzi praticati al consumatore finale.”Quindi, il danno non è mai in re ipsa, e lo è ancor meno quando il provvedimento amministrativo accerti solo una pratica concordata. Del resto, la totale inefficacia probatoria di una pratica facilitante era già stata evidenziata dalla CGCE quando, nel caso Huls affermava che “anchese il concetto stesso di pratica concordata presuppone una data condotta delle imprese partecipanti sul mercato, ciò non significa necessariamente che quella condotta debba produrre uno specifico effetto di restringere, impedire o distorcere la concorrenza”24: L'esistenza di una pratica concordata quindi fornisce una condizione necessaria, ma non una condizione sufficiente, perché si verifichi concretamente un aumento del prezzo sul mercato rilevante, e quindi una condizione necessaria, ma non sufficiente, perché si verifichi un danno in capo agli acquirenti. In generale, quindi, se per comminare una sanzione per intesa distorsiva è certamente sufficiente per un’Autorità antitrust verificare l’esistenza di un oggetto distorsivo, perché tanto basta per presumere l’intenzione di distorcere il meccanismo concorrenziale, così procurando un danno alla collettività, in sede civile è indispensabile che venga accertato che l’intesa abbia oggettivamente esplicato un effetto distorsivo nei confronti dell’attore, concretamente misurabile con riferimento ai prezzi ad esso effettivamente praticati da un partecipante all’intesa: senza la prova di un tale effetto, non sembra possa esservi danno privato.

Ad eccezione dei casi – certamente rari – nei quali un’Autorità per la concorrenza abbia accertato, in base ad un’analisi quantitativa, l’esistenza di effetti distorsivi, e rinviando alle Conclusioni per una discussione delle ipotesi del Libro Bianco su questo punto, dobbiamo concludere che – dal punto di vista pratico – non sembra vi sia una differenza sostanziale quanto ad onere della prova in capo all’attore tra azioni follow on, che cioè seguono ad un provvedimento amministrativo, ed azioni stand alone, nelle quali l’attore chieda al giudice civile di applicare direttamente la normativa sulla concorrenza: in ambedue i casi, pare inevitabile che sia l’an che il quantumdel danno privato debbano essere provati nel giudizio civile.

24 Huls AG c. Commissione, sentenza dell’ 8 Luglio 1999, causa C-199/92, par. 165, “although the very concept of a concerted practice presupposes conduct by the participating undertakings on the market, it does not necessarily mean that that conduct should produce the specific effect of restricting, preventing or distorting competition”.

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3. Danni derivanti da comportamenti escludenti La seconda tipologia di danno antitrust deriva da comportamenti illegittimamente escludenti da parte di un’impresa dominante, che – invece di ricorrere ad una competition on the merits – utilizza strumenti per escludere i concorrenti dal mercato, o per impedirne l’ingresso, ad esempio rifiutandosi di contrarre, di concedere accesso ad infrastrutture essenziali, praticando prezzi tali da ingenerare uno squeeze nei confronti di un generico concorrente efficiente, praticando prezzi predatori, adottando clausole contrattuali fidelizzanti, ed altri strumenti ancora25.

Prima di analizzare le tipologie di danno privato che tali comportamenti possono ingenerare, è però indispensabile sottolineare le notevoli differenze tra la valutazione delle conseguenze dannose a livello sociale dei comportamenti sanzionabili ai sensi dell’art. 81 e di quelli sanzionabili ai sensi dell’art. 82.

3.1. Danno socialeIl danno sociale nei casi di comportamento illegittimamente escludente deriva dal fatto che alla collettività viene negata la possibilità di avere più concorrenza tra fornitori, e dunque presumibilmente di godere di prezzi più bassi e/o qualità più alta rispetto a quanto offerto dall’impresa dominante26.Mentre però, nelle intese, l’analisi economica e giuridica dei cartelli lascia pochi dubbi circa le loro conseguenze dannose sul benessere dei consumatori, perché essi sono portatori di effetti negativi, non compensati in genere da alcun tipo di effetti di efficienza, lo stesso non si può dire per quanto riguarda i comportamenti unilaterali, la cui valutazione concorrenziale presenta problemi complessi, tanto che – nelle parole della US Congress’ Antitrust Modernization Commission – “la valutazione delle condotte unilaterali … pone le domande più difficili nel diritto antitrust. Un enforcement appropriato di tali normative deve distinguere la concorrenza aggressiva che porta benefici consumatori, come gran parte delle riduzioni dei prezzi, dalle condotte che tendono a distruggere la concorrenza medesima, e per questa via mantenere, o facilitare l'acquisizione, di un potere monopolistico”27.

25 Naturalmente, molti di questi comportamenti possono essere adottati, con un’intesa, da più di un’impresa (come il caso Bluvacanze che discuteremo più oltre), ma sono più frequentemente comportamenti unilaterali. 26 Inoltre, la collettività non beneficerà degli investimenti che sarebbero stati realizzati dal concorrente. Ciò si traduce però in un danno sociale solo se i nuovi investimenti del concorrente non avrebbero semplicemente sostituito investimenti già programmati dall’impresa dominante. 27 Antitrust Modernization Commission (2007) “How to evaluate single-firm conduct under Section 2 poses among the most difficult questions in antitrust law. Appropriate antitrust enforcement must distinguish aggressive competition that benefits consumers, such as most

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La Commissione Europea, per parte sua, ha pubblicato nel dicembre 2005 un importante Discussion Paper per chiarire il proprio approccio analitico agli abusi escludenti28, cui avrebbe dovuto far seguito nell’anno successivo una Comunicazione, con il dichiarato obiettivo di passare da una valutazione dei comportamenti, storicamente spesso ancora influenzata dalle loro caratteristiche, a una valutazione effect-based, ovvero che ne valuti la legittimità in base ai suoi effetti concreti. Tuttavia, in esito all'ampio dibattito sviluppatosi sul documento29, nulla è ancora stato pubblicato, e ciò evidenzia come anche in Europa i problemi interpretativi posti dalle condotte unilaterali siano ben lungi dall'essere stati risolti. Le difficoltà nell’analisi di questi comportamenti dipendono da vari aspetti:

la nostra comprensione, dal punto di vista legale ed economico dei molteplici tipi di comportamento che vengono raggruppati sotto l'etichetta "condotte abusive" si sta sviluppando solo lentamente, in quanto la maggior parte di essi risulta da giochi strategici, (nel senso tecnico del termine), nei quali le mosse dell'impresa dominante e dei suoi concorrenti sono interrelate e dipendono da una molteplicità di fattori empirici del tutto specifici alla situazione in cui esse vengono adottate; in questi casi è quindi improbabile che si riescano ad elaborare astrattamente regole per se, ed infatti quelle che erano state adottate in passato, sono state, soprattutto gli Stati Uniti, via via abbandonate;

unica eccezione a questo principio può forse essere costituita da quei casi, relativamente rari, che configurano una naked exclusion¸ovvero azioni che mirano palesemente ed unicamente ad escludere i concorrenti, e non sono suscettibili di generare alcun effetto di efficienza30. Comportamenti illeciti di questo genere vanno così inequivocabilmente a detrimento del benessere sociale, che l’esistenza di un danno sociale può spesso essere direttamente presunta;

i numerosi fattori empirici determinano d'altro lato anche gli effetti di queste mosse sui concorrenti, sugli acquirenti, e pertanto sul benessere: il medesimo comportamento può, a seconda dei casi, generare effetti negativi, nulli, o positivi. In particolare, una

price discounting, from conduct that tends to destroy competition itself, and thus maintains, or facilitates acquiring, monopoly power”. Chapter I.C. 28 Commissione Europea (2005). 29 Si veda in particolare il contributodell’European Advisory Group on Competition Policy,, in Gual et al. (2005). 30 Esempi tipici sono i rifiuti di fornitura di elettricità ai propri concorrenti, imposti da Alcoa a vari produttori elettrici americani nel primo dopoguerra: si veda Rasmusen et al. (1991). Per una recente prospettiva sulla naked exclusion da parte di un autorevole antitrust enforcer americano, si veda Creighton (2005).

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condotta, che potrebbe essere abusiva, in realtà può non esserlo se crea efficienze tali da compensarne l'impatto negativo sul benessere dei consumatori. Una tale difesa può essere invocata in diversi casi, come ad esempio con riferimento agli sconti fidelizzanti (argomentando che questi sono indispensabili per ottenere economie di scala e passarne benefici ai consumatori), alle vendite abbinate (argomentando che queste riducono i costi di produzione, distribuzione o transazione) ed in altri casi ancora 31;

da ultimo, non certo per importanza, non esiste un consenso sufficiente, né tra gli economisti, né tra i giuristi, circa il criterio generale da utilizzare per decidere se un dato comportamento unilaterale debba considerarsi o meno legittimo32.

La complessità di questi problemi può generare decisioni divergenti in casi assai simili. Un esempio evidente è il diverso atteggiamento, negli Stati Uniti e nell’Unione Europea, riguardo a riduzioni di prezzo praticate da un’impresa dominante: dopo la decisione della Corte Suprema nel caso Matsushita Electric33, negli USA non solo i prezzi predatori sono considerati una fattispecie poco probabile, ma più in generale le riduzioni dei prezzi di un’impresa dominante vengono considerate prima facie come lecite, perché "tagliare i prezzi per aumentare le vendite è spesso l'essenza stessa della concorrenza”34. La percezione europea del carattere di tali strategie è però ben diversa: ad esempio, per i prezzi predatori, non è ritenuta necessaria neppure la prova che l’impresa che abbia abbassato i prezzi abbia una ragionevole attesa di recuperare, almeno, i profitti cui così ha rinunciato35.Senza ulteriormente approfondire questo punto, dato che il nostro interesse prevalente in questa sede riguarda il danno privato, è sufficiente concludere che gli effetti sul benessere dei comportamenti unilaterali sono spesso molto più difficili da valutare di quelli delle intese. Come vedremo immediatamente, è dunque ancora più vero in questo caso il principio, riassunto dalla Cassazione nella sentenza Fondiaria relativa ad un’intesa sopra richiamata, secondo il quale il danno non può mai essere ritenuto sussistere in re ipsa.

31 Per una discussione, si veda Commissione Europea (2005). 32 Si veda l’interessante discussione in AMC (2007), capitolo Ic; per una discussione più generale si veda Evans e Padilla (2004). 33 Matsushita Electric v. Zenith Radio. 475 US 574 106 S. Ct. 1348 89 l. Ed 2d 538 26 march 2006.34 Ibidem, par. IV B. “But cutting prices in order to increase business often is the very essence of competition”. 35 Tetra Pak e Commissione, sentenza del 14 Novembre 1996, causa C-333/94P, par. 44.“Furthermore, it would not be appropriate, in the circumstances of the present case, to require in addition proof that Tetra Pak had a realistic chance of recouping its losses.”

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3.2. Danno privato Vi sono tre problemi fondamentali sotto il profilo della causazione del danno privato derivante da comportamenti unilaterali:

non tutti i comportamenti escludenti dell’impresa dominante hanno necessariamente carattere abusivo;

un comportamento abusivamente escludente non necessariamente esclude tutti i concorrenti dell'impresa dominante;

in un procedimento di questo tipo non troviamo schierati contro l’infringer dei consumatori, ma dei suoi concorrenti, che hanno dunque un incentivo razionale ad utilizzare le normative sulla concorrenza – secondo la felice formulazione di Baumol – to subvert competition36, lamentando che qualsiasi loro difficoltà discende da un comportamento abusivo dell’impresa dominante, al fine di ottenere qualche partita compensativa nel quadro di una transazione, o la liquidazione di un danno mai effettivamente patito.

Vediamo questi tre aspetti.

Le imprese investono tempo e risorse notevoli cercando di escludere i propri rivali dal mercato, riducendo i prezzi, introducendo innovazioni di prodotto, e utilizzando molti altri strumenti aggressivi che si configurano come competition on the merits. Ciò vale anche per le imprese dominanti, alcuni comportamenti delle quali potranno avere un carattere abusivo, mentre altri potranno rientrare in quei “mezzi su cui si impernia la normale concorrenza tra operatori economici”37, che sono pienamente consentiti anche a tali imprese.

Naturalmente, i consumatori hanno un preciso interesse a che le imprese si comportino in modo vigorosamente aggressivo, ed è questo il motivo economico sostanziale, perché è necessario ritenere, come ha sancito il Tribunale di Primo Grado nel caso Michelin, che “l'esistenza di una posizione dominante non priv[a] un'impresa che si trovi in questa posizione del diritto di tutelare i propri interessi commerciali, qualora questi siano insidiati, e la detta impresa abbia la facoltà, entro limiti ragionevoli, di compiere gli atti che essa ritenga opportuni per la protezione di tali interessi, non è però ammissibile un comportamento del genere che abbia lo scopo di rafforzare la posizione dominante e di farne abuso“38.

In molti casi, può quindi essere difficile isolare il danno ai concorrenti generato da un comportamento legittimo dell’impresa dominante (danneggiare il concorrente è infatti l’essenza stessa del meccanismo

36 Baumol (1985). 37 Così recita la sentenza CGCE nel caso Hoffman-La Roche, par. 91. 38 Michelin c. Commissione, sentenza del 30 settembre 2003, causa T-203/01, par. 55.

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competitivo), da quello generato da un comportamento illegittimo sotto il profilo concorrenziale. Da questo punto di vista, è importante sottolineare come l’individuazione di un concreto effetto escludente non è peraltro neppure necessaria ai fini dell’accertamento di un abuso di posizione dominante. Infatti, “Al fine di accertare una violazione dell'art. 82 CE, è sufficiente attestare che il comportamento abusivo dell'impresa in posizione dominante mira a restringere a concorrenza o, in altri termini, che il comportamento è tale da avere o può avere un simile effetto”39: dunque, “non è necessario dimostrare che l'abuso di cui trattasi abbia prodotto un effetto concreto sui mercati interessati “40.

In secondo luogo una condotta abusiva può recare danno ad alcuni concorrenti, ma non ad altri.

Considerando un price squeeze, abusivo in quanto sufficientemente intenso da escludere un "concorrente efficiente" dal mercato, è evidente che l'impresa dominante avrà più concorrenti, ciascuno avente un diverso livello di efficienza: il suo comportamento avrà quindi un effetto illegittimamente escludente soltanto su quei concorrenti la cui efficienza è uguale o inferiore a quella del teorico "concorrente efficiente". I concorrenti più efficienti di questo ipotetico livello potrebbero non aver subito un danno da esclusione perché, anche in presenza dello squeeze, sarebbero stati in grado di aggredire il mercato41. Considerazioni analoghe possono essere svolte per altre tipologie di abuso, come i prezzi predatori.

Di converso, abusi come le clausole fidelizzanti possono generare un danno soltanto in quei concorrenti che potevano ragionevolmente ambire (per le caratteristiche del loro prodotto, i prezzi praticati, le risorse umane e materiali di cui sono provvisti) ad insidiare quei clienti che l’impresa dominante ha illegittimamente fidelizzato: concorrenti inefficienti, o non dotati di strutture o livelli qualitativi adeguati, non sono stati esclusi dall’impresa dominante, perché non avrebbero potuto in ogni caso fornire quei clienti. I due problemi sopra discussi sono particolarmente importanti in pratica perché è elevata la probabilità che i concorrenti dell’impresa dominante, in seguito al sanzionamento di suoi comportamenti abusivi, avviino azioni civili lamentando un danno, anche se non lo hanno in effetti subito, al fine

39 Ibidem, par. 239. 40 British Airways c. Commissione, sentenza del 17 dicembre 2003, causa T-219/99, par. 293-297. 41 Essi potrebbero altresì aver patito un danno – inferiore tuttavia a quello che sarebbe conseguito da una esclusione - perché costrette a ridurre il proprio prezzo per contrastare lo squeeze.

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di vedersi liquidare danni mai patiti, o di ottenere concessioni di vario genere dall’impresa dominante mediante transazioni stragiudiziali42.La prova di un nesso causale adeguato, nei casi di abuso escludente, non può quindi essere in alcun modo presunta, ma deve sempre essere provata: nella sostanza, non vi è dunque – neppure in questo caso – alcuna differenza apprezzabile tra l’onere della prova che deve soddisfare l’attore nel caso di un’azione follow-on e nel caso di un’azione stand alone.

3.3. La prova del danno: causalità e mitigazione Supponiamo ora che sia stata fornita prova adeguata dell’esistenza di un illecito escludente, e del fatto che esso abbia effettivamente escluso dal mercato – ad esempio, impedendogli di operare in una data zona, o con determinate tipologie di clientela – un particolare concorrente dell’impresa dominante: è sufficiente tutto ciò a provare il danno? Per rispondere a questo interrogativo è necessaria una breve riflessione sulle implicazioni del principio di mitigazione del danno: se infatti (poniamo) un produttore di trappole per topi è stato illegittimamente escluso dal Veneto, ma ha utilizzato le risorse umane e materiali che aveva predisposto per aggredire il contiguo mercato del Trentino, che per ora supponiamo egualmente ricco di roditori, è corretto ritenere che il lucro perduto in Veneto sia interamente da computare nel danno? O dobbiamo invece in qualche modo tenere conto del lucro conseguito in Trentino? E se il concorrente non fosse poi andato in Trentino, ma con i mezzi che aveva preparato per entrare nel mercato del Veneto, avrebbe potuto andarci, dobbiamo considerare questo come un comportamento rilevante sotto il profilo del principio di ordinaria diligenza? Andiamo con ordine. In primo luogo, a livello Comunitario, occorre sottolineare con Van Gerven (2005) come utili chiarimenti su questo punto possano anche qui derivare dall’analisi della giurisprudenza della Corte di Giustizia e del Tribunale di Primo Grado relative alla Francovich liability che, - appunto secondo Van Gerven – può essere direttamente utilizzata nell’area della ’Crehanliability’, ovvero del danno antitrust. Come evidenziato da Toth (1997), in materia di diligenza del danneggiato le numerose sentenze relative ai casi Gritz43, sanciscono in generale come “inmerito alla condotta della vittima di un comportamento dannoso, l’omissione di agire per negligenza … evitare o limitare il danno, può

42 Si veda la discussione di McAfee e Vekkur (2004) 43 Dumortier Frères v. Council [1979] ECR 3091.

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fungere da concausa, e come tale interrompere il nesso causale tra il comportamento dannoso ed i suoi effetti”44 . Tale obbligo per la Corte deriva dal “principio generale.. che un danneggiato deve applicare una ragionevole diligenza nel limitare la dimensione della sua perdita”45: principio naturalmente ben noto nel nostro ordinamento (vedi sotto), ma che per la Corte Europea comporta un comportamento – per così dire proattivo – del danneggiato. Come illustra la sentenza della Corte nel caso Mulder II46 – uno dei molti casi derivanti dall’interruzione di aiuti comunitari al settore agricolo olandese – infatti“la perdita di guadagno consiste nella differenza tra…il guadagno che le Attrici avrebbe ottenuto se gli eventi si fossero svolti normalmente..e..il guadagno che esse hanno effettivamente conseguito … più ogni altro guadagno che hanno ottenuto o che avrebbero potuto ottenere, durante quel periodo, da qualsiasi altra attività sostitutiva” 47.Per la Corte, il principio di ordinaria diligenza – se riferito ad un imprenditore – comporta un obbligo ad intraprendere una attività(imprenditoriale, naturalmente) sostitutiva; questo obbligo è talmente importante da rendere necessario considerare – in diminuzione del danno – il reddito che il suo assolvimento di tale obbligo avrebbe potuto produrre.

Tali precedenti possono probabilmente fornire un lume interpretativo alla portata del principio di “ordinaria diligenza” sancito dall’ art. 122748 c.c.. L’interpretazione di tale principio in riferimento al danno è – com’è noto – molto dibattuta in dottrina (si veda, per tutti, Franzoni [2004]) e la giurisprudenza sul punto pare in via di evoluzione. Infatti la III sezione della Cassazione ha sancito: “l’art. 1227, 2º comma, c.c., nel porre la condizione dell’inevitabilità, da parte del creditore, con l’uso dell’ordinaria diligenza, non si limita a richiedere a quest’ultimo la mera inerzia, di fronte all’altrui comportamento dannoso, o la semplice astensione dall’aggravare, con fatto proprio, il pregiudizio già verificatosi, ma, secondo i principi generali di

44 “as regards the conduct of a person suffering the injury, negligence on his part involving… an omission to take action to avoid or limit it, may operate as a contributory cause thereto and as such may break the chain of causation between the institution’s conduct and its harmful effects”.45 Mulder e altri c. Commissione, sentenza del 27 gennaio 2000, cause riunite C-104/89 e C 37/90. 46 Ibidem.47 Ibidem, par. 26. “the loss of earnings consisting in the difference between …the income which the applicants would have obtained in the normal course of events…and … the income which they actually obtained,… plus any income which they obtained, or could have obtained, during that period from any replacement activities”. Enfasi aggiunta.48 Art. 1227 Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate. Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza (2056 e seguenti).

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correttezza e buona fede di cui all’art. 1175 c.c., gli impone altresì, una condotta attiva o positiva diretta a limitare le conseguenze dannose di detto comportamento, intendendosi comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza, all’uopo richiesta, soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici” 49.D’altro lato, la medesima Sezione ha assunto, nel tempo, posizioni diverse, fornendo una interpretazione ben più restrittiva degli obblighi del danneggiato50.Considerando complessivamente questi precedenti, un economista (che però non è un giurista) sarebbe portato a ritenere che l’impresa che subisca un abuso escludente abbia senza dubbio l’obbligo di agire per limitarne gli effetti dannosi: nell’esempio da cui siamo partiti, tale obbligo quindi avrebbe imposto all’impresa di andare a vendere le sue trappole in Trentino, e pertanto il danno sarebbe stato pari – semplificando – al lucro cessante risultante dai maggiori costi operativi sostenuti per operare nel montuoso Trentino anziché nel Veneto pianeggiante, nonché dai minori ricavi per la eventuale ridotta presenza di roditori in quella regione rispetto al Veneto. In altre parole, pare naturale (sempre, naturalmente, ad un economista) che la nozione di ordinaria diligenza, riferita ad un’impresa, debba in generale portare ad attendersi che “la condotta attiva o positiva diretta a limitare le conseguenze dannose” ricomprenda attività imprenditoriali: sarebbe in effetti curioso attendersi che l’imprenditore sempre intraprenda, tranne quando egli subisce un danno. Naturalmente vale anche per l’impresa il principio limitativo che esclude l’obbligo di intraprendere “attività … gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici”, ma sembre ragionevole interpretare questo principio alla luce delle caratteristiche del soggetto – l’impresa danneggiata – il quale è tenuto a rispettarlo.

Pertanto apparirebbe ragionevole ritenere che tale obbligo non comporti andare a vendere trappole in Sicilia, perché la distanza geografica comporta probabilmente “rischi gravosi o rilevanti sacrifici”, o intraprendere un’attività imprenditoriale del tutto diversa, ad esempio cambiando completamente il prodotto che l’impresa intendeva vendere, poichè tentare di aggredire mercati merceologicamente diversi può certamente comportare “notevoli rischi o rilevanti sacrifici”. Allo stesso modo, tranne casi particolari, è probabile che se l’impresa esclusa era uno start-up, focalizzato sulle trappole per topi, essa era priva di alternative praticabili, e dunque per esso il principio di “ordinaria diligenza” non è ragionevole comporti, in generale, alcun obbligo di intraprendere attività imprenditoriali sostitutive. Ancora, naturalmente, se l’impresa aveva acquisito risorse, umane o

49 Cassazione civile, n. 2422, enfasi aggiunta 50 Ad esempio, negando che il principio comporti l’obbligo di acquistare altrove la merce non fornita: Cassazione civile, n. 5274.

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materiali, che non possono essere utilizzate che nella regione Veneto, qualsiasi altra attività alternativa la graverebbe di “notevoli rischi o rilevanti sacrifici”.

La questione è insomma complessa, e certamente è necessario tracciare ragionevoli limiti agli obblighi derivanti dal principio di ordinaria diligenza, per evitare che l’impresa che abbia perpetrato un abuso escludente eviti di pagare alcunché, argomentando che il concorrente escluso avrebbe ben potuto fare dell’altro. Tuttavia, pare certamente eccessivo ritenere che il concorrente illegittimamente escluso non abbia alcun obbligo di mitigazione del danno. Il motivo per cui, da un prospettiva economica, è allettante formarsi un’opinione in questo senso, è che la nozione giuridica di mitigazione del danno è strettamente apparentata a quella di costo-opportunità.

In economia, il costo-opportunità sostenuto (ad esempio) da un'impresa che scelga di entrare sul mercato A è rappresentato dai profitti che essa avrebbe ottenuto se invece fosse entrata sul mercato B, cui ha rinunciato entrando sul mercato A. La nozione di costo-opportunità è però del tutto generale, ed associata a qualunque scelta, di consumo (comprando una mela rossa rinuncio ad una mela gialla) o di investimento. Qualsiasi tipo di costo, in realtà, è in economia un costo-opportunità. Ma il costo-opportunità è l'altra faccia della mitigazione: se vendere trappole per topi in Trentino presenta sostanzialmente gli stessi costi e gli stessi ricavi che vendere trappole in Veneto, la scelta di entrare in Veneto non presenta alcun costo-opportunità significativa. Di conseguenza, è facile porre rimedio ad una esclusione che ci impedisca di entrare nel mercato del Veneto: basta andare in Trentino. Viceversa, andare in Sicilia o cambiare settore merceologico presenta costi-opportunità più alti, e la mitigazione qui è molto più difficile. Ritenere però che non vi sia un obbligo di mitigazione equivale a ritenere che il costo-opportunità dell’azione illecitamente impedita dall’impresa dominante sia altissimo: ciò può in effetti verificarsi in qualche caso (l’impresa start-up), ma per un economista è impossibile ritenere che questo possa essere un fatto frequente.

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4. Metodologie valutative del dannoAvendo inquadrato sotto un profilo generale i principali problemi che si pongono quando si voglia provare e quantificare un danno antitrust, passiamo ora a discutere brevemente i principali aspetti metodologici da risolvere, per ottenerne valutazioni ragionevoli, sotto il profilo economico.

4.1. Danno emergente, lucro cessante, perdita di chance e danno d’immagine

L’acquirente diretto da un cartello, oppure da un'impresa dominante che pratichi un abuso per sfruttamento, subirà in generale un danno emergente, pari alla differenza tra il prezzo pagato e il prezzo che sarebbe stato pagato in assenza di comportamento illecito sotto il profilo concorrenziale. Un concorrente che patisca un abuso escludente, può soffrire tre tipologie di danno: un danno emergente, consistente nella perdita degli investimenti specifici effettuati (più precisamente: dei costi irrecuperabili sostenuti) per realizzare i prodotti o i servizi la cui vendita sia foreclosed dall'impresa dominante; un lucro cessante, consistente nella perdita dei flussi di cassa che l’azienda avrebbe ragionevolmente ottenuto, su un arco di tempo adeguato vendendo quei prodotti; una perdita di chance, se l’abuso escludente gli ha impedito di conseguire ulteriori vantaggi economici. Sia la valutazione della perdita di chance che quella del danno d’immagine eventualmente patito dal danneggiato di un illecito antitrust sono, d'altro lato, argomenti estremamente complessi, che si muovono in una dottrina ed in una giurisprudenza ancora alquanto fluide51. Esse presentano poi profili prevalentemente giuridici, e quindi non saranno qui discusse.

La valutazione del danno emergente patito dalla vittima di un abuso escludente presenta in genere difficoltà pratiche, ma contenute difficoltà concettuali, essendo prevalentemente basata su evidenze contabili.

