Prima la musica

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Manuela Furnari Paolo Conte Prima la musica

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Manuela Furnari

Paolo ContePrima

la musica

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Referenze fotografiche:Inserto a colori: Gianni Vivolip. 23 Daniela Zeddapp. 29, 213 Raffaella Cavalieri/Iguana Press

Realizzazione grafica degli spartiti: Remo Cadringher

La casa editrice, esperite le pratiche per acquisire i diritti di riproduzione delle immagini, rimane a disposizione di quanti avessero a vantare ragioni in proposito.

RedazioneLivia Sorio

Art DirectorFG Confalonieri

Impaginazione Valentina Picco

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« …di un’orchestra eccitata e ninfomane.»

«Il Maestro», 1990

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«Psiche sa leggere,

scrivere pallida lampada araba.»

«Psiche», 2008

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L’Azzurro nelle ditadi Franco Fabbri

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Quando nel 1976 Paolo Conte debuttò alla Rassegna della

Canzone d’Autore organizzata dal Club Tenco al teatro

Ariston di Sanremo, non ero presente. Ero stato lì l’anno

prima, nel luglio del 1975, e avrei incontrato Conte a Sanremo ai

primi di settembre del 1978 (in quegli anni la Rassegna si svolgeva

d’estate: solo in seguito – per ragioni più che altro logistiche, alber-

ghiere – divenne un appuntamento autunnale): questa del ’78 sareb-

be stata la seconda partecipazione, sia di Conte che degli Stormy Six.

Non sono ricordi occasionali: associano Paolo Conte all’affermazio-

ne dell’idea (e anche dell’ideologia) della canzone d’autore, in un

periodo cruciale; inoltre, attraverso le vicende non solo musicali de-

gli Stormy Six, collegano Conte alla comparsa di alcuni dei primi

saggi sulla popular music in Italia e in Europa, che lo videro come

oggetto di studio. «Tra quaresima e carnevale. Pratiche e strategie

della canzone d’autore», di Umberto Fiori, fu pubblicato sul numero

3 di Musica/Realtà, datato dicembre 1980 e probabilmente uscito a

febbraio o marzo del 1981;1 nel giugno del 1981, alla conferenza di

Amsterdam dove furono poste le premesse per la fondazione della

International Association for the Study of Popular Music (Iaspm),

presentai una relazione che si concludeva così: «È possibile che uno

studio futuro della “canzone d’autore” mostrerà come norme quelle

che oggi appaiono come caratteristiche individuali di questi due

cantautori.»2 I due cantautori erano Paolo Conte ed Enzo Jannacci.

Un altro ricordo personale di quelle prime edizioni della Rassegna del

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Tenco, solo apparentemente aneddotico, può aiutare a ricostruire il

clima nel quale Paolo Conte fece il suo ingresso trionfale nel Panthe-

on della canzone d’autore. Nel 1975 gli Stormy Six avevano presenta-

to il loro recentissimo album Un biglietto del tram (quello di «Stalingra-

do») in formazione incompleta: Umberto Fiori, autore e coautore di

molte delle canzoni e voce principale nella registrazione delle medesi-

me, era partito da un paio di mesi per il servizio militare. Toccò a me

cantare anche quelle sul palcoscenico dell’Ariston. Questa può essere

una delle parzialissime spiegazioni dell’incidente davvero spiacevole

ma più che significativo che accadde tre anni dopo. Gli Stormy Six

nell’estate del 1978 – quando ricevettero l’invito a partecipare alla

quinta edizione della Rassegna sanremese – eseguivano dal vivo le

canzoni del loro album L’apprendista, uscito l’anno prima, e già alcune

cose del loro successivo lavoro discografico, come «Megafono»: al-

l’epoca Umberto Fiori era diventato il cantante solista di tutto il nuo-

vo repertorio e l’autore di tutti i testi. Eppure, quando arrivammo a

Sanremo, i manifesti della Rassegna annunciavano: «Gli Stormy Six

presentano L’apprendista di Franco Fabbri». Che la nostra amicizia e il

gruppo stesso siano sopravvissuti a quei manifesti è una testimonian-

za del fatto che quelli erano proprio altri tempi. I responsabili del Club

Tenco si giustificarono dicendo che erano in cartellone altre «opere

rock» (quella di Tito Schipa jr., ad esempio) e a quelle il nostro spetta-

colo era stato assimilato. Ma L’apprendista non era un’opera rock, e

non era un lavoro mio!

