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Presentazione di alcune tesi significative

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L’intreccio dei

diversi linguaggi educativi tra ricerca e servizi

Presentazione di alcune tesi significative

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Grafica Servizi di Comunicazione Provincia di BolognaStampa tipografia metropolitana bologna

Si ringrazia Enrica Corso per la realizzazione dell’illustrazione di copertina

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Indice

Regione Emilia-Romagna, Provincia e Università di Bologna, Facoltà di Scienze della Formazione: i buoni frutti di una convenzione 5Sandra Benedetti e Maria Cristina Volta

L’intreccio dei diversi linguaggi educativi tra ricerca e servizi 7Elisa Bigi

Presentazione di alcune tesi significative 9

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Regione Emilia-Romagna, Provincia e Università di Bologna, Facoltà di Scienze della Formazione: i buoni frutti di una convenzionedi Sandra Benedetti e Maria Cristina Volta

Nel rieditare il lavoro composito rappresentato dalle nuove tesi più significative che trovano nella presente pubblicazione un’occasione

per “presentarsi”, ci sembra utile ricordare come la convenzione siglata a suo tempo con la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Bologna e con il Dipartimento di Scienze della Educazione della stessa Università, abbia costituito uno degli obiettivi più qualificati dei recenti programmi regionali in materia di servizi per la prima infanzia.

Si tratta di un’operazione che ci pare consenta di raccogliere frutti significativi lungo il percorso di sviluppo dei servizi, mettendo in connessione il mondo della ricerca scientifica con quello rappresentato dall’insieme dei servizi educativi per l’infanzia che trova nella nostra regione un terreno fertile, rendendo questi stessi servizi luoghi di ricerca e di elaborazione culturale.

Questo materiale non nutre solo chi lo ha realizzato cioè le studentesse e gli studenti che su questa produzione hanno acquisito un titolo di studio dedicato; esso costituisce una fonte inesauribile di stimoli utili anche al personale che lavora da anni nei servizi perchérappresenta il tentativo di sensibilizzare anche le educatrici e gli educatori già occupati, nell’idea che l’evento educativo non può essere letto interpretato e re-interpretato solo avvalendosi del bagaglio formativo composto all’atto dell’ingresso nei servizi stessi; infatti la formazione in servizio assume la caratteristica

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dell’aggiornamento professionale in quanto consente di operare quelle connessioni utili non solo nella contemporaneità dell’azione educativa, ma soprattutto nel saldarla con la memoria pedagogica e la cultura che non subisce in questo modo battute d’arresto o rapide inversioni, ma si avvale di una prospettiva pedagogica di lungo respiro. E questo materiale ci consente di facilitare questo passaggio.

Inoltre i temi trattati portano provocazioni utili al confronto nell’incrocio tra saperi ed esperienze, in bilico tra vecchie e nuove generazioni di educatrici e coordinatori/trici pedagogici/che; in altre parole l’originalità con cui vengono scelti alcuni temi oggetto di queste tesi possono far evitare il rischio da un lato di inglobare le nuove generazioni di educatrici ed educatori nei modelli e negli approcci già avviati, senza accettare il contraddittorio come valore, poiché il timore che questo implichi una erosione del sistema costruito in tanti anni, è forte e persistente; dall’altro lato la presunzione del sapere basato in maniera preponderante a volte sul pionierismo, sull’entusiasmo e sull’atteggiamento provocatorio tipico delle nuove generazioni, può essere evitato e riconvertito in dialogo e in occasioni di co-costruzione di nuovi orizzonti formativi, se materia del confronto diventa un materiale che si presta ad essere analizzato secondo criteri di scientificità e maggiore oggettività.

La Regione Emilia-Romagna e la Provincia di Bologna desiderano presentare in forma congiunta questo lavoro poiché non solo costituisce il frutto di un accordo che ha trovato nella formula della convenzione con l’Università un modo per sintetizzare interventi di programmazione educativa comune, ma anche perché in virtù di tale collaborazione già espressa in precedenti edizioni è stato possibile raccogliere gli esiti e le ricadute particolarmente nel territorio provinciale dove maggiore sono le richieste di tirocinio e di inserimento temporaneo ai fini dell’acquisizione della laurea all’interno dei servizi educativi.

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L’intreccio dei diversi linguaggi educativi tra ricerca e servizidi Elisa Bigi

Quest’anno la giornata dedicata alle tesi più significative del Corso di Laurea in Educatore di Nido e Comunità Infantile prende

in considerazione gli elaborati di maggior interesse redatti nell’anno accademico 2006/07.Alcune delle tesi prese in considerazione hanno riguardato riflessioni su contenuti teorici, altre hanno trattato l’argomento di pertinenza a partire da esperienze pratiche svolte all’interno dei nidi o comunque in situazione.Il tema che accomuna la maggior parte delle tesi selezionate riguarda la molteplicità dei linguaggi utilizzati all’interno dei servizi educativi 0-3 anni; in particolare, gli elaborati redatti hanno preso in considerazione il linguaggio dal punto di vista espressivo, approfondendo aspetti relativi all’educazione al sonoro e alla letteratura per l’infanzia, e dal punto di vista dello sviluppo linguistico in età 6-30 mesi.Le tesi in Letteratura per l’Infanzia hanno messo in luce come oggetti-simbolo quali gli specchi, le scarpe e gli armadi (considerati in tre tesi differenti) siano fortemente evocativi e rimandino, attraverso il linguaggio simbolico tipico delle favole, ad un altro ed un altrove caratterizzati da esperienze di crescita e di vita e da mondi fantastici in cui tutto è possibile.Gli elaborati in Educazione al Sonoro hanno approfondito come il linguaggio sonoro stimoli curiosità, capacità di esplorazione e creatività nei bambini da 1 a 3 anni, e quanto il repertorio di musica folklorica possa veicolare il senso di appartenenza ad una determinata cultura e comunità, come emerge nel caso di Monte Quemado, in Argentina, .L’unica tesi in Psicologia dello Sviluppo ha riguardato una ricerca sullo

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sviluppo linguistico nei primi anni di vita, condotta attraverso l’utilizzo del questionario “Mac Arthur”. Tale strumento consente di valutare la capacità di comprensione e produzione di parole, di raccogliere informazioni attendibili sul corso dello sviluppo linguistico e comunicativo partendo dai primi segnali non verbali, attraverso l’espansione del vocabolario, fino all’emergere della grammatica e delle prime combinazioni di parole e frasi.Tra gli elaborati redatti nell’a.a. 2006/07 sono state selezionate anche due tesi di laurea che, pur non approfondendo tematiche relative linguaggio, sono risultate comunque significative per l’argomento trattato: il modello e il ruolo maschile nel lavoro di cura, all’interno dei servizi educativi per la prima infanzia.Le tesi selezionate sono presentate in questo fascicolo, all’interno del quale sono raccolti gli abstract e la relativa bibliografia/filmografia.Tale fascicolo, assieme a quelli redatti negli anni precedenti, rappresenta una testimonianza significativa dei molteplici ambiti di ricerca educativa e del quotidiano intreccio tra teoria e prassi.

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Presentazione di alcune tesi significative

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Specchio, specchio delle mie bramedi Michela MaianiRelatrice Prof.ssa Giorgia Grilli

Partendo dal presupposto che lo specchio è

portatore di un’eccezionale molteplicità di forme che ci circondano ogni giorno e che riempiono il nostro mondo quotidiano, l’elaborazione della mia tesi è nata per merito di questo variegato universo di riflessi, della pluralità di rappresentazioni che possono scaturire in ogni momento e in ogni luogo nella nostra società, e anche perciò nella letteratura. Con occhio critico e “aperto” ho cercato di affrontare la questione sotto differenti aspetti e i temi che ho trattato sono per questo pieni di sfaccettature e non lineari: ho fornito un orientamento negli spazi reali e virtuali deputati all’informazione concernente lo specchio nella lettura per l’infanzia, perché oggi giorno quest’ultima è considerata come un percorso formativo indispensabile per i soggetti in età evolutiva. Riflettendo su tutto ciò, e considerando la letteratura come specchio attraverso il quale leggere infinite storie ai bambini allo scopo di esplorare i loro mondi a volte sommersi, lontani, e di avvicinarsi alle loro attese, ansie e bisogni, ho approfondito qualche piccolissima parte dell’universo letterario che ha al suo centro differenti aspetti dello specchio. La letteratura, nei migliori dei casi, è essa stessa il riflesso di verità che gli adulti vogliono nascondere a loro stessi e che celano attraverso

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discorsi impregnati di logica e razionalismo; ancora, la letteratura è quel qualcosa che fa comprendere chi siamo realmente al di là dei ruoli e delle maschere sociali e oltre ciò che è bene o opportuno dire. Le storie sono estremamente indispensabili ai bambini per crescere e sopravvivere in una società costituita da adulti, che non conosce il mondo che sta al di là dello specchio: “ogni fiaba è uno specchio magico”, ogni storia è il pianeta fantastico che ciascun bambino esplora, con cui cresce e che ricorda poi con dolce nostalgia nella vita adulta, un mondo magico che accompagna alla scoperta e al riconoscimento di sé e della realtà che ci circonda. Uno degli obiettivi della mia tesi è stato di interpretare le forme di rispecchiamento riscontrabili nelle pagine della letteratura per l’infanzia, e di verificarne così la ricaduta nell’utilità formativa per e verso i bambini: sono essenziali nella civiltà di oggi metodi e strategie di motivazione alla lettura al fine di recuperare, anche negli adulti, una dimensione emotiva e creativa relativa ai libri; ne è risultato che l’atteggiamento dell’adulto è fondamentale per un positivo percorso di crescita dei bambini e, in particolare, che le fiabe possono essere utilizzate come validi strumenti rispecchianti le situazioni vissute dall’infanzia. La letteratura è infatti qualcosa di diverso e trasgressivo, creato da adulti che sono riusciti a mantenere vivo dentro di sè il proprio io bambino, celato dietro una maschera che permette loro di vivere integrati tra gli altri adulti, ideando storie che illuminano aspetti profondi della vita, che ci mettono in contatto con emozioni o lati del nostro carattere altrimenti rimossi o tenuti sotto controllo, e che fanno comprendere chi siamo realmente. Le storie servono per capire, per restituirci la nostra identità, per farci aggrappare alla vita, quella interiore e non a quella sociale: la figura metaforica di ciò la si trova tra le pagine delle “Mille e una notte”, in cui la protagonista si salva dalla morte proprio narrando. La letteratura per l’infanzia, come specchio per la vita, è indispensabile per crescere e cercare di vivere autenticamente in una società come la nostra, che tende a schiacciare qualunque possibilità di realizzazione personale inglobandola in sogni socialmente preconfezionati socialmente e uguali per tutti.