D’altro lato, la valutazione sia del danno emergente derivante agli acquirenti diretti da un’intesa abusiva, sia del lucro cessante patito dal danneggiato da abuso escludente, pongono interessanti questioni anche sotto il profilo economico, ed è su di esse che ci concentreremo in questa sede.

In questi casi, infatti, la quantificazione da danno antitrust richiede la costruzione di uno scenario ipotetico che differisce da quello reale solo per gli effetti derivanti dalla violazione, generalmente costruito simulando il conto economico dell’azienda danneggiata in assenza di comportamento dannoso (metodo differenziale, o but for nel mondo anglosassone) alla luce

51 Si vedano però gli interessanti rilievi critici nella perdita di chance nella breve nota di Afferni (2007).

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delle informazioni analitiche disponibili su mercati, clienti, quantità, costi e prezzi. In alcuni casi, lo scenario ipotetico può essere costruito in base alla situazione economica che l’impresa danneggiata aveva in un periodo nel quale non si era verificato il comportamento dannoso (metodo before and after, nel mondo anglosassone), naturalmente se tale situazione è ricostruibile con qualche accuratezza, ed i due scenari, del prima e del dopo, sono ragionevolmente confrontabili in quanto non sono intervenuti cambiamenti di rilievo nelle principali altre variabili in grado di influenzare la situazione economica dell’impresa. In altri ancora lo scenario può essere costruito, identificando un’impresa simile (anzi, spesso identica, come vedremo) alla danneggiata, ma che non abbia subito il danno, e confrontandone il risultato economico con quello della danneggiata, con un metodo detto yardstick, o benchmark.Vediamo i principali aspetti di questi metodi.

4.2 Il metodo differenziale (but for) I metodi but-for sono frequentemente utilizzati dalle corti civili per la quantificazione di molte tipologie di danni contrattuali e commerciali, e pertanto devono essere considerati come i principali candidati per la stima dei danni antitrust52.

In sintesi, tali metodi sono basati sulla costruzione di un’impresa equivalente alla danneggiata, tranne che per gli effetti derivanti dall’esistenza della violazione antitrust. Tale costruzione tecnica è tipicamente fondata sui dati dell’azienda danneggiata nel periodo precedente la violazione, sui piani che essa poteva aver allora formulato, e su una valutazione critica della concreta possibilità che essa aveva di conseguire quei piani, in assenza del comportamento dannoso.

Il modo forse più efficace per illustrarne l’applicazione, è quello di riferirsi al caso Telsystem/SIP53, particolarmente interessante non solo perché esso rappresenta il primo giudizio civile in materia di danno per abuso escludente in Italia, ma anche per l’assoluto livello tecnico del Collegio dei CTU54, che valutavano il danno subito dal convenuta sulla base di un’analisi economica dettagliata ed articolata.

Il Collegio doveva rispondere ad un quesito ben formulato che, per il lucro cessante, chiedeva di determinare “quali profitti [Telsystem] avrebbe potuto

52 Ashurst (2004). 53 App. Milano, 26 novembre – 24 dicembre 1996.54 Composto dal Prof. Gualtiero Brugger, dal Prof. Mario Cattaneo e dall’Ing. Riccardo Casalegno.

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conseguire … se avesse potuto tempestivamente ottenere dalla società convenuta i necessari collegamenti diretti urbani con i propri clienti, secondo un prudente apprezzamento che tenga conto delle dimensioni dell’impresa, della sua capacità di penetrazione nel mercato e della produttività degli investimenti nella fase iniziale della sua attività’. Per la perdita di chance, il Quesito recitava “se a causa del ritardo di un anno, cagionato dalla controversia con la società SIP S.p.A., la società Telsystem abbia subito un danno, consistente nella perdita dell’opportunità di presentarsi come la prima impresa operante sul mercato italiano della telefonia vocale per gruppi chiusi di utenti in regime liberalizzato; in caso di risposta affermativa al quesito che precede, se sia possibile quantificare il danno subito dalla società attrice per la perdita di tale opportunità, con riferimento a parametri riconosciuti validi dalla scienza economica, secondo procedimenti razionali che mettano capo a conclusioni statisticamente plausibili, e con prudente apprezzamento”. Per rispondere, il Collegio adottava un approccio but for, basato sull’analisi differenziale, conduceva un’analisi del mercato della fonia per gruppi chiusi di utenti e valutava la specifica posizione, al suo interesse, di Telsystem. Esso giungeva alla conclusione che la quota di mercato aggredibile dall’attore dipendeva dagli investimenti in pubblicità e in varie attività di promozione, dalla capacità e velocità di commercializzazione, dalla capacità organizzativa, e dalla disponibilità di risorse umane. Esaminando questi elementi, il Collegio considerava realistica una previsione di ricavi molto inferiore a quella ipotizzata dall’attore. Tale differenza negativa risultava in particolare dai ridotti investimenti in pubblicità e promozioni effettuati da Telsystem; dalla disponibilità limitata di forze di vendita, che erano peraltro indirette e non adeguatamente incentivate, il che rendeva probabile una bassa percentuale di successo dei contatti stabiliti; da una valutazione realistica del periodo temporale che intercorreva tra il primo contatto positivo con il potenziale cliente, la firma del contratto e l’attivazione del servizio e da altri fattori: il Collegio rivedeva dunque drasticamente al ribasso le previsioni presentate da Telsystem, ritenendo che esse non fossero concretamente conseguibili, stanti le strutture materiali e finanziarie dell’attore.

Il Collegio dei CTU considerava poi come i margini iniziali previsti da Telsystem – primo operatore a fornire l’innovativo servizio di Gruppi Chiusi d’Utente – si sarebbero rapidamente ridotti, poiché in quel businessnon esistevano barriere apprezzabili all’entrata, e inoltre l’attore era portatore di un’innovazione di servizio, più facilmente imitabile rispetto ad una innovazione di prodotto. Era pertanto improbabile che la Società sarebbe riuscita a fidelizzare il cliente, e ciò non avrebbe consentito alla stessa di godere in permanenza di un margine elevato.

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Inoltre, il Collegio rifiutava la tesi di Telsystem, secondo la quale gli ostacoli posti in essere da Sip avrebbero provocato il fallimento della società e l’annullamento di ogni prospettiva di reddito, in quanto Sip non poteva essere chiamata a rispondere della debolezza strutturale di Telsystem, e della sua incapacità di creare una compagine societaria più solida.

Concludendo, il danno complessivamente subito da Telsystem veniva quantificato in un valore molto più contenuto del petitum: infatti contro un claim di oltre 17 miliardi di lire la Corte – sulla base degli esiti raggiunti nella CTU – ne liquidava solo 3,3 (di cui oltre 2,5 per la perdita di chance)in quanto l’andamento dei ricavi e dei costi che il Collegio dei CTU riteneva ragionevolmente ottenibile in assenza di evento dannoso divergeva in maniera sensibile da quanto prospettato dall’attore.I Periti partivano quindi dal business plan dell'attore, ma operavano su di esso una valutazione critica estremamente dettagliata, che teneva conto sia di elementi di scenario (le caratteristiche del prodotto, il probabile ingresso di nuovi concorrenti, le reazioni di Sip), sia dei vincoli che le risorse a disposizione di Telsystem avrebbero imposto ai suoi programmi di crescita. La simulazione dell'andamento della Società in assenza di comportamento dannoso non era dunque condotta meccanicamente, ma veniva saldamente basata sulla realtà di mercato e su quella dell’impresa danneggiata.

4.3 Altri metodi per la costruzione dello scenario alternativo In alcuni casi, può non essere possibile, o agevole, ricostruire analiticamente quale sarebbe stata la situazione di un agente economico in assenza di comportamento dannoso, ed in questi casi vengono talvolta utilizzati altri metodi per costruire uno scenario sintetico sul quale il comportamento illecito non si sia verificato, cui confrontare lo scenario effettivo. Tra i vari possibili, due – la costruzione di scenari before and after, e l'adozione di un benchmark – sono particolarmente interessanti, e in questa sede ci dedicheremo esclusivamente ad essi.

4.3.1 Before and after Se il periodo in cui si è sviluppato il comportamento dannoso è noto con precisione, e tra tale periodo e quello precedente non sono variate in misura significativa altre rilevanti variabili economiche, è possibile misurare le conseguenze del danno, per quanto in modo approssimativo, confrontando i due periodi. Questi metodi sono frequentemente utilizzati per valutare il danno derivante da intese. Ad esempio, in varie azioni civili negli USA, seguite alla sanzione del già citato cartello delle Vitamine, il danno è stato stimato confrontando i

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prezzi prima del 1990, con quelli del periodo successivo, in cui presumibilmente l’intesa era in vigore. In alcune di esse, questo metodo è stato però criticato, in quanto, per alcune vitamine, la durata del cartello era stata estremamente estesa (circa un decennio), e le differenze nei prezzi tra il periodo precedente e quello in cui il cartello era in vigore erano presumibilmente stati influenzati da un ampio numero di variabili. In generale, poi, come sottolineato da Connor “l’approccio before-and-after è particolarmente soggetto ad errori di stima se non sono disponibili ulteriori informazioni sul mercato che confermino la consistenza dell’incremento di prezzo e la durata degli effetti dell’intesa”55.L’applicabilità di tale metodo non è in ogni caso limitata ai cartelli: in Italia, esso è stato recentemente utilizzato nel noto caso Bluvacanze56, riguardante un’intesa escludente sotto forma di rifiuto concertato di effettuare forniture, volto a porre fine alla politica di sconti adottata da un distributore ed a mantenere il controllo sui prezzi di mercato.

La Corte d’Appello di Milano stimava il danno subito da Bluvacanze confrontando il valore effettivo delle vendite nel trimestre del 2001, in cui era in vigore l’intesa escludente, con quello del corrispondente trimestre del 2000, quando essa non sussisteva, aggiustando per la differenza nel prezzo medio dei pacchetti-vacanze venduti nei due periodi. Di tale fatturato perduto veniva ottenuto il profitto perduto applicando la percentuale di utile prevista dai contratti tra Bluvacanze e i due operators: la vicinanza tra il before e l’after rendevano il metodo perfettamente applicabile.

4.3.2 Benchmark Le metodologie yardstick sono basate sull’idea, piuttosto semplice, che gli effetti di una violazione delle norme antitrust possano essere stimati confrontando i profitti dell’impresa danneggiata con quelli di un’impresaequivalente, che opera in un mercato equivalente non affetto dalla violazione. Il grado di similarità tra l’impresa danneggiata e l’impresa equivalente decreta il livello di accettabilità – come vedremo, sia dal punto di vista legale che economico – di qualsiasi stima basata su una metodologia yardstick.Una rassegna della giurisprudenza (si veda, per una sintesi, la Tavola 1)57

consente di mettere in luce come – affinché una corte civile ritenga

55 Connor J. (2000), pag. 64, “..The before-and-after approach is particularly prone to errors of estimation if no additional market information is available to confirm the height of the overcharge and the duration of the conspiracy’s effects”.56 App. Milano 11 luglio 2003 in “Il Foro Italiano”.57 Bigelow v. RKO Radio Pictures Inc 327 U.S. 555,562, 51 S. Ct. 248, 75 L.Ed. 544 (1931); 401 U.S. 321 91 S.Ct. 795 28 L.Ed.2d 77 ZENITH RADIO CORP., Petitioner, v.

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accettabile una valutazione del danno subito dall'impresa A assumendo come benchmark l'impresa B – è necessario che sia superato un chiaro test a due stadi. Nel primo stadio, è necessario verificare che il prodotto di A e di B sia assolutamente lo stesso. Se, e soltanto se, tale valutazione fornisce un esito positivo, nel secondo stadio è necessario accertare che ricorra almeno una delle due seguenti condizioni:

B è in realtà A, ovvero la medesima impresa che ha subito il danno, ma che opera in un mercato geografico ove non si sono sviluppati i comportamenti dannosi;

B è un'impresa diversa da A, che opera all'interno del medesimo mercato geografico ove opera A, ma – a differenza di essa – non è stata vittima dei comportamenti dannosi

HAZELTINE RESEARCH, INC. Argued Nov. 10, 1970. Decided Feb. 24, 1971.Rehearing Denied April 5, 1971; 79 F.2d 269 177 U.S.P.Q. 501, 1973-1 Trade Cases 74,446 AGRASHELL, INC., Appellant, v. HAMMONS PRODUCTS COMPANY, Appellee. No. 71-1538.United States Court of Appeals, Eighth Circuit. Submitted June 15, 1972. Decided March 30, 1973. Rehearing Denied May 1, 1973. Lehrman II, 500 f2d 659 United States Court of Appeals, Fifth Circuit. Sept. 11, 1974, Rehearing and Rehearing En Banc Denied Nov. 5, 1974; Jay Edwards Inc v. New England Toyota Distributor 708 F 2d 814 (1983) Court of Appeal (1st District); Metrix Warehouse v. Daimler Benz Aktiengesellschaft 828 F.2d 1033, 1044 (4th Circuit 1987) cert. Denied 486 US 1017, 108 S. Ct 1753, 100 L. Ed 2d 215 (1988); National Farmer’s Org. v. Associated Milk Producers 850 F.2d 1286,1294-98 (8th Circuit 1988), cer. Denied, 489 US 1081, 109 S. Ct. 1535, 103 L. Ed 2d 840 (1989). Home Placement Service., Inc. V. Providence Journal Co., 819 F.2d 1199, 1207 (1st Circuit 1987). Rose Confections Inc v. Ambrosia Chocolate Co., 816 F. 2d 381, 393-394 (8th Cicuit 1987); William Inglis & Sons Baking Co. V. Continental Baking Co., 942 F.2d 1332,1341 (9th Circuit 1991). Eleven Line Inc. v. North Texas State Soccer Ass’n 213 F.3d 198 (5th Cir. 2000). Conduit Europe S.A. contro Telefonica de Espana, Juzgado Mercantil numero 5 de Madrid, 11 novembre 2005; Lescarcelle/De Memoris/OGF Cour d’Appel 1è chambre, section G, arrêt du 23 Juin 2004; Business Full Company e Ring,’App. Roma, 20 gennaio 2003, in “Il Diritto Industriale”, n. 6/2003. Per i casi Valium, Strom Tariff e Arbeitsgemeinschaft Rheinausabau si veda Ashurst (2004).

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Tavola 1 – Sintesi dei precedenti USA ed europei che hanno esaminato l’accettabilità del metodo benchmark

Prima Condizione Seconda Condizione Accettazione

Yardstick

Caso Nazione Stessoprodotto

Stessaimpresa

Stessomercato

geografico

Bigelow v. RKO Radio Pictures Inc Stati Uniti X X Sì

Zenith Radio Corp. Stati Uniti X X Sì

Agrashell Stati Uniti X X Sì

Lehrman v. Gulf Oil Stati Uniti X X S

Jay Edwards Inc v. New England Toyota Distr. Stati Uniti X X Sì

Metrix Warehouse Stati Uniti X X Sì

National Farmers v. Associated Milk Prod. Stati Uniti X X Sì

Home Placement Service., Inc. V. Providence Journal

Stati Uniti X X No

Rose Confections v. Ambrosia Chocolate Stati Uniti X X N

William Inglis & V. Continental Baking Stati Uniti X X No

Eleven Line v. N. Texas Soccer Assn. Stati Uniti X X No

Valium Germania X No

Strom Tarif Germania X No

Arbeitsgemeinschaft Rheinausabau Germania No

Conduit Spagna X X No

Lescarcelle/De Memoris/OGF Francia X X Sì

Business Full Company e Ring Italia X X X Sì

Fonte: Vedi nota 57

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E’ dunque possibile (ma le condizioni sono soltanto necessarie, non sufficienti) cercare di ricavare quale sarebbe stato, ad esempio, l'utile dell'azienda A che produce trappole per topi in Italia in assenza di violazioni antitrust, considerando:

l'utile della stessa azienda A quando – con una consociata – essa produce trappole per topi in Gran Bretagna, oppure

l’utile dell'azienda B, che produce trappole per topi in Italia.

Analizziamo ora brevemente alcune sentenze tra quelle sintetizzate nella Tavola 1, dedicando qualche maggior rilievo a quelle europee. In Home Placement Service., Inc. V. Providence Journal Co. 58, l’attore – impresa immobiliare – accusava il convenuto di aver provocato il fallimento della sua filiale del Rhode Island per aver deciso di rifiutare l’inserimento di annunci immobiliari sulle sue testate, e proponeva una valutazione del danno confrontando i profitti conseguiti nella sua filiale del Rhode Island, prima del suo fallimento, con quelli ottenuti dalla filiale del Tennessee. La Corte d’Appello chiariva anzituttto che “nei casi che hanno utilizzato questa metodologia è stato riconosciuto che la confrontabilità del prodotto,dell’azienda e del mercato sono tutti fattori rilevanti nell’individuazione del corretto termine di paragone”59 aggiungendo poi che “la questione principale riguarda l’esistenza di un’ampia evidenza documentale circa la confrontabilità tra l’andamento dell’impresa Attrice e quello dell’impresa utilizzata come benchmark che consenta all’organo giudicante di condurre un confronto corretto”60.Nonostante l’attore avesse dimostrato l’esistenza di alcune importanti analogie tra il mercato delle due filiali considerate (aperte nello stesso periodo, esse servivano un territorio sostanzialmente identico per popolazione, numero di unità abitative, numero complessivo di unità disponibili e tasso di disoccupazione degli alloggi), la Corte riteneva che gli elementi fossero insufficienti perché l’analisi ometteva di considerare numerosi altri fattori (tra cui la presenza di college, gli affitti del periodo estivo e il tasso di disoccupazione) e in particolare nell’analisi “Non vi era alcun riferimento alla concorrenza nel settore immobiliare su ciascun

58 Home Placement Service., Inc. v. Providence Journal Co., 819 F.2d 1199, 1207 (1st Circuit 1987). 59 Ibidem, pag. 1206. “cases employing [il metodo yardstick] have recognized that product,firm and market comparability are all relevant factors in the selection of a proper yardstick”. Enfasi aggiunta. 60 Ibidem, pag. 1206.“a threshold question is whether there is ample evidence in the record as to the comparability of the plaintiff’s business and the “yardstick” firm as to permit a legitimate comparison by the trier of fact”. Enfasi aggiunta.

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mercato”61. Tali evidenze portavano la Corte a concludere che “Ci[fossero] sufficienti lacune nelle evidenze relative ai due mercati da porre in forte dubbio che si [potesse] propendere per la loro confrontabilità”62.

La Corte proponeva poi alcune interessanti osservazioni in merito all’onere della prova, affermando che “L’onere di provare che i due mercati siano comparabili ancorchè non sia particolarmente oneroso, rimane in capo all’Attrice e non si sposta sulla Convenuta qualora l’Attrice abbia provveduto a fornire qualche ridotta e discutibile evidenza che supporti la sua tesi” e sancendo che “l’assenza di prova contraria non stabilisce necessariamente che i due mercati siano confrontabili”63.In National Farmers v. Associated Milk Producers64, la Appeals Court, 8th

Circuit, accettava la stima di un danno da comportamento predatorio e discriminazione del prezzo basata sul confronto tra la quota dell’attore sul mercato del latte crudo in un’area in cui si erano verificati gli abusi - dieci stati centro-occidentali degli Stati Uniti – ed un’area in cui questi non si erano verificati – Minneapolis – St. Paul, Minnesota, e le aree circostanti. Il caso è particolarmente interessante poiché i due mercati presentavano alcune differenze. Ad esempio, rispetto al mercato oggetto di violazione, quello utilizzato come comparable era caratterizzato dalla presenza di un unico grande acquirente, da quantità assai più contenute vendute ai compratori più piccoli, da normative sulla raccolta del latte differenti e, infine, dal fatto che difficilmente i consumatori di tale mercato avrebbero considerato sostituibili i prodotti dell’attore con quelli del convenuto65, ma “nonostante questi difetti, la Corte riteneva che – sotto il profilo giuridico –la testimonianza dell’esperto provasse sufficientemente l’ammontare del danno”66. Dunque, la testimonianza dell’esperto, in questo caso sia stata sufficiente alla Corte per convincersi che le stime proposte erano fondate su mercati “sufficiently comparable”.

61 Ibidem, pag. 1207. “There was no mention of the relative competition in the rental referral industry in each market”62 Ibidem, pag. 1208. “there are sufficient gaps in the proof regarding the respective markets to cast considerable doubt on whether the issue should be resolved in favor of comparability”.63 Ibidem, pag. 1207.“The burden of proving comparability, while not particularly onerous, rests with the plaintiff and does not shift to the defendant after the plaintiff has offered some bits of evidence arguably tending to support comparability”. “the lack of contrary evidence does not necessarily establish that the two markets are comparable” .64 National Farmer’s Org. v. Associated Milk Producers 850 F.2d 1286,1294-98 (8th Circuit 1988), cer. Denied, 489 US 1081, 109 S. Ct. 1535, 103 L. Ed 2d 840 (1989). 65 Ibidem, par. 41. E’ la stessa Corte a riconoscere che questo “yardstick measurement is not perfect”.66 Ibidem, par. 41.“Despite these defects, the Court found, as a matter of law, that the expert's testimony sufficiently proved the amount of damage”.

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In Europa, per quanto ci consta, il metodo yardstick è stato accettato due sole volte, e – sia in quei casi, che nei vari casi in cui esso è stato rifiutato –è possibile verificare come le Corti europee abbiano adottato i medesimi criteri logici per valutare tale metodo delle Corti americane.In Germania, nel caso Valium, la Corte Federale – annullando la decisione dell’Oberlandesgericht di Berlino – ha rifiutato uno yardstick che non soddisfaceva la seconda condizione, dato che il confronto avveniva tra imprese differenti (Centrafarm e Merck), attive su mercati geografici diversi(Paesi Bassi e Germania) e dunque simili soltanto sotto il profilo del prodotto.Ancora in Germania, nel caso Arbeitsgemeinschaft Rheinausabau67,riguardante lo scavo di un canale, la Corte non ha ammesso l’utilizzo del metodo yardstick, poiché era impossibile individuare un mercato del prodotto identico a quello oggetto di violazione; pertanto non era soddisfatta la prima condizione.

In Spagna, nel caso Conduit68 l’attore stimava il lucro cessante, subìto per l’illegittima esclusione dal mercato degli annuari telefonici, confrontando la propria quota sul mercato spagnolo con quella conseguita in Gran Bretagna. Tuttavia, le differenze tra il mercato spagnolo e quello britannico erano però talmente significative da spingere il Tribunale Commerciale di Madrid prima, e la Corte d’Appello poi, a rifiutare questo approccio alla stima del danno. In particolare, la Corte rilevava che “su quel mercato [Il Regno Unito] si erano già sviluppati servizi sia di outsourcing offerti da altre aziende, e questo permetteva a Conduit di acquistare familiarità con tale attività prima della liberalizzazione, circostanza che non si era verificata sul mercato spagnolo”69. Inoltre, questa maggior esperienza si traduceva in una differenza nella qualità del servizio offerto nei due diversi Paesi70.

67 Sintetizzato da Ashurst (2004). 68 Cfr. Conduit Europe S.A. contro Telefonica de Espana, Juzgado Mercantil numero 5 de Madrid, 11 novembre 2005, disponibile nell’utile regesto delle sentenze civili in materia di danno antitrust mantenuto dalla Commissione Europea all’indirizzo: http://ec.europa.eu/comm/competition/antitrust/national_courts/court_es_en.html. 69 Ibidem, pag. 34. “en dicho mercado [quello del Regno Unito] desarrollaban previamente servicios de outsourcing para otras compañías, lo que les permitía estar adiestrados y familiarizados con el negocio antes de la liberalización, circunstancia que no se daba en el mercado español”.70 Ibidem, pag. 34. “influye decisivamente a favor de la calidad del servicio en el Reino Unido mientras que en España el servicio se prestaba desde un call center ubicado en Dublín con empleados españoles sin ninguna experiencia previa y otro en Madrid ... cuyos empelados tampoco tenían ninguna experiencia”, ovvero, “influisce decisamente a favore della qualità del servizio nel Regno Unito mentre in Spagna il servizio era svolto attraverso un call center ubicato a Dublino con impiegati spagnoli senza alcuna esperienza precedente e un altro a Madrid.. con impiegati parimenti senza esperienza”.

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Con grande chiarezza la Corte motivava poi il proprio rifiuto affermando che “non si deve sottovalutare il fatto che le differenze tra il mercato britannico e quello spagnolo sono significative, per cui non sembra ammissibile che lo si utilizzi come benchmark per il calcolo della quota di mercato che avrebbe dovuto detenere l'attore” 71. In questo caso, dunque, essa rifiutava lo yardstick poiché – nonostante il confronto avvenisse tra le quote di mercato della stessa impresa, con riferimento ad un mercato solo geograficamente diverso da quello su cui si erano verificati i comportamenti abusivi – i due mercati erano troppo diversi.

In Francia, nel caso Lescarcelle/De Memoris/OGF72 – la Corte d’Appello di Parigi ha ammesso una valutazione del danno in una controversia in materia di esclusione da un mercato dei servizi funerari, basata su uno yardstickcostituito dai risultati conseguiti dall’attore stesso sul mercato dei medesimi servizi in un Comune vicino. Anche in questo caso, dunque, entrambe le condizioni che abbiamo identificato nella giurisprudenza USA erano perfettamente soddisfatte, ma a differenza di quanto osservato in Conduit, i due mercati avevano “caractéristiques … comparables”;

In Italia, la Corte d’Appello di Roma73, nel caso relativo ad un abuso di posizione dominante da parte di Telecom Italia nel mercato dei servizi di trasmissione dati, che aveva impedito alle Attrici di fornire tali servizi con particolari tecnologie innovative (xDSL e SDH), quantificava i danni da esse patiti utilizzando un metodo yardstick, considerando come termine di paragone la quota delle medesime aziende sul medesimo mercato, ovvero i servizi di trasmissione dati nel loro complesso. Un esame complessivo della giurisprudenza qui sintetizzata consente agevolmente di ricostruirne la ratio, anche da un punto di vista economico. Il risultato economico di un'impresa (comunque misurato, mediante la quota di mercato, i suoi utili, o in altri modi) dipende infatti da una serie estremamente numerosa di variabili, alcune delle quali riflettono le caratteristiche dell'impresa (i suoi prodotti, la sua storia, la sua tecnologia, il suo marchio, etc.), e molte altre riflettono le caratteristiche del mercato geografico ove essa opera (la domanda dei consumatori, il loro reddito, la presenza di concorrenti effettivi o potenziali, etc.).

71 Ovvero: “no debe desdenarse el hecho que las diferencias entre el mercato britànico y el español son significativas, por lo que no parece admisible que se utilice como referencia por el càlculo de la cuota de mercado que deberìa tener la demandante”. Così sintetizza il punto la sentenza successiva, parimenti reperibile nel regesto della Commissione, con la quale la Audiencia Provincial de Madrid, Secciòn 28, il 25/5/2006 ha respinto i ricorsi contro la sentenza del Juzgado Mercantil. 72 Cour d’Appel 1ère chambre, section G, arrêt du 23 Juin 2004.73 App. Roma, 20 gennaio 2003, in “Il Diritto Industriale”, n. 6/2003

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Sono quindi moltissime le variabili che, in generale, possono determinare differenze nel risultato economico di due imprese, e per poter utilizzarne l’impresa B come benchmark per la valutazione di quale sarebbe stato il risultato economico di A in assenza di comportamenti dannosi (questo, in statistica si definirebbe il segnale), è indispensabile che sia possibile applicare un criterio di coeteris paribus, ovvero che le differenze tra A e B non esistano, o siano comunque di portata estremamente limitata, così che l'effetto di quelle non derivanti dall'esistenza di comportamenti dannosi (che simmetricamente possiamo definire il rumore), sia in qualche modo isolabile, ad esempio in base ad evidenza empirica di varia fonte, o di prove testimoniali.