L’episodio è perfettamente coerente con l’ideologia della canzone

d’autore che si stava affermando, anche a prescindere dalle ottime in-

tenzioni di chi aveva inventato il termine prendendolo a prestito dal-

la critica cinematografica (Enrico de Angelis, nelle sue rubriche omo-

nime su L’Arena di Verona, a partire dal 1969) e da chi l’aveva ufficia-

lizzato nel nome della Rassegna. Per quanto quella definizione di au-

torialità provenisse da un mondo (quello del cinema, appunto) dove è

scontata la dimensione collaborativa del lavoro artistico, e nonostan-

te l’intenzione dichiarata di andare oltre il solito ambito dei cantauto-

ri – inglobando nell’idea di canzone d’autore qualsiasi prodotto «di

qualità», indipendentemente dal processo individuale o collettivo

della sua creazione – la comunità della canzone d’autore e il Club Ten-

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co avevano (e avrebbero avuto ancora per molto tempo) una seria dif-

ficoltà a incorporare a pieno titolo il lavoro di gruppo, il lavoro di un

gruppo. Eppure, quelli erano anni (o meglio, mesi), in cui stavano ve-

nendo al pettine i nodi di una lunga discussione sulla qualità eminen-

temente musicale della produzione dei cantautori italiani, alcuni dei

quali (soprattutto quelli emersi all’inizio degli anni settanta) erano ac-

cusati di sfruttare l’onda dei movimenti politici e di lucrare con spet-

tacoli spartani, basati su voce e chitarra. Benché non fossero precisa-

mente questi gli argomenti dell’orrendo «processo» a Francesco De

Gregori al Palalido di Milano (il 2 aprile 1976: lì ero presente, testimo-

ne della violenza imbecille di personaggi che di lì a pochi anni sareb-

bero stati protagonisti della vita musicale e mondana della «Milano

da bere»), l’immagine del cantautore di grande successo discografico

che si presenta alla Festa de l’Unità con la sua chitarra – anzi, la «chi-

tarrina» – e se ne va con il cospicuo incasso era molto discussa tra i

musicisti militanti. E proprio tra il 1978 e il 1979 Fabrizio De André e

la Pfm avrebbero offerto con la loro tournée una delle possibili solu-

zioni al problema: l’integrazione delle figure più note (e dei pubblici)

di due dei generi dominanti dell’Italia di allora, la canzone d’autore e

il progressive rock, sommandone la vocazione autoriale-letteraria e la

ricchezza musicale. Ma, come ho appena detto, quella era una delle

soluzioni, e di fatto rimase un’anomalia, legata al carattere del cantau-

tore italiano più incline e abile al lavoro di gruppo, per quanto a con-

dizione di esserne il leader indiscusso. È facile, invece, immaginare

quale soluzione fosse destinata in quel clima a essere favorita nella co-

munità musicale della canzone d’autore. Era tale l’aspettativa, che la

si può paragonare alla famosa profezia autoavverata formulata dal

produttore di Elvis Presley: là si trattava di trovare un bianco che can-

tasse con la voce di un nero, qui di trovare un cantautore con una ve-

na musicale che andasse oltre i «quattro accordi» rimproverati al chi-

tarrismo primitivo della «nuova canzone italiana» dei primi anni set-

tanta, un cantautore che fosse un «vero compositore». Di queste ti-

pizzazioni ideali (in senso weberiano), di queste attese, la storia del-

la musica offre esempi ricorrenti: dal «nuovo Beethoven» ai «nuovi

Beatles». Nella popular music del nostro paese, più o meno contem-

poraneamente alle vicende che sto ricordando, fu quasi ossessivo il

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dibattito sul «rock italiano», che doveva esistere. Al punto che qualche

tempo dopo descrissi quel fenomeno evocando il Cavaliere inesisten-

te di Calvino, un’armatura vuota tenuta insieme dalla volontà del po-

polo che un simile guerriero senza macchia esistesse per davvero. Nel

caso della canzone d’autore, questa creatura meravigliosa c’era, in car-

ne e ossa, e si materializzò sul palcoscenico del Teatro Ariston di San-

remo nell’estate del 1976: Paolo Conte.

