“Prima o poi torno” di Federica Gramegna

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Èchos26

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© 2013 Edizioni Ensemble, Roma

I edizione ottobre 2013

ISBN 978-88-97639-95-4

www.edizioniensemble.com

[email protected]

Edizioni Ensemble

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Federica Gramegna

Prima o poi torno

Edizioni Ensemble

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A mia madre,che con i suoi insegnamenti mi ha permesso

di realizzare il sogno più grande.E ai miei due angeli che, a un cielo di distanza,

vedo sorridermi da dietro una nuvola.

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Preludio

Una valigia color cartone, il manico è rigido e tu lo tienistretto. Ti avvolge, come la pioggia che si prepara a scendere danuvole grasse, poco rassicuranti.

Aspetti un taxi, i clacson ti assordano, la folla attorno a te dite non si accorge. Eppure sono loro. Le strade rumorose che haipercorso distratto prima di arrivare a scuola. I tragitti fatti ma-no nella mano con la tua migliore amica. L’ambulante all’ango-lo con il volto sfigurato dall’attesa. Le campane di mezzogiornoche hanno orchestrato il tuo primo bacio. Il tuo vicino in bici,rumoroso ma affidabile. I volti e gli amori vissuti, o troppo tar-di conosciuti. Lui che avrebbe voluto essere tuo amico, ma nonne ha avuto il tempo.

L’orologio segna le quattro, vedi il taxi in lontananza e intan-to ti domandi perché sei uscito così in fretta. Forse un trillo ditelefono, pochi minuti fa, avrebbe reso una persona felice o temolto più triste.

Ma è tardi, sei già dentro. “All’aeroporto, grazie”.L’ultima parola la pronunci piano, quasi sottotono. Poi vol-

ti la testa verso il finestrino.Piccole gocce tintinnano lungo il vetro. Cadono lente, pre-

ludio di quel che ti aspetta. Come il tuo sorriso, ora.

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Istantanee della tua vita battono tamburi, a ritmo di violini,in una lacrima di zucchero e cartone.

È anche questo la tua generazione.

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A Bruxelles

Cara Bruxelles,

così uniti credo tu ci abbia visto tante altre volte. Nei vicolidella Grand Place, a mangiare una gauffre calda con cioccolata emiele; al Sablon, con le mani piene di cioccolatini firmati Mar-colini; nel quartiere très chic di Avenue Louise, a fare shopping,prima di riprendere il tram verso casa; in Place du Luxembourg,per gli amici Place Lux, con una birra in una mano e nell’altrail cellulare a urlare a gran voce “Ci sei?”; in Place Jourdan, daMamma Roma, a tirare le somme sulla pizza in Belgio; a Saint-Géry, che per arrivarci segui il mappamondo, e infine nelle no-stre case: Rue du Cornet 46, Avenue de Tervueren 143, Rue duBerceau 11, Rue Franklin 6 e tante altre ancora…

Luoghi cult che ci hanno visti ridere, domandare, chiederedi noi, di loro, dei presenti e degli assenti. Perché? Perché nonsi sa mai.

Nelle nostre case si mangia tanto e all’italiana. Niente cozzee patatine fritte, ma l’amalgama internazionale di spagnoli, gre-ci e francesi non manca mai. “E i miei connazionali dove so-no?”, ti starai chiedendo insoddisfatta. “Ci dispiace, ne cono-sciamo pochi, anche se ci abbiamo provato, credici”.

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Noi italiani facciamo “comunella”, si sa, e intanto fuori tunon ci risparmi la pioggia. Certo che con questo clima è diffici-le resistere alla tentazione, ma poltrire a casa è assolutamentevietato dalle regole del gioco. Quello frenetico, di squadra, chequi ti prende e ti fa conoscere, avanzando pretese.

Stasera però siamo tra di noi, possiamo anche fare a meno digiocare. Per stare bene ci basta solo una chitarra che ripercorrala cultura e la canzone della nostra bella Italia. Riparati tutti sot-to la stessa tettoia, insieme, alcuni per coraggio, altri per paura.

Guardaci ora, Bruxelles, e ascoltaci. Al diavolo le discoteche.Quello che abbiamo da dirti parla di te, di noi dentro te. Gra-zie per averci lasciato entrare. Il badge che ci rilasci è speciale,ma ce lo giocheremo poi. Ora parliamone. A tu per tu, o me-glio, in tre per te.

Lei ora può solo origliare. Pensarvi insieme mi fa palpitare.

E allora è giunto il momento di iniziare a raccontarsi. Tucontinua pure a incidere i minuti al ritmo frusciante del vento,ma lascia che ci si narri tutti, nello spazio di poche pagine chededichiamo anche a te, crocevia di stranieri passanti, forieri disperanze, con l’ombrello aperto sul mondo ad aspettare che pio-va, per guardarti dentro e riscoprirsi se stessi, lontani, eppure vi-cini, a un tempo passato quando tu ancora non ci conoscevi.

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Poi un giorno, disegnando un labirinto di passi tuoiper quei selciati alieni,ti accorgi con la forza dell’istinto che non son tuoie tu non gli appartienie tutto è invece la dimostrazione di quel poco che a vivere ci è datoe l’Argentina è solo l’espressione di un’equazione senza risultato,come i posti in cui non si vivrà,come la gente che non incontreremo,tutta la gente che non ci amerà,quello che non facciamo e non faremo.Francesco Guccini, Argentina

Questa è una storia che inizia da lontano, da un pezzo di ter-ra verde che confonde lacrime e sapere. Il nostro, quello dei pa-dri e di chi ancora si fermerà ad ascoltare, ora in silenzio, ora do-mandando, il racconto di un destino, di una generazione tuttada narrare.

Anche quando il riflesso della luna smaschererà gli anni,poggiando la luce sui loro volti solcati dai ricordi. E allora nonsi farà mai notte.

Al chiarore della luna, un eterno fanciullo balla audace il suoultimo tango.

Maximo ha gli occhi del bambino che è stato. Non ha frettadi dire il presente, alcune frasi sono sgrammaticate, l’accento ri-

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vela subito la sua origine, finché una nenia aggraziata non si le-va a cantare l’Italia. Quella della domenica mattina trascorsa infamiglia a casa dei nonni paterni, che fa di Dante il portaban-diera della nostra lingua. La sfida, per il piccolo Maximo, è im-parare l’italiano per leggere la Divina Commedia, che inizia asfogliare a soli quattro anni.

La lettura dei gironi danteschi, in braccio al nonno, si alter-na ai racconti di una Roma che sulle sue carrozze, all’ombra deipini, lungo il Tevere in ascolto, porta a spasso le belle “ciuma-chelle” che salutano i soldati con un goodbye my darling. Le stes-se fanciulle che la sera rimangono affacciate, con il cuore in at-tesa, sui balconi in fiore. È il popolo delle dolci ninarelle, deicantori e degli uomini in doppio petto che con audacia sannodi dover ricostruire il Paese sulle rovine del passato, infondendosperanza, senza mai dimenticare lo stornello e la canzone. Lacultura italiana del dopoguerra, quella Roma forestiera e citta-dina, artista e contadina, le cui origini di popolarità e sfarzo nar-rano al contempo una storia vecchia di mille anni, ma fresca dipoche ore, quelle che succedono allo sbarco degli americani.

Qualcuno glielo avrebbe dovuto dire che “bastavano la sa-lute e un paio di scarpe nuove” e poi avremmo girato il mon-do accompagnandoci da noi, senza troppi fronzoli. D’altrondeil thank you filoamericano poco si intona con quel “grazzie”,pronunciato alla romana, più facile da rimare, da arpeggiare, eper Maximo – che ascolta con la testa appoggiata alla spalla delnonno – da amare e portare in sogno fino all’alba dei giorniventuri.