Sotto questo profilo, le differenze di prodotto sono inaccettabili, poiché è assolutamente pacifico che diversi prodotti generano risultati economici totalmente diversi, che dipendono dai loro costi, dalla domanda, dalla presenza di prodotti sostituibili e così via. È per questo, mi pare, che sistematicamente le corti hanno rifiutato confronti ove non vi fosse totale identità nel prodotto.

Ma anche se il prodotto è il medesimo, devono esservi limiti alle differenze tra le due realtà che si intende comparare, perché altrimenti il segnalesarebbe sovrastato dal rumore, che – schematizzando – può dipendere da differenze derivanti dalle caratteristiche della domanda, e/o dalle caratteristiche dell'offerta. Il secondo stadio del test che abbiamo ricavato dai precedenti è appunto finalizzato ad escludere che possano esservi sia differenze nella domanda (che dipendono in larga misura da diversità nel mercato geografico) sianell'offerta (che dipendono in larga misura da diversità nell'impresa considerata). Le corti, correttamente, hanno ritenuto che in questo caso il numero di variabili in grado di influenzare le differenze nel risultato economico di A e B sarebbe talmente elevato da rendere totalmente inaffidabile una valutazione del danno basata sul metodo del benchmark.

Se invece le differenze sono soltanto dal lato della domanda (e dunque l'impresa è la stessa, ma opera su mercati geografici diversi) oppure soltantodal lato dell'offerta (e dunque le imprese sono diverse, ma il mercato geografico è il medesimo), la corte ha maggiori probabilità di riuscire a tenere conto di queste differenze, considerando, come si diceva, evidenza addizionale o prove testimoniali.

In ogni caso, le corti possono sempre concludere, dopo aver esaminato tutta l’evidenza disponibile, che – anche se B soddisfa il criterio a due stadi sopra indicato – le differenze residue tra A e B sono eccessive per rendere applicabile il metodo del benchmark.

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5. ConclusioniAl termine della nostra discussione, nella quale abbiamo considerato vari aspetti di rilievo – sia sotto il profilo metodologico che applicativo – relativi alla prova ed alla valutazione del danno antitrust, è utile riflettere brevemente su come il quadro delineato potrà modificarsi a seguito dei probabili interventi normativi delineati nel Libro Bianco. La Commissione propone in quella sede diverse misure, di cui le principali – dal punto di vista di questo lavoro – sono due:

i. a qualsiasi decisione, avente carattere definitivo, presa da una autorità nazionale per la concorrenza (ANC) di un paese membro, dovrebbe essere riconosciuto il carattere di precedente vincolante (come prova irrefutabile dell’infrazione) nelle azioni civili in qualsiasi altro paese dell’unione;

ii. la teoria della traslazione (passing on) dovrebbe essere ammessa come difesa del convenuto, ma gli acquirenti indiretti potrebbero far valere in giudizio la presunzione che vi sia stata, in loro danno, una traslazione totale;

Inoltre, la Commissione in base ad una lettura della sentenza Manfredi della Corte di Giustizia e ad altre considerazioni, prende sostanzialmente posizione in favore dei danni punitivi. Consideriamo i riflessi di questi orientamenti sui problemi di prova e valutazione del danno di cui ci siamo qui occupati. La proposta di assegnare il valore di precedente vincolante a qualsiasi decisione, avente carattere definitivo, presa da una ANC di un paese membro dell’Unione lascia particolarmente perplessi, nonostante le giustificazioni che di essa offre il Libro Bianco. E’ naturalmente vero che – come sottolinea la Commissione – la proposta deriva da una estensione della previsione già contenuta nell'articolo 16(1) del Regolamento 1/2003, che statuisce “quando le giurisdizioni nazionali si pronunciano su accordi, decisioni e pratiche ai sensi dell'articolo 81 o 82 del trattato che sono già oggetto di una decisione della Commissione, non possono prendere decisioni che siano in contrasto con la decisione adottata dalla Commissione”74. Tuttavia, alla luce della discussione precedente, risulta evidente come un tale obbligo non sia particolarmente gravoso se riferito a decisioni della Commissione, poiché queste – per definizione –

74 La proposta della Commissione è inoltre analoga ad una misura prevista dal recente emendamento alla legge sulla concorrenza tedesca, sulla costituzionalità della quale – tuttavia - sono stati espressi in Germania seri dubbi, ed ampie critiche: Wurmnest (2005) ritiene in ogni caso probabile che “German courts will interpret the binding effect in such cases very narrowly”.

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riguardano comportamenti che hanno riguardato più paesi: se le società A, B e C sono state sanzionate per un’intesa nel mercato delle trappole per topi che ha interessato Germania, Francia e Spagna, è del tutto ragionevole che in un procedimento per danni in Spagna la decisione della Commissione costituisca prova irrefutabile del comportamento illecito.

Ma se il cartello delle trappole per topi sul mercato francese è stato sanzionato in Francia, perché chi voglia portare un’azione civile contro queste tre società in Italia deve poter far valere la presunzione irrefutabile che cartello vi sia stato anche qui? Autorevoli commentatori sottolineano come tale previsione apra seri interrogativi sotto il profilo giuridico75. In aggiunta a questi, dal punto di vista economico, non è assolutamente ragionevole prevedere una tale ‘irrefutabilità’ neppure per i cartelli, ove – com’è ben noto – vi sono condizioni oggettive che determinano la probabilità che vi sia un sufficiente incentivo razionale alla formazione di un cartello, e naturalmente le stesse aziende possono comportarsi in modi diversi in mercati diversi: perché presumere (irrefutabilmente) che ciò non sia avvenuto?

Inoltre, come abbiamo discusso, i provvedimenti delle ANC si concludono di norma, nei procedimenti ex art. 81, con la sanzione di una pratica concordata avente un oggetto anticompetitivo, il che, come abbiamo visto, in realtà nulla dice sotto il profilo dell’effetto.

Per quanto riguarda poi gli abusi escludenti, una tale previsione risulterebbe ancora più criticabile: dato che questa è l’area dell’antitrust ove – come abbiamo visto – l’analisi della eventuale natura distorsiva di un dato comportamento è più complessa, e maggiormente dipendente dagli specifici facts of the case, sembra davvero impossibile che una decisione sanzionante un abuso escludente in un dato paese, possa fornire di per sé prova irrefutabile di una strategia escludente che abbia interessato altre giurisdizioni. Ma anche all’interno di una medesima giurisdizione, per i motivi sopra discussi, un abuso escludente sanzionato da una NCA non comporta che esclusione vi sia stata per uno specifico concorrente: se interpretata estensivamente, la proposta della Coimmissione sembrerebbe invece consentire una tale (irrefutabile!) interpretazione. Insomma, la proposta della Commissione appare o inutile (in pratica, solo le decisioni della Commissione avranno il carattere di prova irrefutabile) o assai pericolosa (decisioni relative ad altri mercati, che praticamente mai sanciscono l’esistenza di un effetto, e sono comunque sempre altamente dipendenti dagli specifici facts of the case, godrebbero di uno status di prova irrefutabile, che certamente non meritano): appare poi probabile che

75 Cavallone (2008) rileva come questa proposta “è tale, agli occhi di un processualista, da suscitare problemi teorici enormi, dato che coinvolge sotto molti aspetti nientemeno che la teoria del giudicato, e dei suoi limiti oggettivi e soggettivi”.

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di essa venga data dagli attori, un’interpretazione secondo queste ultime linee, e dunque essa finisca per alimentare un contenzioso futile sotto il profilo pubblicistico, ma assai dannoso sotto quello delle aziende convenute.

Per quanto riguarda il passing-on, abbiamo già visto nel paragrafo 2.2 come la proposta dalla Commissione di ammetterlo – in linea di principio – comescudo (cioè come difesa) sembra ragionevolmente ristabilire l'onere della prova dove esso effettivamente dovrebbe essere: è il convenuto, quando invoca tale difesa, che deve provare che i suoi clienti hanno traslato a valle l'incremento nei prezzi da essi patito.

Appaiono però potenzialmente negative le conseguenze della seconda parte della proposta della Commissione. Essa stabilisce – quando il passing-on sia utilizzato come spada – che sussista una presunzione refutabile, in favore degli acquirenti indiretti, che la traslazione abbia effettivamente avuto luogo, e sia stata tale da traslare per intero a valle l'incremento nei prezzi praticato a monte.

Se una tale previsione è utile per evitare che il membro di un cartello eviti di pagare danno alcuno, essendo stato in grado di provare che i suoi acquirenti diretti hanno passato l'aumento nei prezzi verso valle, e confrontando una bassa probabilità di essere citato in giudizio dagli acquirenti indiretti, la sua combinazione con la prima parte della proposta della Commissione può generare difficoltà notevoli: quando la traslazione è usata sia come scudo che come spada, in assenza di regole procedurali che assicurino che i due casi vengano riuniti, anche se si trovano innanzi a corti aventi diversa giurisdizione (ad esempio territoriale), la probabilità di decisioni inconsistenti, a favore o in danno del convenuto, sembra piuttosto elevata.

Una tale previsione potrebbe poi avere effetti molto sensibili nei casi derivanti dall'articolo 82 (è infatti evidente che essa si applicherebbe anche a questi ultimi), interagendo con le altre misure proposte dalla Commissione riguardanti le azioni rappresentative e collettive, che sarebbero grandemente favorite dalla presenza di una tale presunzione: insomma ad ogni provvedimento ex art. 81, e a diversi provvedimenti ex art. 82, seguirebbero azioni collettive, e rappresentative, volte a recuperare a valle tutto l’overcharge che possa essere stato praticato a monte. Naturalmente, queste azioni si sommerebbero a quelle portate dagli acquirenti diretti, con probabile lesione del principio giuridico “ne bis in idem”, che non mancherebbe di avere effetti economici significativi, scoraggiando – ad esempio – comportamenti aggressivi, ma legittimi, da parte dell’impresa dominante.

Per quanto riguarda, infine, i danni punitivi, dopo aver rilevato nel Working Paper che la sentenza Manfredi "non ha considerato i danni punitivi come contrari all'ordine pubblico in Europa”, la Commissione argomenta che "il fatto che la Corte accetti l'esistenza di danni punitivi, che per definizione

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implicano un trasferimento di ricchezza all'attrice superiore al danno effettivamente sofferto, mostra come non esista alcun principio assoluto della normativa comunitaria che impedisca che le vittime di un'infrazione alla normativa e sulla concorrenza si trovino, dopo un'azione per danni coronata dal successo, in una situazione economica migliore di quella in cui essi sarebbero stati in assenza dell'infrazione. Può essere pertanto assunto che un arricchimento non avrebbe più natura ingiusta se risultasse direttamente dall'applicazione delle rilevanti regole sostanziali e procedurali, e che pertanto esso sarebbe "giustificato" dalla legge”76.

Più oltre, essa indica che “ a questo stadio [per la Commissione] non appare necessario suggerire una definizione di danno che vada oltre [al concetto di pieno ristoro del danno]”77. Tuttavia, “occorre anche considerare il fatto che il rapporto rischio/risultato nelle liti per danni antitrust è distorto a sfavore degli attori. La Commissione ritiene necessario intervenire su tale distorsione, assicurando che vi siano incentivi sufficienti affinché le vittime di illeciti concorrenziali portino azioni meritorie. Un modo di fare ciò sarebbe quello di assicurare all'attore, a priori, che in caso di vittoria nella lite gli sarebbero riconosciuti danni che sono più elevati della perdita effettivamente sofferta” Ciò non è per il momento necessario, ma “ se dovesse emergere che la situazione attuale europea nella quale vi è un ristoro molto limitato del danno causato da illeciti concorrenziali non muta strutturalmente nei prossimi anni, occorrerebbe considerare quali ulteriori incentivi siano necessari per assicurare che le vittime degli illeciti intraprendono effettivamente azioni civili. In questo contesto l'appropriatezza della corrente definizione di danno potrebbe dover essere riconsiderata”78.La lettura di questi passi, insieme a quella delle parti dedicate ai danni punitivi dello studio dei consulenti della Commissione sull’impatto delle misure proposte79, indica chiaramente come la Commissione ritenga opportuno muoversi, in futuro, in questa direzione, mediante un intervento normativo a livello comunitario. Prescindendo dai (presumo numerosi) problemi legali che misure di questo tipo genererebbero80, dal punto di vista economico è opportuno sottolineare in primo luogo che la presenza di danni multipli negli Stati Uniti non è particolarmente rilevante per adottare misure di questo genere in Europa.

76 Commissione Europea (2008b), par. 192.77 Par. 194. 78 Par. 196. 79 Renda et al. (2008). 80 Tra cui, nelle azioni follow-on, la loro compatibilità con il principio ne bis in idem, come rilevato dalla High Court inglese nella sentenza Devenish Nutrition (Devenish Nutrition Ltd. & Ors. v. Sanofi-Aventis SA (France) & Ors. [2007] EWHC 2394 (Ch.), 19 Ottobre 2007).

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Anche prescindendo dalle vivaci discussioni sul punto in quella giurisdizione, infatti, la maggior parte dei commentatori ritiene che tale previsione debba essere interpretata alla luce delle evidenti particolarità del sistema americano, nel quale, come abbiamo detto, il 96% dei procedimenti antitrust ha la natura di azioni private, e pertanto ove l'azione pubblica non esercita alcun effetto deterrente apprezzabile81, perché questo viene posto nei fatti in capo alle azioni private. Inoltre, in quell'ordinamento non vengono riconosciuti gli interessi maturati tra l'evento dannoso e l’inizio del giudizio, né le spese legali sono rimborsate alla parte vittoriosa: tutti fattori che contribuiscono a spiegare l’esistenza, in quell’ordinamento, di danni punitivi, ma che non sussistono nella larga maggioranza dei paesi dell’Unione.Se l'esistenza di una tale previsione negli Stati Uniti non fornisce una motivazione sufficiente, qualunque proposta di introduzione di danni punitivi in Europa dovrebbe essere basata su un'analisi concreta della situazione europea, che evidenzi l'insufficienza del potenziale deterrente dell'azione pubblica.

Ora, per quanto mi consta, le analisi disponibili per l'Europa, sotto il profilo qualitativo, sono relative soltanto ai cartelli82, ed inoltre – per evidenti problemi inerenti alla disponibilità dei dati – considerano un'evidenza empirica che non tiene conto degli effetti dei recenti provvedimenti relativi alla leniency, come noto peraltro considerevoli. Le conclusioni di questa letteratura, secondo la quale vi sarebbe certamente sotto-deterrenza per i cartelli in Europa, non possono pertanto considerarsi attuali, e dunque non forniscono supporto ad una scelta di policy così radicale.

Inoltre, ancora per quanto mi consta, non vi è alcuna analisi che abbia dimostrato come vi sia una sotto-deterrenza in Europa per quanto riguarda i comportamenti abusivi in generale, e gli abusi escludenti in particolare. Prevedere danni multipli per infrazioni dell'articolo 82 non ha quindi alcuna base cognitiva adeguata.

Altre osservazioni critiche possono essere avanzate con riferimento alle proposte della Commissione, particolarmente considerando non l'effetto singolo di ciascuna di esse, bensì l'effetto complessivo, che potrebbe risultare davvero massivo83.

Rimanendo nell’alveo delle questioni trattate in questo lavoro, possiamo tuttavia semplicemente concludere che i problemi di prova e di valutazione

81 I casi di pene detentive sono infatti rarissimi, anche se commisurati al 4% dei casi promossi dal Department of Justiceo dalla Federal Trade Commission. 82 Si vedano, ex multis, le recenti analisi di Combe e Monnier (2007) e Motta (2008), nonché – nel dibattito americano – Segal e Whinston (2006), Rosenberg e Sullivan (2006) e Lande e Davisi (2008). 83 Per una discussione si veda Prosperetti (2008).

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del danno antitrust sono in generale molto complessi, e che se è in generale necessario convenire con la Commissione circa l'opportunità di rimuovere i diversi ostacoli che si frappongono in Europa allo sviluppo di azioni civili per il ristoro del danno, l'evoluzione normativa deve assolutamente tener presente che le fattispecie rientranti negli articoli 81 e 82 sono molteplici, e profondamente diverse tra di loro: sotto il profilo ontologico; sotto quello dei danni sociali – potenziali o effettivi – che da esse possono derivare; sotto il profilo della loro effettiva capacità di causare danni privati a uno o più operatori economici.

La risposta di policy deve essere quindi differenziata, ed è auspicabile che in questa direzione si muova l'intervento della Commissione, a partire dal primo atto di (very) soft law che dovrebbe seguire al Libro Bianco, ovvero la pubblicazione di ”un quadro di indicazioni pratiche e non vincolanti per la quantificazione dei danni nei casi di violazione delle norme antitrust, ad esempio attraverso metodi approssimati di calcolo o regole semplificate per la stima delle perdite subite”84.

84 Par. 2.5.

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Alberto Santa Maria

L’azione collettiva risarcitoria conseguente a comportamenti anticoncorrenziali fra Libro bianco e legge italiana

1. Introduzione

Con la legge 24 dicembre 2007, n. 244 portante l’approvazione della legge finanziaria per il 2008 (art. 2, commi 445-449) è stata “precipitosamente” introdotta nel nostro sistema giuridico e collocata nei sei commi dell’art. 140-bis cod. cons. l’azione collettiva risarcitoria, ab initio salutata dalla carta stampata anche specialistica, con toni più critici che favorevoli, come “class action” italiana.

In realtà, l’azione collettiva “generale” introdotta dall’art. 140-bis cod. cons., più che una class action della quale costituisce soltanto una lontana imitazione, sembra piuttosto essere il frutto di quel disegno di generalizzazione ed estensione del modello processuale “europeo-continentale”, già oggi disciplinato dagli artt. 139 e ss. cod. cons. e, nella sostanza, importato in Italia nel settore della tutela dei consumatori per effetto degli obblighi di adattamento ed attuazione della legislazione comunitaria, in ossequio ai principi dell’attuale Titolo XIV (già XI) del Trattato CE, riguardante la protezione dei consumatori.

L’uso, vuoi a scopo semplificatorio vuoi per fini propagandistici, del termine “class action” per definire il contenuto della nuova riforma processuale italiana in esame finisce per ingenerare confusione e per alimentare, secondo i casi, aspettative o timori, le une e gli altri ingiustificati e privi di sostanza.

Non è un caso che gli autori del nuovo articolo 140-bis cod. cons. abbiano scelto di rubricare la norma “azione collettiva risarcitoria”, giusta una dizione senz’altro tecnicamente più appropriata, ben nota al nostro ordinamento1 e designante uno schema processuale già collaudato nel diritto interno italiano: quello, appunto, dell’azione collettiva o associativa di ascendenza tedesca (la Verbandsklage sulle condizioni generali di contratto del 1976, modello dell’attuale legislazione comunitaria in materia).

Molteplici sono i motivi, attinenti alle diversità in generale del sistema processuale civile statunitense rispetto al nostro, che concorrono nel non rendere

1 Cfr. la rubrica dell’art. 13 d. lgs. 22 maggio 1999, n. 185, di “attuazione della direttiva 97/7/CE relativa alla protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza”, oggi trasfuso nel Cod. cons.

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facilmente traducibile lo strumento processuale di una “vera” class action nel nostro ordinamento giuridico2.

Innanzitutto, un ruolo importante hanno le ben più ampie competenze attribuite al giudice statunitense nella conduzione del processo che, nello specifico di una class action, in forza dell’elevata preparazione di quel giudice in tema di analisi economica, gli consentono di gestire e anche orientare “secondo giustizia”, in piena autonomia, l’intera fase preliminare del procedimento sino al momento cruciale della “certificazione” della “categoria” o “classe”.

Inoltre, l’istituto della “discovery”, nel sistema americano, impone a ciascuna delle parti di produrre, nella fase iniziale – determinata dal giudice nei tempi, nei contenuti e sotto il suo continuo controllo che si estrinseca anche in tempestive ordinanze, ove richiesto da una delle parti – tutti i documenti in loro possesso attinenti alla causa (e non solo quelli che ciascuna parte ritenga opportuno produrre nel proprio interesse), con un sistema, quindi, di per sé idoneo a consentire una piena conoscenza dei documenti rilevanti alla parte sulla quale grava l’onere della prova (con sensibile beneficio nei riguardi della posizione degli attori in una class action).

Nel processo civile statunitense, poi, per restare agli aspetti che mi sembrano più significativi, vi sono ancora: l’interrogatorio dei testimoni, gestito da ciascuna delle parti a trecentosessanta gradi, in via diretta e in sede di controinterrogatorio; la possibilità che, con la sentenza di condanna che conclude il procedimento, vengano erogati i c.d. “punitive damages” nei confronti della parte responsabile dell’illecito, se riconosciuta colpevole di aver agito con dolo o colpa grave; il fatto che l’azione civile per danni sia decisa da una giuria popolare; il regime delle impugnazioni per cui, ove espressamente ammesso a seguito di un esame preliminare di “possibile” fondatezza condotto dal giudice, l’appello é di regola limitato ad un solo ulteriore grado di giudizio, con conseguente sensibile compressione dei tempi dell’intero processo rispetto alla concreta durata media di una causa italiana (due/tre contro 10 anni e più)3.

2 Sulle ingenti difficoltà di tradurre in termini giuridici nostrani l’istituto della class action statunitense a causa delle notevoli differenze “sistemologiche” inerenti ai due ordinamenti giuridici, si veda l’ampia e approfondita analisi di C. CONSOLO, “Class actions fuori dagli USA? (Un’indagine preliminare sul versante della tutela dei crediti di massa: funzione sostanziale e struttura processuale minima)”, Riv. dir. civ., 1993, I; 609 e ss., passim. Sullo stesso tema e dal medesimo Autore (insieme a R. B. CAPPALLI) si veda già, in lingua inglese, “Class Action for Continental Europe: A Preliminary Inquiry”, in 6 Temple Int’l and Comp. L.J., 217 (1993). 3 A. SANTA MARIA, Proposta senza appigli comunitari, articolo su Il Sole 24 Ore del 24 dicembre 2007, pag. 32. In tale articolo, nel mettere in evidenza tali profonde differenze strutturali, ricordavo anche che la Commissaria per la protezione del consumatore, Meglena Kuneva, in un suo intervento alla Conference on Collective redress, dal titolo “Healthy markets need effective redress” tenuto a Lisbona il 10 novembre 2007, si è dichiarata contraria all’introduzione in Europa di una qualsiasi forma di class action e, comunque, un’eventuale azione collettiva comunitaria

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Nello specifico, lo strumento dell’azione collettiva italiana, oltre che “spuntata” per le ragioni di ordine generale sopra richiamate, si presenta come fortemente riduttivo rispetto ad una vera azione di categoria sia dal punto di vista dei soggetti coinvolti, attori e convenuto: esclusivamente identificati, i primi, in associazioni di categoria o comitati4 in rappresentanza dei “consumatori” e degli “utilizzatori”, da una norma volutamente collocata nel codice del consumo e, il secondo, in un’“impresa” o in una “serie di imprese”, sia anche ratione materiae, in considerazione dei limitati contenuti per i quali viene consentita questa nuova forma di tutela processuale.

Ciò non di meno, l’azione collettiva risarcitoria ha in comune con la “class action” statunitense5 la ratio ad esse sottesa, volta alla migliore tutela, perseguita con l’una e con l’altra, di interessi collettivi.

dovrebbe non avere il carattere punitivo della class action statunitense e in particolare, andrebbero opportunamente scoraggiate le azioni legali temerarie. 4 E’ noto che questo doppio passaggio è del tutto inesistente in relazione alla class action che viene proposta da avvocati, nell’interesse dei loro clienti, attuali e potenziali, portatori di un interesse collettivo o di classe. A tale riguardo sono espressamente previste forti cautele demandate al giudice fra le quali, in primis, stanno la verifica e la valutazione, rimesse alla piena discrezionalità del giudice, in merito all’idoneità dell’avvocato di rappresentare adeguatamente la difesa degli interessi collettivi in considerazione. 5 Negli anni più recenti, due sono state le grandi riforme che, a livello federale, hanno investito o condizionato la class action rule per arginarne – almeno in votis - le vere o presunte “degenerazioni”. Si tratta, per la precisione, delle numerose modifiche ed aggiunte apportate il 1° dicembre 2003 alla stessa Rule 23 Fed. R. Civ. Proc. (la disposizione processuale federale a carattere generale che definisce i presupposti e disciplina gli aspetti peculiari dei procedimenti in forma di class action intentati davanti ai giudici federali) e del successivo Class Action Fairness Act del 2005, con il quale il Congresso degli Stati Uniti ha approvato, dopo un’elaborazione e una discussione parlamentare più che decennali, una riforma dei criteri giurisdizionali interni attributivi delle cause in forma di class action, rispettivamente, ai giudici statali ovvero a quelli federali. Gli Amendments del 2003 hanno investito, in particolare, (a) la fase preliminare della c.d. class certification (lo stato del procedimento in cui la corte federale adita valuta se l’azione proposta in forma di class action possa legittimamente e convenientemente procedere in tale forma), regolando in dettaglio la selezione dell’avvocato difensore della classe, (b) la disciplina della definizione non contenziosa della lite (conciliazione, rinunzia agli atti, ecc.), precisandone le forme e le garanzie a favore dei membri assenti della classe e (c) il regime della liquidazione degli onorari e delle spese, rafforzando i poteri di vigilanza e di sindacato del giudice. Il Class Action Fairness Act del 2005 (CAFA) è intervenuto, invece, sulle norme legislative federali in materia di giurisdizione, estranee al corpo delle Federal Rules of Civil Procedure, e ha esteso la giurisdizione dei giudici federali attribuendo a questi ultimi giurisdizione su tutte le class action di valore aggregato superiore ai 5 milioni di dollari e in cui almeno un membro della classe o uno degli avversari della classe siano fra loro cittadini di Stati diversi degli Stati Uniti ovvero fra i membri della classe o fra i suoi avversari vi siano cittadini di Paesi stranieri o Stati esteri. Esso ha conferito espressamente ai giudici federali il potere di declinare la propria giurisdizione a favore di quella dei giudici statali in presenza di fattori soggettivi ed oggettivi di intenso collegamento della lite con uno specifico foro statale, ovvero, in casi di legame ancora più stretto, ha reso tale devoluzione obbligatoria. La legge ha anche introdotto alcune disposizioni volte a tutelare i

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2. Sintesi della nuova disciplina italiana

In una succinta visione, l’art. 140 bis cod. cons., nel suo testo finale6, prevede:

- l’azione giurisdizionale posta a “tutela degli interessi collettivi dei consumatori” e diretta all’“accertamento del diritto al risarcimento dei danni e alla restituzione delle somme spettanti ai singoli consumatori o utenti”, proponibile nei confronti di una “impresa”, nella cornice di “rapporti giuridici relativi a contratti stipulati ai sensi dell’art. 1342 del codice civile, ovvero in conseguenza di atti illeciti extracontrattuali, di pratiche commerciali scorrette o di comportamenti anticoncorrenziali”, sempre che si sia in presenza di una lesione dei “diritti di una pluralità di consumatori e di utenti” (art. 140-bis, comma 1°);

- la competenza per materia del tribunale, che giudicherà in composizione collegiale art. 2, comma comma 448 l. fin. cit., che modifica in tal senso l’art. 50-bis c.p.c., aggiungendovi un n° 7-bis);

- la competenza territoriale del “foro dell’impresa” convenuta, dovendo la domanda proporsi, per l’appunto, “al tribunale del luogo in cui ha sede l’impresa” (art. 140-bis, comma 1°);

- la legittimazione a promuovere tale azione in giudizio delle associazioni consumeristiche iscritte nell’elenco ministeriale di cui all’art. 139 cod. cons., nonché degli “altri soggetti di cui al comma 2”, che si identificano in ogni altra associazione o comitato, purché “adeguatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere” (ibid., commi 1° e 2°);

“consumatori” nei casi di conciliazioni collettive comportanti prestazioni risarcitorie “in natura” (c.d. coupon settlements), onde sottoporre a limitazioni e supervisione giudiziale gli onorari difensivi, evitare discriminazioni fra membri di differente provenienza geografica, favorire l’attuazione di provvedimenti amministrativi generali o legislativi per risolvere i problemi di carattere collettivo all’origine della controversia. 6 Cfr. il testo proposto dal Governo, sottoscritto dal ministro Bersani, risalente al luglio 2006 (AC 1495), che ha funto da canovaccio, attraverso l’emendamento Bordon-Manzione approvato in Senato il 15 novembre 2007, delle disposizioni che qui si commentano. Vedi, inoltre, “Disposizioni per l'introduzione della class action” (Benvenuto, AS 679); “Modifiche all'art. 140 del codice del consumo” (Maran, AC 1289); “Nuove norme in materia di azione collettiva” (Fabris AC 1330); “Disciplina dell'azione giudiziaria collettiva” (Poretti e Capezzone AC 1443); “Introduzione dell'art. 141-bis del codice di cui al decreto legislativo 6 sett. 2005” (Buemi, Turci, Fluvi, Tolotti e altri, AC 1662) a ripresa di una proposta di legge licenziata dalla Camera nel luglio 2004; “Introduzione del sistema processuale dell'azione collettiva risarcitoria” (Pedica, Grillini, Crapolicchio, AC 1834, AC 1882, AC 1883).