Non fu una sorpresa. I primi due album non avevano avuto una gran-

de circolazione, ma chiunque avesse allora qualche rapporto con

quella che si cominciava a chiamare canzone d’autore non poteva

non aver notato «La fisarmonica di Stradella», «La ricostruzione del

Mocambo», «La Topolino amaranto» e le versioni dell’autore di «On-

da su onda» e di «Genova per noi». E tutti sapevano, per lo meno, che

Conte era l’autore di «Azzurro». Come ho detto, non ero lì nel 1976:

ma nel 1978, quando gli album pubblicati erano ancora solo i primi

due, vidi Conte entrare in scena non solo come uno di famiglia, ma

già come quello che giornalisticamente si chiama «un mito». La cosa

si ripeté l’anno dopo, accentuata dalla presenza di Roberto Benigni

che – con le sue antenne ipersensibili – aveva colto benissimo l’aura

che circondava l’avvocato di Asti. Tra le memorie del Tenco del 1979

ce ne sono due che spero rendano a chi mi legge quell’atmosfera: Be-

nigni, Guccini e Amodei che si sfidano all’ottava rima in una trattoria

dei colli, e di nuovo Benigni che mette insieme le suggestioni de «La

donna d’inverno» con immagini voluttuose – accompagnate da gesti

poco equivocabili – della moglie di Paolo Conte (davvero implacabile

con le mogli, quel Benigni).

Il bel lavoro che Manuela Furnari ha dedicato al Maestro (come le pia-

ce affettuosamente chiamarlo) offre molto materiale, efficacissimo,

per comprendere le ragioni di fondo di quell’assunzione immediata, o

quasi, nel Pantheon della canzone d’autore. Si tratta, sostanzialmen-

te, di una questione di qualità, ed è proprio da un’analisi approfondita

della scrittura musicale di Conte (termine appropriato, qui), e del rap-

porto fra musica e testo, che è possibile farla emergere. Non posso che

concordare con l’autrice che la saggistica sulla popular music in gene-

rale, e sulla canzone d’autore in particolare, sia povera di analisi musi-

cali, e abbia bisogno di accumulare molto lavoro in questa direzione.

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Non che queste analisi manchino del tutto, naturalmente, ma da

quando nel 1998 scrissi in una recensione che «un libro su questi po-

polarissimi oggetti musicali, sonori, che li prenda in considerazione

come tali, resta ancora da scrivere» (mi riferivo alle canzoni dei can-

tautori),3 la situazione non è molto cambiata: questo di Manuela Fur-

nari, se non proprio il primo, è uno dei primi libri che corrispondano

a quella descrizione. So bene, quindi, che in mancanza di molti prece-

denti corre un rischio: quello che le parti più tecniche risultino com-

prensibili solo a una minoranza. Ma va bene così: intanto perché l’in-

telligente divisione in sezioni (col richiamo alla mia «regola del polli-

ce»4) e l’aiuto della grafica permettono di navigare nel testo saltando

qua e là, senza l’obbligo di approfondire immediatamente le analisi

più complesse; e poi perché fortunatamente lo studio della popular

music – sotto le etichette più varie e buffe, per non scontentare i tradi-

zionalisti – sta entrando nelle università e nei conservatori, e di libri

come questo gli studenti avranno sempre più bisogno.