L’Italia è lontana. La separano dall’Argentina i pascoli e i pas-si delle donne che incedono fiere sulle orme dei loro figli. Co-me quelli della mamma e della nonna paterna di Maximo cheaccompagnano la sua crescita con racconti diversi, ognuno po-

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polato dalla presenza del Bel Paese, l’una argentina ma di geni-tori italiani, l’altra italiana da generazioni.

È soprattutto grazie alle loro storie che agli occhi di Maximol’Italia diventa speciale, proprio perché distante, tanto che perlui, ogni giorno che passa, è sempre più difficile capire le ragio-ni che hanno spinto i suoi genitori, e ancor prima i suoi nonni,a trasferirsi in Argentina. In realtà, non sa che il viaggio della suafamiglia sarebbe dovuto durare giusto il passaggio di qualchestagione. Invece di anni ne passano. In mezzo ci passa quasi tut-ta una vita. E a furia di ricordare, non ci si accorge che sta suo-nando la campana. A festa. Forse è ora di tornare. Ma dove, inquali luoghi? Innanzitutto, lungo il tragitto Brescia-Roma. Unitinerario divenuto mitico, nell’immaginario di Maximo, inquanto percorso dal nonno in bicicletta, in seguito all’8 settem-bre del 1943. Una storia leggendaria, che narra di spari di can-noni lasciati oramai a tacere alla spalle di una strada fangosa eimpolverata. Suo nonno sì che è saggio. Ne sa di tutto, da Dan-te ai fumetti, e poi ha pedalato tanto, lui. Un giullare semprepronto a recitare, oggi una poesia domani un consiglio, per il ni-pote che gli cresce accanto con lo sguardo di chi presto avrebbeavuto negli occhi la coltre della malinconia.

Saggio, e altrettanto cocciuto, al punto che il giorno in cuiMaximo subisce a cinque anni il suo primo intervento al cuore,decide che suo nipote “deve conoscere l’Italia” e che questa spe-ranza non sarebbe stata ricordata solo come il consiglio di unbuon “vecchio”, ma come un insegnamento di vita, di quelli cheti porti sempre dietro, anche quando pensi siano ormai supera-ti perché non hai più l’età per certi sentimentalismi.

Passano pochi mesi e quella frase perentoria – è il lontano1986 – si traduce in realtà, cambiando per sempre il futuro delnostro protagonista.

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La prima volta che Maximo vide Roma gli sembrò troppogrande per lui, un’immensa collina di luci e fontane. Mentreimmaginava i gladiatori lottare nel Colosseo, e lungo i fori im-periali cresceva l’orgoglio delle sue origini, si chiedeva cosa fos-se quel pulsare forte nel petto, quel sorriso che, camminando suisampietrini della città eterna, non va mai via. Lo capirà poi.

La testa sempre in alto a guardare le finestre dei sontuosi pa-lazzi romani che si nutrono delle voci del popolo. Certo l’archi-tettura è assai diversa da quella delle case in Argentina, ma aMaximo lo spirito sembra lo stesso. I trasteverini, davanti allachiesa di Santa Maria in Trastevere, accordano chitarre e vendo-no souvenir, dispensando a tutti un sorriso. In fondo, se avesse-ro anche loro le nacchere, sarebbe come a casa.

In Argentina, però, non avrebbe avuto la Rossa, una Ferra-ri da collezione che gli regala uno dei nipoti di suo padre, Mas-simo, insieme ad altri modellini di macchine antiche. Una piùbella dell’altra, che ti viene voglia di imparare a guidarle, quan-do devi ancora capire come funziona un motore. Tanto ci sonoi pedali a portarti al di là della sponda. Tra i due cugini, che siincontrano per la prima volta a Roma, ci sono ben tredici annidi differenza, ma a unirli è la passione per le automobili. Ma-ximo non sapeva che quel ragazzo, all’epoca maggiorenne,avrebbe voluto intraprendere in futuro la sua stessa carriera,studiando Economia e Commercio, per poi andare a lavorareall’estero, magari proprio a Bruxelles. Peccato, però, che il mo-tore, dopo averne capito il funzionamento, possa rivelarsi astu-to fino a ribellarsi e non rispondere più ai comandi. Nemme-no a quelli di un bravo oratore, quale sarebbe diventato Massi-mo se il motore non si fosse spento di botto nel 1990. In unoscontro di macchine, che bruciò il suo destino su un cementodi sogni infranti.

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Durante il viaggio di ritorno in Argentina, Maximo ha lasensazione di aver dimenticato qualcosa laggiù, non un fumet-to, non un giocattolo. Non conosce il termine esatto per defini-re quel che si è lasciato indietro, ma qualsiasi cosa essa sia, sen-te che un giorno viaggerà per riprendersela. E la metterà nel suozaino. È sicuro che il padre gliene prenderà uno più grande, unavolta cresciuto. Serve tanto spazio, di tempo ce ne sarà da aspet-tare, ma dopo averla presa la terrà al caldo, sulle sue spalle. Pro-babilmente per sempre.

L’occasione per tornare indietro, e capire, arriva solo al suodiciottesimo compleanno. Il nonno gli aveva promesso che co-me regalo per la maggiore età lo avrebbe portato lungo l’itinera-rio Brescia-Roma, per ripercorrerlo insieme in bici, proprio co-me aveva fatto lui ai vecchi tempi. Maximo aveva trascorso in-tere giornate a prefigurare il cammino, in compagnia del suozaino, depositario di ogni memoria. Certo, sarebbe stata dura,forse il nonno si sarebbe dovuto allenare un po’, ma non si po-teva dire che non fosse in gamba. Alla sua età aveva ancora laforza di litigare con la moglie. “Questo viaggio, in confronto al-le loro accese discussioni, sarà una passeggiata”, pensava. La re-sistenza c’era e il fiato pure. Eccome.

E invece, tutto a un tratto, il nonno torna in Italia, ma sen-za di lui. Maximo non immaginava, al ritorno da una gita sco-lastica di pochi giorni, che ad attenderlo ci sarebbe stata solouna poltrona vuota, la stessa su cui si era sempre seduto da bam-bino per ascoltare, più da vicino, i suoi sapienti racconti.

I genitori non sanno cosa dirgli e prendono tempo. Nonhanno certo la stoffa da romanzieri del vecchio saggio che hacresciuto loro figlio.

Ma Maximo non ha bisogno di troppe parole, lo intuisce dasé dopo un momento di profondo silenzio. Il nonno non sareb-

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be più tornato e quel lungo tragitto, da Brescia a Roma, loavrebbe dovuto affrontare da solo con uno zaino che ora, a met-terci le ceneri di famiglia, si sarebbe riempito di rabbia e frustra-zione, o forse solo di immatura incomprensione.

Maximo capisce che i genitori non gli hanno detto tutta laverità. Perché il nonno, la persona che lo avrebbe dovuto porta-re in Italia a fargli conoscere le meraviglie del suo Paese, eramorto proprio lì senza mantenere la promessa? Perché era parti-to sapendo che qualcosa sarebbe potuto accadere? Quante do-mande nella testa del piccolo Maximo. E purtroppo, accanto aloro, ben poche e confuse risposte. Il nonno soffriva di cuore ele complicazioni, si sa, lontano da casa sono sempre più diffici-li da sopportare. Eppure lui era così saggio, possibile che nonconoscesse i rischi della malattia?

