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Commenti, proposte, offerte, idee, insulti, profezie, suggerimen- ti, possono essere inviati attraverso: Sito web: http://www.puntogiovane.it Indirizzo e-mail: [email protected] Forum: http://forum.puntogiovane.it Sms: 334 9688064 (Tim) 334 1547785 (Vodafone) 333 7747851 (Wind) Il Nuovo che Avanza Rivista giovanile di cultura e critica sociale anno 2 - numero 6 - Aprile-Maggio 2006 Associazione Culturale presenta Silvio Berlusconi come Roberto Da Crema? Il popolo italiano abbindolato dal tele marketing politico? Mai un risultato delle elezioni è stato in modo così diretto figlio legittimo di una campagna elettorale. Mai nella storia della repubblica una campagna elet- torale ha inciso in maniera così pensante sul risultato del voto. L’unico paragone storico che mi sovviene è il 1948. Allora si parlava di scontro ideologico; oggi abbiamo visto un confronto meramente mediatico. I media hanno dettato i tempi e condizionato il gioco. Tutti si son fatti attori, volenti o nolenti. Le reazioni di tan - ta sinistra al voto del 9 e 10 Apri- le sono state davvero inquietan- ti. Ne abbiamo sentite di tutti i colori e nella clas- sifica vorrei citare la più delica- ta: “Che paese di mer- da!” e quella che più mi ha colpito per l’estremo senso civico: “Io emigro!”. Riminiscenze di periodi lontani quando le gentil nobildonne addossavano alla “plebe” tutti i malanni dell’Italia. E all’ennesima dichiarazione la mia me- moria mi ha visto su di un aereo per Berlino mentre leggevo, aspettando di fargli visita, la sottile e tagliente ironia di Bertold Brecht secondo il quale quando un popolo smentisce un governo, allora il governo deve cambiare popolo. Ecco dunque: se la sinistra non ha vinto surclassando L’editoriale di questo numero è stato scritto da Marco Maschietto Prezzo: 0,50 € Gratis! E D I T O R I A L E l’avversario è colpa del maledetto popolo. Giammai che non fosse stata colpa “nostra”, ovvero dei “nostri” dirigenti, della classe politica di sinistra. Ho visto poi scendere in campo un popolo politicamente muto, quello dei telespettatori, quello che non è rilevabile nè dai sondaggi nè dagli exit-pool. L’originale novità non è stata la spaccatura dicotomica del paese, ma il paese nella sua totale interezza. Gli ottimisti carichi di volontà hanno visto in questa scesa in campo una attiva partecipazione democratica, i pessimisti dell’intelligenza una passiva mobilitazione di massa. Que- sto mio commento esce ad una distanza ra- gionevole dal voto del 9 e 10 Aprile. Non vorrei arrestarmi agli aspetti accessori, accidentali, even- tuali, ma tentare di andare leggermente oltre cer- cando di individuare un paio di problemi di fondo che dal risultato elettorale sono stati partoriti. La società italiana: una questione irrisolta e sconosciuta a tutti, anche a quelli che in linea di principio dovrebbero governarla; l’ignoranza analitica: quella che caratterizza l’immobile classe dirigente dei nostri partiti. Hanno costruito i loro programmi senza analizzare l’humus culturale e sociale italiano, hanno cioè costruito una diga senza prima sguinzagliare una moltitudine di geologi. La storia ci ha mostrato il dramma che ne è seguito, ma non abbiamo ancora imparato. Dovevano costruire delle fabbriche della conoscenza prima di mettersi a pensare al programma, prima capire a chi rivolgerlo, chi rappresen- Tempi Supplementari - rassegna cinematografica Nuovo Cinema Don Bosco, S. Donà Giovedì 1 e Venerdì 2 Giugno, ore 21 Les Amants Réguliers (P. Garrel) Sabato 3 e Domenica 4 Giugno, ore 21 Il Grande Silenzio (P. Groning) ingresso 4,00€ ridotto 3,50€. Cinema Teatro Don Bosco, via XIII Martiri 86

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Il Nuovo che AvanzaRivista giovanile di cultura e critica sociale anno 2 - numero 6 - Aprile-Maggio 2006

Associazione Culturale

presenta

Silvio Berlusconi come Roberto Da Crema? Il popolo italiano abbindolato dal tele marketing politico?Mai un risultato delle elezioni è stato in modo così diretto figlio legittimo di una campagna elettorale. Mai nella storia della repubblica una campagna elet-torale ha inciso in maniera così pensante sul risultato del voto. L’unico paragone storico che mi sovviene è il 1948. Allora si parlava di scontro ideologico; oggi abbiamo visto un confronto meramente mediatico. I media hanno dettato i tempi e condizionato il gioco. Tutti si son fatti attori, volenti o nolenti.Le reazioni di tan- ta s in istra a l voto del 9 e 10 Apri- le sono state davvero inquietan- t i . Ne abbiamo sentite di tutt i i colori e nella clas- sifica vorrei citare la più delica-ta: “Che paese di m e r -da!” e quella che più mi ha colpito per l’estremo senso civico: “Io emigro!”.Riminiscenze di periodi lontani quando le gentil nobildonne addossavano alla “plebe” tutti i malanni dell’Italia. E all’ennesima dichiarazione la mia me-moria mi ha visto su di un aereo per Berlino mentre leggevo, aspettando di fargli visita, la sottile e tagliente ironia di Bertold Brecht secondo il quale quando un popolo smentisce un governo, allora il governo deve cambiare popolo.Ecco dunque: se la sinistra non ha vinto surclassando

L’editoriale di questo numero è stato scritto da Marco Maschietto

Prezzo: 0,50 €Gratis!

