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Presentazione

In questa selezione Philip Pullman,scrittore inglese pluripremiato egrandissimo narratore, presenta lecinquanta fiabe più emblematiche deifratelli Grimm in una versione ‘limpidacome l’acqua’, rinarrata dalla suainconfondibile voce, compiendoun’eccezionale operazione di riscrittura.Le sue versioni di Raperonzolo,Cenerentola, Cappuccetto Rosso e di

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molte altre fiabe conservano il carattereonirico, magico e mitologico di quellepiù tradizionali, ma allo stesso tempointroducono elementi inediti che lerendono storie nuove, non solointeressanti ‘esercizi’ di un filologoattento e sensibile. Questa antologiadefinitiva garantisce che creature fatate,impavidi eroi e madrine benevoletroveranno un posto nel cuore dei lettoriancora per molti anni a venire.Philip Pullman è uno dei più grandiscrittori inglesi viventi. Ha scrittoromanzi, racconti e lavori teatrali per iquali ha ricevuto innumerevoliriconoscimenti. Per la trilogia Questeoscure materie, edita da Salani, è stato

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insignito nel 1995 della prestigiosaCarnegie Medal. Nel 2005 ha vintol’Astrid Lindgren Memorial Award, ilPremio Nobel della letteratura perragazzi. Per Salani ha pubblicato ancheEro un topo, Il conte Karlstein, Ilrubino di fumo, L’ombra nel Nord, Latigre nel pozzo, La principessa di latta,Lo spaventapasseri e il suo servitore, Ilponte spezzato, Il fiammifero svedese eil segreto dell’amore, Il falsario e ilmanichino di cera, La farfalla tatuata eJack e il Diavolo a molla. Ilcannocchiale d’ambra, il volumeconclusivo di Queste oscure materie, havinto nel 2001 il prestigioso premioinglese Whitbread, attribuito per la

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prima volta a un libro per ragazzi.

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GRIMM TALES FOR YOUNG AND OLDISBN 978-88-6715-650-4

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relativo ai diritti di riproduzione dei testi.In copertina: illustrazione di Henriette Sauvant

© Carl Hanser Verlag München Wien 2004Testi di copertina illustrati da Iacopo Bruno

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Copyright © 2013 Adriano Salani Editores.u.r.l.

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d’autore.È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non

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LE FIABE DEI GRIMM

Per grandi e piccoli

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Introduzione

Nutritocosì a lungo e variamente dalletrame fantastiche della nostra eradesiderai l’imperfetta narrazione che sitrovain leggende, fiabe, quel tono pulitoattraverso i secoli dalle vecchie lingueleggere,nonne del novizio, serene, anonime.... Così il mio narrarevolle essere limpido, non frammentato;i miei personaggi, figure convenzionaliafflitte in minimo grado

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da personalità ed esperienze passate:una strega, un eremita, giovaniinnamorati,quel genere di esseri che richiamiamo daiGrimm,da Jung, Verdi e dalla commedia dell’arte.

Così scrive il poeta americano JamesMerrill all’inizio de ‘Il libro diEphraim’, prima parte del suostraordinario poema The ChangingLight at Sandover (La luce cambia aSandover, 1982). Nel discutere il modoin cui spera di raccontare una storia,distingue due delle maggioricaratteristiche della fiaba, che sono,secondo lui, la voce ‘serena e anonima’che la narra e le ‘figure convenzionali’che la abitano.

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Quando Merrill menziona i Grimm,non deve aggiungere nulla: sappiamotutti cosa intende. Per gran parte deilettori e scrittori occidentali degli ultimidue secoli, le Kinder- undHausmärchen (Fiabe del focolare) deifratelli Grimm sono fonte e origine dellafiaba in occidente, la collezione piùgrande, la più diffusa nel maggiornumero di lingue, la dimora di ciò checonsideriamo unico in quel genere distorie.

