PreTesti • Occasioni di letteratura digitale • Maggio 2012 • Numero 5 • Anno II

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| Maggio 2012 pretesti 1 Seconda vita di Francesco Fioretti L’anima dell’esattezza: Intrecci tra letteratura e matematica di Claudio Bartocci Lo spirito del dare per una nuova democrazia di Peter Sloterdjik Il disertore di Ugo Barbàra Occasioni di letteratura digitale pretesti Maggio 2012 • Numero 5

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Seconda vitadi Francesco Fioretti

L’anima dell’esattezza: Intrecci tra letteratura e matematica

di Claudio Bartocci

Lo spirito del dare per una nuova democrazia

di Peter Sloterdjik

Il disertoredi Ugo Barbàra

Occasioni di letteratura digitale

pretesti

Maggio 2012 • Numero 5

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www.cubolibri.it

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IL megLIodella Narrativa

e deLLa saggistica

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Al termine della grande abbuffata del 25° Salone Internazionale del Libro esce il numero di maggio di PreTesti. Questa volta anticipato di qualche giorno nella sua versione Social Reader con l’Application per Facebook dal nome Cubolibri Café. Dal 2 maggio scorso infatti Biblet ha cambiato nome. È diventato Cubolibri. PreTesti rimane immutato, anche se cambia-no i luoghi di diffusione, in attesa di una ulteriore novità per il mese prossimo di Giugno. Se verde è il colore di Cubolibri resta rosso il colore di PreTesti. E di rosso, sangue, si tinge la storia di copertina inedita che Francesco Fioretti ha scritto per noi. La guerra dirompe dalla fantasia di Ugo Barbàra, la matematica trionfa nel saggio di Claudio Bartocci e Peter Sloterdjik ci indica una possibile strada per risolvere il problema delle tasse nelle demo-crazie moderne.Ora non sono temi da poco: risolvere un romanzo giallo, risolvere un’equazione matema-tica, risolvere una situazione di pericolo, risolvere il problema del pagamento delle tasse. E così neppure semplice è riuscire a far sopravvivere le enciclopedie nel mondo del digi-tale (possibile? Utile?) e trovare una “quadra” sul prezzo degli ebook. Così non doveva essere semplice la vita per Lazarillo de Tormes che incontriamo nella rubrica “Buona la prima” o in “Sulla punta della lingua” per un italiano che capisce il dialetto e poco l’i-taliano e accende la TV o va a teatro e sente parlare solo italiano. Così sulle rive del Da-nubio “L’anima del mondo” si incupisce e il cibo non è più sicuro nelle mani di Agatha Christie per “Alta cucina”.Problemi e soluzioni che popolano la letteratura e la scienza in egual misura. Che popo-lano il mondo e il nostro tempo. Scoraggiarsi vuol dire non affrontare più questi proble-mi, ma questo vuol dire non vivere. Perché allora smettere di vivere quando la fantasia illuminata della mente può aiutarci a superare ogni ostacolo? Fosse anche una soluzione diversiva, una soluzione romanzata, ma avremo vissuto e possiamo dire che vivere in un romanzo non sia meno problematico che vivere nel mondo?

Buoni PreTesti a tutti.Roberto Murgia

editoriale

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36-38Buona la primaAnonimo “Lazarillode Tormes” (1554)di Luca Bisin39-41Sulla punta della linguaItaliani in scena di Stefania Stefanelli42-44Anima del mondoAll’ombra del grande fiumedi Luca Bisin45-48Alta cucina L’arte “deliziosa”del delitto di Fabio Fumagalli49 Recensioni

50Appuntamenti

51Tweets / Bookbugs

rubrichetesti

05-10RaccontoSeconda vitadi Francesco Fioretti11-16SaggioL’anima dell’esattezza: Intrecci tra letteratura e matematicadi Claudio Bartocci17-20AnticipazioneLo spirito del dare per una nuova democrazia di Peter Sloterdijk21-27Racconto Il disertoredi Ugo Barbàra

il MoNdo dell’ebook

28-32L’Enciclopedia del futuro non prevede la voce “carta”di Daniela De Pasquale33-35Battaglia per ilprezzo - e il futuro -degli ebookdi Roberto Dessì

Indice

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racconto

di Francesco FiorettiSECONDA VITA

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i prego di credermi, anche se a tutta prima potrebbe sembrarvi assurdo. Della notte che ha bru-ciato la mia vita, per quanti sforzi

abbia fatto dopo e faccia tuttora per far ri-affiorare qualche straccio di ricordo, la mia memoria ha cancellato proprio tutto. Per-ché ero tornato a casa ubriaco fino al midol-lo, e forse in discoteca qualcuno del gruppo mi aveva sciolto una pasticca di non so cosa in uno dei tanti bicchieri dei vari superalcolici che m’ero scolato al bar, uno dopo l’altro, come fos-sero gingerini. Era per-ché era finita con Maia e avevo un gran bisogno di annichilirmi del tutto quella notte, di azzerare nella mente il dolore... Quello che alla fine ri-cordavo era che la matti-na dopo m’ero svegliato con una terribile emicra-nia, seduto sul pavimen-to della mia camera matrimoniale, ancora vestito, e che mia moglie, che non era uscita con me quella sera, era sul letto tutta nuda in un lago di sangue. Solo questo posso dire con certezza, avevo appreso dal telegiorna-le d’essere il principale indiziato dell’omi-cidio di Raffaella, e in effetti sì, visto che non ricordavo più nulla, poteva essere be-nissimo che fossi io l’assassino. Ai giornali-sti che erano accorsi a intervistarmi avevo dichiarato che, anche se non sapevo esatta-mente come fossero andate le cose, mi senti-vo colpevole, che spesso negli ultimi tempi avevamo litigato, che avevo anche deside-rato intensamente, in più d’un’occasione,

la morte di mia moglie; e che, anche se non avrei mai immaginato di poter giungere a tanto, a volte si sa, se si beve molto e chissà cos’altro s’è ingurgitato a propria insaputa in discoteca, può succedere qualunque cosa e non è detto che uno poi se la ricordi. Non avevo le prove della mia colpevolezza, così avevo concluso l’intervista, ma mi fidavo ciecamente degli inquirenti. M’ero sforza-to anche di collaborare il più possibile col

commissario Morelli, un bel signore distinto, an-cora giovane e molto af-fabile, di sicuro avviato a una brillante carriera. Non m’importava gran-ché di finire in galera, a quel punto, volevo solo sapere anch’io la veri-tà. Gli avevo raccontato, per aiutarlo a chiarire la faccenda, tutti i possibi-li moventi dell’omicidio, di come eravamo in crisi da tempo io e Raffaella,

di che carattere dispotico avesse lei e luna-tico io, di come le cose fossero precipitate alla fine, dopo che avevo perso il lavoro; di quanto lei mi disprezzasse e io mi ostinassi per parte mia a non sopportare chi perdeva il suo tempo a disprezzarmi, con tante cose più utili e belle che si sarebbero potute fare nel frattempo. Eravamo sempre sul punto di lasciarci, senza mai trovare il coraggio per farlo... E nella mia deposizione al commissariato avevo raccontato anche di Maia, per filo e per segno. Così la chiamavo io, e d’altra parte non ne conoscevo il vero nome, né lei il mio. Era il nostro patto. Per lei io ero

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Solo questo posso dire con certezza, avevo appreso dal

telegiornale d’essere il principale indiziato

dell’omicidio di raffaella, e in effetti sì,

visto che non ricordavo più nulla, poteva essere benissimo che fossi io

l’assassino.

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Sisifo, ci chiamavamo ancora con i nickna-me del sito di incontri clandestini per gente sposata su cui c’eravamo conosciuti. Una volta c’eravamo dati appuntamento in un bar di M**, poi c’eravamo frequentati per un anno senza sapere assolutamente nulla l’uno dell’altra: eravamo Maia e Sisifo, non parlavamo mai dei nostri coniugi o dei fi-gli, se ne avevamo, nei pomeriggi andava-mo fuori città a passeggiare in un bosco o a far l’amore in una casetta di campagna pre-sa in affitto: all’inizio pagavo io, poi, quan-do ero stato licenziato, non potevo più per-mettermelo e lei d’altra parte non era più venuta. Su una sola cosa mentii al com-missario, sull’iden-tikit di Maia: non volevo che la rin-tracciassero davvero e che finisse nei guai col marito per cau-sa mia. E feci bene. Indiscrezioni filtra-rono sui giornali e questa storia dei nickname ebbe anche un certo successo mediatico, si scatenò una terrificante caccia a Maia sulla base del fal-so identikit, mi obbligarono a una serie in-finita di riconoscimenti, tutti ovviamente conclusi in un nulla di fatto. Un anchorman della televisione nazionale, fiutando il po-tenziale interattivo della vicenda, ci imba-stì trasmissioni su trasmissioni per un paio di settimane. Venivano mariti addirittura, e fidanzati gelosi, a verificare che Maia non fosse la loro compagna. Se avessi o meno ucciso mia moglie, sembrava non interes-sasse più a nessuno... Sisifo e Maia, invece, s’erano incontrati per

l’ultima volta proprio la sera prima dell’o-micidio. Gran bel nickname il suo, abbinato a un bel volto e a un bel corpo di donna. Il mio non aveva nulla a che vedere col per-sonaggio mitologico, era solo il più facile da digitare con due indici, per uno come me che al computer non è precisamente un fulmine. Era stato bello così, col nostro pat-to di non conoscerci mai, spaventati com’e-ravamo entrambi dalla noia. Eravamo gli avatar di due esseri smarriti, avevamo de-ciso di poterci inventare qualsiasi identità, di raccontarci soltanto un passato di fanta-sia, di essere sempre, l’uno per l’altra, ciò

che desideravamo essere, più che ciò che eravamo dav-vero. Sarebbe stata la nostra terapia per guarire dalla banali-tà della vita... Ma quella sera era venuta a dirmi che l’incanto era rotto, che la realtà aveva

ripreso il sopravvento. Era incinta, non ca-pii subito il suo discorso, la cui sintassi era esplosa, locupletata d’anacoluti e singhioz-zi. Aveva deciso di riamare suo marito, che sarebbe stato il padre del neonato. Che era un uomo straordinario, di saldi princìpi e di sani valori morali, che sarebbe stato un ottimo padre, che aveva molto da dare a un bambino, che lei si sentiva anche in colpa per averlo tradito. E poi, chiunque fosse il vero padre, non poteva certo far crescere il figlio col personaggio di quella specie di romanzo che c’eravamo costruito: il bambi-no avrebbe dovuto vivere nella realtà, que-sta era l’unica cosa di cui era sicura. Aveva

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deciso così. Lasciò la stanza d’albergo del nostro ultimo incontro senza salutare, cor-rendo via in lacrime. Mi piantò lì da solo, frastornato, in un silenzio agghiacciante. Poi, dopo il fattaccio, probabilmente co-nobbe tutto di me dai giornali e dalla tivvù. E circa un anno dopo mi spedì quei fogli che decifrai a fatica, con l’aiuto di un amico medico: erano le fotocopie delle analisi del DNA di suo marito e del bimbo, da cui ri-sultava che questi non era figlio del padre ufficiale. I nomi però erano stati raschiati via sull’originale, sostituiti ad ogni occor-renza dalle voci MARITO e FIGLIO scrit-

te a mano. Così non riuscii mai più a rin-tracciarla. Non mi diede alcuna possibilità di abbracciare quello che, dunque, doveva essere il mio bambino. D’altra parte allo-ra mi dissi che era meglio così, ero senza soldi e m’ero deciso a vendere la casa. Ora vivo nella stanza messa a mia disposizione dall’albergo di cui sono il portiere di notte, e mi nutro degli avanzi del ristorante an-nesso. Ho vissuto per poco più d’un mese radicato nella convinzione d’aver ucciso Raffaella. Mi sentivo in colpa, forse per averla tradi-ta, ma d’averla tradita, in realtà, non m’ero mai sentito in colpa. Allora forse fu perché negli ultimi tempi eravamo così arroccati a difenderci l’uno dalle accuse dell’altra, così ostinati a scaricarci reciprocamente addos-

so le responsabilità del nostro fallimento, che, quando poi all’improvviso m’ero ritro-vato solo con me stesso, ero rimasto anche da solo a fare i conti con tutto il peso della colpa di entrambi. E così finivo per identifi-carmi in tutte le occhiate di disprezzo della gente che incontravo all’uscita del commis-sariato. Ma poi un giorno Morelli mi convo-cò nel suo ufficio e mi disse che la scientifica aveva reso pubblici i risultati delle proprie indagini, ed era venuto fuori che Raffaella aveva un amante che aveva passato quella notte con lei, che c’erano tracce di seme e DNA altrui dentro e fuori di lei, e capelli di

un altro nelle sue unghie: impronte di igno-to sul coltello che le aveva scavato il cuore. Il colpevole era sicuramente un altro, mi disse il commissario, mi prese il polso con una stretta rassicurante: «Vedrà», conclu-se, «lo troveremo quel criminale. Prima o poi, stia tranquillo, lo acciufferemo: abbia fede nella giustizia...». Così seppi tutto in un istante: che mia moglie a sua volta mi tradiva, e che aveva una relazione segreta col suo futuro assassino. Continuai comunque a sentirmi in colpa, sia pure per altri motivi...Invece non l’hanno mai acciuffato, ovvia-mente, quel criminale. Sono passati quin-dici anni, la mia vita non è più cambiata. Faccio il portiere di notte in un alberghet-to a cui mi sono affezionato molto perché

Sono passati quindici anni, la mia vita non è più cambiata. Faccio il portiere di notte in un alberghetto a cui mi sono

affezionato molto perché pare la metafora della mia stessa esistenza: ha conosciuto altri fasti, ogni tre anni perde una

stella, e gliene son rimaste appena due.

