Prima Dissertazione
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Prima dissertazione
I. Idea della conoscenza e modello di scientificità nel discorso sulla storia di Immanuel
Kant
Introduzione:
«C'è nella natura dell'uomo una certa doppiezza, che, in definitiva, come tutto ciò che
deriva dalla natura, deve racchiudere un'inclinazione a scopi buoni; cioè la propensione a
tenere nascosti i propri veri sentimenti, simulandone altri, che godono fama di bontà e
rispettabilità. È innegabile che in virtù di questa propensione così a nascondersi come ad
assumere un aspetto favorevole, gli uomini non soltanto si sono inciviliti, ma anche
gradualmente moralizzati, almeno in certi limiti. [...] È per me increscioso dover riscontrare
questa doppiezza, questa dissimulazione e falsità anche nelle manifestazioni dell'attività
speculativa [...]»1. Con queste parole di Kant, come se si trattasse del ceterum censeo della
filosofia trascendentale, può cominciare la nostra considerazione sul valore e sul significato
che la storia, filosoficamente concepita, riveste all'interno del sistema della ragion pura.
Pare, infatti, dalle tre critiche, che ciascuna indagine riguardante le facoltà della ragion
pura conduca, infine, alla determinazione di un risultato che faccia anche da presupposto per
ogni considerazione che abbia come tema quello della possibilità teoretica e della
realizzazione pratica di un sapere sistematico: una volta percorso l'intero ciclo della
conoscenza e, in forza di questo, innalzato l'edificio completo della ragion pura, l'opera non
può dirsi compiuta se la si lascia sussistere accanto all'innegabile tendenza dell'uomo ad
1 I. Kant, Critica della ragion pura, a c. di Pietro Chiodi, UTET, Torino 2005, p. 572.
8
allontanarsi dalla propria natura.
Tanto realmente sussiste questa doppiezza naturale degli uomini che il critico della
ragione, su un piano specificamente morale, riesce a concepire una progressività nella storia
degli uomini soltanto guardando al modello di una oggettività esterna, cioè riferendosi alla
natura come a ciò che racchiude in sé la destinazione verso scopi buoni di ogni inclinazione,
non tanto dei singoli uomini, bensì in quanto rivolta al genere umano; dal punto di vista
trascendentale, ovvero su un piano più tipicamente teoretico, invece, per dar conto della
dissimulazione e falsità esistenti nelle manifestazioni dell'attività speculativa, Kant si
incarica di terminare le sue tre critiche con una dottrina del metodo, la quale abbia come
primo compito quello di istituire, al cospetto del tribunale della ragione, una disciplina delle
conseguenze: dell'uso speculativo dei concetti dell'intelletto, dell'uso e degli effetti della
libertà in quanto ratio essendi della legge morale.
Nella Critica della ragion pura la metodica costituisce l'immediato preambolo del
sistema della scienza, di un'architettonica della ragione, mentre nella Critica della ragion
pratica si tratta di fornire i preliminari di una pedagogica morale. È noto che Kant non si
chiede filosoficamente che cosa segua immediatamente nella serie degli accadimenti reali di
un'azione, bensì da quale fondamento morale questa provenga. La moralità, come insieme
delle condizioni formali dell'agire, si rivolge ai motivi, alla massima a cui si richiama e alla
direzione verso cui tende la libera volontà di ciascun uomo. Con pedagogica morale si
intende allora il modo in cui alle leggi della ragion pura pratica si può fornire accesso
all'animo umano e un influsso necessario sulle sue massime, in quanto metodo del coltivare
e del promuovere autentiche intenzioni morali2.
2 Ivi, p. 327, in particolare il periodo in cui viene detto: « Al contrario, per questa dottrina del metodo s'intende ilmodo in cui si può procurare alle leggi della ragion pura pratica un a d i t o nello spirito umano, un i n f l u s s osulle massime di esso, cioè il modo di far anche s o g g e t t i v a m e n t e pratica la ragione oggettivamentepratica».
9
Nel caso della capacità di giudizio, invece, non possiamo parlare propriamente di una
disciplina se non teniamo conto della distinzione fondamentale presentata da Kant nell'opera
del 1790: quella tra giudizio estetico e giudizio teleologico. Nel primo caso non si parla di
un metodo ma di una maniera, perché l'applicazione di una disciplina al giudizio di gusto, da
un lato soffocherebbe l'attività creatrice del genio, dall'altro limiterebbe il libero gioco delle
facoltà, che trae origine dall'operare di una immaginazione non condizionata3. Nello
specifico, afferma Kant, è invece la stessa facoltà di giudicare del bello che si offre quale
propedeutica: il bello come simbolo del bene morale4, rende possibile il passaggio dal
dominio del concetto della natura, in cui è coinvolta totalmente l'attività determinante
dell'intelletto, al dominio del concetto della libertà, come oggetto proprio della ragion pura
pratica. Il giudizio estetico mediante il suo principio a priori rende possibile il passaggio
dalla ragion pura teoretica alla ragion pura pratica, dalla conformità a leggi, quale principio
della conoscenza della natura, alla considerazione di uno scopo finale quale principio della
destinazione dell'uomo. E ciò è possibile perché, nel riconoscere nell'oggetto dei sensi un
libero piacere, il giudizio estetico apre allo sviluppo delle idee morali.
La possibilità di pensare il particolare come contenuto nell'universale, quale facoltà
specifica del giudizio, e l'esigenza naturale della ragione di collegare le esperienze
particolari in un sistema, introducono la questione che Kant affronta nella seconda parte
della Critica della capacità di giudizio, ovvero il giudizio teleologico. Nell'ambito di una
sistematica delle facoltà si può parlare della disciplina del giudizio teleologico secondo i
termini della topica trascendentale5.
3 Cfr., I. Kant, Critica della capacità di giudizio, tr. it. di Leonardo Amoroso, Rizzoli, Milano 2012., pp. 551-554.4 Ivi, pp. 541-551, ovvero il noto e importante §59.5 Parlarne, cioè, in analogia al concetto di topica trascendentale. In particolare si faccia riferimento al passo che
riportiamo di seguito: «Mi sia concesso di chiamare luogo trascendentale quel posto che assegniamo a un concetto,nella sensibilità o nell'intelletto puro. La topica trascendentale verrebbe in tal modo a consistere nelladeterminazione del posto spettante a ciascun concetto a seconda della diversità del suo uso e nel reperimento di
10
Nella terza Critica, in generale, si è trattato di portare a termine l' «impresa critica», di
esibire la possibilità di un fondamento dell'unità della ragione, distinta soltanto nelle sue
applicazioni. Il problema è stato quello di inserire nel sistema un termine medio che
legittimasse l'intero edificio della ragion pura6. In modo specifico, ora, la questione diventa,
in relazione al giudizio teleologico, quella di un'adeguata collocazione di questa facoltà del
conoscere all'interno del sistema, in quanto può appartenere alla scienza della natura o alla
filosofia pratica ma non al passaggio dall'una all'altra, perché è inconcepibile una scienza del
passaggio in senso proprio e stretto, almeno se non si vuol cadere in una specie di deduzione
mistica, quel tipo di deduzione che il Kant della prima Critica attribuiva alla teoria platonica
delle idee7.
Questo passaggio indica soltanto l'articolazione e l'organizzazione del sistema e non gli
spetta un posto autonomo nel sistema stesso. La teleologia come scienza non appartiene ad
alcuna dottrina ed esiste come ambito di ricerca trascendentale solo per la critica, e, in
particolare, solo per la critica della capacità di giudizio. In quanto questa contiene principi a
priori può e deve formare il metodo, adeguato ai suoi oggetti specifici, con cui giudicare
della natura in virtù del principio di un nesso finale. La metodica del giudizio teleologico
coincide, allora, con una disciplina da applicare alla scienza teoretica della natura e al
rapporto che questa instaura con la metafisica e con la teologia, essendo, in quanto
disciplina, l'unica vera propedeutica di queste.
regole che assegnino questo posto a tutti i concetti. Si tratta di una dottrina volta a premunirci saldamente dalleprevaricazioni dell'intelletto puro e dalle illusioni che ne conseguono, attraverso la costante discriminazione dellafacoltà conoscitiva a cui i concetti appartengono effettivamente», I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 285.
6 Problema che è stato affrontato da Kant anche nella nota e importante, ma inedita prima introduzione alla terzaCritica che per solito viene designata col titolo di Erste Einleitung ; cfr. I. Kant, Prima introduzione alla Critica delGiudizio, tr. it. di Paolo Manganaro, Laterza, Bari 1969. In particolare si rimanda alle pp. 73-76, dove si tratta didefinire il «sistema delle facoltà superiori della conoscenza che sta a fondamento della filosofia»; oppure alle pp.78-81, dove la facoltà di Giudizio viene determinata specificamente in quanto «facoltà intermedia».
7 Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, cit., pp. 313-318. Il confronto di Kant con il filosofo greco, è chiaro, non siesaurisce con questo giudizio. Per l'espressione deduzione mistica si faccia riferimento, nello specifico, alla nota a.di pagina 314.
11
L'intera filosofia della ragion pura, almeno preliminarmente, non è volta che a questa
utilità negativa, quella cioè di stabilire secondo quali principi è possibile un uso corretto
della ragione nei vari ambiti trascendentali in cui è coinvolta come facoltà legislatrice: in
quanto intelletto nel campo dell'esperienza, in quanto facoltà del giudizio quando si tratta di
gusto e teleologia, o di se stessa in quanto tale quando ci riferiamo al domino pratico come a
tutto ciò che è possibile mediante libertà. Per filosofia della ragion pura, infatti, secondo
Kant, si deve intendere o una propedeutica che indaga le facoltà della ragione in ordine a
qualsiasi conoscenza pura a priori, e, proprio in quanto esercizio preliminare e radicale, si
deve chiamare critica; o il sistema della ragion pura come l'intera conoscenza filosofica
connessa sistematicamente. Se per filosofia si intende il sistema della conoscenza razionale
mediante concetti – concetto più volte espresso da Kant nelle sue opere critiche – ciò basta a
distinguerla da una critica della ragion pura in quanto «idea di una scienza speciale»8 che
contiene, certo, una ricerca filosofica sulle possibilità di una simile conoscenza sistematica,
ma che, per la sua specifica natura di critica, non fa parte di un tale sistema, del quale
invece, delinea ed esamina prima di ogni cosa persino l'idea.
La «rivoluzione nella maniera di pensare» che Kant compie nell'ambito della filosofia
teoretica ha come suo fondamento il pensiero secondo cui il rapporto che prima veniva
generalmente ammesso tra la conoscenza e il suo oggetto necessita di un radicale
rovesciamento. Anziché prendere le mosse dall'oggetto come qualcosa di noto e dato, Kant
parte dalla legge della conoscenza come da ciò che solo è massimamente accessibile e certo.
Trascendentale è pertanto ogni conoscenza che si occupa, in generale, non tanto di oggetti
quanto del modo e della maniera secondo cui si conoscono questi stessi oggetti, nella misura
in cui questo conoscere è possibile a priori.
8 Cfr. Ivi, p. 89.
12
Dunque, se la ragion pura può essere determinata come la facoltà che contiene i
principi per conoscere qualcosa prettamente a priori, un sistema di tali concetti può essere
definito filosofia trascendentale. Nell'introduzione alla prima Critica, a tal proposito, Kant
così dice: «La filosofia trascendentale è l'idea d'una scienza, di cui la critica della ragion
pura deve progettare architettonicamente, ossia per principi, l'intero piano con piena
garanzia della completezza e della sicurezza di tutti gli elementi che entrano a costituirne
l'edificio»9.
Ciò che spetta al critico della ragione, per rendere effettivamente operante l'idea di una
tale scienza, è scoprire e determinare in tutte le sue molteplici ramificazioni la forma
fondamentale del giudizio, in quanto condizione data la quale soltanto può porsi una
conoscenza obiettiva. Ciò che concretamente spetta al critico della ragione, allora, è
un'analisi dell'intelletto, di tutti gli elementi trascendentali che costituiscono le fondamenta e
l'estensione dell'edificio della ragion pura, che mostri le condizioni sulle quali poggia da un
lato ogni sapere che voglia presentarsi come scientifico e dall'altro il concetto puro di questo
stesso sapere. Questa analisi è in realtà una scomposizione della facoltà dell'intelletto per
cercare le possibilità dei concetti a priori attraverso il loro reperimento nel solo intelletto e
per analizzarne l'uso in generale. Il risultato generale di questa scomposizione è la riduzione
dell'intera conoscenza a priori negli elementi della conoscenza pura dell'intelletto.
I concetti puri dell'intelletto si fondano sulla spontaneità del pensiero, proprio come le
intuizioni si fondano sulla recettività delle impressioni. L'intelletto non è in grado di fare di
questi concetti un uso diverso da quello consistente nel giudicare per mezzo di essi.
Giudicare significa ricondurre all'unità le molteplici rappresentazioni sotto una
rappresentazione comune. In quanto funzione di unità dell'esperienza, il giudicare è un
9 Ivi, p. 91.
13
conoscere mediato dell'oggetto e l'intelletto può essere concepito in generale come la facoltà
di giudicare. L'oggetto dell' analitica trascendentale, come si può facilmente vedere nella
prima parte della Critica della ragion pura, in quanto entità correlativa dell'unità
dell'intelletto, è pertanto determinato in sede puramente logica: ciò appare con evidenza se ci
si sofferma sul carattere specifico della deduzione trascendentale.
La difficoltà in questo tipo di deduzione consiste nel mostrare che i concetti
dell'intelletto sono le condizioni a priori della possibilità dell'esperienza e della conoscenza
empirica in generale, ovvero nel determinare il principio secondo cui legittimità soggettiva e
validità oggettiva si implicano logicamente, poiché trovano fondamento nelle medesime
condizioni trascendentali. La deduzione, allora, si basa sulla postulazione di un elemento
puro, nel senso di «originario», che a sua volta trova fondamento nel «potere di
rappresentare un oggetto» propria dell' «immaginazione produttiva», secondo il quale
elemento la forma logica di tutti i giudizi consiste nell'unità oggettiva dell' «appercezione
originaria» dei concetti in essi contenuti. I concetti puri sono i predicati del giudizio, i modi
della sussunzione in funzione della sintesi pura che si fonda sull'appercezione originaria e il
cui principio serve da filo conduttore per la scoperta di tutti i concetti puri dell'intelletto,
dedotti secondo la forma del giudizio e pertanto esposti sistematicamente. Le categorie
servono alla conoscenza delle cose solo in quanto queste stesse cose risultano essere oggetti
di esperienza possibile: in ciò consiste la specifica determinazione e i limiti dell'uso delle
categorie rispetto agli oggetti, in relazione alla conoscenza pura in generale.
La ragione non è, per così dire, «un piano di estensione indeterminabile, i cui confini
siano conosciuti soltanto in generale, ma deve piuttosto paragonarsi a una sfera, il cui raggio
è determinabile a partire dalla curvatura della sua superficie [...] sicché si può stabilire con
14
sicurezza anche il volume e la delimitazione della sfera stessa»10. Stabilire volume e
delimitazione significa definire il metodo che consente di avanzare fondatamente nella
determinazione delle condizioni formali di un sistema completo della ragione che non sia un
disegno campato in aria: un sistema, cioè, che tiene conto dei materiali di cui dispone la
ragione senza però nascondere né lasciare come inconcepita l'esigenza di questa di
proiettarsi al di là del confine in cui è subordinata al destino della capacità di sintesi
intellettuale.
Il sistema completo della ragion pura non si risolve nell'analisi del giudizio
determinante, nell'analisi, cioè, della forma del giudizio che sussume il particolare a una
regola o a un principio puro a priori. Già nella Critica della ragion pura appare chiaramente
il problema di non poter esibire l'intero ambito delle esigenze e delle disposizioni della
ragione nel dominio della sintesi intellettuale, poiché la capacità di giudizio determinante
risulta essere soltanto sussuntiva. Nella fondazione trascendentale delle scienze fisico-
matematiche, pertanto, non si esaurisce ogni realtà, poiché in esse non risulta spiegata
l'intera attività e la completa spontaneità della ragione. Nel dominio intelligibile della
libertà, la cui legge fondamentale è sviluppata dalla critica della ragion pratica, nel dominio
dell'arte e delle forme della natura organica, quali si presentano nella critica del giudizio
estetico e del giudizio teleologico, di volta in volta, viene esibito un nuovo lato di questa
realtà, e, al contempo, un ambito ulteriore di determinazione per la filosofia trascendentale.
Questo graduale sviluppo del concetto idealistico-critico – nel senso dell'idealismo
trascendentale – di realtà e del concetto idealistico-critico di ragione, mostra come accanto
alla pura funzione conoscitiva si tratta di intendere la funzione dei giudizi espressa non solo
in relazione all'attività sintetica dell'intelletto, quanto anche all'intuizione estetica, al
10 Ivi, p. 581.
15
sentimento morale, al principio teleologico. Intendere la molteplice funzionalità del giudizio
significa mostrare come nell'attività conoscitiva si compia non tanto e non solo una
determinata attività formatrice avente per oggetto il mondo, quanto piuttosto un'attività
formatrice tesa verso il mondo, verso un'oggettività di nessi che appartengono alla ragione
nella misura in cui questo possedere è espresso nella forma di un determinare, secondo la
legge di formazione dei giudizi particolari e del giudizio in generale.
Nel processo conoscitivo che vede la ragione al fianco dell'intelletto accade che si
sviluppino casi nei quali non è possibile esibire alcuna intuizione sensibile degli oggetti che
si impongono naturalmente nella sintesi intellettuale e che, in virtù di questa loro
caratteristica, relegano la ragione in un dominio di parvenza assoluta. Ma proprio dove i
confini della conoscenza risultano essere limitati, l'impulso a giudicare è grande, tanto che
l'uso speculativo della ragione si dimostra in se stesso dialettico: nell'uso trascendentale,
ovvero nel conoscere secondo meri concetti, la ragion pura ha bisogno di una guida e di una
disciplina che si applichi alla sua tendenza a sconfinare, come se si trattasse di una
legislazione di carattere negativo.
Ora, se si intende uscire a priori dal concetto di un oggetto, perché non si è nella
condizione di averne alcuna intuizione, per la ragione è impossibile condursi ulteriormente
senza determinare un principio che faccia da filo conduttore e che sia posto fuori dal
concetto stesso. Nella conoscenza trascendentale è necessario compiere un passaggio in più
se si vuol superare autenticamente la censura determinata dall'autocritica della ragion pura:
la guida resta quella dell'esperienza possibile finché si tratta di fare i conti con il campo di
applicazione delle categorie dell'intelletto; quando, invece, ciò a cui anela la ragione si pone
al di là dell'attività della determinazione intellettuale, occorre in modo impellente
giustificare la sintesi in altra maniera, come se si trattasse di un ordine altro di realtà. Dice
16
Kant: «Il criterio è questo: che la dimostrazione non si volga direttamente al predicato
desiderato, ma solo attraverso un principio della possibilità di estendere a priori il concetto
dato fino alle idee, e che si realizzino le idee stesse»11.
Nella Dialettica trascendentale Kant ha definito le questioni che eccedono l'uso delle
categorie dell'intelletto e che costituiscono la base di un continuo confliggere della ragione
con se stessa. Spinta fino al limite della conoscenza, «lo scopo finale a cui tende la
speculazione della ragione nel suo uso trascendentale concerne tre oggetti: la libertà del
volere, l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio»12. Prese in se stesse queste proposizioni
equivalgono a «conati oziosi», in quanto la ragione non è in grado di esibire in una
intuizione, tanto pura che empirica, il concetto di nessuno di tali oggetti. Eppure può trovare
piena soddisfazione soltanto nel dar conto di queste esistenze, perché soltanto in questo
modo può rappresentare il suo sapere critico in un tutto sistematico e autosufficiente. Darne
conto, dicevamo, rappresentando quegli oggetti nel modo a essi più adeguato, ovvero
secondo una idea.
Kant può allora affermare: «[...] se quelle tre proposizioni cardinali non sono per nulla
necessarie rispetto al sapere, e se tuttavia ci sono caldamente raccomandate dalla nostra
ragione, vuol dire che la loro importanza non può riferirsi propriamente che al pratico»13.
Come tutto ciò che deriva dalla natura anche questo arrischiarsi della ragione oltre il campo
dell'esperienza deve tendere a uno scopo buono, fondato sul presentimento di oggetti dati
alla ragione in quanto tale: escluso in questo ambito l'uso empirico delle categorie – e
vedremo in che termini si ponga questa esclusione – resterà da vedere se per l'uso pratico la
tendenza naturale alla trasgressione dei limiti dell'esperienza non si riveli essere decisiva.
11 Ivi, p. 595.12 Ivi, p. 603.13 Ivi, p. 604.
17
Ci riferiremo ora, poiché questo è il nostro tema, esclusivamente a una delle tre idee,
ovvero all'idea della libertà del volere, richiamando le altre soltanto in virtù del principio di
una esposizione sistematica dell'oggetto. In quanto è della storia che vogliamo trattare,
prima di poter concepire filosoficamente il corso di questa, dobbiamo definirne l'oggetto
specifico; e allora, quale che sia il concetto che ci si fa di storia, l'oggetto di questa storia, in
quanto condizione pratica e trascendentale della sua possibilità, è la designazione di un
soggetto-oggetto, il genere umano, la cui differentia specifica è pensata come la libertà del
volere. La deduzione che Kant offre dell'idea trascendentale della libertà del volere, così
come la legittimazione di un progetto che additi la massima unità possibile nei termini di
una «unità morale» in quanto sistema della libertà che deve essere realizzato oggettivamente
nella storia, è ciò che prenderemo in esame, perché – in una prospettiva trascendentale – è
sommamente importante che sull'idea della libertà trovi fondamento il concetto pratico della
medesima.