E D I T O R I A L E l’avversario è colpa del maledetto popolo.Giammai che non fosse stata colpa “nostra”, ovvero dei “nostri” dirigenti, della classe politica di sinistra.Ho visto poi scendere in campo un popolo politicamente muto, quello dei telespettatori, quello che non è rilevabile nè dai sondaggi nè dagli exit-pool.L’originale novità non è stata la spaccatura dicotomica del paese, ma il paese nella sua totale interezza. Gli ottimisti carichi di volontà hanno visto in questa scesa in campo una attiva partecipazione democratica, i pessimisti dell’intelligenza una passiva mobilitazione di massa.Q u e - sto mio commento esce ad una distanza r a - gionevole dal voto del 9 e 10 Aprile. Non

vorrei arrestarmi agli aspetti accessori, accidentali, even-tuali, ma tentare di andare

leggermente oltre cer-cando di individuare un paio di problemi di fondo che dal risultato elettorale sono stati partoriti.La società italiana:

una questione irrisolta e sconosciuta a tutti, anche a quelli che in linea di principio dovrebbero governarla; l’ignoranza analitica: quella che caratterizza l’immobile classe dirigente dei nostri partiti.Hanno costruito i loro programmi senza analizzare l’humus culturale e sociale italiano, hanno cioè costruito una diga senza prima sguinzagliare una moltitudine di geologi. La storia ci ha mostrato il dramma che ne è seguito, ma non abbiamo ancora imparato. Dovevano costruire delle fabbriche della conoscenza prima di mettersi a pensare al programma, prima capire a chi rivolgerlo, chi rappresen-

Tempi Supplementari - rassegna cinematograficaNuovo Cinema Don Bosco, S. Donà

Giovedì 1 e Venerdì 2 Giugno, ore 21Les Amants Réguliers (P. Garrel)

Sabato 3 e Domenica 4 Giugno, ore 21Il Grande Silenzio (P. Groning)

ingresso 4,00€ ridotto 3,50€. Cinema Teatro Don Bosco, via XIII Martiri 86

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Critica

mensile giovanile di cultura e critica socialea cura dell’associazione culturale Punto G.

La rivista, organo ufficiale dell’associazione culturale Punto G., vuole essere uno strumento di divulgazione di idee, uno spazio libero per parlare dei problemi, della cultura, e delle necessità dei giovani. Il collettivo redazionale è aperto a chiunque voglia veicolare attraverso questo strumento le proprie intuizioni.Esce ogni mese e viene distribuita a S. Donà di Piave, Musile di PIave (VE), negli atenei di Venezia e Padova, nelle biblioteche del Veneto Orientale e agli eventi organizzati dall’associazione.I numeri arretrati sono disponibili on - line sul sito www.puntogiovane.it/rivista

Collettivo redazionale

Federica Alfier, Alberto Boem, Serena Boldrin, Alberto Cereser, Giovanni Lapis,

Marco Maschietto, Alice Montagner, Ferdinando Morgana, Marco Piovesan,

Stefano Radaelli, Daniele Vazzola, David Vian, Marco Zamuner

Impaginazione e grafica: David VianStampa: DigiPress s.r.l. - S. Donà (VE)

supplemento alla testata “Radio San Donà” Iscrizione n°1084 trib di VE del 22.02.92

direttore responsabile: Andrea Landi

di Marco Zamuner Tempo necessario per leggere questo articolo: 4,5 min658 Parole

Ahi dorotea Italia, di centrismo ostello

tano, capire la geografia politica, e solo in un secondo momento stilare il benedetto programma. Capire chi sono e cosa vogliono. Questo facevano i partiti.Ora parliamo solo ed esclusiva-mente di coalizioni, e quindi per forza di cose a come si presen-tano. Dall’essere all’apparire, la dittatura mediatica, una tesi tutta situazionista.Guardate l’organigramma delle segreterie: pubblicitari, sondaggi-sti ed exit-poolisti, commercialisti della finanza, non più economisti,

Ogni mese non vedi l’ora di avere tra le mani il nuovo numero della rivista? Fai fatica a trovarlo?

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Ho atteso qualche tempo prima di mettermi a ragionare su carta a riguardo delle Politiche 2006. Ho atteso che sfumasse la delusione; sarebbe stato “snob” e decisa-mente di cattivo gusto riservare una pagina troppo risentita nei confronti di un buon cinquanta per cento dell’elettorato italiano: agli insulti ci pensa già il premier (quasi) uscente. Per queste scelte di etichetta che contraddistin-guono da sempre la nostra rivista, la mia analisi cercherà di attenersi all’obiettività e alla semplice spec-ulazione di fatti reali.Primo, innegabile dato di fatto: Berlusconi ha scelto, a buona ra-gione, da subito un clima da guerra civile. Ha parlato di un pericolo comunista, di derive dittatoriali in seno alla magistratura, di complot-ti internazionali a lui sfavorevoli. Berlusconi ha lasciato il segno su questo malandato paese, un segno

tangibile, inequivocabile. La linea secca che in quell’orrendo lunedì notte tagliava in due la “mela” nella grafica del Viminale l’ha trac-ciata lui. L’ha pensata, disegnata, scolpita nella nostra testa in questo triste quinquennio. Ha creato in Italia una spaccatura profonda e insanabile, una barricata che divide due categorie di pensiero: il ber-lusconismo e l’antiberlusconismo. Spariti borghesia e proletariato, si affermano queste due nuove classi, due sezioni nette e distinte.I rappresentanti di queste due categorie si odiano tra loro. Si odiano di un odio profondo, visce-rale, retto da un nuovo, fortissimo senso di appartenenza. Berlusconi, consapevole che i propri atteg-giamenti volgari, violenti e pregni di infima demagogia non potevano guadagnargli il consenso generaliz-zato, ha deciso deliberatamente di cristallizzare attorno a sé il suo