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pare la metafora della mia stessa esistenza: ha conosciuto altri fasti, ogni tre anni per-de una stella, e gliene son rimaste appena due. Ne può ancora perdere una e basta: et sic ego. Alla reception, di notte, mi leggo ro-manzi gialli, penso a mia moglie, a Maia, al mio bambino. Almeno una volta però l’ho visto, aveva dieci anni, e adesso saprei anche come rintracciarlo. Ero in centro a fare shopping poco prima di Natale, la vidi uscire con lui da una profumeria. Maia si voltò subito dall’altra parte per evitare che la salutassi, ma io ero rimasto incantato a guardare il bel fanciullo che doveva esse-re mio figlio, per un istante i nostri sguardi s’erano incrociati e parve quasi che ci fossi-mo riconosciuti, che anche lui avesse intu-ito chi ero. Un attimo dopo uscì dalla profumeria il commissario Morelli, mi riconobbe, mi sa-lutò.«Purtroppo non siamo mai riusciti a identi-ficarlo, l’assassino di sua moglie», mi ripe-té, quasi a riprendere un discorso lasciato a

mezzo tanti anni prima.«Già», risposi, ma ormai a che sarebbe ser-vito? «Mi inquieta ancora», aggiunse, «è rimasto l’unico caso irrisolto della mia carriera».Ah già, la sua carriera, sarebbe stata l’ulti-ma cosa cui sarei andato a pensare...Mi presentò allora sua moglie Livia e suo figlio Andrea. Maia riuscì a non tradire la minima emozione quando mi strinse la mano e mi disse «piacere».«Il piacere è tutto mio», o almeno lo è stato per un po’ di tempo. E rimasi a guardarli mentre si allontanavano sulla via gremita di gente e luminarie. Poi sarebbe finita lì: mi dissi che erano proprio una bella cop-pia, che sembravano molto affiatati, che se lei aveva deciso così bisognava fidarsi, l’i-stinto delle madri è infallibile, mio figlio era proprio un bambino fortunato, io di sicuro non avrei potuto dargli di meglio. E la pen-serei ancora così, mi sarei messo da tempo l’animo in pace, se una volta, preso da chis-sà che demone, non avessi confrontato per

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curiosità le due analisi del DNA che per caso avevo conservato, quelle dell’amante assassino di mia moglie con quelle del ma-rito di Maia, o forse dovrei dire di Livia, e non avessi scoper-to che erano la stessa persona. Era stato lui, sì, il commissario Morelli, quell’«uomo straordi-nario, di saldi princìpi e di sani valori morali... che sarà un otti-mo padre, che ha molto da dare a un bambino...».Da allora ogni tanto, nelle not-ti d’inverno in cui non c’è un cliente e si ha tutto il tempo per pensare, qualche dubbio anco-ra mi viene: che la realtà sia a volte più falsa del romanzo che io e Maia c’eravamo costruito, che gli avatar possono essere più autenti-ci delle persone reali. E che io e Raffaella c’eravamo perduti appunto nel momento in cui c’eravamo identificati troppo con la banalità delle nostre vite, con il sussidio di

disoccupazione, le rate del mutuo, le bol-lette da pagare... Adesso che non c’è più ho ripreso persino ad amarla, ci parlo nei so-

gni o nella mia testa per strada quando vado a passeggio. Le chiedo scusa per tutto l’orgo-glio che, allora, non ero mai ri-uscito a smussare. Il suo, il mio orgoglio, di animali feriti... Lei adesso cammina al mio fianco e finalmente si fida, non siamo mai stati così bene insieme come ora in questa specie di seconda vita, quando il peso della col-pa s’è come disperso nell’aria e tutto è diventato più leggero. Lo so che è una vita fasulla, un surrogato della fantasia, ma che importa? La parte più vera

e interessante della realtà, l’ho capito trop-po tardi, è proprio quella che non si vede... Adesso, quando sono in giro con lei nel cuore, a volte quasi me lo dimentico, che il padre di mio figlio è il suo assassino.

Francesco Fioretti è nato a Lanciano, in Abruzzo, nel 1960. È si-ciliano e apulotoscano d’origine, si è laureato in Lettere a Firen-ze e ha insegnato in Lombardia e nelle Marche. Attualmente ap-profondisce gli studi danteschi presso l’Università di Eichstätt in Germania. Ha pubblicato saggi critici e antologie scolastiche. Nel 2011 ha pubblicato con Newton Compton il suo romanzo d’e-sordio, Il libro segreto di Dante, disponibile in ebook da cubolibri.È in uscita il 17 maggio di quest’anno sempre per Newton Compton il suo nuovo romanzo Il quadro segreto di Caravaggio.

Disponibile su www. cubolibri.it

Francesco Fioretti

Il nuovo romanzo di Francesco Fioretti, Il quadro segreto di Cara-vaggio, in uscita presso Newton Compton il 17 maggio

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L’ANIM

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di Claudio Bartocci

INTRECCI TRA

LETTERATURA E

MATEM

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a letteratura centra l’attenzione sull’uomo. La matematica, invece, sembra occuparsi di un mondo, se non inumano, almeno non uma-

no. È dunque quantomeno sorprendente che queste due attività del pensiero possa-no avere connessioni di qualunque genere. Al contrario, si constata che esse sono lega-te da una fitta, seppu-re impalpabile, rete di echi, rimandi e corri-spondenze.Il dialogo tra matemati-ca e letteratura – anche se ha origini indubbia-mente ben più remo-te – si è fatto intenso e serrato soprattutto nel corso degli ultimi cen-tocinquant’anni. Intorno alla metà dell’Otto-cento, in effetti, la matematica attraversa una

fase di rapida e tumultuosa evoluzione, su-bendo una serie di profonde trasformazioni: la creazione delle geometrie non euclidee, la nascita dell’algebra astratta, gli sviluppi nel campo dell’analisi reale e complessa solle-vano questioni non solo tecniche ma anche filosofiche e, in alcuni casi, danno luogo a di-battiti che non rimangono limitati alla ristret-ta cerchia degli specialisti. Il nuovo e vasto

mondo di idee e di forme astratte che scatu-risce, quasi per magia, dalle ricerche dei ma-tematici esercita un fascino potente, seppur il più delle volte mediato e sotterraneo, su quanti – artisti, musicisti, pensatori, scritto-ri – la osservano dall’esterno, con lo stupore del profano o l’ammirazione del cultore av-vertito. Per quanto riguarda specificamen-

te la letteratura, non è difficile individuare una schiera tutt’altro che esigua di autori che nulla accomuna l’uno all’altro, se non il fatto che nelle loro opere, con frequenza e in misura maggiore o minore, affiorano no-zioni o strutture mate-

matiche, fanno capolino riferimenti a spazi a quattro dimensioni, alle sottigliezze della

logica o ai misteri della teoria dei numeri, balenano metafore concepite sulla base di concetti tratti dall’algebra o dall’analisi.Il reverendo Charles Lutwidge Dodgson – meglio noto con lo pseudonimo di Lewis Carroll –, lecturer di matematica al Christ Church College di Oxford, trasfigura le pro-prie competenze di logica nelle mirabolanti invenzioni di Alice’s Adventures in Wonder-

Il nuovo e vasto mondo di idee e di forme astratte che scaturisce, quasi per magia, dalle ricerche dei matematici

esercita un fascino potente, seppur il più delle volte mediato e sotterraneo, su quanti – artisti, musicisti,

pensatori, scrittori – la osservano dall’esterno, con lo stupore del profano o l’ammirazione del cultore avvertito.

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land, Through the Looking-Glass, The Hunting of the Snark, Sylvie and Bruno. Isidore Ducas-se, Comte de Lautréamont, nei suoi Chants de Maldoror, inneggia alle «mathématiques sévères» e al contempo «saintes»:

Arithmétique! algèbre! géométrie! trinité grandiose! triangle lumineux! […] vous, ô mathématiques concises, par l’enchaînement rigoureux de vos propositions tenaces et la constance de vos lois de fer, vous faites luire, aux yeux éblouis, un reflet puissant de cette vérité suprême dont on remarque l’empreinte dans l’ordre de l’univers (Aritmetica! alge-bra! geometria! triangolo luminoso! [...] voi, matematiche concise, con il conca-tenamento rigoroso delle vostre propo-sizioni tenaci e la costanza delle vostre leggi di ferro, voi fate brillare, agli occhi abbagliati, un riflesso intenso di quella verità suprema la cui impronta si osser-va nell’ordine dell’universo)

I nuovi universi geometrici creati dai gran-di matematici dell’Ottocento e la possibili-tà di immaginare spazi a più di tre dimen-sioni ispirano Flatland, l’utopia teologica di Edwin Abbott Abbott, i visionari «scientific romances» di Charles Hinton e il viaggio nel tempo di Herbert G. Wells. Non solo: in un celebre brano nella seconda parte dei Fratelli Karamazov, Ivan, l’eroe-scienziato, argomen-ta sottilmente, dialogando con Alëša, che la possibilità stessa di una geometria che vìola il postulato delle parallele solleva l’ombra del dubbio sull’esistenza di Dio, la cui opera è – deve essere – indefettibilmente euclidea.Per Paul Valéry – dopo la palingenesi spiri-tuale della «nuit de Gênes» (ottobre 1892) – l’ideale della poesia arriva a coincidere con

l’ideale della matematica: di Mallarmé, per esempio, scrive che «ha considerato la lette-ratura come nessuno aveva mai fatto», «con una profondità, un rigore, una sorta di istin-to di generalizzazione» che lo ravvicinano «a quei geometri moderni che hanno ricostru-ito le fondamenta della scienza e le hanno dato una estensione e un potere nuovi, come risultato di un’analisi via via più fine delle sue idee fondamentali e delle sue conven-zioni essenziali». Nella labirintica officina dei Cahiers, che abbracciano cinquant’anni di solitaria meditazione, il «poeta del rigo-re impassibile della mente» (così lo definirà Calvino) dissemina centinaia e centinaia di osservazioni dedicate alla matematica, e i modelli che si prefigge di seguire non sono tanto i letterati o i filosofi, quanto Riemann,

Lewis Carrol

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Poincaré, Enriques, Élie Cartan, Émile Bo-rel, oppure «les fortes têtes de la physique», Planck, Einstein, Langevin, Lorentz. Convin-to che soltanto il rigore garantisca una «liber-tà positiva», Valéry considera la matematica (che è «esercizio, e paragonabile alla danza») come «il modello dell’arbitrario», e la defi-nisce «un’arte delle idee, un’arte dell’ordine delle idee, o della pluralità delle idee […]». Seguace appassionato di Valéry e di Lau-tréamont, Leonardo Sinisgalli è iniziato ai misteri della matematica nel corso dei suoi studi di ingegneria all’Università di Roma, dal 1925 al 1931, dove assiste alle lezioni di grandi scienziati quali Tullio Levi-Civita, Francesco Severi e Guido Castelnuovo. Nel Quaderno di geometria – un «lungo discorso sul “senso della misura e della posizione”» che costituisce la parte iniziale di Furor ma-thematicus – si affastellano idee disparate, parafrasi di «celebri testi», digressioni e di-vagazioni, che tracciano la mappa dei temi fondamentali della riflessione sinisgalliana negli scritti successivi: la geometria come «grafia dell’invisibile, ottica trascendentale», il labirinto del continuo da Cavalieri «alter Archimedes» a Cantor «legislatore dell’in-finito», i numeri immaginari, il moto delle macchine e il mito di Leonardo.Avendo alle spalle solidi studi di ingegneria, psicologia e filosofia, e mantenendosi co-stantemente aggiornato sugli sviluppi della logica e della teoria degli insiemi, come an-che sulle nuove teorie fisiche, Robert Musil definisce la matematica «un’ostentazione di audacia della pura ratio; uno dei pochi lussi oggi ancora possibili». Essa rappresenta non soltanto un antidoto contro lo sterile nichili-smo del pensiero, una regola di igiene con-tro il dilagante kitsch della cattiva letteratura

(«dopo aver letto di seguito due romanzi te-deschi, dobbiamo risolvere un integrale per dimagrire»), ma diventa – già nei Turbamenti del giovane Törless – strumento privilegiato di indagine critica e, nello stesso tempo, meta-fora di un sapere altro, quasi un ponte senza arcate sospeso sull’abisso (come si legge nel celebre passo sulla strana «faccenda dei nu-meri immaginari»). Studiando «quei proble-mi matematici che non ammettono una solu-zione generale, bensì solo soluzioni parziali, combinando le quali ci si avvicina a quella generale», e attraverso il «disincantamento statistico», Urlich, l’«uomo senza qualità», tenta di ricomporre il dissidio tra «anima ed esattezza», di sanare la frattura tra Dichtung e Erkenntnis. Anche nell’opera di Hermann Broch – autore diviso, come Musil, tra scien-za e poesia – sono matematici sia il protago-nista del romanzo L’incognita sia il meschino personaggio di Zacharias negli Incolpevoli, il quale, insegnando ai suoi allievi che la mate-matica si riduce soltanto a una noiosa colle-zione di esercizi da svolgere, distrugge così quell’impulso problematico che è il cuore pulsante e il fondamento della disciplina.In «quella straordinaria e indefinibile zona dell’immaginazione da cui sono uscite le opere di Lewis Carroll, di Queneau, di Bor-ges» e – aggiungendo l’autore stesso della citazione appena riportata – di Calvino, le idee della matematica possono diventare un ausilio prezioso per inventare univer-si paralleli, per demistificare la realtà, per esplorare le modalità di un «nuovo rappor-to tra la leggerezza fantomatica delle idee e la pesantezza del mondo». In compagnia di Queneau – autore, accanto ai testi più noti, del testo programmatico Fondaments de la lit-térature d’après David Hilbert – e di Calvino,

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intenti a esplorare le potenzialità della lettera-tura a partire dal principio della «contrain-te» («vincolo»), incontriamo gli allegri sodali dell’Oulipo (Ouvroir de Littérature Poten-tielle): François Le Lionnais, il matematico Claude Berge, Harry Mathews, Jacques Rou-baud, Georges Perec, nei loro testi fanno uso copioso di strutture algebriche, numeriche e combinatorie. Esempi paradigmatici dell’u-so della matematica come strumento e regola di «composizione» sono i Cent mille milliards de poèmes di Queneau e La vie mode d’emploi di Perec, iper-romanzo costruito sulla griglia di un biquadrato latino ortogonale di ordine 10, la cui esistenza, negata da Eulero, era sta-ta dimostrata nel 1959 dai matematici R.C. Bose e S.S. Shrikhande. Suggestioni o reminiscenze matematiche si possono ritrovare nelle opere di una variega-ta costellazione di scrittori del Novecento tra loro diversissimi, ma tutti più o meno gra-vemente contagiati dallo stesso virus: Leo Perutz, Hermann Broch, Gadda, Max Frisch, Enzensberger, Don DeLillo (pensiamo al romanzo La stella di Ratner), Apostolos Do-xiadis e, soprattutto, David Foster Wallace.