Vorrei però aggiungere qualche riflessione complementare, che forse

può aiutare il lettore a capire come e dove questo libro si inserisca ne-

gli studi sulla popular music, e quindi a dedurre quali sviluppi siano

prevedibili, di quali altre ricerche ci sia bisogno. Manuela Furnari, in

sostanza, dimostra con quanta abilità e con quanta cura Paolo Conte

si dedichi alla stesura (alla scrittura!) delle musiche delle sue canzoni,

stesura che senza il minimo dubbio precede e condiziona quella dei

testi verbali; dimostra quanto l’attenzione di Conte si estenda dal mi-

nimo dettaglio compositivo (introduzioni, incisi, finali, simmetrie

strutturali) all’orchestrazione/arrangiamento, all’esecuzione dal vivo

e alla registrazione, inclusa la scelta dei collaboratori. In questo Conte

è assimilabile al modello del compositore-demiurgo così ideologica-

mente presente nella storiografia «colta», anche se di fatto (per essere

l’autore anche dei propri testi, e per il fatto di adattarli alla musica an-

ziché viceversa) Conte assomiglia di più a Frank Zappa che a un operi-

sta o a un autore di Lieder dell’Ottocento. Il paragone con Wagner

non sembra avere alcuna utilità; forse ne ha di più quello con Loewe.

Ma è indiscutibile (anche questo l’autrice lo dimostra molto bene) che

per creare le proprie canzoni Conte si serva di un armamentario in

parte radicato nella tradizione eurocolta. Sotto alcuni aspetti, quindi,

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l’analisi musicale delle canzoni di Paolo Conte non richiede una com-

petenza diversa da quella che viene richiesta agli studenti di composi-

zione nei conservatori. Se si tiene presente la differenza – tutt’altro

che trascurabile – per cui gli autori di Lieder per lo più musicavano il

testo di un poeta, mentre Conte aggiunge delle parole a un materiale

musicale sviluppato autonomamente dal testo, l’orecchio e l’occhio

con cui si smonta un Lied di Schubert va bene anche per smontare

una canzone di Conte. Andrebbe forse meglio, sarebbe più utile, avere

un’esperienza di analisi sulle canzoni di Cole Porter, ma c’è qualcuno

che fa analizzare le canzoni di Porter, nei conservatori?

L’altra parte dell’armamentario di Conte, appunto, viene dagli stan-

dard e dal jazz. Non si deve pensare, però, a qualcosa di separato, scis-

so, e nemmeno a una contaminazione. In primo luogo, perché il lin-

guaggio armonico del jazz (soprattutto del jazz che piace a Paolo Con-

te e ha avuto influenza su di lui) è comunque impregnato di elementi

di origine eurocolta; e secondariamente (ma non in ordine di impor-

tanza) perché il terreno comune è la tastiera del pianoforte. Intendo

proprio la tastiera, la manualità, il modo di condurre le parti, di ag-

giungere o sostituire note negli accordi, che secondo me costituisce la

vera «teoria», una teoria incarnata (embodied),5 che sta alla base della

musica di Paolo Conte. Ecco, qui si diparte una diramazione che var-

rebbe la pena di seguire: cioè, la ricerca del rapporto tra manualità e

composizione, tra il modo in cui una tradizione musicale si incorpora

(letteralmente) nelle dita, nelle mani, nelle braccia, nel corpo intero

(pensiamo a uno strumento come la batteria) di un musicista. Me ne

sono occupato anch’io, molto sommariamente, quando mi sono inte-

ressato al riff e al rock,6 ma sono certo che questo sia un tema che si

estende alle più diverse culture musicali, compresa quella eurocolta:

va anche in questa direzione il lavoro interessantissimo che Luca

Chiantore sta portando a termine sugli esercizi tecnici, sugli appunti

compositivi, sugli «schizzi» di Beethoven, in relazione alla sua tecnica

improvvisativa e compositiva.