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- la facoltà dei singoli consumatori e utenti, desiderosi di approfittare della tutela collettiva promossa dalle associazioni esponenziali o dagli “altri soggetti” di cui sopra, di comunicare in iscritto al soggetto proponente l’azione “la propria adesione all’azione collettiva”, che può essere spiegata lungo tutti i due gradi del giudizio di merito, “fino all’udienza di precisazione delle conclusioni” in grado d’appello (comma 2°, seconda frase);

- la virtù dell’atto introduttivo dell’azione collettiva, come pure dei singoli atti di adesione spiegati dai consumatori e dagli utenti individuali nel modo appena descritto, di interrompere il corso della prescrizione “ai sensi dell’art. 2945 del codice civile” (comma 2°, terza frase);

- la previsione di una cognizione sommaria e preliminare del “tribunale” (non è specificato se già in composizione collegiale o nella sola persona del giudice istruttore) in sede di prima udienza, volta ad una pronuncia di ammissibilità della domanda di tutela collettiva secondo i criteri, non meglio chiariti, della manifesta infondatezza, del conflitto d’interessi e della ravvisata inesistenza “di un interesse collettivo suscettibile di adeguata tutela ai sensi del presente articolo” (comma 3°, prima frase);

- la reclamabilità davanti alla Corte d’Appello, in forma camerale, dell’ordinanza con cui il tribunale si sia pronunciato sull’ammissibilità dell’azione (ibid., seconda frase);

- la facoltà del giudice di “differire la pronuncia” stessa “quando sul medesimo oggetto è in corso un’istruttoria davanti ad un’autorità indipendente”(ibid., terza frase);

- l’onere, a cura del soggetto che ha proposto l’azione collettiva, di dare “idonea pubblicità” ai relativi contenuti, in caso di ammissione dell’azione collettiva a procedere nel merito (ibid., quarta frase);

- la disciplina del contenuto della sentenza collettiva di accoglimento della domanda, la quale, accertando l’illiceità delle condotte contestate all’impresa convenuta, deve “determina[re] i criteri in base ai quali liquidare la somma da corrispondere o da restituire ai singoli consumatori o utenti che hanno aderito all’azione collettiva”, giungendo, ove possibile secondo le risultanze degli atti del giudizio, a precisare il minimum che ogni singolo danneggiato ha diritto di ricevere dall’impresa responsabile dell’illecito (comma 4°, prima e seconda frase);

- la facoltà, per l’impresa giudicata responsabile dell’illecito collettivo, di proporre a ciascun avente diritto, con atto scritto comunicato agli interessati e depositato in cancelleria entro 60 giorni dalla

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“notificazione della sentenza”, il pagamento di una somma, la cui accettazione “in qualsiasi forma” data dal consumatore o utente “costituisce titolo esecutivo” (comma 4°, terza frase);

- l’espressa previsione per cui la sentenza resa nell’azione collettiva “fa stato” non soltanto fra l’associazione o il comitato proponente e l’impresa convenuta, ma “anche nei confronti dei consumatori e utenti che hanno aderito” ad essa nelle forme già illustrate, facendo salva l’azione individuale dei consumatori o utenti rimasti comunque estranei al giudizio collettivo, per non avervi aderito ab initio o per non esservi successivamente intervenuti (comma 5°);

- in caso di mancata tempestiva emissione della spontanea proposta dell’impresa responsabile o di sua mancata accettazione da parte dei destinatari entro 60 giorni dalla comunicazione, l’istituzione, a cura del Tribunale autore della sentenza di un’apposita “unica” camera di conciliazione, istituita per “la determinazione delle somme da corrispondere o da restituire ai consumatori o utenti che hanno aderito”, e composta, paritariamente, da avvocati indicati dalle parti in causa e presieduta da un avvocato cassazionista nominato dal Presidente del tribunale (comma 6°);

- la “quantificazione” da parte della camera di conciliazione, in un verbale sottoscritto dal presidente avente valore di titolo esecutivo, degli estremi del risarcimento di spettanza dei singoli danneggiati, già aderenti o intervenuti al giudizio di cognizione,“che ne fanno domanda” (comma 6°, seconda e terza frase);

- l’esperimento, in alternativa, su concorde richiesta del proponente l’azione collettiva e dell’impresa convenuta e per provvedimento del Presidente del tribunale, di una procedura di “composizione non contenziosa … presso uno degli organismi di conciliazione” previsti nel d. lgs. relativo al c.d. “rito societario” (artt. 38, 39 e 40 d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5), con sede nel comune in cui siede il tribunale adito (comma 6°, quarta e quinta frase).

3. La legittimazione ad agire

Al punto 2.1, del Libro Bianco, nel contesto della legittimazione ad agire, la Commissione accoglie con favore la giurisprudenza della Corte di giustizia che riconosce, a “chiunque” abbia subito un danno causato da una violazione di norme antitrust, il diritto a chiedere il risarcimento dinanzi ai tribunali nazionali7. 7 V. le sentenze della Corte del 20 settembre 2001, causa C-453/99, Courage, in Raccolta 2001, I-6297, punti 26 ss. e del 13 luglio 2006, cause riunite da C-295/04 a C-298/04, Manfredi, in Raccolta 2006, 6619, punti 61 e 63.

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Questo principio si applica anche agli acquirenti indiretti di un determinato prodotto, che non hanno avuto alcun rapporto commerciale diretto con l’autore dell’infrazione, ma che, tuttavia, hanno subito un danno derivante dal fatto che su di loro è stato trasferito, lungo la catena di distribuzione, un sovrapprezzo illegale conseguente, ad esempio, ad un cartello sui prezzi di un dato prodotto o anche di taluni ingredienti necessari a fabbricarlo.

Per quanto riguarda le azioni collettive, la Commissione ritiene che vi sia la chiara necessità di meccanismi che consentano l’aggregazione delle singole istanze da parte delle vittime delle violazioni delle norme antitrust.

A questo proposito, la Commissione suggerisce di combinare due meccanismi complementari di azione collettiva:

• le azioni rappresentative, intentate da soggetti qualificati, quali associazioni dei consumatori, organismi statali o associazioni commerciali, già designati ufficialmente in anticipo, o anche abilitati ad hoc, da uno Stato membro, in relazione a una particolare violazione delle norme antitrust, per intentare un’azione in nome e per conto di alcune o di tutte le “vittime” identificate o, in casi limitati, identificabili; e

• le azioni collettive con modalità “opt-in”, nelle quali le vittime stesse decidono espressamente di aggregare in una sola azione le proprie richieste individuali di risarcimento del danno subito.

Secondo la Commissione, poiché i soggetti qualificati non sempre potrebbero o vorrebbero portare avanti ogni singola pretesa risarcitoria è necessaria la coesistenza di ambedue i tipi di azione in modo di garantire un sistema di azione collettivo efficace per le vittime delle violazioni di norme antitrust.

Inoltre, la Commissione reputa importante che le vittime non siano private del diritto di intentare un’azione individuale per danni se lo desiderano, con la sola riserva di evitare che lo stesso danno venga risarcito più di una volta.

Per quanto riguarda il diritto italiano, in base al nuovo art. 140-bis, l’“azione collettiva risarcitoria”, può essere esperita, fra l’altro, “in conseguenza di pratiche commerciali scorrette e di comportamenti anticoncorrenziali”, sempre che da tali condotte sia derivata una lesione ai “diritti di una pluralità di consumatori o di utenti”.

La novità legislativa italiana, dunque, contempla espressamente una forma di tutela definita “risarcitoria” (vedremo più avanti con quanto costrutto) anche in relazione a casi che rientrano nell’ambito di interesse del Libro Bianco, vale a dire con riguardo ad ipotesi di violazione di norme antitrust.

Alla vigilia dell’entrata in vigore della nuova norma - prorogata dall’ormai prossimo fine giugno al 31 dicembre 2008 e sempre che entri in vigore il testo

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attuale - mi limiterò di seguito ad analizzarne la compatibilità o meno con i modelli proposti nel Libro Bianco, iniziando dalla legittimazione ad agire.

Da un lato, l’art. 140-bis, primo comma, riconosce il diritto di agire “a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti” alle associazioni già contemplate dall’art. 139 cod. cons. e, quindi, ai c.d. enti esponenziali “qualificati” da comprovati indici di rappresentatività e, come tali inseriti in un apposito elenco istituito presso il Ministero delle attività produttive. Siamo in presenza di un criterio di legittimazione “tradizionale”, del tutto in linea con quello che il Libro Bianco propone, invero, con espressione poco felice e foriera di equivoci, come “azioni rappresentative” (e, in particolare, nella prima ipotesi di questa categoria).

Dall’altro lato, la novella legittima ad agire anche “altri soggetti”, vale a dire “associazioni e comitati che sono adeguatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere”, la cui idoneità non è oggetto di valutazione ex ante ed in via generale al momento dell’inserzione nell’elenco ministeriale, qui evidentemente mancante, ma soltanto ex post ed in concreto da parte del giudice, adito in via collettiva, nell’udienza-“filtro” prevista dall’art. 140-bis, co. 3 cod. cons.

A ben vedere, per altro, anche questo secondo criterio può essere fatto agevolmente rientrare nella categoria delle “azioni rappresentative” così come inquadrata dal Libro Bianco nel punto in cui indica come possibili soggetti legittimati quelli “abilitati ad hoc da uno Stato membro, in relazione ad una particolare violazione delle norme antitrust, per intentare un’azione a nome di alcuni o di tutti i propri membri”.

Se si considera, inoltre, che il nuovo art. 140-bis, comma 5°, cod. cons. attribuisce in modo esplicito alle sentenze pronunciate in un’“azione collettiva risarcitoria” l’effetto di “fa[re] stato anche nei confronti dei consumatori e utenti che hanno aderito all’azione collettiva”, facendo salva l’azione individuale di coloro che, invece, non vi abbiano aderito, si può considerare la portata delle sentenze collettive c.d. “risarcitorie” come limitata ex lege ai soli aderenti all’azione, con più di un’analogia con il secondo criterio di legittimazione proposto dal Libro Bianco ed espresso con la denominazione di “azioni collettive con modalità opt-in, nelle quali le vittime decidono espressamente di aggregare in una sola azione le proprie richieste individuali di risarcimento del danno subito”.

4. Il Libro Bianco e la legge italiana non introducono una class action “all’americana”

Dopo quanto ho osservato in tema di legittimazione sulla sostanziale aderenza dell’“azione collettiva risarcitoria” agli schemi proposti dalla Commissione CE nel Libro Bianco, risulta evidente che né questo, né quella,

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rispettivamente, prospettano nel sistema comunitario e introducono in quello italiano un’azione assimilabile alla vera e propria class action di matrice statunitense.

Lo schema suggerito dal Libro Bianco, infatti, si incardina o sul modello “tradizionale” delle c.d. “azioni rappresentative” (che meglio andrebbero definite “azioni associative” o “azione collettive” stricto sensu), nelle quali ad agire sono enti collettivi privati non lucrativi o, addirittura, istituzioni pubbliche, o sul diverso modello delle “azioni collettive con modalità opt in”, che più da vicino assomiglia ad una forma di class action, per altro, abbandonata negli Stati Uniti da oltre quarant’anni.

L’“azione collettiva risarcitoria” introdotta dal legislatore italiano, dunque, si configura in parte come un’azione collettiva nel senso ipotizzato dal Libro Bianco (col meccanismo, cioè, dell’adesione) e rientra pressoché interamente negli schemi continentali dell’azione promossa da enti esponenziali, legittimati ex ante o ex post.

In via generale, in base alla Rule 23 (b)(3) delle Federal Rules of Civil Procedure, una class action include automaticamente tutti i membri della classe, adeguatamente rappresentati ed informati, salvo quelli che decidano, volontariamente e tempestivamente, di uscirne (c.d. diritto individuale di opt-out).

Addirittura, in due ipotesi specifiche di class action (disciplinate dalla Rule 23 (b)(1) e (b)(2) Fed. R. Civ. Proc.) la classe definita in sede di class certification è mandatory, non senso che esclude la possibilità stessa di “recessi” individuali.

Nel diritto processuale federale, dunque (che, sia chiaro, costituisce la disciplina di riferimento cui è improntata la grande maggioranza delle leggi statali sul tema, negli Stati Uniti) se l’opt-out è la regola, l’eccezione non è affatto costituita dall’opt-in (sistema abbandonato dal lontano 1966), bensì dall’azione di classe “chiusa” e senza possibilità di uscita.

Soltanto il diritto della Danimarca, del Portogallo e dell’Olanda, fra gli Stati membri dell’UE, conosce un’azione rivolta a regolare i diritti di tutta la classe salvo volontarie “defezioni” (sistema opt-out), sia pure con ambito di applicazione soggettivo e ratione materiae molto lontano l’uno dall’altro: basti considerare che l’azione collettiva portoghese, ispirata all’analogo istituto brasiliano, può essere promossa soltanto dal pubblico ministero.

Il Libro Bianco in materia di azioni di risarcimento del danno in materia antitrust si presenta come “parte di un’iniziativa più ampia della Commissione per rafforzare i meccanismi di azione collettiva nell’UE”8.

8 V. il punto 2.1. del Libro Bianco nonché i punti 62-64 del Commission Staff Working Paper.

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In realtà, in generale, la c.d. DG SANCO (Health and Consumers) della Commissione si è dichiarata espressamente contraria all’introduzione in Europa di una qualsiasi forma di class action che ricalchi il modello dell’istituto statunitense9. Secondo la Commissaria Kuneva, un’eventuale azione collettiva comunitaria non dovrebbe avere il carattere punitivo della class action statunitense e ne andrebbe opportunamente limitata l’utilizzazione in modo di scoraggiare le azioni legali temerarie.

La stessa Commissione, per altro, sta vagliando l’ipotesi di introdurre in sede comunitaria entro la fine del 2008 un meccanismo di collective redress (concetto, questo, vago e non meglio precisato10) a favore dei consumatori per i casi di violazione delle regole poste a protezione di questi ultimi nonché di violazione delle norme sulla concorrenza11.

Soltanto per completezza ricordo che, a livello comunitario, esistono già specifici strumenti legislativi volti a favorire la tutela collettiva dei consumatori12. Mi riferisco, in primo luogo, alla Direttiva 98/27/CE del 19 maggio 1998, avente ad oggetto il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri con l’istituzione di provvedimenti inibitori uniformi a tutela degli interessi collettivi dei consumatori contemplati da una serie di specifiche direttive13 e, inoltre, il Regolamento (CE) 861/2007 dell’11 luglio 2007 che ha istituito un procedimento europeo per le controversie di modesta entità14.

9 Si rinvia al discorso “Healthy markets need effective redress” della Commissaria Meglena Kuneva reso a Lisbona il 10 novembre 2007 alla Conference on Collective redress. 10 La Commissaria Kuneva, nel citato discorso del 10 novembre 2007, ha indicato i dieci benchmarks che dovrebbero informare il c.d. collective redress. 11 V. la Comunicazione della Commissione del 13 marzo 2007 (EU Consumer Policy Strategy 2007-2013), cfr. in particolare p. 11. Cfr., altresì, il citato discorso della Commissaria Kuneva del 10 novembre 2007 nonché quello reso al convegno di Lovanio sul collective redress del 29 giugno 2007. 12 Con il Libro Verde dell’8 febbraio 2007, Revisione dell’acquis relativo ai consumatori, la Commissione si è prefissa di rivedere otto direttive volte a tutelare i consumatori (85/577/CEE, 90/314/CEE, 93/13/CEE, 94/47/CE, 97/7/CE, 98/6/CE, 98/27/CE e 99/44/CE) al fine di realizzare il c.d. “mercato interno dei consumatori”. Alla fine del riesame – sostiene la Commissione – dovrebbe essere in teoria possibile dire ai consumatori dell’UE “Ovunque vi troviate nell’UE o ovunque facciate acquisti a partire dall’UE non fa nessuna differenza: i vostri diritti essenziali sono gli stessi”. 13 In GUCE L 166 dell’11 giugno 1998, p. 51, più volte modificata. L’Allegato I della Direttiva 98/27/CE rinvia alle seguenti direttive in materia di tutela dei consumatori: 85/577/CEE, 87/102/CEE, 89/552/CEE, 90/314/CEE, 92/28/CEE, 93/13/CEE, 94/47/CE, 97/7/CE, 99/44/CE, 2000/31/CE, 2002/65/CE, 2005/29/CE e 2006/123/CE. 14 In GU L199 del 31 luglio 2007, p. 1.

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5. Il ruolo dei consumatori

Nella nuova disciplina italiana dell’“azione collettiva risarcitoria” la protezione degli interessi di collettivi, considerata dall’art. 140-bis, è esclusivamente quella di “una pluralità di consumatori ed utenti”, nel caso qui in considerazione, quando siano in gioco condotte rappresentate da “pratiche commerciali scorrette o […] comportamenti anticoncorrenziali” che ne abbiano determinato “una lesione dei diritti”: il primo comma dell’articolo 140-bis al riguardo è chiarissimo nel richiedere che siano stati “lesi i diritti di una pluralità di consumatori o di utenti”.

La tutela “risarcitoria” apprestata dall’art. 140-bis cod. cons., quali che siano effettivamente la sua portata ed il suo contenuto, è una tutela volta al “risarcimento del danno e alla restituzione delle somme spettanti ai singoli consumatori ed utenti”, i quali, normalmente, sono colpiti soltanto in via indiretta e riflessa dalle attività anticompetitive delle imprese. In questo senso, la disciplina da poco approvata dal Parlamento italiano si presenta come più restrittiva di quella proposta a livello comunitario.

Con riguardo al Libro Bianco, infatti, la Commissione afferma di voler tutelare gli acquirenti indiretti e, tra di essi, in particolare “i singoli consumatori, ma anche le piccole imprese”, vale a dire tutti quei soggetti che hanno subito un “danno diffuso e di valore relativamente basso”, i quali “sono spesso scoraggiati dall’intentare un’azione individuale per danni a causa dei costi, ritardi, incertezze, rischi ed oneri che ne possono derivare”.

L’obiettivo primario del Libro bianco è quello di migliorare i termini giuridici in base ai quali tutte le “vittime” di una violazione antitrust possono esercitare il diritto, loro garantito dal Trattato, al risarcimento di tutti i danni subiti in conseguenza della violazione delle norme comunitarie antitrust. Ne consegue che l’ambito di tutela del Libro Bianco è molto ampia: si estende, in linea di principio, a “tutte le categorie di vittime, tutti i tipi di infrazione degli articoli 81 e 82 e tutti i settori dell’economia”15.

Tale impostazione, del resto, riflette l’orientamento della Corte di giustizia che, nella nota sentenza Courage16, afferma:

“la piena efficacia dell’art. 81 e, in particolare, l’effetto utile del divieto sancito al n. 1 di detto articolo, sarebbero messi in discussione se chiunque non potesse chiedere il risarcimento del danno causatogli da un contratto o da un comportamento che possono falsare il gioco della concorrenza”.

15 V. par. 1.2. del Libro Bianco. 16 V. sentenza Courage, cit., punto 26.

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Nell’altrettanto nota sentenza Manfredi17, la Corte di giustizia, riprendendo le argomentazioni della sentenza Courage, afferma:

“chiunque ha il diritto di chiedere il risarcimento del danno subìto quando esiste un nesso di causalità tra tale danno e un’intesa o pratica vietata dall’art. 81 CE”.

E’ agevole notare che, nel sistema comunitario, i consumatori e, più in generale, qualunque soggetto, sono legittimati ad agire per il risarcimento se provano di aver subito danno da una violazione antitrust.

Nel diritto statunitense il tema è trattato in termini profondamente diversi. In ragione della funzione sanzionatoria e punitiva che la lesione antitrust assume di base in quel sistema giuridico, i beneficiari del danno antitrust, di per sé sempre “punitive damage”, sono individuati in termini restrittivi.

Nulla questio con riguardo alla legittimazione ad agire del consumatore che entri direttamente in rapporto con l’autore dell’illecito e subisca direttamente il danno18. La legittimazione ad agire è stata invece negata ai consumatori finali nel caso in cui vi sia un intermediario che per primo abbia subito il danno, essendo quest’ultimo l’unico soggetto legittimato, anche nell’ipotesi in cui egli abbia riversato tale danno sui consumatori finali.

A partire dalla sentenza Hanover Shoe (392 U. S. 481) del 1968, infatti, la Corte Suprema ha ritenuto che la successiva condotta della vittima dell’illecito concorrenziale debba essere considerata irrilevante e che, comunque, non si possa dare la dimostrazione che l’intermediario non avrebbe praticato, in ogni caso, un aumento dei prezzi. Si è parlato, a questo proposito, del superamento della c.d. passing-on theory19.

Successivamente, nel caso Illinois Brick, la Corte Suprema ha confermato il proprio orientamento restrittivo, rilevando come la complessità di liti nelle quali le Corti sarebbero state chiamate, da un lato, ad evitare duplicazioni dei risarcimenti, dall’altro, a ripartire correttamente tra i vari danneggiati l’esatto

17 V. sentenza Manfredi, cit., punti 61 e 63. 18 V. il caso Chattanooga Foundry and Pipe Works v. Atlanta, 203 US 390, 1906. 19 Al contrario, nell’ordinamento italiano, la tesi difensiva della c.d. passing-on theory è stata accolta dalla Corte d’Appello di Torino nella sentenza del 6 luglio 2000, VHF Ventana Incentive House c. Juventus F.C. La Corte d’Appello, in quel caso, ha ritenuto che una società acquirente di pacchetti turistici per partite di calcio in trasferta difettasse di legittimazione ad agire in quanto essa aveva traslato il danno sui consumatori finali. In particolare, la Corte ha affermato: “nel nostro ordinamento l’azione risarcitoria ha natura compensativa, priva essendo della funzione sanzionatoria o deterrente propria di altri ordinamenti, onde legittimato attivo ad essa è il soggetto che abbia concretamente subito un danno. Di contro, è privo di legittimazione attiva sostanziale il soggetto che abbia concorso a traslare il danno a terzi, e così ai consumatori finali”.

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risarcimento, avrebbe di fatto notevolmente penalizzato l’efficacia deterrente dell’azione risarcitoria20.

Anche la Corte di Cassazione italiana, , con riguardo alla tematica della legittimazione attiva dei consumatori, in un primo momento, aveva assunto un approccio restrittivo, sia pure sulla base di argomentazioni diverse da quelle della Corte Suprema statunitense nel caso Illinois Brick.

Nella sentenza del 9 dicembre 2002 21, con una pronuncia molto criticata e apparentemente in contrasto con le indicazioni provenienti dalle Corti comunitarie, i giudici della Suprema Corte italiana avevano escluso che fossero legittimati a chiedere il risarcimento dei danni quei consumatori che avevano stipulato contratti a valle di intese restrittive della concorrenza.

Si trattava, più precisamente, di persone fisiche che avevano concluso contratti di assicurazione con imprese partecipanti ad un cartello e che lamentavano di aver dovuto corrispondere premi eccessivi proprio in ragione dell’intesa restrittiva della concorrenza. Ma la Corte, in realtà, era stata chiamata a pronunciarsi sul diverso tema, relativo alla competenza a conoscere di dette azioni risarcitorie: doveva infatti decidere se fosse competente la Corte di appello, ai sensi dell’art. 33 della l. 287/90 o i Giudici di Pace, in conformità con gli ordinari criteri.

Secondo la Suprema Corte, la legge antitrust si pone “nella prospettiva dell’impresa e della concorrenza” e “gli strumenti sanzionatori dell’art. 33 non possono non corrispondere a tale prospettiva”. Tali azioni “risultano concepite solo in funzione delle imprese”. Conseguentemente, anche lo strumento risarcitorio “non può non lasciare presupporre esso stesso una tipologia di danni strettamente connessa alle tematiche dell’impresa e della sua presenza nel mercato”. Con questa decisione, dunque, si escludeva dal novero dei soggetti legittimati ad agire ex art. 33 i consumatori finali. A parere della Corte i consumatori non sarebbero però rimasti sprovvisti di ogni tutela giurisdizionale: essi, infatti, avrebbero potuto agire per il risarcimento con un’ordinaria azione ex art. 2043 cod. civ., dimostrando la lesione di uno specifico diritto soggettivo.

20 V. Illinois Brick Co. v. Illinois, 431 U.S. 720, del 1977. La Corte, in tale pronuncia, ha individuato, in via eccezionale, due situazioni tipiche nelle quali il compratore indiretto è in grado di dimostrare con certezza la traslazione del danno: a) l’ipotesi di un contratto di fornitura, prima dell’illecito concorrenziale, fra il compratore diretto ed il compratore indiretto in base al quale il prezzo di rivendita dal primo al secondo viene effettuata con il metodo cost-plus; b) l’ipotesi in cui il compratore diretto è un soggetto riconducibile al gruppo di appartenenza del suo cliente. 21 Cass. civ., del 9 dicembre 2002, n. 17475, in Danno e resp., 4/2003, p. 390.

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A conclusioni opposte rispetto alla pronuncia n. 17475 del 2002 giunge la Suprema Corte, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 2207 del 4 febbraio 200522. Quel che qui rileva è evidentemente la motivazione della sentenza:

“la legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia interesse alla conservazione del suo carattere competitivo” e, fra i titolari di interessi giuridicamente rilevanti, sono anche i consumatori finali23.

Di qui la conclusione per cui l’illecito antitrust integra, almeno potenzialmente, il danno ingiusto ex art. 2043 cod. civ.; pertanto “colui che subisce danno per una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione a monte, ancorché non sia partecipe di un rapporto di concorrenza con gli autori della collusione, ha a propria disposizione l’art. 33 della legge n. 287/1990”. In altre parole, la domanda del consumatore, se ed in quanto assuma come fatto lesivo del proprio interesse un cartello fra imprese, rientra astrattamente tra le azioni contemplate dall’art. 33, l. 287/90. Di conseguenza, la competenza a decidere su azioni promosse dai consumatori – e qui risiedeva il vero thema decidendum anche nella seconda sentenza della Corte – spetta alla Corte di Appello, e non ai giudici individuati secondo le vie ordinarie.