Ma se i fratelli Grimm non avesseroraccolto tutte quelle fiabe, senza dubbiol’avrebbe fatto qualcun altro. In effettic’erano già altri che stavano lavorando aqualcosa di simile. I primi anni del

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diciannovesimo secolo furono unmomento di grande fervore intellettualein Germania, in cui studiosi digiurisprudenza, di storia e di linguaesaminavano e discutevano cosasignificasse fondamentalmente esseretedeschi, in un tempo in cui non esistevauna Germania unita, bensì circa trecentostati indipendenti, regni, principati,granducati, ducati, langraviati,margraviati, elettorati, episcopati e viadicendo, i detriti frammentari del SacroRomano Impero.

La biografia dei fratelli Grimm non èeccezionale. Jacob (1785-1863) eWilhelm (1786-1859) erano i maggioridei figli sopravvissuti di Philipp

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Wilhelm Grimm, agiato avvocato diHanau nel principato dell’Assia, e disua moglie Dorothea. Ricevetteroun’educazione classica e furonocresciuti secondo i dettami della Chiesacalvinista riformata, diligenti e seri, conl’intenzione di seguire le orme del padrenella professione legale, nella quale sisarebbero senza dubbio distinti, quandol’improvvisa morte di lui, nel 1796,costrinse la famiglia, che contava seifigli, a dipendere dal sostegno deiparenti della madre. La zia HenrietteZimmer, dama di compagnia alla cortedel principe a Kassel, aiutò Jacob eWilhelm a entrare al Lyzeum, cioè lascuola superiore, dove si diplomarono

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con il massimo dei voti. Ma i soldierano pochi e negli anni dell’universitàa Marburg furono costretti a vivere conpoche risorse.

A Marburg divennero seguaci delprofessor Friedrich Carl von Savigny, lacui idea che la legge si sviluppasse inmodo naturale fuori dalla lingua e dallastoria di un popolo, e che quindi nondovesse essere applicata arbitrariamentedall’alto, indirizzò i Grimm verso lostudio della filologia. Grazie a vonSavigny e alla moglie KunigundeBrentano, fecero anche la conoscenzadel circolo che si raccoglieva intorno aClemens Brentano e Achim von Arnim,che sposò l’altra sorella di Brentano, la

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scrittrice Bettina. Uno dei temiprincipali trattati dal gruppo era ilfolclore tedesco. L’entusiasmo perl’argomento sfociò nel Des KnabenWunderhorn (Il corno magico delfanciullo), una raccolta di canzoni epoesie popolari di tutti i tipi, con unprimo volume che apparve nel 1805 eche acquistò subito notevole fama.

I fratelli Grimm erano naturalmenteinteressati all’argomento, ma anchescettici: in una lettera a Wilhelm nelmaggio del 1809, Jacob manifestòdisapprovazione per il modo in cuiBrentano e von Arnim avevano trattato ilmateriale, tagliando, aggiungendo,modernizzando e riscrivendo nella

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maniera che ritenevano più adatta. Piùtardi i Grimm (e Wilhelm in particolare)sarebbero stati criticati per gli stessimotivi per come avevano gestito le fontiper le Fiabe del focolare.

In ogni caso, la decisione dei Grimmdi raccogliere e pubblicare fiabe non fuun fenomeno isolato, ma parte di undiffuso interesse dell’epoca.

Le fonti a cui attingevano erano siaorali che letterarie. Una cosa chemancarono di fare fu andare nellecampagne a cercare i contadini neicampi e nelle case e trascrivere le lorostorie parola per parola. Alcune delleloro fiabe furono prese direttamente dafonti letterarie e due delle più belle, ‘Il

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pescatore e sua moglie’ (p. 115) e ‘Ilginepro’ (p. 211) vennero mandate loroin forma scritta dal pittore Philipp OttoRunge e loro le riprodussero nel dialettobasso tedesco in cui lui le aveva scritte.Gran parte del resto arrivò loro in formaorale da persone di vari strati dellaborghesia, inclusi amici di famiglia, unadelle quali, Dortchen Wild, figlia di unfarmacista, diventò alla fine moglie diWilhelm Grimm. A distanza di duecentoanni è impossibile dire quanto le lorotrascrizioni fossero accurate, ma lostesso vale per ogni raccolta di fiabe ocanzoni popolari prima dell’era dellaregistrazione su nastro. Ciò che conta èl’energia e l’ardore delle versioni che