elettorato, infischiandosene di con-vincere una fetta moderata dei suoi oppositori che anzi ha preferito in-sultare e calunniare fino all’ultimo. Alla fine ha convinto a votare per lui, e spesso nonostante lui, tutti gli elettori di destra, che piuttosto di premiare una coalizione che schiera il pericoloso “segnato da Dio” Luxuria o il folle bolscevico Caruso, hanno preferito la Casa delle Libertà.Dall’altra parte chi ha votato cen-trosinistra sarebbe stato disposto a votarlo anche se la candidata premier fosse stata Maria De Filip-pi. L’orrore per il berlusconismo ha portato a votare per la prima volta centri sociali ed estrema sinistra (avvezza all’astensione), artisti e scienziati, intellettuali e giovani precari. Prodi, di suo, sembra non aver portato un solo voto in più alla propria coalizione. Il suo ruolo doveva essere quello

non più sociologi, non più uomini di indiscussa cultura, ma uomini di mondo carichi di una irragionevole spregiudicatezza. Il trionfo dell’an-tintellettualità. Una crisi di cultura politica. La democrazia tramutata in un mercato della politica. Vince il prodotto meglio presentato. Migliore nella terminologia del marketing significa il più utile, ed è questo il valore che unisce l’Ita-lia. L’utilitarismo politico come colla sociale. Le urne hanno eletto decretandolo vincitore un solo con-cetto: l’antipolitica.

Studia a tempo perso Antropo-logia a Venezia, a tempo perso invece è leader dei Duracel

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Sto male, vorrei ripigliarmi. Tutta-via, in tutta questa baraonda, come posso riprendermi? Che shock, ragazzi! È come se un trattore, un carro armato e una mietitrebbia mi fossero passati sopra uno dopo l’altro, lasciandomi a brandelli. Perché, è ovvio, solo a brandelli potrei essere uscita. Ma io SONO uscita. E SONO a brandelli, ma è finita, finalmente! Non se parla più in tv di bot cct ici e ciò che manca è sottinteso. Basta! È finito tutto! Addio campagna elettorale. Addio posta indesiderata. Addio Vespa e Mimun. Addio Confindustria e Con-

fesercenti. Addio pubblicità sulle schede elettorali. Addio manifesti. Addio banchetti azzurri, verdi, ros-si, gialli, magenta, iridati, grigio-beige. Addio rose e colombe. Addio inutili conversazioni con gli indecisi o con i decisi dalla parte sbagliata. Addio dibattiti. Addio Emilio Fede ti-sei-dimesso-come-un-martire-ma-i-martiri-restiamo-noi, ma poi Perché non ti sei dimesso? Addio cari e grassi insaccati, così rassi-curanti e paterni. Addio previsioni del tempo. Addio anfibi. Addio magistrati poco politically correct. Addio donne vicepremier. Addio

Tempo necessario per leggere questo articolo: 2 min248 Parole

Come Lucia, la bella sposina

di traghettare i moderati indecisi sulle sponde dell’Unione: il risul-tato è stato trascurabile. Cadono così con somma soddisfazione le squallide teorie neocentriste di D’Alema e Rutelli: le elezioni, vi è la riprova definitiva nella crisi di DS e Margherita, non si vincono spartendosi un pugno di elettori a colpi di rassicurazioni a commer-cianti e Confindustria, a sindacati e cooperative. Le elezioni si vincono se si torna a mettere in bocca alla sinistra le parole semplici, quelle del popolo che ci si prende la briga di rappresentare: istanze di miglio-ramento, ripresa dei servizi, della democrazia diretta e partecipa-tiva. Rifondazione Comunista brilla

per risultati perché è finita per diventare, a sorpresa, portatrice di diritti oggi discussi anche dai suoi compagni di coalizione. Com-preso quello della laicità, battaglia sottratta alla Rosa nel Pugno: gli spettri della recente scampagnata berlusconiana di Bonino & company hanno spaventato buona parte del suo potenziale elettorato.Ed ecco che i dati, secondo al-cuni oscuri e incomprensibili, mi sembrano parlare dell’Italia in maniera chiara, inequivocabile. Il nostro paese ha un piede a sinistra e un piede a destra. Da sempre. Non è una novità, non è la conseguenza della legge elet-torale “porcata” che la Destra ha

sfacciatamente progettato per consegnare alla sinistra almeno una camera all’impasse.È lo specchio di un’Italia che ha paura del nuovo, paura del diverso, paura del radicalismo, paura di cambiare.È lo specchio del solito, vecchio paradiso degli inciuci, dei governi di unità nazionale, delle promesse non mantenute, della classe diri-gente incollata alla poltrona, im-mune dai lavaggi di Tangentopoli. È il triste specchio di un’Italia che sa perfettamente di essere stata, prima che berlusconiana, democristiana. Di esserlo tuttora. Di esserlo per sempre.

di Serena Boldrin Bella Brava Buona: una Boldrin! Lei preferisce definirsi... sem-plicemente Divina.

ubriachi e drogati. Addio utili e idioti. Addio crisi economica. Ad-dio Europa, ma ricorda che è stato bello, credimi, fin dal 1952! Addio. Addio. Addio. Ora so che per altri cinque anni potrò essere ancora invisibile e muta, o fare casino e non essere ascoltata nonostante le grida, e vivere così tranquillamente la mia vita precaria, ma flessibile. Ecco perché la maggioranza degli italiani non è fatta di coglioni: evidentemente è nel loro interesse contare zero.