22 Cass. civ., sez. un., 4 febbraio 2005, n. 2207, in Corr. giur., 2005, 8, p. 1093. Il plenum del consesso si è riunito dietro impulso dalla sezione III, che, con il decreto n. 15538/03 del 17 ottobre 2003, sollevava il conflitto prospettando conclusioni opposte rispetto a quelle cui era giunto il supremo organo solo un anno prima. V. Cass. civ., sez. III, del 17 ottobre 2003, decreto n. 15538, in Foro it., 2003, I, 2938. In quel decreto, la Corte afferma che “dal sistema della legge n. 287 del 1990, sui profili di competenza e di legittimazione del consumatore possono trarsi anche suggestioni diverse” poiché “il soggetto che domanda la nullità dell’intesa o il risarcimento dei danni conseguenti alla pratica anticoncorrenziale per ciò stesso si legittima all’azione ex art. 33, c. 2, l. 287/90; questo perché “è la materia che individua la competenza, mentre spetta al giudice competente considerare se la parte che agisce sia o meno legittimata […] In conclusione, ove dovesse ritenersi che il consumatore è legittimato ad agire a norma dell’art. 33, dovrebbe poi pervenirsi alla conclusione della competenza della Corte d’Appello”. 23 Questa conclusione è corroborata anche da dati testuali, come l’articolo 4 l. 287/90, che espressamente attribuisce rilevanza al beneficio del consumatore tra i criteri di valutazione della liceità delle intese. Sul punto si ponga mente alla genesi della normativa antitrust italiana, ed in particolare agli obiettivi del disegno di legge n. 1012, così esplicitati in apertura della Relazione che lo ha accompagnato: “Ogni legge sulla tutela del mercato, che contenga norme tradizionalmente oggetto della disciplina antimonopolio, ha acquisito nell’opinione comune una valenza politica precisa, in base alla quale si vorrebbe trasformare quella legge in uno strumento di governo dell’economia. E’ opportuno allora precisare che questo non è lo scopo fondamentale del disegno di legge che qui presentiamo, diretto, in modo esclusivo alla tutela dei consumatori”. Sul tema, più recentemente, la Commissione europea nella sua Comunicazione per una politica della concorrenza proattiva per un’Europa competitiva del 20 aprile 2004, pone tra gli obiettivi centrali dell’ordinamento comunitario “la migliore integrazione degli interessi dei consumatori nel dispositivo di regolamentazione della concorrenza”.

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I giudici della Suprema Corte giungono a tali conclusioni, tracciando una netta distinzione tra la disciplina antitrust oggetto della legge n. 287/1990, nonché degli artt. 81 e 82 CE, e quella sulla concorrenza sleale contenuta nel codice civile. Secondo la Corte, infatti, mentre la disciplina della concorrenza sleale conserva il carattere fondamentale di strumento di tutela del corretto rapporto di concorrenza tra imprenditori ed il risarcimento è previsto per riparare il danno subito soltanto dai concorrenti, le norme antitrust tutelano la libertà di concorrenza al fine “pubblico” di garantire l’assetto concorrenziale del mercato. Rispetto alla violazione di queste, pertanto, poiché i comportamenti anticoncorrenziali sono dotati di una vis plurioffensiva, capace di ledere il patrimonio di tutti i soggetti del mercato, concorrenti o meno del responsabile dell’infrazione, chiunque abbia subito un pregiudizio di tale natura ha diritto al risarcimento.

A tale ultimo orientamento espresso dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite in ordine alla risarcibilità “a valle” dei danni subiti dal consumatore, si è conformata la giurisprudenza più recente, tanto di merito24 che di legittimità25.

Alla luce di quanto sopra, si può affermare che, nel nostro sistema giuridico così come in quello dei principali ordinamenti europei, la funzione compensativa consente di risarcire tutto il danno cagionato, quale che sia la posizione del richiedente nella catena dei danneggiati.

Ma, per essere legittimato ad agire, almeno nel nostro sistema, il soggetto posto in cima alla catena non deve avere trasferito il danno su altri26. Da ciò deriva che non sono concepibili soluzioni che individuano come legittimati ad agire soggetti che non hanno in concreto subito un danno, in quanto lo hanno trasferito su altri soggetti lungo la stessa catena di distribuzione.

6. Spunti ulteriori di comparazione tra la legge italiana e il Libro Bianco.

Confrontando brevemente la complessa – ma certamente non organica, né tantomeno esaustiva – disciplina risultante dai sei commi nell’art. 140-bis cod. cons. con quella tratteggiata nel Libro Bianco, emerge, in primis, che la nuova “azione collettiva risarcitoria” italiana non è una vera e propria azione risarcitoria; non sfocia in una pronuncia collettiva di condanna vera e propria costituente titolo esecutivo per i singoli aderenti (i quali dovranno perciò attivarsi in sede di

24 Si veda, ex multis, la sentenza della Corte di Appello di Napoli, sez. I, del 13 luglio 2006. Per un caso in cui non è stata riconosciuta la legittimazione ad agire di un’associazione di consumatori, si veda, invece, la sentenza della Corte di Appello Milano del 3 maggio 2007, Codacons c. R.A.S. 25 V. Cass. civ. del 2 febbraio 2007, n. 2305, in Resp. civ. e prev., 2007, p. 7-8, con nota di BIANCHI, nonché Cass. civ. del 21 febbraio 2007, n. 4104 e del 20 aprile 2006, da n. 9205 a 9212. 26 In questo senso, v. la citata sentenza Corte d’Appello di Torino del 6 luglio 2000.

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conciliazione post sententiam ai sensi dell’art. 140-bis co. 6° cod. cons. o in via giudiziaria individuale, magari attraverso un ricorso per decreto ingiuntivo, quando il giudice della causa collettiva abbia fissato i minimi di tutela risarcitoria ex art. 140-bis, co. 4°). In ciò, dunque, si discosta di per sé dal vago, ma chiaro proposito della Commissione.

Inoltre, i punti più dolenti della nuova disciplina processuale italiana rispetto agli schemi comunitari mi sembra siano quelli del regime delle prove, dei rapporti con gli eventuali provvedimenti dichiarativi de eadem re pronunciati dalle autorità antitrust e delle spese.

Il testo normativo italiano, infatti, si caratterizza per un “assordante” silenzio tanto in materia di raccolta, assunzione e valutazione delle prove (laddove, nelle proposte del Libro Bianco, si introduce una prima, cauta forma di discovery), quanto sul regime delle spese – fondamentale, invece, perché l’azione collettiva non sia soltanto un “diritto di carta”.

Quanto alla disciplina dei rapporti con le autorità antitrust, lo scostamento della normativa italiana dal progetto europeo appare palese: l’art. 140-bis comma 3°, seconda parte, cod. cons. consente al giudice della causa collettiva la facoltà di “differire la pronuncia sull’ammissibilità della domanda quando sul medesimo oggetto è in corso un’istruttoria davanti a un’autorità indipendente”.

Una simile facoltà, oltre al silenzio sugli effetti di una decisione amministrativa già resa sulla medesima condotta illecita da parte dell’autorità antitrust palesa la scelta del legislatore italiano di non seguire il modello comunitario improntato a una tendenziale e automatica vincolatività del provvedimento amministrativo nel giudizio civile successivo.

La soluzione appare inedita nell’ordinamento italiano e sembra ispirarsi all’art. 16, primo comma, del Regolamento (CE) n. 1/2003 (oggi riflesso in toto nel par. 2.3. del Libro Bianco) che introduce per i giudici nazionali un esplicito vincolo a conformarsi alle decisioni in materia di concorrenza riguardanti una medesima fattispecie, adottate o in corso di adozione da parte della Commissione europea.

Tale regolamento, tuttavia, non contempla un analogo obbligo di sospensione in capo al giudice nazionale per il caso di procedimento pendente dinanzi all’autorità nazionale e, in ipotesi, all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in applicazione delle norme comunitarie di concorrenza 27.

27 Lo stesso Libro Bianco attribuisce “effetto vincolante” soltanto alle decisioni prese in via definitiva, ossia “quando il convenuto ha esaurito tutti i mezzi di ricorso”.

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Analogamente, il giudizio civile ex art. 33 l. 287/1990 dinanzi al giudice ordinario è ritenuto indipendente rispetto a quello che si svolge dinanzi all’Autorità Garante (sistema c.d. binario)28.

L’autonomia fra i due procedimenti discende dal fatto che in ciascuno di essi vengono in giuoco interessi differenti. La distinzione tra le attribuzioni dell’Autorità Garante e la giurisdizione del giudice ordinario non si presta a confusione: la prima è volta all’accertamento e alla repressione di condotte anticoncorrenziali lesive dell’interesse pubblico (public enforcement); la seconda è volta a tutelare diritti individuali (private enforcement). La distinzione tra public e private enforcement è stata bene messa in luce da una sentenza del Tar Lazio29. In essa i giudici amministrativi hanno sottolineato la diversità dei presupposti della tutela pubblica, rispetto alle funzioni del giudice ordinario: quest’ultimo si pronuncia su una domanda di parte per la tutela di un interesse privato, mentre l’AGCM agisce di sua iniziativa per tutelare l’interesse pubblico primario, di rilevanza comunitaria e costituzionale, alla salvaguardia di un mercato concorrenziale.

Sul punto, in dottrina, è addirittura sostenuto che, nel rapporto tra i due procedimenti, non sia ipotizzabile neanche la sospensione necessaria del processo civile per pregiudizialità ex art. 295 c.p.c., in quanto tale norma contempla soltanto l’ipotesi della pendenza di un altro procedimento giurisdizionale e non di natura amministrativa quale è invece il procedimento avanti all’AGCM. L’art. 33, infatti, è privo di qualsiasi raccordo fra l’istruttoria amministrativa ed il procedimento giudiziario avviato avanti la Corte d’Appello.30

La nuova legge in materia di “azione collettiva risarcitoria”, inoltre, non fa chiarezza sulla sorte del giudizio collettivo nell’ipotesi in cui l’istruttoria davanti all’autorità indipendente sia stata avviata dopo la pronuncia sull’ammissibilità

28 Così la dottrina maggioritaria: VETTORI, Concorrenza e mercato, Padova 2005, 176; SCUFFI, Orientamenti consolidati e nuove prospettive nella disciplina italiana antitrust, in Riv. dir. ind. 2003, I, 95; TAVASSI – SCUFFI, Diritto processuale antitrust, Milano 1998, 173; TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, Milano 1996, 31; BARONE, Danni da abuso di posizione dominante e giurisdizione ordinaria, in Foro it. 1996, I, 277. Nello stesso senso la giurisprudenza delle Corti d’Appello: Corte d’Appello di Milano 16 maggio 2006; Corte d’Appello di Roma, 20 gennaio 2003, WIND/Telecom, in Riv. dir. ind. 2003, 548; Corte d’Appello di Milano, 18 luglio 1995, Telsystem/Sip, in Foro it. 1996, 276, con nota di BARONE, Danni da abuso di posizione dominante e giurisdizione ordinaria; Corte d’Appello di Roma, 20 gennaio 1993, Gruppo Sicurezza/Aeroporti di Roma, in Foro it. 1993, 3377, con nota di VALDINA. 29 Tar Lazio, sez. I, sent. n. 1713/2006, Merck (Principi Attivi). 30 Così, LA CHINA, Concorrenza e mercato, commento alla legge 10 ottobre 1990, n. 287, Padova 1994, 647.

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della domanda collettiva né sulla possibilità del giudice di disporre misure provvisorie a seguito del differimento di tale pronuncia31.

7. La competenza giurisdizionale del giudice italiano in relazione all’azione collettiva risarcitoria nel diritto comunitario.

L’inciso contenuto nel comma 445 dell’art. 2 della legge finanziaria, conformemente ad una prassi ormai di rito osservata dal nostro legislatore, richiama i “principi stabiliti dalla normativa comunitaria”, ai quali il nuovo strumento dichiarava di volersi adeguare.

Nell’ambito dell’Unione Europea, innanzitutto, non v’è dubbio che la determinazione della competenza giurisdizionale del giudice italiano in tema di “azione collettiva”, il primo dei problemi che avrebbe dovuto correttamente porsi il legislatore, vada risolto sulla base del Regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio del 22 dicembre 2000 (Bruxelles I), come successivamente rettificato ed emendato.32 La nuova forma di azione, infatti, rientra de plano nel campo di applicazione del Regolamento (art. 1, paragrafo 1) e in nessun modo può essere ricompresa nelle esclusioni contenute nell’art. 1, paragrafo 2 del Regolamento de quo.

Ne discende, pertanto, l’applicazione all’azione collettiva del criterio di base del “domicilio” o della “sede” del convenuto, persona fisica o giuridica che sia, nelle definizioni rispettivamente contenute negli artt. 59 e 60 del Regolamento.

Ma, accanto al foro generale, vi sono fori speciali posti in deroga a quello e fori alternativi al medesimo.

31 La facoltà per il giudice nazionale di disporre misure provvisorie dopo aver sospeso il procedimento per attendere una decisione della Commissione o delle Corti comunitarie è espressamente prevista al punto 14 della Comunicazione della Commissione relativa alla cooperazione tra la Commissione e le giurisdizioni degli Stati membri dell’UE ai fini dell’applicazione degli articoli 81 e 82 del Trattato CE, in GU C101 del 27 aprile 2004, p. 54. 32 Pubblicato in GUCE L 12 del 16 gennaio 2001, pag. 1. Rettifica in GUCE L 307 del 24 novembre 2001, pag. 28, modificato dal Regolamento (CE) n. 1496/2002 della Commissione del 21 agosto 2002 (GUCE L 225 del 22 agosto 2002, pag. 13), dall’Atto relativo alle condizioni di adesione della Repubblica ceca, della Repubblica di Estonia, della Repubblica di Cipro, della Repubblica di Lettonia, della Repubblica di Lituania, della Repubblica di Ungheria, della Repubblica di Malta, della Repubblica di Polonia, della Repubblica di Slovenia e della Repubblica slovacca e agli adattamenti dei trattati sui quali si fonda l’Unione europea (GUUE L 236 del 23 settembre 2003, pag. 33), dal Regolamento (CE) n. 1937/2004 della Commissione del 9 novembre 2004 (GUUE L 334 del 10 novembre 2004, pag. 3), dal Regolamento (CE) n. 2245/2004 della Commissione del 27 dicembre 2004 (GUUE L 381 del 28 dicembre 2004, pag. 10).

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Sotto il primo profilo, vengono qui presi in considerazione i “contratti” conclusi dal “consumatore” “per un uso che possa essere considerato estraneo alla sua attività professionale”, nel senso ampio emergente dal Regolamento appena citato e, cioè, in relazione:

(a) ad una vendita a rate di beni mobili materiali;

(b) ad un prestito con rimborso rateizzato o ad un’altra operazione di credito, comuni con il finanziamento di una vendita sub a);

(c) in tutti gli altri casi, “qualora il contratto sia stato concluso con una persona le cui attività commerciali o professionali si svolgono nello Stato membro in cui è domiciliato il consumatore o sono dirette con qualsiasi mezzo, verso tale Stato membro o verso una pluralità di Stati che comprende tale Stato membro, purché il contratto rientri nell’ambito di tale attività” (art. 15, par. 1).

In forza dell’art. 16, par. 1 e 2 dello stesso Regolamento, il consumatore ha la scelta fra citare l’altra parte contrattuale davanti ai giudici del proprio domicilio o a quelli del domicilio dell’altra parte, quest’ultima, invece, è comunque tenuta a citare il consumatore nel luogo del suo domicilio33.

Poiché “i rapporti giuridici relativi a contratti stipulati ai sensi dell’art. 1342 codice civile” da consumatori o utenti, per restare alla formula della nuova legge, sono ricompresi negli articoli del Regolamento sopra menzionati, per le azioni collettive recuperatorie o di risarcimento nascenti da tali rapporti giuridici, in ipotesi di controparte straniera “comunitaria”, l’indicazione del foro dell’impresa potrà essere pacificamente disattesa dalle associazioni di consumatori o da comitati che ben potranno citare l’impresa in Italia, nel luogo dove risieda uno dei consumatori dagli stessi rappresentati.

L’utilizzazione dell’espressione “consumatori e utenti” contenuta nel testo dell’art. 140-bis non deve trarre in inganno, essendo essa comunque riconducibile a situazioni giuridiche afferenti al consumatore in senso lato.

Sotto un profilo lessicale, la distinzione si giustifica con il riferimento del primo termine, il “consumatore”, ai beni e del secondo, l’“utente”, ai servizi. Ma tale distinzione – lo ripetiamo – non va al di là della mera correttezza lessicale.

Risulta evidente, infatti, sia dall’ampia formulazione dell’art. 15 del Regolamento (CE) n. 44/2001 sia dalle varie direttive attinenti alla materia34 che,

33 Sulla nozione di domicilio della persona fisica e di una società o altra persona giuridica si fa rinvio, rispettivamente, agli artt. 59 e 60 del Regolamento de quo. 34 V., ad esempio, la Direttiva 93/13/CEE del 5 aprile 1993 concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, in GUCE L 95 del 21 aprile 1993. In particolare, v. gli artt. 2 e 4 nonché alcuni considerando della stessa da cui si desume che la nozione di “contratti stipulati con i consumatori” comprende anche l’offerta di servizi. In senso analogo, cfr. la Direttiva

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tra i “contratti stipulati con i consumatori”, vengono comunemente ricompresi anche quei contratti che si concretizzano in un’offerta/acquisto di servizi.

Nello stesso senso, del resto, sono le pronunce della Corte di giustizia delle Comunità europee nel caso Benincasa e nel caso Gruber nonché le conclusioni dell’Avvocato generale Jacobs in quest’ultima causa35. In particolare, in più passaggi della sentenza Gruber, la Corte fa riferimento al trattamento comune riservato al consumatore in caso di “uso del bene o del servizio”36.

La sottovalutazione, per non dire la totale noncuranza, da parte del legislatore della nuova azione collettiva, dell’esistenza di un diritto processuale civile intessuto anche di norme regolamentari comunitarie, come tali prevalenti e preminenti rispetto alle norme di diritto interno con quelle contrastanti, è dimostrato una volta di più dall’ulteriore previsione nel Regolamento CE 44/2001, fra i criteri speciali di giurisdizione, di criteri ad hoc relativi a controversie in materia di contratti di assicurazione.

Fra questi, oltre che avanti al giudice del domicilio dell’attore, quando costui sia il contraente, l’assicurato o il beneficiario dell’assicurazione (art. 9, co. 1, lett. b Reg. 44/2001 cit.), la domanda può essere proposta - a scelta dell’assicurato - anche avanti al giudice nazionale del luogo in cui l’evento dannoso si è verificato, nei casi di assicurazione della responsabilità civile o sugli immobili ovvero di sinistri coinvolgenti mobili e immobili coperti dalla medesima polizza o, ancora, avanti al giudice del luogo in cui l’azione di danno contro l’assicurato sia già stata proposta (cfr. art. 11 Reg. cit.).

Ancora una volta, dunque, nel caso di un’azione collettiva promossa in materia di contratti assicurativi e avente carattere “transfrontaliero” all’interno dell’Unione Europea, l’applicazione dei criteri speciali di giurisdizione previsti dagli artt. 9 - 11 Reg. CE 44/2001, senz’altro prevalenti sulle disposizioni difformi del diritto nazionale, sembrerebbe destinata a vanificare la scelta della “sede dell’impresa” convenuta quale criterio di competenza a vocazione esclusiva nel settore delle azioni collettive.

97/7/CE del 20 maggio 1997 riguardante la protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza, in GUCE L 144 del 4 giugno 1997, p. 19 (v. l’art. 2.1, definizione di “contratto a distanza”). 35 Cfr. la sentenza della Corte di giustizia del 3 luglio 1997, causa C-269/95, Benincasa, punti 11-19; le conclusioni dell’AG Jacobs del 16 settembre 2004, causa C-464/01, Gruber, punti 20-28 nonché la sentenza del 20 gennaio 2005 in quest’ultimo procedimento, in particolare ai punti 36 ss. Tali pronunce interpretano la nozione di “contratti conclusi da consumatori” ai sensi degli artt. 13-15 della Convenzione di Bruxelles (oggi artt. 15 ss. Regolamento (CE) 44/2001). Sul punto, v. anche GAMBARO –LANDI, Consumer Contracts and Jurisdiction, Recognition and Enforcement of Judgments in Civil and Commercial Matters, European Business Law Review, 5/2006, 1355. 36 V., in particolare, i punti 41, 42 e 45 della sentenza Gruber, cit.

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Di fronte a questo ennesimo caso di “distrazione” legislativa rispetto alle conseguenze pratiche della sempre maggiore compenetrazione dell’ordinamento nazionale e di quello comunitario, le declamazioni di principio e le invocazioni dello stesso diritto comunitario e dei suoi sviluppi contenute nel “preambolo” delle disposizioni appena introdotte appaiono meramente rituali, prive di significanza.

Sempre in relazione al diritto comunitario, le altre azioni collettive previste dalla nuova legge italiana, quelle, cioè, poste in essere “in conseguenza di atti illeciti extracontrattuali, di pratiche commerciali scorrette o di comportamenti anticoncorrenziali”, nei confronti di un soggetto convenuto, persona fisica o giuridica che sia uno straniero “comunitario”, sono anche esse oggetto di un foro alternativo.

Infatti, ai sensi dell’articolo 5 del Titolo II del Regolamento 44/2001, una persona domiciliata nel territorio di uno Stato membro può essere alternativamente convenuta, a scelta dell’attore, in un altro Stato membro, in particolare,

“in materia di illeciti civili dolosi o colposi, davanti al giudice del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire” (punto 3)

e ancora,

“qualora si tratti di un’azione di risarcimento di danni o di restituzione, nascente da reato, davanti al giudice presso il quale è esercitata l’azione penale, sempre che secondo la propria legge tale giudice possa conoscere dell’azione civile” (punto 4).

La competenza “inderogabile”37 a favore del foro del consumatore o dell’assicurato nei termini sopra enunciati, o quella speciale del forum commissi delicti, l’una e l’altra oggetto di prescrizioni contenute in un regolamento comunitario, prevalgono – lo ripetiamo - su qualsiasi disposizione nazionale contrastante, anche se successiva. Con l’ovvia conseguenza che, nell’ambito dell’Unione Europea, il criterio contenuto nel paragrafo primo dell’art. 140-bis cod. cons. assume la semplice funzione, di per sé del tutto inutile, di richiamo al criterio generale del domicilio (sede) dell’impresa convenuta, senza in alcun modo poter escludere, quando ve ne siano le premesse, il ricorso agli altri criteri nel senso precisato.

L’esame nel caso della disciplina di diritto comune sulla giurisdizione non conduce a risultati diversi da quelli emersi in sede comunitaria, in funzione dell’espresso rinvio alle sezioni 2, 3 e 4 del Titolo II della Convenzione di Bruxelles del 22 settembre dal 1986 e successive modificazioni contenute nell’art. 3, paragrafo 2, della legge 31 maggio 1995 n. 218, portante la riforma del sistema 37 Fatte salve le soluzioni consentite nell’articolo 17 del Regolamento n. 44/2001.

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del diritto internazionale privato italiano. Infatti, in virtù dell’art. 68 del Regolamento 44/2001, “nella misura in cui il presente regolamento sostituisce, tra gli Stati membri, le disposizioni della Convenzione di Bruxelles, ogni riferimento a tale convenzione si intende fatto al presente regolamento”.

Ora le sezioni 2, 3 e 4 del titolo II del Regolamento de quo riguardano, rispettivamente, come si è visto, le competenze speciali, la competenza in materia di assicurazione, la competenza in materia di contratti conclusi con il consumatore e, pertanto, il richiamo alla Convenzione di Bruxelles nell’art. 3, par. 2, della l. 218/1995 è automaticamente sostituito con quello al Regolamento de quo, con la conseguenza di rendere la disciplina generale identica a quella di applicazione diretta fra gli Stati membri dell’Unione europea della normativa comunitaria sopra esaminata.

Si osserva ancora che l’individuazione del tribunale in formazione collegiale quale organo competente per conoscere delle domande di tutela giurisdizionale collettiva appare opportuna, in relazione alla verosimile complessità delle cause collettive – non solo oggettiva, ma anche soggettiva, visto il perdurante diritto dei singoli di intervenire in via litisconsortile, poco sensatamente sancito dall’art. 140-bis co. 2°, seconda frase.

Infine, è mia opinione che l’opzione per il rito ordinario di cognizione disciplinato dagli artt. 163 e segg. c.p.c., sancita ormai in via generale per le controversie collettive a tutela di consumatori e utenti (alcuni disegni di legge in vena d’umorismo prevedevano per tali cause il ricorso al rito societario, condannando la tutela collettiva dei consumatori ad un gratuito supplemento di complicazioni e costi…), renda urgente il problema di valutare la legittimità costituzionale dell’applicabilità del rito societario alle sole liti nelle “materie di al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, quando la relativa controversia è promossa da […] associazioni rappresentative di consumatori […]” stabilita del tutto irragionevolmente dall’art. 1, lett. e) del d. lgs. 5/2003.

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Electronic copy available at: http://ssrn.com/abstract=1116324

Compensation function and deterrenceeffects of private actions for damages:

The case of antitrust damage suits

Francesco Denozza and Luca Toffoletti

March 2008

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Electronic copy available at: http://ssrn.com/abstract=1116324

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Abstract:In this work we take the case of damages actions brought by victims ofantitrust violation, and refer to the current discussion originated by the ECCommission’s projected reform (the 2005 Green Paper), to show some of themany failures of damages actions in performing a deterrence function, andtheir dependence on the specific features of each case. These problems areanalysed in a conceptual framework in which three sets of choices areidentified, namely those related to: (a) the definition of the illegal conducts; (b)the management of the risk; (c) the management of the consequences. Weillustrate how the three groups are relatively independent of each other, anduse such independence to address the (supposed) conflict between deterrenceand compensation. Three possible goals of a deterrence policy are considered:discouraging all illegal conducts, discouraging only those illegal conducts whichare socially inefficient, avoid deterring legal conducts which are similar to illegalones. For each of them, the possible disparities between optimal levels ofdeterrence and the effects of antitrust damages actions are shown, to concludethat some consequences of the proposed boost in damages actions (especiallythose in terms of over-deterrence) seem overlooked in the current discussions.Moreover, we maintain that the design of the reform should not be influencedby a given preference to deterrence or to compensation as the goal to beaccorded priority, since they lie theoretically on autonomous grounds. Rather,attention should be paid to the empirical interferences, that may requirecorrective devices as may be the case with a continuous adjustment of PublicEnforcement to restore appropriate levels of deterrence once the deterrenceeffects of the (reformed) private damages actions are observed.

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Compensation function and deterrenceeffects of private actions for damages:The case of antitrust damages suits **

FRANCESCO DENOZZA * - LUCA TOFFOLETTI *

** An earlier version of this work, with some differences, was presented at the conference‘Introducing Class Actions in Europe – A comparative Law and Economics Perspective’,Alessandria, January 26-27, 2007 (Università del Piemonte Orientale, Department of PublicPolicy and Public Choice- POLIS), forthcoming in Jürgen Backhaus, Alberto Cassone andGiovanni Ramello (eds.), Introducing Class Actions in Europe, A Comparative Law and EconomicsPerspective, Edward Elgar. It was also presented, in Italian, at the conference ‘Funzioni deldiritto privato e tecniche di regolazione del mercato’, Catania, October 7, 2007 (Universitàdegli Studi di Catania – Facoltà di Giurisprudenza, Facoltà di Scienze Politiche)

* Università degli Studi di Milano

1. S OME PREMISES ON THE (S U P P O S E D) CONFLICT BETWEENDETERRENCE AND COMPENSATION

In this work we will examine some problems related to the possible deterrence

function of private damages actions. We will take the case of antitrust damages

suits, now a popular and closely analysed topic in the EU due to the recent

attention dedicated to the issue in the Commission’s Green Paper.1

1 Commission of the European Communities, ‘Green Paper on Damagesactions for breach of the EC antitrust rules’ COM (2005) 672, Bruxelles, December19, 2005, hereinafter the ‘Green Paper’, with the annexed ‘Commission Staff WorkingPaper Annex to the Green Paper’, hereinafter the ‘Staff Working Paper’ (when notspecified, general reference is to the set of two documents as a whole).