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pubblicarono.I fratelli Grimm continuarono a dare

grandi e duraturi contributi allafilologia. La Legge di Grimm, formulatada Jacob, descrisse certi cambiamenti disuono nella storia nella lingua tedesca;insieme lavorarono anche al primogrande dizionario tedesco. Nel 1837accadde l’evento probabilmente piùdrammatico delle loro vite: con altricinque colleghi di università, rifiutaronodi giurare fedeltà al nuovo re diHannover, Ernst August, poiché avevaillegalmente abrogato la costituzione. Diconseguenza furono licenziati dai loroincarichi universitari e costretti adassumere nuove cariche all’università di

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Berlino.Ma i loro nomi sono ricordati

principalmente per le Fiabe delfocolare. La prima edizione fupubblicata nel 1812 e fu seguita da altresei (e fu Wilhelm a svolgere gran partedel lavoro redazionale) fino all’ultimaedizione del 1857, che godette diimmensa fama e, insieme a Le mille euna notte, è la più importante e influenteraccolta di fiabe popolari maipubblicata. Alla fine del diciannovesimosecolo la raccolta si accrebbe e le fiabesi modificarono, diventando, in mano aWilhelm, un po’ più lunghe, in alcunicasi più elaborate, talvolta più pudichee certamente più pie di come erano

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all’inizio.Studiosi di letteratura e folclore, di

storia culturale e politica, teoricifreudiani, junghiani, cristiani, marxisti,strutturalisti, post-strutturalisti,femministe, postmodernisti e di ognialtro tipo di scuola hanno trovato inqueste 210 fiabe una immensa ricchezza.Alcuni dei libri e dei saggi che trovo piùinteressanti sono elencati nellabibliografia e non c’è dubbio che anchealtri abbiano influenzato inconsciamentela mia lettura e ri-narrazione.

Il mio interesse principale però èsempre stato vedere se le fiabefunzionavano come storie. Ciò che hovoluto fare in questo libro è raccontare

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quelle più interessanti, sfrondando tuttociò che potesse impedire loro discorrere liberamente. Non ho intesoriportarle in ambientazioni moderne,darne interpretazioni personali ocomporre variazioni poetiche sulla basedegli originali: ho voluto solo produrneuna versione limpida come l’acqua. Ladomanda che mi ha guidato è: ‘Comeracconterei questa storia se l’avessisentita da qualcuno e volessitramandarla?’ Tutti i cambiamentiapportati sono mirati ad aiutare la storiaa uscire dalla mia voce in modonaturale. Quando, occasionalmente, hopensato che fosse possibile migliorarla,ho fatto solo una o due modifiche nel

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testo stesso o ne ho proposto unamaggiore nella nota che segue la storia(un esempio di ciò si trova in‘Dognipelo’, p. 272, che nell’originalemi sembrava incompleta).

Figure convenzionali

Non c’è psicologia nelle fiabe. Ipersonaggi hanno una vita interioreridotta: i loro fini sono chiari e ovvi.Chi è buono è buono, chi è cattivo ècattivo. Anche quando la principessa di‘Le tre foglie del serpente’ (p. 108),ingiustificatamente e con ingratitudine, sirivolta contro il marito, noi lo sappiamoda subito. Niente viene tenuto nascosto. I

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fremiti e i misteri della coscienzaumana, i bisbigli della memoria, isuggerimenti di un maldigeritorammarico o dubbio o desiderio chesono parte integrante della materia delromanzo moderno sono completamenteassenti. Si potrebbe quasi dire che ipersonaggi delle fiabe non sonorealmente coscienti.