L'utilità dell'intera filosofia della ragione può allora consistere non soltanto nella
costruzione di un organon in vista della delimitazione della nostra conoscenza possibile,
come disciplina da applicarsi alla doppiezza originaria degli uomini; ma, proprio perché
riconosce alla ragion pura un dominio autonomo di oggettivazione, può assumere quella
stessa inclinazione naturale come oggetto specifico, per condurre, entro i limiti che ha
fissato, a una vera moralizzazione degli uomini: questo è il compito che la ragione assegna
alla storia, e questo agli uomini è lecito sperare compiuto il ciclo della conoscenza, per
rispondere di quell'interesse della ragione che non è subordinato a nessun altro interesse
superiore, ovvero la destinazione pratica dell'uomo.
Che la costituzione concreta di un «mondo morale», in quanto realizzazione pratica
18
dell'universale, ovvero di un mondo conforme alle leggi morali in virtù della libertà degli
esseri razionali, possa essere più che una semplice idea e si imponga alla ragione
propriamente come una fede morale, sarà, infine, ciò che prenderemo in esame, come quella
parte del discorso di Kant che si riferisce al dovere di riconoscere e di promuovere in
concreto la realtà oggettiva di una ragione moralmente legislatrice. Se «l'animo umano [...]
prende un interesse naturale alla moralità, quantunque questo interesse non sia esclusivo e
non appaia praticamente preponderante [...]»14, non c'è da fare altro che assumere
riflessivamente la destinazione naturale che ci interpella come agenti morali, rafforzando e
accrescendo questo interesse, per rendere gli uomini buoni e sperare che divengano
sinceramente credenti: che della storia si faccia, dunque, il campo della realizzazione della
destinazione morale degli uomini, e che questi vi agiscano per favorire la vittoria del
principio buono su quello cattivo, come il raggiungimento di una «società civile» che faccia
valere universalmente il diritto15.
Della coesistenza del principio cattivo accanto a quello buono o del male radicale
nella natura umana, è il titolo del capitolo di apertura dell'opera di Kant, La religione entro i
limiti della sola ragione. Opera che Kant riesce a far stampare a Jena nel 1793, superando
tutta una serie di vicissitudini editoriali. La possibilità di adottare massime buone o cattive è
un'altra determinazione del concetto di natura umana. Con l'espressione «natura umana», in
Kant, si deve intendere il fondamento soggettivo dell'uso della libertà umana in generale;
fondamento che è anteriore a ogni fatto e che è esso stesso un atto libero, altrimenti non si
potrebbe imputare l'uso o l'abuso che l'uomo fa del suo arbitrio, in relazione alla legge
14 Ivi, p. 622, la nota a.15 Cfr. I. Kant, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), in I. Kant, Scritti di storia,
politica e diritto, a c. di Filippo Gonnelli, Laterza, Bari 2009.
19
morale. Con questa espressione, allora, Kant vuole indicare che l'uomo ha in sé un
fondamento originario, per il quale egli può adottare massime buone o cattive.
Secondo natura, nell'uomo è da ricercarsi l'originaria disposizione al bene e, insieme, la
radicale tendenza al male. La differenza tra una disposizione e una tendenza (propensio),
riguarda il carattere della relazione che intercorre tra le massime soggettive e il fondamento
originario della natura umana: una disposizione si riferisce sempre a un insieme di
determinazioni essenziali dell'uomo; una tendenza, invece, al fondamento soggettivo della
possibilità di un'inclinazione, alla predisposizione a bramare un godimento contingente
rispetto all'umanità in generale. «In tal modo si viene a dire che il bene o il male è presente
nell'uomo fin dalla nascita, ma non che la nascita ne sia precisamente la causa»16.
In quest'opera la doppiezza originaria della natura umana viene esposta nella massima
chiarezza in quanto specifica determinazione del concetto. Concetto che viene sviluppato dal
critico della ragione pura in una sede così particolare, dopo aver portato a termine il suo
assunto critico e avendo già scritto di storia universale. Il concetto di natura dell'uomo è
concetto importante anche della nostra trattazione, ma in un modo che ci allontana dalla
tematizzazione specifica che Kant ne offre ne La religione. Infatti, come si vedrà nel seguito,
nella nostra analisi non ci soffermeremo affatto sul carattere del fondamento originario della
libertà del volere, in quanto è questo un concetto che si pone al di là di ogni possibilità
teoretica e pratica della ragione. Un andare oltre i limiti della ragion pura che Kant riesce
bene a rappresentare grazie alla metafora dei due cerchi concentrici, con la quale apre la
Prefazione alla seconda edizione17. Il fondamento originario, in quanto originario, si pone
anteriormente ad ogni uso della libertà: in virtù di questa sua determinazione può fornire la
16 I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, tr. it. di Alfredo Poggi e a c. di Marco Olivetti, Laterza, Bari2010, p. 20.
17 Cfr. Ivi, p. 13.
20
base per il concepimento di una dottrina filosofica pura della religione. Ciò che invece noi
tratteremo riguarderà proprio l'uso della libertà nel campo dell'esperienza, ovvero il tentativo
kantiano di elaborare un sapere filosofico e sistematico dei fenomeni della libertà del volere.
Che alla storia, poi, Kant assegni un compito morale potremo mostrarlo soltanto come
sviluppo necessario della nostra argomentazione, la quale risponde, invece, di un interesse
esclusivamente formale. Il campo della morale kantiana sarebbe davvero un terreno troppo
grande da affrontare in questo luogo e partendo da questi presupposti.
In relazione al tema della costituzione del soggetto della storia è, a parer nostro, tanto
importante riferirsi a un tale sviluppo del pensiero di Kant – sebbene si tenga sullo sfondo la
sua filosofia pratica – in quanto quella vittoria è annunciata ne La religione nella forma di
una fondazione: ciò che prescrive una fede morale nella determinazione di una religione
concepita entro il limiti della sola ragione, grazie alla quale supportare la disposizione
morale dell'uomo e affermare, in conclusione, il dominio del buon principio, è possibile
realizzarlo soltanto nella fondazione di una «società della virtù», a cui aderire come compito
e dovere di una ragione moralmente legislatrice. L'unico rimedio al male radicale è la
costituzione di una società civile che faccia valere universalmente il diritto: il diritto di ogni
individuo di diventare membro di una «comunità etica», come se si trattasse del «regno di
Dio sulla terra»18.
Il critico della ragione ha potuto concepire filosoficamente la storia sviluppando la
specificità del soggetto-oggetto di questa nei termini di una teleologia morale, ovvero nella
forma di una destinazione. Ma è proprio della natura formale di un tale processo di
fondazione trascendentale dell'intera attività di formazione della conoscenza e del suo
risultato teoretico – oltre che sistematico – che nell'ambito di un discorso che addita la
18 Cfr. Ivi, pp. 99-107.
21
possibilità di concepire l'idea per una storia universale si trova proposto il contrasto tra il
semplice «schema» logico del concetto del soggetto-oggetto della storia e il suo perfetto
sviluppo e compimento. Sotto il profilo della concettualizzazione del tempo – e qui il
riferimento è all' «antagonismo», all' «insocievole socievolezza», al «massimo problema» –
questo contrasto è la riproposizione del contrasto che sussiste tra potenza e atto.
Da questo punto di vista la rivoluzione copernicana compiuta da Kant nell'ambito della
filosofia trascendentale, ovvero il risultato della critica trascendentale per la pura
conoscenza, non trova un corrispettivo adeguato nell'ambito di una critica della civiltà. La
fondazione di ciascun ambito di oggettivazione umano pone la filosofia trascendentale di
fronte a tutte le direzioni di sviluppo della civilizzazione, del raffinamento e
dell'acculturazione, partendo dal presupposto che vi sia un unico punto focale, un unico
centro ideale verso cui la molteplicità dei fenomeni tende secondo natura. Questo centro,
ovvero la destinazione dell'uomo in quanto rappresentante della ragione e in quanto «unica
creatura razionale sulla Terra», considerato criticamente, rimane un concetto problematico
che non può mai consistere in un essere dato, ma solo in un compito comune. Un compito
determinato trascendentalmente che per risultare effettivamente egemone nella storia deve
tuttavia porsi nei termini di un «piano della natura», nei termini, cioè, di un compito
trascendente la stessa storia degli uomini.
Ora, presupposta la Critica della ragion pura – presupposta in riferimento al corpus
kantiano, a partire dalla data di pubblicazione della prima edizione, ovvero dal 1781 – ogni
oggetto non può che essere fondato trascendentalmente. Allora, se in questa nostra
dissertazione si sostenesse soltanto la tesi che la deduzione delle idee della ragione serve a
sostenere poi che in Kant vi sia una fondazione trascendentale della filosofia della storia,
non si farebbe altro che sostenere una tautologia. In questo dissertare di filosofia
22
trascendentale, invece, si tratterà di dire che proprio perché in Kant si trova una fondazione
trascendentale della filosofia della storia, la storia non può essere concepita se non nella
forma di una teleologia morale. E che, dunque, se stare entro i limiti della sola ragione
nell'ambito della fondazione pura della religione per la ricerca filosofica ha significato
ampliare il suo campo di indagine, concepire una storia entro questi limiti, presupponendo
una certa idea di natura umana, significa arrivare a concepire formalmente la storia di una
destinazione, ovvero l'uomo nella storia e non la storia degli uomini in senso proprio e
stretto.
In breve, a quali condizioni è possibile, secondo il canone trascendentale, un discorso
filosofico sulla storia, quale sia la natura del compito che a questa si assegna in virtù del
principio sistematico della ragion pura e della natura di un essere che agisce secondo libertà,
e quali sono le conseguenze formali che tale discorso determina sul piano della
concettualizzazione del proprio presente come storia, saranno le parti secondo cui
disporremo le nostre considerazioni sulla filosofia della storia del filosofo di Königsberg.
Intanto, però, si tratta di definire l'oggetto specifico del discorso, il criterio di possibilità
di una filosofia della storia a partire dalla giustificazione dell'idea della libertà del volere, in
relazione alla sua origine trascendentale come alle conseguenze dialettiche che comporta,
per fissare l'idea della conoscenza storica adeguatamente al campo di fenomenicità a cui si
ascrive e al bisogno che tale sapere avanza nella ricerca di un modello di scientificità che sia
in grado di fornire un principio di spiegazione universale, in base al quale rappresentare in
un tutto sistematico l'altrimenti assurdo andamento delle cose umane. Si tratterà, allora,
prima di tutto, di riferirci ad alcune parti della Critica della ragion pura, e in particolar
modo alla Logica trascendentale, come a quella parte in cui Kant espone le coordinate
trascendentali su cui si fonda la stessa possibilità di un discorso scientifico sulla storia.
23
I.1. Un «antico desiderio», quando si tratta di fondare un codice di leggi, spinge il
pensiero a farsi l'idea di un principio che sia in grado di semplificare la molteplicità
sconfinata degli ordinamenti e delle obbligazioni, che si tratti di regole per la conduzione
dell'intelletto nel suo procedere alla conoscenza oppure delle regole del vivere civile in
società. Un principio di tal sorta può operare una semplificazione dal momento in cui è
capace di determinare le condizioni di un'unità possibile e legittima. Nel caso dell'attività
dell'intelletto, stando al punto di vista trascendentale, è la ragione che si pone come facoltà
dei principi, mentre nel caso di una legislazione civile è il concetto di libertà che fissa la
forma dell'unificazione come la meta da raggiungere.
Nell'Analitica trascendentale Kant arriva a stabilire un importante risultato così
espresso: «[...] tutti i principi dell'intelletto puro non sono che principi a priori della
possibilità dell'esperienza, alla quale soltanto si riferiscono anche tutte le proposizioni
sintetiche a priori; anzi la stessa possibilità di tali proposizioni riposa interamente su tale
relazione»19. In questo senso si può dire che i concetti puri dell'intelletto contengono lo
schema20 dell'esperienza possibile, e non si può prescindere dalla distinzione che questi
implicano tra la possibilità logica dei concetti nel loro uso empirico e la possibilità
trascendentale dell'esistenza delle cose in generale, alla quale si deve assegnare soltanto un
valore problematico e per nulla assimilabile a quello delle categorie. Fuori dal campo
dell'esperienza, infatti, non possono trovare alcun fondamento principi sintetici a priori. In
breve, come condizioni formali della conoscenza empirica, le categorie pure hanno un
significato semplicemente trascendentale, ma non un uso trascendentale, in quanto non sono
19 I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 264.20 Cfr. Ivi, pp. 190-196.
24
in grado di determinare alcun oggetto. Eppure non si riduce tutto a questa incapacità: il loro
significato trascendentale pone la questione di un uso altro rispetto a quello che ne fa
l'intelletto21.
Se il pensiero consiste nell'operazione di riferire una data intuizione a un oggetto per
mezzo della funzione di sussunzione che svolge il giudizio, quando il genere di questa
intuizione non è dato, l'oggetto è meramente trascendentale, e ciò accade perché l'intelletto
non ha schemi adeguati da offrire come condizione della sussunzione che opera il giudizio.
Kant spiega le conseguenze di questa situazione con l'esempio di due casi limite: «se da una
conoscenza empirica tolgo ogni pensiero [...], non rimane più alcuna conoscenza di un
oggetto; con la semplice intuizione, infatti, nulla assolutamente è pensato [...] se elimino
invece ogni intuizione, mi resta ancora la forma del pensiero, cioè la maniera della
determinazione di un oggetto per il molteplice di un'intuizione possibile»22.
La maniera della determinazione di un oggetto, che si conserva anche nel caso della
mancanza di una esibizione sensibile del concetto dell'oggetto, addita la possibilità di
un'estensione nell'uso delle categorie. Estensione, appunto, che supera i limiti imposti
dall'intuizione sensibile, e grazie alla quale la ragione è condotta al concepimento di oggetti
in generale. Tuttavia, questa estensione, non può determinare affatto un campo positivo di
oggetti, perché non si è autorizzati in alcun caso a presupporre l'esistenza di un genere
diverso di intuizione che non sia quello sensibile. Sappiamo che Kant fa derivare dall'analisi
di questo problema il concetto limite di noumeno, il quale, stando al terzo capitolo
dell'Analitica, non ha altro impiego se non quello di circoscrivere le pretese della sensibilità,
ed ha quindi soltanto un valore negativo. Questo concetto rimane tuttavia ammissibile nel
21 Cfr. ivi, in particolare ciò che viene detto a p. 271.22 Ivi, p. 276.
25
progresso dell'analisi trascendentale della conoscenza, a patto che lo si assuma nel suo
significato problematico23.
La problematicità del concetto di un oggetto che in se stesso non è fenomeno diventa la
questione principale da risolvere nella parte che segue l'Analitica. La possibilità di
ammettere l'esistenza di oggetti non sensibili coincide con la possibilità della ragione di
definire un campo di autonomia rispetto all'intelletto e, insieme – poiché la ragione può
essere autonoma soltanto in un campo che si colloca al di là dell'esperienza – con la sorgente
di ogni sua illusione. In breve, intendere l'estensione richiesta dalla ragione nel senso
oggettivo e non nel suo significato problematico costituisce la fonte di ogni dialettica
trascendentale : «la causa sta nel fatto che nella nostra ragione [...] si danno regole
fondamentali e massime del suo uso che hanno tutta l'apparenza di principi oggettivi, onde
accade che la necessità soggettiva di una particolare connessione dei nostri concetti a favore
dell'intelletto sia equivocata in necessità oggettiva della determinazione delle cose in sé»24.
Ora, poiché è un puro interesse della ragione che spinge al sovvertimento delle regole,
in vista di un'unità che superi quella di cui è capace l'intelletto, si deve concludere che è la
ragione stessa a essere la sede della parvenza trascendentale, in cui cade perché non si limita
a essere la facoltà logica delle condizioni di possibilità della conoscenza empirica, ma
ambisce alla formazione positiva di concetti e principi. La ragione appare così in se stessa
divisa in facoltà logica e facoltà trascendentale, e «si rende necessaria la ricerca di un
concetto più alto di questa sorgente conoscitiva, tale da comprendere sotto di sé entrambi i
concetti»25.
Nella prima parte della Logica trascendentale Kant ha definito l'intelletto come la
23 Cfr. ivi, pp. 264-280.24 Ivi, p. 303.25 Ivi, p. 305.
26
facoltà delle regole e la ragione come la facoltà dei principi. Ma bisogna essere rigorosi
nell'assegnare il giusto significato all'espressione ʻprincipioʼ. Con questo termine si indica
comunemente una conoscenza che può valere come principio di spiegazione causale di una
serie di fenomeni, senza essere, tuttavia, il principium della serie, né in senso matematico,
come lo intende Kant, ovvero di un primo nell'ordine spaziale, né nel senso dimanico,
ovvero di un primo nella relazione. Con principio, invece, Kant vuole intendere la posizione
di un primo matematico e, al contempo, dinamico, in quanto condizione di possibilità
generale della sintesi nella serie successiva dei fenomeni e in quanto cominciamento del
processo di rigorizzazione scientifica stesso.
Come si è detto, anche i concetti dell'intelletto svolgono la funzione di principi;
tuttavia, per l'intelletto vale il significato determinato dalla prima occorrenza del termine.
L'intelletto, infatti, non è in grado di darsi conoscenze sintetiche che non siano anche
«principi relativi». E sono proprio questi principi relativi a fare dell'intelletto la facoltà delle
regole e dell'unità dei fenomeni, e a rendere, conseguentemente, la ragione la facoltà che
mira ad ottenere l'unità delle regole dell'intelletto sulla base di principi. Questa unità
secondo principi, distinta dall'unità intellettuale, è detta da Kant unità razionale, ed è
soltanto in virtù del principio di una unità razionale che facoltà logica e facoltà
trascendentale possono essere concepite come parti di un tutto.
Resta da capire se la ragione possa arrivare a legittimare in assoluta autonomia questa
sua unità di principi, o se debba continuare ad apparire come una facoltà subalterna
dell'intelletto. La questione consiste, allora, nel determinare se la ragion pura contenga
principi sintetici e regole che siano diverse da quelle dell'intelletto.
I.2. Quale che sia la natura dei concetti della ragione, può dire Kant, è certo che si tratti
27
di concetti ottenuti tramite inferenza, poiché le condizioni di possibilità della conoscenza
dipendono interamente dai concetti puri dell'intelletto e ogni sapere che voglia presentarsi
come scienza non può non partire da questi, e tramite questi tentare un ampliamento
possibile. Le categorie sono l'unica fonte da cui si può addurre la materia per ogni sorta di
inferenza trascendentale, così come è dalla forma della deduzione di queste che si può
ricavare lo schema logico dell'uso delle idee della ragione. Tuttavia, mentre i concetti
dell'intelletto servono all'intellezione delle percezioni sensibili, i concetti puri della ragione
servono alla comprensione: tra i due gruppi di concetti sussiste, allora, una distinzione di
campo e un'analogia. Concentriamoci sul secondo aspetto.
In quanto funzioni di sintesi, sussiste tra le categorie e le idee un'uguaglianza di
rapporti nella sussunzione dei rispettivi oggetti ai rispettivi principi. Un'analogia è un ponte
che lega parti diverse di uno stesso territorio26: in questo territorio, che è quello della ragion
pura in relazione all'esperienza, e dunque della conoscenza in generale, trova domicilio una
progressione scalare27 di forme di conoscenza, tale che la facoltà di giudizio si applica alla
minima percezione come all'idea più comprensiva. Nel lessico kantiano si parla di
percezione nel caso di una rappresentazione con coscienza. Questa si divide in sensazione,
se si riferisce esclusivamente al soggetto, in quanto modificazione del suo stato, e
26 Cfr., I. Kant, Critica della capacità di giudizio, cit., pp.81-87. Con territorio ci riferiamo a un concetto che Kantdetermina esplicitamente in un fondamentale paragrafo della sua terza critica, a cui, inevitabilmente, si rimanda.Vale la pena, tuttavia, citare il passo in cui compare il termine, per chiarire meglio il senso del nostro farviriferimento, e perché nello scorcio che ora proponiamo trova posto la determinazioni di altri due concetti di cui ciserviamo ora, come nell'intero corso della trattazione. «I concetti, in quanto vengono riferiti ad oggetti, senzaconsiderare se una loro conoscenza sia possibile o no, hanno il loro campo, che viene determinato solo in base alrapporto che il loro oggetto ha con la nostra facoltà conoscitiva in generale. - La parte di questo campo nella qualela conoscenza ci è possibile, è un territorio (territorium) per questi concetti e per la facoltà conoscitiva richiesta pertale scopo. La parte del territorio sulla quale essi sono legislatori è il dominio (ditio) di questi concetti e dellefacoltà conoscitive loro corrispondenti. I concetti dell'esperienza hanno dunque sì il loro territorio nella natura,come insieme di tutti gli oggetti dei sensi, ma non un dominio (bensì solo un domicilio, domicilium), perché essivengono prodotti secondo leggi, però non sono legislatori, ma invece le regole che su di essi si fondano sonoempiriche e quindi contingenti».
27 Cfr. ivi, p. 318. L'espressione è espressione di Kant e introduce quello che si potrebbe definire come il glossariominimo della filosofia trascendentale, composto dall'autore stesso.
28
conoscenza, se invece ha valore oggettivo. Una conoscenza può essere a sua volta una
intuizione, quando si riferisce immediatamente all'oggetto, ed è perciò singolare; mentre è
un concetto se si riferisce all'oggetto mediatamente, tramite una nota. Un concetto può
essere empirico o puro: hanno entrambi origine dall'intelletto, ma nel primo caso ci si
riferisce agli oggetti in quanto fenomeni, nel secondo esclusivamente a una nozione
intellettuale. Quando un concetto intellettuale trascende il campo dell'esperienza possibile si
dice idea o concetto della ragione.