Sarebbe tuttavia affrettato concludere che i rapporti tra letteratura e matematica siano li-mitati a una schiera eletta, ma numericamen-te limitata di autori, e proprio per questo, se non eccezionali, quantomeno incidentali. Si potrebbe, al contrario, argomentare a favore di una più profonda affinità tra queste due attività dell’intelligenza umana, una prossi-mità che è non solo dettata dalle forze più vitali interne alla cultura del nostro tempo, ma consegue anche da alcune caratteristiche di fondo che le accomunano. In effetti, en-trambe sono attività di «finzione» che con-sistono principalmente nell’invenzione di mondi possibili. «Ogni poema ben inventato – osservava già a metà del Settecento Johann Jakob Breitinger – va letto come una storia in un altro mondo possibile» e Umberto Eco precisa: «La regola fondamentale per affron-tare un testo narrativo è che il lettore accetti, tacitamente, un patto finzionale con l’autore, quello che Coleridge chiamava la “sospen-sione dell’incredulità”». A prima vista le cose sembrerebbero andare diversamente per la matematica: non è questa forse il campo in cui è bandita ogni libertà di invenzione,

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il regno della logica indefettibile? In realtà, scrive David Hilbert in una lettera a Frege, «ogni teoria [matematica] è solo un telaio, uno schema di concetti unitamente alle loro mutue relazioni necessarie, e […] gli elemen-ti fondamentali possono venir pensati in modo arbitrario». In accordo a questo punto di vista, la matematica, in quanto studio non di oggetti ma di relazioni tra oggetti (come suggerisce Poincaré), diventa dunque «il modello dell’arbitrario»: gli assiomi e le defi-nizioni non sono iscritti ab aeterno in qualche empireo ultramondano, ma sono il frutto di libere scelte non assoggettate ad altro vinco-lo se non a quello della coerenza interna del sistema e, in particolare, non condizionate

(se non accidentalmente) dalla «realtà» del mondo fisico. In altre parole, le teorie mate-matiche rappresentano universi finzionali, i quali non sono fondamentalmente dissimili da quelli, complessi e articolati, dei grandi romanzi del Novecento, quali ad esempio la Ricerca del tempo perduto, Il processo o l’U-lisse, o da quelli, in scala ridotta ma struttu-rati con ferreo rigore, dei racconti di Borges. Tanto la matematica, quanto la letteratura, sebbene con linguaggi differenti, offrono strumenti per indagare la realtà e per inven-tare altre modalità dell’esistere, per affinare l’intelligenza e per sbrigliare l’immagina-zione, per imporre vincoli e per dischiudere nuovi spazi di libertà.

Le teorie matematiche rappresentano universi finzionali, i quali non sono fondamentalmente

dissimili da quelli, complessi e articolati, dei grandi romanzi del Novecento.

Claudio Bartocci (Roma 1962) insegna fisica matematica e storia della matematica all’Università di Genova. È autore di oltre quaranta articoli su riviste specialistiche (soprattutto nei settori della fisica matematica e della geometria algebrica e differenziale), di due monografie di ricerca, nonché di numerosi saggi sulla storia del pensiero matematico, sui rapporti tra letteratura e matematica e su varie questioni di filosofia della scienza. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Una piramide di problemi. Storie di geometria da Gauss a Hilbert (Raffaello Cortina, 2012); New Trends in Geometry: Their Role in the Natural and Life Sciences (co-editor con L. Boi e C. Sinigaglia, Imperial College Press, London 2011); Fourier-Mukai and Nahm Transforms in Geometry and Mathematical Physics (con U. Bruzzo e D. Hernåndez Ruipérez, Birkhäuser, Boston 2009), Vite matematiche (co-editor con R. Betti, A. Guerraggio, R. Lucchetti, Springer, Milano 2007; trad. inglese Mathematical Lifes, Springer, Berlin-Heidelberg 2010); Racconti matematici (Einaudi, Torino 2006). Ha diretto con P. Odifreddi i quattro volumi de La matematica (Einaudi 2007-2011). Collabora al supplemento culturale del quotidiano «Il Sole 24 Ore».

Claudio Bartocci

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anticipazione

LO SPIRITO DEL DARE PER

UNA NUOVA DEMOCRAZIA

ripensare le tasse nell’età della crisi

di Peter Sloterdjik

Pubblichiamo, in esclusiva per i lettori di PreTesti, alcuni brani tratti dal libro La mano che prende e la mano che dà (Raffaello Cortina Editore) di Peter Sloterdijk, in libreria dal 9 maggio.

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uello di cui si sente davvero la mancanza, nella situazione at-tuale, è lo sforzo di rifondare le transazioni fiscali tra la so-

cietà che dà e il fisco che prende a partire dallo spirito dell’alleanza democratica tra i cittadini. Si percepisce chiaramente questa dimensione carente quando, per un mo-tivo qualsiasi, ci si ri-sveglia dal sonno dog-matico rispetto alle questioni fiscali e ci si prende la briga di in-terrogare, con riguar-do ai suoi fondamenti e alle sue giustificazio-ni, il blocco di ovvietà sul quale poggia l’at-tuale fiscalità. Chi si dedicherà a un’inda-gine del genere noterà con crescente stupore che, nell’attività attua-le, non v’è traccia di approcci tesi a elabo-rare una rifondazione del sistema delle finanze pubbliche a parti-re dalla società civile come soggetto che dà. Non appena si inizia a parlare di tasse – an-che oggi, come sempre in passato – si pren-de unilateralmente avvio, senza ulteriori indugi, dal fabbisogno dello Stato, presup-ponendo dogmaticamente la sua legittima-zione a prendere. Nel sistema fiscale degli Stati moderni (esclusi forse alcuni Cantoni della primitiva democrazia svizzera) so-pravvive, senza essere visto, l’assolutismo. L’orecchio delle autorità fiscali non ha mai

udito il principio secondo il quale tutto il potere deriva dal popolo. La verità occul-ta del sistema fiscale dominante è piuttosto la seguente: tutto il potere deriva dal fisco. Giacché sovrano è chi decide l’esecuzione forzosa – ossia chi decide sul caso di emer-

genza rappresentato dal debito fiscale do-vuto allo Stato –, il fi-sco è il vero sovrano della società moderna. Fino a questo momen-to, concetti quali “so-vranità popolare” o “potere dei cittadini” non sono ancora pe-netrati in questa sfe-ra. Perfino l’idea di un controllo supplemen-tare del fisco da parte dei cittadini poggia sempre su un terreno instabile. Certo, noi valutiamo positiva-mente l’Associazione dei contribuenti, cui spettano meriti im-mensi, dato che, anno

per anno, fa i conti in tasca agli organi stata-li nel momento in cui decidono come spen-dere le risorse e, abbastanza spesso, scopre che sono tasche bucate, dalle quali il dena-ro pubblico – che per i suoi amministratori sembra essere denaro di nessuno – finisce per essere sprecato. Lodevole è anche l’at-tività della Corte dei conti a livello federale e a livello dei singoli Länder, che a modo suo contribuisce a ridurre a più miti consi-gli le follie dei politici e l’arbitrio dei buro-crati. Purtroppo, accanto all’Associazione

Nel sistema fiscale degli Stati moderni sopravvive,

senza essere visto, l’assolutismo. L’orecchio delle autorità fiscali non ha mai udito il principio secondo il quale tutto il

potere deriva dal popolo.

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dei contribuenti e alle Corti dei conti non esiste alcuna “Associazione dei benefattori a favore dello Stato” né alcun “Parlamen-to dei donatori”. Questi organismi virtua-li dovrebbero interessarsi alle attività della mano pubblica, ma dal versante di quelle “entrate” che, in realtà, in quanto tali rap-presentano pur sempre mal compresi doni dei cittadini allo Stato, benché dagli esper-ti in materia continuino a essere testarda-mente interpretati come debiti dei cittadi-ni nei confronti del fisco. A tali istituzioni spetterebbe il compito, decisivo sul piano psicopolitico, di de-automatizzare il paga-

mento delle tasse e sottrarlo così all’ambito della muta sopportazione. Il loro obiettivo dovrebbe essere quello di rendere il grande versamento nelle casse dello Stato ciò che in una società democratica de facto è concepito – e come tale, in definitiva, dovrebbe essere giustamente e coram publico sempre conce-pito – non come tributo dei sottoposti a un potere sempre vittorioso e nemmeno come debito stabilito unilateralmente, e con ne-bulose formule giuridiche, che i sudditi de-vono pagare al Leviatano, bensì come dono attivo a vantaggio della collettività, offerto con cognizione di causa e volontà di contri-buire.

***In una democrazia che si opponga alle pro-prie tendenze verso l’inerzia e la meccaniz-zazione, l’atto di donare a scopi sovraperso-

nali cesserebbe col tempo di essere soltanto un capriccio morale privato, che alcuni col-tivano e altri no. In una società rimodellata dallo spirito del dare, il gesto della bene-ficenza diventerebbe sempre più comune, apportando alla fiscalità pubblica gran par-te di ciò che oggi le serve per consolidarsi. La donazione a vantaggio del bene comu-ne potrebbe dunque trasformarsi, nel tem-po, in un habitus psicopolitico consolidato, impregnando le popolazioni democratiche come una seconda natura e operando una conversione globale delle collettività nel senso dell’empatia e della solidarietà ma-

terializzata. Il nuovo habitus originato dalla cultura del dare potrebbe liberare in misu-ra crescente le energie necessarie a superare gli indegni relitti della cleptocrazia statale di matrice tardoassolutistica e la loro pro-secuzione nella logica della contro-espro-priazione, profondamente radicata nella Sinistra classica. Già oggi, forse, clausole compromissorie molto modeste apporterebbero cambia-menti drastici nel comportamento con cui i cittadini danno. Piccole variazioni del di-ritto tributario potrebbero modificare in maniera decisiva il tono morale della col-lettività: non appena si concedesse ai citta-dini la libertà di impegnare una parte del carico fiscale fin lì sopportato – fosse anche, inizialmente, una piccola percentuale del “debito” fiscale – sotto forma di donazione

in una società rimodellata dallo spirito del dare, il gesto della beneficenza diventerebbe sempre più comune,

apportando alla fiscalità pubblica gran parte di ciò che oggi le serve per consolidarsi.

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a un destinatario liberamente scelto, mol-to probabilmente essi verrebbero ridestati, dal punto di vista psicologico, dalla rigidi-tà della loro sopportazione fiscale, per non parlare dei gretti riflessi all’evasione fisca-le, intorno ai quali è costruito tutto il no-stro sistema di finanza pubblica, pervertito

da incentivi sbagliati. Questo effetto non va confuso con la “detrazione” delle dona-zioni nella dichiarazione dei redditi, ope-razione già oggi consentita. Un segmento

nuovo e generalizzato della fiscalità obbli-gatoria dedicato alle donazioni significhe-rebbe che la beneficenza non rappresenta più il capriccio privato di singoli individui altamente motivati. Indirizzare a istanze li-beramente scelte e rilevanti per la colletti-vità determinati importi tratti dal proprio cumulo fiscale diventerebbe un diritto ga-rantito a tutti i contribuenti attivi. Lo ripeto ancora una volta: non si tratta di diminuire le tasse a vantaggio di avari benestanti che hanno voltato le spalle al bene comune, ma di intensificare e rivitalizzare sul piano eti-co le tasse in quanto doni del cittadino alla collettività. Senza dubbio, i maggiori bene-fici andrebbero in primo luogo al sistema educativo, di cui i politici di tutti i partiti riconoscono la priorità alla domenica, per poi lasciarlo a se stesso, con i suoi difetti cronici, nei restanti giorni della settimana. Esonerati dalla necessità di dare a favore di un obiettivo imposto, i cittadini non si lascerebbero assolutamente sfuggire la pos-sibilità di effettuare gli investimenti neces-sari nel campo dell’educazione, in quanto garante del futuro della collettività.

Peter Sloterdjik

Peter Sloterdjik, nato a Karlsruhe nel 1947, filosofo e saggista, inse-gna filosofia ed estetica alla Staatliche Hochschule für Gestaltung di Karslruhe, della quale è anche rettore. La sua Critica della ragione cinica, pubblicata in Germania nel 1983, ottiene uno straordinario successo di pubblico e di critica, imponendolo all’attenzione come una delle voci più originali e significative della scena filosofica con-temporanea. Tra i suoi volumi apparsi in Italia ricordiamo: Il furore di Dio. Sul conflitto dei tre monoteismi (Raffaello Cortina, 2008), Devi cambiare la tua vita (Raffaello Cortina, 2010), Stato di morte apparente. Filosofia e scienza come esercizio (Raffaello Cortina, 2011).

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da quando sono nato che mi por-to dietro la guerra. Mia madre dice che non è così, che quando sono venuto al mondo la guerra non c’e-

ra e che non me ne ricordo solo perché ero troppo piccolo. Anche mio fratello, che è più grande, dice che un tempo non era così, che non piovevano bombe in continuazione e che per le strade non si vedevano solo sol-dati. Però, dice, era tutto un prepararsi alla guerra, fin dal primo giorno che aveva mes-so piede a scuola. E io me lo ricordo, perché gli invidiavo quella bella divisa nera che in-dossava il sabato mattina per sfilare davanti al palazzo del Podestà. Ora mamma dice che la guerra finirà e che

tornerà la pace. E io sto lì a chiederle anco-ra e ancora com’è questa pace, perché un mondo senza spari né esplosioni non me lo so immaginare. Se lo chiedessero a me, la guerra potrebbe continuare anche per sem-pre, ora che stiamo qui e che sto bene. Ora dicono che siamo sfollati. Sembra una brutta parola e invece è la pace degli angeli per noi che da anni corriamo schivando le bombe. Certo, ci sono i tedeschi pure qua e a quanto pare dove ci sono loro ci sono sempre guai, ma almeno c’è da mangiare tutti i giorni e nessuno spara addosso ai ragazzini.Oddio, anche questo non è del tutto vero, per-ché l’altro giorno ce la siamo vista talmente brutta che al solo pensarci mi sento le ginoc-

di Ugo Barbàra

racconto

è

Il disertore

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chia molli. Per fortuna ero con la contessina, sennò sulla strada ci sarei rimasto. Mamma non ne può più di sentire questa storia: dice che le fa paura. Secondo papà invece faccio bene a parlarne e più ne parlo, meno me ne resta dentro. Perciò io voglio raccontarlo an-cora una volta quello che è successo, perché così si capisce che non ci si può fidare di nes-suno e bisogna stare attenti a tutti. Che i cat-tivi possono diventare buoni e i buoni sono in realtà cattivi: proprio il contrario di quel-lo che raccontano alla sera quelli di Radio Londra. Mio padre crede che dormo e non lo sento quando si mette accanto alla radio ad ascoltare i programmi proibiti, che se lo san-

no i repubblichini lo pigliano e lo fucilano davanti alla porta di casa, come un bandito. La contessina mi ha preso in simpatia fin dal primo momento. Non sono mica l’unico bambino sfollato alla villa: ce ne sono tanti, figli di chi ha deciso di diventare repubbli-chino e ora sta a combattere al fianco dei te-deschi. Però su tutti la contessina ha scelto me. Non bisogna essere un genio per capire il motivo. Gli altri fanno a botte dalla matti-na alla sera, rubano qualunque cosa dall’ac-campamento dei tedeschi per costruire bom-bette e petardi. Tanti sono finiti in ospedale, dove mio padre ha dovuto curare bruciature e ferite. Io ho detto alla contessina che loro la guerra vera non l’hanno mica vista, sennò non ne potrebbero più di botti e di sangue. Mi ha detto che neppure lei la guerra vera

l’ha vista mai, almeno non fino a quando sono arrivati i tedeschi a requisire la villa per mettere su un ospedale da campo e ospita-re le famiglie di quelli che hanno scelto di non restare con quel vigliacco di Badoglio. Vigliacco lo dico io, non lei, perché di quello che passa per la testa alla contessina non sa-prei che dire. Parliamo tanto, ma lei non dice mai male di nessuno.Parliamo soprattutto quando andiamo in giro in bicicletta. Mi mette sulla canna e pe-dala forte, lungo la strada che porta al pae-se. Mamma non mi lascerebbe uscire, ma se-condo papà è più sicuro fuori che dentro alla villa. È convinto che gli inglesi prima o poi

verranno a bombardare anche qua. Però le cose quel giorno sono andate diversamente da come aveva detto lui. La contessina sta-va pedalando senza fretta e io stavo seduto sulla canna, una mano appoggiata al cestino. A un tratto un ronzio si è staccato sugli altri rumori. Abbiamo alzato il naso verso il cielo e la luce del giorno mi ha accecato per un istante. Poi l’ho sentito. Chiaro come se riempisse l’aria. Il motore di un aereo.Mi sono girato ed era alle nostre spalle, alto, nel cielo pieno di luce. Ci è passato sulla te-sta ed è andato oltre. La contessina riprese a pedalare, spingendo più forte. La bicicletta sobbalzava sulle buche e io faticavo a reg-germi. Il rumore è stato improvviso e assordante.