Mi sono svegliato tardi oggi, tradito dal sole e dalla notte sudamerica-na. Galeano segue raccontandomi la settimana santa degli indios che è diversa perché per loro non è prevista la resurrezione. Mentre la canna da zucchero brucia la costa umida del nordest brasilia-no e i vassalli spagnoli succhiano il sangue di Potosì, il mate caldo accompagna il mio risveglio.Oggi è il 24 marzo, giorno della me-moria qui in Argentina. Qualcuno mi ha raccontato del Pozzo di San

Tempo necessario per leggere questo articolo: 7 min1083 Parole

Ventiquattromarzo. La memoriadi Simone Zen Vive 365 giorni d’estate. E’ un

ospite in questo numero.

Lorenzo, un edificio che durante la dittatura militare era usato come centro clandestino di tortura e di morte. Dovrebbe essere a sei solati dal mio appartamento in Rioja e Alvear. Devo dire che Ro-sario mi piace, anche se fuori dal centro bisogna fare attenzione. Mi incammino per calle Santa Fe, ma ad un paio di isolati già ripiego per calle San Lorenzo. Il cielo è straordinariamente celeste qui in Argentina, oggi però fa un’eccezio-ne: il grigio che minaccia pioggia

si addice di più alla giornata della memoria. Io seguo il mio percorso ipotetico ma non arrivo da nessuna parte. Ho già chiesto ad un paio di persone... sembra che nessuno lo conosca, che nessuno lo ricordi, che nessuno lo voglia ricordare. Poca gente per strada in questo quartiere e nessun negozio aperto. Abbandono il pozzo: rimarrà un luogo inesplorato. Forse meglio tornare da Galeano. Sicuramen-te mi racconterà altri malanni dei lestofanti europei in questo

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splendido continente violentato. Prima però cerco un telefono, anche se oggi chiamare i parenti si limiterebbe solo ad un vuoto rituale. Le mie suole calpestano già il Boulevard Oroño, quando mi appare davanti agli occhi un gruppo di donne e bambini seduti. Le loro

facce mi dicono che provengono dalle province del nord, un ragazzo vestito bene mi dice addirittura che sono “bolitas”, immigrati bo-liviani. Dio mio, penso, hanno gli stessi sguardi profondi degli indios di Galeano. Qualche metro più avanti un altro gruppetto di ragazzi con percussioni. Inizia a incuriosir-mi questo strano clima!Proseguo la mia passeggiata fino alla riva del rio Paranà, complice l’acustica delle prove di qualche concerto. Infatti ne stanno mon-tando uno. Un mezzo sorriso mi si dipinge in faccia: la mia memoria vola ai caldi pomeriggi di Fiesta!, quando con gli amici montavamo ombreggianti, luci, pali e transen-ne. Ma questa è un’altra storia. Sono qui per un’altra memoria che non è la mia. Il parco sembra avvolto da una tranquilla atmosfera domenicale. Papà stempiati gio-cando a pallone raccontano ai loro figli di Kempes e Tarantini, anche se l’innaturale talento del Diego li ha cancellati. Poi coppiette di gio-vani, uguali a quelle che si vedono in qualsiasi altro parco del mondo, anche se questi si distinguono per l’immancabile mate, loro stile di vita!Altra occasione mancata, nemme-no qui si vuole ricordare. Caspita! E sì che ogni parete è tappezzata da manifesti con un gran 30 ed una rosa o con foto di desaparecidos e madri della piazza di maggio!

Percorro Oroño in senso inverso. Mi chiedo dove ho sbagliato, oggi è un giorno importante ma sembra che mi voglia schivare. Tutto questo è assurdo: posso leggere libri, docu-menti, posso venire a conoscenza della storia in qualsiasi altro luogo. Ma non qui. Forse la ferita è ancora

t roppo grande e troppo aperta, forse la g e n t e v u o l e solo di-ment i -care.Oroño-U r -q u i z a ; Oroño-San Lo-r enzo ; Oroño-

Santa Fe, sono quasi arrivato. Galeano si sarà spazientito per il mio ritardo. Ha ragione, lui sì che è riuscito a scrivere la memoria! Vedo alcune bandiere... cosa succede? C’è un capannello di gente, poi un’altro. Calle Còrdoba è piena!! Inizia a battermi il cuo-re, sono emozionato, la memoria argentina mi ha preso di sorpre-sa. Bandiere, colori, fischietti e molte percussioni. Le percussioni del carnevale. Dribblo la gente, voglio capire, voglio vedere. Se qualcuno mi chiede qualcosa, dirò che sono un giornalista! Ma quante bandiere, quante immagini. Dentro a calle Còrdoba. Adesso è pieno di bolitas, ma ci sono anche bandiere venezuelane. Una striscia lunghis-sima di tela bianco-celeste viene distesa al suolo. Non mi lasciano andare in mezzo alla strada. Io non sono schierato, per me c’è spazio sul marciapiede. Poi tante bandiere rosse, il Che che guarda l’infinito. Per un péso e cinquanta una signo-ra mi vende una rivista che grida “Contro l’impunità non c’è vacan-za!”; con un altro pèso ne compro una con la foto dei tre generali macchiata di sangue e con la scritta “Impuniti!”. Ricevo un volantino della gioventù peronista. Ma an-che Juan Peròn era un dittatore... non ci capisco più niente! Troppe immagini, troppi colori, troppe emozioni! Devo riappropriarmi di me stesso. Allora salgo gli scalini