Nell'uso che fa di questi suoi concetti, la ragione mira all'universalità della conoscenza
e alla massima estensione delle sue condizioni. Un concetto della ragione, dunque, non è
altro che il concetto di una quantità integrale dell'estensione, rispetto a una determinata
condizione, e la possibilità formale di una totalità della sintesi delle condizioni. La ragione
ricerca questo genere di totalità una volta assunto come oggetto specifico l'esigenza di
sospingere l'unità intellettuale fino all'incondizionato, perché solo nel concetto di
incondizionato è contenuta la possibilità di una totalità delle condizioni, quale fondamento
della sintesi dei condizionati in generale.
Spinta più innanzi dell'unità dell'esperienza possibile, delle condizioni formali
dell'esperienza, la ragione escogita per il suo uso puro l'idea di un incondizionato, secondo la
quale sia possibile la fondazione di un'unità assoluta, di un'unità prorpia della ragion pura. E,
allora, «il compito che ci aspetta nella dialettica trascendentale, che ora svolgeremo a partire
dalle scaturigini che risultano profondamente nascoste nell'umana ragione, è questo: stabilire
se quel principio per cui la serie delle condizioni [...] perviene infine all'incondizionato,
possegga o meno una legittimità oggettiva [...] onde si pervenga alla più alta unità razionale
possibile della nostra conoscenza»28.
28 Ivi, p. 322.
29
Ricapitolando: un concetto è un concetto della ragione quando considera ogni
conoscenza empirica come determinata da una totalità assoluta di condizioni. Di
conseguenza, l'uso oggettivo dei concetti puri della ragione non può che essere trascendente,
mentre, soggettivamente, in quanto idee necessarie della ragione, a queste viene assegnato il
predicato di trascendentali. Un idea trascendentale, nel suo uso, è in primo luogo un canone
per l'estensione e la coerenza dell'uso empirico dell'intelletto; e questo, come sappiamo, non
costituisce un problema; in secondo luogo, invece, data la natura trascendente dei concetti
della ragione, rappresenta la fonte di ogni dialettica della ragion pura; e questa è l'unica
questione che si impone alla ragion pura se vuole presentarsi legittimamente per quel che è,
ovvero se vuole presentarsi come sistema.
Prima di sviluppare questo aspetto dobbiamo però ancora riferirci a un sistema, per così
dire, preliminare e incluso in quello più ampio che coincide con una architettonica della
ragione in quanto tale: stiamo parlando del sistema delle idee trascendentali.
L'uso di queste idee intrattiene una relazione naturale con l'uso logico delle categorie, e
abbiamo già visto come questo legame possa fare da filo conduttore nella determinazione
della funzione e del campo di applicazione delle idee della ragione, ovvero secondo
analogia. Così come i concetti puri hanno a che fare con l'unità delle rappresentazioni, così
le idee hanno a che fare con l'unità sintetica incondizionata di tutte le condizioni in generale.
Poiché nel progredire verso le idee trascendentali la ragione non può che essere sollecitata e
indirizzata dall'intelletto, ne consegue che tutte le idee trascendentali si possono ridurre a
«tre classi»29: in relazione al concetto di soggetto, la prima classe contiene l'unità assoluta
del soggetto pensante; in relazione al concetto di oggetto in quanto fenomeno, la seconda
contiene l'unità assoluta della serie delle condizioni; in relazione al concetto dell'esistenza
29 Cfr. ivi, p. 326.
30
delle cose in generale, la terza contiene l'unità assoluta delle condizioni di tutti gli oggetti
del pensiero. Si parlerà, allora, rispettivamente, di una psicologia, di una cosmologia e di
una teologia razionale30.
L'incombenza della ragione è quella di costruire un sapere sistematico che dalla
conoscenza di sé passi a quella del mondo, fino all'ente supremo, definendo così un campo
di oggettivazione specifico e distinto da quello intellettuale. In questo campo, le idee
trascendentali, non servono ad altro che a salire nella serie delle condizioni fino
all'incondizionato, ovvero fino ai principi. Ed è facile vedere come questi principi non siano
pensati dalla ragione come sussidio per l'uso logico delle categorie, in quanto esprimono la
possibilità di un'unità che non si pone dal lato del condizionato, ma dal lato delle condizioni
in generale. Ciò significa che una deduzione oggettiva di queste idee non è possibile in senso
proprio, ossia al modo delle categorie, mentre una deduzione soggettiva, che guardi alla
natura architettonica della ragione, deve essere tentata in quanto necessaria.
C'è una nota, aggiunta nella seconda edizione della Critica della ragion pura, che
esplicita con profonda chiarezza le ragioni del modo dell'esposizione seguito da Kant e la
meta che si è prefissato, e che ci aiuta a chiarire ciò di cui stiamo ragionando. In questa nota
viene detto: «[...] In una rappresentazione sistematica di tali idee, l'ordine già addotto, o
sintetico, sarebbe il più idoneo; ma nella disamina, che deve necessariamente precedere, sarà
più conforme allo scopo l'ordine analitico, che è l'inverso; si tratta infatti di procedere da ciò
che l'esperienza ci mette immediatamente a disposizione, la dottrina dell'anima, alla
dottrina del mondo e da qui fino alla conoscenza di Dio, portando in tal modo a compimento
il nostro grande disegno»31. Di questo grande disegno fanno parte le idee trascendentali e i
30 Cfr. ivi, p. 327.31 Ivi, p. 329.
31
ragionamenti dialettici che da queste si originano, in virtù del fatto che nessuna delle idee ha
una premessa empirica. La realtà di questo grande disegno, allora, se si vuole evitare di
assegnare alle idee il valore di sogno o di patologia della mente32, è da ricercare nella
relazione di necessità che idee e ragionamenti dialettici instaurano con le categorie
dell'intelletto.
I.3. Ci sono ragionamenti mediante i quali, muovendo da qualcosa che conosciamo,
giungiamo a qualcos'altro di cui non abbiamo intuizione e a cui attribuiamo tuttavia realtà
oggettiva per l'effetto di una naturale parvenza. Nel ragionamento della prima classe,
muovendo dal concetto di soggetto, la ragione perviene all'assoluta unità di questo soggetto
come soggetto pensante. Si tratta di un paralogismo trascendentale in quanto, in questo
ragionamento, la ragione si illude che una sua idea, l'unità sintetica dell'autocoscienza, possa
rendersi autonoma dalla sintesi delle percezioni sensibili, ovvero porsi come un'entità
trascendente e a se stante.
Nel ragionamento della seconda classe, muovendo dal concetto di una totalità assoluta
delle condizioni di un fenomeno dato, la ragione fissa la contraddittorietà delle condizioni
del condizionato che rileva nella sua disamina fenomenica, e le assume in quanto tali.
Questo contraddirsi delle condizioni le appare come un conflitto che è essa stessa a generare,
come se si trattasse di un confliggere delle sue leggi. Questo conflitto della ragione con se
32 Nel 1764 Kant pubblicò in quattro puntate sulle "Königsbergsche Gelehrte und politischen Zeitungen" il Saggiosulle malattie della mente, e continuò ad interessarsi del tema anche successivamente, ovvero nel saggio,conosciuto certo più del primo, pubblicato due anni dopo in cui traccia il parallelo tra i sogni di un visionario e laforma del discorso metafisico, paragonando la metafisica, priva di riscontro con l'esperienza, a una forma dipatologia della mente. Per le notizie bibliografiche relative ai saggi a cui si è fatto fugace riferimento, come alleopere successive in cui Kant ritorna sul problema, e sulla possibilità che il criticismo kantiano, da questo punto divista, metta capo a una dietetica della mente, organizzata secondo la forma di una architettonica delle facoltà, inbase alla quale l'uomo può vincere i sentimenti morbosi per mezzo della volontà di adeguarsi alla sola ragione, siguardi la Prefazione di Fulvio Papi, in I. Kant, Saggio sulle malattie della mente, tr.it. di Alfredo Marini, Ibis,Como-Pavia 2009.
32
stessa prende il nome di antinomia: qui si tratta di dover decidere del valore da assegnare ai
concetti cosmologici formati a partire dall'idea di una totalità assoluta della sintesi dei
fenomeni. La ragione, in questo suo ragionamento dialettico, muovendo dal principio che se
il condizionato è dato è data conseguentemente l'intera serie delle condizioni, si crea il
concetto di un assolutamente incondizionato.
Ora, esistono due modi di concepire l'incondizionato: o viene inteso come totalità nella
serie e della serie, ovvero come relativamente incondizionato in quanto risultato di un
regresso all'infinito; oppure è inteso come assolutamente incondizionato, non subordinato ad
alcun regresso ma dedotto e posto fuori dalla serie. Nel primo significato, non si fa
riferimento ad alcun cominciamento assoluto, mentre è a questo che si riferisce il secondo
modo di intendere l'incondizionato.
Il concetto di un assolutamente incondizionato si distingue dal concetto di un
incondizionato della serie in quanto può essere così determinato: rispetto alla serie temporale
è il concetto dell' inizio del mondo; rispetto alla serie spaziale, è il concetto del limite del
mondo; rispetto alla serie causale, è il concetto della spontaneità assoluta o della libertà;
infine, rispetto alla serie dell'esistenza delle cose in generale, assunte secondo la loro
contingenza, è il concetto di necessità naturale assoluta33. Nei primi due casi Kant fa
riferimento a due concetti cosmologici in senso stretto, in quanto sviluppati a partire dal
concetto di mondo come insieme di tutti i fenomeni; nei restanti casi, invece, definisce i
concetti ottenuti come concetti trascendenti della natura, perché si riferiscono all'unità
dell'esistenza dei fenomeni secondo il principio di una causalità condizionata naturale e di
una causalità incondizionata libera.
Infine, riguardo ai ragionamenti della terza classe, muovendo dal concetto della totalità
33 Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 360.
33
delle condizioni per pensare l'esistenza degli oggetti in generale, la ragione si forgia l'idea di
un'unità sintetica assoluta delle condizioni di possibilità delle cose. Una siffatta unità non
viene esibita in concreto poiché designa una singolarità assoluta e una singolarità così
concepita è impossibile collocarla nel campo di una molteplicità di condizioni e di
condizionati. Un'esibizione è possibile soltanto in individuo, ovvero rappresentata come
oggetto singolo in un ideale della ragion pura: «[...] dobbiamo riconoscere», afferma Kant,
«che l'umana ragione, oltre alle idee possiede anche ideali, che [...] sono tuttavia dotati d'una
capacità pratica ( in quanto principi regolativi ), e fungono da fondamento della possibilità di
perfezione di certe azioni»34.
I.4. Nei ragionamenti innescati dalle idee cosmologiche, la ragione non può trattenersi
dal formare proposizioni raziocinanti: secondo il modo dell'intelletto, crede di poter
determinare la natura di un insieme di oggetti di cui non possiede alcuna intuizione.
Proposizioni del genere, proprio perché raziocinanti, assumono significati antitetici e, dal
momento in cui non esiste una esibizione empirica possibile, la ragione deve abbandonare la
speranza di trovare nell'esperienza una conferma o una confutazione definitiva di queste.
Tutto ciò che può fare una mente raziocinante è stabilire per convenzione o falsa coscienza
la preminenza di una delle parti in contesa, senza riuscire a determinare, né tanto più a
risolvere, il motivo profondo del dissidio.
Nella terza antinomia Kant rappresenta il conflitto che nasce dall'impossibilità della
ragione di decidere per la validità del concetto di una causalità esclusivamente naturale
oppure dell'idea di una causalità mediante libertà. In questa condizione di indecidibilità, la
ragione assiste al contrapporsi di due conoscenze apparentemente dogmatiche, secondo la
34 Ivi, p. 462.
34
posizione di tesi e antitesi, allorché non è in grado di conferire né all'una né all'altra l'assenso
definitivo. Vediamo:
- nella tesi viene sostenuto il punto di vista del dogmatismo trascendentale, secondo il
quale la causalità in base alle leggi naturali non è l'unica causalità che determina la serie dei
fenomeni. Si deve ammettere l'esistenza di una causalità mediante libertà. Ammettere
l'esistenza di una forma di causalità di tal sorta significa fissare trascendentalmente la
possibilità di una totalità delle condizioni fenomeniche: «[...] la legge della natura sta
proprio in ciò, che nulla accade senza una causa sufficientemente determinata a priori. Di
conseguenza, l'affermazione che ogni causalità non è possibile che in base a leggi di natura,
nella sua illimitata universalità, contraddice se stessa; e dunque una siffatta causalità non
può venire assunta come l'unica»35. È necessario, nella considerazione di una totalità delle
condizioni, affermare il concetto di una spontaneità assoluta nell'ordine causale, un inizio
assoluto della serie, in mancanza del quale risulterebbe incompleta la serie dei fenomeni dal
lato delle cause. In questo consiste l'idea trascendentale della libertà, la condizione formale
di possibilità di una completezza assoluta delle cause nella serie dei fenomeni;
- nell'antitesi viene sostenuto il punto di vista dell'empirismo trascendentale, secondo il
quale si asserisce l'onnipotenza e l'onnipresenza della causalità naturale nell'ordine
fenomenico. Il concetto di una spontaneità assoluta non è che un vuoto pensiero in questa
prospettiva, perché non esiste altro che la natura con le sue regole e i suoi principi: se «[...]
nel mondo non ammettete un primo matematico quanto al tempo, non siete allora neppure
costretti a cercare un primo dinamico quanto alla causalità»36.
In questa lotta di proposizioni la ragione cade necessariamente perché nel progresso
35 Ivi, p. 382.36 Ivi, p. 385.
35
incessante della sintesi empirica arriva a porsi il problema dell'esistenza di un concetto
svincolato da ogni condizione empirica. Questa «smagliante pretesa» conduce a farsi l'idea
di una spontaneità assoluta su cui risposa un interesse speculativo e, insieme, un interesse
pratico. Il punto di vista del dogmatismo trascendentale, allora, poiché giudica come
necessaria la possibilità della ragione di pensare a un proprio dominio che si estenda al di
fuori del campo dell'esperienza, è, secondo Kant, il punto di vista più congeniale alla ragion
pura, la quale è per sua natura architettonica, ossia non può che concepire «[...] tutte le
conoscenze come rientranti in un sistema possibile» e accogliere «soltanto quei principi che
almeno non impediscono a una conoscenza posseduta di rientrare in un qualsiasi sistema con
altre conoscenze»37. È questo interesse architettonico, in quanto ricerca di un'unità
speculativa e pratica, a legare implicitamente il destino delle pretese della ragion pura alla
legittimità degli enunciati cosmologici del dogmatismo trascendentale.
Dall'altro lato, invece, cioè in conformità all'empirismo trascendentale, non si trova
alcun interesse pratico, se non quello di una decostruzione delle credenze e delle motivazioni
degli uomini; inoltre sembra che questo modello teorico riesca a screditare in linea di
principio la stessa possibilità di una conoscenza sistematica. L'empirismo ha dalla sua parte,
però, la capacità essenziale di mantenere costantemente l'intelletto sul proprio terreno,
nell'ambito, cioè, dell'esperienza possibile. A ben guardare, seguendo la cautela scientifica
prescritta dall'empirista, le pretese della ragione cadrebbero soltanto nell'indifferenza, senza,
tuttavia, cessare di esistere, e questo perché un'affermazione dialettica della ragion pura non
è una semplice proposizione sofistica: sebbene possa esprimersi in forme sofistiche, essa
non concerne questioni che vengono sollevate dall'arbritrio di un intelletto raziocinante. Una
proposizione dialettica si riferisce a un problema in cui ogni ragione umana, in un dato
37 Ivi, p. 403.
36
momento del suo progresso, è costretta ad imbattersi. L'empirista esclude la possibilità di
una ricerca delle cause, di una radice profonda delle scaturigini di tali enunciati, fermando le
sue considerazioni a una questione di analisi dell'argomentazione dialettica.
Sfotrunatamente, però, per l'empirista, proposizioni del genere non vengono distrutte
neppure dopo la sua opera di smascheramento.
Ora, se la ragione sostiene l'angolo visuale dello scetticismo, quale principio di un non-
sapere scaltrito e scientifico, che manda in rovina le fondamenta di ogni conoscere, proprio
lì dove avanza le sue maggiori speranze, si troverebbe immobilizzata nella disputa tra
dogmatismo ed empirismo, senza la possibilità di decidersi per l'uno o per l'altro. L'unico
modo che la ragione ha per decidere della verità della tesi o dell'antitesi è quello di spostare
l'indagine dai contenuti alla forma e all'origine trascendentale della disputa, per stabilire
quale sia la radice del dissidio e se questo non ponga le sue basi su un equivoco, rimosso il
quale non resterebbe nulla dell'antinomia stessa. Questo metodo di assistere e provocare un
conflitto di affermazioni, che mira a stabilire se l'oggetto della contesa non sia magari una
semplice illusione, e che invece di prendere una parte piuttosto che l'altra, mira alla certezza,
per individuare il punto in cui ha luogo l'equivoco, è il metodo scettico tipico della filosofia
trascendentale. Esso, dice Kant, non ha nulla a che fare con lo scetticismo, perché nel campo
delle proposizioni sintetiche concernenti cose in generali, ovvero nel campo delle
proposizioni trascendentali, sceglie di comportarsi «come i legislatori saggi, i quali,
dall'imbarazzo in cui vengono a trovarsi i giudici nei processi, traggono ammaestramento
per sé, rispetto a ciò che nelle loro leggi si ritrova di insufficiente e di inadeguatamente
determinato»38.
Come ogni cosa che si riferisce alla ragione, anche questo dissidio trova la sua
38 Ivi, p. 364.
37
soluzione su un piano trascendentale, in quanto, dice Kant, «[...] fra tutte le conoscenze
speculative, la filosofia trascendentale è caratterizzata dal fatto che nessuna questione
concernente un oggetto dato alla ragione pura riesce insolubile a questa stessa ragione
umana [...]»39. Secondo la filosofia trascendentale gli oggetti della ragion pura devono essere
considerati soltanto in quanto puri oggetti di pensiero, nel riferirsi alla totalità assolutamente
incondizionata della sintesi dei fenomeni, e non come fenomeni in sé. Per Kant, allora, esiste
un solo modo, articolato in due passaggi, per eliminare la parvenza trascendentale che
accompagna di necessità ogni proposizione dialettica della ragion pura: l'esposizione
formale dei ragionamenti dialettici per trovare l'elemento di sofisticazione logica, prima, e la
determinazione del da dove proviene questa naturale esigenza a formarsi idee trascendentali,
poi. Questo significa che, se una soluzione è possibile in quanto è necessaria alla luce della
natura architettonica della ragion pura, questa soluzione non può che essere definita come
«soluzione critica». La soluzione critica è propriamente risolutiva in quanto fonda le sue
pretese di conciliazione sul concetto di idealismo trascendentale.
È noto che con questa espressione si intende il carattere specifico della filosofia
kantiana basato sul concetto dell'idealità dei fenomeni dell'esperienza. Nell'Estetica
trascendentale – ed è lo stesso Kant a dirlo nelle pagine che stiamo tematizzando40 – ciò che
viene dimostrato è che con «realtà» si intende tutto ciò che sta in relazione con una
percezione ed è conforme alle leggi dell'intelletto. Questo, a sua volta, significa che tutti gli
oggetti dell'esperienza non sono che fenomeni, ossia semplici rappresentazioni e non cose in
sé. Ma qui, nella dialettica, non è questione di un fenomeno collocabile nello spazio e nel
tempo: la causa della rappresentazione di un oggetto trascendentale, che porta con sé
39 Ivi, p. 405.40 Cfr. ivi, pp. 414-418, ovvero la sezione dedicata alla determinazione del concetto di idealismo trascendentale come
chiave per la soluzione della dialettica dei ragionamenti dialettici di argomento cosmologico.
38
l'apparenza più irriducibile, non è da ricercarsi su un piano meramente intellettuale. Secondo
le regole di tale facoltà, infatti, questa causa, perché non sensibile, è semplicemente
sconosciuta e quindi non può essere intuita come un oggetto reale. Ma se la ragione si forma
una rappresentazione unica di tutti gli oggetti dei sensi, in ordine alla massima estensione
temporale e spaziale, ciò non vuol dire che afferma la loro esistenza oggettiva come
anteriore all'esperienza. Una rappresentazione del genere costituisce soltanto il pensiero di
un'esperienza possibile nella sua completezza e la radice profonda da cui si origina ogni
antinomia di argomento cosmologico consiste esclusivamente nel modo di concepire questa
completezza: «[...] allorquando cioè si pretenda di usare i fenomeni per l'idea cosmologica di
un tutto assoluto, – allorquando, dunque, si abbia a che fare con una questione oltrepassante
i confini dell'esperienza possibile – la distinzione del modo in cui si assume la realtà degli
oggetti sensibili acquista rilievo per garantirsi da un'illusione sviante, che trae origine
inevitabilmente dalla equivocazione dei concetti di esperienza di cui siamo in possesso»41.
Formalmente, nella terza antinomia, questa equivocazione si rappresenta con il costituirsi
del sillogismo ipotetico seguente:
"se il condizionato è dato, è data anche la serie globale di tutte le sue condizioni; ma
sussistono oggetti sensibili che ci sono dati come condizionati; dunque sussiste l'intera serie
di tutte le condizioni del condizionato e con essa l'assolutamente incondizionato"
In tale argomentazione dialettica il problema non si pone affatto se consideriamo
l'enunciato della premessa maggiore. In quanto proposizione analitica, l'inferenza si basa sul
concetto stesso di condizionato. Il concetto di condizionato, infatti, implica già che alcunché
41 Ivi, p. 418.
39
venga per ciò stesso riferito a una condizione. Ma se un regresso nella serie delle condizioni
non deve essere soltanto imposto poiché ne ricerchiamo la condizione formale a priori,
dobbiamo riferirci alla possibilità di pervenire a una sintesi del condizionato in quanto
presupposto assoluto della serie. È un postulato logico della ragione quello per cui l'intelletto
deve perseguire e condurre il più innanzi possibile il concatenamento di un concetto dato
con le sue condizioni. Il problema nasce allorquando si tenta l'interpretazione dell'enunciato
della premessa minore: qui si inferisce che essendo dato il condizionato, reso possibile dalla
serie delle condizioni, sarà per ciò stesso data, o meglio presupposta, l'intera serie delle
condizioni e, con questa, anche l'incondizionato. Ma dal fatto che fenomenicamente sia dato
il condizionato non segue per nulla che sia dato al contempo anche la sintesi assoluta delle
condizioni empiriche. Tale sintesi, infatti, non è raggiungibile se non nel regresso e mai al di
là di questo. Presupporla è una chiara escogitazione della ragione: è propriamente una
ipotesi.