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In particular, we make reference to antitrust damages actions brought by

consumers, a matter which is also tightly linked with class actions, these latter

as well being examined closely in view of their introduction throughout the

EU, and the likely boost in private damages actions that would follow.

The Green Paper, more generally, explores the various possible ways to

strengthen consumers’ actions for damages. Whilst a long tradition in Civil

Law countries predominantly assign to damages actions the function to

compensate victims, these initiatives call for attention also in regards to their

deterrence effects.

Some preliminary remarks are then needed, given the huge number of studies

dealing in general with the function of tort liability, and in some cases with the

alleged conflict amongst a deterrence function and a compensation function of

damages actions.

1.1. THREE GROUPS OF CHOICES LYING ON AUTONOMOUS GROUNDS

In essence, and with the sole purpose to make explicit some premises to better

understand what follows, we think that every policy of repression of socially

undesirable activities implies for the regulator to make choices that can be

classified in at least three different groups.

The first group includes those choices related to the definition of illegal conducts.

Within this category also falls the definition of the necessary degree of fault for

illegality to arise (and sanctions to be triggered), since on these choices depend

degree and modality (whether do adopt prevention devices and to what extent)

with which certain activities are to be made.

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A second group relates to the management of risk: the risk that the undesired

activities are nonetheless made. Here at issue is the decision on the level of

possible ex-ante interventions (eg permits, to condition certain activities to the

adoption of safety measures), on monitoring, on appropriate deterrence levels,

on how to ensure that wrongdoers be caught, and so on.

Within the third group are choices relating to the management of consequences:

consequences of those illegal activities which are undertaken notwithstanding

the rules on their illegality (and the adopted deterrence measures). Here fall the

choices on compensation due to victims, on the effectiveness of sanctions as

punishment, etc.

Needless to say the choices made at each of the three levels do have

implications on the choices that can be made at the other two. For example, it

is out of the question that the choice made at the first level between having an

unconditional ban of certain acts or banning them only when they are

inefficient, implies that management of risks and of consequences see to it that

choices made at these latter two levels do not enter in contradiction with the

first choice.

Notwithstanding the possible interrelations among the choices made at the

different levels, we argue that the three groups, even if empirically related, are

conceptually independent of each other.

1.2. COMPENSATION AND DETERRENCE AS INTERFERING INSTRUMENTS,AND NOT AS ALTERNATIVE VALUES

The distinction amongst the three levels helps, then, to understand a

phenomenon that does not seem to have received enough attention in many

previous discussions on the matter in which such distinction was ignored.

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We allude to the fact that it is well possible to conceive a set of rules, with

perfect internal consistency, in which the choice at first level be inspired by

equity/fairness considerations or rights-based conceptions (eg the right to not be

murdered is protected regardless of any cost-benefit calculus); the choice at the

second level is instead inspired by efficiency considerations (it is decided that it is

not convenient to use all the resources that would ensure that any risk of

violation is removed – refraining, eg, to employ two policemen in the endless

patrol of every potential murderer – thereby establishing a certain level of

acceptance of risk); whereby the choice at the third level is inspired by reasons

of retributive justice (a sanction – thirty years imprisonment – is imposed

because it is deemed proportional to the seriousness of the committed crime,

not for its ability to deter or to compensate the victim).

If one considers the distinctions amongst the three levels hereby underlined,

many discussions on the function of tort liability may appear useless or in any

case ill conceived.

This is the case, in particular, of the discussion (which, given the scope of this

paper, is of most direct interest here) on the relation between deterrence

function and compensation function of damage actions. In the framework

that we propose, the two matters lie on different grounds: the first (deterrence)

relating to management of risks, and the second (compensation) to

management of consequences, of a committed tort.

This does not mean that problems do not exist: it means though that the

relation between the two functions must not be seen in terms of radical

alternative of values, but rather in terms of the interferences which, as we

already noted in general, are always possible, also between choices which lie on

different levels.

To make an example, a legislator deciding to manage the risks using deterrence

(other than, eg, prevention) and choosing to allocate this task to damages

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7

actions, may design the latter so as to have criteria to define the recoverable

damages aimed at obtaining optimal deterrence. When managing the

consequences of the tort, the legislator may still decide that making the victims

whole is the first priority. In this case, he or she could revise the criteria of

damages recovery (those set forth at and within the second level) that should

result unfit to achieve this second purpose. Interferences, and the need to go

about with balancing evaluations, would then arise. Still, the lawmaker has also

the choice to leave the criteria unaltered and intervene with insurance or

through public subsidy systems for the victims incurring in insufficient damage

recovery. In this way the independence between the two tiers of choices would

be reintroduced.

These remarks may also apply to the issue of deterrence in antitrust law. Once

established that we are at level two (thus we assume a given definition of what

is illegal), the issue is to clarify the relation with level three, that of management

of consequences. Here as well, similarly to what we have just observed in

general, nothing would prevent the lawmaker to design damages actions so as

to enhance their efficacy as to deterrence. He or she could then freely decide

whether the victims of anticompetitive conducts should be left to their fate

(i.e., able to recover only that amount – be it much or little – which could be

granted them as a consequence of such damages actions, not designed in view

of their compensation), or if they should achieve in any case full recovery of

their suffered prejudice (possibly by means of the activation of supplemental

devices, which may range from subsidies for the least compensated to high

taxation of punitive damages in excess of actually suffered prejudices).

2. CAN DAMAGES ACTIONS ADEQUATELY PERFORM A DETERRENCEFUNCTION?

Upon this premise, and in this context, we can finally state which are precisely

the purposes of this paper. We want to draw attention to a number of

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8

difficulties that in many situations prevent private damages actions, as they are

currently conceived (ie with all their limitations as to causation, burden of

proof, quantification criteria, etc, which are more or less present in all

European jurisdictions), to adequately perform a deterrence function. From the

observation of such failures one can then infer consequences both with regard

to coordination amongst private and public enforcement, and with regard to

the possible amendments to current rules on private damages actions.

We want to remark that this leaves unaffected the question about whether it is

desirable to compensate victims, a question that arises at a different level and

that urges its own, separate solutions. The answer can be either negative or

positive, the latter case implying the need to set up further devices, apt to

correct the negative effects that may originate from the intervention made on

the damages action rules with an objective to increase its deterrence potential.

3. THREE GOALS FOR A DETERRENCE POLICY AND THE APPROPRIATEMEASURE OF THE SANCTION IN RELATION TO EACH OF THEM

A deterrence policy may pursue different goals. The possibility to achieve

them, and the very same possibility to define and articulate them clearly, varies

in relation to the situations and the kind of conducts that come into play. In

this paper we will consider three possible (in our view, reasonable) goals, with

reference to a context of wilful conducts (we will not consider, therefore,

problems relating to prevention activities, a matter which likely is quite

marginal in antitrust law – with the exception, as we shall see, of the

prevention activities consisting in abstaining from behaviours which are

nonetheless lawful, in order to avoid the risk that errors in the evaluation of

the boundaries of the notion of illegality may lead to being sanctioned also for

conducts whose illegality may be arguable).

The three goals we shall take into consideration are the following:

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9

The first is to deter certain conducts on absolute terms, regardless, that is, of a

cost-benefit analysis made on a case-by-case basis.

The second goal is to discourage only those conducts from which the

wrongdoer obtains benefits that do not outweigh the costs imposed on third

parties.

The third goal is to prevent certain conducts which are valued negatively,

avoiding however to discourage certain others, albeit similar, still deemed

neutral or even beneficial.

These goals may be pursued by means of adopting different measures.

Some of them may relate to the setting up of the necessary devices so as to

avoid that the prohibited conducts remain undetected. These are the devices

that in the classical proposition of the question, that compares the net benefits

of the wrongdoer to his or her costs, represented by the amount of the

sanction discounted by the probability of being caught, impact on this latter

element. In this paper we will not deal with this issue. We will discuss as if we

acted in a context (even if obviously implausible for antitrust application, in

any case useful for a theoretical exploration) in which the value of p is always

equal to 1.2

We will thus consider exclusively the problems relating to the measure of the

sanction.

In this perspective and returning to the possible goals of a deterrence policy,

we then have that:

2 In the classical notation used in the analysis of optimal deterrence, p is for theprobability of detection.

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10

- To reach the first goal we only need to have the sanction be higher

than the expected gain of the wrongdoer; when this condition is met,

unless the wrongdoer himself makes calculation mistakes, the conduct

is discouraged for all rational profit-maximizers.

- To achieve the second goal we rather need that the sanction be exactly

equal to the aggregate net costs born by third parties; once this equality

holds the rational agent will decide to realise the forbidden conduct

only when his or her net benefits are higher than the aggregate net

costs imposed on third parties. Thus yielding an increase of social

welfare.

- The third goal requires more complex interventions and particularly a

graduation of the sanction in relation to the seriousness of the offence.

4. DAMAGES ACTIONS AND OPTIMAL DETERRENCE MODELS: THREEDISPARITIES

In three different contexts, those in which each one of the above defined goals

are pursued, disparities emerge between the prescriptions of optimal deterrence

models and the sanctions brought about by damages awarded to victims of

antitrust violations. We analyse such disparities making three assumptions.

The first assumption is that no Public Enforcement concurs in creating the

total amount of sanctions, ie as if there would be no other consequence for the

violator than the payment of damages to victims, nor any cause of detection of

infringements other than the initiative of private plaintiff. This assumption

would help showing, we argue, how Private Enforcement yields deterrence on

its own. We will then add into the picture the concurring role of Public

Enforcement again, to reconsider the production of an optimal aggregate level

of deterrence from a perspective that look at private enforcement as

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decentralised activities that cannot be influenced by public policy.3 In this

perspective the effects of Private Enforcement may, and have to, be measured

in themselves, with a view to design a policy of Public Enforcement consistent

with such effects (as it has to be consistent with all the other circumstances

that it takes as exogenous variables, relevant to its purposes).

The second assumption regards the conception of damages. We do take into

consideration the fact that damages actually obtainable by victims, as awarded

by Courts, differ, and may do so to a significant extent, from the notion of

private losses or private costs that are used in economics. We want to refer to

realistically recoverable damages since it is their amount that potential

wrongdoers include in their cost-benefit calculus (the likely damage award

Courts may grant: we will call this amount ‘Damages’); so it is this quantity that

we should consider when measuring the deterrence effect of private damages

actions. The reasons of this divergence with the notion of private costs are

known. The main one stems from the notion of legal causation: not every

single costly consequence of a conduct may be considered as having been

‘caused’, within the meaning accepted and used in Court adjudications, by such

conduct. Other difficulties, connected with the rules on proof and

quantification of the damages, add on to increase the divergence.

Finally, we do not consider competitors’ actions for damages. It is consumer

harm that bears the closest correlation with the profitability of the infringers

and hence it is in consumers’ claims that Damages may be most significantly

looked at to see how they come close to a notion of optimal sanction for

deterrence purposes. The loose (if at all existent) connection between

3 This is indeed the very essence of private enforcement brought about by classactions. When civil suits are brought by public prosecutors or governmental agencies,as is the case in the Federal US jurisdiction, a policy decision lies behind suchenforcement activities. Here we concentrate on the suits brought by the victims,which are by definition decentralised devices for the production of deterrence.

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12

competitors’ right to recover their harm and deterrence purposes is well

known.4

4.1. DAMAGES AND WRONGDOER’S GAIN

In the first context, in which we consider the purpose of deterring all rational

agents from undertaking actions defined as illegal, imposing a sanction higher

than the expected gain, the simple formula is the following:

Damages > Gain (*1/p)5

The level of deterrence created by judicial award of Damages does not

necessarily keep up with this basic prescription even in the simplest of cases. 4 See, eg, H Hovenkamp, Federal Antitrust Policy: The Law of Competition and itsPractice (2nd edn, West Group, St. Paul Minn. 1999) 645, and 650 (optimal deterrencemodel’s application to exclusionary practices a ‘radical departure’ from existing law ofdamages, but competitors’ suit, as they are, nevertheless serving certain sociallydesirable functions, like early detection of injuries to consumers). In the perspectiveillustrated in the premise of this paper, once noticed that this latter function works atthe level of management of risk, and not at that of management of consequences, onecould acknowledge that the rule granting competitors the right to sue for damages isinspired by the (exclusive) goal of compensating them (level three). Therefore, if theaim were to make it consistent with deterrence optimality goals, some special rules forcompetitors’ suit should be introduced. Or, leaving the rules as they are (consumersand competitors suits are not treated differently) some corrective factors should beintroduced elsewhere. At the end of this paper we suggest that in certain situations thecoordination of Public Enforcement with the features of the private action (includingits inescapable compensation function) may help realign deterrence towards optimallevels.

5 As already noted, we exclude from the analysis the percentage of detection,assuming that it equals 1. Changes in this variable should not affect the implicationswe derive in this paper from the disparities of Damages and the other consideredquantities. Once established that Damage is an amount that varies to a significantextent depending on the nature of the case and violation at issue, as we argue, thechances to have optimal deterrence level by means of private enforcement decreaseregardless of the amount of p. The simple propositions we recall from optimalsanction analysis also assume that all parties are risk neutral and enforcement costs arezero. Another general assumption is embedded in the static nature of the modelsemployed in the analysis (incentives in a dynamic framework, which would alter thedetermination of the optimal amount of sanction, are not considered).

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13

Violations like hard-core cartels show different levels of consistency with the

rule, depending on their object.

In price fixing cartels Damages equal the violators’ Gain: the latter being the

so-called monopoly overcharge, ie the difference between the cartel price and

the competitive price (or the level of price in the same market before the cartel

formation or in neighbouring markets), times the sold quantities; the former

being the same price differential (times the purchased quantities, which in

aggregate, assuming all victims bring an action,6 equal the cartel members’

aggregate Gain).

In market allocation cartels, the above does not seem to hold anymore. Here

the cartel members profit out of a number of cost reductions, other than the

overcharge. Relying on a set of clients (or territories) securely allocated to them

and isolated from competitive pressure, they will be able to avoid costs for

promotion, innovation and the like.

Hence, whilst in price fixing we have that

Damages = The overprice = The overcharge = Gain

in market allocation we have

Damages = The overprice < (The overcharge + Avoided Costs =) Gain

6 This paper does not analyse the question of the proper incentives of victimsto bring a damage suit, a question that indeed the Green Paper addresses andconsiders to be crucial for the purposes of strengthening damages suits for antitrustviolations. Several possible solutions are considered in the Green Paper, fromcollective suits (a broad category which include class actions as known in the USjurisdiction) to simplification of procedure for small claims (Staff Working Paper,para. 192, with reference to EC Commission, ‘Proposal for a Regulation of theEuropean Parliament and of the Council establishing an European Small ClaimsProcedure’ COM(2005)87).

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14

Moreover, the avoided costs part of the Gain may hardly be measured, let

alone be incorporated in recoverable Damages.7

The level of deterrence produced by private enforcement, even by the most

efficient one (with p equal to 1 and all victims bringing actions or being entitled

to their share of the award), then: (a) is different depending on the nature of

the infringement, and (b) may be suboptimal, leading to under-deterrence.

4.2. DAMAGES AND SOCIAL LOSS

We now consider a second, more complex prescription according to which

sanctions must be designed so as to not only prevent illegal conducts, but to

also avoid preventing illegal conducts that nevertheless could be occasionally

efficient.

This is a very well known proposition in deterrence analysis; its underlying

purpose is to adjust the level of deterrence to factor in a standard of social

desirability, based on the efficiency norm.8

It is important to remember, in considering this norm of optimal sanction

design in an antitrust framework, that the conducts at issue in this context are

treated with strict illegality as those in the previous one: we are not referring to

conducts whose legality in the first place is to be determined on the basis of a

7 As opposed to the efficiencies produced by practices considered in Context 2(para. 4.2) this kind of advantages, those of the ‘quiet life’ enjoyed by the monopolistor, here, the cartel members, are not incorporated in static models on whichdeterrence analysis is based.

8 See, eg, R Posner, Antitrust Law (2nd edn, The University of Chicago Press,Chicago and London 2001) 267: ‘To impose a violator a cost (…) equal to the costthat his violation imposed on society (…) is a criterion of efficiency and hence anespecially appropriate one to use in designing remedies for antitrust violations’. Adetailed illustration in M Landes, ‘Optimal Sanctions for Antitrust Violations’, (1983)50 U. Chi. L. Rev., 652.

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balance between the anticompetitive effects and the efficiencies they bring

about (as, eg, under the ‘exemption’ test provided for in para. 3 of art. 81 EC).9

In fact, even hard core cartels (as all other behaviours treated by antitrust law

with a rule of strict illegality) may produce, on occasions, efficiencies.10

In this second context the prescription is to design the level of sanction so the

infringer, in case the efficiencies are significant, shall in any case put the illegal

conduct into effect, even after having paid the sanction.

The rule is then that Damages must be equal to (but not higher than) the Total

Social Loss, where the Total Social Loss is formed by the Monopoly

Overcharge and the Deadweight Loss11 (including all other losses – all third

parties’ net costs):12

Damages = (Overcharge+DWL[+other losses13]=) Total Social Loss (*1/p)

9 The exemption test under art. 81.3 of the EC Treaty may be equated, for thelimited purposes of the distinction illustrated in the text, to rule of reason analysis asopposed to per se illegality in US antitrust law.

10 On efficient cartels and appropriate remedies see eg Posner, Antitrust Law (n8) 267.

11 The Deadweight Loss is the most typical factor of divergence betweenDamages as awarded upon litigation and a measure of optimal sanction as perdeterrence analysis. Nonetheless it is argued that the harms suffered by excludedconsumers (those third parties who are damaged because, having a lower reservationprice, they substitute away towards an inferior product once the price is increased bythe violators) should and could, effectively, be made recoverable: see CR Leslie,‘Antitrust damages and the deadweight loss’ (2006) 51 Antitrust Bull., 521, suggestingthat parens patriae suits brought by State Attorneys General may be the most suitableinstrument to such a purpose.

12 The proposition is stated by Landes (‘Optimal Sanctions’, n 8, 656) as follows:‘The rule for determining the optimal fine or damage award is simple to state: the fineshould equal the net harm to persons other than the offender’.

13 Other losses, as eg the costs of litigation and other enforcement costs, are ineffect a deadweight loss and can be included in this latter notion (their existence shallmake the DWL larger than if only determined by inefficient substitution). Other lossesof different kind to be included in deterrence analysis are those arising of competitors’investments, when they are wrongfully excluded (Hovenkamp, Federal Antitrust Policy,

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When the cost savings produced by the efficiencies are higher than the DWL,

after paying Damages the infringer shall still remain with a net gain: even after

the Overcharge shall have been entirely offset, the Gain will lie in the positive

difference between the produced efficiencies less DWL. And if efficiencies

more than compensate social losses, society has a net benefit.

Should Damages be only equal to the Overcharge, the infringement would take

place (the infringer gains from the efficiencies) when society still suffers a loss

(arising out the inefficient substitutions).14 On the contrary, when Damages are

higher than Total Social Loss, in case of efficiencies a socially desirable

conduct (in this perspective) is nevertheless prevented.

Let us consider two examples: agreements to block innovation and to price

discriminate.

When the infringers collude to jointly delay the introduction of innovative

processes or products on the market (for example, to fully exploit existing and

n 4, 651, and see also H Hovenkamp, ‘Antitrust Protected Classes’ (1989) 8 Mich. L.Rev., 1, 17, where the author remarks that this latter kind of costs, of particularrelevance, cause a systematic underestimation of the social costs of infringements,thereby yielding to underdeterrence). The notion of Total Social Loss intends toinclude the harms of all parties other than the violators.

14 This is, indeed, the reason why the sanction should also not be less than thesum of the Overcharge and the deadweight loss: when efficiencies may flow from acartel or other illegal conduct, they can make the violation profitable even ifoutweighed by social losses (ie, if they are, no matter how small but, lower than theDWL they would always accrue to the violator after having paid a Damage that offsetthe entire overcharge). Hovenkamp notes (‘Antitrust Protected Classes’, n 13, 30) thatthe inclusion of the costs from inefficient substitution in the recoverable damagesincurs a serious obstacle in the fact that those are costs born by individuals who arenot the direct purchasers of the monopolised goods (i.e. those consumers who nolonger buy the goods after the increase in price, and who opting for a substituteproduct, by definition an inferior one, suffer a reduction in their surplus), thus likelynot having standing (to US Courts standards) to bring an antitrust damages action.But see Leslie, ‘Antitrust damages and the deadweight loss’ (n 11), 559.

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already stocked, but inferior, product lines),15 a number of private costs arise, a

kind of costs which are very difficult to measure; but they are certain,

widespread and of a significant extent: those are the lost benefits in terms of

enhanced quality, or safeness, or environmental protection and so on. This

means that Damages are lesser than Total Social Loss: a situation leading to

underdeterrence.

If instead the purpose or effect of collusion is to price discriminate between

purchasers, the recoverable Damages shall be equal to the increase in price

suffered by some of the customers and the Total Social Loss would be equal to

the imposed aggregate increase in price (plus the inefficient substitutions as in

the first example) minus the aggregate decreases in price resulting from the

discrimination (the price paid by those who pay less than before). The

Damages are then higher than the Total Social Loss, resulting in

overdeterrence.

The situation depicted in the last example could be of general relevance in light

of the wide position taken by the European Court of Justice on standing in

antitrust actions (see Courage and Manfredi, where ‘anyone’ is used to define

15 On the antitrust treatment of conducts blocking innovation see thesymposium ‘Antitrust and the Suppression of Technology in the United States andEurope: Is there a remedy?’ (1998) 66 Antitrust LJ 415, and cf. particularly JJ Flynn,‘Antitrust Policy, Innovation Efficiencies, and the Suppression of Technology’, ibid,487. See also M Maugeri, ‘Private Enforcement e diritto antitrust: le prospettivecomunitarie’, working paper (Rome, May 2007). The attention towards practicesblocking innovation has recently risen, within merger control, along with theemergence of so called ‘innovation markets analysis’. Within such approach the mosttypical restriction of competition that may arise out of a merger is the suppression ofone of the two competing research projects (developed by each of the mergingparties), or, along the same lines of the example made above, the postponement of theuse, and incorporation into marketable products, of innovation results alreadyavailable and apt to enhance the quality of current version, until that current versionhas exhausted all its market potential: see eg Federal Trade Commission, GenzymeCorporation/Novazyme Pharmaceuticals Inc, File no. 021/0026, 13 January 2004,<http://www.ftc.gov/opa/2004/01/genzyme.shtm>.

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those who have standing).16 When standing is conceived in very broad terms,

many situations other than price discrimination (with its intrinsic duality of

better off/worse off parties) may be figured. If, for example, employees are to

have standing, those who lost their jobs as a consequence of illegal predation,

resulting in their employer (the ousted undertaking) being liquidated, may sue

the predator for damages, claiming their lost wages; but those losses (and

possibly all Social Losses) could be more than offset by the avoided damages

to the predator’s employees: those who would have been fired in the absence

of predation, due to the competitive pressure their employer would have

suffered from its excluded rivals, were they still in the market.

4.3. DAMAGES AND SERIOUSNESS OF THE OFFENCE

Lastly, in a third context optimal deterrence analysis provides the indication

that sanctions have to be designed so as not to discourage the undertaking of

legal efficient actions that occur around the ones that are considered illegal.

Here the task is completely different from the previous ones, in that the illegal

conduct cannot be defined precisely: the opposite of hard core cartels (whether

or not cartels from time to time produce offsetting efficiencies, there is

reasonable certainty that they normally do not and therefore a regime of per se

illegality is chosen). When one cannot rely on precise definitions, as is the case

of very many antitrust violations, the prescription is to consider marginal

deterrence.

Marginal deterrence analysis advocates finely adjustable sanctions. In this

perspective the norm that comes from deterrence analysis is then to graduate

sanctions, according to the degree of seriousness of the offence, so that

16 Case C-453/99 Courage v Crehan [2001] ECR I-6297 and Joined Cases C-295/04 & C-298/04 Vincenzo Manfredi et al v Lloyd Adriatico Assicurazioni [2006] ECR I-6619.

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efficient conducts that cannot be distinguished precisely from the ones to be

proscribed at the moment when their legality or illegality is decided may not be

discouraged.

Going back to the disparity with Damages, Private Enforcement cannot keep

up with this norm since the sanction is of the on/off type: once illegality is

ascertained (and therefore the liability of the infringer is derived), all suffered

damages have to be restored.17

A significant example for this scenario is the antitrust treatment of rebates.

Rebates are the typical conduct that lies very close to a number of legal,

efficient ones. Even in the strictest conceptions, let alone the many

perspectives from which a more lenient treatment is called for,18 there is

significant room for rebates that deserve to be encouraged, when recognised as

efficient. A recent US antitrust class action shows how the perspective of

paying Damages may yield a very high, possibly disproportionate, level of

deterrence. The action was brought by retail pharmacies (tens of thousands in

the class) alleging that drug manufacturers colluded in denying them discounts

they granted to Hospitals and other large health care organisations.19

17 Damages may be a superior device to a fixed fine: as Hovenkamp (FederalAntitrust Policy, n 4, 644) notes, in a price fixing cartel (and in the presence of thetrebling rule) the violators are discouraged in setting a higher increase in price therebymaking the collusion more detectable, as opposed to setting a lower overcharge, thusreducing the probability of being discovered and sanctioned. Should they risk of beingcharged with a fixed fine, they should rather set the higher increase of price (onlyincreasing one risk – of being caught – and not two – being caught and pay higherdamages). Here, though, we are referring to the (highly) variable fines which can be(and are) set by the antitrust Authorities in the EU framework.

18 Cf. EC Commission, ‘DG Competition discussion paper on the applicationof Article 82 of the Treaty to exclusionary abuses’ Bruxelles 2005, para. 5, for aposition certainly inclined to apply economic analysis to the treatment of rebatesgranted by dominant undertakings, whilst still allowing room for illegality.

19 In re Brand Name Prescription Drugs Antitrust Litigation (N.D. III. June 21, 1996,7 Trade Reg. Rep. (CCH) P71, 449) a class action was brought by retail pharmaciesalleging drug manufacturers and wholesalers conspired to deny them discountsgranted to other parties. An illustration of the case and of the settlement’s terms in S

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The recoverable Damages were the denied discounts times the purchased

quantities: possibly a very high amount with significant deterrent potential.

Though we may figure that due to the nature of the infringement there might

have been room for a successful defence,20 the magnitude of risk created by the

largeness of the class was apparently enough of an incentive for the defendants

to settle. A settlement was agreed for $408 million: an amount that in itself

stands out in comparison to the administrative fines issued for this kind of

infringements in the EU, where the enforcer is able to use its discretionary

power in graduating the amount of the fine in accordance with the seriousness

of the violation.21

5. THE COORDINATION OF PRIVATE AND PUBLIC ENFORCEMENT

The failures of the private action in keeping up to the prescriptions of the

optimal deterrence model may suggest, as noted, different corrective

interventions. A first intervention would require acting on the rules governing

damages actions (rules on standing, proof, quantification, causation and so on),

so as to achieve sanctions measures close to optimal deterrence. This would

amount to make choices on level two (management of risk) and to depart

consistently from the traditional view according to which damages awards

pertain to level three (management of consequences), since their aim is to

compensate victims.