dell’entrata di una banca, la po-sizione leggermente sopraelevata mi permetterà di vedere bene il corteo. Con ordine.Sfilano i giovani socialisti, indossa-no magliette rosse. Poi, con ban-diere dello stesso colore, vengono i militanti del Partito Comunista Rivoluzionario. La maggior parte della gente di questo gruppo sono di etnia andina, hanno immagini di Che Guevara e sono vestiti in maniera povera. Appaiono altre bandiere del Venezuela. Poi è la volta del Partito Intransigente, con i loro drappi rossi e neri: a dire la verità sembrano più tifosi del Newel’s Old Boys! Ora tocca agli studenti, il movimento per la alfabetizzazione. Anche qui cori e bandiere argentine. Ma il gruppo che si fa più sentire sono i peroni-sti: sono più organizzati e anche più eleganti. Indossano magliette az-zurre, portano striscioni stampati e non stracci fatti a mano. Ovunque bandiere bianco-celesti con il sole di maggio. Passa l’aggruppamento Evita, qui ogni bandiera ha il sorriso enigmatico della prima moglie del generale Peròn. Siamo già verso la coda del corteo e sono quasi riu-scito a mandare giù il groppo che dall’emozione mi era preso alla gola. Comunisti, socialisti, grasi-tas, bolitas, studenti, peronisti.. tutti assieme, tutti piangendo i loro compagni assassinati, tutti chie-dendo che i crimini non rimangano impuniti, tutti gridando contro l’oblio. Tanti problemi ha questo meraviglioso paese ma nessuno vuole dimenticare: la memoria è forte, la memoria non può essere cancellata: trenta mila desapareci-dos sono troppi! Mi ricordo che da qualche parte da noi in Europa c’è scritto che chi dimentica il proprio passato è destinato a ripeterlo. Qui nessuno vuole ripetere l’incubo della dittatura, oggi me lo hanno fatto sapere.È ora di tornare a casa. Mi aspetta-no le miniere Ouro Preto, le pian-tagioni di Pernambuco, la caduta in disgrazia di Potosì e l’ottusaggine del Conquistador... ed un altro mate da compartire con Galeano. A proposito: se lui fosse qui davve-ro, sicuramente mi avrebbe accom-pagnato alla marcia della memoria. Rosario, 24 marzo 2006

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Cultura

di Alberto Boem Tempo necessario per leggere questo articolo: 9 min1360 Parole

Girotondo casca il mondo

Ormai è passato un mese, e forse è già stato detto quasi tutto nell’ul-timo capolavoro (perché nella sua semplice confusione lo è indubbia-mente) di Nanni Moretti. Prenden-do atto di questa situazione nella quale mi inserisco con voce non autorevole, ma appassionata da spettatore partigiano del cinema di Moretti, e soprattutto di questo “Il Caimano”.Dico subito che non mi inte-ressa vedere se il film ha o no rispettato le attese del pubblico, o dilungarmi nella noia della politica italiana (il tormentone destra-sinistra elettorale è finito). Ma poi cosa pretende questo pubbli-co, specie quello di sinistra ?“Il Caimano” è un film sul cinema, prima di tutto; sulla crisi del cinema italiano, di una famiglia e di un intero paese, il nostro. Moretti non è nuovo a parlare del mondo del cinema nei suoi lavori (che assieme a “Sogni d’oro” è il più esplicito), ma questa vol-ta invece di narrare la storia di un regista in crisi, racconta quella di una aspirante regista e di un produttore sulla via del fallimento. L’ambienta-zione nel mondo del cinema non è puramente evocativa, o pretesto per una riflessione sul mezzo cinematografico, ma un’analisi delle sue modalità pro-duttive, realizzative e di tenden-ze storico-critiche. L’inizio della pellicola coincide con il finale di “Cataratte”, film inesistente che si pone come ironico esempio della fortuna critica che hanno avuto negli ultimi anni i b-movies italiani degli anni ’70, messa in scena dal sempre autoironico critico cine-matografico Tatti Sanguinetti, che riferendosi a questi film, dice <<voi eravate gli anticorpi del cinema italiano>>, determinato mettere insieme una serie di dvd pieni zeppi di contenuti speciali, assieme ad altri titoli evocativi quali “Violenza Cosenza” e “Mocassini assassini”. La presenza del cinema italiano

non è ripeto funzionale, ma la cosa sorprendente è la sua presenza vi-tale, attraverso i numerosi registi, attori, sceneggiatori che occupano un posto in ogni sequenza del film, non li elenco tutti, ma si può enu-merare quei registi “scoperti” da Nanni Moretti come Carlo Mazzacu-rati (fantastico cameriere-killer),

Matteo Garrone, oppure l’amico sceneggiatore Stefano Rulli (nella parte del giudice), Valerio Mastan-drea, Michele Placido; e ancora i registi Paolo Virzì e Paolo Sorren-tino (rispettivamente celebrante e sposo nel matrimonio maoista).Ma il discorso più complesso, anche a livello simbolico, si materializza nella presenza di Giuliano Montaldo e Jerzy Stuhr. Perché “Il Caimano” pone in causa un forte interroga-tivo, sulla funzione del cinema in una società; Moretti si chiede come abbia fatto in tutti questi anni il cinema italiano a non prendere una parola forte contro ciò che stava succedendo, da quella vera e pro-pria “rivoluzione politica” (termine poco corretto ma che esprime bene il concetto) che nel ’94 la discesa

in campo di Silvio Berlusconi ha portato. Perché nessuno ha detto nulla? Perché nessuno ha mai avuto il coraggio di prendere la parola? Chiariamo subito che questo non è un film contro Berlusconi, non è un campanello d’allarme, un film d’urgenza, di “denuncia” (come si diceva al tempo dei Rosi e dei