L'inganno della ragione consiste nel fatto che viene assegnato al termine
«condizionato» un valore antitetico nella premessa maggiore e in quella minore. E cioè:
nell'enunciato della premessa maggiore la ragione assume il condizionato nel senso
trascendentale di categoria pura, presupponendo un intero che non può esibire se non in una
idea; mentre nell'enunciato della premessa minore la ragione assume il condizionato nel
significato empirico di concetto dell'intelletto, e dunque come serie progressiva di fenomeni
soggetti a regole. Da ciò risulta che non è possibile presupporre in entrambi i casi la totalità
assoluta della sintesi e della serie delle rappresentazioni fenomeniche: «nel primo caso
infatti tutti i termini della serie sono dati in sé (fuori di ogni condizione temporale), nel
secondo caso sono possibili solo in virtù del regresso continuato, il quale non è dato a patto
40
d'essere compiuto effettivamente»42.
L'antinomia della ragion pura nelle sue idee cosmologiche può essere soppressa solo se
si pone in chiaro il suo intrinseco carattere dialettico, che consiste in un dissidio di parvenze
originatosi dall'applicazione dell'idea della totalità assoluta della sintesi empirica – valente
soltanto nella designazione delle cose in sé – alla serie dei fenomeni. In tale applicazione la
ragione è spinta a nascondere il valore trascendentale delle sue idee e ad affermarne un
valore oggettivo in modo del tutto ingiustificato. L'autentico smascheramento di questo
processo della ragion pura si deve, allora, al tipo di soluzione fornita da Kant, coerente con
la filosofia trascendentale. Il valore e la validità di questa soluzione, che è detta
propriamente critica, consiste, da un punto di vista speculativo, nel fornire una
dimostrazione indiretta della idealità trascendentale dei fenomeni, mentre, dal punto di vista
pratico, consiste nel predisporre la ragione, chiusa la strada del giudizio determinante, al
concepimento della sua attività specifica in quanto investita di uno scopo e di una
destinazione che si determinano su un ordine di realtà diverso da quello intellettuale.
Tuttavia, a ben vedere, la soluzione critica dell'antinomia possiede ancora un altro
importante elemento, sia nei riguardi della ragione che dell'intelletto. Il principio
cosmologico della totalità non ci fornisce alcun massimo oggettivo della serie delle
condizioni e, dunque, non potrà presentarsi come assioma per pensare la totalità come reale
in oggetto possibile. In quanto principio problematico dell'intellletto, però, si risolve in una
regola per il soggetto che nell'atto della sintesi empirica conduce la sua ricerca in conformità
alla compiutezza postulata dall'idea, senza rinunciare alle regole che l'intelletto prescrive.
Non è pertanto un principio della possibilità dell'esperienza e neppure può essere un
principio costitutivo della massima estensione possibile della serie fenomenica. Il suo valore
42 Ivi, p. 420.
41
è quello di una regola per l'uso empirico della ragione in relazione alle sue idee e ciò
significa che si tratta del principio della continuazione e dell'estensione dell'esperienza nel
modo più ampio possibile, per il quale non sussistono confini empirici.
In quanto regola questo principio della ragione prescrive il comportamento che il
soggetto deve assumere nel regresso della serie empirica per giungere al concetto completo
dell'oggetto. «Lo chiamo pertanto principio regolativo della ragione [...]»43, e non servirà ad
altro che a prescrivere «alla sintesi regressiva nella serie delle condizioni una regola in
conformità alla quale la sintesi, muovendo dal condizionato e risalendo attraverso tutte le
condizioni, secondo l'ordine della loro subordinazione, procederà verso l'incondizionato,
senza però raggiungerlo mai»44. E questo perché non è certo nel campo dell'esperienza che
l'incondizionato può essere trovato.
Nel regresso non si danno che due soli casi: o nell'intuizione empirica è dato il tutto, e
allora il regresso nella serie delle sue condizioni interne si estende all'infinito; oppure ciò
che è dato non è il tutto ma uno dei termini della serie, muovendo dal quale il regresso si
dirige verso la totalità indeterminatamente. È chiaro che se il problema fosse quello di una
determinazione oggettiva della serie, l'unica operazione logica legittima da compiere sarebbe
quella di costruire una catena degli esseri e degli eventi con una tale precisione e dettaglio
che il minimo salto cancellerebbe in linea di principio la possibilità di ottenere la
rappresentazione della totalità delle condizioni di ogni condizionato, come della serie presa
per sé, in modo adeguato. In nessuno dei due casi, dice Kant, che si tratti di un regressus in
infinitum o di quello in indefinitum, la serie delle condizioni è considerata data nella sua
infinità nell'oggetto.
43 Ivi, p. 425.44 Ivi, p. 426.
42
Dunque, come dicevamo, non si tratta tanto di stabilire quale sia l'estensione della serie
delle condizioni in se stessa, se sia infinita o finita, in quanto presa in sé la serie non è nulla.
Si tratta, invece, di determinare il principio regolativo del regresso empirico e di stabilire fin
dove questo può essere spinto. Si tratta, cioè, di stabilire il criterio trascendentale secondo
cui non solo è legittimo ma è anche necessario procedere alla determinazione del principio
della possibilità di estendere a priori il concetto dato fino alle idee.
Nella sintesi empirica o si è in possesso di una percezione che faccia da limite assoluto
al regresso, e allora tale percezione non può costituire una parte delle serie in quanto funge
da limite, e un limite deve essere diverso da ciò che risulta limitato; oppure non la si
possiede, e allora non sarà mai lecito considerare completo il regresso. Questo, per noi,
significa che possiamo mostrare soltanto trascendentalmente, e non oggettivamente, la
validità del principio razionale. E non lo faremo su piano generale, bensì in relazione all'idea
cosmologica della totalità delle derivazioni dagli eventi cosmici dalle loro cause, in quanto
implica e non esclude la possibilità di una causalità secondo libertà.
I.5. Una soluzione dell'idea cosmologica della totalità della derivazione degli eventi
dalle loro cause è possibile se si opera una distinzione preliminare e, insieme, orientativa del
pensiero: di tutto ciò che accade non è possibile pensare che a due specie di causalità, una
secondo natura, l'altra secondo libertà. Con la prima si intende la connessione di stati
successivi del mondo sensibile in base a una regola. Con la seconda, invece, si intende, in
senso cosmologico, la facoltà di iniziare da sé uno stato. Secondo questo significato, la
libertà è un'idea trascendentale pura ed è anche la condizione di possibilità del concetto di
libertà pratica. La relazione che sussiste tra queste due forme di libertà costituisce, secondo
la prospettiva kantiana, il «nocciolo» delle difficoltà che da sempre si incontrano quando si
43
vuol discorrere della possibilità della libertà in generale. Il problema risiede nel fatto di
riuscire a pensare due forme di causalità, quella naturale e quella secondo libertà, nel
medisimo campo d'esperienza, consapevoli che l'eliminazione dell'idea di una spontaneità
assoluta implicherebbe l'impossibilità di concepire una qualsivoglia forma di libertà pratica.
Quando si giudica trascendentalmente dell'idea della libertà, è possibile fare astrazione
dai rapporti causali che l'intelletto istituisce tra i fenomeni, in modo da tener conto soltanto
del rapporto dinamico fra condizione e condizionato. Pertanto: «[...] nella questione intorno
alla natura della libertà ci imbattiamo subito nella difficoltà di dover decidere se la libertà è
possibile, e, in caso affermativo, se possa accompagnarsi alla universalità della legge
naturale di causalità [...]»45. Assunti i fenomeni come cose in sé, dice Kant, e dunque
rinunciando al principio dell'idealismo trascendentale, non c'è posto per la libertà, in quanto
la natura, come principio, diventa l'unica causa efficiente dei fenomeni. Ma, se prendiamo i
fenomeni per ciò che sono, ovvero in quanto semplici rappresentazioni, essi, non essendo
cose in sé, devono avere il loro fondamento in qualcosa che non è determinato al modo di un
fenomeno. Parliamo, cioè, di una causa intelligibile, posta al di fuori della serie e per se
stessa determinante una serie di fenomeni come suoi effetti.
È dunque possibile considerare un effetto, in riferimento alla sua causa intelligibile,
come libero, e, insieme, in riferimento ai fenomeni, come necessario risultato di leggi
naturali. L'inderogabilità della connessione universale di tutti i fenomeni nel campo della
natura non viene messo in dubbio, tuttavia rimane legittima la possibilità di una causalità
secondo libertà che sussiste in concordanza con le leggi universali della necessità naturale.
Intelligibile è ciò che in un oggetto non è in se stesso fenomeno: se nel mondo esiste
un fenomeno che ha in sé un potere che si sottrae all'intuizione sensibile, in virtù del quale
45 Ivi, p. 442.
44
può diventare esso stesso causa di certi effetti, si può considerare la causalità del suo potere
secondo un duplice aspetto. Come intelligibile, appunto, in quanto cominciamento della
serie successiva dei fenomeni; come sensibile, in quanto gli effetti restano necessariamente
collocati nel campo dell'esperienza, ovvero in un mondo, secondo le leggi di natura.
Ora, ogni causa in quanto causa agisce in virtù di una legge di causalità determinata e
insieme determinante la condizione in base alla quale è legata ai propri possibili effetti. In
quanto intelligibile la causalità della causa è svincolata da qualsiasi condizione temporale;
tal genere di causalità, perché intellettuale, non cade nella serie delle condizioni empiriche,
ed è fuor di dubbio che, proprio per questo collocarsi al di là dell'esperienza, il carattere
intelligibile della causalità possa venir conosciuto soltanto mediatamente; in quanto
sensibile, invece, in riferimento al suo carattere empirico, la causalità della causa è intesa
come l'insieme stesso delle leggi della determinazione interfenomenica stabilito
dall'intelletto. Se un oggetto intelligibile è un oggetto che ha potere di dare inizio da sé ai
suoi effetti nel mondo sensibile, e poiché non è concepibile una tale azione se non in un
mondo, inteso come concetto cosmologico di un insieme spaziale e temporale sottoposto alle
leggi della natura, si deve stabilire se sia possibile vedere in un medesimo evento, per un
verso, un effetto naturale, per un altro, un effetto della libertà.
Nella determinazione delle condizioni naturali degli eventi abbiamo necessità di far
riferimento al principio della causalità interfenomenica. Tale principio, lo abbiamo visto,
costituisce anche il filo conduttore dell'intelletto nella sua attività di sussunzione degli
oggetti sensibili alle categorie pure. Nel suo uso empirico, in breve, l'intelletto non ravvisa
negli eventi altro che fatti di natura, e con pieno diritto. Ma a ciò non costituisce una deroga
se si suppone, magari anche e solo a titolo di ipotesi, che fra le cause naturali ne sussistano
alcune dotate di un potere soltanto intelligibile, in quanto la determinazione dell'intelletto
45
stesso ad agire non riposa su condizioni empiriche, ma su semplici fondamenti intelligibili.
Sempre, e lo ripetiamo ancora una volta, che l'azione nel fenomeno di questa causa risulti
conforme a tutte le leggi della causalità empirica.
Applichiamo questo ragionamento all'esperienza. In un mondo di fenomeni anche
l'uomo è un fenomeno: «L'uomo è uno dei fenomeni del mondo sensibile ed è quindi anche
una delle cause naturali, la cui causalità deve sottostare alle leggi empiriche. Egli deve
pertanto possedere, in quanto tale, un carattere empirico, non diversamente da tutte le altre
cose naturali. [...] Ma l'uomo, che ha di tutta la restante natura solo una conoscenza
sensibile, ha conoscenza di se stesso anche mediante la semplice appercezione, cioè delle
operazioni e determinazioni interne, che egli non può porre a carico delle impressioni
sensibili»46. Conseguentemente, l'uomo è per un verso certamente fenomeno, ma in relazione
a talune sue facoltà specifiche, ovvero in virtù del suo intelletto e della sua ragione, è
oggetto prettamente intelligibile, in quanto può decidere delle sue azioni in autonomia
rispetto alla recettività sensibile.
Dunque, come è stato necessario rivolgersi all'azione della natura nella spiegazione
fisiologica dei fenomeni, così ora si deve affermare che la stessa ragione è in possesso d'una
causalità, di un'azione nel fenomeno: questo appare chiaro dagli imperativi, che nell'intero
dominio pratico l'uomo assegna come regole al suo agire. Questa autonomia si esprime
attraverso un dover essere in cui si manifesta un tipo di necessità che non si trova in nessun
altro luogo della natura.
Se ci si rivolge soltanto al corso della natura il dover essere perde ogni significato. Il
suo fondamento, infatti, non risiede nella serie dei fenomeni, ma, in quanto espressione di
un'azione possibile, soltanto in un concetto: è «certamente indispensabile che l'azione, a cui
46 Ivi, pp. 448-449.
46
si dirige il dover essere, sia possibile in conformità alle condizioni naturali; ma queste
condizioni non influenzano la determinazione dell'arbitrio, connettendosi esclusivamente
all'effetto e alla conseguenza che l'arbitrio ha nel fenomeno»47. La questione, allora, diventa
quella di una conciliazione trascendentale della causalità del dover essere con le condizioni
della causalità naturale. In questo caso la ragione non può accettare che esista soltanto un
fondamento empirico, e non assume come proprio l'ordine delle cose quali si presentano nel
fenomeno. Per contro, costituisce del tutto spontaneamente un ordine che le corrisponde in
senso stretto e proprio. Un ordine fondato su idee: in questo ordine la ragione si convince
della legittimità di adattare le condizioni empiriche alle sue idee, in base alle quali può
proclamare l'esistenza di azioni che non sono mai avvenute e che probabilmente non
accadranno mai.
Ciò che distingue le idee trascendentali da una patologia della mente o da uno stato
sognante non è solo il fatto che la ragione è necessariamente spinta a configurarsele in
quanto necessarie nel processo analitico della conoscenza: quelle idee prescrivono alla
ragione un intervento nel mondo esterno, un'azione nel fenomeno. Le idee trascendentali
risultano essere perciò realmente decisive per l'uso pratico della ragione in quanto additano
la possibilità di una costituzione oggettiva della ragion pura.
La ragione possiede effettivamente la capacità di intervenire nel corso naturale del
mondo secondo una causalità specifica e questa capacità non può essere concepita se non
come la possibilità di realizzare le proprie idee, di produrre effetti nell'esperienza in virtù di
queste idee. Pur essendo ragione, allora, essa possiede un carattere empirico proprio e la
libertà è, secondo questa prospettiva, l'elemento determinante del carattere empirico della
ragione, l'autentico principium della serie fenomenica.
47 Ivi, p. 449.
47
Se la ragione può avere una causalità rispetto ai fenomeni, essa è la facoltà che dà un
primo inizio alla condizione sensibile di una serie empirica di effetti. Si dà allora quella
condizione empiricamente incondizionata che non è stato possibile riscontrare nell'angusto
dominio dell'intelletto: angusto – ora possiamo affermarlo non erroneamente – rispetto
all'esigenza della ragione e a un concetto di totalità desunto dalla stessa procedura analitica
intellettuale, come risultato analitico in senso proprio. La ragione costituisce, pertanto, la
condizione permanente di ogni azione volontaria in cui l'uomo si manifesta
fenomenicamente: ed è proprio in virtù di ciò, conclude Kant, che si rende possibile una
filosofia dell'uomo che tenga assieme la conoscenza fisiologica delle cause motrici delle sue
azioni e la dimensione di responsabilità determinata dall'esistenza di una ragione
praticamente legislatrice nella forma del dover essere48.
La spiegazione di una connessione della libertà con la necessità universale della natura
può spingersi fino al punto di stabilire l'esistenza di una causa intelligibile, come condizione
sensibilmente incondizionata dei fenomeni, ma mai oltrepassante questa. L'idea
trascendentale della libertà, su cui si fonda la possibilità di pensare la libertà del volere
umano, è il concetto di una unità razionale che non si riferisce ad altro oggetto che alla
totalità delle condizioni formali del mondo sensibile, attraverso la quale la ragione pensa di
dare un inizio assoluto alla serie delle condizioni nel fenomeno, come a formarsi il concetto
di un incondizionato.
Quando la ragione arriva a porre un concetto quale quello di incondizionato, cioè l'idea
48 Cfr. ivi, p. 451. Nell'ipotesi che la ragione possegga una causalità rispetto al fenomeno, è possibile ritenere libera lasua azione, nonostante il concorso di cause naturali universalmente necessarie. Bisogna, però, tener presente ciò cheKant dice nella nota a: «L'autentica moralità delle azioni (merito e colpa), persino quella del nostro stesso operare,ci resta pertanto del tutto nascosta. Le nostre valutazioni possono riferirsi soltanto al nostro carattere empirico. Manessuno sarà mai in grado di stabilire, quindi neppure di giudicare in modo equo, in quale misura il puro effettodipenda dalla libertà, e in quale dalla semplice natura e dalle manchevolezze non imputabili del temperamento,oppure dalla sua felice costituzione (merito fortunae)».
48
cosmologica della totalità della dipendenza dei fenomeni rispetto alla loro esistenza in
generale, e non soltanto in relazione al cominciamento assoluto della serie, essa si svincola
interamente dall'esperienza. Nel caso specifico l'idea da sola non fornisce più alcuno schema
sensibile analogo alla funzione dello schematismo trascendentale, come quando si trattava di
una sussuzione a categorie dell'intelletto. Questo incondizionato diventa un oggetto
meramente intelligibile, un ente del pensiero cui la ragione perviene come al culmine del
sistema delle idee trascendentali. Spingendosi più lontano della realtà trascendentale delle
idee esibibili in concreto nella loro applicazione ai fenomeni, la ragione si rappresenta come
cosa singolare l'idea di un'integrale determinabilità secondo principi a priori: questa idea
prende il nome di ideale della ragion pura, ed è espressione della massima pretesa teoretica
della ragione. «Come l'idea fornisce la regola, così l'ideale serve da archetipo [...]»49: in un
primo momento è realizzato, cioè assume la forma dell'essere realissimo in quanto
fondamento della determinazione completa delle cose in generale, e dunque ente
massimamente reale; successivamente è ipostatizzato, e infine, in virtù dell'avanzamento
naturale della ragione verso una compiuta unità, è anche personificato50. Da ciò si capisce
che in questa sezione Kant arrivi a fondare la possibilità di un discorso su Dio e, al
contempo, a definire il valore che questo ideale riveste nei confronti di ciò che è lecito
sperare per gli uomini, in base alla loro determinazione essenziale di esseri razionali. Ciò
che invece rimane a noi da determinare riguarda gli esiti reali dei tentativi dialettici della
ragion pura, lo scopo ultimo al quale la dialettica rimanda naturalmente, in relazione all'idea
di libertà del volere, in primo luogo, ma anche in generale, come destino a cui la ragione non
può sottrarsi.
49 Ivi, p. 463.50 Cfr. ivi, pp. 461-471, e in particolare ciò che viene detto nella nota conclusiva della sezione.
49
I.6. Non è possibile, neanche tramite la critica più penetrante, estirpare l'irresistibile
dissidio di parvenze che si genera nella ragion pura quando questa crede d'esser giunta in un
campo di oggettivazione che le appare come il proprio dominio specifico. E non è possibile
in ragione del fatto che si tratta della natura di una facoltà così essenziale agli uomini da
costituire il fondamento e la sorgente di ogni aspirazione e speranza. Ciò che la critica della
ragion pura arriva a stabilire, quando si rivolge alla produzione di una dimensione simbolica,
quale è quella che si determina nella dialettica delle idee trascendentali, come se si trattasse
di una tipica della ragion pura nel suo uso speculativo, non riguarda l'oggettività empirica
dei suoi oggetti, bensì il dover essere che questi additano in vista di una comprensione
integrale della ragione e della destinazione pratica dell'uomo in quanto produttore di quelle
idee. Più che il senso, si direbbe, il quale dipende dallo scambio del valore logico col valore
trascendentale delle idee, è il dovere di una ragione consapevole della sua natura a imporsi
come vero risultato della dialettica trascendentale.