Del resto, che le canzoni di Paolo Conte siano composte sul pianofor-

te è del tutto evidente, e non occorre nemmeno una competenza ana-

litica per rendersene conto: non voglio spingermi a razionalizzare in

modo così meccanico la transizione dalla «chitarrina» di alcuni can-

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tautori alla sensazione liberatoria che accompagnò la ricezione di Pao-

lo Conte, seduto al pianoforte, al Tenco del 1976, ma credo di poter

dire che questa dialettica sia stata all’opera in quello e in altri momen-

ti della storia della popular music. A partire dal 1967, ad esempio, Paul

McCartney e John Lennon iniziano a comporre al pianoforte: non si

sente? Non fu percepito? E che funzione assumono, in generale, le ta-

stiere da lì in poi, nella popular music angloamericana?

Questi ragionamenti ci conducono all’ultima riflessione che vorrei of-

frire, prima di cedere formalmente la parola a Manuela Furnari. Le

canzoni analizzate in questo libro, e molte altre dello stesso autore, so-

no davvero mirabili. Ma perché? E per chi? Insomma, c’è in loro un

valore intrinseco, assoluto? È possibile, come si sarebbe tentati di pen-

sare, misurarlo? Si può dire che tra le varie funzioni assolte da questi

oggetti musicali, quella estetica sia presente in maggiore o in minor

grado? E, in caso affermativo, si può sostenere che la musicologia può

prendere in considerazione questi oggetti a condizione che la loro

funzione estetica sia dominante, o perlomeno sviluppata?

La risposta è no, a tutto, tranne che alle prime due domande. Non esi-

ste una «temperatura estetica» assoluta, perché (in sostanza) il signifi-

cato di questi oggetti o fatti musicali è creato in collaborazione con

chi li ascolta. È il destinatario, con la sua competenza, con la sua storia

individuale, a decidere se un messaggio «funziona» esteticamente. La

storia dell’etnomusicologia offre numerosissimi esempi (anche basati

su ricerche ed esperimenti ad hoc) che nessuna musica è universale,

che anche le opere dei maggiori compositori europei il cui valore pare

a molti europei (non a tutti!) «assoluto» risultano incomprensibili a

chi sia cresciuto in un’altra cultura musicale. Gli antropologi ritengo-

no di aver trovato alcuni universali della comunicazione, anche musi-

cale, che comunque non sembrano avere nessuna relazione con le

supposte basi dell’universalità della musica. Tra le molte conseguenze

di queste constatazioni, che dovrebbero essere familiari a chiunque si

occupi di studi musicali, una mi pare fondamentale per i popular mu-

sic studies: non esiste nessun rapporto tra il valore estetico e la legitti-

mazione allo studio, né in un verso né in quello opposto. Non è il va-

lore estetico che legittima allo studio di una musica, non è il fatto che

una musica venga studiata che la legittima esteticamente. Uno dei

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saggi musicologici più densi, innovativi e affascinanti che sia mai sta-

to scritto (se mi è permesso dirlo, in assoluto!) aveva per argomento

una canzone degli Abba, che nessun critico ha mai pensato di far en-

trare nel Walhalla della canzone d’autore: ed è noto che tra le varie ra-

gioni per cui Philip Tagg scelse «Fernando» c’era anche quella di ana-

lizzare un grande successo internazionale che non fosse in odore di

«qualità».7 E ormai, quando qualcuno mi chiede per quale ragione si

debba studiare la popular music (domanda alla quale, se proprio si

vuole, posso fornire una lunga serie di risposte molto varie e articola-

te) la mia risposta preferita è: «Perché no?».

Detto questo, chiarito ogni equivoco valoriale, sono davvero molto

contento che questo bellissimo studio di Manuela Furnari abbia come

oggetto le canzoni di Paolo Conte. Perché sono le canzoni che hanno

accompagnato la nostra vita negli ultimi quarant’anni, perché sono

dannatamente ben riuscite e apprezzate da una vasta comunità inter-

nazionale (che va oltre quella della canzone d’autore, così pronta ad

accoglierle fin dall’inizio), perché in tempi come questi il fatto che sia-

no state scritte da un gentiluomo che sa di fallimenti, di ciclisti, di luo-

ghi esotici e di donne d’inverno, è un valore in sé.

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