L’Italia lo aveva fottuto, proprio lui che l’aveva amata tanto.Ma allora perché Maximo avrebbe dovuto esaudire il deside-

rio del nonno e tornare a Roma? In fondo, avrebbe potuto pian-gerlo anche in Argentina, pur senza una tomba su cui chinarsi.D’altronde, tra le mandrie al pascolo, è tutto un incedere di pas-si dalla memoria lunga. Lavorano la terra che il sole brucia dinostalgia. A cavallo dei suoi raggi, un’intera generazione nonconta più gli anni al passato e per ogni figlio portato in grembovi è l’idea che qualcuno, dopo di loro, ritroverà la pace. La for-tuna, quella per cui si era partiti allora, l’hanno già fatta. Dallavita non possono pretendere altro.

Maximo, invece, aveva ancora l’età per chiedere. E chiedevasolo di non dover scegliere. Tra un ritorno, che avrebbe significa-to ammettere la morte del nonno, e uno zaino da riporre per sem-pre nell’armadio, insieme a tutti i souvenir e alla palla di vetro conRoma in miniatura, che avrebbe obliato di colpo il suo sogno piùgrande. Sarebbe stato come farlo morire due volte, ma accettare,

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dentro di sé, l’eternità dell’affetto. Che decisione grande da pren-dere. E Maximo è ancora troppo piccolo. In quel momento nonpoteva che lasciar riposare la mente e andare a dormire in compa-gnia delle sue amate letture in cerca di una risposta. Fino a chenon fu la scuola a metterlo di fronte a una scelta.

L’istituto italiano, frequentato da Maximo, doveva essererappresentato nel Comune di Civitavecchia e per quella occasio-ne il più bravo della classe avrebbe dovuto portare la bandieraitaliana o argentina, a seconda del corso di lingua in cui aveva ivoti più alti. Maximo era il migliore in entrambe le materie. Co-sì, il direttore della scuola chiese direttamente a lui quale Paesedesiderasse rappresentare durante la manifestazione. Per Maxi-mo non c’erano dubbi.

In quell’istante, nell’aula con il preside, ogni immagine la-sciata a purificarsi dal dolore gli riaffiorò alla mente, in un im-provviso tripudio di chitarre e mandolini. Le nacchere? Quelleno, sono tipiche dell’Argentina. In fondo, il ritmo non è pro-prio lo stesso.

Quel pomeriggio, dopo la scuola, Maximo fece una grancorsa per arrivare a casa e, ancor prima di sedersi a tavola per lacena, esclamò ai suoi: “Ho scelto, sarà la bandiera italiana”. Dadietro il «Corriere della Sera», vide il padre sorridergli, con unosguardo complice, e la mamma farsi pensierosa. “I tuoi compa-gni non capiranno questo gesto, è l’Argentina che vai a rappre-sentare”. “E io”, avrebbe voluto aggiungere ma non lo fece, “so-no argentina”.

“Se questo ti dispiace, mamma, porterò la nostra bandiera”,le rispose Maximo con la voce spezzata. Nel frattempo, il padreaveva già ripreso a leggere, sapendo che in pochi minuti la que-stione si sarebbe risolta. Conosceva bene la moglie e ancora dipiù la testardaggine del figlio.

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“Ma no, ragazzo mio, porta pure la bandiera italiana se è ciòche desideri”. Due enormi sorrisi come a dire: “In fondo siamotutti una famiglia”. A Maximo, però, restava la responsabilitàpiù grande, quella che probabilmente il nonno avrebbe persinodato ragione alla moglie pur di assistervi, ma non senza polemi-che. Tanto poi l’ultima parola, si sa, sarebbe spettata a lui, cheera sempre stato il più forte.

Vedo Maximo prendere fiato, solo un momento. Lo guardonegli occhi e il suo sorriso è quello di una persona buona, vera,anche se parlandoci ho come l’impressione che questo ragazzonon sia mai stato bambino, cresciuto a cavallo tra la soglia di ca-sa e una pista aerea su cui far decollare, con fatica e orgoglio,tutto il sapere e la memoria della sua famiglia.

Viaggio di sola andata, direzione Roma, Italia o Italy, comepreferite. L’importante è che la busta non torni indietro. Il fran-cobollo, Maximo, è stato ben attento a bagnarlo con le lacrimedi chi lo ha fatto nascere.

– E a quel punto, Fede, Dio ha fatto una mossa –. La voce ècomplice, birichina, anch’essa, come lo sguardo sveglio di que-sto giovane ventisettenne.

Maximo torna in Italia, con la scuola, nel 1999. Ad acco-glierlo c’è una zia speciale, che negli anni a venire diventerà lasua principale alleata: zia Renata. Era stata lei a prendersi curadel nonno prima che morisse, e a vedere per l’ultima volta quelvolto, ancora sognante, spegnersi con un sorriso perché mortoin patria, non in Argentina, come sua moglie pochi anni prima.

Zia Renata gioca la carta più rischiosa, quella che una volta gi-rata svela la realtà e te la mette davanti senza scuse, dapprima soloimmaginata, poi finalmente pronta a essere compresa con tutte le

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conseguenze del caso. Tristi, ma anche loro dannatamente vere, co-me le situazioni che preferisci guardare da lontano, perché le sentidistanti da te, finché un giorno non ti raggiungono cogliendoti al-la sprovvista. Anche se non lo avresti mai creduto possibile.

Da portavoce di questa storia, quale sono, mi permetto diazzardare un giudizio.

Credo che Renata abbia visto, nell’espressione del nipote, lostesso bagliore che colpisce me, ora, mentre Maximo ricorda ilgiorno in cui per la prima volta pianse la morte del nonno.

La fatica è dolce, il respiro lento, perché non si può averefretta di ascoltare la traccia più dolorosa di questa storia.

“Abbi pazienza”, sembra volermi dire, “so di essere un chiac-chierone”. Non può far scendere le lacrime, questa è un’inter-vista, bisogna essere professionali. In fondo abbiamo tutti unamorte dolorosa che ci accompagna nella vita. La sua, Maximola ricorda con un’immagine: lui che prega su una tomba co-sparsa di gigli per poi finalmente abbandonarsi al pianto. Orasì che le lacrime possono scendere, ora che può guardare al suo“vecchio” con tutto il calore trasmessogli negli anni dalla melo-dia degli stornelli romani, dalla bellezza delle donne d’Italia –quelle che la meglio gioventù l’hanno cresciuta tra zappe e be-stiame – dall’amore per i libri di storia che esaltano l’Italia tut-ta, da Nord a Sud, ma non ne raccontano la trama più bella –per fortuna la sa il nonno – dal suono delle campane, lasciatecantare durante la messa a Santa Maria in Trastevere, dai sou-venir mostrati con orgoglio ai compagni di scuola. Chissà se lo-ro vedranno mai Roma…

E infine, un’altra istantanea: le gambe tremanti del nonno. Ma-ximo si era accorto che negli ultimi tempi gli era diventato semprepiù difficile raccontare e sperare con la forza di un uomo maturo.Per lui, che era tornato bambino. E tale, con lo spirito del giovane

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scampato ai bombardamenti, avrebbe voluto ripercorrere con il ni-pote il tragitto Brescia-Roma che lo aveva fatto uomo.

Chissà se pure quel ragazzino avrebbe imparato che la vita èuna sterzata improvvisa, che si fa volto e voce, ti chiede dove vuoiandare e se a quel punto la risposta non è ancora pronta – nem-meno lontanamente puoi giustificarne il ritardo, sarebbe scorret-to – allora meglio abbassare lo sguardo e provare a tastare con lasuola i ciottoli di varie forme che il primo sentiero ti offre.