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L’infanzia non è proprietà degli adulti, tutti i bambini possono essere un’implicita minaccia per la propria cultura, perché essi sono nuovi, aperti al mondo, mentre gli adulti, crescendo, imparano a vivere in base a rigidi schemi e la loro evoluzione biologica contribuisce a diminuire la loro creatività. La letteratura per l’infanzia ci consente, come in uno specchio magico, di tornare a “vedere in una luce” secondo cui tutto è ancora possibile. La letteratura, strumento educativo estremamente profondo, complesso, non banale, permette ai bambini di calarsi in un mondo parallelo, che trova corrispondenze fra le cose, ma che dà spazio soprattutto a figure “diverse”, “altre”, devianti. La narrativa si nutre infatti per eccellenza dell’anomalo, dell’imprevisto e dell’ostacolo, per fare procedere e per rendere interessanti le proprie trame: in questo senso essa funziona da specchio in qualche modo “rovesciato” rispetto a quella cosiddetta normalità a cui nella nostra veste ufficiale aneliamo tanto, ma che finisce spesso per coincidere con la banalità, tanto dell’esistenza quanto della visione del mondo. In quest’ottica interpretativa la fiaba va intesa come specchio della vita, come metafora delle emozioni e dei sentimenti fondamentali di ogni bambino, che impara a gestire le sue emozioni attraverso le storie che ascolta. Facendo riferimento agli atteggiamenti che gli adulti hanno nei confronti dei propri figli e a come le fiabe possano essere il rispecchiamento delle emozioni dei piccoli lettori, e anche un aiuto nei momenti in cui questi ultimi possono sentirsi soli e abbandonati da coloro che dovrebbero prendersi cura di loro, è essenziale prendere in considerazione le forme di rispecchiamento che il bambino può attuare nei confronti dell’adulto in correlazione alle figure della letteratura per l’infanzia (ad esempio emerge una forte presenza tra i protagonisti di tutte le fiabe dell’orfano, perché esso è la metafora più assoluta della mancanza di amore parentale). Approfondendo il discorso in termini meno metaforici, lo specchio è descrivibile come una superficie sufficientemente lucida da permettere la riflessione di tutto ciò che rientra nel suo campo visivo spontaneamente, involontariamente e impassibilmente. Lo specchio, generando una

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riproduzione precisa e fedele dell’aspetto visibile di qualsiasi oggetto, può far scaturire differenti interpretazioni di significato nella letteratura per l’infanzia: la copia è sincrona rispetto all’originale e al suo movimento, perciò la caratteristica di riproduzione è sincera e suggerisce l’idea di usare di conseguenza quest’ultimo per la trasmissione di messaggi, come ad esempio accade nella storia di Biancaneve, dove il riflesso verbale dello specchio funge da messaggero avendo la funzione principale di rivelare un’amara verità alla donna che si riflette davanti ad esso. La copia, caratteristica quasi unica del riflesso, è perciò spazialmente separata dall’originale e riproduce quest’ultimo con un’estrema precisione (a esclusione del rapporto destra/sinistra), la violazione delle regole dell’identità dello specchio può creare un oggetto che in letteratura subisce differenti processi evolutivi: se viene tradito il principio di sincronicità tra immagine e originale, riflettendo ciò che non rientra direttamente nel campo visivo, emerge un tipo comune di specchio magico che in narrativa è facile riscontrare, un’idea di specchio nel quale si possono vedere ad esempio passato e futuro, o che addirittura sostituisce mostrando ad esempio ad una fanciulla il suo promesso sposo. La copia, accessibile solo alla vista e che appare su una superficie piana e uniforme, caratterizza l’impenetrabilità dello specchio (con relativa distruzione delle proprietà qualora si tenti di violarla). La silenziosità e l’impalpabilità della rappresentazione, correlano l’immagine speculare al sogno, alle visioni e, in generale, ad un mondo altro, ultraterreno. Lo specchio, diviene così modello di menzogna, di inganno, di contraddizione tra apparenza ed essenza: la violazione dei principi di impalpabilità e silenziosità dell’immagine, nonché l’indipendenza e l’autonomia dell’immagine dall’originale, genera l’idea di un doppio autonomo rispetto all’originale e, più in generale, di un oltre lo specchio indipendente rispetto al nostro mondo, una sorta di anti-mondo. Carroll, spingendo Alice oltre lo specchio, crea un mondo fatto di emozioni e di situazioni paradossali immaginando l’ingresso in una zona inesistente, in un altro mondo parallelo, quello interno allo specchio: la protagonista si divincola dalle catene delle regole e delle consuetudini

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e, attraversando lo specchio, dimostra di poter credere a tutto quel che incontra. Al di là dello specchio si respira nella dimensione del sogno perché la superficie riflettente pare carpire la nostra identità, sembra un altro da noi, addirittura noi stessi. La teoria che sostengo è che il mondo che sta oltre lo specchio, proprio come quello di Alice nel Paese delle Meraviglie, sembra uguale a quello reale ma invece è diverso, ed entrare dentro di esso anche per quel che riguarda noi stessi, oltre che il mondo fuori, significa capovolgere le abitudini acquisite della nostra cultura. Con un’ottica interdisciplinare attenta agli scenari aperti dalle nuove forme di comunicazione e di espressione che possono celarsi dietro la riflessione come rappresentazione, ho trattato anche il rispecchiamento allo scopo di utilizzare il rapporto empatico come forma di costruzione della sintonia tra diversi esseri viventi. Il rispecchiamento, che ho riscontrato nelle pagine delle storie, può essere d’estremo aiuto in un processo d’identificazione tra gli autori e le storie che elaborano, nel riconoscimento di sé stessi tra i lettori e le pagine, e di correlazione tra i personaggi delle opere. Quando un bambino tiene tra le mani uno specchio tende a congiungere ogni parte della sua faccia alla superficie riflettente, come se volesse passarci attraverso, nello stesso modo in cui la oltrepassa Alice. Anche se si riconosce nello specchio, l’infanzia va tuttavia a cercarsi dietro esso: prende possesso del suo doppio (che si tratti dell’immagine riflessa o di un compagno immaginario è ininfluente), e tuttavia lo tratta come un altro sé: i bambini ad esempio attribuiscono la loro ombra a terra a qualcun altro, ma tuttavia gridano che gli si fa male quando qualcuno la pesta. L’argomento è carico di aspetti simbolici soprattutto per quanto riguarda l’evidente implicazione dei gemelli, che di per sé sono l’estrema manifestazione del tema del doppio non solo nella letteratura, ed è perciò in questo senso che sono prossimi al riflesso dello specchio. La coppia gemellare, che esercita una forte fascinazione su chi li circonda a causa o per merito della costante ricerca dell’identità ai quali essi sono sottoposti, possono essere correlati alla figura del compagno immaginario

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del bambino, o dell’Ombra, che al di là dell’essere apparentemente e iconicamente uguale al piccolo stesso, può rivelare una personalità altra, con la quale ci si può trovare in accordo, ma anche in conflitto, a causa del suo stesso comportamento imprevedibile: come l’ombra di Peter Pan quella del bambino scompare, riappare, si allunga, si accorcia, inventa un gioco con la sua presenza insistente, ma può dissociarsi dall’interazione ludica appena intrapresa. Il doppio all’interno della letteratura, oltre ad essere evidente nelle coppie gemellari e in tutti i doppi che il bambino può crearsi (che si tratti di un’ombra, di un compagno immaginario, o di un peluche), può essere anche caratterizzato da un personaggio e dal suo Sosia, attraverso la rappresentazione dell’esistenza di due persone distinte che hanno lo stesso aspetto esteriore ma che, come i gemelli, si differenziano per il loro aspetto interiore e per i loro atteggiamenti, proprio come avviene nel romanzo “Il principe e il povero”. Un’altra implicazione può essere rappresentata dalla possibilità che esista un gemello nascosto dentro ciascuno di noi: in modo differente da ciò che avviene quando i protagonisti delle storie sono entrambi ragazzi, sosia uno dell’altro, può succedere che nei libri il doppio venga rappresentato dalla stessa persona, come Narciso e il suo riflesso nell’acqua che funge da specchio. Due eccezionali romanzi fanno da testimonianza a questa tesi: “Il ritratto di Dorian Gray” è il primo, in cui il quadro, specchio dei vissuti del protagonista, è una sorta di coscienza per Dorian costretto a invecchiare e a macchiarsi delle colpe e dei peccati di quest’ultimo, che si trova spesso a guardarlo esaminandolo, ricordandosi quale sia la vera realtà e nascondendosi al contempo dietro una bellissima maschera. Un’altra tipologia di forma sotto la quale si può celare la comprensione di se stessi, dove l’altro da sé assume la straordinaria funzione di agente socializzatore facilitando al soggetto l’ingresso nella società di appartenenza, è “Lo strano caso del Dottor Jekyll e Mister Hyde”. Il termine “rispecchiamento”, ad un primo approccio, porta il pensiero nella direzione di una semplice riflessione davanti allo specchio, o in qualunque superficie che rifletta l’immagine che trova davanti a sé, ma ad una più