Petri), ma un’amara presa d’atto che nulla si è mosso, che nulla ha voluto veramente contrastare una concezione dello Stato paradossalmente anti-statale, e di una politica d’interessi. Ci apre gli occhi Jerzy Sthur – regista di quel cinema polacco altamente po-lemico, e forte nella denuncia -, con un intervento che non lascia dubbi. E tutti appaiono (volutamente) impotenti e indifferenti: la RAI che non vuole produrre il film, e il re-gista interpretato da Giuliano Montaldo (figura di spicco del “cinema d’impegno civile” degli anni ’60-’70) volta le spalle all’amico produttore, assieme all’attore figurato da Michele Placido (che ricorda i tempi delle proteste insieme a Gian Maria Volonté), per girare l’ennesimo “Cristoforo Colombo”, prodotto dalla televisione di Stato. Nessu-

no si vuole contrapporre, e tutti sembrano non voler cambiare gli eventi. Gli unici tenaci appaiono la giovane regista e il suo produttore che stringono i denti di fronte alle loro difficoltà, prima di tutto quella di girare il film. Moretti però è un cineasta atipico e deciso a cattura-re quelle impercettibili sfumature dei sentimenti (con “La stanza del figlio” aveva messo alla scoperta una parte del suo cinema lieve, delicato, umano e laico che era sempre passato sotto piega), per-ché nei film di Moretti la famiglia è il luogo privilegiato, il luogo da cui nasce e si disperde la crisi, di una coppia (interpretata da Margherita Buy, attrice dal volto sofferto, e da un superbo Silvio Orlando, che si conferma attore assolutamente

Studente frequentante del corso di laurea DAMS-Cinema di Padova. Il suo cognome è ormai una hit.

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Cultura

non conformato) che si riflette sui due figli che, privi di un reale punto d’appoggio, di precariato degli affetti, cercano di ricompor-re (come una costruzione Lego) le loro certezze, ma non riescono a trovare il pezzo più importante - in un’analoga situazione è inte-ressante vedere come Moretti e Benigni in “La Tigre e la neve” svi-luppano il rapporto padre-figlio. - Ma torniamo al titolo. “Il Caimano” è un film che non esiste, che non esisterà mai, perché il soggetto è sempre stato lì, e la sceneggiatura si è sviluppata davanti agli occhi di tutti (di tutti!), ma nessuno ha mai avuto il coraggio di farlo quando doveva essere fatto; un’occasione persa, o elusa dal cinema italiano. È quello di un cinema per la mag-gior parte piegato alla televisione (che purtroppo molte volte è l’uni-ca fonte di finanziamento), che abbassa anche la sua forza incisiva. “Il Caimano” si svolge solamente nella testa del produttore, e per-sino lui ne ha terrore. È una patata bollente, e nessuno sembra volersi scottare. Forse un poco ingenua è la giovane regista con la sua carica “idealista”, ma non lo è Moretti che sa di non essere un eroe, e di essere stato uno che forse è staso troppo a guardare, e che forse nel momento del bisogno ha preferito spegnere la macchina da presa per scendere in piazza. Constatazione

di un cinema divenuto impoten-te, che non ha saputo ascoltare i segnali che numerosi giungevano. Per primo era stato Federico Fellini che già a fine anni Ottanta aveva espresso il suo progetto di fare un film su Silvio Berlusconi, e su quelle televisioni private che stavano ammazzando il cinema italiano a colpi di gratis, di svendite, di tutto per tutti. E il cinema si trasforma in televisione - come Fellini ama-ramente constatava nei suoi ultimi film -, nei teatri di posa si girano televendite, e queste fabbriche di sogni in celluloide così evoca-tive (le scenografie per i western) vengono distrutte a colpi di debiti e di una scavatrice (che non può che richiamare alla mente quella di “Prova d’orchestra” di Federico, appunto). Ma di fronte ad un atto d’accusa così forte l’autore non si nasconde e ci mette la faccia, deci-dendo in prima persona di recitare nel finale quella terribile sceneg-giatura, già parte della storia ita-liana, fatta di accuse e di violenze verbali, di tabula rasa della mora-le, della legalità, della giustizia. E i dialoghi che Moretti ripete sono quelle stesse parole delle quali noi tutti italiani siamo stati virtuali testimoni in un’ aula giudiziaria. Il regista romano a dispetto di tutti non fa una sorta di “Being Berlusconi”, ma immette il “Ber-lusconi-come-concetto” in un

corpo opposto (anche fisicamente) per registrarne le conseguenze, terribili. Moretti non si ferma qui, e il lungo primo piano finale con un’Italia in fiamme alle spalle del Caimano-Moretti (assieme a quella musica imperiosa ci fa tremare il sangue); è forse una delle immagini più potenti e più apocalittiche del cinema italiano.E se in un suo corto giovanile, “Come parli frate?” interpreta un Don Rodrigo pasticcione, qui Moret-ti non vuole scherzare, e richiama alla memoria le sue esperienze di attore in film scomodi come “Padre Padrone” dei fratelli Taviani e so-prattutto “Il Portaborse” di Daniele Lucchetti, ultimo esempio di film capace di smuovere le coscienze civili degli spettatori.Nanni Moretti con “Il Caimano” realizza il suo “Mulhollland Drive” (film che non bisogna dimenticare, profetico esempio di un cinema “della crisi”, di un cinema che potrebbe essere, e che forse non è mai stato), e che perfettamente si inscrive nella sua filmografia, una mossa tanto inaspettata, impreve-dibile ma estremamente coerente di una delle più grandi personalità del cinema italiano, irriducibile al compromesso, e volto a svelare e combattere tutti quei pregiudizi che hanno segnato... anche il suo film.

di Alberto Cereser Tempo necessario per leggere questo articolo: 1,5 min208 Parole

RicordiStudia Fisica all’Università di Padova, e ultimamente sta proprio bene.