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Il rumore è stato improvviso e assordante.Sembrava che fosse venuto dal nulla: basso, bassissimo, sembrava dovesse tagliare le cime degli alberi con le ali.

Il motore rombava con forza e invece di avere paura mi ero incantato con la bocca aperta.

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Sembrava che fosse venuto dal nulla: bas-so, bassissimo, sembrava dovesse tagliare le cime degli alberi con le ali. Il motore romba-va con forza e invece di avere paura mi ero incantato con la bocca aperta. Qualcosa è comparso sul filo delle ali: pic-cole lingue di fuoco seguite da quel rumore che avevo sentito tante volte: ta-ta-ta-ta. Dal-la strada si sono levate nuvolette di polvere, l’una a fianco all’altra, che correvano più ve-loci di noi.Ci stavano sparando.La contessina ha puntato verso il terrapieno che finiva in un canale d’acqua melmosa. La discesa era ripidissima e non riusciva a man-tenere il controllo. La bicicletta ha sobbalza-to, io ho cercato di tenermi al cestino, ma si è staccato dal manubrio e mi è rimasto in mano. Poi la ruota posteriore ha urtato qual-cosa, la bici si è piegata di lato e in un attimo ci siamo trovati con la faccia nella polvere.L’aereo era già lontano.La contessina è venuta verso di me e mi ha toccato le braccia e le gambe: quasi non riu-sciva a credere che fossi tutto intero. In mano stringevo ancora il cestino, ammaccato e sfondato. “Mi dispiace” le ho detto. Lei mi ha abbracciato e ha cominciato a piangere.Mia madre mi ha proibito di mettere il naso fuori dalla villa. Non ce n’era alcun bisogno: ho così tanta paura che preferisco aspettare che gli inglesi vengano a bombardarci qui piuttosto che farmi sparare un’altra volta. Mentre papà le medicava una sbucciatura, la contessina gli ha raccontato che a spararci è stato un aereo inglese. Le ha chiesto se ne era sicura, poi l’ha chiesto una seconda e una ter-za volta e solo quando sono stato io a dirgli che so riconoscere i simboli sulle ali ha scos-so la testa come se ancora faticasse a crederci. Bighellonando per la villa e l’accampamento

conosco Otto. L’ho visto già altre volte gira-re per il campo, sempre con l’aria di essere molto indaffarato. Ho fatto presto a capire il tipo: la sua unica occupazione è apparire occupato. Eppure nessuno sembra far caso alla sua abilità a scansare il lavoro. Nessuno tranne me. Otto si accorge di me. Di come mi viene da ridere quando lo guardo. Neppure sembra un soldato: è più basso degli altri e cammina come quei cani piccoli col culo grosso, agi-tandosi sulle gambe corte. Si avvicina e mi guarda dritto negli occhi. Ha uno sguardo luminoso, come quello di un bambino. Quel-lo degli altri tedeschi è diverso, anche se non so dire come. “Io zo perché tu ride”, dice con un accento così buffo che non potrebbe appartenere che a lui. “Tu ride di Otto Pic-colotto”. E allora sì che mi scappa da ridere e la mia risata lo contagia. Quando ripren-de fiato ne spara un’altra: “Otto Bassotto” e di nuovo ci sganasciamo dalle risate e a me sembra assurdo che nessuno intorno a noi si

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otto si accorge di me. di come mi viene da

ridere quando lo guardo. Neppure sembra un

soldato: è più basso degli altri e cammina come

quei cani piccoli col culo grosso, agitandosi sulle gambe corte. Si avvicina e mi guarda dritto negli occhi. ha uno sguardo

luminoso, come quello di un bambino.

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domandi cosa abbiano da ridere così tanto un bambino italiano e un soldato tedesco.Otto gira spesso con una bicicletta. Non lo vedo quasi mai pedalare: la spinge e basta. Non ha un cestino, ma un portapacchi sul quale ogni tanto trasporta grosse scatole pie-ne di chissà cosa. Appena lo vedo penso al cestino della contessina, che ormai è da but-tare, e a quante cose potrebbe portare su un portapacchi così robusto. Ma Otto pensa che a me piaccia la sua bici. “Bicicletta tetesca”, dice con quell’accento così buffo, “molto buona”. Poi va via.Va avanti così per qualche giorno, ci incrocia-mo in giro per la villa: io a bighellonare lui a scansare ogni fatica. Ci basta guardarci per scoppiare a ridere. Io penso a ‘Otto Bassotto’ e non riesco a trattenermi. A volte facciamo a gara a chi trova un nuovo nome, così me ne esco con ‘Otto Panzerotto’ e lui ride con me, di gusto. Non riesco neppure a credere che sia possibile scherza-re a questo modo con un soldato tedesco. Papà e mamma mi han-no avvertito cen-to volte di non prendermi trop-pa confidenza. Otto a casa ha la-sciato due bam-bini. Gli chiedo se ha famiglia e lui mi risponde in quel modo buffo: “Ja”, poi solleva indice e anulare. “Due bambini. Mol-to simpatici. Come te”. Io gli sorrido e mi do-mando come sarebbe giocare con i suoi figli. Continuo a tenere lo sguardo sul suo porta-pacchi. “Utile, vero? Puoi portare cose molto pesanti” dice. Annuisco, poi sento la voce di

mia madre che mi cerca e corro via.L’indomani vedo Otto dove proprio non mi sarei aspettato. Entro in infermeria e lo trovo seduto sul lettino: mio padre gli sta fasciando un dito. Lui mi guarda e sorride. Io non so che fare: forse papà si arrabbierebbe a scoprire che ci conosciamo, che ho violato a tal punto l’ordine di non dare confidenza ai tedeschi. Così non dico niente e lui non dice niente, fino a quando non ringrazia mio padre e va via. Prima di uscire mi poggia un mano sulla testa e mi scompiglia i capelli. “Che si è fat-to?” chiedo a mio padre. Papà si stringe nelle spalle. “Nulla” dice, “si chiamano lesioni au-toinflitte. Quello lì ha meno voglia di me di fare la guerra e cerca sempre il modo per non poter impugnare un arma. Si è schiacciato un dito in un cancello”. “E lo ha fatto appo-sta?”. Papà, che è altissimo, si china sui tallo-ni, fino a essere alla mia altezza. “Non devi pensare che tutti quelli che sono qui abbiano

voglia di ammaz-zare gente. Alcuni ci si sono trova-ti, come me e te. Semplicemente non avevano al-ternativa”. Sono un po’ confuso: gli inglesi dicono di volerci liberare, ma un loro pilota ha cercato di am-mazzarmi, men-

tre un soldato tedesco si schiaccia un dito pur di non dover sparare a qualcuno. Forse davvero, come dice la mamma, il mondo ha cominciato a girare al contrario.Poi succede una cosa strana. Un pomeriggio Otto spinge la sua bicicletta fino al muretto dove sto appoggiato a giocare con dei sasset-

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ti e si siede accanto a me. “Tu figlio di infer-miere, ja?” mi chiede. Annuisco, in silenzio. “Tuo padre bravo uomo” aggiunge, “fatto questa fasciatura senza fare domande”. An-nuisco ancora. “Tu sei bravo come lui?” do-manda. Lo guardo senza capire e lui si avvi-cina un po’ di più. “Voglio fare patto con te” continua. “Ti piace mio portapacchi di bici-cletta?” Con la testa faccio di nuovo cenno di sì; non sembro capace di fare altro. “È tuo, se in cambio mi dai una cosa”. Nelle orec-chie mi suona ancora l’avvertimento di mia madre: non dare con-fidenza ai tedeschi, e invece mi avvicino a lui per ascoltare me-glio cosa ha da pro-pormi. Bisbiglia pia-no e io ascolto con at-tenzione ogni parola. Mentre parla mi scen-dono i brividi lungo la schiena. È una cosa che fa paura, ma con-tinuo a tenere gli occhi puntati sul portapac-chi e a pensare a quanto la contessina sareb-be contenta di averne uno così. Come Otto mi ha detto, aspetto che tutti siano andati a dormire e scivolo fuori dal letto. In un atti-mo sono fuori dai nostri alloggi, mi muovo veloce lungo il corridoio e in un attimo sono fuori dalla villa, nel giardino. In un angolo c’è un olmo: è lì che Otto mi sta aspettando. Cammino stando attento, tenendomi lonta-no dalle luci. Otto però è più bravo di me a nascondersi: non mi accorgo di lui fino a quando quasi non gli vado a sbattere contro. Mi passa una mano sui capelli come ha fatto quando ci siamo incontrati nell’infermeria.

“Sei un ragazzo in gamba” dice e per la pri-ma volta sento che la sua voce è seria, preoc-cupata. Gli mostro l’involto che gli ho porta-to. “Grazie”, dice, “ora apri le mani”. Ubbi-disco e sulla destra mi poggia il portapacchi; sulla sinistra le viti e i bulloni che servono a fissarlo. “Mi dispiace” dice ancora, “ma non posso aiutarti a montarlo”. “Non fa niente”, bisbiglio. Poi mi dà uno scappellotto legge-ro: “Ora va, torna a dormire” dice.

Riesco a chiudere oc-chio solo all’alba e poco dopo mi sveglia la voce di mio pa-dre che discute con mamma. “Deve es-sere da qualche par-te” si lamenta e mia madre fruga dapper-tutto, persino nei no-stri cassetti, in cerca di qualcosa. Quando mi alzo per fare cola-zione, mio padre sta uscendo per andare in infermeria e ha ri-

nunciato a indossare il camice. Aspetto che anche la mamma sia uscita. Mio fratello esce con mia madre: mi raccomandano di qualco-sa, ma non sto a sentire cosa, perché ho in te-sta solo quello che devo fare. Aspetto un po’ e torno nella camera in cui dormo con mio fratello. Da sotto il letto tiro fuori l’involto di carta di giornale e lo apro. Prendo uno a uno i pezzi del portapacchi e li esamino per es-sere sicuro che ci siano tutti: non posso fare una figuraccia con la contessina. Mentre sto ancora lì ad ammirare l’affare che ho fatto sento che qualcuno mi sta guardando. Anzi, che sta guardando da sopra la mia spalla. La paura arriva per prima e faccio un salto

Sono un po’ confuso: gli inglesi dicono di volerci

liberare, ma un loro pilota ha cercato di ammazzarmi, mentre un soldato tedesco

si schiaccia un dito pur di non dover sparare a

qualcuno. Forse davvero, come dice la mamma, il mondo ha cominciato a

girare al contrario.

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come un gatto. Risucchio l’aria quasi stessi soffocando e incrocio lo sguardo di mio fra-tello che sembra più sorpreso di me. “Che cos’è?” chiede. “Niente” dico con il poco fiato che sono riuscito a cacciarmi in gola. “Macché niente” insiste. Prende i pezzi del portapacchi e io lo lascio fare. Poi mi rivolge uno sguardo allarmato. “A chi l’hai rubato?” “Non l’ho rubato” protesto, “me l’ha dato un soldato tedesco”. Diventa bianco come un cencio. “In cambio di cosa?” mormora. Ho paura a dirglielo: dalla faccia che ha fatto lo andrà sicuramente a dire a mamma e saranno guai. “Del camice di papà.” La sorpresa nei suoi occhi sem-bra senza fine. “Il ca-mice?” ripete, “e che ci doveva fare?” Mi stringo nelle spalle: non lo so e nemme-no lo voglio sapere. Non credo che nes-suno se la prenderà con papà se perde il camice: ne ha but-tati tanti così intrisi di sangue da essere inutilizzabili. “Quel-lo vuole disertare” esclama a un tratto mio fratello. E scatta in piedi, come preso dall’urgenza di avvertire qualcuno. “Se lo prendono papà passerà un guaio. Penseranno che gliel’abbia dato lui!” Sono confuso. Sto ancora cercando di capire come possa un soldato disertare usando un camice da infermiere e però la cosa alla qua-le non riesco a smettere di pensare è che mi sequestreranno il portapacchi e non potrò darlo alla contessina. Mio fratello resta un momento immobile,

a riflettere. Poi mi tende una mano. “Dam-melo” mi dice. “Non posso: devo darlo alla contessina.” “Non lo darai proprio a nessu-no” aggiunge, “cosa credi che penserebbero i tedeschi se la vedessero andare in giro con un portapacchi appartenuto a un disertore?” Rimetto tutto nell’involto di carta e glielo porgo. “I tedeschi presto andranno via e al-lora potrai darglielo. Ma fino ad allora è bene nasconderlo in un posto sicuro.” Mio fratello aveva ragione: Otto ha diserta-to. Ci sono state un po’ di urla, ma soprat-tutto perché non è stato l’unico a darsela a

gambe mentre i sol-dati sbaraccavano per spostarsi anco-ra più a nord. Ora che i tedeschi se ne sono andati spero di rivedere la contes-sina. Non la incon-tro da quella volta dell’aereo che ci ha mitragliati e quando i tedeschi hanno co-minciato a smobili-tare il conte ha dato ordine alle figlie di non mettere il naso fuori dalla villa.