Raramente hanno nomi propri. Ci siriferisce a loro perlopiù con il nomedella professione o della posizionesociale o per un vezzo dell’abito cheindossano: il mugnaio, la principessa, ilcapitano, Pelle d’orso, CappuccettoRosso. Quando hanno un nome, di solitoè Hans, così come Jack è l’eroe di tutte

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le fiabe inglesi.La rappresentazione pittorica più

calzante dei personaggi delle fiabe nonsi trova, a mio avviso, in nessuna dellebelle edizioni illustrate dei Grimm chesono state pubblicate negli anni, bensìnelle figure di cartapesta ritagliata deiteatrini giocattolo. Sono figure a duedimensioni, non a tre. Solo un lato èvisibile al pubblico, ma quel lato èl’unico che serve: l’altro è bianco.Vengono raffigurati in atteggiamenti dievidente intensità e passione, di modoche il loro ruolo sulla scena sialeggibile anche da lontano.

Alcuni dei personaggi della fiabavengono presentati in serie. I dodici

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fratelli dell’omonima storia, le dodiciprincipesse di ‘Le scarpette fatte a pezzia furia di danzare’ (p. 372), i sette nanidi Biancaneve (p. 231) – difficiledistinguerli uno dall’altro. Il riferimentodi James Merrill alla Commediadell’arte è adatto: il personaggio diPulcinella nella commedia era ilsoggetto di una famosa serie di disegnidi Giandomenico Tiepolo (1727-1804) eveniva rappresentato non come unpersonaggio singolo, ma come unamoltitudine di identici imbecilli. In unsolo disegno si può trovare più di unadozzina di Pulcinella che tentanocontemporaneamente di fare una zuppa oche fissano basiti uno struzzo. Il

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realismo ha poco da spartire con lanozione di multiplo: le dodiciprincipesse che escono ogni notte edanzano fino a ridurre le scarpe abrandelli, i sette nani che dormono neiloro letti uno di fianco all’altro, tuttiinsieme esistono in un regno tra lostraordinario e l’assurdo.

Celerità

La sveltezza è una grande virtù dellafiaba. Una buona fiaba si muove a unavelocità onirica da un evento all’altro,fermandosi soltanto per dire ciò che ènecessario e niente di più. Le fiabemigliori sono esempi perfetti di cosa è

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essenziale e cosa non lo è:nell’immagine di Rudyard Kipling ifuochi ardono grazie al fatto che tutte leceneri sono state spazzate via.

L’incipit, ad esempio. Non servealtro che l’espressione ‘C’era unavolta...’ e via:

C’era una volta un poveruomo che nonpoteva più dar da mangiare a suo figlio.Quando il figlio lo capì, disse: «Papà, nonha senso che io stia qui. Sono solo unpeso per te. Me ne andrò di casa ecercherò di guadagnarmi da vivere».

(‘Le tre foglie del serpente’, p. 108)Qualche paragrafo dopo, si è già sposatocon la figlia del re.

Oppure:C’era una volta un agiato contadino chepossedeva denaro e terreni, ma

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nonostante tutte le sue ricchezze c’eraqualcosa che gli mancava nella vita. Lui ela moglie non avevano figli. Quando glialtri contadini lo incontravano in città oal mercato, spesso lo prendevano in giro,chiedendogli come mai lui e sua moglienon fossero ancora riusciti in ciò chepersino alle loro bestie riuscivanaturalmente. Forse non sapevano comesi fa? Un bel giorno perse le staffe etornato a casa giurò: «Avrò un figlio,anche se dovesse essere un porcospino».

(‘Hans Porcospino’, p. 339)La velocità è esilarante. Ma si puòandare tanto veloce solo se si viaggiacon bagaglio leggero, dunque non èpresente nessuna della informazioni chesi cercherebbero in un’opera di finzione:nome, aspetto, provenienza, contestosociale ecc. E questa, ovviamente, è una

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delle spiegazioni della piattezza deipersonaggi. La fiaba si interessa moltodi più a ciò che accade o che ipersonaggi fanno accadere che alla loroindividualità.