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Quando a Venezia i giapponesi in frotte avanzano a scariche di flash omicida, le pietre vecchie di storia chiacchierano serrate, chiedendo spesso qualche parere ai portici e ai negozianti di fiducia, che non le lasciano al loro destino. Ma cosa sarà mai di tutte queste fotogra-fie? Ha senso vedere la laguna e i suoi miracoli con un occhio chiuso solo per poterne mostrare tutte le sfaccettature agli amici, una volta a casa? Tutti i porfidi condannano all’unisono questa pratica dis-sacrante, e una piastrella tra le più loquaci ricorda che una volta una ragazza tintinnante di gioia inciampò sul gradino di un ponte,

ed un fratello di cava di questa piastrella chiacchierona si ritrovò come lenzuolo per qualche deci-na di secondi un foglio di carta, preziosissimo perché spiegava che secondo alcune tribù chi fotografa ruba l’anima al modello.-Ecco perché siamo diventate tutte quante così intrattabili”, dice la prima di una lunga serie di colonne, tutte sorelle, presenti in chissà quante foto di innamorati sparsi in giro per il mondo. –E non possiamo farci nulla, credo di aver perso la mia interiorità tra gente di posti troppo distanti. Neanche se tu andassi in pensione, Toni, ce la faresti a recuperare tutti i pezzi

sparsi da un angolo all’altro dei sette mari...--Ciò fia, cossa situ drio dir? Oooops mi scusi, lei viene da fuori, cosa sta blaterando signora colonna in mar-mo di Carrara? Io di foto ne ho fatte poche, ma venderei comunque la mia anima per tre sopresse con l’aglio e una damigiana di raboso o di valpollicella. E sto qui, a parlare con una colonna dalla testa dura. Solo ricordati di me, che mio nipote non sa neanche come le faccio le sardee in saor, nessuno mi ha mai fotografato mentre vivo, e non mentre sono in posa...-

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Dico: corro e prendo il treno alle 16.10, così riesco a studiare due minuti a casa. Devo riuscire a finire almeno un libro per l’esame. Uno, dai. Allora decido di correre e rie-sco a salire, sedermi ed estrarre il libro da studiare. Poi parte il treno. Stranamente puntuale. Inizio a leggere e sottolineare delle frasi, tuttavia mi accorgo che ciò che sottolineo sono le classiche parole in libertà. Intorno a me un vagone di ragazzini delle elementari di ri-torno dalla gita a Venezia. Parlano fra loro, ridono, si fanno gli scher-zetti. Che carini! Che carini?? Mi pento subito di quanto ho appena pensato. La confusione è tale che nemmeno il lettore mp3 al massimo volume riesce a coprire gli schia-mazzi giovanili e gli sbuffi dei miei adulti vicini di sedile. L’insofferen-za cresce. Le maestre percorrono il corridoio avanti e indietro per incutere paura ai loro alunni, ma è noto che gli alunni se ne fregano. È noto e palese. Mai che mi toc-chi l’eccezione che conferma la regola. Perfetto, il treno ferma a Mestre e riprende la sua corsa. Ad un certo punto frena. Frena. Frena. E si ferma, un po’ bruscamente, a dire il vero. Succede, dovrà far passare un treno. E infatti un altro treno sfreccia alla mia sinistra. Non ri-partiamo subito, però. Nemmeno dopo poco. Il vagone intero si spazienti-sce. Sentiamo il richiamo del capotreno, quel suono presago di ritardi e di-spensatore di scuse inutili o auguri benevoli per un futuro viaggio. Voce me-tallica: ehm, avvisiamo i signori viaggiatori, uhm, che il treno rimarrà fer-mo... - pausa, molto bre-ve, a dire il vero – causa investimento... - non sono riuscita a capire come ab-bia concluso l’annuncio, perché i bambini hanno iniziato a chiedere: chi? Come? Dove? Quando? Davvero? Qui? Maestra,

Tempo necessario per leggere questo articolo: 8 min1223 Parole

Cronaca di una morte collettivadi Serena Boldrin Bella Brava Buona: una Boldrin!