Mi siedo su un muretto lungo il viottolo che deve percorrere per uscire da casa e aspet-to. Posso star lì tutto il giorno, tanto non ho fretta di fare nulla: l’ospedale resterà qui e così sono l’unico ragazzino rimasto. C’è an-che mio fratello, naturalmente, ma lui è più grande, ha quasi l’età della contessina, e dice che non ha tempo da perdere con me. Poi succede una cosa strana: ho appena pensato a mio fratello e lo vedo spuntare in fondo al viottolo. È proprio lui, non c’è dub-

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A capo della redazione New Media dell’Agenzia Giornali-stica Italiana, dal 1999 al 2010 si è occupato di politica este-ra. In precedenza è stato corrispondente da Palermo negli anni del processo Andreotti (1995-1999), redattore di cro-naca giudiziaria a Roma in epoca di Tangentopoli. Ha una cattedra di scrittura creativa all’Università La Sapienza di Roma. Ha scritto cinque romanzi, tutti pubblicati da Piem-me: Desidero informarla che le abbiamo trovato un cuore (1999); La notte dei sospetti (2001); Il corruttore (2008); In terra con-sacrata (2009) e Le mani sugli occhi (2011). Suoi i racconti La stiratrice di Saponara pubblicato nella raccolta La scelta edito

da Novantacento; il racconto Il nemico inserito nella raccolta Duri a morire di Dario Flaccovio editore e L’avaro che fa parte della antologia Seven curata da Gian Franco Orsi per Piemme. È sceneggiatore del film Gli angeli di Borsellino. Nel 1999 il Teatro Libero di Palermo ha portato in scena il suo Dongiovanni per la regia di Lia Chiappara.

Ugo Barbàra

Disponibile su www.cubolibri.it

bio, e sta spingendo una bicicletta. Non è la sua e mentre lo fa chiacchiera e sorride. Poi compare lei, la contessina. Che gli cammina al fianco e sorride anche lei, come se fossero vecchi amici e invece fino a ieri a malapena si sono salutati. Quando la contessina mi vede, mi saluta con la mano e il suo sorriso si fa più luminoso. Dice qualcosa a mio fratello e insieme puntano verso di me. Sono felice di rivederla, anche se davvero non capisco che c’entra mio fratello con lei. Lui non dovreb-be esserci, come non c’è mai stato fino a que-

sta mattina. Poi lo vedo. Vedo il portapacchi montato sulla bici della contessina. Il porta-pacchi di Otto. Il mio portapacchi. Il regalo che avevo messo in serbo per la contessina. Mio fratello mi guarda in un modo strano, con un sorriso che un po’ sembra prendermi in giro e un po’ chiedermi scusa. La contessina continua a sorridermi, ma io non le do il tempo di raggiungermi: scatto in piedi e corro via, prima che veda le lacrime che mi riempiono gli occhi.

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Il mondo dell’ebook

L’ENCICLOPEDIA DEL fUTURO NON PREVEDE LA VOCE “CARTA”Una volta per le ricerche si consultavano le enciclopedie. La rete e i device hanno cambiato il nostro modo di cercare informazioni. Il settore editoriale specializzato in conoscenza è a una svolta storica e le scelte saranno determinanti per il suo futuro e dell’intero mercato dell’epublishing.

di Daniela De Pasquale

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uando agli studenti delle scuole medie della generazio-ne degli anni settanta e ottanta veniva assegnata una ricerca,

in casa c’era a disposizione più di un’enci-clopedia. Io ne avevo sei: l’Enciclopedia Mot-ta, acquistata da mia nonna, volume dopo volume, da un venditore porta a porta; del-lo stesso editore erano anche le due raccol-te specializzate sugli animali e sulla terra; la Nuovissima enciclopedia universale Curcio, quella scientifica De Agostini, l’Enciclopedia Europea Garzanti, l’enciclopedia illustrata per ragazzi Vedere e Sapere, Edizioni Scienze e Vita, La Biblioteca del Sa-pere Lati Maler, acquista-ta a fascicoli in edicola e poi rilegata.Ognuna con i suoi pe-santi volumi con i dor-si tutti uguali, che nella maggior parte dei casi non riuscivano a stare disposti su un solo scaf-fale della libreria. Da ogni fila si sceglieva-no i volumi contenenti il lemma, li si dispo-neva aperti su una scrivania e si iniziava il lavoro di sintesi e di scrittura. Spesso, per differenziare il proprio elaborato da quel-lo dei compagni di classe, si chiedevano in prestito ai vicini di casa i tomi delle enciclo-pedie di altri editori.Alle scuole superiori la stessa generazione iniziava a prendere dimestichezza con il co-pia/incolla, grazie all’enciclopedia in CD Rom, come la Msn Encarta. Guardare video relativi a ciò che si studiava – una battaglia del Settecento, uno stato del Sud America, il sistema solare – era di quanto più rivolu-zionario si potesse immaginare per la for-

mazione. Almeno fino all’università, quan-do quel “cerchio del sapere” che etimolo-gicamente descrive l’enciclopedia è esploso grazie alla rete nell’open content. Il più gran-de e famoso progetto collaborativo di que-sto tipo è Wikipedia, che oggi conta oltre 20 milioni di voci (dato aggiornato a novem-bre 2011) in più di 280 lingue. Ovviamente, un’enciclopedia libera, gratuita e alla quale tutti possono contribuire solleva il proble-ma dell’attendibilità dei suoi contenuti e del fact checking. La questione è ancora mol-to dibattuta: nel 2005 la rivista Nature ha messo a confronto un campione di 42 voci

scientifiche di Wiki-pedia e dell’Encyclo-paedia Britannica, la più importante del Regno Unito, rile-vando un’accuratez-za nelle informazio-ni molto simile. Per ogni articolo, in me-dia, c’erano 3 errori

sulla seconda e 4 sulla prima (quest’ultimo dato tendeva a diminuire all’aumentare del numero di persone che avevano contribui-to alla stesura della voce).Di fatto, la gratuità e facilità di consultazio-ne delle enciclopedie aperte ha fatto usci-re dal mercato quelle informatiche a pa-gamento. Inoltre è raro che la generazione citata scelga di acquistare oggi una nuova enciclopedia, probabilmente perché ne ere-diterà qualcuna come ricordo di famiglia e perché le nuove case sono mediamente più piccole. Se ne è accorta persino l’Ikea, la più famosa catena di mobili low cost che è diventata specchio dei tempi, del modo di organizzare gli spazi e di conseguenza

Il vero concorrente dell’enciclopedia digitale

non è la versione cartacea ma i contenuti disponibili gratuitamente

sul web.

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delle mutate abitudini di consumo. Tanto che uno dei suoi prodotti di punta, la mi-tica Billy, inventata nel 1978 e diventata la libreria per antonomasia, è stata riproposta in una nuova versione, più profonda e con ante in vetro, perché l’azienda ritiene che i clienti la useranno sempre di più per ogget-ti decorativi e sempre meno per i libri.A rendere più tangibile la crisi del mercato delle enciclopedie è la notizia della cessa-zione della stampa dell’Encyclopaedia Bri-tannica. L’edizione del 2010 è l’ultima su carta. Il presidente della società che la ge-stisce, Jorge Cauz, ha parlato di un futuro più luminoso. Probabilmente si riferiva agli schermi retroilluminati dei tablet, dal mo-

mento che, dopo 244 anni, i suoi 32 volumi, dal peso complessivo di 58,5 chilogrammi, si sono smaterializzati e ora vivono solo nella versione digitale, più ampia, più ric-ca e più vibrante. “La fine della stampa era qualcosa che prevedevamo da tempo – con-clude Cauz – è l’ultimo passo della nostra trasformazione da editore a stampa quale eravamo a creatore di prodotti culturali di-gitali quale siamo oggi.” E in effetti dalla carta deriva solo l’1% degli introiti, mentre gli abbonamenti al portale web arrivano a 100 milioni in tutto il mondo, raggiungen-do il 15% dei ricavi. L’85% deriva da pro-dotti educativi per l’apprendimento sul web, consulenze e pubblicità.

Il digitale salva le enciclopedie e anche i dizionari dalla condanna di Sisifo: non saranno obsoleti e “da rifare” nel momento stesso in cui vengono pubblicati, ma sempre

attuali e aggiornabili in un clic.

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In Italia una delle enciclopedie oggi più ac-creditate è la Treccani: resiste su carta, ma viene venduta con una chiavetta USB ricca di contenuti che permette di unire tradizio-ne e tecnologia. Allo stesso tempo cresce ra-pidamente il portale online ed entro giugno sono previste le prime applicazioni dei vo-cabolari sia per iPad che per Kindle. Futuro only digital anche per l’Oxford English Dictionary, anche se l’editore ha dichiarato che prenderà la decisione definitiva solo quando sarà pronta la terza edizione. Se si pensa che la si attende da 21 anni, si capi-

sce l’inevitabilità del sopravvento del digi-tale, in un mondo che viaggia veloce e che pretende immediatezza anche negli aggior-namenti. Il formato elettronico sembra sal-vare dunque sia le enciclopedie che i dizio-nari dalla condanna di Sisifo, costretto per l’eternità a un lavoro vano: portare su per un pendio un masso pesantissimo che, arri-vato in cima, rotola di nuovo a valle. La se-conda vita a loro riservata non li condanna più a diventare obsoleti nel momento stes-so in cui vengono pubblicati, li alleggerisce

in termini di chili e anche di euro e li rende molto più pratici da consultare grazie alle funzionalità di ricerca e ipertestualità pro-prie del mezzo digitale.Il cambiamento risulta inevitabile anche da un punto di vista economico: le enciclope-die sono un bene durevole a basso tasso di sostituzione in un mercato ormai saturo. L’enciclopedia elettronica è invece un pro-dotto nuovo che ancora in pochi possiedo-no, e quindi ha grandi potenzialità di pe-netrazione nel nuovo mercato dei contenuti digitali.

La vera battaglia andrà combattuta non tanto con la carta quanto con i contenuti di-sponibili online gratuitamente. La quantità spesso si preferisce alla qualità, ma il digi-tale permette di ridurre i costi e rende i pro-dotti di fascia alta più competitivi. Il plus di un prodotto editoriale di tale portata sta nell’autorevolezza e credibilità della fonte, a cui è necessario aggiungere la competenza: il know how tecnologico è indispensabile per rendere i nuovi prodotti accattivanti e fun-zionali, e non può mancare nel curriculum

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del nuovo venditore di enciclopedie, che si evolve di pari passo con la figura dell’ac-quirente. Non è infine da sottovalutare la potenzialità del nuovo prodotto di fare da volano per lo sviluppo dell’intero mercato digitale: la modalità di fruizione non line-are delle voci di un’enciclopedia permette uno sforzo minore da parte del lettore nel prendere confidenza con il nuovo forma-to. D’altra parte, i dati di vendita mostrano quanto il settore della manualistica elettro-nica goda di buona salute, con particolare riferimento ai testi giuridici e medici, ai cor-si di lingua (si veda il successo della collana Mondadori Lost in Italy, di John Peter Sloan), ai manuali di self help o a eBook come La

dieta Dukan, divenuto ormai un long seller. L’enciclopedia elettronica così pensata, pra-tica, portabile e aggiornabile, riporta alla mente le Lezioni americane di Italo Calvino, che sembra aver immaginato le caratteri-stiche dei testi digitali con anni di anticipo rispetto alla nascita di internet. In particola-re, nella sua lezione sulla molteplicità, Cal-vino parla di “enciclopedia aperta, aggetti-vo che certamente contraddice il sostantivo enciclopedia, nato etimologicamente dalla pretesa di esaurire la conoscenza del mon-do rinchiudendola in un circolo”. Di fatto, si tratta di un approccio alla conoscenza stessa che tende all’infinito e che, grazie al digitale, sarà sempre disponibile in un clic.

grazie alla modalità di fruizione non lineare, che rende la consultazione più rapida e semplice, le enciclopedie

rappresentano un volano per lo sviluppo dell’intero mercato digitale.

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Il ristorante Picholine è un locale di cu-cina francese situato a Manhattan, nel cuore della Grande Mela. Con i prezzi non si va per il sottile, ma la cucina –

stando alle recensioni – merita il cospicuo investimento. L’at-mosfera intima è un altro punto di forza del ristorante, se è vero che proprio nei discreti e conforte-voli spazi del privé “cantina dello chef”, tra il 2008 e il 2010, erano soliti pasteg-giare e discutere pre-sidenti e A.D. delle più importanti case editrici statunitensi. Le sei sorelle, come vengono acremente definite da media e concorrenti di minor rango. Cene d’affa-ri alle quali partecipava con regolarità an-

che Steve Jobs, compianto papà di un’altra Grande Mela, quella morsicata. Fu lui che, dopo aver rivoluzionato in successione il mercato musicale e della telefonia, in quei mesi e in quel ristorante offrì ai suoi pre-

occupati commensali la mossa per portare scac-co matto ad Amazon, e soffocarne sul nascere i propositi di dominio del mercato editoriale. In quel periodo, infatti, Kindle rappresentava il perfetto sinonimo di eBook, col 90% dell’inte-ro mercato conquistato attraverso spregiudicate strategie di vendita sotto

costo. Sfruttando la regola generale che vo-leva i libri cartacei e digitali acquistati all’in-grosso dagli editori, e rivenduti al prezzo finale sancito dal rivenditore, Amazon ave-

BATTAGLIA PER ILPREZZO - E IL fUTURO -DEGLI EBOOKapple e i principali editori americani chiamati a difendersi dall’accusa di aver costituito un cartello anti-amazon: in ballo c’è però ben più che una querelle tra aziende.

Il mondo dell’ebook

di Roberto Dessì

IFu steve Jobs ad offrire

ai suoi preoccupati commensali la mossa

per portare scacco matto ad amazon,

soffocandone sul nascere i propositi di dominio del

mercato editoriale.