Quando si scrive una fiaba di questogenere, non è facile essere sicuri diquali siano gli eventi necessari e quali isuperflui. Chiunque voglia sapere comeraccontare una fiaba non può nonstudiarsene una come ‘I musicanti diBrema’ (p. 167) che ècontemporaneamente una storiellaassurda e un capolavoro in cui lanarrazione non contiene nemmeno unagoccia di inutilità. Ogni paragrafo servea far avanzare la storia.

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Figure retoriche e descrizioni

Non ci sono figure retoriche nelle fiabe,a parte le più ovvie. Bianca come laneve, rossa come il sangue: di queste sitratta. Non ci sono nemmeno descrizionidettagliate della natura o degli individui.Una foresta è cupa, la principessa èbella, i suoi capelli sono come l’oro:non c’è bisogno di dire altro. Quando sivuole sapere soltanto cosa accade dopo,le belle descrizioni sono solo snervanti.

In una storia, però, c’è un passaggioche combina con successo una belladescrizione con il racconto degli eventiin modo che non possono fare a menouna dell’altro. La storia è ‘Il ginepro’ eil passaggio di cui parlo viene dopo che

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la moglie ha espresso il desiderio diavere un bambino rosso come il sanguee bianco come la neve (p. 211). Ilpassaggio collega la gravidanza con iltrascorrere delle stagioni:

Passò un mese e la neve scomparve.Passarono due mesi e tutto rinverdì.Passarono tre mesi e sbocciarono i

fiori.Passarono quattro mesi e tutti i

ramoscelli degli alberi si rinforzarono einfoltirono e gli uccelli cantarono cosìforte da far risuonare tutto il bosco e dafar cadere le gemme.

Passarono cinque mesi e la donna sitrovò di nuovo sotto il ginepro. Mandavaun profumo così dolce che il cuore lebalzò nel petto e cadde in ginocchiopiena di gioia.

Passarono sei mesi, i frutti crebbero

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sodi e pesanti e la donna ammutolì.Dopo sette mesi, raccolse le bacche di

ginepro e ne mangiò così tante chedivenne triste e si ammalò.

Allo scadere dell’ottavo mese, chiamòil marito e gli disse, piangendo: «Semuoio, seppelliscimi sotto il ginepro».

È una meraviglia, ma (come suggerisconella nota alla storia, p. 222), lo è in unmodo bizzarro: c’è ben poco che unnarratore possa fare per migliorarla.Deve essere resa esattamente com’è oalmeno ai diversi mesi devono essereattribuite caratteristiche ugualmentediverse, che devono essere collegateattentamente nello stesso modosignificativo al crescere del bambino nelventre della mamma e al crescere delginepro che sarà determinante più tardi

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nella risurrezione.Comunque, questa è una grande e rara

eccezione. Nella maggior parte dellefiabe, dove i personaggi sono piatti, ladescrizione è assente. Nelle edizioni piùtarde, è vero, la narrazione di Wilhelmdiventa un po’ più ornata e fantasiosa,ma il vero interesse continua a poggiaresu ciò che accade e ciò che accadedopo. Le frasi di rito sono così comuni,la mancanza di interesse per i particolaridelle cose così diffusa che risulta quasiscioccante leggere una frase comequesta in ‘Jorinda e Joringhello’ (p.281):

Era una bella sera: il sole brillava caldosui tronchi degli alberi e sullo sfondoverde scuro del cupo bosco, e le tortore

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tubavano addolorate sui vecchi faggi.Improvvisamente questa storia smette

di sembrare una fiaba e inizia asomigliare a qualcosa di letterarioscritto da un autore romantico comeNovalis o Jean Paul. La serena, anonimarelazione di eventi lascia spazio, per unafrase, a una sensibilità individuale: unamente solitaria ha avuto una certaimpressione della natura, ha visto deidettagli con l’occhio della mente e li hatrascritti. La padronanza delle figureretoriche e la capacità descrittiva sonociò che rende unico uno scrittore o unascrittrice, ma le fiabe non provengonointere e inalterate dalla mente di unsingolo scrittore, dopotutto: unicità eoriginalità nelle fiabe non sono di

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nessun interesse.