Lei preferisce definirsi... sem-plicemente Divina.

possiamo vedere? Quanto tempo dobbiamo restare fermi, maestra? Non posso dar torto al ragazzo che ha urlato: state zitti! Ma ormai era troppo tardi. La generale e subitanea reazione è stata aprire i finestrini per prendere aria. Cioè, spero che nessuno fosse interes-sato al macabro spettacolo di ciò che resta di uomo che ha deciso di togliersi la vita gettandosi sot-to ad un treno. Sono state molte le altre reazioni e ho tentato di studiarle, pensando ai modi in cui reagisce la gente di fronte alla morte altrui. Beh, interessante! Il commento più frequente è “non poteva suicidarsi sotto al treno dopo?”, oppure il concetto viene espresso nelle diverse varianti pos-sibili. Poi ci sono quelli interessati al vero e proprio spettacolo della morte suicida e questi raggiungono subito il capotreno. I bambini sono un po’ preoccupati, ma le maestre consigliano loro di mangiare ciò che hanno avanzato e quindi si tran-quillizzano. Ah, già, subito dopo l’annuncio, ognuno ha preso in mano il proprio telefono cellulare e ha chiamato mamma, amica/o, collega o capo, fidanzato/a per avvisare del ritardo. “Eh, uno si è

fatto mettere sotto dal MIO treno”, spiegavano. Già, perché il proble-ma è proprio questo: perché è capi-tato proprio a me? Non posso essere ipocrita: l’ho pensato anch’io! Fin dall’inizio, proprio, e non posso vergognarmi di questo sentimento così poco eucaristico. Mi sembrava una maledizione: io, in mezzo alla campagna – perché ci trovavamo in mezzo alla campagna e quindi ogni via di fuga mi è preclusa -, in un vagone pieno di bambini e con un libro da finire entro la giornata, a stomaco vuoto dalle 8 di matti-na, ferma su un treno italiano per non-so-quanto tempo. Si, doveva trattarsi di una maledizione. Dopo più di mezz’ora tornano le persone che si erano prese la briga di anda-re a vedere cosa ne sarebbe stato di noi. Confortanti! - Dovremmo restare bloccati per due-tre ore -. Sguardi di paura, volti terrorizzati, tra le altre una voce femminile - al massimo 25 anni - giunge alle mie rassegnate orecchie:- Cosa faccia-mo? Ci vengono a prendere con un altro treno, no? -. Ehm, non so cosa fare per trattenermi. Vorrei ridere, ma vorrei anche urlare tutto il mio disgusto di fronte ad un tale grado di ingenuità. Possibile che ci sia

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ancora qualcuno a riporre le proprie speranze su Trenitalia? Dopo questo fugace momento di ilarità soffocata, ritorno al mio libro, mancano solo cinque pagine. Ed ecco arrivare i due ragazzi seduti vicino a me, che prima dell’inconveniente parlavano teneramente di ragazze, calcio e cibo. - Ancora mezz’ora-un’ora e si riparte. È arrivata la polizia, quando finiscono, partiamo -. Poi seguono scrosci di do-mande e la dichiarazione di uno dei due:- A Carpenedo uno si è buttato, l’autista ha frenato, ma era tardi. Non sanno ancora niente di preciso -. L’al-tro ragazzo mi guarda e mi dice:- Si vede del sangue e un pezzo di corpo, ma è meglio se non aggiungo altro -. Chi ti ha chiesto niente? Perché mi hai detto del sangue? Perché mi hai detto del corpo? Ti sembro una persona che vuole sentirsi raccontare certe cose? Ho la faccia da serial killer? O da sui-cida? Ma io non lo so, questi giovani d’oggi proprio non riescono a pensare. Me ne faccio una ragione e continuo a studiare, mentre loro si stupiscono della mia capacità di concentrazio-ne in una simile situazione. Me ne stupisco anch’io, ma devo studiare,

quindi la cosa passa in secondo piano. Si perché mancano quattro pagine. E io non sono minimamente scossa dall’accaduto. Non me ne importa niente, ad essere sincera. Voglio solo finire queste quattro pagine. Ma la tentazione di fermarmi a riflettere vince, e così il mio ego si interroga a proposito della sua atarassia e del modo scientifico di percepire la mor-te di questo povero essere umano... mi dico che è una sciocchezza e non sto davvero pensando che di quella persona non me ne frega niente, che anzi, sono così toccata che le lacri-me sono paralizzate. Cerco in tutti i modi di sembrare a me stessa un po’ umana, sensibile. Ma è inutile, sono davvero paralizzata, ma dalla fretta di arrivare alla fine di questo libro. Riflettere è impossibile, mi manca la forza di volontà. E allora la matita scorre sul foglio, aiutata dal righello. I miei occhi inviano al cervello parole, parole, parole. Nemmeno studiare sembra un attività così realizzabile. I ragazzi seduti con me, nel frattem-po, chiacchierano, uno è di Quarto, l’altro di Porto. Devono avere molta fame, ma soprattutto tanta voglia di

arrivare a casa a farsi la doccia. Ok, due pagine... una pagina! Mi sento davvero libera, ora. Dai, manca poco. Poche righe... il treno inizia a muover-si, lentamente, molto lentamente. I bambini e l’intero vagone si alzano in piedi e urlano felici. Io, li seguo, con qualche secondo di ritardo:- Ho finito il libro!!! -. I due miei vicini esulta-no con me, ci sediamo e una strana sensazione ci pervade. Tranquillità. Ora tutti sono tranquilli, anche la scolaresca. È come se il treno di nuovo in movimento abbia disteso i nervi di tutti. - Prossima fermata: San Donà di Piave. Trenitalia informa i signori viaggiatori che il treno ha maturato un ritardo di settantacinque minuti. Ci scusiamo per il disagio -. Arrivo a casa, stanca ed affamata. Vado a letto. Buona notte... e auguro buon riposo a quell’anziano signore che il 22 marzo ha deciso di togliersi la vita gettandosi sotto ad un treno che aveva appena lasciato dietro di sé la stazioncina di Carpenedo. Io spero solo che lei riesca a perdonare il nostro assurdo e deprecabile atteggiamento. Sebbene nessuno di noi meriti tanto.