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va di fatto inaugurato un’era fatta di nuove uscite a soli 9,99 dollari. Insostenibile per le case editrici, che temevano d’esser messe spalle al muro da Jeff Bezos, e per gli altri concorrenti che non avrebbero retto a lungo un gioco al ribasso di quella portata. Unici felici – e come dargli torto – i consumato-ri, che migrarono in massa verso l’eBook. E implicitamente, tra le braccia di Amazon.Ciò finchè Steve Jobs non decise di scende-re in campo, in prima persona. L’iPad non era ancora stato com-mercializzato, ma di lì a poco sarebbe di-venuto il salvagente capace di tirar fuori dal pantano gli edi-tori, in abbinamento alla fine della ven-dita all’ingrosso de-gli eBook. Nella sua mente, il rivenditore si sarebbe trasforma-to in agente di ven-dita, mantenendo il 30% del prezzo di copertina per il di-sturbo e girando la restante percentuale nelle tasche degli edi-tori. Jobs risultò più che mai persuasivo: “i clienti pagheranno di più, ma in fondo è ciò che voi comunque volete”, disse ai suoi nuovi soci in affari; seguirono altri meeting segreti al ristorante Picholine, telefonate ed email dal contenuto confidenziale febbrilmente scambiate tra i congiuranti. La trappola scatta, e il re Bezos viene messo sotto scacco: accettare, o per-dere gli eBook delle six sisters. Quasi in con-temporanea, Steve Jobs presenta al mondo l’iPad e incassa un successo roboante. In

breve, la quota di mercato Amazon crolla al 60%. Avvantaggiando tra gli altri Barnes & Noble, che col Nook sfiora il 25%. Il contro-colpo di scena non si fa attendere: l’11 aprile scorso il Department of Justice degli Stati Uniti avvia un’indagine per vio-lazione delle normative antitrust, mettendo in dubbio la liceità dell’accordo tra Apple ed editori, e stimando un danno causato ai consumatori di circa 100 milioni di dollari. Perfino Barack Obama, causa elezioni ma

non solo, si è sentito in dovere di rassicu-rare l’opinione pub-blica, agitando mi-nacciosamente il ran-dello delle “pesanti sanzioni” in arrivo per i responsabili. A una prima lettura dei fatti, e a giudi-care dalla frettolosa resa di alcune delle parti in gioco, non ci sono molti dubbi: editori e Apple han-no messo su un car-tello bello e buono, e la pratica sleale in questione è da sem-pre vista di pessimo

occhio dall’Antitrust USA. Ma le implica-zioni – giuridiche e non – di questa querelle travalicano il mero aspetto legale, sfocian-do nel dilemma morale: è giusto cancellare un cartello quando la sua alternativa è un monopolio? Esiste un giusto prezzo della cultura? Ma soprattutto: la cultura rischia l’estinzione? Sul primo quesito, ciò che può sembrare un’assurdità, ben messa in luce dalla dichia-razione dello scrittore Scott Turow (“il go-

Il deprezzamento dell’oggetto culturale

per eccellenza, il libro, è un altro aspetto su cui

discutono animatamente i columnists americani

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verno rischia di uccidere una vera concorrenza per ripristinare un regime solo apparentemente concorrenziale”), deve essere ripensata alla luce del liberismo di cui è permeata l’eco-nomia americana. In market we trust, anche se è chiaro a tutti ciò che potrebbe accadere – e quasi certamente accadrà – di qui a due anni, se Bezos sarà libero di rivoltare come un calzino l’industria dell’editoria a suon di sconti, acquisizioni di titoli in esclusiva ed embarghi per coloro che osano ribellarsi. Paradossalmente, la legge americana non vieta i monopolî qualora sorgano da nor-mali dinamiche di mercato; né garanzie o tutele sono dovute alla concorrenza, in ap-plicazione del più rigido darwinismo eco-nomico. Sembrerebbero perciò mediatiche e di circostanza le dichiarazioni Apple, che respingono al mittente le accuse sostenen-do al contrario di avere garantito, col pro-prio intervento, un mercato più equo, inno-vativo e interessante.Il deprezzamento dell’oggetto culturale per eccellenza, il libro, è un altro aspetto su cui discutono animatamente i columnists ameri-cani: la corsa al ribasso di Amazon ha il per-verso effetto di ingenerare nel consumatore l’associazione mentale “bene libro uguale basso costo”. Guarda caso, ciò che anche Apple ha fatto a suo tempo con la musica su iTunes, imponendo de facto il nuovo stan-dard “una canzone a 99 cents, tutto l’album a 10 dollari”. Ironicamente, ciò ha rivitaliz-zato – piuttosto che uccidere – l’industria musicale in debito d’ossigeno, ma ha anche lasciato numerosi contendenti sul campo di battaglia. Non può perciò essere il motivo di tanta attenzione. Ciò che più spaventa gli osservatori, a torto o a ragione, sono le con-seguenze nel lungo periodo, e il timore di un appiattimento dell’offerta culturale. Per-ché se anche i monopoli sono legittimi, non

sono certo la migliore soluzione che il mer-cato offre per stabilire il prezzo di un bene. Cosa accadrà infatti se e quando Amazon raggiungerà l’obiettivo di rendere inoffen-siva la concorrenza? I prezzi aumenteranno nuovamente, per consentire alla società di rientrare dell’investimento fatto, obbligan-do i consumatori a saltare dalla padella alla brace? Oppure, se ciò non dovesse accade-re e Amazon in qualche modo riuscisse a far ridurre i prezzi (quindi i profitti) degli eBook agli editori, il futuro potrebbe riser-varci uno sconfortante impoverimento del patrimonio letterario, fatto di grandi – ma soprattutto piccole – case editrici? Fino al più orwelliano degli scenari: se ri-marrà un unico negozio a cui rivolgersi per l’acquisto di un eBook, chi impedirà ad Amazon di imporre la propria dittatura

culturale, decidendo quali libri sono graditi e quali no sulla base di opinabili ma inap-pellabili proprie motivazioni, come peral-tro è già accaduto in passato? Insomma: dinanzi allo scranno del giudice chiamato a dirimere la questione, vi è ben più che il mero esito di una causa. Chiun-que firmerà questa sentenza prenderà sul-le spalle una responsabilità non da poco. E inevitabilmente, cambierà il corso del-la storia del giovane, vitale, mercato degli eBook.

se rimarrà un unico negozio a cui rivolgersi per l’acquisto di un ebook, chi

impedirà ad amazon di imporre la propria dittatura

culturale?

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on ancora vinto alle lusinghe di una fantasia incontrollata, subito prima di perde-re il senno “per effetto del dormir poco e leggere molto”, il gentiluomo che si darà nome Don Chisciotte della Mancia esita incerto sul crinale sottilissimo tra la real-tà e la narrazione: le ferite inferte e ricevute dai lucenti protagonisti dei romanzi

cortesi non persuadono ancora del tutto il fragile intelletto del povero hidalgo, il quale non sa spiegarsi come sia possibile che tali lesioni, quand’anche curate dai più valenti chirurghi, non lascino pieni di cicatrici e di segni il volto e il corpo degli ardimentosi combattenti. Se, come ci ha insegnato Foucault, la follia di Don Chisciotte è piuttosto lo sguardo sbigottito e allucinato gettato in quell’inizio della modernità dove la scrittura e il mondo cessano irrimediabilmente di somigliarsi, allora il genio di Cervantes ha saputo additarci questa breccia aperta tra il lin-guaggio e le cose: sublimati nello splendore delle armature, i corpi dei cavalieri non recano alcuna memoria delle loro gesta prodigiose, le quali sopravvivono solo nella fantasiosa co-struzione di un racconto, nella forbita articolazione di un libro che non sa più corrispondere all’esistenza. Forse, la perdita d’innocenza del Rinascimento passa anche per questo sguar-do distrattamente gettato alla vulnerabile carne degli eroi, dove si dissolve l’illusione, come l’esprimeva l’umanista spagnolo Luis Vives, secondo cui “il corpo si accontenta del presen-te, scordando il passato e disinteressandosi del futuro”. Ma se l’immortale personaggio di Cervantes, forse proprio abbacinato dall’imprevista radicalità di quello sguardo fuggitivo, si ritrae nella lucida follia che trasforma il mondo stesso in un libro, il protagonista di La vita di Lazarillo de Tormes e delle sue fortune e avversità, apparso anonimo nel 1554, ne fa piuttosto

di Luca Bisin

N

buona la primaStorie di libri ed edizioni

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“LA VITA DI LAZARILLO DE TORMES (1554)”

ANONIMO

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il prisma attraverso il quale l’immagine ben ordita della società cavalleresca si rifrange nello spettro delle sue componenti altrimen-ti invisibili. Quelle “cose tanto singolari e forse anche mai udite né vedute giammai” che il pro-logo del Lazarillo annuncia con la solennità degna di una epopea o di una leggenda, non sono in effetti che le ordinarie peripezie del vagabondo Lazzaro del Tormes nella sua giornaliera lotta per la sopravvivenza tra le insidie di una realtà che non mostra la rassi-curante affettazione dei costumi e delle con-suetudini, l’esuberante opulenza delle corti, l’intrepido valore dei cavalieri, il familiare retaggio delle tradizioni e dei miti. Nelle sue peregrinazioni tra Salamanca e Toledo, come servitore al soldo dei più disparati personag-gi (un vecchio cieco che alla mancanza della vista supplisce con un’astuzia e una sagacia senza pari, un prete a cui l’avidità pare esser-si “appiccicata addosso insieme con la veste talare”, uno scudiero tanto esteriormente de-voto alle forme stantie della vecchia società nobiliare quanto immiserito e affamato, un disonesto venditore di bolle, “il più svelto e sfacciato e il più bravo nel darle via che mi sia toccato vedere”), Lazzaro attraversa piutto-sto un mondo interamente consegnato all’e-sercizio sapiente del sotterfugio, dell’espe-diente, dell’ingegno chiamato ogni volta a nuove invenzioni e più sottili escogitazioni, dove il valore e la prodezza dell’individuo non si misurano sulla possenza di un corpo quasi invulnerabile, raccolto nello sfavillio di un’armatura che lo nasconde e lo esibi-sce a un tempo, ma sull’arte di esercitare la malizia, la scaltrezza, l’astuzia. Privo di una lancia, di uno scudo, di un’armatura, ma an-che dell’ingenua sventatezza di un gentiluo-

mo troppo imbevuto di fantasie libresche, il corpo del giovane Lazzaro si espone senza riparo alle angherie e alle sopraffazioni del prepotente di turno, e però esso ne conser-va anche i segni: le botte e le lividure, curate col vino e con gli unguenti, non scompaiono nel giro di una pagina o col sopraggiungere della prossima avventura, ma sedimentano nell’affinarsi del giudizio, della prontezza, dell’intuito, di tutto quel bagaglio di espe-rienza che consente a un uomo di “vivere in mezzo a tante fortune, avversità e pericoli”.L’anonimo autore del Lazarillo annuncia così i canoni di un nuovo stile del raccontare che si fa subito genere, quello del romanzo pica-resco, fin dalla pratica usuale e abusata (lo stesso capolavoro di Cervantes, com’è noto, non vi resterà immune) della continuazione illecita: già nel 1555 un altro anonimo s’in-carica di pubblicare una seconda parte della vita di Lazzaro del Tormes, dove l’ironia e il disincanto che pervadono il racconto ori-ginale sono sacrificati all’eccesso parodistico che vede il protagonista imbarcatosi al se-guito di una spedizione in Algeri, rovinosa-mente naufragato, miracolosamente mutato in un tonno, catapultato in una società di pe-sci che ripete le falsità, le ipocrisie, i ranco-ri, le malevolenze della Spagna cinquecen-tesca. All’implacabile rigore dell’inquisitore Fernando de Valdés le sottigliezze dello stile non sollecitano evidentemente particolare indulgenza, e raccogliendo i quasi mille ti-toli che confluiranno nella prima edizione dell’Indice dei libri proibiti, apparsa nel 1559, fa comparire assieme le due parti sotto la comune voce di “Lazarillo de Tormes, prime-ra y segunda parte”. Ma quando, nel 1574, López de Velasco s’incarica di restituire l’o-pera al pubblico, la seconda parte scompare

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del tutto, mentre il testo originale, sia pure nella versione censurata di un “Lazarillo ca-stigado”, ha già assunto le caratteristiche di un classico: benché posto all’indice, avverte Velasco, esso “fu sempre da tutti molto ben accolto, per la cui ragione, sebbene sia stato proibito nei nostri regni, si leggeva e stam-pava ordinariamente negli altri”.Commentando il Lazarillo Be-nedetto Croce lamentava di non riuscire a scorgervi la forza di una pericolosa satira socia-le, ma soltanto “l’assillante e tormentosa rappresentazione e ossessione della fame”, di un “bisogno elementare insoddi-sfatto intorno al quale ogni al-tra forma di attività è come so-spesa e tutta la vita imperiosa-mente costretta a raggirarsi”. E notava che non si trova in ciò una condizione straordinaria, ma soltanto il “caso ordinario e normale dell’uomo ordinario e normale che passa da un tentativo all’altro, da uno all’altro travaglio per collocarsi socialmente in un posto in cui possa nient’altro che sfa-marsi”. Eppure ciò che in quelle poche pagi-ne poté attirare i sospetti del Santo Uffizio, come anche assicurarvi una popolarità che aggirava perfino l’ostacolo della proibizio-ne papale, è forse proprio la carica simbo-

lica e trasfigurante che il Lazarillo sa dare a quell’urgenza materiale e improrogabile, fa-cendone lo scorcio aperto per uno sguardo nuovo sulle cose e per una letteratura che sappia accoglierlo. Non è un caso, allora, che proprio da un cieco, immune agli ornamenti tanto smaglianti quanto ingannevoli con cui la Spagna di Carlo V dissumulava la propria

incombente decadenza, Laz-zaro riceva la prima, fonda-mentale lezione della propria vita, quella di “aprir l’occhio e stare attento”. E mentre, al servizio dell’avarissimo prete, si affanna a escogitare sempre nuovi e più sottili stratagemmi per sottrare il pane che quello tiene sottochiave in una cassa, Lazzaro enuncia così la legge segreta delle sue avventure: “era la fame che mi illuminava l’intelletto”. È quasi la formula programmatica di una nuova

sensibilità letteraria, in cui “vediamo cose che gli uni considerano quisquilie, ma non son tali per altri”, forse i primi indizi del ro-manzo moderno e di una scrittura che, orfa-na di imprese leggendarie ed eroiche avven-ture, scopre però la capacità di scorgere nel-la più piccola vicenda umana un significato universale e dargli voce in una narrazione.