Forse a metà strada, o solo alla fine del percorso, ti ritroveraidi nuovo a deviare, e troppe volte ancora dovrai sporcarti le scar-pe sul fango di sassi via via dalle forme più strane. Smussati, re-golari, screziati o privi di sfumature, possibile solo a un occhiodistratto.

Quando la vista si farà più audace, la mente diverrà critica eil passo caparbio, determinato, pronto a seguire il ritmo esagita-to dei tuoi pensieri. Allora, a quel punto, avrai fatto la tua scel-ta, avrai deciso di sterzare e di regalare alle tue iridi, uno a uno,il colore brillante dei ciottoli a terra.

La voce di Maximo si fa più sicura, il tono è chiaro, limpi-do, e lui torna a raccontarsi non smettendo mai di sorridermi.

Riprende la storia da una telefonata. Una volta ritornato inArgentina, Maximo riceve la chiamata di zia Seta, una delle so-relle del padre, che gli dice di aver letto nel suo sguardo l’amo-re caparbio per l’Italia e, come in una profezia di altri tempi, glirivela il futuro in poche, semplici, parole: “Tu ce la farai, ritor-nerai al tuo Paese, hai negli occhi la stessa luce che aveva mio fi-glio Massimo”.

Gli anni che seguono diventano per lui una sfida, non versogli altri, ma verso se stesso e il suo sogno più grande: fare ritor-no nella città eterna e a quella chiesa di Trastevere, le cui cam-pane sentiva ancora suonare a festa, nonostante tutto.

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Maximo si iscrive, in Argentina, alla Facoltà di Relazioni In-ternazionali e a quella di Economia e Commercio, malgrado loscetticismo della madre che vedeva per lui un futuro di contabi-le nell’azienda di famiglia. Ma ci sembra di aver capito che aMaximo le vie più semplici non siano mai piaciute.

Studio, solo studio. A tutte le ore del giorno. Chino sui libri,per conoscere e immaginare l’Europa unita, l’ideale di una so-cietà multiculturale che nasce per non disperdere la ricchezzadel mondo. E pensare ai propri figli come parte di una culturache non ammetta prestiti ma confronti, lasciando da parte,quando possibile, i calcoli d’interesse.

D’altronde l’Italia ha avuto un ruolo fondamentale in Euro-pa e Maximo lo sa.

Sa che essere italiano significa innanzitutto capire perché siè europei. “Andiamolo a raccontare oggi a chi ancora non cre-de in questo sogno”, sembra volermi dire mentre inizio a in-travedere la stoffa di chi la politica, non solo l’ha appresa suilibri, ma ha anche viaggiato per comprenderla, valutarne le ra-gioni per poi magari arrivare persino a disprezzarla. Senza mairinnegarla, però. Perché la politica ha fatto la Storia ed è gra-zie alla Storia che Maximo ora insegue quel sogno, e non unaltro, ed è sempre grazie a Lei – «nessuno si senta escluso, sia-mo noi queste onde nel mare, questo rumore che rompe il si-lenzio, questo silenzio così duro da raccontare» – che la sua fa-miglia conta le trame d’argento alle partenze e ai ritorni. InAustralia, Canada, Argentina. Lasciando traccia di sé nei vec-chi album di famiglia. O al di là del filo di un telefono, per-ché Maximo negli anni non ne ha mai perso il contatto in gi-ro per il mondo.

L’Italia erano loro e Bruno Vespa (Maximo lo conosce daquando ha dieci anni) la RAI e le canzonette, il Festival di San-

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remo. Perché alla fine, come diceva ridendo sua mamma, diquei sessanta canali messi dal padre negli anni Novanta netrionfava solo uno: il primo canale RAI. Anche all’estero – è pro-prio il caso di dirlo – la mamma è sempre la mamma però, peruna volta, possiamo essere orgogliosi di portarci dietro il pregiu-dizio dell’italiano “mammone”.

Durante gli anni dell’università, Maximo è spesso irascibile,anche con i suoi migliori amici, perché la sua ossessione è fini-re presto gli studi per poter andare definitivamente a Roma.

In tempi record fa il suo primo esame ed è il primo a laure-arsi su trecento studenti iscritti nel suo stesso anno.

Oggi ha 27 anni, ma continuo a pensare di avere di fronte unuomo di gran lunga più maturo della sua età. Mentre lo ascoltone stimo le parole, messe l’una accanto all’altra con cura sapiente,e mi dico che c’è tanto da imparare da questo ragazzo.

Come da tutti coloro che la vita se la costruiscono da sé, co-gliendo nell’alba di ogni giorno una speranza per il proprio futu-ro. Caso o destino che sia, forse entrambi, dipende sempre da noi.

«Siamo noi Bella ciao che partiamo».Possiamo immaginare di vedere questo verso correre lungo le

immagini in Power Point della tesi di Maximo. Niente conno-tazioni politiche, si intende. Prendiamolo come un riferimentopuramente casuale, ma che dice la verità. A quel “siamo noi” so-stituiamo un “sono io”… anzi no, lasciamolo pure intatto que-sto verso meraviglioso.

Anche perché, una volta discussa la tesi, è Maximo a partiredi corsa per l’aeroporto – e pensare che avrebbe perso il volo, selo avessero tenuto qualche minuto in più durante la discussione– direzione Roma, questa volta senza biglietto di ritorno o lacri-me con cui bagnare il francobollo.

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Il giorno successivo sarebbe sicuramente partito qualcunaltro, figlio di emigrati o anche di nessuno, accelerando il pas-so del taxi o godendosi il tramonto argentino lungo la via,mentre domani saremo noi, la nuova emigrazione professiona-le sicura di sé, apparentemente poco confusa, ad afferrare levaligie lungo un tramonto assonnato che profuma di terra ba-gnata, sullo sfondo di una Bruxelles che dice addio ai suoi mi-gliori europei.

La tesi. Lo avevamo lasciato lì a discutere del rapporto tra laRussia e l’Europa. Ma ora è davvero il caso di andare, non si puòindugiare tra abbracci e congratulazioni. Festeggeremo poi. Ma-ximo mi dice che per lui la tesi di laurea è stata un po’ come lafase del check-in: semplicemente un tramite amministrativo. In-dispensabile per la mossa successiva, quella per cui aveva biso-gno di sentire accanto a sé l’affetto dei genitori.

In aeroporto, poi, la frase più bella: “Preferisco un figlio rea-lizzato a uno infelice”. Quelle furono le prime parole d’incorag-giamento pronunciate dalla madre dopo tanti anni.

“Grazie mamma”, sembra pensare ora, in un breve attimo disilenzio in cui il suo sguardo parla da sé.

Sull’aereo per Roma, Maximo incontra un giornalista geno-vese che lavora nella capitale, così si ritrova immediatamente aparlare italiano. Per lui questo è un altro segno: la sua città cheritorna nei discorsi, nelle voci degli sconosciuti e in ogni suo ge-sto, anche il più semplice. Fino a che l’aereo non atterra e quel-la città diventa reale, però stavolta è una realtà diversa, non unagita o una vacanza, ma un ritorno a casa.

Chissà come sarà. Cosa mi aspetterà fuori. Come mi sentiròoggi. Oggi mi sento bene. Alla grande, direi. Nonostante la piog-gia che mi accoglie. Questa, no, proprio non me l’aspettavo.