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profonda significazione specchiarsi può significare imitare, guardare fisso qualcuno per osservarlo, per prenderne esempio, per riflettersi nelle sue azioni, come accade nel libro “L’occhio del lupo”; il termine può condurre anche all’analisi della riflessione come rappresentazione di ciò che un autore è, e può esprimere, attraverso le parole che riproducono sentimenti, o esperienze, all’interno dei libri. Tutto ciò conduce alla creazione di una sorta di filone intrecciato del rispecchiamento e delle identificazioni che possono perciò essere riscontrate come rapporto empatico tra personaggi dello stesso romanzo, tra gli autori e le loro opere, e tra le pagine da loro scritte e i lettori (come accade spontaneamente nella lettura di alcune famose storie tra cui spicca il celebre personaggio del Piccolo principe, che è l’identificazione del suo stesso autore Antoine de Saint-Exupéry, e di tutti i lettori che con la mente aperta leggono le pagine del libro). Quest’ultima raffigurazione del rispecchiamento può essere ricercata nella capacità degli autori di riuscire e creare testi ed opere in cui i lettori possono riconoscersi, immedesimarsi, e proiettarsi, fino ad esserne emotivamente coinvolti. Perché, se è vero che la letteratura per l’infanzia presenta tanti specchi come oggetti veri e propri ritrovabili nelle sue trame, è anche vero che nel suo insieme essa stessa si presta appunto da specchio, in cui gli autori e i lettori vedono riflesse parti di sé: le storie servono proprio a questo, sono indispensabili per essere utilizzate come rispecchiamento della vita, servono per farci riflettere, per rappresentarci, per permettere a chiunque di sognare un mondo diverso da quello che ci circonda. Nonostante gli studi teorici di vario tipo che ho effettuato, la letteratura ha ancora tanto da dire rispetto allo specchio, alle sue proiezioni, alle sue identificazioni, ai suoi doppi e ai suoi riconoscimenti, perché essa è uno dei pochi “luoghi” che ci permettono di comprendere noi stessi, che arricchiscono l’uomo e aprono lo sguardo sul mondo e su di noi, proprio come lo specchio è l’unico oggetto che ci permette di vedere la nostra immagine, altrimenti inaccessibile al nostro sguardo.

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In punta di piedi su scarpette di cristallo

di Clara D’OnofrioRelatrice Prof.ssa Giorgia Grilli

Quando si è cresciuti con la consapevolezza che i libri sono porte per raggiungere altri mondi, nei quali è possibile diventare chiunque e

vivere qualsiasi avventura, scrivere una tesi sulla letteratura è un po’ come un sogno che si avvera. Fin dalla preparazione per l’esame di letteratura per l’infanzia, infatti, è andata crescendo la passione per una materia che si incontrava così spontaneamente con i miei interessi. Mentre studiavo mi accorgevo di quanto incanto contenesse questa disciplina e di quanto sarebbe stato bello poter lavorare a lungo su qualcosa di tutto mio, fino a quando sono riuscita a trovare un argomento tanto vasto quanto affascinante, abbastanza per convincere la professoressa Giorgia Grilli a farmi intraprendere questo meraviglioso viaggio nella letteratura per l’infanzia. Il tutto è partito dalle scarpe, infatti avevo notato come spesso, nelle fiabe famose, fossero presenti scarpe speciali (nel senso di fattezza o di poteri magici), poi mi sono accorta di come tornassero i piedi scalzi o le ferite a uno degli arti. Ma la vera illuminazione mi è venuta leggendo “In volo, dietro la porta”, il libro della mia relatrice; qui, infatti, ho trovato non solo qualche elemento di studio in più, ma lo spunto per la ricerca, anche in romanzi, degli stessi princìpi che avevo trovato nella letteratura per l’infanzia più famosa.

Nel mio studio, infatti, sono state analizzate trame di fiabe, romanzi e film in maniera da estrapolare da ognuna di esse gli argomenti essenziali che

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vi si incontrano.Ho voluto concentrarmi anche su lavori cinematografici, alcuni recenti altri degli anni trenta, per sottolineare che i temi da me affrontati sono tuttora non solo nella letteratura contemporanea, ma anche nel cinema o in televisione. Ragionando e confrontando le opere, dai miti greci fino ai libri e alle pellicole più recenti, ho approfondito quelle che possono sembrare pure coincidenze, ma che, invece, ho dimostrato essere idee concrete, trasversali a diverse culture, studiate da grandi storici ed antropologi, e provenienti tutte dallo stesso “padre”: lo sciamanismo.E’ questo, infatti, il centro di tutto il mio lavoro, che rappresenta una ricerca e un’analisi di come, alla base di tutta la letteratura infantile, il fiabesco e i riti iniziatici siano elementi che ricorrono e che sono presenti fin dai tempi ancestrali. Ho strutturato questo studio in cinque sezioni trattando, in ognuna, un elemento fiabesco e il suo corrispettivo sciamanico. Scarpe, ferite, claudicanza, danza e volo vengono spiegate in modo da coinvolgere il lettore affascinandolo con una miscela di fantasia e realtà, di fiabesco e ve(riti)ero.

Nel primo capitolo ho messo a confronto le varie versioni mondiali della fiaba “Cenerentola”, sottolineandone differenze e punti in comune; ho inoltre messo in luce diverse analogie tra l’eroina, gli déi mitologici e pagani, e gli eroi greci. Infine, ho introdotto il tema dell’asimmetria deambulatoria che caratterizza diversi personaggi che vanno o vengono dall’aldilà, quello delle ferite simboliche a uno o ad entrambi gli arti, e il significato folklorico delle scarpe: il perdere una scarpetta o il camminare scalzi, infatti, è stato collegato ad un’eventuale perdita della verginità; ma si vedrà, anche, come una calzatura possa permettere il riconoscimento di un personaggio, come troviamo per esempio in Cenerentola e in diversi miti greci, o come possa essere l’oggetto magico che aiuta i protagonisti nei lunghi spostamenti (gli stivali delle sette leghe).

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Il secondo capitolo è dedicato alle ferite simboliche autoinflitte e a quelle che vengono inflitte da altri a causa di un rituale per rendere un bambino più potente o immortale, per evitargli dolorose trasformazioni in determinati periodi dell’anno, o anche per cercare di sfuggire da una profezia funesta. La ferita produrrà dolore e a volte porterà a una zoppaggine caratteristica o spesso anche alla morte; in alcuni casi le eroine trattate si troveranno “costrette” ad amputarsi o farsi amputare parte degli arti per amore dell’amato, per la danza, e a volte per la vita stessa... in altri casi, l’amore viene trasformato nella voglia di sentirsi come tutti gli altri. Comunque, il rito che prevede una ferita, ha quasi sempre uno scopo iniziatico, ovvero intende far diventare un bambino membro della società adulta.

Nel terzo capitolo ho approfondito il tema dell’asimmetria deambulatoria dividendolo a seconda del motivo che determina la claudicanza: questa, infatti, può essere causata dal monosandalismo (come per Cenerentola, per Italia in “Non ti muovere”, o per il piccolo Menèc ne “L’albero degli zoccoli”, ecc...), dalle ferite simboliche che abbiamo visto essere alla base dei riti iniziatici e che troviamo nella leggenda di Edipo ma anche ne “La sirenetta” di Andersen; infine, la claudicanza è presente anche in casi estremi come l’assenza di un arto, che caratterizza personaggi quali: Long John Silver de “L’isola del tesoro” o il più recente Tariq di “Mille splendidi soli”, il soldatino di stagno della fiaba anderseniana o il Tenente Dan di “Forrest Gump”, che nella guerra del Vietnam ha perso entrambe le gambe. Queste deambulazioni difficili hanno, però, origini antiche e rituali: partendo da Dioniso, il dio che fa vacillare anche a causa dell’ebrezza, fino agli sciamani che per andare in estasi spesso intraprendono una danza rituale famosa anche sotto il nome di “passo di Yu”, è importante sottolineare come l’avere un passo diverso dal comune faccia di un personaggio una figura liminare, ovvero che può viaggiare tra il nostro mondo e l’Altrove, regno per antonomasia di spiriti, morti e particolarità. A questo proposito è impossibile non citare Mary Poppins, la figura liminare per eccellenza, che con il suono del suo inseparabile ombrello con

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il manico a forma di testa di pappagallo, eccede il normale passo binario.

Il quarto capitolo affronta un tema particolarmente affascinante, ovvero la danza. Partendo da uno dei personaggi più romantici del fiabesco moderno, la sirenetta di Andersen, si entra in un argomento toccante. Continuando poi con “Scarpette rosse”, il tema dal ballo assume altri significati profondi (oltre al sacrificio della propria vita per amore e per poter essere uguale a tutti gli altri umani) come la precarietà della vita o il dedicare un’intera esistenza alla danza. Si passerà, poi, a parlare di quando la danza rischia di essere eterna, come accade in alcune fiabe dei fratelli Grimm quali “Biancaneve” o “Il diletto Orlando”; tutto questo serve anche a dare l’idea di un “condimento” tipico del fiabesco dei Grimm e facilmente ritrovabile in altri testi: il tema del perturbante. Finali come quelli di “Scarpette rosse” in cui la piccola Karen si vede costretta a farsi amputare i piedini pur di smettere di danzare, o personaggi quali il pirata Long John Silver o altri suoi compari che troviamo nella lettura de “L’isola del tesoro”, sono un esempio perfetto di figure che portano con loro mistero e un pizzico di inquietante; di questo argomento la governante più famosa del mondo, Mary Poppins, è la regina: infatti è la prima ad affascinare per via dei suoi modi di fare bruschi ma sempre simpatici e per una porzione di mistero non da poco.