Come per la tipica del giudizio puro pratico che fa della legge naturale il tipo o l'
immagine di una legge della libertà – perché se non avesse sotto mano qualcosa capace di
servigli d'esempio nel caso empirico, non potrebbe procurare alla legge di una ragion pura
pratica l'uso nell'applicazione, e questo qualcosa è proprio l'immagine o il tipo della forma
universale della legge naturale – così anche per un giudizio che si riferisce alle idee della
ragione si può parlare di una tipica, sebbene risulti essere una tipica affatto diversa da quella
che caratterizza il giudizio puro pratico. In ogni sussunzione di un oggetto sotto un concetto,
la rappresentazione dell'oggetto deve essere omogenea a quella del concetto. Tuttavia i
concetti dell'intelletto e le intuizioni empiriche sono del tutto eterogenee: la sussunzione, e
stiamo parlando della sussunzione di un giudizio determinante, è possibile, allora, soltanto
50
se nell'applicazione della categoria ai fenomeni si fa ricorso a qualcosa di intermedio, che
per un verso sia intellettuale, per l'altro sensibile. L'elemento di mediazione è lo schema e il
procedimento dell'intelletto rispetto a questo schema prende il nome di schematismo
dell'intelletto puro. Attraverso la sintesi trascendentale dell'immaginazione lo schematismo
dell'intelletto puro è diretto all'unità di ogni molteplice dell'intuizione nel senso interno,
ovvero secondo il tempo. Sebbene sia un puro prodotto dell'immaginazione, uno schema,
proprio in virtù della funzione che svolge nel giudizio, non deve essere confuso con una
semplice immagine. Quest'ultima, infatti, è un prodotto della facoltà empirica
dell'immaginazione, ovvero dell'immaginazione riproduttiva; lo schema, invece, è un
monogramma dell'immaginazione pura a priori, produttiva della rappresentazione del
procedimento generale mediante cui l'immaginazione appronta al concetto puro la sua
immagine. In una sussunzione del giudizio determinante lo schema è l'elemento che
consente una relazione in concreto tra categorie e oggetti empirici. Nella totalità
dell'esperienza la ragione non incontra soltanto oggetti di natura sensibile, come abbiamo
potuto appurare, e dunque non conosce soltanto un'unica forma di sussunzione. Nella
Critica della capacità di giudizio, nel §59, viene detto: «Per provare la realtà dei nostri
concetti si richiedono sempre intuizioni. Se si tratta di concetti empirici, esse si chiamano
esempi. Se si tratta di concetti puri dell'intelletto, esse sono dette schemi. Se poi si pretende
che venga provata la realtà oggettiva dei concetti della ragione, cioè delle idee, in funzione,
anzi, della loro conoscenza teoretica, si vuole qualcosa d'impossibile, perché ad esse non si
può dare assolutamente un'intuizione adeguata». E allora: «Ogni ipotiposi (esibizione
[Darstellung], subiectio sub adspectum), in quanto resa sensibile è di uno di questi due tipi:
o schematica [...] oppure simbolica, se sotto a un concetto che solo la ragione può pensare, e
al quale nessuna intuizione sensibile può essere adeguata, ne viene posta una con la quale il
51
modo di procedere della capacità di giudizio è solo analogo a quello che essa segue nello
schematizzare [...]», ovvero seguendo le regole di questo procedere e non secondo
l'intuizione stessa, in virtù della forma della riflessione. Da ciò ne consegue che il modo
dell'esibizione delle idee trascendentali è propriamente simbolico.
Un simbolo, a differenza di uno schema, contiene soltanto una esibizione indiretta del
concetto: una esibizione secondo analogia. In un'analogia il giudizio compie un duplice
ufficio: in un primo momento applica il concetto all'oggetto di una intuizione sensibile,
come a qualcosa che è dato con certezza; successivamente, tramite un principio della
riflessione, applica quell'intuizione a tutt'altro oggetto, del quale il primo non è che il
simbolo. Se si può chiamare già conoscenza una mera specie di rappresentazione, il che è
senz'altro permesso se essa è un principio non della determinazione teoretica dell'oggetto
bensì della determinazione pratica, allora ogni nostro riferimento a oggetti escogitati dalla
ragione per il suo uso pratico è un riferimento a un tipo di conoscenza simbolica, e gli
oggetti di questa sono in senso proprio e stretto dei simboli.
Ora, per quanto tutto debba essere sviluppato in modo più determinato, possiamo
tuttavia avanzare un'ipotesi che, allo stato attuale dei nostri studi e in relazione alla presente
dissertazione, non ha altro valore se non quello di un'ipotesi di lavoro futura. L'ipotesi è
questa: la dialettica trascendentale è l'esposizione del processo di formazione di una
dimensione autenticamente simbolica ed essenzialmente legata alla natura della ragione. Se
con giudizio determinate si intende la facoltà di pensare il particolare come contenuto sotto
l'universale quando quest'ultimo è dato nella forma di una regola o principio puro a priori, e
con giudizio riflettente invece si intende la facoltà di risalire dal particolare all'universale
tramite un principio che non è possibile ricavare dall'esperienza e per il quale la capacità di
giudizio deve trovare l'universale, allora il suo territorio, il territorio del giudizio riflettente,
52
in cui trovano posto le stesse idee trascendentali, è il territorio proprio dell'emersione di
forme simboliche, le quali risultano avere un valore conoscitivo specifico come un valore
pratico di straordinaria portata, in quanto risultano essere determinanti nello sviluppo della
destinazione morale dell'uomo. Un simbolo è, sotto questo aspetto, immediatamente
prescrittivo di una condotta, dotato cioè di una capacità pratica e in quanto funge da
fondamento della possibilità di perfezione di certe azioni . E dunque, come per Kant è stato
possibile individuare nella formazione di immagini ed esempi una tipica del giudizio puro
pratico, così per il giudizio riflettente non ci sembra del tutto infondato parlare di una
simbolica del giudizio riflettente, decisiva per l'uso pratico della ragione51.
Ma, intanto, riprendiamo il filo della nostra argomentazione. «Tutto ciò» , afferma a tal
proposito Kant, «che trova fondamento nella natura delle nostre forze deve essere conforme
a un fine [...]»52: riconoscere la natura di un oggetto vuol dire per il critico della ragione
stabilirne l'immanente direzione di sviluppo, in quanto ciò che è natura è necessariamente
legato alla sua propria destinazione. Resta da decidere quale sia quella delle idee
trascendentali.
Le idee trascendentali non possono fornire alcun concetto costitutivo dell'esperienza, e
infatti, intese in questo modo, si risolvono in semplici ragionamenti dialettici. Esse però
possono essere impiegate vantaggiosamente come principi regolativi dell'uso empirico
dell'intelletto nella determinazione di un focus imaginarius, ovvero di un punto in cui
51 Per il concetto di tipica del giudizio puro pratico si veda, I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., pp. 147-155. Perle citazioni tratte dal §59, invece, I. Kant, Critica della capacità di giudizio, cit., pp. 541-551. Si tenga conto, comedel resto può apparire evidente di per sé, che nel formulare la presente ipotesi si è tenuto conto di alcune parti deltesto di Ernst Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, tr. it. di Eraldo Arnaud, La nuova Italia, Firenze 1961. Inparticolare sono le pagine dell' Introduzione e posizione del problema, in Filosofia delle forme simboliche, cit.,Vol.I, pp. 3-59, che hanno stimolato, nel senso della nostra ipotesi di lavoro futura, la riflessione sulla «rivoluzionenel modo di pensare» di Kant. In quelle pagine introduttive dell'opera e del problema si tratta di stabilire a qualicondizioni è possibile concepire una filosofia delle forme simboliche. La nostra ipotesi, allora, si pone in continuitàcon alcuni giudizi espressi dal Cassirer in quella sede, in rapporto proprio alla filosofia trascendentale.
52 I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 508.
53
convergono le regole della determinazione empirica e che configura l'idea di una massima
unità ed estensione possibile dell'esperienza. Questo focus è un risultato analitico in senso
proprio e stretto e, insieme, l'idea di una unità razionale della conoscenza rappresentata
sistematicamente, in virtù del principio della massima estensione e completezza nella
conoscenza empirica. Un'idea di tal sorta postula «[...] l'unità completa della conoscenza
intellettuale, mediante la quale questa conoscenza risulta, anziché un semplice aggregato
accidentale, un sistema articolato in base a leggi necessarie»53.
Nel far valere il diritto di una conoscenza sistematica, la ragione sovrappone il proprio
campo all'intelletto, e come la sensibilità funge da oggetto per l'intelletto, così questo è
assunto dalla ragione, in quanto l'incombenza della ragion pura consiste esclusivamente nel
rendere sistematica l'unità di tutte le possibili operazioni empiriche dell'intelletto stesso.
Possiamo quindi riferirci a una idea come al concetto di un maximum, perché costituisce
semplicemente la regola o il principio dell'unità sistematica dell'intero uso dell'intelletto. In
questo modo le idee ampliano la conoscenza sperimentale senza mai contrastarla perché
assegnano una massima della ragione all'intelletto nel uso empirico.
La deduzione trascendentale di tutte le idee speculative della ragion pura, in quanto
principi regolativi dell'unità sistematica del molteplice dell'esperienza in generale e non già
in quanto concetti costitutivi per l'estensione della conoscenza a oggetti non suscettibili di
alcuna esibizione oggettiva, risiede nella possibilità di dimostrare che un'idea trascendentale
coincide con il concetto regolativo di un maximun. Una deduzione trascendentale riposa
sulla distinzione che sussiste, per la filosofia kantiana, tra un oggetto dato assolutamente
alla ragione e un oggetto dato relativamente, ovvero un oggetto dato nell'idea. Il primo tipo
di oggetto è la cosa che viene sussunta ai concetti dell'intelletto tramite lo schematismo
53 Ivi, p. 510.
54
trascendentale, cioè è la cosa determinata, è il fenomeno grazie al quale si è autorizzati ad
ammetterne l'assoluta esistenza nella rappresentazione; nel secondo tipo di oggetto, invece,
non si dà che uno schema a cui non si attribuisce direttamente un oggetto, ma che serve a
rappresentare altri oggetti per via indiretta, in relazione all'idea. Un mero ente di ragione
secondo il quale si possa ammettere una esistenza soltanto relativa, in analogia, ovvero
attraverso una esibizione simbolica.
Questo semplice schema del concetto d'una cosa in generale, relativo alle condizioni
della massima unità razionale, è ciò che Kant definisce come il concetto di cosa
trascendentale: in breve, «la cosa trascendentale è solo lo schema di quel principio
regolativo col quale la ragione estende, al massimo consentitole, l'unità sistematica a tutta
l'esperienza»54. Possiamo stabilire che il risultato dell'intera dialettica trascendentale e la
destinazione ultima delle idee della ragion pura consistono nella designazione problematica
dell'esitenza della cosa trascendentale, in quanto concetto che dischiude la possibilità di un
discorso rivolto a un altro campo di determinazione, quello della ragion pura, in vista della
natura e della destinazione ultima di questa speciale facoltà e del soggetto che ne detiene il
possesso integrale, ovvero dell'uomo in quanto essere razionale. L'unità del concetto
razionale, come connessione sistematica mediante il principio di un maximum, che è la cosa
trascendentale ricercata dalla ragione in virtù dello schema di un principio regolativo grazie
al quale ambisce alla costruzione del suo sistema come del sistema della conoscenza in
generale, è la destinazione propria di una ragione che ha di sé un'adeguata rappresentazione.
Il primo oggetto di una simile idea è il soggetto come natura pensante. Mirando solo ai
principi dell'unità sistematica per la spiegazione dei fenomeni di questo soggetto pensante, la
ragione considera tutte le determinazioni come proprie di un unico soggetto e tutte le facoltà
54 I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p.. 531.
55
come scaturenti da un'unica facoltà fondamentale. La seconda dell'idee della ragione in
relazione al concetto di cosa trascendentale è l'idea di mondo in generale, determinato come
totalità assoluta della serie delle condizioni. Dove però la ragione è assunta come causa
determinante, ovvero nella libertà, si deve procedere come se ci si trovasse innanzi a un
oggetto non sensibile, le cui condizioni anziché nella serie dei fenomeni devono essere
cercate al di fuori di essa, e la stessa serie deve essere pensata come dotata di un inizio
assoluto. La terza idea, infine, è la supposizione semplicemente negativa di un essere, il
concetto di una causa unica e onnisufficiente, esibibile, data la sua natura, esclusivamente in
individuo. Stiamo parlando, cioè, del concetto razionale di Dio. In questo caso la ragione si
propone null'altro che la massima regola formale per l'ampliamento del suo uso empirico.
La suprema unità formale che poggia sui concetti della ragione è l'unità delle cose in
conformità a fini, e diventa per la ragione, che nel suo uso speculativo si rende necessario
considerare ogni ente come se avesse tratto origine dall'opera di una ragione suprema, il
principio di un nesso finale che offre prospettive del tutto nuove alla ragione nella sua
applicazione empirica. Il principio di una suprema unità formale di tutte le cose secondo
leggi teleologiche, e quindi l'unità finale, rappresenta la condizione di possibilità dell'uso
massimo della ragione umana. E l'idea di questa unità è essenzialmente legata alla natura
della ragion pura, in quanto connessa alla sua interna costituzione.
I.7. Nel redigere con cura gli atti del processo alla ragione, depositandoli nell'archivio
della storia del pensiero umano affinché si possano evitare errori nella conoscenza
scientifica futura, Kant ha mostrato come ogni conoscenza umana comincia con intuizioni,
passa a concetti e si conclude con idee, e che una critica integrale mostra come ogni conflitto
che si genera nel passaggio da una forma all'altra o nelle forme prese in se stesse è, in quanto
56
tale, mera parvenza se pensato alla luce della natura dell'oggetto specifico della critica,
ovvero secondo la costituzione naturale della ragion pura. La ragione produce
necessariamente l'idea di una massima unità razionale: sussunto sotto questa idea ogni
confliggere viene risolto, conciliato, in quanto diventa per la ragione una pura questione di
diritto, secondo cui la possibilità delle cose in generale coincide con la loro conformità a
leggi – conformità da cui dipende anche l'autentica estensione a una dimensione più
propriamente simbolica – e la realtà delle leggi con la loro deduzione. Il fatto che nel
redigere gli atti di questa integrale istruttoria Kant abbia potuto prendere in esame l'insieme
delle conoscenze della ragione pura come se si trattasse di un edificio, di cui ha fissato
altezza e solidità, e che questo edificio fosse poi rappresentato come un tribunale, come il
tribunale della ragion pura, a voler prendere sul serio le immagini dei filosofi, la dice lunga
sul filo conduttore specifico della filosofia kantiana, e, a nostro giudizio, sulla forma di
coscienza illuministica in generale.
Per giustificare quest'ultima affermazione sarebbe necessario volgersi qui ad un'analisi
che eccede la presente trattazione, ovvero a una teoria e a una storia delle forme simboliche
che proprio in virtù della complessità a cui accenna necessita di ulteriori studi preliminari da
parte di chi scrive, perché si riesca soltanto ad impostare correttamente il problema.
Dunque, riprendiamo il filo del discorso che stavamo facendo.
Dalla disamina del concetto di libertà compiuta da Kant nella Dialettica trascendentale
sappiamo che non è possibile pensare che a due concetti di libertà: un concetto
trascendentale e un concetto pratico. Nel primo significato ci si riferisce esclusivamente a un
tipo di causalità non condizionata. In quanto particolare genere di causalità, doveva essere
dedotto a partire dalla connessione e dalla compresenza possibile di questo con l'universalità
della legge naturale. E così è stato fatto da Kant: nella prima parte della logica
57
trascendentale ha stabilito le condizioni per cui risulta oggettivamente fondato il dominio
fisiologico dell'intelletto; assunto questo come schema, nella seconda parte della logica è
stato in grado di determinare come analogon del fisiologico il dominio del concetto
trascendentale definito dalle idee della ragione. Ciò ha implicato due risultati propriamente
teoretici: il primo riguarda la determinazione del principio della massima estensione
dell'esperienza possibile, ovvero il concetto di una massima estensione della serie formale
delle condizioni del condizionato; il secondo, che da questo dipende, riguarda la
determinazione della condizione di possibilità teorica del concetto di libertà pratica, ovvero
della condizione di una conoscenza sistematica della serie dei condizionati in virtù della
determinazione del principio dinamico di relazione fenomenica, che dunque include e non
esclude dalla serie le azioni degli uomini. Queste, infatti, in quanto fenomeni devono essere
spiegate come ogni altro fenomeno, ossia in base alle leggi della natura, ma, al contempo,
poiché originate da una causa intelligibile, rappresentano l'esibizione pratica di una
spontaneità assoluta nello stesso ordine delle leggi di natura. Che la volontà sia libera,
infatti, non riguarda altro che l'aspetto di intelligibilità della causalità propria del nostro
volere, e, in quanto causa di effetti, non può essere conosciuta se non come ogni altra forma
di causalità fenomenica, ovvero a partire dalle sue conseguenze e in base alle leggi della
natura.
Con il concetto pratico di libertà, intendiamo, invece, tutto ciò che è possibile mediante
libertà. Con questo concetto si definisce il campo proprio delle idee della ragione nel loro
uso, in particolar modo nel caso dell'idea dell'immortalità dell'anima e dell'esistenza di un
essere supremo. È importante chiarire questo punto: la determinazione di un ambito di
azione in cui è possibile, in linea di principio, la compresenza di due forme di causalità
antitetiche, quella secondo natura e quella secondo libertà, è una questione esclusivamente
58
teoretica, in quanto si è trattato, e lo abbiamo visto nell'analisi della Dialettica e, più da
vicino, nell'Antinomia, di definire le condizioni di possibilità dell'esistenza in natura di una
causa intelligibile. La libertà trascendentale, nella Critica della ragion pura, è un concetto
problematico che postula l'assoluta indipendenza della ragione e come tale resta una
questione di ordine speculativo, mentre l'ideale di un essere supremo, come ogni altro ideale,
ha un uso propriamente pratico. Non è certo un caso, allora, che il nostro parlar di libertà
faccia riferimento quasi esclusivamente all'analisi della prima critica, in quanto si tratta qui,
nella nostra dissertazione, di stabilire le condizioni teoretiche di possibilità, i presupposti
speculativi del discorso sulla storia di Kant.
Tuttavia, mediante l'esperienza conosciamo la libertà pratica come una delle cause
naturali, come causalità della ragione nella determinazione della volontà, e questo non è che
un problema che concerne l'uso pratico della ragione. Diciamo infatti che, se le condizioni
per l'esercizio del libero arbitrio sono empiriche, in quanto si realizzano in un mondo e non
solo in una mente, la ragione non può avere altro uso che quello regolativo, dal momento
che è naturalmente interessata alle motivazioni dell'agire come alle sue conseguenze.
Dal punto di vista pratico, ovvero rispetto a tutto ciò che è possibile mediante la libertà,
l'interesse della ragione consiste nel porre in atto l'unità delle leggi empiriche in quanto
codice di leggi ordinato secondo il principio della libertà del volere. Ma, poichè resta
ragione anche nel suo uso pratico, non si limita alla stesura di un codice pragmatico di
regole per il libero agire in vista del raggiungimento di certi scopi: la ragione mira a stabilire
leggi pure a priori anche nel dominio pratico e può farlo in quanto è per se stessa
moralmente legislatrice, ossia è in grado di determinare interamente a priori il fare o il non
fare di un essere razionale. Tutti i risultati della ragion pura nella elaborazione della sua
filosofia conducono alla posizione di idee trascendentali, le quali, assunte come principi
59
problematici dall'intelletto, trovano espressione oggettiva nell'uso pratico della ragione; anzi,
meglio: la interpellano in quanto moralmente legislatrice.
Nel progredire della conoscenza di sé e nel fissare limiti e possibilità del sapere
trascendentale, la ragione ha indagato analiticamente il dominio fisiologico definito dal
potere astraente e determinante delle categorie dell'intelletto; da questo ha tratto l'analogon
per poter concepire il concetto di un oggetto di cui non poteva esibire intuizioni di sorta,
aprendosi al campo delle idee trascendentali e di una dimensione più autenticamente
soggettiva; come analogon del trascendentale, ovvero secondo lo schema fornito dalle tre
idee e dai ragionamenti dialettici, la ragione ha potuto infine dedurre la direzione propria
verso cui condurre i propri precetti morali, e cioè porsi la questione di quale debba essere il
comportamento di un essere razionale se il volere è libero, se esiste un Dio e se c'è un
mondo futuro.
Determinando gradi di universalità via via maggiori, la ragione è arrivata a legittimare
la possibilità di una sua attività oggettiva di legislazione e a trovare il fine supremo, lo scopo
ultimo della natura, nel dovere che si impone alla sua facoltà pratica di creare un mondo
morale. «Do il nome di ʻmondo moraleʼ a un mondo che sia conforme a tutte le leggi morali
(cioè quale può essere in virtù della libertà degli esseri razionali, e quale deve essere in virtù
delle leggi necessarie della moralità). Questo mondo è in tal modo pensato come
semplicemente intelligibile, perché in esso si prescinde da tutte le condizioni (fini), e anche
da tutti gli impedimenti alla moralità nell'interno di esso [...]. In quanto tale, esso è dunque
una semplice idea, ma tuttavia pratica, che deve e può effettivamente avere un suo influsso
nel mondo sensibile, per far sì che esso risulti il più possibile conforme a tale idea. L'idea di
un mondo morale ha dunque realtà oggettiva [...]»55, e ciò significa che la ragion pura
55 Ivi, p. 609.
60
contiene – certamente non nel suo uso speculativo, ma in un particolare uso pratico, cioè in
quello morale – principi della possibilità dell'esperienza, cioè azioni che, in conformità a
precetti morali, potrebbero aver luogo nella storia degli uomini.
La filosofia trascendentale, in base a questi principi, può allora decidere delle cose che
accadono come di quelle che devono accadere e presentare al pensiero umano un concetto
del tutto particolare di filosofia. Il concetto a cui facciamo riferimento è quello di concetto
cosmico, così come Kant arriva a definirlo proprio nelle pagine finali della sua prima critica.
Tale concetto prescrive il modo di intendere l'uso pratico e l'uso teoretico della ragione come
parti di un tutto unico, sebbene in una rappresentazione sistematica si debba continuare a
distinguerli. Presentata sotto il suo aspetto più adeguato, ovvero in conformità al concetto
cosmico, la filosofia trascendentale si pone come «la scienza della relazione di ogni
conoscenza ai fini essenziali della ragione umana»56, e il filosofo, nel modello ideale di
filosofo kantiano, come il legislatore della ragione umana.