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Passa una notte, e ne passano altre ancora, prima che Maxi-mo realizzi davvero di essere riuscito a coronare il suo sogno. Sa-ranno il Ferragosto, San Felice Circeo e una canzone a farglielocapire. Non una qualunque, bensì l’inno di Mameli, cantato dauna banda che, nel giorno più corto di quell’estate laziale, nonsapeva di suonare amore, lacrime e speranza.

“Ce l’ho fatta”. L’Italia cantata col cuore. Iddio la creò, conil suo cielo carta da zucchero e la cultura della bellezza, esteta dise stessa. Maximo si desta con lei, al chiarore di un azzurro si-lente che abbraccia l’immensa pianura della Pampa argentina,con il giallo dei girasoli e il promontorio sabbioso di San FeliceCirceo da cui, affacciandosi, si scopre quanto sia bello coccola-re i ricordi nello spazio di una natura che tutto a un tratto di-viene universalmente propria.

Maximo, una volta a Roma, inizia a sistemare la casa che untempo era dei nonni e che i genitori avevano affittato a studen-tesse universitarie. C’è da rifare il bagno e dare una ripulita allestanze, ma non è certo un problema. Se non fosse, però, che bi-sogna pensare anche al proprio futuro.

Nonostante abbia solo ventitré anni, ha le idee chiare sullacarriera che vuole intraprendere, ma sa che non è facile fare ipassi giusti. A consigliarlo è soprattutto uno dei cugini romani,tenace e determinato come lui, il quale gli suggerisce di parteci-pare a un concorso del Ministero degli Esteri, dove si sarebbedovuto occupare di politiche comunitarie.

All’inizio Maximo è scettico, non sa se possiede le compe-tenze giuste, poi, però, come sempre, si lancia. Si prepara scri-vendo tesine in italiano sull’Unione europea. Pur conoscendoaltre tre lingue (spagnolo, francese e inglese), non fa confusio-ne. Sbaglia solo qualche accento, ma il contenuto è perfetto,lineare, tecnico. La commissione esaminatrice non ha dubbi;

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così, nonostante qualche parola scritta male, la sua prova vie-ne premiata.

Quando riceve la notizia, Maximo è in Spagna, su una spiag-gia, a godersi l’estate. Un tuffo al telefonino e un altro al cuore,tant’è la gioia di essere stato preso.

Gli viene proposto un contratto da funzionario della duratadi un anno, ma a pochi mesi dall’inizio, si rende conto che quel-l’ambiente non fa per lui. Ci sono pochi giovani e il suo caponon sa neanche quale sia la differenza tra una direttiva e un re-golamento. Anche lui sente che dovrebbe approfondire quegliargomenti ed è così che decide di iscriversi a un master. Nel frat-tempo, invia una tesi sull’Europa per partecipare a una confe-renza prestigiosa in Svizzera, per cui avrebbero selezionato soloquindici persone e (non avevamo dubbi) senza troppe difficoltàriesce a entrare nella lista degli “eletti”.

Un bel biglietto da visita, peccato però che fosse l’unico ita-liano, tra l’altro in mezzo ad altri cinque argentini. Maximo ri-mane sorpreso della mancanza di italiani alla conferenza e lo èancora di più quando un giornalista gli chiede di unirsi ai suoicompatrioti per una foto da pubblicare sul principale giornaleargentino, «La Nación», pretendendo che Maximo si togliesse ilbadge da cui si vedeva che era italiano.

Lui risponde di no, vista la doppia nazionalità. Tuttavia, du-rante la conferenza, vengono scattate delle foto e – a volte èproprio singolare il destino − il giorno in cui Maximo rimettepiede in Argentina, dopo il viaggio di ritorno da Roma, prendeil giornale e… si ritrova in prima pagina!

Ma torniamo alla vita nella caput mundi. Siamo nel giugnodel 2006 quando Maximo decide di iscriversi a un master perapprofondire gli studi europei. La scelta ricade su quello del-

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l’Università degli studi Roma Tre, apparentemente una buonatappa per acquisire nozioni tecniche.

Il cugino, però, insiste affinché si iscriva al Collegio d’Euro-pa, una delle scuole più prestigiose per chi vuole lavorare nelcampo degli affari europei, nel pieno ritmo di Bruxelles. Duesono le principali destinazioni: Bruges, in Belgio, e Natolin, inPolonia.

Alla fine Maximo cede alle pressioni del cugino e presenta ladomanda, vedendolo tuttavia come un sogno irraggiungibile.Ma il destino, si sa, a volte è beffardo…

Quando Maximo va in banca per pagare il master di RomaTre, realizza che il conto è stato aperto dallo zio, per cui servivala sua firma per effettuare il versamento. A quel punto può soloaspettare che lui lo raggiunga, ma improvvisamente, durantequella forzata attesa, le sue certezze subiscono un crollo disar-mante. Forse avrebbe dovuto impiegare meglio le proprie risor-se… il pagamento poteva ancora attendere.

Chiamatelo istinto, ragione del cuore o se preferite “lampa-dina”, fatto sta che dopo pochi giorni Maximo ricevette unamail dal Collegio d’Europa che gli comunicava di presentarsiper un colloquio.

Maximo non riesce a crederci. Questa volta la soddisfazioneè davvero grande, non solo la sua, ma anche quella dei familia-ri. Anche se non sarebbe stato facile affrontare la commissioneesaminatrice, che lo avrebbe dovuto giudicare idoneo per la par-tenza verso il suo sogno.

Il giorno del colloquio, Maximo conosce quello che poi di-verrà uno dei suoi migliori amici, Alessandro, anche lui in codacome tanti altri ragazzi.

Quando tocca a lui, si mostra deciso, non ha paura, è moltomotivato, anche se a fine intervista si ritrova di fronte a una do-

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manda imbarazzante, che gli rivolge proprio il rappresentantedella Farnesina: “Senta, ma è sicuro che qui valga la sua laurea?”.

Una domanda provocatoria alla quale Maximo risponde sen-za farsi mettere paura, chiarendo di poter portare la documen-tazione che attesta gli esami fatti in Argentina e dimostrare, co-sì, di aver seguito lo stesso percorso di studi degli italiani iscrit-ti a Scienze politiche. Che poi, lui, ha anche la laurea in Econo-mia, quindi semmai ha qualcosa in più, e non in meno, rispet-to agli altri.

Niente panico. “Una volta avuta la documentazione, sare-te voi a decidere se i miei studi sono appropriati oppure no”,ribatte convinto.

La domanda che gli è stata rivolta non è gentile, ma quandoil direttore del Collegio d’Europa lo saluta con un muchas gra-cias, allegato a un sorriso di complicità, Maximo capisce che sa-ranno cinque contro uno.

Tuttavia mantiene la promessa fatta e, dopo una serie dichiamate in Argentina, si fa recapitare il materiale da inviare allacommissione. Lo manda, dopodiché aspetta. Fino al giorno in cuinon riceve la chiamata di Alessandro il quale gli comunica, pienodi gioia, che sono usciti i risultati e che è stato preso.

“Devi fare questa telefonata, Maximo, forza”, lo incoraggial’amico, ma per lui non è facile. Ora ha paura, ha bisogno di so-stegno. Va a casa di zia Renata che, entusiasta, lo sprona a chia-mare, ma vedendolo indeciso sul da farsi alla fine prende in ma-no la situazione e compone lei il numero.

Nel frattempo, Maximo esce dalla stanza come un cane ba-stonato e la lascia sola.

Un attimo dopo le grida di felicità. E lacrime di sincera com-mozione. “Ce l’hai fatta”. Maximo ancora non sa che questa fra-se lo avrebbe accompagnato a lungo durante la sua vita. Lui stes-

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so, come la zia, non sta nella pelle. È un’euforia generale, condi-visa anche dai genitori che lo chiamano subito dall’Argentina.