Questo non è un testo

Il preludio di William Wordsworth, ol’Ulisse di Joyce, o qualsiasi altra operaletteraria, esistono prima di tutto cometesti. Le parole sulla pagina licostituiscono. Lavoro del redattore o diun critico letterario è prestare attenzionea ciò che quelle parole sonoesattamente, chiarire i punti in cui sonopresenti letture divergenti a secondadell’edizione, assicurarsi che il lettoreincontri esattamente il testo in cuiconsiste l’opera.

Ma una fiaba non è un testo. È una

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trascrizione fatta in una o piùcircostanze delle parole pronunciate dauna delle persone che hanno raccontatola storia. E sono molte le cose che,ovviamente, influiscono sulle parole chevengono trascritte. Un narratore puòraccontare una fiaba in modo più ricco estravagante un giorno di un altro giornoin cui è stanco o non è dell’umoregiusto. Anche il trascrittore può fallire:un’infreddatura può impedirgli di udirebene o interrompere la trascrizione constarnuti e colpi di tosse. C’è poi un’altraquestione: una fiaba di per sé buona puòcapitare in bocca a un narratore nonadeguato.

Questo costituisce un fatto

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importante, poiché i narratori varianonel talento, nelle tecniche enell’atteggiamento nei confronti delprocesso. I Grimm furono altamenteimpressionati dall’abilità di una delleloro fonti, Dorothea Viehmann, cheriusciva a ripetere una fiaba due volte diseguito usando sempre le stesse parole,cosa che facilitava la trascrizione; lefiabe che arrivano da lei sonocaratteristicamente strutturate con cura eprecisione mirabili. Anche io mi sonoimpressionato quando ho lavorato sullesue fiabe nel preparare questo libro.

Similmente, un narratore può averetalento per la commedia, uno per lasuspense e la teatralità, un altro per il

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pathos e il sentimento. Naturalmenteognuno sceglierà le fiabe che meglioincontrano il suo talento. Raccontandouna storia, il maestro della commedia Xinventerà dettagli ridicoli o episodibuffi, alterandola un pochino; allo stessomodo la signora della suspense Y,quando racconterà una storia di terrore,farà correre l’inventiva in quelladirezione e le sue trovate e le modifichediventeranno parte della tradizione diquella fiaba, fino a che non saràdimenticata o abbellita o ancoramigliorata da altri.

La fiaba vive in uno stato perpetuo didivenire e di alterazione. Restare su unasola versione o traduzione è come

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chiudere in gabbia un pettirosso.1 Se tu,lettore, vuoi raccontare una delle fiaberaccolte in questo libro, spero che tisentirai in diritto di non essere piùfedele di quanto non desideri essere. Seiperfettamente libero di inventare altridettagli oltre quelli che ho trasferito quio inventato. Anzi, non sei solamentelibero di farlo: hai il preciso dovere direndere tua la storia.2 Una fiaba non è untesto.

Un tono pulito

Chi scrive una fiaba potrà maiavvicinarsi al tono ideale ‘sereno eanonimo’ citato da James Merrill?

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Certo, potrebbe anche non volerlo. Cisono state tante versioni di queste fiabe– e tante altre ce ne saranno – colmedelle ossessioni oscure, dellepersonalità brillanti o delle passionipolitiche di chi le ha scritte. Le fiabepossono tollerarlo. Ma anche volendoessere sereni e anonimi, credo che siaimpossibile riuscirci completamente eche le nostre impronte stilistichepersonali restino impresse su ogniparagrafo senza che ce ne accorgiamo.

Mi sembra che l’unica cosa da faresia cercare la chiarezza smettendo dipreoccuparsene. Raccontare questestorie è una gioia e non possiamorovinarcela con l’ansia. Un piacevole

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sollievo, come l’arietta che rinfresca ilgiovane conte steso a riposare in ‘Laguardiana delle oche alla fonte’ (p. 308),offerto allo scrittore che capisce comenon sia necessario inventare: la sostanzadella fiaba c’è già, così come lasequenza di accordi di una canzone è giàlì pronta per un musicista jazz e il nostrocompito è di passare da accordo adaccordo, da evento a evento, leggeri efluttuanti. Come il jazz, l’arte diraccontare storie è una performance; eanche scrivere lo è.