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ben guardare, prima ancora del-la radio e della televisione, il te-atro è stato un formidabile mez-zo di comunicazione di massa

in grado di intercettare, grazie alla grande varietà dei suoi generi, pubblici ampi oltre che socialmente e culturalmente differen-ziati. Non stupisce perciò che, anche per la lingua recitata sulle scene, valga la ormai celebre metafora di “specchio a due raggi” coniata per la televisione, a sottolineare la capacità del mezzo di assimilare le realtà linguistiche circostanti e, insieme, di rie-laborarle rilanciandole nel contesto socia-le contemporaneo. Questo fatto appariva particolarmente evidente nel teatro italiano postunitario, caratterizzato da realtà che in qualche modo rispecchiavano la situazione linguistica esistente in una Italia recente-mente unificata: da un lato, la vitalità dei teatri legati ad ambienti locali e dialettali e di autori come il piemontese Vittorio Berse-zio, il milanese Carlo Bertolazzi, il catanese Luigi Capuana, il veneziano Giacinto Gal-lina. Dall’altro lato, grazie anche all’emer-gere del fenomeno dei grandi attori, come

Alamanno Morelli, Eleonora Duse, Ermete Zacconi che si esibivano con le “compagnie di giro” nelle loro tournée in Italia e all’este-ro, tendeva a imporsi un teatro sovraregio-nale nei temi e nella lingua. Questa scissione tra l’eredità dialettale e la nuova realtà dell’italiano unitario era ben presente a un grande scrittore come Gio-vanni Verga, profondamente calato nella situazione linguistica della sua Sicilia, che nelle lettere all’amico e conterraneo Ca-puana esprimeva chiaramente la propria preferenza per l’uso dell’italiano rispetto al dialetto; un italiano, però, non vincolato dalla scrittura letteraria, ma vicino a quello dell’uso comune: «Ascoltando, ascoltando si impara a scrivere», diceva Verga in una intervista fattagli da Ugo Ojetti. Da un altro figlio della terra siciliana, solo di qualche decennio posteriore a Verga, proviene però il contributo più importante alla ricerca dell’italiano teatrale nella prima metà del novecento. Si tratta di Luigi Pirandello: an-che per lui si poneva un problema immenso, perché nei suoi anni l’italiano non era anco-ra “cosa fatta”; eppure Pirandello ha creato

Sulla punta della lingua come parliamo, come scriviamo

Rubrica a curadell’Accademia della Crusca

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ITALIANI IN SCENAdi Stefania Stefanelli

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una lingua teatrale ricca di tutti quegli ele-menti che caratterizzano il parlato sponta-neo: le pause, le interruzioni di un discorso che viene ripreso e completato dall’interlo-cutore, le intonazioni e, soprattutto, le in-teriezioni, quei suoni come ah, eh, mah che emettiamo parlando e che, pur essendo portatori di significa-to, non possono esse-re definiti vere e pro-prie parole. Una lin-gua che “funziona” perfettamente sulla scena e che genera un dialogo teatrale di fluida naturalezza. Il dialetto, però, era tutt’altro che scom-parso dalle scene: e il pensiero va imme-diatamente a Eduar-do De Filippo che, tra l’altro, ha avuto un rapporto di stima e di amicizia proprio con Pirandello. La sua grandezza consiste nell’essere riuscito a rappresentare le mol-teplici varietà del dialetto napoletano, lega-te alle differenti zone della città e ai diversi strati sociali. Eppure, Eduardo ha scritto an-che celebri commedie in un italiano regio-nale campano di larga comprensibilità, rap-presentate con successo nel corso degli anni, nella determinazione di portare il teatro napoletano a pubblici più ampi, nazionali, parlando una lingua capace di comunicare

con gli spettatori di tutte le regioni italiane. Nella seconda metà del Novecento, grazie ai mezzi di comunicazione di massa, all’e-levamento dell’età dell’obbligo scolastico,

alle migrazioni inter-ne, il possesso dell’i-taliano dell’uso me-dio si è esteso fino a raggiungere la mag-gior parte della po-polazione; una nuo-va padronanza lin-guistica che ha con-sentito di introdurre nel teatro una vasta gamma di varietà e registri. La figura che più di tutte si è im-posta sulle scene in questi decenni è sta-ta quella di Dario Fo. Fino dalle sue prime commedie, Fo ha sa-puto adattare per la recitazione l’italiano regionale lombardo innestandovi la pa-rodia dei gerghi della

società contemporanea, come il burocratese o il politichese. Ma già nella commedia La colpa è sempre del diavolo, ambientata tra il XIII e il XIV secolo, faceva la sua comparsa un personaggio – Brancaleone, cioè il diavo-lo – che parlava un dialetto veneto arcaico d’invenzione. Un ritorno alle origini anche linguistiche portato poi a compimento in Mistero buffo mediante l’uso creativo di una lingua mescidata che fondeva diversi dialetti lombardo-veneto-friulani con la lingua dei

Per Pirandello si poneva un problema immenso, perché nei suoi anni l’italiano non

era ancora “cosa fatta”; eppure egli ha creato una

lingua teatrale ricca di tutti quegli elementi che

caratterizzanoil parlato spontaneo.

Luigi Pirandello

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giullari medievali: una lingua inventata che preludeva all’esito estremo del grammelot. Nel corso degli ultimi anni, molti dramma-turghi hanno portato in scena senza proble-mi l’italiano parlato, come Edoardo Erba che riesce a intessere dialoghi senza intop-pi, in una lingua di marca borghese quasi priva di inflessioni regionali, mediante l’al-ternarsi di battute brevissime, in un inter-loquire frammentato tra i vari personaggi. Anche gli autori delle ultime generazioni appaiono a loro agio con l’italiano parlato: è il caso di Fausto Paravidino che scrive com-medie ambientate nell’universo dei giova-ni, come Noccioline, nei cui dialoghi emerge una rappresentazione realistica del parla-to dagli adolescenti di oggi, caratterizzato

dal ricorrere di parole multiuso come tipo o come il celeberrimo cioè. Il dialetto però non è morto e torna sulle scene come volontà di recupero di una memoria individuale e col-lettiva: è il toscano arcaico e rurale di Ugo Chiti, il siciliano duro e difficile di Emma Dante e quello secco e surreale di Spiro Sci-mone che è anche attore dei suoi testi. Sono i molteplici italiani regionali degli autori-attori del teatro di narrazione, dal veneto di Marco Paolini ‒ uno dei primi esponenti di questo genere teatrale ‒ al romanesco di Ascanio Celestini, al palermitano di Davide Enia, al salentino di Mario Perrotta e di Fa-brizio Saccomanno, alle molteplici parlate dei narratori più giovani che si affacciano sulle nostre scene.

il dialetto però non è morto e torna sulle scenecome volontà di recupero di una memoria

individuale e collettiva.

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anima del mondo

Paesaggi della letteratura

ALL’OMBRA DEL GRANDE fIUMEl’anima inquieta del danubio in romania

di Luca Bisin

non invano esso / è chiamato ospi-tale”, cantava Hölderlin del Mar Nero: così forse lo videro i primi Germani, quando “sospinti dal-

le quiete onde del Danubio”, in un giorno d’estate, giunsero al delta del grande fiume, “insieme ai figli del Sole / in cerca di om-bra”. Ma l’ombra non apparve meno fresca e piacevole agli dèi greci che dal lontano Olimpo vennero alle fonti del fiume, “alle sorgenti e alle gialle rive, / dense di aromi nell’aria e nere / del bosco di pini”, dove le acque, stillanti da recondite profondità del-la terra, sembrano essersi date un segreto convegno a formare il corso del fiume “che sembra però quasi andare a ritroso e / io penso che debba venire / da Oriente”. Per Hölderlin il Danubio era anzitutto questa via aperta tra l’Occidente e l’Oriente, que-sto confine liquido tra i tempi e gli spazi

di un’Europa la cui identità è sempre stata tanto sicura quanto composita e imprecisa-bile, tanto categorica quanto fragile e incer-ta, sempre sospesa tra un inizio remoto e un compimento ancora da venire. Forse non è soltanto la sua imponenza geografica, qua-si una traccia aperta su metà del continen-te, a fare la gravità simbolica del Danubio, ma anche la sua natura di luogo irrimedia-bilmente in bilico. La nascita del Danubio è certo “una questione di grondaie”, come l’ha definita Claudio Magris, il crescere im-previsto di un fiume che “nasce alla cheti-chella”, come ha scritto Paolo Rumiz, lungo il confluire inaspettato di corsi d’acqua che, tra le montagne della Foresta Nera, anco-ra si contendono il privilegio dell’inizio, il vanto di essere già Danubio. Ma la fine del grande fiume, laggiù sulle sponde che Höl-derlin voleva ospitali e ombrose, non è poi

“E

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meno inquieta: dopo 2900 chilometri di un corso tortuoso e bizantino ma abbastanza certo da accostarvi città e tracciarvi confini, il fiume si scioglie infine in una caotica esu-beranza di canali, rivoli, laghi, acquitrini, paludi, uno zibaldone vasto e indistinto di acqua e vegetazione. Non è neppure dav-vero una fine ma piuttosto, come scrive-va Magris, un incessante finire, “un verbo all’infinito presente”.Forse, era questo stes-so sentimento di un confine non davvero segnato, più presagi-to che visto, a rende-re le sponde del Mar Nero tutt’altro che ospitali per il poeta Ovidio, il quale ven-ne esiliato in questa regione dall’impera-tore Augusto nell’8 a.C., “spedito alle foci dell’Istro dalle sette braccia”, e vi trascorse i suoi ulti-mi anni nella pena inconsolabile per il perduto Occidente, nella dolente afflizione di un luogo che gli appariva irrimediabil-mente vago: “a nessuno fu assegnata una terra più lontana; / più lontano di questa non vi è niente, se non freddo e nemici, / e l’acqua del mare che si stringe in solido ghiaccio”. Ovidio non scorgeva più nulla oltre le bocche dell’Istro, ma la sua inquie-tudine era forse piuttosto dovuta al sentore di un confine liquido, di un altrove che si avvista soltanto nello spandersi delle acque le une sulle altre. Non è, allora, per il sem-

plice gusto di un paradosso che Vintilă Ho-ria, nel romanzo Dio è nato in esilio (a cui nel 1960 viene assegnato un premio Goncourt che l’autore, per le sue controverse idee po-litiche, non potrà ritirare), poté fare dell’e-silio di Ovidio la cifra stessa di una con-dizione così profondamente segnata dalla nostalgia senza nome. “Mi aggiravo per le stanze, uscivo in giardino, cercavo dap-

pertutto qualcosa che potesse ricordarmi Roma, che mi avreb-be consentito di vi-vere in esilio”, fa dire Horia al suo Ovidio subito dopo che que-sti ha appreso la sen-tenza di condanna. Cercare dappertutto un segno della pro-pria casa, nel presa-gio convulso di aver-la irrimediabilmente perduta, è stato in effetti il destino con-diviso da più di uno scrittore romeno, chi per una senten-

za della storia, chi per un indocile affanno interiore: la sensazione che Emil Cioran di-chiarava di aver avuto per tutta la vita, “es-sere stato allontanto dal mio vero luogo”, trova un’eco esatta nella confessione con cui Eugène Ionesco asseriva di non essere “né qui né là, fuori di tutto”. La lente della distanza e della memoria trasfigura i luo-ghi dell’origine, che assumono i contorni bucolici della vita pastorale, del paesaggio idilliaco e contadino (come nel Diario di un contandino del Danubio, di Horia), o la vitali-

Non è neppure davvero una fine ma piuttosto,

come scriveva magris, un incessante finire, “un verbo

all’infinito presente”.

Claudio Magris

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v

tà ribelle e multietnica della Brăila di Painat Istrati. Insopportabile a Ovidio, la regione del delta è dolce nella memoria di Mircea Eliade, che al seguito del padre, ufficiale dell’esercito, trascorse un pezzo d’infanzia a Cernavodă: “Nei miei ricordi, quel tempo trascorso tra il Danubio e le colline color mattone, dove crescevano rose selvatiche e piccoli fiori con petali dal colore tenue, è

sempre illuminato di sole”. Ma questa me-moria trasfigurante è in fondo ancora il se-gno di una transumanza spirituale di cui proprio il Danubio è forse in Romania la fi-gura più fedele, nella sua sfuggente natura di un flusso che sembra scorrere a ritroso. Del resto, è solo per trovare la propria fine – una fine, però, che è un verbo all’infinito presente – che il grande fiume entra dav-vero in Romania: per cinquecento chilome-

tri, doppiate le Porte di Ferro, esso la co-steggia piuttosto come un confine a cui un unico ponte, tra le città di Giurgiu e Ruse, restituisce la condizione di poter essere davvero attraversato, come una presenza schiva e appartata, senza incontrare l’appa-riscente grandezza di una capitale o la ma-estosa bellezza di un paesaggio fiabesco. La tocca appena, come può toccarci una so-glia che non è un qui, né un là, e nondime-no sa darci un luogo e un rimpianto, l’af-flizione dolente di una casa che bisognerà conservare soprattutto nel ricordo, “come se il tempo avesse una voce e la si potesse udire in un solo punto della terra: qui”.

“Nei miei ricordi, quel tempo trascorso tra il danubio e le colline color mattone, dove crescevano rose selvatiche

e piccoli fiori con petali dal colore tenue, è sempre

illuminato di sole”

Mircea Eliade

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di Fabio Fumagalli

Agatha Christie, ovvero il cibo come maschera mortale

alta cucinaLeggere di gusto

L’ARTE“DELIZIOSA”DEL DELITTO

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a scrittura di libri gialli ha sempre celato al suo interno un profondo legame con l’arte culinaria. Molte volte ricette e pasti servono per far

risaltare al lettore la particolare atmosfera che pervade la trama del romanzo: in che modo ambientare personaggi e vicende di un thriller in città come Parigi, Roma e New York (solo per citare i casi più eclatanti) sen-za, nel contempo, evocare gli odori e i sapo-ri precipui di questi ambienti? Altre volte, invece, è il cibo stesso a presentarsi come il protagonista della tra-ma: esso può diventa-re, all’occhio esperto del detective di turno, più tagliente di una lama, più minaccio-so di una pistola. Lo scopo ultimo del gial-lista sembra così esse-re quello di instaurare nelle pieghe dell’in-treccio, al fine di creare un legame tra lettore e personaggi, un ele-mento apparentemente innocuo che possa rispondere a una passione comune ai due termini della relazione. E il cibo può svol-gere perfettamente questa funzione. Non sembra dunque una coincidenza se Agatha Christie, madrina indiscussa del giallo, sia stata una maestra tanto ai fornelli quanto alla macchina da scrivere. In effetti, la “Du-chessa della morte” (come Agatha preferi-va farsi chiamare) amava la buona cucina, tentando sempre nei suoi innumerevoli ro-manzi di dare dignità a una tradizione cu-linaria, quella anglosassone, tanto ingiusta-mente denigrata. È lecito però avvertire in

anticipo il lettore. Nella sua scrittura, ella non ha solo riversato ad abundantiam le pre-libatezze delle vita, ma anche, com’è ovvio, le ambiguità e i pericoli che a ogni piè so-spinto si nascondono dietro l’inquietante mondo rappresentato nel romanzo giallo. Il cibo tende perciò ad assumere l’aspetto di una maschera: dietro una facciata delizio-sa, come può essere quella di una torta di mele o di un pudding al cioccolato, può ce-larsi in realtà il male, il delitto, la sottile arte

dell’avvelenamento. A questo proposito, tornano alla mente al-cune parole della no-stra giallista: “Non so assolutamente nulla sulle armi da fuoco né su come si maneggia-no. Ecco perché ucci-do i miei personaggi con il veleno, che ha il vantaggio di essere pulito e sa solleticare la mia immaginazio-

ne”. Tale predilezione per le sostanze vene-fiche sembra derivare, oltre che da un gusto puramente estetico, anche da un episodio di vita della nostra autrice, il quale ha scatena-to la fantasia di numerosi biografi: durante la Grande Guerra, Agatha Christie prende servizio come infermiera nell’ospedale del-la sua città natale, Torquay, entrando così in contatto, restandone incantata, con in-numerevoli “Boccette verdi e blu… dove si trova il sonno, il riposo, l’oblio dai dolori, e pure la minaccia, l’omicidio, la morte im-provvisa…”, come ella stessa scrive in una poesia dal titolo In un dispensario. Tornando a considerazioni meno sinistre, senza dub-

L

La “duchessa della morte” (come agatha

preferiva farsi chiamare) amava la buona cucina,

tentando sempre nei suoi innumerevoli romanzi di dare dignità a una

tradizione culinaria, quella anglosassone, tanto

ingiustamente denigrata.