Un altro sogno sta per realizzarsi. Dopo Roma, Bruxelles, eda lì Bruges, una tappa indispensabile per arrivare a lavorare nelcuore della capitale europea.

Questo avrebbe significato allontanarsi da Roma, ma Maxi-mo ha fiducia nel suo progetto, soprattutto crede nell’Europaunita e sente di dovervi dare un contributo personale anche permigliorare l’Italia.

All’aeroporto di Ciampino, ad abbracciarlo, c’è la sorella ar-rivata apposta dall’Argentina. Di nuovo una pista, ancora unapartenza. A quando, Maximo, il ritorno?

Questa domanda, però, me la tengo per me, gliela farò allafine dell’intervista, ora è troppo presto.

A Bruxelles, Maximo porta con sé il peso necessario per so-pravvivere giusto qualche mese. Dall’aeroporto di Charleroi pren-de la navetta e giunge alla Gare du Midi (la vecchia gare che al-l’epoca, nel 2007, non era ancora stata ristrutturata). Dalle tascheescono soldi che non ha nemmeno contato, ma ha solo quelli da-to che non porta con sé la carta di credito. Banconote piegate, an-che un po’ stracciate, ma cosa importa? È Bruxelles. E piove…

Per Maximo la capitale europea è una tappa intermedia do-ve trascorrere giusto qualche giorno, per presentare una relazio-ne al Parlamento su tutto quello che aveva appreso al Ministerodegli Esteri. Questo fu il suo primo ingresso nelle istituzioni daprotagonista, anche se a Bruxelles c’era già stato con le missionidel Ministero.

Dalla moquette grigia del Palazzo di vetro e alle French fries– de gustibus – fino alla stazione dei treni. Direzione Bruges, lacittà in miniatura che qui in Belgio definiscono la “Venezia del

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Nord” (ma, scusate, non erano Amsterdam e Praga?), un qua-dretto naïf con i rami secchi degli alberi, a ridosso dei ponticel-li, che si riflettono sui canali d’acqua verde, mentre il freddo chetrapunge la piccola città ti spinge a conoscerne i pub del centroe i ristoranti turistici.

Ma dove sono gli altri? Maximo se lo chiede durante la suapasseggiata, prima di raggiungere la sede del Collegio. Muy ra-ro. Alla fine se li ritrova davanti tutti insieme, i suoi compagni,futuri amici, colleghi e – ancora non se ne rende conto – rivali.

A Maximo salta subito all’occhio l’alta presenza di italiani. Ilsuo amico Alessandro è stato preso a Natolin, in Polonia; pecca-to, avrebbero fatto volentieri baldoria insieme. Ma si rifarannoin seguito.

A questo punto dell’intervista, gli chiedo come si sia trovatoal Collegio. Se sia stato facile stringere amicizia e integrarsi in uncontesto così grande e competitivo, ma allo stesso tempo chiu-so, dato che, stando alle varie testimonianze, si passano le gior-nate a preparare esami con ritmi velocissimi che non permetto-no di evadere. Una “gabbia dorata”, una sorta di caserma in cuitutto è sotto controllo e la parola d’ordine è lobby. Le feste si or-ganizzano all’interno del Collegio, come le stesse bravate, pernon impazzire del tutto dietro a scadenze serrate, o meglio pos-sibili solo per quei pochi che giungeranno alla fine con voti altie perché no, dalla loro, un bel concorso per lavorare da agentecontrattuale nelle istituzioni europee.

– Gli italiani hanno un modo speciale di fare gruppo. Senon entri appieno nei loro “schemi” di divertimento, dello sta-re insieme appena se ne ha la possibilità, ti fanno sentire a di-sagio. Non voglio generalizzare, ma la mia esperienza con gliitaliani del Collegio non è stata tanto positiva. Quando senti-

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vano che parlavo spagnolo, e mi vedevano con gente di altranazionalità, mi facevano sentire un escluso. Spesso gli italianiriescono ad aggregarsi solo con i propri connazionali. Se do-vessi fare un bilancio direi che mi sono trovato meglio con glispagnoli, però…

Lo so, Maximo, non devi aggiungere altro. Questa è stata latua esperienza, però sappiamo tutti quanto ami l’Italia, quindiprendo nota senza giudicare.

L’anno a Bruges lo mette a dura prova. A master concluso,ritroverà nelle opinioni di Alessandro lo stesso giudizio; in fon-do, quel che conta davvero è il risultato.

L’importante è che gli sforzi vengano premiati e ancora unavolta Maximo non delude le aspettative di chi gli sta attorno.Dopo il master, infatti, decide di passare l’estate a Bruxelles e in-vece di riposarsi fa lobby, come gli hanno insegnato i professoridel Collegio. Così, in poco tempo, trova uno stage presso la“European Foundation for Democracy” dove lavora sui dirittiumani. L’ambiente è stimolante, il salario non è alto, ci si pagagiusto l’affitto, ma non è male. In realtà non era scontato trova-re un tirocinio a pochi mesi dalla fine degli studi.

– Bruxelles è una città piccola, chi viene qui, in genere, haun alto profilo di studi e vorrebbe lavorare per il Parlamento ola Commissione. L’ambiente è estremamente competitivo e io,nonostante il Collegio d’Europa, non mi sentivo affatto sicurodi me. Non è vero che si tratta di un lasciapassare; certo se cel’hai sul curriculum è un bel vantaggio, ma poi dipende da co-me riesci a muoverti in questo mare di ipotetici o reali stagisti,considerando che, secondo le statistiche, Bruxelles è la capitaled’Europa con più tirocinanti.

Dopo lo stage, Maximo trova il suo lavoro attuale di consu-lente presso la Burson-Marsteller dove si occupa, in particolare,

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di energia. Ha un contratto a tempo indeterminato, che defini-sce interessante in quanto gli permette di crescere professional-mente e, allo stesso tempo, di lavorare su un tema che lo hasempre appassionato.

Maximo è un fiume in piena mentre racconta del suo lavo-ro. Tutto a un tratto, poi, inizia a parlarmi di capitalismo e i suoiocchi si accendono.

– Il capitalismo in Italia non è possibile? Una gran cazzata.Passami il termine, ma non è vero come pensa la maggior partedella gente che l’Italia, in quanto legata al passato e alle tradizio-ni, non può essere capitalista. Noi abbiamo qualcosa che tuttele altre nazioni ci invidiano: la passione. In quello che facciamo,in ciò che crediamo. Qui a Bruxelles non vedo la stessa vivacitànelle persone. E mi riferisco sia ai belgi che ad altri cittadinistranieri.

Maximo a questo punto fa un passo indietro nel tempo etorna con la memoria a quando era andato a visitare il box del-la Ferrari. Era rimasto impressionato nel vedere come veniva pu-lita e lucidata la Rossa.

– Ecco come diventiamo quando ci piace quello che faccia-mo. Siamo originali, appassionati, e sembra che nessuno possafermarci e abbattere le nostre speranze. È così per l’artista distrada come per quello d’azienda (è Maximo a coniare questadefinizione). Tra l’altro, quando si riesce a essere creativi in am-bito imprenditoriale, è lì che si vede la differenza, e l’Italia po-trebbe essere piena di questi esempi se solo lo volesse.