I.8. L'uso teoretico della ragione è quello in virtù del quale si conosce a priori come
necessario che qualcosa è, in relazione ai principi della possibilità della conoscenza empirica
in generale. L'uso pratico, invece, è quello in virtù del quale si conosce a priori che cosa
deve accadere. La ragione nel suo complesso risulta legislatrice in due diversi domini:
quello dei concetti della natura e quello del concetto di libertà. Nel primo caso la
legislazione medienate concetti della natura avviene tramite l'intelletto ed è perciò detta
teoretica. La legislazione mediante il concetto di libertà, invece, dipende interamente dalla
ragione ed è meramente pratica.
Ora, se è indubitabilmente certo, anche solo in modo condizionato, che qualcosa è o
56 Ivi, p. 627.
61
deve essere, ne segue che una particolare condizione o è assolutamente necessaria o è
presupposta come arbitraria e contingente. Nel primo caso la condizione è postulata, posta in
quanto tesi; nel secondo caso è invece supposta, escogitata dalla ragione in rapporto a un
principio della riflessione, e cioè determinata come ipotesi. Si parta, per esempio, dall'ipotesi
che sussistano obbligazioni, del tutto valide in relazione alle idee e ai fini essenziali della
ragione umana in generale, ma che, tuttavia, risulterebbero prive di applicazione reale, prive
di motivi, se non si presupponesse l'ideale di una somma intelligenza in grado di conferire
forza ed efficacia a tali leggi pratiche. In tal caso si incorrerebbe anche nell'obbligazione di
scegliere quei concetti non sufficientemente oggettivi ma preponderanti nell'uso morale della
ragione. Il dovere della scelta rappresenterebbe da questo punto di vista l'aggiunta pratica
che costringe l'irrisolutezza della speculazione a uscire dal suo stato di equilibrio.
Dato che esistono leggi pratiche fornite di necessità assoluta, ovvero le leggi morali, si
può dire che se queste presuppongono necessariamente una qualsiasi esistenza quale
condizione di possibilità della loro forza vincolativa, una tale esistenza deve essere
postulata, in conseguenza del fatto che il condizionato è oggetto di una conoscenza che lo
riconosce a priori come assolutamente necessario.
Nel suo «cammino naturale» la ragione arriva a sviluppare l'ideale di un modello della
possibilità delle cose in generale, il prototypon trascendentale in quanto schema logico della
possibilità della sintesi assoluta del molteplice, ciò che formalmente viene definito da Kant
come il «concetto dell'intera realtà». Questo concetto che coincide per Kant con il concetto
di Dio in quanto concetto di un essere assolutamente necessario, la cui esistenza racchiude –
nel concetto – la possibilità di ogni realtà, resta determinato trascendentalmente – fondato
come è su una esigenza naturale della ragione e sulla insufficienza intrinseca del contingente
di esibire immediatamente la totalità delle sue condizioni – come sostrato trascendentale che
62
racchiude, per così dire, l'intera provvista di materiale da cui è possibile desumere tutti i
possibili predicati delle cose in quanto «idea del tutto della realtà». Da un'altra prospettiva,
però, tale concetto rimane determinabile, nel senso della possibilità di determinazioni a cui
viene sottoposto dalla «comune intelligenza umana», come dalla critica più penetrante.
Ma non è tanto ricostruire le sorti di un tale concetto che naturalmente si sviluppa nel
percorso conoscitivo che compie la ragione, attenendosi esclusivamente alla forma del suo
giudizio, e cioè ricercare nella comune intelligenza e nella storia dei popoli quelle «scintille
di monoteismo» che conferirebbero maggiore validità oggettiva alla prova dell'esistenza
trascendentale di una causa suprema; ciò che invece ci sembra interessante sottolineare a
questo proposito riguarda il percorso di formazione che un concetto così determinato mostra
nei suoi elementi formali. Riguarda, cioè, la forma della deduzione di quel concetto che
prescinde da ogni dato empirico per concludere interamente a priori la possibilità
dell'esistenza del suo oggetto. Ciò che la ragione si propone nel suo ideale, infatti, è la
determinazione esauriente in base a regole a priori: l'oggetto pensato risulta integralmente
detrminabile in base a principi, benché nell'esperienza facciano difetto le condizioni a ciò
richieste e benché il concetto stesso finisca per risultare trascendente.
La nostra coscienza di qualsivoglia esistenza, dice Kant, tanto immediatamente nella
percezione, quanto discorsivamente mediante inferenza, rientra integralmente nell'unità
dell'esperienza. Unità che è il risultato dell'attività formatrice di una ragione che si è posta
verso di sé e verso il mondo, orientata secondo le sue esigenze e i suoi fini essenziali.
Quando non contraddica se stesso un concetto è sempre possibile, anzi si può dire che
in questa legge consiste il contrassegno logico della possibilità. Ma una cosa è la possibilità
logica e trascendentale del concetto di un oggetto, un'altra è la possibilità reale dell'oggetto
stesso. Il concetto, infatti, dal lato della determinabilità, e cioè su un piano logico, potrebbe
63
essere un vuoto concetto e tuttavia resterebbe valida la ricerca dei suoi predicati perché
qualsiasi cosa può essere impiegata come predicato logico, con l'unica postilla di
subordinarne la designazione all'universalità del principio di esclusione del medio tra due
predicati opposti. Tuttavia, dal lato della determinazione, ovvero sul piano dell'esistenza,
questa non discende immediatamente con la posizione logica del concetto, perché l'esistenza
è un predicato che va ad aggiungersi al concetto dell'oggetto, accrescendolo. Sebbene
concetto e oggetto restino omogeneei, in quanto il reale non può contenere niente di più del
semplicemente possibile, quale che sia la strada percorsa dall'intelletto per arrivare alla
formulazione di un tale concetto, non sarà mai possibile rintracciare analiticamente nel
concetto l'esistenza del relativo oggetto, perché l'esistenza consiste proprio nel suo esser
posta fuori del pensiero. E, dunque, neanche nel caso in cui sia possibile esibire una distinta
dimostrazione della relatà oggettiva della sintesi per cui il concetto è stato prodotto.
Qualunque sia l'estensione e la natura del contenuto del concetto di un oggetto, si dovrà
sempre uscir fuori dal concetto se si vuole predicarne l'esistenza come sua reale
determinazione. Nel caso che stiamo citando, ovvero nel tentativo di dimostrare l'esistenza
di Dio, la ragione può percorrere tre vie: o prende le mosse da un'esperienza determinata e
dalla particolare struttura del mondo sensibile, per risalire poi, in base all leggi della
causalità, fino alla causa suprema, secondo il corso proprio della prova fisico-teologica; o
assume come fondamento una esperienza indeterminata e da quella ricava una dimostrazione
che addita la massima unità possibile dell'esperienza in base a concetti, secondo il modo
della prova cosmologica; o, prescindendo da ogni esperienza conclude interamente a priori
l'esistenza di una causa suprema, secondo il tentativo messo in opera dalla prova
ontologica57. In tutti questi casi è il concetto trascendentale a guidare la ragione nel suo
57 Cfr. ivi, pp. 472-476.
64
progetto e a fissare lo scopo.
Rispetto all'uso speculativo la formulazione di un tale concetto coincide con il massimo
risultato a cui può pervenire la ragione, sebbene resti ben lontana dal poter asserire
l'esistenza di un tale oggetto del pensiero. Chiusa la via speculativa resta legittimo per la
ragione porsi l'obiettivo di raggiungere questo suo peculiare scopo per altra via: la via
designata dal concetto cosmico di una unità sistematica della conoscenza in relazione ai fini
essenziali della ragione umana. Seguendo questa strada, infatti, la filosofia trascendentale
guarda alla prospettiva aperta dall'uso pratico della ragione, nel quale poter riconcepire ciò
che la critica della ragion pura ha eliminato dal piano dell'interesse speculativo.
I.9. Ogni interesse della ragione, tanto speculativo che pratico, si concentra nella
posizione di tre questioni che risultano essere fondamentali per le sorti della filosofia
trascendentale, e cioè:
- Che cosa si può sapere?
- Che cosa si deve fare?
- Che cosa è lecito sperare?
La prima questione è puramente teoretica, e abbiamo cercato di definire il campo di
determinabilità del sapere in accordo con l'idea della conoscenza trascendentale, così come
viene mostrata da Kant in alcune parti della sua prima Critica.
La seconda questione è puramente pratica, e nel nostro discorso rimane come sfondo
problematico, in quanto appartiene alla ragion pura secondo le specifiche categorie critiche
di una «critica della ragion pratica».
La terza questione, infine, è al contempo pratica e teoretica. Qualsiasi speranza
concerne la felicità ed è connessa alla legge morale analogamente al rapporto in cui sono
65
posti il sapere e la legge naturale, da un lato, e la conoscenza teoretica delle cose, dall'altro.
In relazione al pratico e alla legge morale, significa che la speranza finisce per concludere –
analogamente a quanto succede nella surrezione di un giudizio determinante – che qualcosa
sia perché qualcosa deve accadere.
Morale è la legge etica che ha come solo movente il rendersi degni della felicità. Una
legge morale fa astrazione da tutte le inclinazioni e dai mezzi della loro soddisfazione, per
considerare esclusivamente la libertà di un essere razionale in generale. Nel suo uso morale
la ragione contiene perciò principi della possibilità dell'esperienza, di azioni, cioè, che in
conformità ai precetti morali potrebbero aver luogo nella storia degli uomini. Ma poiché la
ragione comanda che tali azioni debbano aver luogo, è necessario che esse possano aver
luogo, e deve perciò essere possibile una particolare forma di unità sistematica che tiene
insieme possibilità teoretica e necessità pratica: i principi della ragion pura hanno una loro
realtà oggettiva non se si guarda alla funzione regolativa svolta nell'uso speculativo, ma se si
tiene conto della facoltà di comando che la ragione detiene in quanto moralmente legislatrice
nel suo uso pratico. L'unità sistematica determinata dalla posizione dell'idea della libertà del
volere che implica la dignità della felicità per un essere razionale, è pertanto quella morale;
unità possibile in quanto il principio morale – la possibilità dell'esperienza, e cioè di azioni
adeguate alla legge morale – è il principio architettonico.
Allo stesso modo che i principi della morale sono necessari alla ragione nel suo uso
pratico, è necessario alla ragione, nel suo uso teoretico, che ognuno speri fondatamente di
essere felice nella misura in cui se ne è reso degno con il suo comportamento, e perché il
sistema della moralità risulti oggettivamente connesso con quello della felicità. Seguendo il
filo conduttore di una ragione moralmente legislatrice possiamo affermare che nell'idea, e in
vista della «missione nel mondo» di ogni essere razionale, è possibile la connessione fra la
66
speranza di essere felice e la sforzo continuo di rendersi degni della felicità, in quanto è la
stessa ragione a escogitare, secondo la sua idea sistematica, l'ideale di una somma
intelligenza, grazie alla quale è rinvenuto il fondamento della connessione praticamente
necessaria dei due elementi in un mondo morale.
Ora, poiché attraverso la ragione ci si rappresenta il genere umano come appartenente a
un mondo siffatto, sebbene la conoscenza intellettuale non ci proponga che un mondo di
fenomeni, si deve concepire quel mondo come una conseguenza della condotta di un essere
razionale nel mondo sensibile; ovvero concepire il mondo morale come prodotto dell'agire
di un essere razionale che opera nella storia. Ma, poiché nel mondo sensibile non agisce la
connessione in questione, quella conseguenza addita la possibilità di concepire tale mondo
come un «mondo futuro».
In base agli stessi principi della ragion pura, Dio e una vita futura costituiscono i
presupposti inseparabili dell'obbligazione che la stessa ragione impone. Nessuno, può dire
Kant, potrà mai menar vanto di sapere che esistano con certezza logica Dio e una vita futura.
Qui, infatti, non si tratta di certezze logiche, bensì di una certezza morale, secondo la quale
la fede in un Dio e in altro mondo è al tal punto intersecata col sentimento morale che si può
essere certi della loro esistenza, in virtù di ciò come del loro naturale imporsi al giudizio
morale di ogni uomo.
Muovendo dal punto di vista dell'unità sistematica in virtù del principio morale quale
legge necessaria del mondo, la ragione cerca la causa che può dare a questa legge il suo
effetto proporzionato, e perciò anche quella forza che renda le leggi morali realmente
vincolanti e preponderanti per l'agire di ogni uomo. È nell'idea di questa causa che la ragione
è in grado di determinare concettualmente la massima unità possibile, l'unità sistematica dei
fini che conduce necessariamente all'unità finalistica di tutte le cose in base alle leggi
67
universali della moralità.
I.10. Rispetto a ciò che concerne la forma logica, tuttavia, ogni concetto è
indeterminato e sottoposto semplicemente al «principio della determinabilità», fondato a sua
volta soltanto sul principio di non-contraddizione. Quando si tratta di una universalità di
predicati nella costituzione di un concetto è affare del giudizio e della forma della sua
sintesi. Il principio della determinabilità, dunque, è un principio meramente logico, che
prescinde da ogni contenuto della conoscenza, perché tiene conto semplicemente della forma
logica di questa. Ma ogni cosa, rispetto alla possibilità, è al contempo sottoposta al
«principio della determinazione completa», in base al quale si fa ricorso alla «possibilità
interna» del concetto, possibilità che in un certo senso eccede le condizioni formali fissate
dal giudizio. In virtù di questo principio ogni cosa è subordinata alla totalità dei predicati,
ovvero all'insieme di tutti i predicati possibili. Quando si presuppone tale possibilità come
condizione a priori, e cioè quando si presuppone che una cosa sia subordinata all'insieme di
ogni possibilità, la cosa stessa viene riferita a un correlato comune, ossia viene determinata
in relazione alla possibilità interna, all'insieme di tutti i predicati possibili. In base a tale
principio non si tratta di un semplice raffronto logico dei predicati tra loro, ma la cosa stessa
viene trascendentalmente raffrontata con l'insieme di tutti i predicati possibili. Ciò significa
che la determinazione completa di una cosa è possibile soltanto perché ci si riferisce al
contenuto di un certo concetto e all'esistenza dell'oggetto dello stesso, al di là del semplice
schema logico58.
58 Si veda p. es. ciò che viene detto rigurdo all' ideale della ragion pura (ivi pp. 461-508); in particolare, nella scritturadel presente paragrafo, si rimanda all'argomentazione kantiana contenuta nelle pp. 464-483; la sezione, come si puòfacilmente dedurre, è dedicata alla esibizione trascednetale del concetto di Dio, e dunque trova in questo aspetto lasua specificità. Ma poichè Kant fa riferimento al modello trascendentale di concettualizzazione e astrazione ingenerale, nell'esposizione e nella distizione che opera, su un piano logico, tra principio della determinazione reale eprincipio della determinabilità logica, si è voluto percorrere questo preciso luogo trascendentale per porlo in
68
Sul piano speculativo la determinazione completa, ad esempio relativamente alle idee
della ragione, è un concetto non suscettibile di una rappresentazione in concreto nella sua
totalità: a fondamento di tale principio, infatti, è posto nella ragione un «sostrato
trascendentale» che racchiude l'intera provvista del materiale da cui è possibile desumere
tutti i possibili predicati delle cose. Tale sostrato, esibito in individuo, non è che l'ideale del
tutto della realtà, la limitazione di questo tutto della realtà che rende possibile da un lato
l'attribuzione dei predicati alle cose, dall'altro l'esibizione del concetto proprio della ragione
della totalità dei possibili predicati delle cose in generale. Questo possesso completo della
relatà, lo abbiamo visto, poggia sull'idea trascendentale di Dio. Ora, in virtù del principio
logico di determinabilità, tale concetto rimane in sé indeterminato in relazione al contenuto,
mentre per sé, in quanto principio regolativo, prescrive all'intelletto la regola del suo uso
completo.
Il principio della determinabilità quando invece ci riferiamo al concetto integrale di
ragion pura costituisce il presupposto logico su cui si basa la possibilità di un' architettonica
della ragion pura. Riconosciuto il fine supremo della ragione, e questo fine è nient'altro che
la destinazione morale dell'uomo, il principio della determinazione completa della ragione,
invece, addita la necessità che il sistema della ragione si compia oggettivamente come
realizzazione pratica della ragione, e che cioè si compia – per mezzo delle azioni degli
uomini – l'intero disegno di una ragione moralmente legislatrice nella costituzione di un
mondo morale.
Con «architettonica» si intende l'arte del sistema, ovvero la dottrina che definisce il
modello di costituzione di qualsiasi sapere che voglia presentarsi come scienza. Per sistema
si intende, pertanto, l'unità di un molteplice di conoscenze sotto un'unica idea: tale idea è il
relazione al concetto di «ragion pura», in un senso che verrà esplicitato nel segito della nostra trattazione.
69
concetto razionale della massima determinabilità, in quanto concetto della forma di un tutto,
per mezzo del quale si determina a priori sia l'ambito del molteplice sia la reciproca
posizione delle parti.
L'idea della conoscenza sistematica riferita alla ragione, ovvero l'idea di
un'architettonica della ragion pura, è l'esibizione integrale del concetto di ragion pura in
quanto sistema, e dunque del fine e della forma del tutto a esso corrispondente. «Nessuno»,
dice Kant, «potrà mai tentare di costruire una scienza senza porre a suo fondamento
un'idea»59, e ciò significa che nessuno potrà mai costruire una scienza senza porre a
fondamento lo schema logico di una totalità di determinazioni possibili grazie al quale poter
poi rappresentare architettonicamente un tutto in base al principio del fine, in base cioè al
principio della determinazione completa come possibilità interna del concetto stesso.
Ora, poiché stiamo parlando della ragione, si dovrà dire che i suoi fini essenziali non
sono ancora i suoi fini supremi. Gli scopi essenziali o sono lo scopo finale o scopi subalterni,
che in relazione al primo risultano essere soltanto dei mezzi. Lo scopo finale è nient'altro
che l'intera destinazione dell'uomo in quanto essere razionale, perciò libero, dunque morale.
È, dunque, null'altro che la destinazione morale dell'uomo, il verace focus verso cui tende
ogni attività e speranza della ragione. Poiché questa contiene a priori la possibilità
dell'esperienza in virtù delle leggi morali, prescrive agli uomini il modo della realizzazione
di questa loro intera destinazione come legata al compito di affermare nella storia la
determinazione completa della ragione nella costituzione di un mondo morale. La realtà
oggettiva della ragione è affidata alla facoltà dell'uomo di realizzare un mondo morale, di
adeguarsi, cioè, all'universalità della legge morale. Tale realizzazione non è altro che il
concetto della determinazione completa della ragione.
59 Ivi, p. 624.
70
Ma, quale che sia, anche dal punto di vista di una ragione moralmente legislatrice, il
concetto che ci si fa di storia, la possibilità di legare al suo corso la realizzazione oggettiva
di un compito così essenziale per la ragione, dipende dalla specifica natura dell'oggetto di
questa storia che è al contempo il suo soggetto, ovvero dipende dalla facoltà di agire
secondo leggi morali di esseri la cui differentia specifica viene pensata come la libertà del
volere. Poiché si tratta di una differenza naturale, il soggetto dovrà pensarsi come parte della
natura e pensare come naturali i fenomeni della libertà che gli è propria, per mezzo della
quale il progetto di una realizzazione pratica della ragione non risulta essere soltanto
possibile ma anche, e soprattutto, necessaria dal punto di vista morale.
La lunga disamina dei concetti presentati da Kant nella seconda parte della sua Logica
trascendentale ci ha condotti a determinare le condizioni di possibilità trascendentali di un
discorso sulla storia come legate alla definizione e alla deduzione del concetto di una
causalità intelligibile, ovvero di una causalità secondo libertà. Ora, poiché è nella storia che
per mezzo dell'agire degli uomini la ragione prescrive e addita la massima unità razionale
possibile nei termini di una sua costituzione oggettiva in quanto determinazione completa
del suo concetto in relazione al fine essenziale della destinazione morale dell'uomo, si tratta
di esporre questa stessa storia degli uomini secondo il punto di vista della totalità, ma non
più dal lato delle cause, bensì da quello degli effetti della libertà nel suo uso politico, e ciò
significa che nel discorso sulla storia, e cioè in un discorso che mira al concepimento
filosofico dell'oggetto specifico, e quindi non solo e non tanto di una storia della ragione,
così come termina la sua prima Critica, quanto della storia di un soggetto che è anche
l'oggetto di questa – e ci stiamo riferendo in particolare al saggio del 178460 – Kant compie il
passaggio da una considerazione cosmologica delle cause ad una considerazione
60 I. Kant, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, cit.
71
cosmopolitica degli effetti della libertà del volere. È in questo campo di fenomenicità,
dischiuso dal concetto di una causalità secondo libertà, che il critico della ragione può
diventare filosofo della storia, di una storia concepita a partire dal punto di vista
cosmopolitico e che conduce a un sistema degli effetti della libertà, analogamente al
procedimento deduttivo seguito quando si è trattato di stabilire le condizioni di possibilità
trascendentali di un sistema delle cause in virtù dello schema cosmologico. Soltanto così
l'assurdo andamento delle cose umane, trovata una causa intelligibile, potrà essere concepito
come un sistema; architettonicamente concepito, cioè, secondo l'idea di un universale da
assegnare alla storia degli uomini.
I.11. Un' Iliade di mali fisici e morali l'uomo avrebbe potuto risparmiare al suo proprio
genere se avesse conservato l'uso di andare a quattro zampe. Ampliando di un poco il già di
per sé ricco genere letterario delle interpretazioni di Genesi 3, si potrebbe dire che il cogliere
una mela, puntando entrambi i piedi ben saldamente a terra, dovette apparire come il peccato
originario di un Adam, di un primo uomo, che volle sollevare così orgogliosamente il capo
sopra i suoi vecchi compagni quadrupedi61.