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bio Agatha fu una buongustaia fin dalla sua infanzia. Recandosi periodicamente in visi-ta dalla prozia Margaret, suocera di suo pa-dre, scopre nella dispensa della grande casa vittoriana un’enorme scorta di viveri che immediatamente affascina e rapisce la gio-vane Agatha: legumi secchi, frutta candita, burro, ciocco-lato, farina, chili di zucchero e qualche liquore. Tutti otti-mi elementi per creare, nel-la smisurata fantasia delle ragazza, una torta deliziosa. Quest’ultima prende for-ma e sostanza in particolare all’interno di uno dei dodici romanzi dedicati al perso-naggio di Miss Marple (fi-gurazione artistica, secondo alcuni acuti critici letterari, proprio della prozia Marga-

ret), dal titolo Un delitto avrà luogo. Qui la storia, ingarbugliata e intricata come non mai, ruota attorno a un annuncio pubblica-to sul giornale locale di Chipping Cleghorn, un piccolo e ordinario villaggio inglese, nel quale viene “previsto” anticipatamente un omicidio. La scena che a noi interessa però si svolge in una cucina, a omicidio già av-venuto, dove troviamo Letitia Blacklock, proprietaria del villino “Little Paddocks” in cui è avvenuto l’orribile delitto, intenta a preparare un “dolce squisito”, una torta al

cioccolato soprannominata “Delizia mor-tale”. E mortale sarà proprio il suo effetto, se, dopo averla assaggiata, Bunny, che sem-bra essere a conoscenza di molti dettagli sull’assassinio, muore avvelenata. Ecco così svelata, in tutta la sua intrigante fascinazio-

ne, l’arte ‘deliziosa’ del de-litto di Agatha Christie. Gli ingredienti che la compon-gono sono semplici, ma l’ef-fetto finale è sorprendente. Innanzitutto, preriscaldate il forno a 180 gradi. Prende-te 120 g di burro e mettetelo in uno stampo, passando-lo in forno per scioglierlo. Mentre aspettate, prendete 100 g di uva passa e taglia-te gli acini mettendoli a ba-gno in tre cucchiai di Coin-treau (o di un altro liquore,

purché di agrumi). Dopo esservi procurati 250 g di cioccolato fondente, fatelo fondere in una casseruola a bagnomaria, quindi ag-giungete il burro fuso e mescolate il tutto fino a ottenere una crema omogenea. Ora, procuratevi 6 uova. Dopo averle rotte, se-parate i tuorli dagli albumi e unite i tuorli al cioccolato fuso. Aggiungete al tutto 100 g di zucchero. Lavorate ciò che avete otte-nuto con una frusta (manuale od elettrica) fino a che il composto non sarà completa-mente liscio. Ora, tocca agli albumi. Mon-

Il cibo tende ad assumere l’aspetto di una maschera: dietro una facciata deliziosa, come può essere quella di una torta di mele o di un pudding al cioccolato, può celarsi in realtà il

male, il delitto, la sottile arte dell’avvelenamento.

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tateli a neve e incorporateli alla preparazio-ne, versandovi inoltre 40 g di farina e 50 g di zucchero. Imburrate lo stampo con 30 g di burro, versatevi il composto che avete ot-tenuto, cospargete con l’uva passa scolata dal liquore e fate cuocere in forno a 180° per circa mezz’ora. Per dare un tocco speciale al piatto così elaborato, potete aggiungere della crema inglese. L’operazione è sem-plice: scaldate un litro di latte intero con 2 baccelli di vaniglia divisi a metà. In una ter-

rina, montate con la frusta 8 tuorli con 200 g di zucchero mentre versate il latte. Mettete il tutto sul fuoco a bassa intensità, lavoran-dolo con una spatola. La crema sarà pronta quando velerà la spatola. A fine cottura eli-minate la vaniglia. Ora non resta che servire in tavola questo dolce, prendendo la torta e cospargendola con piccole quantità di cre-ma inglese. Come dite? Manca qualcosa a questa “Delizia mortale”? Quello solo se gli ospiti che avete in tavola non sono graditi.

torta al cioccolato (“delizia Mortale”)

Ingredienti (per 10 persone):250 g di cioccolato fondente100 g di uva passa6 uova150 g di zucchero150 g di burro40 g di farina40 g di Cointreau

Per la crema inglese1 l di latte intero2 baccelli di vaniglia8 tuorli200 g di zucchero

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Ufficialmente Diabolik uscì in Italia il Pri-mo novembre 1962. Fra poco ne celebrere-mo il compleanno con cinquanta candeline e la Mondadori, su licenza della casa editrice Astorina, ne festeggia l’anniversario con una serie digitale di cinquanta numeri che è ter-minata lo scorso 12 aprile. Le sorelle Angela e Luciana Giussani sono le autrici di un’avven-tura per fumetti che ha attraversato l’Italia negli ultimi anni del boom economico e che ci ha pre-parato ad amare in un per-sonaggio cupo, misterioso e diabolico la nostra anima più nera. Diabolik è il male che noi siamo. Un male che cambia volto, anzi che del trasformismo ha fatto la propria carta vincente.Sono trascorsi cinquant’an-ni dal primo numero della serie e l’omicidio della mar-chesa Eleonora De Semily (la prima vittima del “Re del terrore”) continua an-cora a turabarci, ricordan-doci quel senso di innocenza perduta che è andato via via crescendo nella società italia-na con il passare dei decenni. Forse l’inno-cenza l’abbiamo persa, come molti sociolo-gi hanno scritto, con l’omicidio Montesi nel 1953, primo caso di cronaca nera in Italia a popolare le pagine di tutti i giornali dell’e-poca con grande clamore e annesso scandalo politico. Diabolik sembra essere lì, pronto a uscire dalle sabbie di Torvaianica. E invece uscirà dalla fantasia di due sorelle milane-

si, con un linguaggio enfatico e un tratto ac-cattivante in un formato tascabile, per tutti. Il male per tutti, perché i desideri di Diabolik sono i nostri sogni: la ricchezza, le belle don-ne, le auto, l’impunità. Forse è per questo che il personaggio delle so-relle Giussani ci colpisce e ci affascina ancora oggi, forse è per questo che quasi ne sorridia-mo e la nostra paura diventa dolce e colma

di ilarità. Diabolik non ci fa paura. Come potremmo avere paura di noi stessi? Allora ecco un italico sorriso dietro quelle avventure folli, un sorriso che diventa ghigno quando ci to-gliamo la maschera insieme a Diabolik. Dove c’è un intrigo c’è lui, dove c’è un depistag-gio c’è lui, dove c’è una bella donna, Elisabeth o Eva, c’è lui. O meglio ci siamo noi. Non è stato un caso che Angela Gius-sani abbia cominciato a lavo-rare nella casa editrice del ma-rito Gino Sansoni occupandosi di una collana per ragazzi. Le

sarà servito a rendere simpatico quel perso-naggio così diabolico e solo con la simpatia, si sa, può darsi una catarsi, una liberazione. Le azioni sono ingigantite, le parole sono ro-boanti (“il giovane Garian, che in apparenza sembrava molto felice, ha una grave spina nel cuore”), i lineamenti dei visi dei perso-naggi sono esaltati: così entriamo nella scena e subito ne usciamo per vergogna. Siamo noi i protagonisti. Siamo noi che allora e sempre siamo Diabolik. Possiamo più farne a meno?

L’anima nera dell’Italia

Noi Diabolik. Il re del terroredi angela e Luciana giussani.

recensioni

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letterature2012e gli altri eventi del mese

appuntamenti

LETTERATURE 2012“Letterature”, lo storico festival della capitale, taglia il traguardo delle undici edizioni dopo aver ospitato, nel corso degli anni precedenti, centinaia di scrittori italiani e stranieri. Presso la Basilica di Massenzio, al Foro Romano, verrà riproposta la collaudata for-mula che ha reso popolare questo evento culturale: gli autori invitati leggeranno alcuni loro testi inediti aventi come tema centrale la dicotomia semplice/complesso. Accanto a scrittori italiani molto noti, come, ad esempio, Alessandro Piperno, Silvia Aval-lone ed Erri De Luca, parteciperanno anche autori stranieri del calibro di Amos Oz, Michael Connelly e Robert Hass. Proprio quest’ultimo, poeta di primo piano nel panorama letterario internazionale, inau-gurerà il 22 maggio un’intera serata dedicata alla po-esia italiana, con letture dei grandi poeti del secondo Novecento scomparsi nell’ultimo decennio. Dal 16 al 21 giugno

èSTORIA – VIII FESTIVAL INTERNAZIONALE DELLA STORIAAmbientato a Gorizia, città da sempre crocevia di culture e lingue diverse, l’VIII Festival Internaziona-le della Storia vedrà la partecipazione dei più emi-nenti studiosi, scrittori e giornalisti che hanno fatto della Storia l’oggetto principale della loro ricerca. Figura portante dell’intera rassegna sarà quella del Profeta, colui il quale, possedendo la capacità di im-maginare e progettare il futuro, è in grado di creare la Storia. Attraverso una serie di dibattiti, incontri, in-terviste, presentazioni di novità editoriali, spettacoli e mostre, prenderanno la parola, tra gli altri, Marcel-lo Veneziani, Luciano Canfora, Mimmo Franzinelli, Marco Santagata, Tullio Avoledo e Corrado Augias. Come avviene dall’edizione del 2007, èStoria 2012 proporrà una specifica programmazione di viaggi storici-turistici a bordo di èStoriabus, pullmann gui-dato da uno storico di professione che, in veste di cicerone, accompagnerà i passeggeri alla scoperta di

varie località del Friuli Venezia Giulia di particolare rilevanza culturale. Dal 17 al 20 maggio

“PAROLE SPALANCATE – FESTIVAL INTERNA-ZIONALE DI POESIA”Giunto ormai alla diciottesima edizione, prende il via, al Palazzo Ducale di Genova, Parole Spalan-cate - Festival Internazionale di Poesia. Come ogni anno verranno organizzati oltre 100 eventi gratui-ti tra letture, perfomance, concerti e incontri, che si snoderanno lungo tutto il centro storico della città ligure. Due le date salienti che caratterizzeranno l’e-vento: venerdì 8 giugno, dalle ore 17 in poi, avrà luo-go la Notte della Poesia, che invaderà palazzi, giar-dini, piazze e locali di via Garibaldi e dei quartieri di Maddalena e del Ghetto; Sabato 16 giugno dalle ore 9 di mattina fino alle 2 di notte ci sarà il grande appuntamento con Bloomsday, la lettura integrale dell’Ulysses di Joyce in una ventina di luoghi caratte-ristici del centro storico genovese da parte di un cen-tinaio di appassionati interpreti. Da ricordare inoltre le due produzioni originali del festival, una dedicata a Edgar Allan Poe e l’altra a Paul Valéry. Dal 7 al 17 giugno

CAFFE’ COPENAGHENPer la prima volta nella storia culturale milanese, la Danimarca prenderà possesso della capitale eco-nomica italiana. A partire dal 16 maggio si apre in-fatti “Caffè Copenaghen”, il primo festival dedicato esclusivamente alla cultura danese. La rassegna, per più di un mese, occuperà svariati luoghi di Milano, famosi e non: l’Apollo spazio Cinema, la Mediateca Santa Teresa, il Piccolo Teatro Studio solo per cita-re alcuni esempi. Sul fronte letterario, grazie all’or-ganizzazione della casa editrice Iperborea, si vedrà la partecipazione di alcuni tra i più importanti au-tori danesi contemporanei: Olav Hergel, Janne Tel-ler, Sara Blaedel e Anne Marie Mastrand-Jorgesen. Dal 16 maggio

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Tweets

Bookbugs

@5AdicoXtina

Scrivere in ebook, scrivere sui

muri, scrivere sulle magliette:

insomma scrivere dappertutto

purché si legga.

@ViolaVenturelliGiovani che diventano milionari autopubblicando in formato ebook i propri romanzi nel cassetto.

@NewsPennyebook

Pennyebook: gli #ebook di

Android ignorano Google

Books: non c’è integrazione tra

i libri di carta e quelli di bit

@nascpublisheffettivamente non ho ancora convinto mia moglie

a passare agli #ebook …

@il_letterinonon importa quanto costa fare gli ebook, importa quanto gli utenti vogliono pagarlo.

@gaspareamato

gennaio-aprile 2012:

libri comprati:2

ebook scaricati: 15.

@Pianeta_eBookI #tablet continuano la loro ascesa: sempre più lettori di #eBook li preferiscono agli eReader secondo una ricerca BISG.

Page 52: PreTesti • Occasioni di letteratura digitale • Maggio 2012 • Numero 5 • Anno II

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Redazione:Sergio BassaniLuca BisinFabio FumagalliPatrizia MartinoFrancesco Picconi

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L’Editore dichiara la propria disponibilità ad adempiere agli obblighi di legge verso gli eventuali aventi diritto delle immagini pubblicate per le quali non è stato possibile reperire il credito.

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