Invece, per la nostra generazione, quella a cavallo tra gli an-ni Ottanta e i Novanta, il passaggio dall’idealismo alla realtà sichiude nel segno della repressione. Barlumi di sogni appena na-ti e già conclusi con un: “Cosa vuoi fare, il giornalista? Cambia

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strada finché sei in tempo!”, oppure: “Avresti fatto meglio a stu-diare di meno e a imparare un mestiere, come si faceva una vol-ta. Oggi gli elettricisti guadagnano più degli avvocati” (non mene vogliano) o, come se non bastasse: “Sì, d’accordo, avrai pureuna laurea, ma hai zero contatti… se riuscissi a pagarti un ma-ster, forse…” (me li dai tu i soldi? Scusami, è vero. Non me ladevo prendere con te, mi stai solo dando consiglio).

L’Italia di oggi si fa avanti a stento, cercando di raggiungerei modelli europei, ma non ce la fa. Usciamo dalle nostre case,facciamo il giro del palazzo e torniamo indietro.

Abbiamo paura, tanta. L’alternativa sembrerebbe partire, ce lodicono gli amici più intraprendenti, quelli che contano almenol’esperienza Erasmus sul curriculum, i parenti più avveduti (vecchisessantottini), ma non certo mamma e papà che vorrebbero sem-pre monitorare i nostri passi. Tranquilli, signori. Di questo passonon andremo certo lontano. Forse lasceremo i mari del Sud perspostarci al Nord, ma l’Italia si lamenta tutta da Nord a Sud, la cri-si ha colpito il Paese nella sua totalità e noi francamente siamo stan-chi. Anche di dire che lo siamo. Perché in fondo ci vergogniamo diquesta condizione di paralisi che ha frenato la nostra voglia di an-dare avanti e di credere che la situazione possa davvero migliorare.

– Quella di oggi è un’Italia che sta bene a casa propria. Capi-sco lo stato d’animo di chi preferisce non andare fuori, tanti han-no paura dell’ignoto, di ritrovarsi in un Paese da soli, senza potercomunicare. Tuttavia, il problema più grande credo sia il crollo deivalori che ha colpito l’Italia in questi ultimi decenni. Ora l’italia-nità è rappresentata dal cellulare all’ultima moda o dalla borsagriffata, comprata dai cinesi tra l’altro. Questo è il sogno. Non piùportare a termine un progetto e sentirsi appagati con quello che sifa, per se stessi e per gli altri, ma acquistare l’ultimo modello diiPhone. Mentre una buona fetta dei quasi quattro milioni e mez-

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zo di italiani residenti all’estero vorrebbe tornare, per dare ai pro-pri figli un futuro di valori meno virtuali e più reali, anche ideali,perché no, visto che in fondo dall’idea nasce il progetto e dal pro-getto, poi, si costituisce la realtà di un sistema.

Ma l’Italia non li richiama sull’attenti. Il Paese è oramaischiavo di una politica di furbetti e raccomandazioni, un virusche fa ammalare tutti, anche i più onesti, e non c’è vaccino chetenga. Ci si prova a farne a meno, ma chi non cede rimane fre-gato e, nella maggior parte dei casi, viene anche deriso per ec-cesso di lealtà. E noi, invece, italiani di Bruxelles, che facciamola spola tra un bar e l’altro di Place du Luxembourg? Meglio dal-le 18.30 in poi, quando siamo sicuri di trovare qualche funzio-nario delle istituzioni.

Apro una parentesi personale. Ricordo perfettamente la miaimpressione quando arrivai per la prima volta in questa piazzagremita di ragazzi, il giorno prima dell’inizio del mio stage. Pre-sa dall’ansia, dato lo scarso senso dell’orientamento, avevo deci-so di fare la strada da casa di un amico da cui ero ospite al Par-lamento, per non perdermi l’indomani mattina e i giorni a se-guire. Chiedevo informazioni in inglese e, per tutta risposta, midicevano “Tout droit”, sempre dritto.

Era una bella giornata, fredda ma con il sole, e quella piaz-za, allora, mi sembrò davvero carina. Ancora non mi rendevoconto che, tra quei pub e quel brusio assordante, le mani da cuiricevevi una pacca sulla spalla e un “Ehi, congratulazioni per lostage!” erano le stesse a cui pochi minuti dopo avresti dovutoavere la faccia tosta – non per tutti, ovvio − di chiedere un bi-glietto da visita.

Il cosiddetto networking, ovvero il contatto a tutti i costi. As-sordante assonanza. O se preferite consonanza di progetti,obiettivi e concorsi.

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Maximo lo sa, come tutti noi emigrati a Bruxelles.La differenza con l’Italia è che qui si ha la percezione che la

conoscenza “giusta” sia complementare alle proprie competen-ze. Da sola non basta, serve il talento prima di tutto. In Italia,invece, la raccomandazione è essenziale per trovare lavoro e afarne le spese sono gli studi e i sacrifici. Anche per questo i ra-gazzi si impegnano meno. Tanto vige l’idea che basta essere rac-comandati e “si passa”.

Maximo mi dice che proprio qualche giorno fa, scorrendo isuoi biglietti da visita, si è reso conto di non ricordarsi affatto dichi fossero quelle persone, di non riuscire ad associare un fisicoe un volto ai nomi scritti su quei pezzi di carta. Eppure molti diloro li aveva conosciuti solo un mese prima.

– Tuttavia, non puoi fare a meno di conoscere gente a Bru-xelles, altrimenti te ne torni a casa senza nulla e ci perdi anchela faccia.

E poi ci chiediamo perché la maggior parte dei nostri amicitorna a casa tutti i fine settimana.

– Qui la gente pian piano si trasforma, il sistema ti imponedi essere efficiente e produttivo ed è anche per questo che, co-me un vero uomo d’affari, fai in modo di allargare le tue cono-scenze, fino ad avere ritmi sociali esasperati e a sentirti solo ognigiorno di più. I legami che instauri sono fittizi, deboli, li tieneuniti solo uno scopo, che non sai bene neanche tu come defini-re perché non hai ancora capito cosa vuoi davvero dalla vita. Masenti che una giornata sotto la pioggia di Bruxelles ne vale alme-no dieci sotto il sole di Roma – com’è vero Maximo – perchéqui si è in continua attività, è tutto un fermento, una vita workin progress. Così ti ritrovi sempre più spesso il venerdì sera a

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Charleroi, a condividere insieme a tanti ragazzi come te la fase“partenza da weekend”, anche solo per sentire una voce che par-li incondizionatamente, che ti ricordi che l’amicizia non è vin-colata a un grado AST 4, ma al volersi bene reciprocamente. Cer-to anche lo step dell’aeroporto tutti i fine settimana è stressante,fortuna che ci sono i progetti e il lavoro che ti tengono a Bru-xelles e prima di ogni altra cosa i tuoi desideri per l’Italia. Comeimmagini che sarà in futuro – impensabile tornare ora – per tee per i tuoi figli.

Maximo sa che i suoi non si sentiranno vagabondi, non do-vranno scegliere la loro nazione, perché il loro Paese sarà l’Euro-pa Unita e anche quella low cost da raggiungere, esplorare, perpoi fare ritorno a casa, laddove si è cresciuti e si ritrovano le ve-re radici.

La lontananza è, e rimarrà sempre, la storia della sua vita,iniziata a zero mesi e per il momento approdata nel regno ap-pannato della cioccolata e delle patatine fritte, ma un domani −spera lui − nella città del Cupolone, la sua città del cuore. Nonvuole che i suoi figli soffrano la scissione tra due Paesi, per dipiù tanto diversi, tra cui scorre addirittura un oceano. Per lui cisono da un lato Buenos Aires e dall’altro Roma, non un attimodi pace tra questi due territori, neanche un istante l’inquietudi-ne si placa per lasciare spazio alla felicità.