Conducendosi decorosamente grazie alla conquistata posizione eretta, l'uomo era
pronto a stringere mani, a stipulare patti, a siglare contratti: in breve, era pronto a vivere in
società. Il germe di ragione che lo ha distinto dal resto del mondo animale, in quanto unica
creatura razionale sulla Terra, ha destinato l'uomo alla vita civile e tanto ha sviluppato la
disposizione originaria alla distinzione che non sembra più possibile concepire una storia
sistematica in relazione alle sue azioni, come invece si potrebbe fare per le api e per i
61 Cfr. I. Kant, Recensione allo scritto di Moscati: Della essenziale differenza corporea fra la struttura di animaliuomini (1771), in I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, cit. .
72
castori62. Tanto che, dicevamo, a rappresentare il fare e l'omettere degli uomini si corre il
rischio, oltre che provare il fastidio, di non riuscire a farsi, in conclusione, il minimo
concetto di genere umano.
Questa è la situazione che si presenta agli occhi del filosofo, dello stesso filosofo che
mira alla stesura di un'architettonica delle vicende umane, di una storia concepita
filosoficamente, coerente con l'idea della conoscenza determinata dalla critica della ragione.
Per tale filosofo non si apre altra via d'uscita, se vuole concretamente realizzare il suo
intento speculativo e non solo sognarlo, che rivolgere le sue considerazioni a un non più e a
un non ancora, a un dato originario e a una meta posti in relazione da un'idea: assunto
l'angolo visuale della costituzione di un soggetto-oggetto della storia la cui differentia
specifica può essere pensata come la libertà del volere e questa stessa come effetto del germe
di ragione, non c'è altra via d'uscita per il filosofo, poiché non può presupporre negli uomini
e nel loro gioco su grande scala alcun razionale scopo proprio, che tentare di scoprire, in
questo assurdo andamento delle cose umane, uno scopo della natura che faccia da filo
conduttore di una storia altrimenti inconcepibile.
Secondo queste specifiche coordinate teoriche per Kant risulta possibile concepire la
storia di un soggetto non più determinato semplicemente dall'istinto ma che ancora non
agisce in virtù di un piano prestabilito della ragione, come un cittadino razionale del mondo,
in quanto assume la mutevolezza delle condizioni e dei condizionati nella serie
indeterminata delle azioni degli uomini in un unica prospettiva universale, in analogia a
quanto è stato fatto nello studio dei fenomeni naturali. Meglio: quale che sia il concetto che
ci si fa di libertà del volere, le azioni umane, in quanto fenomeni di questa libertà, sono
determinati come ogni altro evento naturale dalle leggi universali della natura, e secondo
62 Cfr. I. Kant, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, cit., p. 30.
73
questa prospettiva vanno inquadrate.
Tuttavia, si dovrà convenire, nella costruzione di un universale da assegnare alla storia
non basta porsi nei confronti di un aggregato di dati secondo un'unica prospettiva perché
questo soltanto basti a rendere tale aggregato un sistema interamente connesso: per fare di
una giustapposizione di fatti un sistema di conoscenza storica bisogna ricorrere a una idea. E
ciò è possibile se il riferimento al Newton che spiegò le leggi di Klepero ricorrendo a un
unico principio universale diventa, per il critico della ragione, il riferimento a un modello di
scientificità tradotto nell'idea di un'analoga prospettiva cosmo-politica, in grado di fondare
una filosofia della storia della natura umana nei termini di una realizzazione che è al
contempo la determinazione, la formazione dell'uomo in quanto uomo; ciò per cui si è
acculturato e sicuramente civilizzato sino all'eccesso in ogni forma di cortesia e decoro
sociale e per cui, in un certo modo, si è anche moralizzato per la sua facoltà di rappresentarsi
l'altro da sé, ma che è ancora ben lontano da una vera moralizzazione, possibile soltanto
sulla base di un piano della natura volto ad instaurare una perfetta costituzione statale in
quanto unica condizione nella quale la natura possa completamente sviluppare –
nell'umanità – tutte le sue disposizioni.
Se si vuol predicare una universalità della storia bisogna pensare che nell'assurdo
andamento delle vicende umane si celi un piano che guida le azioni degli uomini verso un
fine che non è da loro consaputo e che tuttavia è da loro perseguito. Se si vuole predicare
uno sviluppo che sia uno sviluppo costante del genere umano, bisogna assumere una visione
in grande del gioco della libertà del volere, come suggerisce il pensare per analogia, e come
in una sorta di legge dei grandi numeri, rappresentarsi questo gioco nei termini di una
regolarità che permetta di pensare al corso degli eventi come a una storia, a una storia
sistematica concepita secondo un determinato piano della natura, secondo il filo conduttore
74
di una unica causa naturale universale.
Dalla critica della ragione sappiamo che possiamo determinare il concetto di un oggetto
di cui non abbiamo intuizione alcuna soltanto tramite una inferenza e se supportati
adeguatamente da una esigenza della ragione, tanto da un punto di vista speculativo quanto
pratico. E, dunque, se la ragione deve poter escogitare l'idea di una storia universale secondo
un piano della natura e non soltanto assumere una prospettiva cosmopolitica a titolo di
opinione, questa stessa ragione dovrà porsi sotto i riguardi del severo controllo della sua
disciplina in fatto di ipotesi: dovrà, cioè, sempre riferirsi a qualcosa che c'è prima come a
qualcosa di certo e di non inventato63. Tale qualcosa è il principio della possibilità di un
oggetto; e questo principio è ciò che guida la ragione nella formazione di una ipotesi.
Nel caso di un determinato piano della natura escogitato dalla riflessione del filosofo
che fa riferimento, in analogia al modello di scientificità dei Principia Mathematica, a una
visione in grande delle azioni degli uomini come a ciò che è effettivamente dato, si tratta,
allora, propriamente di una ipotesi posta in relazione non tanto alle condizioni di
un'esperienza possibile, quanto a un'idea della ragione, oltre che al modello di una
oggettività esterna che faccia da analogon nella determinazione di un discorso sistematico
sulla storia. L'ipotesi di un piano non serve che a soddisfare un'esigenza sistematica e quindi
pratica della ragione.
Ora, se si intende uscire a priori dal concetto di un oggetto perché si è nella condizione
di non avere alcuna intuizione, come nel caso di un sistema della libertà del volere dedotto a
partire dalla mutevolezza degli effetti di questa libertà, per la ragione diventa impossibile
63 Di una disciplina delle ipotesi Kant parla nella prima Critica. Nel corso della nostra dissertazione abbiamo giàavuto modo di esporre cosa si intenda, nel lessico kantiano, in generale, per disciplina della ragione pura, cosìcome, più specificamente, abbiamo mostrato il criterio di una sua applicazione nel caso della dimostrazione di unconcetto di cui non possiamo fornire alcuna esibizione schematica. Per il concetto di esibizione schematica sirimanda alla nota n°49, mentre per un confronto diretto con ciò che Kant dice riguardo alla disciplina delle ipotesisi veda ciò che è scritto in I. Kant, Critica della ragion pura, cit., pp. 586-593, e anche pp. 593-601.
75
condursi ulteriormente senza determinare un principio che faccia da filo conduttore e che
sia posto fuori dal concetto stesso, come nel riferimento a un modello di scientificità esterno,
per rinvenire un principio di spiegazione sistematico che legittimi la sintesi in virtù
dell'analogia a cui si fa ricorso. L'allusione a Newton è, allora, qualcosa di più che una
semplice allusione: il trascendentalismo kantiano sembra essere, secondo questa prospettiva,
la metodologia filosofica destinata a legittimare proprio la meccanica newtoniana.
Un Leitfaden a priori ed esterno al concetto dell'oggetto che si vuol costituire è, per ciò
che si è detto, propriamente una ipotesi e non può essere argomentato ed illustrato che per
tesi. Il criterio è questo: che la dimostrazione della possibilità di un sistema degli effetti della
libertà del volere, in quanto fenomeni, ovvero di un insieme ordinato di azioni umane
secondo l'ipotesi di un piano della natura, proprio perché si tratta di una ipotesi, non si volga
direttamente al predicato desiderato – l'universale che si vuole assegnare alla storia – ma
mediatamente, ovvero attraverso il principio della possibilità di estendere a priori il concetto
dato fino alle idee, cioè attraverso il principio di spiegazione universale di un'unica causa
naturale tradotta nell'analoga prospettiva di un punto di vista cosmopolitico, per poter
concepire come un tutto sistematico l'altrimenti assurdo corso delle cose umane, estendendo
il concetto dato – gli effetti della libertà, le azioni – fino all'idea di una storia universale. E si
tratta proprio di una estensione, sia nei termini analitici dell'intelletto che in quelli
sistematici posti dal concetto cosmico.
Per la filosofia trascendentale, in quanto definisce l'ambito di una conoscenza razionale
mediante concetti e non per costruzione di concetti, come invece è nel caso della
matematica, almeno per come l'ha concepita Kant nella sua prima critica, sussiste la
necessità di compiere questo passaggio argomentativo ulteriore per giustificare le proprie
pretese speculative.
76
Se non si dimentica questa notazione disciplinare nella determinazione della base su cui
si inferisce una siffatta estensione, il principio universale è assunto soltanto in quanto
principio regolativo della coerenza sistematica dell'uso empirico dell'intelletto, prima, e
dell'uso pratico della ragione, poi. Di un uso pratico della ragione che, come su si è detto, è
un uso specifico della ragione in quanto facoltà che addita la possibilità di una legislazione
morale del mondo.
Se, invece, ci si allontana dalla possibilità di estendere a priori il concetto della libertà
del volere fino all'idea di una storia universale, così come consente il pensare per analogia,
l'elaborazione di una storia universale del genere umano non metterebbe capo a un sistema,
bensì soltanto alla rappresentazione di un gioco senza scopo, una sconfortante accidentalità
nelle azioni umane che prenderebbe il posto del filo conduttore della ragione.
Secondo lo schema dei Principia, per il critico della ragione è possibile redigere al
modo del sistema, ovvero sotto un'idea, una storia universale, sviluppata a partire dal
presupposto che tutte le disposizioni di una creatura sono destinate a dispiegarsi un giorno in
modo completo e conforme allo scopo, fino all'idea di una perfetta unificazione civile del
genere umano. E soltanto il genere può sperare – pensando alla frammentarietà e alla
incompiutezza di tante singole esistenze – che questo avvenga come compiuto sviluppo del
germe di ragione che per natura ha concesso all'uomo di trarre da se stesso tutto ciò che
supera l'organizzazione meccanica della sua esistenza animale e che ora lo guida ad entrare
in una perfetta costituzione civile.
Si può considerare la storia del genere umano, in grande, secondo il modello di
scientificità dei Principia, come il compiersi di un piano nascosto della natura. Piano che è
volto a instaurare una perfetta costituzione civile, un universale assetto cosmopolitico,
perché unica configuarazione politica in grado di garantire lo sviluppo di tutte le
77
disposizioni originarie del genere umano.
Una tale giustificazione provvidenziale dell'andamento delle cose umane è in realtà una
giustificazione della natura. La storia universale così concepita può mantenersi come storia
profana nella rappresentazione sistematica a cui mette capo grazie all'idea di una
destinazione dell'uomo che – in quanto genere – deve essere raggiunta «qui sulla Terra»64.
Per una tale giustificazione la filosofia ottiene il proprio non esaltato chiliasmo, in quanto
possibile secondo ragione e anzi tale da essere promosso tramite l'agire degli uomini nella
continua, anche se non uniforme, realizzazione della loro destinazione.
A che cosa servirebbe, infatti, si domanda Kant, «lodare la magnificenza e la saggezza
della creazione nel regno naturale, privo di ragione, e raccomandarne lo studio, quando la
parte del vasto teatro della suprema saggezza che contiene il fine di tutto questo – la storia
del genere umano – deve restare una permanente obiezione in contrario, la cui vista ci
costringe con disgusto a distogliere lo sguardo da essa e, poiché disperiamo di trovarvi mai
un compiuto disegno razionale, ci induce a riporre la speranza di quest'ultimo solo in un
altro mondo?»65.
I.12. L'idea di un piano della natura per la deduzione di una storia universale mette
capo a un sistema, oltre che essere di per sé il risultato di una considerazione sistematica e
preliminare, per così dire, fondativa di ogni discorso che voglia presentarsi come scientifico,
in virtù della quale lo stesso discorso sulla storia trova i suoi presupposti come i principi di
possibilità teoretici.
Concepire sistematicamente la storia significa che, se il gioco della libertà del volere
64 I. Kant, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, cit., p. 4265 Ibid.
78
umano viene considerato in grande, come è stato fatto nello studio dei fenomeni naturali,
così anche per questo ambito di fenomenicità è possibile scoprire un andamento regolare; e
che in tal modo ciò che appare senza regola nei singoli individui può essere riconosciuto
come lo sviluppo costantemente in progresso delle disposizioni naturali del genere umano.
Se non ci fosse l'idea di un piano della natura che tende alla perfetta unificazione civile del
genere umano, l'elaborazione non produrrebbe alcun sistema. Posti i fenomeni della libertà
del volere sotto un'unica idea, e l'idea, a partire dalla quale le azioni degli uomini possono
essere spiegate, è l'idea di uno scopo della natura non consaputo e tuttavia necessario,
definito cioè un dominio di regolarità sotteso a un unico principio di spiegazione universale
– ciò per cui è possibile una storia universale –, non soltanto sarà possibile spiegare e
rendere comprensibile il «così intricato gioco delle cose umane»66, cosa che ci si potrebbe
aspettare, per esempio, anche nel caso della stesura di una storia generale comparata; proprio
in quanto unica causa naturale, questo principio dischiude una «consolante prospettiva» per
il futuro, secondo la quale, sebbene in grande lontananza, viene rappresentato come il genere
umano si sollevi infine proprio a quello stato in cui tutti i germi che la natura ha posto in
esso siano pianamente sviluppati.
Se tutte le disposizioni naturali di una creatura sono destinate a dispiegarsi un giorno in
modo completo e conforme al fine, ciò significa che, rispetto all'uomo, in quanto unica
creatura razionale sulla terra, si tratterà di realizzare le sue proprie disposizioni come
finalizzate all'uso della ragione. Guardando alla necessità di vivere un tempo
smisuratamente lungo per apprendere l'uso completo delle sue disposizioni naturali,
collocato così come è sempre in un solo punto del tempo, per l'uomo deve essere possibile
raggiungere la meta dei suoi sforzi, se non nella vita di un individuo, almeno in quella
66 Ibid.
79
dell'intero genere umano.
La natura ha voluto che l'uomo fosse in grado di trarre interamente da se stesso tutto ciò
che andava oltre la sua mera esistenza animale e che per mezzo della sola ragione fosse in
grado di determinare per il suo genere una felicità e una perfezione specifiche. Ora, per
quanto tutto possa apparire così misterioso e sottoposto al caso, oltre che faticoso per ciò che
attende l'uomo, «resta nondimeno necessario, una volta ammesso che un genere animale
debba possedere la ragione e che, come classe di esseri razionali che muoiono tutti ma il cui
genere è immortale, debba tuttavia giungere ad una compiutezza dello sviluppo delle sue
disposizioni»67. Questo lascia sperare una storia del genere umano, una storia concepita dal
punto di vista cosmopolitico.
In quanto storia, che è appunto una storia del genere, il mezzo di cui la natura si serve
per portare a compimento lo sviluppo di tutte le sue disposizioni non può essere che
l'antagonismo tra uomo e uomo in società: soltanto in una tale situazione, infatti, si danno
quelle condizioni in base alle quali si sviluppano i moventi che conducono a un
miglioramento e che pongono l'esigenza della costituzione di un ordine legittimo. Nella
natura dell'uomo c'è con evidenza la disposizione a tutto questo: l'inclinazione ad associarsi
come la forte tendenza ad isolarsi. Per antagonismo, allora, si deve intendere la dialettica che
si determina tra tali aspetti della natura dell'uomo, i quali si risolvono nella insocievole
socievolezza di un essere spinto ad unirsi in società e, al contempo, minaccia vivente della
dissoluzione di qualsivoglia corpo sociale.
Tutto è bene, si potrebbe dire, di fronte a una natura che predispone così sapientemente
«le fonti dell'insocievolezza e dell'universale resistenza, da cui vengono tanti mali, ma che
spingono ancora ad un nuovo tendersi delle forze, e dunque ad un ulteriore sviluppo delle
67 Ivi, p. 32.
80
disposizioni naturali [...]»68. Ed è per questo tendere sempre ulteriore e perché si tratta di una
storia del genere che non può che porsi come massimo problema quello della realizzazione
di un universale che sia praticamente universale, ovvero di un universale che sia posto nella
forma di una costituzione civile perfettamente giusta, in quanto garanzia del cammino verso
la compiuta realizzazione del genere umano.
Questo problema è insieme il più difficile e quello che verrà risolto più tardi, perchè la
società in cui si dà l'effetto migliore della libertà del volere è proprio la società in cui la
libertà è sottoposta da un lato alle leggi più giuste, mentre dall'alto è congiunta con il
massimo e generale antagonismo dei suoi membri.
Al fine di instaurare una perfetta costituzione civile si dovrà cominciare, allora, con il
disciplinare il rapporto esterno tra gli Stati: ciò che tra i singoli individui di una società
avviene ha il suo corrispettivo nella relazione tra gli Stati, poiché l'ineluttabile antagonismo
fra Stati è perciò solo la riproposizione in grande dell'ineluttabile antagonismo individuato
come predicazione definitoria degli uomini pensati come singoli, ovvero di quella
insocievole socievolezza che è tanto il mezzo di cui la natura si serve per portare a
compimento il suo progetto, quanto il motivo che dischiude il problema posto da quel non
più e non ancora nei termini del «massimo problema» per il genere umano.
La storia deve essere rappresentata come una progressione di stadi orientati al fine del
miglioramento della condizione umana, secondo il piano della natura che resta sempre
meglio determinato nell'avvicendarsi di rivoluzioni e rivolgimenti, tanto interni agli Stati
quanto esterni. Nel caso contrario, ovvero rispetto a ogni considerazione sulla storia degli
uomini che esclude l'ipotesi di un filo conduttore della natura, nel caso in cui, cioè, si
ammettesse un concorso epicureo di cause efficienti, o se piuttosto si preferisse avanzare
68 Ivi, p. 34.
81
l'idea che da tutte queste azioni e reazioni degli uomini nel loro insieme non si produce
affatto alcun cambiamento, ebbene, da tutto ciò saremmo condotti a porre la seguente
domanda: «è razionale ipotizzare finalità della costruzione della natura nelle parti e, insieme,
assenza di finalità nel tutto?»69.
La storia dell'uomo concepita sistematicamente spiega i fenomeni della libertà del
volere con l'esito non consaputo di propositi inintenzionali rispetto ad esso; li pensa, cioè,
con una necessità posta esteriormente. Questo modello teorico, che ha già concepito la sua
possibilità pratica nei termini di un superamento morale del paradosso politico della
insocievole socievolezza, ora sviluppa la sua propria antinomia nei termini di una
opposizione, proposta o riproposta, della necessità alla libertà: della necessità estrinseca,
perché sovrapposta dal pensiero, di una formazione morale, alla libertà del farsi del soggetto
nella storia. L'esibizione di una idea della ragione – che sia una esibizione pratica –
circoscrive la temporalità in cui si compie il passaggio da un accordo patologicamente
forzato a un tutto morale; nella forma di un compito della natura, pone il problema del
rinvenimento di una eticità adeguata alla costituzione della società civile, secondo una
temporalità che è quella del dispiegarsi e del perfezionarsi della disposizione morale che
connota quella parte della natura che si sa come fine della natura e fine in se stessa. Il
costituirsi di tale disposizione conduce alla definizione di una necessità che traccia il senso e
il significato di una storia che è la storia di un soggetto specifico: intesa non solo,
genericamente, come educazione, ma soprattutto come formazione del carattere ed
educazione morale, come un educarsi a essere uomini. Questa storia è la storia del soggetto
della Bildung.
Così come è stato possibile per la ragione poter determinare il raggio della sua
69 Ivi, p. 38.
82
estensione a partire dalla curvatura della sua superficie, ovvero a partire dalla natura della
proposizioni sintetiche a priori, allo stesso modo, entro i limiti di questa sfera, è stato
possibile determinare con sufficiente certezza l'esistenza di una reale traiettoria del genere
umano. Giacché dall'esperienza del corso del mondo si può concludere, circa il disegno della
natura riguardo alla destinazione dell'uomo, solo qualche piccola cosa e, tuttavia, come da
tutte le osservazioni astronomiche si può determinare con sufficiente certezza l'orbita del
sole e dei suoi pianeti, un principio universale della costituzione sistematica dell'universo e
il poco che si è osservato dall'andamento del disegno della natura danno sufficiente certezza
per asserire la realtà di una tendenza morale per il genere umano, nel lungo periodo e per
tutto il tempo della sua indefinita esistenza.
Assunto il punto di vista del sole (e forse è anche per l'errata scelta del punto di vista
dal quale si guarda al corso delle cose umane che esso appare tanto insensato) – cosa che la
ragione può fare e come Kant ha di certo fatto – come i pianeti così anche gli uomini non
fanno altro che muoversi nella loro regolare traiettoria, secondo l'ipotesi di un Klepero, nel
primo caso, e di un secondo Newton, nell'altro.
I.13. L'idea di una storia universale che ha un filo conduttore a priori è tanto
enunciativa di una possibilità, della possibilità di redigere una storia universale secondo un
piano della natura in quanto tentativo filosofico criticamente fondato; quanto indicativa di
una tendenza, della tendenza definita dalla natura essendo un piano che mira alla perfetta
unificazione civile del genere umano; quanto espressiva di una sperata tendenzialità, della
speranza che, in questa progressività della storia rappresentata, ogni battuta d'arresto sia in
verità una migliore determinazione del progetto, e che il progetto sarà portato a termine
quando gli Stati perseguiranno un unico futuro grande corpo statale; quanto predittiva,
83
perchè la perfetta unificazione civile del genere umano, qui sulla Terra, può essere
considerata come la realizzazione del piano nascosto della natura; quanto, infine,
prescrittiva del compito di questa realizzazione, affinché della disposizione morale del
genere umano si faccia un universale pratico, nella forma di un'unica costituzione statale
perfettamente giusta70.