Nel quinto ed ultimo capitolo si parlerà del volo e non potrà mancare il principe dei folletti Peter Pan, di cui ho affrontato sia le avventure con i bambini Banks che la storia. Un’altro personaggio significativo è, ancora, Mary Poppins, che spesso e volentieri scopriamo in voli magici in compagnia dei piccoli protagonisti dei suoi libri, per cui appare sempre più evidente la sua somiglianza con la figura dello sciamano. Con il libro di Calvino “Il barone rampante”, poi, appare evidente come il volo serva soprattutto a far cambiare punto di vista: dall’alto tutte le cose appaiono diverse, e non è un caso se il protagonista Cosimo decide di passare tutta la sua vita senza mai toccare terra: vivendo sugli alberi, è possibile

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estraniarsi da una realtà che a volte appare noiosa, tutta uguale. Infine, ho voluto affrontare un argomento essenziale parlando di infanzia: ovvero il saper volare di fantasia. Nel film di Jean Vigo “Zero in condotta” troviamo un professore diverso dagli altri, il sorvegliante Huguet, che riuscirà a farsi amare dai suoi ragazzi proprio per questa somiglianza al loro essere spensierati e “leggeri”. In una famosa scena della pellicola è possibile vedere l’uomo mentre diverte i ragazzi in una verticale in equilibrio sulla cattedra: in questo modo Huguet mostra agli studenti (e a noi spettatori) che non vede la realtà come tutti gli altri adulti, ma che, osservando il mondo al contrario, tutto può apparire differente.

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Jackson, Walt Disney - (1962) Il buio oltre la siepe di Robert Mulligan- (1964) Mary Poppins di Robert Stevenson - (1978) L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi - (1987) L’impero del sole di Steven Spielberg - (1989) Il mio piede sinistro di Jim Sheridan - (1989) La sirenetta di John Musker, Ron Clements - (1991) Hook – Capitan Uncino di Steven Spielberg - (1993) Il giardino segreto di Agneszka Holland - (1994) Forrest Gump di Robert Zemeckis - (1997) Il grande Lebowsky di Joel Cohen - (1997) La vita è bella di Roberto Benigni - (2001) Harry Potter e la Pietra filosofale di Chris Columbus- (2002) Harry Potter e la Camera dei segreti di Chris Columbus- (2002) Pinocchio di Roberto Benigni

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- (2003) Appuntamento a Belleville di Sylvain Chomet - (2003) Big Fish di Tim Burton- (2003) Io non ho paura di Gabriele Salvatores - (2004) Harry Potter e il prigioniero di Azkaban di Alfonso Cuaròn- (2004) Neverland – Un sogno per la vita di Marc Forster - (2004) Non ti muovere di Sergio Castellitto - (2004) The village di Manoy Night Shyamalan - (2005) Harry Potter e il Calice di fuoco di Mike Newell- (2005) La sposa cadavere di Tim Barton- (2006) Il diavolo veste Prada di David Frankel - (2006) La ricerca della felicità di Gabriele Muccino- (2007) Harry Potter e l’Ordine della fenice di David Yates- (2008) Into the wild di Sean Penn

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Armadi: quando bambini, segreti e paure si nascondono nel ripostigliodi Elisa SedaniRelatrice Prof.ssa Giorgia Grilli

L’idea di fare la tesi sull’armadio è nata in seguito alla visione del film “Le cronache di Narnia – Il leone, la strega e l’armadio” prodotto dalla

Disney e uscito nelle nostre sale cinematografiche nel 2005. La storia racconta l’avventura vissuta dai quattro fratelli Pevensie i quali, passando proprio attraverso il mobile, giungono in un mondo fantastico ricco di personaggi e luoghi per noi inimmaginabili. Mi ha colpito particolarmente lo sguardo stupito e incantato della piccola Lucy, la sua perseveranza nel raccontare quanto aveva visto ai suoi fratelli, che non riuscivano a credere alle sue parole, e il fatto che un oggetto così comune nelle case di ognuno di noi potesse rivelarsi tanto speciale e denso di magia e mistero. Anche

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in un libro letto qualche anno fa, La stanza 13, questo mobile era investito di una funzione totalmente fuori dal comune: di giorno era un armadio come tanti altri, ma di notte si trasformava nella stanza di Dracula. Mi ha interessato fin da subito il fatto che lo stesso oggetto potesse avere connotazioni così contrastanti tra loro.Da queste osservazioni e da questi pensieri ho cercato di fare chiarezza su quali sono i vari significati che può avere l’armadio nella letteratura per l’infanzia e ho indagato sulle cause che portano tale mobile a destare tanta curiosità e ad apparire così particolare agli occhi dei più piccoli.Mi è stato di grande aiuto il lavoro di Antonio Faeti sul genere horror in quanto, nonostante sia riferito in gran parte alle opere di Stephen King, fa chiarezza su cosa spinge l’infanzia verso l’orrore e, soprattutto, quali elementi fanno sì che un qualcosa abbia un certo carattere orrorifico; anche il saggio di Giorgia Grilli sulla curiosità, contenuto in “Infanzia e racconto”, mi ha suggerito diversi spunti poiché, a mio avviso questo tratto, che appartiene ad ogni bambino, è fondamentale per l’avvenimento di una storia: se i bambini non mettessero sempre in dubbio tutto e non andassero a verificare, come potrebbe esserci qualcosa di interessante da raccontare?

Nel primo capitolo della tesi ho riflettuto su ciò che porta i bambini verso il mobile; innanzi tutto esso è metafora dell’infanzia: gli adulti non conoscono l’infanzia in tutti i suoi aspetti, anche se spesso sono convinti del contrario; allo stesso modo non conoscono i mobili che hanno in casa, non vanno al di là delle apparenze e dell’aspetto esteriore, cosa che, al contrario, fanno molto spesso i bambini. Questo avviene perché i grandi non sanno più guardarsi attorno con gli occhi del bambino che, come dice Pascoli, è e sarà sempre in loro. Grande spazio è dato anche allo sguardo curioso tipico dell’infanzia, quello sguardo che, come enunciato precedentemente, mette tutto in discussione perché non si accontenta delle spiegazioni banali dei grandi.Nel secondo capitolo mi sono concentrata sulle possibilità di “altrove”

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che l’armadio dona ai fanciulli che lo aprono ed entrano in esso. Ho distinto in particolare quattro tipi di mondi paralleli al nostro: uno è un mondo reale, concreto, abitato da altre persone, come il caso di Narnia; un altro è piuttosto un mondo immaginario, un luogo in cui si rifugia la mente ma non il corpo, che rimane all’interno dell’armadio; è ciò che accade a Jess, La bambina Icaro; il terzo invece è un mondo concreto ma creato sempre dai bambini, un mondo che rimane Qui ed è fatto dalle cose che conosciamo perché sono nostre, dai giocattoli e dai vecchi oggetti che si trasformano fino a divenire qualcosa di completamente nuovo e diverso da prima: si tratta del mondo di Anna, protagonista della fiaba di Andersen, La stanza dei bambini. L’ultimo “altrove” infine è quello in cui viene portata Maria, protagonista della famosa fiaba di Hoffmann Schiaccianoci e il Re dei Topi. E’ sempre un mondo concreto ma, a differenza di Narnia, non sono i bambini ad entrare in esso, bensì è lui a farsi vivo e presente nella nostra realtà, o meglio, nella realtà di Maria.Ho ragionato molto, in particolare nel capitolo dedicato alla paura, sull’importanza della quotidianità, la quale è elemento imprescindibile per la nascita della storia: è dagli oggetti quotidiani che i bambini sono attratti, e sono essi stessi a portare ad un Altrove, a contenere mostri e altre cose strane, bizzarre, pazzesche. L’armadio inoltre, così come la soffitta, la cantina o addirittura la casa in sé, sono luoghi chiusi da cui è impossibile fuggire e per questo sono luoghi ideali per creare stati d’animo d’angoscia e di terrore.Scrivere queste pagine, oltre che interessante, è stato come un ritorno al passato, piacevole sotto alcuni aspetti e un po’ meno sotto altri. Piacevole poiché mi sono spesso rispecchiata in alcuni personaggi dei racconti letti. Altre volte mi sono invece sentita come se stessi frugando tra cose che non mi appartengono, come se stessi cercando di portare alla luce i trucchi di un prestigiatore: per quanto possa essere eccitante sul momento, poi lo spettacolo perde il suo fascino; allo stesso modo ho temuto che, una volta scoperto ciò che rende l’armadio tanto attraente agli occhi infantili, avrebbe poi perso quel fascino che, a mio avviso, lo contraddistingue da

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sempre. Fortunatamente non è stato così, anzi.Mai mi sarei aspettata che l’immagine dell’armadio potesse contenere così tante suggestioni capaci di attrarre i bambini!Questa tesi è stata per me una sorta di viaggio incredibile ed interessante, che mi ha portato a vedere moltissimi luoghi differenti tra loro, ma tutti parte di un unico mondo, all’apparenza troppo piccolo per contenere tanto: l’armadio.