Infine vorrei dire a chiunque vorràraccontare queste storie di non averpaura di essere superstizioso. Se aveteuna penna fortunata, usatela. Se riuscite

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a parlare in maniera più intensa e argutaindossando un calzino rosso e uno blu,vestitevi così. Io, quando lavoro, sonosuperstiziosissimo. E la miasuperstizione è legata alla voce cheracconta. Credo che ogni storia siaaffidata alle cure di un suo spiritellopersonale, a cui noi diamo voce quandola raccontiamo, e credo anche che laraccontiamo tanto meglio se ciavviciniamo allo spiritello con un certogrado di rispetto e cortesia. Questispiriti possono essere vecchi o giovani,maschi o femmine, sentimentali o cinici,scettici o creduloni e così via e, inoltre,sono del tutto amorali: come gli spiritidell’aria che aiutano il forte Hans a

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uscire dalla cava (p. 408), gli spiritellidelle storie vogliono aiutare chiunqueabbia l’anello, chiunque racconti lastoria. All’accusa che queste sonoassurdità e che per raccontare una storianon serve altro che l’umanaimmaginazione, io rispondo: «Certo, e lamia immaginazione funziona così».

Con queste storie possiamo fare delnostro meglio e accorgerci che non èancora abbastanza. Suppongo che le piùbelle abbiano la qualità che il grandepianista Artur Schnabel attribuiva allesonate di Mozart: sono troppo facili peri bambini e troppo difficili per gliadulti.

Queste cinquanta fiabe sono, credo,

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la crema delle Fiabe del focolare. Hofatto più che potevo per gli spiritelli chele assistono, così come hanno fattoDorothea Viehmann, Philipp Otto Runge,Dortchen Wild e tutti gli altri narratori ilcui lavoro è stato conservato dai grandifratelli Grimm. E spero che noi tutti,narratori e uditori, vivremo per semprefelici e contenti.

Philip Pullman, 2012

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Bibliografia

L’edizione tedesca di Kinder- undHausmärchen [Children’s and HouseholdTales (Fiabe del focolare)] di Jacob e WilhelmGrimm sulla quale ho lavorato è quella di piùfacile reperibilità, la settima edizione del1857. È pubblicata da Wilhelm GoldmannVerlag. I numeri relativi al ‘tipo di fiaba’ che hofornito in nota a ciascun racconto sono basatisu The Types of International Folktales, ilgrande indice delle tipologie di fiabe compilatooriginariamente da Antti Aarne e pubblicato nel1910, rivisto da Stith Thompson nel 1928 e nel1961, e più recentemente (2004) da Hans-Jörg

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Uther (vedi sotto per le informazionicomplete), da cui la sigla ‘ATU’ oppure ‘AT’ nelcaso dell’edizione più antica. Questa sezioneinclude inoltre le opere che ho trovato più utilie interessanti.Afanasjev, Alexander, Russian Fairy Tales, tr.

Norbert Guterman (New York: PantheonBooks, 1945); in it. Antiche fiabe russe(Torino: Einaudi, 1974), Fiabe russe(Milano: Rizzoli, 2000)

The Arabian Nights: Tales of 1001 Nights, tr.Malcolm C. Lyons with Ursula Lyons,introduced and annotated by Robert Irwin(London: Penguin Books, 2008); in it. Lemille e una notte, a cura di FrancescoGabrieli (Torino: Einaudi, 1973)

Ashliman, D. L., A Guide to Folktales in theEnglish Language (New York: GreenwoodPress, 1987)

Bettelheim, Bruno, The Uses of Enchantment(London: Peregrine Books, 1978); trad. it. Il

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mondo incantato. Uso, importanza esignificati psicoanalitici delle fiabe(Milano: Feltrinelli, 2003)