“Una storia senza partenze”, questo è il futuro che Maximospera i suoi bisnipoti possano ascoltare dalla voce dei loro nonni.

La famiglia è il filo conduttore di questo racconto. Le gene-razioni che passano e scelgono, e lo fanno anche per te, senzavoltarsi indietro. Quando girano lo sguardo è tardi, sono lì conuna coperta a quadri fin sulla testa e il cordoncino del tè verdea penzolare tra le gambe. Sperano di coinvolgerti nella grande

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avventura della loro vita, attraverso la forza delle narrazioni. Manon sanno che tu sei già avanti nel tempo, a quando prenderaila valigia e te ne andrai – la coperta ben avvolta nello zaino – inmemoria delle storie che ti hanno fatto crescere.

«Anche se prendi sempre delle cose, anche se qualche cosa la-sci in giro non sai se è come un seme che dà fiore o polvere che vo-la a un respiro», ma nelle notti di nostalgia, sempre uguali a se stes-se, tu sei diverso. Il tuo volto appare come la pagina invecchiata diun libro ruvido, con l’odore di muffa tra le borse degli occhi e ilvermiglio delle labbra a rimembrare l’incipit rosso del romanzo piùbello che la vita ti ha posto di fronte.

Tra le pagine di questo racconto, credo che ne vada riempi-ta qualcuna in più sul rapporto tra Maximo e suo padre. Duegenerazioni di emigranti a confronto. Sono curiosa di sapere sequesto confronto c’è stato, cosa si sono detti, i sorrisi e le lacri-me che li hanno divisi o avvicinati.

Maximo è felice di questa domanda. Dopo due ore di inter-vista, ha ancora voglia di narrare e ricordare. E allora mi faccioda parte e do direttamente voce alle sue parole.

– Ho cercato tutta la vita il confronto con mio padre perché,in fondo, pur verso Paesi diversi, abbiamo provato entrambi glistessi sentimenti. Lui nutre un grande rispetto per l’Argentina.Quando lasciò l’Italia aveva solo sei anni, e di quel giorno ricordail porto di Napoli e una partenza confusa di cui non capiva benele ragioni. Per tanto tempo non ebbe la possibilità di tornare inItalia, fino a che anche lui progettò il suo viaggio di ritorno. Mauna settimana prima di partire, incontrò mia madre. Una passio-ne improvvisa, travolgente, lo spinse a convincere i suoi genitoria rimanere in Argentina. I miei nonni non volevano, ma di fron-te alla felicità di mio padre non ebbero il coraggio di dirgli di no.

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Maximo si ferma un istante. Forse sta pensando, una voltadi più, a come sarebbe stata la sua vita se quell’incontro non cifosse mai stato, se suo padre fosse davvero partito.

L’amore, quello dei nonni per il figlio e quello del figlio peruna donna. In questo triangolo solo il Bel Paese non ne esceclandestino. L’Argentina con la sua alba, persa in un cielo di nu-vole e aquiloni, vince la sua partita con l’Italia. Lei è la matro-na, la donna che ha cambiato il destino di una generazione. Og-gi sembra voler dire “Mi ritroverai sempre lì, dalla stessa parte”.

Ma loro hanno costruito un ponte con l’Italia, il padre primae il figlio dopo. Maximo, però, è stato più tenace. Suo padre nonavrebbe mai immaginato che un giorno si sarebbe rivolto a un av-vocato per chiedere di annullare la sua cittadinanza argentina.

– Perché tutta la mia famiglia è nata a Priverno e io a Quil-mes? Perché devo parlare italiano come un italo argentino? –Maximo mi rivolge queste domande e scuote la testa.

– Quando poserai la valigia? – gli chiedo.Non capisce la mia domanda e ride. Allora gliela faccio di

nuovo: – Quanto ti fermerai a Bruxelles, Maximo? Quando tor-nerai indietro?

– Ah, ora sì, ho capito – e mi chiede scusa.

– Il tempo scorre veloce e il mio obiettivo è crescere professio-nalmente per poi capitalizzare in Italia ciò che ho imparato al-l’estero. Tornerò solo quando questo sarà possibile. Le conoscen-ze acquisite qui devono trovare un senso da noi, e poter essere uti-lizzate appieno, altrimenti significa che non è ancora il momen-to di lasciare Bruxelles. La sfida è sia a livello professionale chepolitico. In futuro mi piacerebbe rappresentare il mio Paese attra-verso un’istituzione e raccontare, alle generazioni che verranno,che l’Italia non è solo quella della pasta e della Ferrari. È anche

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meritocrazia e senso di responsabilità. Allo stato attuale questo èciò che dovrebbe essere, ma non è, però io ci credo nella trasfor-mazione. Siamo noi i messaggeri, il nostro compito è comunica-re con l’Italia per trasmetterle tali valori. Dobbiamo essere porta-tori di produttività, ma è necessario anche quel surplus emotivonel voler migliorare la situazione, e questo più che da un high pro-file deve venire dal cuore. Sbagliamo tutti a sentirci un’élite, nonlo siamo affatto. Ci vuole umiltà e nonostante le lingue e i ma-ster dobbiamo ricordarci in che stato versa il nostro Paese.

Già, Maximo. E tu, stasera, in queste due ore e mezza di in-tervista, ce l’hai ricordato. Ci hai aiutati a capire cosa c’è dietrola partenza di tanti giovani che arrivano a Bruxelles, spesso con-fermando le mie personali opinioni, che rappresentano la ragio-ne per la quale ho deciso di scrivere la tua storia e quelle che se-guiranno. Sentimenti comuni, frustrazioni e rabbia condivise.

Poi ognuno ha lacrime e sorrisi propri, alcuni li tacciono perimbarazzo, altri, al contrario, approfittano di questo momentoper specchiarsi dinanzi alle loro debolezze.

Ora sono qui a trascrivere la tua storia e alla fine di questo viag-gio, percorso insieme, c’è un’ultima immagine che sfiora la tastiera.

È una distesa color seppia, di conchiglie e cielo terso, uno sce-nario dal gusto antico, forse un ritratto. Tra le onde di un mareignoto che si riflette sul tuo volto, si sente l’eco del ricordo, quelloeterno di una memoria infinita, del racconto che si tramanda, delsenso delle generazioni che allargano i confini ma non si perdonomai. Si trasmettono il sapere, anche i consigli più banali, insiemeall’amore più puro, di quello che si prova quando si ha nostalgia.

E allora mi congedo da te con un grazie, in sottofondo le no-te di Argentina di Guccini a ricordare da dove vieni e ciò per cuiti batti.

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Ti lascio andare, ma so che ci rivedremo presto e mi parleraiancora di te. No, non mi devi ringraziare. Non mi hai raccon-tato solo di Bruxelles, della vita che facciamo, dei sacrifici e del-le vittorie che ci aspettano.

Oggi a me hai parlato d’amore e chissà se domani, qualcu-no, al di là dell’oceano riflesso nei sogni, all’alba delle nostre ter-re, si sveglierà di buon’ora e sotto un cielo che va nascendo por-gerà il cuore al suono ancestrale dei tuoi racconti.

Amore sapessi com’era il cielo a Roma qualche tempo fa,a guardarlo adesso non sembra vero che sia lo stesso cielo,la stessa città che ci guarda partire, volerci bene,che ci guarda lontani e poi di nuovo insieme prigionieri di questo cielodi questa città che ci ha visto soffrire, che ci ha visto partire.Luca Barbarossa, Via Margutta

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