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Un dolce suon di cucchiaini, esperienza di un progetto sonoro al nido

di Barbara BedeiRelatrice Prof.ssa Anna Rita Addessi

Il titolo della tesi prende il nome dal progetto musicale realizzato durante il tirocinio del terzo anno universitario, in concomitanza con

la mia partecipazione al GRES, Gruppo di Ricerca sull’Educazione al Sonoro, promosso dalla Facoltà di Scienze della Formazione e dal Settore Istruzione del Comune di Bologna.Nel corso degli anni accademici ho affrontato diverse discipline, alcune in parte conosciute e approfondite, altre per me completamente nuove ed estremamente interessanti, come l’Educazione al Sonoro, che si è rivelata utile per acquisire la consapevolezza dell’importanza di un’educazione musicale precoce. In particolare, gli scritti di Delalande, mi hanno avvicinato ad una nuova metodologia educativa basata sul “risveglio e attivismo musicale” e sull’osservazione delle “condotte” sonoro-musicali infantili, dove non si impartiscono insegnamenti espliciti, valutando il soggetto in base al raggiungimento dell’obiettivo prefissato, ma si accompagna e si sostiene il bambino nelle sue prime e incerte esplorazioni musicali fino all’elaborazione creativa del suono. Da qui è nata la voglia di mettermi in gioco e di creare un percorso sonoro in grado di incentivare nel bambino la voglia di fare, di scoprire, di giocare con i suoni e con la musica.L’obiettivo principale che mi sono proposta è stato quello di avvicinare i bambini alla musica, creando un’attività che fosse in grado di stimolarli all’esplorazione del suono. In particolare, il mio intervento è stato finalizzato all’osservazione delle”condotte” sonoro-musicali, è stato concentrato, quindi, non tanto sul comportamento, quanto sulla finalità sonoro-musicale che motiva l’azione del bambino. Il mio intento è

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stato quello di creare le condizioni favorevoli per garantire al bambino la piacevole scoperta del suono, nella consapevolezza che il modo migliore per motivare il suo interesse musicale, fosse quello di basarlo sull’esperienza diretta. Proponendo occasioni per sperimentare, mi sono prefissata lo scopo di stimolare la curiosità dei bambini, accompagnandoli all’esplorazione del suono, nel tentativo di rendere possibile il passaggio dall’esplorazione dell’“oggetto materiale” all’esplorazione dell’”oggetto sonoro”, base dell’invenzione musicale. Il progetto, realizzato nella sezione medi del nido “18 Aprile” del Comune di Bologna, si struttura in cinque incontri consecutivi a “piccolo gruppo” (quattro bambini di età compresa tra i 16 e 18 mesi) durante i quali ho pensato di proporre un materiale semplice e di uso quotidiano come cucchiai e cucchiaini, capace di stimolare i bambini alla ricerca creativa del suono e della musica. Come strumento di osservazione ho scelto l’utilizzo della videocamera. Il mio ruolo è stato attivo e partecipe sia nella fase di allestimento del contesto e dei materiali, sia nella fase di sperimentazione (dove attraverso azioni mirate di rilancio, si incoraggia il bambino nell’esplorazione musicale, aiutandolo nel delicato passaggio che porta dalla scoperta spontanea del suono alla creazione musicale), sia, infine, nell’analisi a posteriori del percorso sonoro. Per la realizzazione del progetto mi sono procurata circa una settantina di cucchiai e cucchiaini in metallo, spago e corda elastica che mi sono serviti per costruire una sorta di “tenda sonora” che ho appeso da una parete all’altra della stanza della motricità (precedentemente svuotata per l’occasione) ad un’altezza tale da consentire la facilità del gioco e dell’esplorazione. Le fasi del percorso sono state: l’esplorazione da parte dei bambini, l’osservazione delle condotte da parte dell’adulto e l’intervento dell’adulto attraverso i rilanci e le strategie di promozione dall’interno. Durante i cinque incontri i bambini venivano invitati ad entrare nella stanza debitamente allestita per esplorare in piena libertà il materiale proposto; essi guardavano, toccavano, portavano alla bocca, tiravano, sbattevano, lanciavano cucchiai e cucchiaini. Inizialmente i gesti

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compiuti erano casuali e ripetitivi, per diventare pian piano sempre più intenzionali e finalizzati non più alla conoscenza delle caratteristiche tecniche e morfologiche del materiale proposto, ma alla ricerca del suono. Riporto a scopo maggiormente esplicativo la descrizione dl primo incontro. Primo incontro: esplorazione - I bambini vengono accompagnati nella stanza, mentre io, già all’interno, osservo il comportamento dei piccoli riprendendoli con la videocamera. Dopo qualche minuto di osservazione, i bambini si avvicinano alla “tenda sonora” e iniziano l’esplorazione. Lelo gioca attivamente con l’arredo sonoro tirando i cucchiai verso il basso e lasciandoli oscillare in un concerto tintinnante; ripete svariate svolte la medesima azione, e quando l’attenzione non è più incentrata sul gesto prodotto, ma sul suono che ne risulta, capisco che siamo di fronte ad una “condotta” sonoro-musicale. Su imitazione, Asia ricalca la “condotta” del bambino, apportando variazioni che consentono l’esplorazione di nuove modalità di gioco, realizzando una nuova tipologia di “condotta”: sbattere i cucchiai appesi l’uno contro l’altro. Alice si allontana dalla “tenda” per raccogliere alcuni cucchiaini dal suolo; dopo averli guardati e portati più volte alla bocca, li raggruppa in un mazzo e li lascia cadere a terra, ripetendo più volte la sequenza per diversi minuti; la sua attenzione progressivamente si concentra solo sul suono prodotto, riproducendo l’azione per ascoltare ciò che ode (ulteriore “condotta sonora”). Arrivati al diciassettesimo minuto, l’attività volge al termine; i piccoli sono ormai stanchi e il rumore del carrello del pranzo induce anche l’ultimo bambino rimasto ad abbandonare ogni attività per raggiungere l’educatrice perché giunto il momento del pasto.Nel corso di questa esperienza ho potuto osservare la comparsa di numerose “condotte musicali” e l’evolversi di un percorso sonoro che, partendo da un’esplorazione un po’ timida e incerta, si è arricchito giorno dopo giorno, per approdare all’invenzione musicale, considerando il bambino non come individuo in grado solamente di ripetere la musica proposta dall’adulto, ma come soggetto attivo, al centro dell’attività perché

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capace di esplorare, produrre e creare egli stesso suoni e musica.L’idea del progetto non è stata subitanea, anzi, inizialmente ho analizzato percorsi ricchi e complessi e considerato diversi materiali con cui certamente i bambini avrebbero manifestato diversi atteggiamenti, ma come ho potuto notare in prima persona, anche oggetti semplici e di uso quotidiano hanno stimolato i piccoli alla ricerca del suono. Prima di iniziare la sperimentazione, avendo limitate esperienze con i bambini, relative solo ai precedenti tirocini, temevo di non riuscire a cogliere pienamente i desideri dei soggetti, e che dunque l’attività proposta non avrebbe stimolato e avvicinato i piccoli alla ricerca e all’esplorazione delle potenzialità musicali dell’allestimento sonoro. Dopo il primo incontro, invece, mi sono immediatamente accorta che le mie perplessità erano del tutto infondate perché i bambini sono stati completamente attratti dalla “tenda sonora”, scoprendo numerose ed inimmaginabili modalità di gioco, che sono andate ben oltre le mie iniziali aspettative.Sicuramente questa esperienza mi ha dato l’opportunità di mettermi in gioco in prima persona sia come educatrice che come osservatrice e ricercatrice, permettendomi di maturare una profonda consapevolezza sull’importanza di un’educazione musicale precoce. Inoltre il contributo di Delalande e in particolare l’osservazione della “condotte” sonoro-musicali, mi ha donato un ulteriore strumento di osservazione che, diventato patrimonio del mio curricolo formativo, sarà spendibile e utilizzabile in campo lavorativo.

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L’educazione musicale a Monte Quemado in Argentinadi Caterina TelariRelatrice Prof.ssa Anna Rita Addessi

Monte Quemado è la capitale del Copo, uno dei

27 dipartimenti della regione di Santiago del Estero, situato nel territorio del Chaco al centro-nord dell’Argentina. Il sole cocente, il costante vento del nord e le piogge scarse fanno di questa zona una delle più calde dell’intero paese. In questa terra

arida e ostile, la povertà economica e culturale è ancora oggi una realtà che accomuna gran parte delle persone, come di conseguenza il loro forte legame con la religione, la superstizione, le tradizioni e la famiglia.

L’ipotesi della ricercaLa musica è uno degli elementi principali che rimane impresso a chi si appresta a conoscere questa società, sia per l’alto valore che riveste nella cultura sia per la sua continua presenza nella vita delle persone. La particolarità è che il repertorio ascoltato, suonato e ballato è costituito principalmente da musica folklorica locale, con l’esclusione di altri generi come ad esempio la musica internazionale, classica, ma anche quella folklorica di altre regioni argentine. Sono tre i punti fondamentali

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attraverso i quali è possibile sintetizzare la mia ipotesi di ricerca ed è possibile riassumerli nelle seguenti considerazioni:

a causa della forte presenza della musica folklorica all’interno della società, i bambini sono maggiormente influenzati ad apprendere ed apprezzare questo specifico repertorio musicale;

nei contesti informali i bambini sono incoraggiati ed invogliati ad apprendere a suonare e ballare la musica folklorica locale sia dalla società sia dalla famiglia indirettamente attraverso la presenza così frequente di questo tipo di musica, direttamente attraverso le stimolazioni fornite dai genitori che suonando o ballando in casa incoraggiano il bambino ad imitarli;

nei contesti formali l’insegnamento musicale avviene oralmente e non attraverso la musica scritta. Normalmente non vengono incoraggiate l’improvvisazione o l’esplorazione libera degli oggetti sonori, ma si punta soprattutto all’imitazione e alla riproduzione sonora “ad orecchio”.