Calkins, ‘An Enforcement Official’s Reflections on Antitrust Class Actions’ (1997) 39Ariz. L. Rev., 413.

20 Although the case was tried under a per se illegality rule, being characterisedas a case of collusion among the pharmaceutical manufacturer, we here want tounderline that rebates, and price reductions, normally deserve in depth analysis so asto avoid that normal, pro-competitive behaviour may fall under the antitrustprohibitions. The issue is of particular significance within EU, where as is knownrebates granted by dominant undertakings fall under a very strict regime.

21 See the Commission’s ‘Guidelines on the method of setting fines imposedpursuant to Article 23(2)(a) of Regulation No 1/2003’ (2006/C 210/02).

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21

If, more realistically, one assumes that the rules on damages suits will continue

to be inspired predominantly with the purpose of compensating victims, then a

second type of intervention comes into play that takes into consideration the

interaction between Private and Public Enforcement.

This possibility is in fact suggested by the Commission’s Green Paper. When

analysing the various factors that have so far impeded the development of

private damages actions for antitrust violations and the possible remedies

thereto, the Green Paper seems to conceive Private and Public Enforcement as

complementary devices, whose relation is linear (as if when one unit of Private

Enforcement is added, one unit of Public Enforcement may – and should – be

taken off to keep the same aggregate level of deterrence). We believe that this

conception, that does not take into account the failures we have described

above, is not correct. Whilst it is indeed useful to analyse the interactions

amongst Private and Public Enforcement in connection with the proposal of

intervention to enhance and strengthen private actions for damages, we think

that their interplay should be more carefully studied.22

One of the main thoughts underlying the proposals in the Green Paper is that

antitrust enforcement must be decentralised.23 In line with a wider goal of

22 But see A Toffoletto, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per laviolazione della normative antitrust (Giuffrè, Milano 1996) where the problems raised bythe concurring functions of antitrust damages actions are studied within the context ofthe whole set of enforcement devices available in the Italian and EC jurisdictions (cf.in particular at 176 ff where it is argued that the enforcement features of the Europeansystems – administrative fines issued by antitrust authorities, complemented by singledamage claims by private parties – are more capable than those of the US system –treble damages and criminal sanctions – to provide appropriate levels of deterrence,once private damages actions are effectively brought by all or most of the victims).

23 Whilst the idea of decentralisation is clearly asserted, the Green Paper doesnot take position on the alternative between compensation and deterrence asfunctions of private actions. It does consider compensation; and it considersdeterrence. Both the former (‘it is desirable that victims of competition law violationsare able to recover damages for loss suffered, if competition law is to better reachconsumers and undertakings and enhance their access to forms of legal action toprotect their rights’, Staff Working Paper, para. 4), and the latter (‘Enhanced privateenforcement will (…) increase the incentives of companies to comply with the law,

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reform, of which a milestone was the so called ‘Modernisation’ (Regulation

1/2003),24 here again the proposed interventions would pass on to private

citizens much of the enforcement burdens currently taken on by the

Commission alone so that the Commission’s resources may be employed to

pursue only the highest priority tasks in its policy and agenda. If this is so,

since Public Enforcement cannot serve any compensation function, the

decentralisation idea must assume that Private Enforcement is, at least to some

extent, a substitute of Public Enforcement in the production of deterrence.

Then the conclusion would be, as noted, that once Private Enforcement

increases by one unit one can (must if deterrence is already at the optimal level)

decrease the amount of Public Enforcement by one unit as well.

Our view is instead that Private and Public Enforcement could be conceived as

complements, but in the specific sense that they produce different qualities of

deterrence. Then their (forthcoming, in the EU, as for comparable quantities)

coexistence should be studied with more focus on the risk that the possible

activation of the two at the same time may lead, case by case, to quantities of

deterrence either still insufficient or excessive.

A widespread perspective seems to be, though, only concerned with under-

deterrence. The Green Paper, for example, does not address the issue, with the

sole exception of a proposal to protect the applicant in a leniency program

from damages actions, so as not to decrease the incentives to the delation:

exempting the informer (who is stimulated to report the existence of the cartel

in exchange for immunity from fines) from all or part of his or her tortious

thus helping ensure that markets remain open and competitive’, ibid, para. 5) aredeclared functions of damages actions. The Commission though does not say whichof the two should prevail, nor how to manage their interactions.

24 Council Regulation (EC) 1/2003 of 16 December 2002 ‘on theimplementation of the rules on competition laid down in Articles 81 and 82 of theTreaty’, [2003] OJ L 1/1.

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liability in subsequent private damage suits.25 But this is again a case whereby

only under-deterrence is the concern underlying the proposed intervention.

Although the effects of Damages actions may well lead to over-deterrence: as

we have shown, the possibility to have one or the other of the two situations

depends on the specific features of the case at issue: on the kind of violation

that one faces from time to time, on the identity of the plaintiff, on the specific

difficulties of proof for certain kind of damages and so on.

We have said at the outset that the functions of deterrence and compensation

work at different levels; and that, therefore, the regulator can make choices at

each of these levels, now giving precedence to one, now to the other of the

two. This possibility must take into account, though, the interactions that

certainly occur between the different levels, so that once priorities and

objectives have been chosen, some corrective interventions aimed at

rebalancing the various forces may also be set. This implies that if we assume

that the main features of damage claims and their predominant compensating

function will remain unchanged, at the level of risk management it will

nonetheless be possible to try and optimise the aggregate level of deterrence

acting with proper adjustments of the level of enforcement activity governed 25 Staff Working Paper, para. 224 ff, particularly at para. 231. On theinteractions between public and private enforcement some proposals for coordinationhave been made. D Rosenberg and JP Sullivan, ‘Coordinating Private Class Actionand Public Agency Enforcement of Antitrust Law’, Harvard Discussion Paper no 523,8/2005 <http://ssrn.com/abstract=795524>, propose, eg, that the right to bring aclass action be put at an auction, so that it can be granted to the best offeror betweenprivate parties and the public enforcement agency. A similar idea (in a differentcontext and expressed in much broader terms) is in Posner, Antitrust Law (n 8), 276,who suggests a right of first refusal to be conferred to enforcement agencies to bringdamages suit. J Rüggeberg and MP Schinkel, ‘Consolidating Antitrust Damages inEurope: A Proposal for Standing in line with Efficient Private Enforcement’, (2006)World Competition: Law and Economics Review, Vol. 29, no. 3, 395-420,<http://ssrn.com/abstract=903282>, suggest instead to concentrate in the hands ofthe public enforcer the phase of quantification of the recoverable damages, so thatsingle victims may then base on such determination their own individual – lessexpensive – actions to recoup their quota of damages. Some doubts may be raised onthe feasibility, and the incompleteness, of these solutions. Here we want to underlinethat in this work we try to do something different: we suggest some reasons to addressthe issue of the interaction amongst the two enforcement Actions as a workingsubordination of Public Enforcement to Private Actions.

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by the Public Agencies. If, instead, we anticipate that the features of damages

actions will be modified, as the Green Paper now proposes, we can valuate the

effects that such modifications cause at the level of risk management; based on

such valuation, we may then again determine the required interventions to

adjust Public Enforcement towards optimal aggregate deterrence levels.

A significant example is the projected introduction of collective actions. These

may be more or less similar to the US class actions but still capable to deliver a

dramatic increase of private damage suits, since they would solve one of the

most formidable obstacle to their development: the lack of incentives for single

victims to bring an action against the violator for the disproportion between

judicial costs and expected awards. Here we assume that the effect of the

introduction of such an instrument would be, regardless of the specific

features, to precisely produce a boost of Damages actions in number and

aggregate value: an effect that (at the level of risk management) for sure would

determine a significant increase of the aggregate amount of deterrence.

Recalling the three disparities, Damages actions mainly yield over-deterrence in

context three. Then, if in the first two context the suboptimal quantity of

deterrence produced by Private Enforcement (also with collective actions) may

always be supplemented adjusting Public Enforcement accordingly, once

Private Enforcement alone leads already to over-deterrence, no correction is at

all possible anymore.

Collective actions appear then to be appropriate instruments for context one

and two, but not for context three, where marginal deterrence is of the essence.

These considerations suggest that a selective allocation of the right to bring

collective actions may be justified: granted for cartels (and possibly for other

restraints under a per se illegality regime), precluded for those restrictive

practices whose illegality is determined under a more complex test (be it the

rule of reason, or the exemption test under para. 3 of art. 81 EC: whenever a

balancing of restrictions to competition and efficiencies is required).

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Making such a choice, the legislator would consider as preponderant level two

of risk management, while accepting some compromises as to management of

consequences (level three): not every victim of antitrust violations would be, in

this perspective, treated equally since only some of them would have access to

such a powerful instrument as the collective action.

When faced with a legislator who decided to treat all victims equal, thereby

introducing collective actions without limitations, Public Enforcement would

need to be remodelled (at the separate level of risk management) so as to avoid

as much as possible an intervention (also by monitoring collective Damage

actions, as to their number, distribution throughout categories of violations

and outcome) where the highest is the risk of over-deterrence.

In both cases then the coordination seems to need to be inspired, whatever the

choice of the legislator, to tuning Public Enforcement according to the

modified features of Private Actions. The aim of compensating victims may be

pursued with Private Damages Actions only. Assuming this is an indefeasible

goal (as the Green Paper does) the deterrence effects produced by the

enhancement of the compensation function become an inescapable by-product

of the pursuit of such priority objective, and Public Enforcement must as a

result adapt its intervention policy. Should the legislator make trade-offs

among the two purposes, deciding how to enhance the Damages Action also in

light of its deterrence effects (as is the case of a selective use of collective

actions), Public Enforcement would always be capable to further adjust the

aggregate level of enforcement by dosing its own intervention according to the

various necessities that the remodelled Damages Action would determine in

each different situation.

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IL LIBRO BIANCO DELLA COMMISSIONE EUROPEA IN MATERIA DI AZIONI PER IL RISARCIMENTO DEL DANNO PER VIOLAZIONE

DELLE NORME ANTITRUST

Università degli Studi di Milano – Via Festa del Perdono n. 7 Facoltà di Giurisprudenza, Aula 2008

Milano, 17 giugno 2008

I COSTI DELLE AZIONI RISARCITORIE ANTITRUST

Stefano Bastianon∗

1. E’ ovvio, ma di tanto in tanto è pur sempre utile ricordarlo, che ogni discorso sulle finalità compensative o deterrenti delle azioni risarcitorie antitrust non può prescindere dalla necessaria complementarietà tra private enforcement e public enforcement.

L’applicazione della normativa antitrust da parte dei privati (c.d. private enforcement), infatti, presenta rilevanti vantaggi tanto sotto il profilo della tutela dei singoli, quanto sotto il profilo della tutela del mercato nel suo complesso. Per quanto riguarda i diritti dei singoli, il private enforcement opera su due piani diversi, ma strettamente collegati l’uno all’altro: in primo luogo, consente alle vittime delle condotte anticoncorrenziali di ottenere il risarcimento dei danni

∗ Professore associato di Diritto dell’Unione europea, Università degli Studi di Bergamo, Facoltà di Giurisprudenza: [email protected] presente relazione riproduce, con alcune aggiunte, il testo dell’intervento reso nell’ambito del Convegno Il Libro bianco della Commissione europea in materia di azioni per il risarcimento del danno per violazione delle norme antitrust, svoltosi a Milano il 17 giugno 2008, organizzato congiuntamente dalla Facoltà di Giurisprudenza e dal Centro di eccellenza Jean Monnet dell’Università degli Studi di Milano.

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subiti; in secondo luogo, e conseguentemente, produce un ulteriore effetto deterrente, che si aggiunge a quello tradizionalmente ricollegato alle sanzioni irrogate dalle autorità pubbliche, nella misura in cui il rischio di dover risarcire i danni cagionati ai singoli stimola le imprese ad una maggiore osservanza della normativa antitrust. Ciò a sua volta si traduce in un vantaggio a livello generale, posto che il rispetto delle regole del gioco costituisce il primo e fondamentale strumento per promuovere la concorrenza ed il corretto funzionamento del mercato.

A tale riguardo il documento di lavoro della Commissione che accompagnava il Libro Verde aveva sottolineato che

«competition in the market encourages companies to innovate, operate efficiently and

contribute to a more efficient use of resources, leading to improved growth in productivity. Open and competitive markets are the main driver behind competitiveness, and ultimately the standard of living of citizens [...]. Enforcement of competition rules play a key role in ensuring a level playing field for companies in the EU. It keeps private barriers to competition (e.g. cartels and the exclusionary abuses of dominant firms) in check by using competition law instruments to tackle individual cases. Facilitating and increasing private enforcement of EC antitrust rules would further add to the efficiency of competition law enforcement, and make an important contribution to the key objective of ensuring open and competitive markets in the EU’s internal market»1.

E’ interessante notare, peraltro, che un’idea molto simile era già stata

evidenziata dalla Corte di giustizia nella sentenza Courage c. Crehan, nella parte in cui il giudice comunitario, sul presupposto che il rimedio risarcitorio rafforza il carattere operativo delle regole di concorrenza comunitarie ed è tale da scoraggiare gli accordi o le pratiche, spesso dissimulate, che possono restringere o falsare il gioco della concorrenza, aveva sottolineato che in quest'ottica, le azioni di risarcimento danni dinanzi ai giudici nazionali possono contribuire sostanzialmente al mantenimento di un’effettiva concorrenza nella Comunità2.

Con specifico riferimento al futuro modello di antitrust enforcement che si dovrà delineare in Europa tali affermazioni assumono un’importanza fondamentale. Se, infatti, l’applicazione delle norme antitrust ad opera dei privati tende in ultima analisi a rafforzare il rispetto delle regole del gioco prevenendo il verificarsi di comportamenti illeciti, ciò significa che la finalità compensativa dovrà svolgere il ruolo di obiettivo di breve periodo, mentre la finalità deterrente dovrà costituire l’obiettivo ultimo del generale sistema di attuazione della normativa antitrust. In quest’ottica, pertanto, le future scelte di politica del diritto non potranno prescindere da un’accurata valutazione dei principi ricavabili dallo studio di modelli economici, quale quello dell’ottimale livello di deterrenza (c.d. Optimal deterrence model) elaborato da Landes nel 19833 e successivamente

1 EC Commission staff working paper annex to the Green Paper damages actions for breach of the EC antitrust rules, Brussels 19 december 2005, SEC (2005) 1732, consultabile sul sito www.europa.eu.int/comm/competition/antitrust/others/actions_for_damages/study/sp_en.pdf. 2 Corte giust., 20 settembre 2001, causa C-453/99, Courage c. Crehan, in Raccolta, 2001, I-6297. 3 W. M. LANDES, Optimal sanctions for antitrust violations, in 50 U. Chi. L. Rev., 1983, 652.

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divenuto negli Stati Uniti oggetto di un acceso dibattito dottrinale4. Se da un lato, infatti, vi è motivo di ritenere che le tradizioni giuridiche dei singoli Stati membri non consentano di operare quella netta separazione tra il concetto di danno risarcibile ed il pregiudizio economico subito dal singolo che il modello in oggetto sembrerebbe suggerire - damages shall equal the net harm to persons other than the violator -, dall’altro lato non v’è dubbio che tale modello, distinguendo rigorosamente tra conseguenze inefficienti ed efficienti di una data condotta, rappresenta un utile strumento di lavoro per cercare di individuare i principi e i criteri in base ai quali determinare i danni risarcibili.

Strettamente connesso al tema dell’importanza e del ruolo del private enforcement nel futuro contesto europeo si presenta il tema della necessità di un coordinamento tra i due sistemi di attuazione della normativa antitrust, posto che entrambi mirano, attraverso gli strumenti della compensazione e della deterrenza, ad assicurare il corretto funzionamento del mercato nel suo complesso.

A tale riguardo, peraltro, deve essere sottolineato che mentre l’attuazione delle regole di concorrenza da parte dei privati si basa essenzialmente sulle azioni a contenuto risarcitorio, l’opera svolta dalle pubbliche autorità si avvale contemporaneamente sia dello strumento delle sanzioni, sia dello strumento dei programmi di trattamento favorevole (c.d. leniency programs), con conseguente rischio di possibili tensioni tra i due sistemi di attuazione: da una parte, infatti, i leniency programs potrebbero apparire in contrasto con il meccanismo delle sanzioni, posto che la fondamentale caratteristica di tali programmi è quella di consentire alle imprese di beneficiare di un’immunità assoluta o di una riduzione delle sanzioni; dall’altra parte, invece, i programmi di trattamento favorevole possono certamente incentivare l’avvio di azioni risarcitorie da parte dei privati nella misura in cui favoriscono la divulgazioni di prove rilevanti in sede civile, sebbene non possa trascurarsi il fatto che il rischio di esporsi alle domande risarcitorie dei privati potrebbe operare come un freno all’utilizzo dei programmi di trattamento favorevole.

2. La lettura del Libro Bianco in materia di azioni di risarcimento del

danno per violazione delle norme antitrust comunitarie5, e degli allegati documenti6, non lascia dubbi sul fatto che la Commissione, perlomeno sulla

4 Sul punto v. H. HOVENKAMP, Antitrust’s protected classes, in 88 Mich. L. Rev., 1989, 1; W.H. PAGE, Optimal antitrust penalties and competitors’ injury, in 88 Mich. L. Rev., 1990, 88, nonché The scope of liability for antitrust violations, in 37 Stanford L. Rev., 1985, 1445. 5 Libro bianco in materia di azioni di risarcimento del danno per violazione dellen norme antitrust comunitarie, Bruxelles 2 aprile 2008, COM(2008) 165 definitivo, consultabile in http://ec.europa.eu/comm/competition/antitrust/actionsdamages/files_white_paper/whitepaper_it.pdf 6 Commission staff working paper accompanying the White Paper on damages actions fro breach of the EC antitrust rules, Brussels 2, April 2008, SEC(2008) 404; Commission staff working document. Accompanying document to the White Paper on damages actions fro beach of the EC antitrust rules. Impact assessment, Brussels, 2 april 2008, SEC(2008) 405; Documento di lavoro dei servizi della Commissione. Sintesi della valutazione di impatto. Libro bianco in materia di azioni di risarcimento del danno per violazione delle norme antitrust comunitarie, Bruxelles, 2 aprile 2008, SEC(2008) 406; External impact study “Making antitrust damages actions more

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carta, abbia inteso attribuire a tali azioni una finalità prettamente compensativa e solo indirettamente deterrente. Come si legge nel Libro Bianco, infatti,

«l’obiettivo primario del Libro bianco è migliorare i termini giuridici in base ai quali le

vittime possono esercitare il diritto (…) al risarcimento di tutti i danni subiti in conseguenza della violazione delle norme comunitarie antitrust. Il risarcimento completo è dunque il primo e più importante principio guida (…). Il fatto che i privati dispongano di mezzi d’azione efficaci aumenta inoltre la probabilità che venga individuato un maggior numero di limitazioni illegali della concorrenza e che gli autori dell’infrazione vengano considerati responsabili della stessa. Il miglioramento della giustizia retributiva produrrebbe pertanto di per sé conseguenze positive anche in termini di effetto deterrente per le infrazioni future e di maggior rispetto delle norme antitrust comunitarie»7.

Nel costruire un antitrust private enforcement in termini compensativi la

stella polare che ha guidato la Commissione è stata quella della continua ricerca di un giusto equilibrio tra due opposte esigenze: da un lato, quella di far uscire il private enforcement da quello stato di “totale sottosviluppo” descritto nel Libro Verde8, consentendo a tutte le vittime di un illecito antitrust di agire per ottenere un effettivo risarcimento del danno subito; dall’altro lato, quella di evitare il proliferare di azioni legali pretestuose e temerarie. In altre parole, l’obiettivo finale avuto di mira dalla Commissione è sempre stato quello di favorire lo sviluppo di una cultura della concorrenza (c.d. competition culture), non già della litigiosità fina a sé stessa (c.d. litigation culture)9.

Chiave di volta di tale operazione è il miglioramento del quadro giuridico all’interno del quale le vittime possono esercitare il loro diritto al risarcimento dei danni antitrust attraverso l’eliminazione dei vari ostacoli, giuridici e procedurali, derivanti dalle legislazioni nazionali che disciplinano le azioni risarcitorie effective in the EU: welfare impact and potential scenarios”. Tali documenti sono tutti consultabili in http://ec.europa.eu/comm/competition/antitrust/actionsdamages/documents.html 7 Libro Bianco, cit., p. 3. Nello stesso senso v., altresì, la risoluzione del Parlamento europeo del 25 aprile 2007, (2006/2207(INI)), nella quale era stato evidenziato che «payments awarded to complainants should be compensatory and should not exceed the actual damage (damnum emergens) and losses /lucrum cessans) sufferede, in order to avoid un just enrichment». 8 Il Libro verde e l’allegato documento di lavoro della Commissione si basano essenzialmente su due considerazioni: innanzitutto, che la pronuncia Courage c. Crehan ha evidenziato la necessità di un adeguato ed effettivo sistema di azioni risarcitorie in caso di violazione della normativa antitrust; in secondo luogo, che l’esperienza maturata in quest’area a livello di singoli Stati membri rivela un generale scarso sviluppo. In particolare, lo studio commissionato dalla Commissione ha potuto registrare soltanto 60 azioni risarcitorie di cui 12 sulla base del diritto comunitario, circa 32 sulla base di diritti nazionali e 6 sulla base di entrambi; inoltre, il risarcimento dei danno è stato effettivamente accordato soltanto in 28 di questi casi. Di fronte ad un simile scenario, l’obiettivo del Libro verde e del documento di lavoro è stato quello di «individuare i principali ostacoli all’attuazione di un sistema più efficace per l’introduzione delle domande di risarcimento del danno e proporre vari spunti di riflessione e di possibile intervento per agevolare la proposizione di azioni di risarcimento del danno, siano esse azioni di seguito (ad esempio, azioni civili proposte dopo che un’autorità garante della concorrenza ha accertato una violazione) o azioni indipendenti (ossia azioni che non fanno seguito ad un precedente accertamento da parte di un’autorità garante della concorrenza di una violazione della normativa sulla concorrenza)». 9 N. KROES, Enhancing actions for damages for breach of competition rules in Europe, Dinner speech at the Harvard Club, New York, 22 September 2005.

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antitrust. Come noto, i temi specifici affrontati (prima dal Libro Verde e successivamente) dal Libro Bianco sono nove:

a) la legittimazione ad agire (acquirenti indiretti e azioni collettive); b) l’accesso alle prove; c) l’effetto vincolante delle decisioni delle Autorità garanti nazionali; d) il requisito della colpa; e) il risarcimento del danno; f) il problema del trasferimento del sovrapprezzo (c.d. passing-on theory); g) i termini di prescrizione; h) i costi delle azioni risarcitorie; i) l’integrazione tra i programmi di clemenza e le azioni risarcitorie. Senza alcuna pretesa di completezza e esaustività, anche al fine di

rispettare il ruolo di discussant assegnatomi, in questa sede vorrei svolgere alcune, brevi considerazioni con esclusivo riferimento all’incidenza che i costi delle azioni risarcitorie antitrust possono avere sull’incentivo a proporre simili azioni legali.

3. In termini generali, e in via di prima approssimazione, deve osservarsi che la letteratura economica tende ad equiparare la decisione di intraprendere un giudizio ad una decisione di investimento nella quale il potenziale attore è chiamato a valutare congiuntamente, inter alia, a) il tempo che dovrà spendere nell’azione legale, b) i costi dell’azione e c) il risultato che spera di conseguire10.

Nell’ambito delle azioni risarcitorie antitrust tali tre fattori risultano strettamente interconnessi in quanto, rispetto agli altri tipi di azioni legali, le azioni in questione sono, di regola, più complesse e quindi più lunghe e quindi più costose.

Ben si comprende, pertanto, la ragione della particolare attenzione riservata dal Libro Bianco in relazione allo specifico tema dei costi delle azioni risarcitorie antitrust: evitare che tale costi possano rappresentare un disincentivo per l’avvio di simili cause, senza tuttavia favorire il proliferare di azioni temerarie.

10 Sul punto v. l’ampia letteratura citata dall’External impact study “Making antitrust damages actions more effective in the EU: welfare impact and potential scenarios”, cit., p. 177 ss. In realtà, come spiegato nell’External impact study, la decisione dell’attore di intraprendere un’azione legale è ben più complessa essendo «the result of a rational initiative undertaken by individuals or companies seeking a positive payoff. In this section, we introduce a very simple model of incentives to sue, which we will refine in the next sections. Assume that the prospective costs for a plaintiff are the opportunity cost of time spent in litigation (OCt) or settlement (OCs), costs of access to courts (AC) and – depending on the fee allocation rule chosen – legal costs for litigation (LCt) and settlement (LCs). Expected rewards are the damages claimed (D), times the probability of winning at trial (w), and the expected settlement amount (S), times the probability to settle the claim before trial (1 – p).303 The plaintiff will then sue whenever p[wD – (OCt + LCt + AC)] + (1 – p)[S – (OCs + LCs)] > 0 ,where OCs < OCt; LCs < LCt; and S < D».

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4. Quando si parla di costi di un’azione legale si è soliti fare riferimento a due distinte tipologie di spese11:

i) le spese di giustizia (tasse di giustizia, costi di esperti nominati dal giudice, ecc);

ii) le spese legali (proprie e della controparte), rappresentate prevalentemente dagli onorari degli avvocati e di eventuali periti nominati dalle parti.

Entrambe tali tipologie di costi assumono una particolare rilevanza in sede di decisione se intraprendere, o no, un’azione risarcitoria antitrust in quanto pongono il potenziale attore di fronte a due distinti tipi di rischio:

«the obligation for the claimant to pay certain fees upfront, which may discourage

potential claimants if the fees are high, and the general application of the “loser pays” principle, pursuant to which the unsuccessful litigant has to bear the costs of the civil action»12.

Nel Libro Bianco il capitolo relativo ai costi delle azioni risarcitorie

antitrust e alla conseguente necessità di individuare misure suscettibili di rendere più effettive ed efficienti tali azioni è affrontato con specifico riferimento alle transazioni (a), alle norme che fissano le spese di giustizia (b) e alle regole che presiedono al riparto delle spese legali tra attore e convenuto (c).

5. Con specifico riferimento alle transazioni il Libro Bianco invita gli Stati

membri a prendere seriamente in considerazione i meccanismi che agevolano la composizione amichevole delle controversie, evidenziando che per tale via si potrebbero ridurre, o in taluni casi addirittura eliminare, le spese che sia le parti sia il sistema giudiziario devono sopportare.

Correttamente, peraltro, nel Libro Bianco si evidenzia che l’efficacia dello strumento della transazione è direttamente proporzionale all’efficienza delle azioni giudiziarie, posto che, considerato in sé stesso, lo strumento della transazione non sembra in grado di assicurare alle vittime degli illeciti antitrust un effettivo diritto al risarcimento dei danni subiti. In quest’ottica il Libro Bianco mette in luce che

«potential defendants will only be willing to settle if their chances of losing in court are

credible and if the risk associated with such loss is not negligible. Similarly, the terms of a settlement will be more satisfactory to the alleged victims if their chances of winning in court are credible and the amount of damages they may eventually obtain adequate»13.