Il costituirsi di una tale disposizione è, insieme, il costituirsi di una temporalità
specifica in natura, e perciò anche il definirsi della storia rispetto alla pre-istoria: è questo
l'immediato sviluppo sistematico che coinvolge Kant nella scrittura del saggio del 178671,
nel quale si ricerca la determinazione di un principio in quanto primo sviluppo della libertà
dalle disposizioni originarie nella natura dell'uomo. Un principio che è un inizio posto
rispetto a una fine, e che può essere rappresentato congetturalmente – fedele al pensiero
dell'analogia – come l'allontanarsi dell'uomo dalla subordinazione alla voce dell'istinto, la
voce di Dio, e per cui Il libro, il documento sacro, può fungere da mappa nella
rappresentazione di un itinerario che trova lì tratteggiato in forma di racconto un primo
inizio, il primo segno della formazione dell'uomo come creatura morale.
Fedele al pensiero dell'analogia, Kant asserisce con sufficiente certezza la realtà di una
tendenza morale per il genere umano. Tendenza che prescrive, lo abbiamo detto, un compito
alla storia degli uomini. Ma l'idea di una storia universale che rappresenti il corso di una
traiettoria morale per il genere umano secondo il filo conduttore di un piano della natura, per
essere compiutamente egemone, deve trovare ancora il sostegno della fattualità: ovvero, la
temporalità concepita quale schema di una teleologia morale, quella del chiliasmo non
esaltato, di una ucronia filosofica, deve ancora rispondere della configurazione presente del
70 Cfr. L. Calabi, Filosofia della storia in Kant e Schiller. Riflessioni su di un confronto, in Schiller lettore di Kant, a c.di Alberto L. Siani e Gabriele Tomasi, ETS, Pisa 2013, pp. 249-250.
71 I. Kant, Inizio congetturale della storia degli uomini, in I. Kant, Sritti di storia, politica e diritto, cit.
84
mondo. Presente che funge da ostacolo e antitesi del compiersi della disposizione morale
dell'uomo, così come natura ha predisposto, in quanto è quel presente in cui si pone il
massimo problema di una forma politica adeguata all'eticità concreta della «società civile».
Kant lo individua nell'opposizione del diritto naturale al diritto positivo in quanto ostacolo di
una fede morale che rende possibile la libertà dello spirito72; lo individua nella possibilità per
una teoria fondata sul concetto del dovere di essere realmente definitoria di una prassi,
poiché in una prospettiva cosmopolitica rimane salda l'affermazione che ciò che secondo i
principi della ragione vale per la teoria, vale anche per la prassi73; lo individua, infine, nella
possibilità di collegare la storia pronosticante del genere umano a una esperienza che, in
quanto evento, dimostri la tendenza morale del genere umano74.
Ma ora non si tratta più soltanto della possibilità posta o riproposta di concepire una
storia del genere umano che sia una storia in costante progresso verso il meglio, nella forma,
cioè, di una storia morale secondo il concetto di totalità degli uomini riuniti in un'unica
società sulla Terra75. Ora, invece, si tratta di concepire una forma di intervento concreto nella
storia degli uomini che favorisca il compiersi della loro disposizione.
In virtù della ragione pura pratica, la morale non ha bisogno di altri fondamenti per
riconoscere e perseguire il proprio dovere, così come non necessita di moventi materiali che
non siano la legge stessa, la quale obbliga per mezzo della semplice forma, consistente
nell'universale legittimità degli imperativi categorici. «Quando», afferma Kant, «è questione
72 I. Kant, Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi (I793), in I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, p. 153.
73 Ivi, p. 159. Oppure, qualche pagina prima: «Infatti qui si ha a che fare con il canone della ragione (nel pratico),dove il valore della prassi consiste interamente nella sua conformità alla teoria che le sta a fondamento [...]», ivi, p.125.
74 I. Kant, Il conflitto delle facoltà in tre sezioni. Seconda sezione: il conflitto della facoltà filosofica con la giuridica (1798). Riproposizione della domanda: se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, in I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, pp. 227-230.
75 Ivi, p.223.
85
di dovere, [la morale] deve fare astrazione da ogni fine»76, ed è già un miserabile colui che
solo pensa di cercare altro fine. Ma questa è ancora un'analisi che guarda alle intenzioni.
Assumendo l'angolo visuale degli effetti delle intenzioni morali, ovvero guardando alle
azioni, il concetto di fine si amplia: sebbene la volontà non venga determinata da alcun altro
fine rispetto alla semplice forma della legge, tuttavia instaura un rapporto necessario con un
fine, non in quanto suo fondamento ma come conseguenza della massima del
comportamento. Ogni determinazione della volontà ha un effetto ed è in rapporto finale con
questo, sebbene non dipenda da questo. La morale contiene in generale la condizione
formale dell'uso della libertà, ma la ragione non può dimostrarsi indifferente rispetto alle
conseguenze, e dunque è immediatamente interessata a ciò che deriva da una buona
condotta.
Tuttavia, poiché il potere dell'uomo non basta a far sì che la sua propria felicità si
accordi nel mondo col merito di essere felici, è necessario ammettere l'esistenza di un
signore morale del mondo, sotto la cui provvidenza sia ammesso l'accordo: la morale
conduce di necessità alla posizione di una religione in quanto dottrina che fortifichi e
vivifichi l'azione morale degli uomini. Perché, se è vero che gli uomini mostrano un
interesse naturale alla moralità, è anche vero che questo interesse non è né esclusivo, né
praticamente preponderante; e allora, per accrescere e rafforzare questo interesse, bisogna
rendere gli uomini buoni, almeno entro certi limiti, e sperare che diventino un giorno
sinceramente credenti, grazie all'idea di un particolare punto di riferimento dove tutti i fini
convergono e si uniscono, ciò che «prova appunto che nell'uomo è un intimo bisogno che
moralmente lo spinge a concepire pure un fine ultimo ai suoi doveri, come conseguenza di
76 I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, cit., p. 4.
86
essi»77.
Nella dimensione agonica che tanto definisce l'interiorità dell'individuo, quanto, nella
forma di una insocievole socievolezza presenta l'antagonismo degli Stati e degli uomini in
società, per favorire la vittoria del buon principio su quello cattivo, sussiste la necessità
morale di costituire una comunità etica che viva secondo le leggi della virtù, come se si
trattasse dei comandamenti di un Dio, di un signore morale del mondo78. Per fare di una
disposizione un universale pratico, per sperare di tirar fuori da un legno così nodoso
qualcosa di diritto79 in vista dell'affermarsi di una costituzione civile perfettamente giusta,
agli uomini spetta di riunirsi come popolo morale di Dio; e una comunità etica che vivesse
secondo una legislazione morale non potrebbe che riunirsi nella forma di una chiesa, come
riunione di tutti i giusti sotto il morale governo universale divino, e che diventa il modello di
ogni altro governo fondato dagli uomini: una chiesa universale, pura e morale in quanto
libera e immutabile80.
Seguendo il filo conduttore dell'uso pratico della ragione, si può affermare che il
moglioramento morale dell'uomo è il fine proprio di una religione concepita entro i limiti
della sola ragione: che allora si riuniscano gli esseri razionali in un'unica chiesa universale e
morale, nell'attesa che su questa Terra si determini un reale assetto cosmopolitico, in quanto
unico assetto che garantisce la compiuta realizzazione delle disposizioni naturali del genere
umano.
Secondo natura l'uomo è in costante progresso verso il meglio, perché la natura non fa
nulla senza scopo e l'uomo è lo scopo: socievole per natura, insocievole per natura, virtuoso
per natura, vizioso per natura, l'uomo può assumere la sua natura come guida del proprio
77 Ivi, p. 6.78 Cfr. ivi, pp. 99-107.79 Cfr. ivi, p. 107. 80 Cfr. ivi, pp. 107-110.
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agire, adeguando la massima della sua azione alla forma universale dell'imperativo
categorico, che è forma, natura e contenuto della sua moralità. Il miglior effetto della libertà
del volere dipende da questo adeguarsi alla legge morale. L'uomo, allora, è tanto più uomo
quanto più è natura, nel senso della sua natura: un essere razionale, perciò libero, dunque
morale. L'umanità, sotto la guida della natura che ha concesso all'uomo una così benefica
dotazione, si identifica con la temporalità di una destinazione morale: tanto più morale
quanto più si adegua ad un elemento non storico. E, allora, il discorso sulla storia di Kant è
un discorso in cui non si tratta tanto di indagare le specifiche determinazioni degli uomini
nella storia, ma, fedele al pensiero dell'analogia, la storia concepita entro i limiti della sola
ragione è la rappresentazione della lotta tra un principio, una legge universale e l'ambito
delle sue applicazioni.
Alla filosofia resta il compito di mostrare la tendenza morale del genere umano, e al
filosofo che ha pensato la sua funzione come quella di un legislatore della ragione, non
spetta altro compito che proporre progetti filosofici per una pace perpetua.
Ma per essere veramente egemone, l'idea di una storia così concepita, deve trovare
sostegno nella fattualità, deve inserirsi concretamente in questa configurazione del mondo.
Diventa, allora, necessario porsi non retoricamente e, dunque, secondo altri presupposti, la
domanda sul significato e sul fine dello studio della storia universale, in quanto, nella
presente configurazione del mondo, il soggetto-oggetto di questa storia si è tanto civilizzato
e acculturato da perdere il senso di quella mutua dipendenza che lo teneva legato in una
società. Il tempo presente, il tempo dell'odierna configurazione del mondo, è il tempo della
«società civile», il tempo di un raggiunto progresso di civilizzazione e raffinamento; ma è
anche, insieme, il tempo in cui, non restando alcun dovere verso la cosa pubblica – e chi
meglio di un moralista scozzese autore di un saggio sulla storia della società civile può
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affermare – «in cui gli uomini liberi dal peso dei grandi bisogni, rivolgono la loro attenzione
alle frivolezze [...] In questa condizione gli esseri umani generalmente ingannano la propria
stupidità con il nome di civiltà»81. È in questa condizione, tuttavia, che si devono ricercare i
presupposti storici e teoretici per concepire il corso della storia non più secondo il principio
morale: ora, cioè, si tratta meno della costituzione del soggetto come risultato del metodo
dell'analogia, si tratta meno di rappresentare il fondamento morale della storia dell'umanità
come ciò che la ragione ci presenta e che pone di fronte all'anima dell'uomo il dovere che
verso ciò si riconosce; si tratta meno di conciliarsi con il male e più di ricostruire l'intero
corso della storia a partire dalla concretezza della rappresentazione che si chiama uomo.
Conclusione:
Seguendo il filo conduttore di una ragione moralmente legislatrice e in relazione
all'idea per una storia universale concepita dal punto di vista cosmopolitico, tutti gli interessi
della ragione e i tre interrogativi in cui si concentrano costituiscono il presupposto logico e
tematico per la riproposizione della domanda «se il genere umano sia in costante progresso
verso il meglio»82. In relazione all'idea per una storia universale la prima di quelle questioni
– come si può sapere? – diventa quella di determinare il principio di spiegazione universale
per fare di un aggregato di azioni un sistema razionalmente connesso e orientato secondo
natura verso la sua compiutezza; principio che è stato dedotto in analogia al modello dei
Principia e per il quale si è reso teoricamente possibile estende il concetto dato delle azioni
degli uomini, nel loro aspetto fenomenico, sino all'idea di un universale da assegnare alla
81 A. Ferguson, Saggio sulla storia della società civile, tr. it. e a c. di Alessandra Attanasio, Laterza, Bari 1999, p. 235.82 Cfr. I. Kant, Il conflitto delle facoltà in tre sezioni. Seconda sezione: il conflitto della facoltà filosofica con la
giuridica (1798). Riproposizione della domanda: se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, in I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, cit.
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storia. Per ciò che concerne la seconda di quelle questioni – cosa si deve fare? – l'interesse
della speculazione si rivolge alla preponderanza pratica delle idee trascendentali, al loro
carattere simbolico e prescrittivo di una buona condotta, decisivo rispetto a tutto ciò che è
possibile mediante libertà, in vista della perfezione di certe azioni.
E, allora, stabilito come si può sapere, in relazione all'idea per una storia universale,
poiché è la storia di un oggetto che è al contempo anche il soggetto di tale storia, cosa si
vuole qui sapere? Un tratto di storia umana, e propriamente non del tempo passato ma di
quello futuro, e dunque una «storia predittiva», fondata sulle leggi universali della natura
come su qualcosa di certo, e che sia in grado di rappresentare teoreticamente l'ipotesi di una
tendenza morale del genere umano. Qui, in una storia predittiva del genere umano, secondo
il concetto della totalità degli uomini riuniti in società sulla terra, non si tratta di una storia
naturale, bensì di una storia morale in quanto addita la possibilità dell'esistenza di un
teleologismo di diversa matrice, per il quale, fedeli al pensiero dell'analogia, è legittimo
postulare un progresso costante del genere umano verso il meglio. Come narrazione storica è
la possibile esibizione a priori degli eventi che dovranno sopraggiungere: una tale storia a
priori è tuttavia possibile poiché chi pronostica e chi attua coincide.
Che il genere umano progredisca costantemente verso il meglio, oltre che possibile in
quanto oggetto e soggetto si identificano, è necessario, ovvero riguarda la stessa possibilità
interna di una storia concepita e orientata secondo il filo conduttore di un piano della natura,
che prescrive all'uomo, in quanto unica creatura razionale sulla terra, una specifica
«missione nel mondo». La missione consiste nel superare l' «accordo meccanico», quale si
determina in una costituzione civile, in favore dell'affermarsi di un «accordo nell'intenzione
morale», costitutivo di una autentica «comunità etica».
Quando si tratta della storia del genere umano, si ha a che fare con esseri liberi
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nell'agire, a cui certo si può «dettare» in precedenza cosa debbano fare. Data la loro naturale
disposizione morale, si deve attribuire conseguentemente a ogni uomo la facoltà innata,
seppur limitata, di perseguire il meglio, ciò per cui il progresso morale si può predire con
sicurezza in quanto accadimento che l'uomo stesso prepara e produce.
Dunque, la storia pronosticante del genere umano è qualcosa di morale nel suo
fondamento e lascia sperare in un suo progresso costante, proprio in virtù del suo
fondamento.
La terza di quelle questioni – che cosa è lecito sperare ? – in relazione all'idea di una
storia morale a priori, diventa, allora, quella di chiedere cosa sia lecito sperare in questa
storia, poiché, sebbene lasci sperare fondatamente in un progresso costante del genere
umano, ha bisogno di essere collegata con una qualche esperienza che in quanto evento
dimostri la generale tendenza morale degli uomini e che permetta di dedurre il progresso
verso il meglio come un «inevitabile risultato». Questo evento, come se si trattasse di un
«segno storico», è il fenomeno non di una rivoluzione, che può certo fallire e così tradire l'
«ideale morale» che ha ispirato la rivolta, bensì la posizione dell'idea di una costituzione
repubblicana. Un tale fenomeno della storia degli uomini non si dimentica più perché
mostra una disposizione e una facoltà al miglioramento nella natura umana. Anche quando il
fine che questo avvenimento prospetta venga ostacolato, ripudiato, svuotato di senso e di
significato, la «profezia filosofica» contenuta in questa idea non perderebbe nulla della sua
forza. L'idea di una costituzione che si accordi con i diritti naturali degli uomini è il modello
ideale di tutte le forme di Stato, l'unica costituzione in cui la società civile risulta organizzata
secondo le leggi della libertà, e in cui è possibile un completo sviluppo delle disposizioni
naturali del genere umano, in quanto «fenomeno della sua formazione morale».
La fondazione sistematica – nel duplice senso dell'architettonica della ragione e del
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sistema in se stesso articolato e disposto secondo l'idea – della storia secondo il principio
morale dipende nient'altro che da una idea della ragione, che nell'assegnare al soggetto della
storia il compito di una realizzazione completa delle sue disposizioni definisce il modo in
cui pervenire alla determinazione completa della ragione nella forma di una costituzione
dell'universale, ovvero di una costituzione pratica dell'universale. Sotto il profilo della
concettualizzazione del tempo le antinomie che definiscono tanto la dimensione agonica di
ogni singolo individuo quanto l'antagonismo su grande scala vengono superate nella
proiezione che se ne fa dal regno dell'essere al regno del dover essere, sostituendo al
semplice fatto storico un imperativo morale.
Ciò che la storia morale del genere umano mostra, in quanto storia specifica dell'unica
creatura razionale sulla terra, è l'elemento di idealità, ovvero di universalità, riposto
nell'agire degli uomini, che eleva l'accadere storico stesso ad un altro ordine di realtà. Ordine
che, in vista della massima unità razionale possibile, non appartiene soltanto al regno delle
cause, alla natura universalmente legislatrice, ma, in quanto corrisponde allo scopo finale
della ragione nel suo uso pratico, appartiene al regno dei fini.
È per questo modo di concepire la storia che il Kant del Conflitto può affermare col
massimo rigore critico che non è possibile cercar di rispondere alla domanda se l'uomo è
costantemente diretto al miglioramento morale basandosi esclusivamente sul concetto dato
dell'esperienza storico-fattuale. Per quanto si sia in grado di ricostruire i nessi causali
dell'accadere storico, infatti, nel corso di questi avvenimenti non si potrà mai capire quale
via l'umanità potrebbe percorrere o percorrerà. Secondo Kant, è possibile pensare a un
rapporto mediato dell'empirico con il carattere intelligibile di una essere che agisce secondo
libertà, ovvero pensare una mediazione tra il mondo dell'esperienza e il mondo delle idee,
soltanto se questo pensare si fonda sul principio morale. Se intelligibile è tutto ciò che è
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possibile mediante libertà, ciò che la storia propriamente manifesta nel suo elemento di
idealità è la naturale tendenza morale del genere umano. Se di miglioramento morale si deve
parlare, allora, non si indicherà con questo una sempre crescente quantità di moralità
nell'intenzione, bensì un aumento dei prodotti della sua legalità in azioni conformi al
dovere; ossia di buone azioni degli uomini che si produrranno sempre più numerose e
migliori, poiché è soltanto nei fenomeni della costituzione morale del genere umano che
potrà stare il guadagno e il risultato del suo lavoro a favore del meglio.
La storia a priori del genere umano, in quanto storia della disposizione morale, postula,
secondo il suo principio architettonico di costituzione sistematica, il superamento del
contrasto che sussiste tra la possibilità logica di una idea della ragione e la possibilità reale
della sua esistenza perché trova nel principio morale la possibilità di estendere a priori il
concetto dato delle azioni degli uomini all'idea di un progresso morale che si determina
sempre meglio nel corso della storia universale del genere umano. Nella prospettiva di una
ragione che di certo contiene a priori i principi della possibilità dell'esperienza, il contrasto
che sussiste tra l'idea e la sua oggettiva realizzazione, e che sotto il profilo della
concettualizzazione del tempo è la riproposizione del contrasto che sussiste tra potenza e
atto, viene superato col porsi dell'imperativo morale, perché la possibilità di agire
conformemente alla legge morale coincide con il dovere e il rispetto che a ciò si riconosce.
Ma l'imperativo morale è posto al di là di tutta una serie di determinazioni; anzi: la
posizione dell'imperativo morale è l'assunzione di quelle determinazioni come
determinazioni non concepite, perché quando si tratta della legge morale, in virtù del
concetto del dovere, si deve fare astrazione da ogni cosa.
Si fa in tempo a costruire tribunali per la ragione e chiese per gli uomini di volontà
buona, ma non a intervenire nei nessi di una società civile per cui il principio morale non è,
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nel concreto della sua costituzione, il principio architettonico di formazione. Ciò per cui è
certo possibile individuare nel principio della legislazione, come ha fatto Kant quando si è
trattato di discutere del rapporto della teoria con la prassi nel diritto dello Stato, ovvero
discuterne contro Hobbes83, l'autenticità e la forza di ogni costituzione repubblicana, ma che
nel proporre l'idea di questo «contratto originario» si è poi costretti ad ammettere che «colui
che in questa legislazione ha il diritto di voto si chiama cittadino (citoyen, ossia cittadino
dello Stato, non cittadino della città, bourgeois)»84, che la qualità che si esige a questo fine è
esclusivamente che egli sia suo proprio signore, ovvero che abbia una qualche proprietà, ma
che tuttavia risulta «alquanto difficile, lo ammetto, determinare i requisiti necessari a poter
pretendere alla condizione di uomo che è suo proprio signore»85. E, dunque, se la storia degli
uomini è una storia morale in quanto unica prospettiva per cui si può concepirne
filosoficamente il corso, è una storia concepita secondo l'idea di una progressività
indeterminata, certo specifica in natura, ma che rispetto alle determinazioni reali può solo
sussumerle al concetto di una migliore realizzazione morale.
È stato possibile postulare l'idea di un piano della natura, oppure dedurre l'idea di una
costituzione repubblicana come fenomeno della formazione morale del genere umano;
tuttavia il predicato dell'esistenza, la determinazione nel caso dell'idea di una costituzione
repubblicana ad esempio, implica un concetto che si aggiunge al concetto della
determinabilità logica. Si conceda, dunque, ciò che si è concesso all'idea di Dio, quando si è
trattato di confutare ogni tentativo di prova ontologica, e cioè che ogni determinazione reale
venga concepita come un predicato che si aggiunge al concetto, accrescendolo. Valga per il
concetto di totalità degli uomini riuniti in società sulla terra, per l'idea di un piano della
83 Cfr. I. Kant, Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi (I793), in I. Kant,Scritti di storia, politica e diritto, cit., pp. 136-152.
84 Ivi, p. 141.85 Ibid.
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natura, così come per l'idea di una costituzione repubblicana.
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