Metodo di ricerca Come metodologia di ricerca sia nei contesti formali (nella scuola di musica, nelle scuole materne, ecc…) sia nei contesti informali (in famiglia, nelle feste popolari, ecc…) ho utilizzato l’osservazione partecipante, con rilevazione dei dati «carta e matita» e attraverso la videocamera.Molto utili si sono rivelate anche le conversazioni di tipo informale che mi capitava quotidianamente di intrattenere con le educatrici delle scuole materne o con i genitori dei bambini. Infine, per le educatrici delle otto scuole materne presenti nella città, ho utilizzato un questionario a risposta aperta attraverso il quale ho cercato di indagare come veniva organizzato il tempo a scuola e che ruolo rivestivano, se erano previste, le attività di educazione al sonoro. Inoltre, ogni giorno, avevo cura di compilare un diario in cui riportavo tutti i fatti accaduti o le informazioni che riuscivo a raccogliere durante l’arco dell’intera giornata

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(Mantovani, 1998, Rossi, 2003). I luoghi in cui ho svolto gran parte della ricerca sono stati la scuola materna, Mis Primeros Passos, costituita da tre classi di bambini di 3, 4 e 5 anni, e la scuola municipale di musica frequentata prevalentemente da ragazzi e ragazze tra i 6 e i 17 anni. Per quanto riguarda i contesti informali invece, la raccolta dei dati si è svolta prevalentemente durante le feste pubbliche o all’interno delle famiglie.

Analisi dei dati raccolti e conclusioni Dal 22 settembre al 24 dicembre 2007 ho svolto la ricerca sul campo. Ritornata in Italia, mi sono dedicata all’analisi e alla traduzione dei dati raccolti evidenziando in particolare quegli elementi utili per la discussione dell’ipotesi iniziale. Come riportato all’inizio, il repertorio musicale con cui vengono a contatto gli abitanti di Monte Quemado ed in particolare i bambini ha apparentemente due caratteristiche: di essere onnipresente in gran parte delle circostanze e dei momenti della vita delle persone ma allo stesso tempo di essere limitato e chiuso verso qualsiasi altro tipo di musica. Un repertorio con queste caratteristiche gioca un ruolo da protagonista nell’apprendimento e nell’insegnamento musicale influenzando i gusti e le capacità di chi si appresta ad entrare nel mondo della musica. La conferma di ciò è praticamente evidente in tutte le esperienze che ho osservato nei tre mesi di permanenza, soprattutto all’interno della scuola di musica dove gli allievi non conoscono la musica scritta ma riproducono le canzoni ad orecchio o imitando altri che suonano, rendendo così la trasmissione orale il metodo d’insegnamento più efficace.Per quanto riguarda l’apprendimento e l’insegnamento musicale nei contesti informali sia in famiglia che nella società i bambini subiscono un forte incoraggiamento, sia direttamente che indirettamente, ad avvicinarsi alla musica tipica della loro regione. Dai questionari infatti è emerso che la maggior parte dei bambini e delle bambine sanno ballare le danze folkloriche. Inoltre durante una conversazione con Julio, il maestro della scuola di musica, ho avuto la conferma di come siano molti i bambini

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che apprendono a suonare in casa imitando i propri genitori. Ciò che viene continuamente evidenziato e che è facilmente rintracciabile nei dati raccolti ed analizzati, è la marcata divisione dei ruoli musicali a seconda del genere, per cui i maschi vengono maggiormente spinti a suonare e a cantare mentre le femmine soltanto a cantare. Entrambi i sessi invece vengono incoraggiati a ballare in quanto tutte le danze folkloriche locali vengono eseguite in coppia.Nella scuola materna viene poco valorizzata l’attività esplorativa degli oggetti sonori e al contrario le educatrici spronano i bambini a suonare gli strumenti nel modo convenzionale, a cantare con il sottofondo di un CD o a ballare nel modo in cui si balla in televisione. Una conferma di questo è rintracciabile anche nei questionari, dove la maggior parte delle educatrici considera «attività musicale» solo ciò che presuppone canto, ballo o pratica di uno strumento musicale, senza considerare che anche i giochi sonori spontanei dei bambini potrebbero essere favoriti e non sottovalutati in quanto rappresentano uno dei linguaggi espressivi attraverso il quale il bambino comunica. Infine, nella scuola municipale di musica si apprende a suonare attraverso le note delle canzoni folkloriche, anche se ho potuto rilevare una certa volontà di cambiamento, soprattutto in quelle persone che sono costrette a viaggiare fuori dalla città e a venire a contatto con altri tipi di cultura e di conseguenza di repertori musicali. Nelle parole di Julio si rileva proprio la consapevolezza che rendere più ricco il repertorio musicale possa essere considerato un aiuto in più nell’apprendimento e nell’accrescimento delle capacità sonore dei futuri musicisti. Infine, dall’analisi dei dati è emerso un elemento interessante che ha catturato la mia attenzione. Nella società santiagueña inizia a prendere campo la televisione come “oggetto” da imitare, marcando così un forte contrasto tra una società ancora contadina, legata alle tradizioni e alla loro conservazione, e l’entrata prepotente di questo apparecchio elettronico, portatore di un nuovo stile di vita, corrispondente a quello delle società industrializzate, desiderato ed emulato soprattutto dalle nuove

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generazioni. Un esempio di questo passaggio così rapido è rappresentato da una situazione osservata al Jardin in cui le bambine ballavano le canzoni di un telefilm indirizzato prevalentemente ad un pubblico femminile mentre i bambini non venivano coinvolti e nemmeno chiedevano di poter partecipare. Questa divisione tra i due sessi per quanto riguarda la danza è una novità tra i santiagueñi, visto e considerato che quando si tratta di ballare le danze folkloriche regionali nessun bambino o bambina si rifiuta di farlo.Per concludere, questa esperienza in Argentina si è dimostrata importante ed altamente formativa sia per la mia vita in generale, sia per la mia professione di educatrice in particolare. Con il loro esempio di vita quotidiana, gli abitanti di Monte Quemado mi hanno dimostrato come sia possibile vivere e lavorare dignitosamente anche in condizioni di estrema povertà, quando i materiali sono scarsi o non sono “all’ultima moda”. Ciò che ho imparato qui è il sapersi arrangiare con quel poco che si possiede, consapevoli che sarà poi il bambino con la sua fantasia a creare giochi meravigliosi.

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Il maschile nell’educazione della prima infanziadi Carlo GualiniRelatrice Prof.ssa Silvia Leonelli

La scelta del tema Il maschile nell’educazione della prima infanzia nasce dalla mia esperienza di educatore in alcuni nidi d’infanzia in

tre regioni italiane. Poiché nel tempo ho sperimentato come, a partire dalla semplice presentazione della domanda di assunzione, l’elemento di genere assumeva un peso notevole, ora in positivo ora in negativo, ho voluto mettere a confronto la mia esperienza e le mie valutazioni, con le riflessioni disponibili sul tema. La limitatezza della letteratura sul caso italiano mi ha spinto a cercare analisi condotte in altri paesi (ad es. Cameron, 2001; Peeters, 2007; Rolfe, 2005; Sumsion, 2005). La diffusione, anche a livello di senso comune, di modelli educativi paterni/maschili, caratterizzati da un più ampio coinvolgimento nella totalità degli aspetti di cura, si scontra con pratiche istituzionali e individuali spesso in contrasto con tali orientamenti. Il confronto fra l’esperienza personale e queste immagini ha suscitato il mio interesse per un’analisi delle aspettative sociali sul ruolo maschile nell’educazione della prima infanzia e delle profonde contraddizioni ad esse connesse.

Punti salientiNel primo capitolo l’attenzione della tesi, traendo spunto dalla riflessione sullo stretto legame esistente fra i concetti di paternità e maschilità, si concentra sulla costruzione sociale della paternità e sulla conseguente interpretazione di “naturalità” della cura materna. Tale determinazione di senso limita la donna nel ristretto confine del domestico e lascia all’uomo il dominio del mondo costringendolo però, dopo quella corporea della

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gravidanza, ad una nuova forma di (auto)esclusione dalla vita nella sua veste più intima e profonda (Lo Russo, 1995). Allo scopo di analizzare le nuove figure paterne emergenti, con particolare riferimento alla realtà italiana contemporanea, la tesi approfondisce il tema della maschilità nella sua evoluzione storica e sociologica. Emerge un modello di genitorialità caratterizzato da un’accresciuta valenza del ruolo materno e da un parallelo depotenziamento del ruolo paterno che, a fronte di una più ampia dimensione comunicativa e ludica, assume la forma primaria del disimpegno (Maggioni, 2000). All’interno dell’analisi del percorso di costruzione di una scienza della maschilità assume rilevanza l’idea del corpo come agente sociale capace di originare e modellare linee di condotta sociali: una dimensione corporea imprescindibile ma non strettamente determinata in senso biologico (Connell, 1996).