11 The notion of costs generally covers two different categories of costs: court costs and party costs. Court costs are defined as all costs generated by the court, such as court fees, fees for experts appointed by the court and expenses incurred by witnesses ordered by courts. Party costs are defined as all costs that are not court costs, in particular lawyers’ fees, experts appointed by the parties, parties’ expenses». Commission staff working document, cit., p. 74, nota 127. 12 EC Commission staff working paper annex to the Green Paper damages actions for breach of the EC antitrust rules, cit. p. 57. 13 Commission staff working paper accompanying the White Paper on damages actions fro breach of the EC antitrust rules, cit., p. 75.

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Per quanto riguarda le spese di giustizia il Libro Bianco riconosce che spese di giustizia particolarmente elevate (e che di regola devono essere pagate dall’attore all’inizio dell’azione) possono rappresentare un forte disincentivo, soprattutto quanto l’attore è un soggetto finanziariamente debole (e.g., consumatore finale). Per questo motivo il Libro Bianco invita gli Stati membri

«to set their court fees in an appropriate manner so as they do not constitute a disincentive

for antitrust damages claims»14. Per quanto lodevole l’invito del Libro Bianco appare quantomai generico e

di difficile attuazione pratica, posto che, allo stato, non appaiono chiare le modalità attraverso le quali è possibile giungere all’individuazione di quello che potrebbe essere definito il “livello ottimale di spese di giustizia”, ossia quel livello che non ostacola in modo sproporzionato l’avvio di un’azione risarcitoria antitrust, senza nel contempo agevolare la proposizione di unmeritorious claims.

6. Più articolato, per contro, si presenta il discorso relativo alle regole che

all’interno dei singoli Stati membri disciplinano il riparto dei costi di un’azione legale (spese legali e spese legali) tra attore e convenuto (c.d. fee allocation rules). A tale riguardo, infatti, è stato evidenziato che, sebbene vi siano numerosi contributi dottrinali che hanno esaminato l’impatto dei vari sistemi di riparto dei costi di un’azione legale sugli incentivi a ricorrere alla tutela giudiziaria, allo stato non è possibile trarre indicazioni univoche con specifico riferimento al tema delle azioni risarcitorie antitrust. In particolare, lo studio indipendente condotto, su incarico della Commissione, dal Centre for European Policy Studies insieme con l’Università di Rotterdam e l’Università LUISS di Roma, citando un importante lavoro del Professor Avery W. Katz (Georgetown University), ha messo in luce il fatto che

«the current state of economic knowledge does not enable us to reliably predict whether a

move to fuller indemnification would raise or lower the total costs of litigation, let alone whether it would better align those costs with any social benefits they might generate. The reason for this agnostic conclusion in straightforward. Legal costs influence all aspects of the litigation process, from the decision to file suit to the choice between settlement and trial to the question whether to take precautions against a dispute in the first place (…). The combination of all these external effects are too complicated to me remedied by a simple rule of “loser pays”. Instead, indemnity of legal fee remedies some externalities while failing to address and even exacerbating others»15.

Tale scenario risulta, inoltre, ulteriormente complicato dal fatto che i vari

studi condotti hanno evidenziato che gli effetti (in termini di incentivi/disincentivi ad intraprendere un’azione legale) delle regole che disciplinano il riparto delle spese legali tra attore e convenuto non possono essere analizzati isolatamente, posto che tali effetti risultano a loro volta influenzati da una serie di fattori

14 Commission staff working paper accompanying the White Paper on damages actions fro breach of the EC antitrust rules, cit., p. 75. 15 A. KATZ, Indemnity of legal fees, in BOUCKAERT, DE GEEST (eds.), Encyclopedia of law and economics, Vol. V, The economics of crime and litigation, 2000.

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esogeni attinenti sia ad aspetti relativi al processo (disciplina dell’accesso alle prove, tipologia di danni che possono essere risarciti, ecc.), sia a caratteristiche ed attitudini sociali e culturali dei singoli Stati e dei relativi cittadini16.

In tale contesto, si osserva che il criterio di riparto delle spese legali di gran lunga più diffuso (perlomeno in Europa) è costituito dal c.d. loser pays principle (“chi perde paga”), in base al quale la parte soccombente nel giudizio è tenuta non solo a provvedere alle proprie spese, ma anche al pagamento dei costi sostenuti dalla controparte.

Tale principio assume ai fini che qui interessano una duplice valenza. Da un lato, attesa la sua ampia diffusione all’interno dei singoli Stati membri, costituisce una sorta di imprescindibile paradigma, giacché, come si legge nel Libro Bianco, le proposte e i suggerimenti formulati dalla Commissione mirano a delineare un quadro del private enforcement autenticamente europeo, nel rispetto della cultura e delle tradizioni giuridiche europee. Da quando punto di vista assai significativo risulta il fatto che tanto il regolamento n. 861/2007 in materia di controversie di modesta entità17 sia la direttiva 2004/48/CE sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale18 hanno espressamente codificato il principio in esame, seppur con alcuni temperamenti. Dall’altro lato, pur riconoscendo che, in linea di massima, il principio “chi perde paga” appare in grado di svolgere un’importante funzione deterrente nei confronti delle azioni speculative e temerarie, mentre presenta effetti neutri nell’ipotesi in cui l’attore è ragionevolmente sicuro di vincere la causa e di recuperare interamente (o in larga misura) i costi sostenuti, è stato evidenziato che tale principio può generare ambiguous effects allorché: a) la domanda di risarcimento del danno ha ad oggetto una modesta somma di denaro rispetto alla quale le spese legali possono risultare sproporzionate anche in ipotesi di vittoria e della conseguente possibilità di ottenere l’integrale rifusione delle spese; b) l’esito del giudizio non appare facilmente prevedibile19.

In sostanza, l’impressione che si ricava sembra andare nella direzione per cui il principio in esame svolge un’importante funzione in termini di selezione dei casi, incentivando le azioni meritorie e operando come freno rispetto alle azioni temerarie, con conseguenti effetti postivi in termini di giustizia correttiva.

Per quanto riguarda, invece, gli effetti del principio “chi perde paga” in termini di deterrenza, lo studio indipendente ha evidenziato che

16 A tale riguardo l’External impact assessment, cit., p. 177, evidenzia che «fee allocation rules cannot be analysed in isolation, as their impact depends both on other procedural rules, as well as on even less controllable factors, such as cultural attitude towards litigation and other country-specific substantive differences between jurisdictions». 17 Regolamento (CE) n. 861/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’ 11 luglio 2007, che istituisce un procedimento europeo per le controversie di modesta entità, in G.U. U.E.L 199 del 31 luglio 2007, p. 1 ss. 18 Direttiva 2004/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, in G.U.U.E. L 157 del 30 aprile 2004, p.45 ss. 19 Come si legge nel Libro Verde, cit., punto 217, «although this is probably true for a number of areas of the law, the dilemma is likely to be particularly acute for damages claims in competition-related cases: these often will depend on complex factual (as well as possibly legal) assessments and may therefore “go either way”. In terms of cost recovery this will put the risk associated with this uncertainty on the claimant, as it is he who will have to begin the action»,

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«the loser pays rule seems to perform better than the each party bears her own costs rule,

as it increases the net expected cost from engaging in illegal conduct and encourages high probability law suits. At the same time, the loser pays rule seems suitable to prevent over deterrence, as tortfeasors are more shielded from frivolous suits due to the “better” selection of cases that are litigated»20.

7. Di fronte a un simile scenario, il Libro Verde aveva formulato, al fine di

ridurre gli effetti disincentivanti del principio “chi perde paga” che si riscontrano soprattutto in relazione ai casi il cui esito è difficilmente pronosticabile, di attenuare le rigidità insite in tale principio, la proposta di prevedere la possibilità per il giudice, in presenza di determinate circostanze, di sottrarre l’attore soccombente all’obbligo di pagare le spese legali sostenute dal convenuto. In alternativa, il Libro Verde aveva suggerito di prevedere l’applicazione del principio “chi perde paga” soltanto nel caso in cui l’attore avesse agito in modo manifestamente irragionevole e temerario.

In linea con tali suggerimenti il Libro Bianco incoraggia espressamente gli Stati membri

«a dare ai tribunali nazionali la possibilità di emettere, preferibilmente all’inizio del

procedimento, provvedimenti relativi alle spese che deroghino, in determinati casi giustificati, alle regole abituali. Tali provvedimenti garantirebbero che l’attore, anche in caso di soccombenza, non debba sostenere tutti i costi della controparte»21.

In buona sostanza il Libro Bianco mostra di prediligere un approccio

basato sul principio “chi perde paga”, temperato, tuttavia, dalla possibilità per il giudice, in determinati casi, di introdurre un meccanismo di c.d. one-way fee shifting.

Si tratta di una soluzione tutt’altro che originale, se solo si considera che, limitandosi solo all’Italia, ai sensi dell’art. 92 cod. proc. civ. il giudice può:

a) escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice se eccessive o superflue;

b) indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese della controparte in caso di violazione del dovere di comportarsi con lealtà e probità;

c) in caso di soccombenza reciproca o di altri giustificati motivi, compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti.

A tale riguardo, peraltro, è stato sottolineato che se i meccanismi di one-way fee shifting possono indubbiamente rappresentare un incentivo pere l’avvio di un’azione legale, è altrettanto vero che tali meccanismi, proprio a causa del loro effetto incentivante, riducono l’idoneità del principio “chi perde paga” a fungere da naturale strumento di case selection, con conseguente rischio di incrementare anche l’avvio delle c.d. frivolous claims22.

20 External impact assessment, cit., p. 180. 21 Libro Bianco, cit., p. 11. 22 External impact assessment, cit., p. 182.

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Non deve essere sottovalutato, inoltre, il fatto che l’effetto incentivante dei meccanismi di one-way fee shifting varia a seconda del momento in cui la deroga alle normali regole sul riparto delle spese legali trova applicazione e viene, quindi, manifestato ai soggetti del giudizio. E’ chiaro, infatti, che l’effetto incentivante tenderà ad essere maggiore nel caso in cui l’attore è posto in grado di conoscere la regola concretamente applicabile prima dell’inizio del giudizio e minore nel caso in cui, come avviene in Italia, le deroghe al principio “chi perde paga” sono rimesse alla discrezionalità del giudice ed esplicitate soltanto con la sentenza.

D’altra parte, se, come sembra trasparire dal Libro Bianco, la facoltà di derogare alle tradizionali regole di fee allocation, in presenza di determinati casi giustificati, deve essere rimessa alla discrezionalità dei giudici nazionali, non appare chiaro come tale facoltà possa essere esercitata all’inizio dell’azione legale, vale a dire in una fase processuale nella quale, molto probabilmente, il giudice non dispone ancora dei necessari elementi per valutare, ad esempio, il carattere eventualmente eccessivo o superfluo delle spese legali sostenute dal convenuto vittorioso, oppure la condotta eventualmente contraria al dovere di lealtà o probità del convenuto vittorioso.

Una possibile soluzione potrebbe essere rappresentata dalla possibilità di prevedere il potere del giudice di sottrarre l’attore soccombente all’obbligo di pagare le spese legali del convenuto in ragione, non già della condotta processuale del convenuto, bensì delle caratteristiche soggettive dell’attore che lo rendono particolarmente debole, sotto il profilo economico, rispetto alla controparte (si pensi, ad esempio, all’ipotesi dell’attore-consumatore finale). In questo caso, tuttavia, al fine di evitare divergenze nella prassi applicativa, sarebbe, forse, più opportuno (seppur con tutti i problemi che una simile soluzione comporta, primo fra tutti quello relativo al rischio di una violazione del principio di uguaglianza nei confronti dei consumatori finali vittime di altri tipi di illeciti), prevedere per via legislativa che nelle azioni risarcitorie antitrust promosse da consumatori finali questi ultimi, anche se soccombenti, siano sottratti alle regole generali della rifusione delle spese legali sostenute dalla controparte. Sennonché tale soluzione, da un lato, sembra contraddetta dalla chiara presa di posizione del Libro Bianco il quale, pur senza specificare in quali casi si dovrebbe poter introdurre deroghe alle regole abituali in materia di spese e in che cosa tali deroghe dovrebbero consistere, ha in modo inequivoco escluso interventi di tipo legislativo per disciplinare il tema in questione. Dall’altro lato, si porrebbe il problema di stabilire se, accanto ai consumatori finali, esistono altre categorie omogenee di potenziali attori che, in ragione della loro debolezza economica, al pari dei consumatori finali avrebbero titolo per poter beneficiare di una deroga al principio del “chi perde paga” (si pensi, ad esempio, al concorrente A che agisca nei confronti di B per abuso di posizione dominante; in questo caso è facile osservare che rispetto all’impresa in posizione dominante anche i concorrenti, ancorché non consumatori finali, si trovano in una situazione di debolezza economica).

8. Il quadro che emerge anche da questa sommaria ricognizione dello stato

dell’arte rivela una straordinaria complessità del tema in questione resa ancor più delicata dal fatto che, nell’ambito del più vasto discorso relativo alle finalità del

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private enforcement e alla necessità di incentivare le azioni risarcitorie antitrust, il problema dei costi di tali azioni, come già accennato, non può essere valutato isolatamente in quanto risulta legato a doppio filo ad altri aspetti tipicamente procedurali del private enforcement quali l’entità dei danni risarcibili, le regole relative all’accesso alle prove, la natura (vincolante/non vincolante) delle decisioni delle autorità garanti nazionali, ecc.

In quest’ottica l’Opzione Privilegiata rivela chiaramente l’estrema delicatezza di ogni proposta relativa allo specifico tema in questione. Se è vero, infatti, che da un punto di vista sostanziale il passaggio dall’Opzione 3 all’Opzione 4 non introduce alcuna differenza in ordine ai criteri di riparto delle spese legali (applicazione del principio “chi perde paga” con possibilità di introdurre meccanismi di one-way fee shifting), è altrettanto vero che la scelta dell’Opzione Privilegiata di ricorrere a meccanismi di c.d. moral suasion risponde ad una precisa scelta di politica del diritto. Come si legge nella Valutazione di impatto che accompagna il Libro Bianco, infatti,

«under the Preferred Option the cost rule will not take the form of a legislative measure,

but only of identification and recommendation of good practices. Should the good practices be fully implemented at national level, the objectives would be achieved as much as in Policy Option 3, but at lower implementation costs. A non-binding instrument of course entails a strong risk of lack of, or divergence in , implementation at national level, thereby possibly hindering attainment of the objectives. However, given the wide recognition in the Member States of the “loser pays” cost rule and the fact that in some the court may already deviate from this rule by shifting or capping costs in all or under limited circumstances, the objectives pursued by recommending the cost rule of Policy 3 seem to be realistically achievable at national level without legislative intervention at EU level»23.

Sennonché qualche perplessità in ordine alla concreta idoneità degli

strumenti di moral suasion a spingere gli Stati membri a modificare le proprie legislazioni interne in settori particolarmente delicati e complessi, quali quelli della responsabilità civile, nei quali gli aspetti giuridici convivono e si fondono con non meno importanti aspetti sociali e culturali, appare più che giustificata. Tanto più ove si consideri che la stessa valutazione di impatto, nello stimare i costi e i benefici dell’Opzione 4, ipotizza (soltanto) due scenari, entrambi positivi: quello nel quale tutti gli Stati membri si conformano alle best practices suggerite e quello nel quale soltanto alcuni Stati membri si comportano in tal senso. Nulla, per contro, viene detto a proposito dell’ipotesi (tutt’altro che irrealistica nell’ambito di una scelta di politica del diritto che si affida a strumenti di soft law) in cui nessuno Stato Membro decida di conformarsi alle raccomandazioni formulate.

23 Impact assessment, cit., p. 56 ss.

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Relazione a conclusione dei lavori

Alberto Toffoletto Spero di rendermi interprete dei sentimenti di tutti i presenti nel dire che è stato un incontro di altissimo livello e che abbiamo ascoltato relazioni di grandissimo interesse. Anche per questo, quindi, desidero ringraziare il Professor Prosperetti non solo per avermi invitato, ma per avere ideato e organizzato questo convegno, su un tema estremamente delicato quale è quello del risarcimento del danno antitrust. Vorrei esprimere grande soddisfazione per il fatto che siamo arrivati ad avere un Libro Bianco sul risarcimento del danno antitrust; sono trascorsi cinquant’anni dal Trattato di Roma ed è molto importante che finalmente la Commissione abbia preso una posizione formale su questo punto. Se pensiamo che in Italia ancora nel 2002 abbiamo sfiorato la possibilità, grazie alla Corte di Cassazione, che i consumatori fossero esclusi dalla tutela, è veramente importante che con il Libro Bianco si sia imboccata una strada culturalmente molto avanzata da questo punto di vista. Pur con tutti i distinguo, mi pare che il Libro Bianco rappresenti un grande passo in avanti. Non credo, peraltro, che – come pure è stato detto oggi – il Libro Bianco rappresenti un incentivo alla litigiosità; è invece un incentivo affinché gli ordinamenti si dotino di strumenti che assicurino la tutela dei cittadini, che è cosa ben diversa. Laddove i cittadini vengono ingiustamente danneggiati, è giusto che abbiano la possibilità di reagire. Da questo punto di vista, mi pare da salutare favorevolmente il fatto che il Libro Bianco abbia adottato – mi ricollego a quanto diceva il Professor Bastianon – un’impostazione tradizionale, e non un’impostazione di policy. Con ciò intendo dire che il Libro Bianco, confermando la giustezza del sistema di enforcement a doppio binario tipico dell’Europa, sia intervenuto per migliorare il sistema della tutela compensativa, che in effetti non sta funzionando come dovrebbe. Un’impostazione di policy è invece quella americana, con il sistema del danno triplo e con il riconoscimento della legittimazione ad agire per il risarcimento del danno al soggetto più vicino alla violazione, a prescindere dal fatto che abbia effettivamente subito un danno (si pensi alla legittimazione ad agire del compratore diretto, anche se abbia scaricato il danno a valle sull’acquirente finale). Anche su questo, la scelta del Libro Bianco mi trova favorevole. Naturalmente vi sono scelte discutibili nel documento; va peraltro ricordato che il diritto comunitario approccia con cautela il rapporto con gli ordinamenti degli Stati membri, e da questo punto di vista giustamente la Corte di Giustizia, quando affronta il problema dei soggetti legittimati ad agire per il risarcimento del danno antitrust, usa l’espressione “chiunque”, senza tuttavia entrare in ulteriore dettaglio – peraltro, vi è esplicito riferimento alla tutela dell’acquirente indiretto, profilo estremamente rilevante nell’ambito degli illeciti antitrust. In effetti, almeno in Italia, l’interesse per il profilo risarcitorio nel diritto antitrust è stato principalmente innescato dal caso del cartello tra le compagnie di assicurazione: ma bisogna considerare che si tratta di un

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caso molto particolare, poiché nel caso delle assicurazioni l’impresa che produce il servizio è a diretto contatto con l’acquirente del medesimo. Di regola, tuttavia, non è così: tra l’impresa produttrice autrice dell’illecito e il consumatore finale, si interpongono una serie di livelli distributivi e quasi sempre gli intermediari sono in grado di scaricare l’extra-prezzo pagato al livello inferiore e dunque, in ultima analisi, sul consumatore finale che resta l’unico vero soggetto danneggiato. È quindi particolarmente importante che il Libro Bianco abbia preso posizione su questo punto; si tratta, tuttavia, di una presa di posizione un poco timida: il profilo della prova, in particolare, è impostato a mio parere correttamente, ma senza trarne tutte le dovute conseguenze. A questo proposito, mi pare giusto segnalare che la giurisprudenza italiana ha sviluppato abbastanza rapidamente una serie di principi condivisibili: in particolare, è da segnalare una pronuncia della Corte d’Appello di Torino che ha colto un passaggio fondamentale, affermando che l’acquirente diretto che abbia scaricato il danno a valle non possa essere legittimato ad agire per il risarcimento. Non solo: la Corte ha anche rilevato che, ove l’acquirente diretto sia consapevole dell’illecito e, nonostante ciò, trasferisca l’extra-prezzo a valle, egli stesso rischi di rendersi compartecipe dell’illecito. Mi sembra un passaggio molto importante, sul quale il Libro Bianco avrebbe forse potuto spingersi oltre quanto abbia fatto. A me pare, in effetti, un principio del tutto condivisibile, e da questo punto di vista la mia posizione si discosta da quella adottata – se ho ben capito – dal professor Prosperetti, secondo cui il trasferimento a valle dell’extraprezzo da parte dell’acquirente diretto sarebbe quasi obbligato in applicazione dell’obbligo del danneggiato di minimizzare il danno. Credo, invece, che la minimizzazione del danno debba essere ricercata non trasferendo l’illecito a valle, ma al contrario agendo immediatamente contro l’autore dell’illecito. Un ulteriore spunto, in materia di tutela contro l’extraprezzo, è costituito dall’applicazione dell’istituto della nullità parziale del contratto: applicato alla clausola di prezzo, questo istituto consentirebbe di giungere alla restituzione dell’extraprezzo pagato attraverso un’azione certamente più semplice di quella risarcitoria. Anche di questo, non vi è traccia nel Libro Bianco mentre, di nuovo, qualche apertura nella giurisprudenza italiana sembra intravedersi. Quanto al profilo dell’individuazione dei soggetti legittimati ad agire, giustamente a mio parere, il Libro Bianco rinvia alle regole presenti in ciascun ordinamento: è una scelta comprensibile e condivisibile, che tuttavia dispiace in quanto priva la Commissione della possibilità di analizzare alcuni aspetti importanti e problematici. Tra questi, particolarmente rilevante è il tema della tutela risarcitoria dei consumatori esclusi, coloro, cioè, che a causa dell’illecito antitrust hanno rinunciato all’acquisto del bene o del servizio interessato – tema cui faceva riferimento il professor Prosperetti. Io credo, sotto questo profilo, che la tutela del consumatore escluso debba in linea di principio essere senz’altro affermata; esistono certamente rilevanti problemi di prova, specie con riguardo al nesso causale tra illecito e decisione di rinunciare all’acquisto, nonché delicati problemi di individuazione e di quantificazione del danno. Ma che la tutela di questi soggetti debba essere affermata non mi pare potersi revocare in dubbio. Più in generale, ritengo che tutti i soggetti che a seguito della riduzione dell’output causata dall’illecito antitrust (sia nella forma del cartello, sia in quella dell’abuso di posizione dominante), e quindi consumatori,

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fornitori, lavoratori, siano stati esclusi dal mercato, debbano poter agire per ottenere il risarcimento del danno subito. Si tratta di un danno diretto, causa diretta dell’illecito antitrust, e tipico dell’illecito antitrust (che porta sempre con sé questo effetto), che reclama una tutela. Quanto al tema dell’accesso alle prove, la posizione assunta dal Libro Bianco mi è parsa, ad una prima lettura, un poco allarmante: l’idea che, nel nostro processo civile, possa introdursi un meccanismo di accesso “forzoso” alle prove, mi è sembrata alquanto preoccupante. Tuttavia, le osservazione fatte dal professor Cavallone su questo punto mi pare abbiano fugato buona parte dei miei iniziali timori. Un profilo collegato, anche se distinto, è quello relativo ai rapporti tra il giudizio ordinario e i provvedimenti dell’autorità amministrativa incaricata dell’applicazione delle norme antitrust. Credo che l’impostazione corretta sia quella proposta dal professor Perfetti: la vincolatività del provvedimento amministrativo per il giudice ordinario dovrebbe essere limitata all’accertamento dei fatti, e non spingersi sulla qualificazione giuridica della fattispecie. Ad oggi, del resto, mi pare sia questa la posizione della giurisprudenza ordinaria (almeno in Italia). È vero che la vincolatività è già un fatto per i provvedimenti della Commissione CE, in virtù delle disposizioni del Regolamento 1/2003; ma l’estensione ai provvedimenti dell’autorità amministrativa nazionale mi sembra una questione molto delicata. Sotto questo profilo, ho l’impressione che Mr. Baker non abbia colto appieno il senso delle osservazioni fatte dal professor Denozza: per effetto della discrezionalità che si riconosce all’autorità amministrativa, combinato con il sindacato limitato che il giudice amministrativo applica ai provvedimenti dell’autorità, vi sono aspetti dei provvedimenti dell’autorità antitrust che in effetti finiscono per non subire alcun sindacato. Se così è, non è auspicabile che tali provvedimenti facciano stato nel giudizio ordinario. Tuttavia, la posizione della Commissione su questo punto sembra molto netta, e sembra quindi che questo sarà lo scenario con cui dovremo fare i conti. Credo allora che l’attenzione debba concentrarsi sul diritto di difesa nel procedimento avanti all’autorità amministrativa, elemento essenziale per assicurare giustizia nell’applicazione delle norme. L’Autorità antitrust dovrà, a mio parere, imparare ad essere più “para-giurisdizionale” di quanto – nonostante si sia sempre definita tale – non sia oggi, e così in particolare dovrà rispettare i diritti di difesa e, soprattutto, motivare i propri provvedimenti confutando gli argomenti della difesa – cosa che oggi quasi mai avviene. Proseguendo, mi pare da condividere l’analisi proposta dal Libro Bianco in merito al trattamento dell’elemento della colpa nell’illecito antitrust, in particolare per quanto concerne l’idea che la violazione delle norme sia sufficiente a radicare la colpa nell’autore dell’illecito. Ritengo molto interessante anche l’idea, proposta dal Libro Bianco, della produzione di guidelines sul risarcimento del danno, e da questo punto di vista ho trovato di estremo interesse la relazione del professor Prosperetti, molto utile dalla prospettiva del giurista. Idea interessante, dicevo, ma da utilizzarsi con cautela: come si è visto anche in altri campi, un uso non accorto dello strumento delle guidelines può rivelarsi pericoloso, in quanto porta alla cristallizzazione di prese di posizione che risulta poi molto difficile scardinare anche ove sarebbe opportuno.

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Trovo condivisibili anche le considerazioni del Libro Bianco in materia di prescrizione, tese alla giusta prospettiva di evitare che la prescrizione possa diventare un elemento a vantaggio dell’autore dell’illecito. La posizione del Libro Bianco mi pare da condividere anche per quanto riguarda il profilo delle spese del giudizio; peraltro, per quanto riguarda l’Italia, mi pare che i giudici sostanzialmente già applichino, da tempo, i criteri che la Commissione suggerisce. Naturalmente l’allocazione delle spese non deve diventare un ostacolo all’accesso alla giustizia; d’altra parte, però, l’esperienza americana dimostra come l’utilizzo delle class action in funzione ricattatoria possa costituire un serio problema. Vorrei chiudere proprio con qualche considerazione sulle class action. Ritengo che si tratti di uno strumento indispensabile; sono convinto peraltro che il profilo delle interferenze tra obiettivi di deterrenza e funzione compensativa sia molto rilevante, e in questo ambito ho trovato molto interessante la relazione di Francesco Denozza e Luca Toffoletti. A titolo di ipotesi dialettica, vorrei però far rilevare che la compensazione pura non dovrebbe creare problemi di eccesso di deterrenza, in quanto l’autore dell’illecito dovrebbe essere in grado di generare ricchezza in eccesso rispetto al danno creato, e quindi non dovrebbe temere la sanzione risarcitoria in un sistema di pura compensazione. D’altra parte, mi pare che abbia una rilevanza fondamentale in questo ambito il tema della probabilità della scoperta dell’illecito – tema che la relazione di Denozza e Toffoletti dichiaratamente non prende in considerazione. Poiché infatti l’illecito antitrust, nel nostro sistema, ha conseguenze puramente economiche e non implica responsabilità penali, è chiaro che i potenziali autori degli illeciti decidono il livello di compliance con la normativa anche sulla base di calcoli di natura economica, nei quali assume evidentemente grande importanza la probabilità di essere scoperti. Grazie per l’attenzione.