Il secondo capitolo affronta il tema delle ragioni a sostegno dell’aumento della presenza maschile nei servizi alla prima infanzia e degli ostacoli che vi si frappongono. L’idea di fondo è rappresentata dal riconoscimento del positivo influsso sulle future generazioni rappresentato dalla presenza di un modello di ruolo maschile (male role model) al di fuori della famiglia e la conseguente possibilità che i servizi all’infanzia concorrano attivamente alla creazione di una nuova cultura della cura svincolata da barriere di genere. Le differenti convinzioni espresse da ricercatori, genitori, operatori del settore, assumono a volte il carattere di una vera e propria contrapposizione fra chi sostiene la naturale, quasi ovvia differenza fra maschile e femminile e chi ne sottolinea invece l’origine essenzialmente culturale ed esperienziale. Una posizione intermedia assumono i sostenitori della predominanza dell’abilità e del valore professionale dell’educatore/trice, a prescindere dalla componente di genere, e coloro i quali affermano che solo un’intensa e costante interazione fra personale maschile e femminile può produrre effetti positivi in educazione. Viene descritta una situazione complessa, caratterizzata da forti motivazioni verso la professione educativa e dal desiderio di esprimere una “nuova” mascolinità, ma anche da numerosi condizionamenti e ostacoli, sia materiali

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sia culturali, alla creazione di un maggior equilibrio di genere nel settore.

Il terzo capitolo, infine, presenta un quadro del dibattito pedagogico in atto, riguardo al maschile nell’educazione della prima infanzia, secondo una prospettiva di genere. Particolare attenzione viene riservata alla narrazione delle esperienze dirette da parte di educatori, dalle quali emergono forti contraddizioni fra il desiderio di rappresentare un modello alternativo di maschilità e la frequente inconsapevole riproposizione di modelli stereotipati che rafforzano le rigide divisioni fra i sessi inscritte nell’ordine sociale. L’analisi delle modalità di relazione all’interno di gendered organizations evidenzia come il tipo di mascolinità messa in atto dagli uomini nei servizi alla prima infanzia sia di tipo complice, una forma di mascolinità che beneficia della sistematica sottomissione femminile nella società senza però parteciparvi direttamente. Questo tipo di mascolinità, secondo alcune analisi (Sargent, 2005), non sarebbe tanto uno strumento maschile di organizzazione del proprio ambiente lavorativo quanto un artefatto, una costrizione a cui sarebbero spinti dalla gendered organization di cui fanno parte. Gli uomini si rifugerebbero in modelli comportamentali stereotipicamente maschili, finendo per confermare la presunta essenza materna attribuita alla cura, perché messi sotto esame proprio quando si comportano in modo troppo “femminile”, suscitando sospetti e timori di abusi o di inadeguatezza. D’altra parte, in modo paradossale, gli uomini che cercano di mantenere condotte non sessiste, anticonformiste, subiscono la diffidenza da parte di molti uomini e donne.

ConclusioniLa riflessione sul maschile nell’educazione pone il problema se sia ancora possibile basarsi su un’idea essenzialista delle attitudini maschili e femminili, teorizzando di conseguenza la presenza di uomini nei servizi alla prima infanzia che contrappongano maschilità a femminilità o se sia auspicabile il pieno superamento delle opposizioni nella direzione di una pedagogia di genere neutra. In un’ottica problematicista, che rifugga da

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eccessive polarizzazioni, i temi della costruzione sociale della paternità, del potere maschile, della paternità androgina, del paradigma di cura, delle forme di maschilità, emersi dai diversi percorsi di analisi proposti, vanno messi in relazione all’interno di una pedagogia che riconosca e valorizzi la differenza sia a livello di genere sia a livello individuale. Gli uomini, attraverso una rielaborazione cognitiva e personale del paradigma di cura materno ed il recupero del valore della generatività femminile, possono divenire pienamente partecipi del gesto di cura in una dimensione professionale non più caratterizzata da barriere di genere. E’ dalla creazione di uno spazio aperto al confronto che è possibile sostituire all’ordine gerarchico della differenza un ordine ugualitario nel quale gli elementi femminili e maschili rappresentino due aspetti diversi e uguali, dotati cioè di pari dignità e valore se costitutivi di un concetto più ampio di cura che nell’esercizio della responsabilità verso l’altro pone il suo fondamento.

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Uomini e lavoro di cura al nidodi Nicola RagazziniRelatrice Prof.ssa Paola Manuzzi

Risulta evidente come i servizi educativi rivolti ai piccolissimi, sono attualmente abitati e curati professionalmente da personale femminile.

Questa realtà mi ha stimolato ad indagare quali motivi spingono gli uomini a non intraprendere tale carriera, quali strategie potrebbero incrementare il numero di educatori di sesso maschile, ed in quale modo questa figura professionale potrebbe risultare complementare al lavoro di cura delle donne. Il primo capitolo della tesi prende in considerazione alcuni aspetti della cura educativa. Dopo aver analizzato il termine dal punto di vista semantico, ho cercato di delineare quelle che sono le pratiche di cura svolte nell’ambito domestico-familiare e quelle dell’ambito professionale, facendo emergere caratteristiche comuni e divergenti. Queste ultime, non intendono evidenziare una scissione tra i due ambiti, ma sottolineare l’importanza di una continuità educativa tra famiglie e servizi. In termini più concreti ed operativi possiamo affermare che dal domestico e dal professionale emergono due approcci diversi alle pratiche di cura, ma l’uno dovrebbe richiamare caratteristiche, modalità, elementi dell’altro e viceversa; in questo modo la cura ed educazione dei piccoli può essere più ricca e globale. Dal mio studio emerge tuttora la mancanza di un modello di riferimento maschile relativamente alle pratiche di cura, in quanto sia nel domestico che nel professionale, tutto ciò che riguarda le responsabilità in termini di cura ed educazione di bambini e bambine è ancora affidato sostanzialmente alle donne.

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Nonostante i mutamenti socio – culturali degli ultimi decenni1, i quali mostrano una maggior vicinanza degli uomini – padri ai bambini piccoli, la situazione sembra tuttora poco cambiata. È ancora forte la presenza di un condizionamento sociale, che associa tradizionalmente il lavoro di cura alla donna e indica all’uomo professioni caratterizzate dal bisogno di emergere per valorizzarsi ed essere valorizzato. Lo scarso riconoscimento sociale nei confronti dei servizi per l’infanzia, sia in termini educativi che economici, porta gli uomini a scegliere percorsi professionali maggiormente riconosciuti.Il secondo capitolo è incentrato sugli studi fiamminghi condotti da Jan Peeters su questa problematica. Anche nella comunità fiamminga del Belgio ci sono pochissimi uomini che lavorano nei servizi rivolti ai piccolissimi, ma al contrario dell’Italia e di altri paesi, il Belgio ha promosso delle attività che agevolassero la reciprocità dei sessi in educazione e l’incremento di figure professionali nei servizi per l’Infanzia. Nella seconda parte del capitolo ho fornito dei dati numerici sui servizi delle Fiandre ed ho descritto i passaggi che hanno portato alla realizzazione di una campagna promozionale finalizzata all’incremento di educatori uomini, riportando anche i positivi risultati raggiunti grazie a questo progetto intitolato “Personale Maschile nell’Assistenza all’Infanzia”, promosso da diverse organizzazioni. Nell’ultimo capitolo ho illustrato la mia esperienza di tirocinio, durante la quale ho cercato di indagare se e come la figura di educatore può completare in maniera positiva il lavoro di cura delle educatrici donne, consolidato in questi trent’anni di vita dei nidi d’infanzia. Per rendere la ricerca più interessante e completa ho cercato figure professionali maschili che potessero raccontarmi la loro esperienza; a questo proposito una possibilità mi è stata offerta dal nido d’infanzia “Fontanelle” di Imola, dove ho conosciuto i due educatori che attualmente lavorano nel servizio; questo

1 In riferimento al cap. I.2. della tesi

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mi ha consentito di osservarli in alcuni momenti della giornata lavorativa, e di intervistarli facendo loro alcune domande sul mestiere che svolgono. Le stesse domande le ho rivolte ad altri educatori che sono riuscito a contattare grazie al coordinatore pedagogico del servizio di Forlì dove ho svolto tirocinio (nido d’infanzia “Grillo”), il quale ha mostrato fin da subito interesse per l’argomento della tesi. Oltre agli educatori, ho intervistato alcune educatrici per conoscere il livello di gradimento della presenza di personale maschile nei nidi ed ho infine fatto riferimento al diario auto-valutativo, scritto durante il tirocinio con l’obiettivo di interrogarmi, osservando i comportamenti delle educatrici, su come avrei agito in determinate circostanze ed in che cosa il mio comportamento avrebbe potuto divergere, o meno, dal loro. A conclusione della ricerca ho riscontrato quanto le ragioni per le quali sarebbe importante incrementare il numero di uomini nei servizi per la prima infanzia, sono molteplici, come molteplici risultano essere anche gli ostacoli per la loro emancipazione nel settore educativo – assistenziale. Un maggior equilibrio numerico tra i sessi, all’interno dei nidi, potrebbe costituire un elemento di crescita della qualità di questi servizi, perché offrirebbe ai bambini una visione del mondo più completa e reale, facendo loro apprezzare, fin dai primi anni di vita, la diversità come ricchezza.Altri fattori di beneficio conseguenti all’introduzione di uomini nei servizi rivolti ai piccolissimi, sono sicuramente rintracciabili nell’apporto che essi possono offrire al coinvolgimento dei padri durante le attività che il servizio stesso rivolge ai genitori le quali, secondo alcuni dati, mostrano una schiacciante partecipazione femminile (madri) rispetto alla maschile (padri).Infine tali figure possono risultare dei modelli di riferimento dei bambini e bambine, soprattutto per i maschi, i quali da sempre hanno come unica possibilità di confronto all’interno dei servizi, le figure femminili. Esiste allo stesso tempo la presenza di molte barriere che ostacolano l’ingresso degli uomini come educatori dei servizi per l’infanzia, prima fra queste risulta essere ancora legata a stereotipi culturali e sociali che si

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riferiscono al “mito dell’uomo” come colui che mantiene economicamente la famiglia, ed il “mito della donna” come colei che è predisposta per natura ad assumersi la responsabilità della cura.Un’altra importante questione riguarda i bassi salari; tale barriera, anche se dovrebbe interessare entrambi i sessi, tende ad allontanare dai servizi per la prima infanzia soprattutto gli uomini i quali sono maggiormente spinti, da stereotipi culturali, ad inserirsi in percorsi professionali riconosciuti maggiormente a livello sociale e con un conseguente ritorno economico più elevato. Ipotizzo infine quanto la mancanza di dati italiani inerenti a questo fenomeno, rimandino ad un sostanziale disinteresse sociale per quanto concerne l’emancipazione degli uomini nell’assistenza all’infanzia, ma soprattutto per quanto riguarda il bilanciamento, in termini di genere, del personale lavorativo in ogni settore.

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SITOGRAFIA

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Lo sviluppo del linguaggio nella prima infanziaIndagine con il questionario MacArthur

di Giulia M. Dalla Liberarelatrice Prof.ssa Alessandra Sansavini

Ho scelto lo sviluppo linguistico come argomento di tesi già durante il tirocinio del secondo anno accademico; in quell’occasione, in

accordo con le educatrici del nido, decisi di proporre ai bambini un progetto linguistico che consisteva nel leggere loro due libri, nel far raccontare ai bambini la stessa storia usando parole loro, nell’analizzare, dopo aver scelto una lista di parole comuni, quali essi comprendessero e quali no, e se le producessero. L’esperienza mi ha particolarmente coinvolta e soddisfatta ed è per questo che ho ritenuto opportuno affrontare il tema dello sviluppo linguistico in maniera più approfondita, all’interno della tesi di laurea; ciò è stato reso possibile grazie alla prof.ssa Sansavini (docente di psicologia dello sviluppo e coordinatrice del gruppo di ricerca dell’Università di Bologna che studia lo sviluppo linguistico del bambino nei primi anni di vita), che mi ha insegnato a raccogliere i dati sullo sviluppo del linguaggio, in modo rigoroso e scientifico.La metodologia scelta per portare avanti la ricerca sullo sviluppo linguistico nella prima infanzia consiste nell’utilizzo del questionario “MacArthur”, che è il risultato di un lungo e accurato lavoro metodologico svolto dal Center for Research in Language - Università della California e dall’Istituto di Psicologia del Cnr di Roma. I questionari, in generale, permettono di raccogliere informazioni su un consistente numero di bambini e di evidenziarne le differenze e i percorsi individuali; il “MacArthur”, in particolare, consente di valutare la capacità di comprensione e produzione di parole, di raccogliere informazioni attendibili sul corso dello sviluppo

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linguistico e comunicativo partendo dai primi segnali non verbali, attraverso l’espansione del vocabolario, fino all’emergere della grammatica e delle prime combinazioni nei bambini dagli 8 ai 30 mesi d’età grazie alle sue due forme “Gesti e Parole” per i bambini tra gli 8 e i 17 mesi e “Parole e Frasi” per quelli tra i 18 e i 30.Per quanto riguarda il mio lavoro di ricerca mi sono servita solamente della forma “Parole e Frasi” composta da tre sezioni: Sezione 1: “produzione di parole”. 100 parole tra cui nomi, predicati, funtori, suoni della natura e routines.Sezione 2: “come i bambini usano le frasi”. 12 item che contengono sia frasi sintatticamente semplici sia complesse, ulteriormente suddivise in nucleari, complesse, coordinate e subordinate.Sezione 3: uso di indicazione comunicativa, richiestiva, dichiarativa, gioco simbolico, imitazione, comprensione decontestualizzata e modalità di pronuncia. La durata del progetto di tesi è stata di 13 mesi, da febbraio 2006 a febbraio 2007 compresi; al progetto hanno aderito i genitori di 11 bambini dell’asilo nido di Crespellano. Questi bambini, all’inizio della ricerca, avevano dai 14 ai 25 mesi d’età. Nove fra questi 11 bambini a febbraio 2006 av evano già compiuto i 18 mesi, per questo motivo i risultati della ricerca si riferiscono alla fascia d’età che va dai 18 ai 36 mesi; in particolare i mesi in cui sono stati raccolti un maggior numero di dati sono quelli dai 20 ai 33. Gli 11 bambini sono di nazionalità italiana e sono tutti nati a termine; il gruppo era composto da 7 femmine e da 4 maschi e solamente 1 bambino su 11 era primogenito. Il “questionario MacArthur” veniva compilato dai genitori; ogni primo lunedì del mese consegnavo ad ognuno di loro il questionario (forma “Parole e Frasi”), che doveva essere compilato nella settimana in cui cadeva il giorno di nascita del bambino, negli ultimi giorni del mese tornavo al nido per ritirare i questionari compilati e rispondere alle domande e ai dubbi che i genitori avevano incontrato.

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Gli obiettivi del lavoro svolto con gli 11 bambini sono:• constatare come lo sviluppo sia realmente avvenuto, focalizzando

anche l’attenzione sul fenomeno dell’esplosione del vocabolario; • osservare se veramente lo sviluppo linguistico segua le tappe descritte

dai manuali di teoria;• notare le differenze interindividuali, poiché ogni bambino ha uno

sviluppo unico e diverso dagli altri; • considerare i progressi e le regressioni del singolo bambino mese

per mese, in quanto lo sviluppo non avviene in modo perfettamente lineare;

• studiare la correlazione tra produzione n° parole e frasi di tipo A (semplici, telegrafiche) e B (complesse);

• trovare le parole che compaiono prima.

I risultati della ricerca ottenuti con PVB “Parole e Frasi” indicano che:la produzione di parole varia moltissimo da persona a persona ossia,

benché le tappe dello sviluppo del linguaggio da seguire durante la prima infanzia siano le medesime, ognuno le percorre con i propri ritmi d’apprendimento. Ad esempio una bimba all’età di 20 mesi è già in grado di pronunciare più di 50 parole, mentre la metà dei restanti bambini arriva allo stesso livello all’età di 27 mesi. La media di parole prodotte dai bimbi all’età di 20 mesi si aggira intorno alle 25 parole, tra i 26 e i 27 mesi vengono raggiunte le 50 parole e a 33 mesi si superano le 70; l’incremento nella produzione di parole è regolare nell’arco di tempo considerato.

per quanto riguarda la produzione di frasi di tipo A, cioè le frasi “telegrafiche”, gli andamenti di sviluppo di ogni singolo bambino sono molto differenti ma, in media, possiamo notare dei picchi nella produzione all’età di 24 e di 28 mesi, mentre a 31 mesi osserviamo un evidente calo del loro utilizzo. Il calo riguardante la produzione delle frasi di tipo A potrebbe essere dovuto al fatto che le capacità lessicali e morfosintattiche dei bambini aumentano e di conseguenza

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diminuiscono le frasi definite “telegrafiche” o incomplete.la produzione di frasi di tipo B evidenzia una netta divisione tra gli

undici bambini; alcuni di loro hanno una produzione di frasi complete molto bassa o pari a zero per tutto il periodo di tempo preso in considerazione, mentre gli altri, pur a diverse età, presentano aumenti drastici nella produzione di questo tipo di enunciati, dovuti appunto alla maggior presenza di predicati e funtori all’interno del loro vocabolario.

per ciò che concerne il tipo di pronuncia, a 20 mesi il 60 % dei bambini parla sostituendo o omettendo alcune lettere e il 40 % viene compreso solamente dai familiari; al termine del periodo considerato il 75 % parla sostituendo o omettendo dei suoni e il restante 25 % dei bimbi parla già da grande.

è interessante vedere come le parole, le frasi A e B siano tra loro correlate. In tutti i bambini aumenta notevolmente il numero di frasi di tipo B quando essi sono in grado di produrre più del 50% di parole; inoltre l’andamento di produzione delle frasi A e delle frasi B risulta essere simmetrico, questo perché nel momento in cui il bambino impara ad utilizzare i funtori le frasi A diminuiscono e simmetricamente le B aumentano.

la tipologia di parole prodotte sottolinea delle tendenze generali appartenenti a tutti i bambini. I suoni della natura vengono prodotti da ogni bambino in età precoce, sono tra le prime parole a comparire e fin dai 20 mesi la percentuale di suoni prodotti supera l’80 % del totale. Anche per quanto riguarda nomi e routines, già tra i 23 e i 24 mesi, la produzione supera il 50 % ; il perché lo possiamo ritrovare nel fatto che buona parte di queste parole sia legata alla quotidianità che il bambino vive e sperimenta.

La produzione di predicati e funtori, invece, supera il 50 % solo dopo i 30 mesi ( le percentuali si riferiscono al n° di parole presenti nel questionario).

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La tabella che segue riporta i dati relativi alle medie calcolate su tutti i bimbi a quattro diverse età con intervalli di quattro mesi. Possiamo constatare un crescendo in tot. Parole, tot. Frasi e tot. Frasi tipo B; mentre il tot. Frasi tipo A evidenzia un culmine tra i 24 e i 30 mesi per poi scendere sostituita dalle frasi di tipo B ( qui apice a 28 mesi ).

AbilitàMEDIA MEDIA MEDIA MEDIA

20 mesi 24 mesi 28 mesi 33 mesi

TotaleParole

24.8 49.1 58.75 71.5

Totale Frasi

2.8 7.6 10 11.25

n° frasi tipo A

1.4 5.4 6 5.5

n° frasi tipo B

1.4 2.2 4 5.75

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