Briggs, Katharine M., A Dictionary of Fairies,Hobgoblins, Brownies, Bogies and OtherSupernatural Creatures (London: AllenLane, 1976); trad. it. Dizionario di fate,gnomi, folletti e altri esseri fatati (Roma:Avagliano, 2009)

— Folk Tales of Britain (London: FolioSociety, 2011)

— Fiabe popolari inglesi (Torino: Einaudi,1996)

Calvino, Italo, Fiabe italiane (Milano:Mondadori, 1993); Italian Folk Tales, tr.George Martin (London: Penguin Books,1982)

Chandler Harris, Joel, The Complete Tales ofUncle Remus (New York: Houghton Mifflin,1955)

Esopo, Favole (Milano: Rizzoli, 1998); The

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Complete Fables, tr. Olivia Temple(London: Penguin Books, 1998)

Grimm, Jacob and Wilhelm, Brothers Grimm:Selected Tales, tr. David Luke, GilbertMcKay and Philip Schofield (London:Penguin Books, 1982)

— The Penguin Complete Grimms’ Tales forYoung and Old, tr. Ralph Mannheim(London: Penguin Books, 1984)

— The Complete Fairy Tales, tr. Jack Zipes(London: Vintage, 2007)

— The Complete Grimm’s Fairy Tales, tr.Margaret Hunt, ed. James Stern, introducedby Padraic Colum and with a commentary byJoseph Campbell (Abingdon: Routledge,2002); trad. it. Fiabe (Torino: Einaudi,1951)

Lang, Andrew, Crimson Fairy Book (NewYork: Dover Publications, 1967)

— Pink Fairy Book (New York: DoverPublications, 2008)

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Perrault, Charles, Perrault’s Complete FairyTales, tr. A. E. Johnson and others (London:Puffin Books, 1999), trad. it. Tutte le fiabe(Roma: Donzelli, 2011)

Philip, Neil, The Cinderella Story (London:Penguin Books, 1989); trad. it. Fiabe datutto il mondo (Milano: Edizioni San Paolo,1998)

Ransome, Arthur, Old Peter’s Russian Tales(London: Puffin Books, 1974)

Schmiesing, Ann, ‘Des Knaben Wunderhornand the German Volkslied in the Eighteenthand Nineteenth Centuries’(http://mahlerfest.org/mfXIV/schmiesing_lecture.html

Tatar, Maria, The Hard Facts of the Grimms’Fairy Tales (Princeton: PrincetonUniversity Press, 1987)

Uther, Hans-Jörg, The Types of InternationalFolktales: A Classification andBibliography Based on the System of AnttiAarne and Stith Thompson, vols. 1–3, FF

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Communications No. 284–86 (Helsinki:Academia Scientiarum Fennica, 2004)

Warner, Marina, From the Beast to the Blonde:Of Fairy Tales and their Tellers (London:Vintage, 1995)

— No Go the Bogeyman: Scaring, Lulling,and Making Mock (London: Vintage, 2000)

Zipes, Jack, The Brothers Grimm: FromEnchanted Forests to the Modern World(New York: Palgrave Macmillan, 2002)

— Why Fairy Tales Stick: The Evolution andRelevance of a Genre (New York:Routledge, 2006)

— (ed.), The Great Fairy Tale Tradition:From Straparola and Basile to theBrothers Grimm (New York: W. W. Nortonand Company, 2001)

— (ed.), The Oxford Companion to FairyTales (Oxford: Oxford University Press,2000)

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UNO

IL PRINCIPERANOCCHIO,

O ENRICO DI FERRO

Nei tempi antichi, quando i desideriservivano ancora a qualcosa, viveva unre, le cui figlie erano tutte belle, ma lapiù giovane era così graziosa chepersino il sole, che tante cose ha visto,era preso da stupore ogni volta che lesplendeva sul viso. Non molto lontano

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dal palazzo del re, c’era una foresta nerae cupa e sotto un tiglio della forestac’era un pozzo. Nelle ore più calde, laprincipessa era solita recarsi nellaforesta e sedersi sul bordo del pozzo, dacui veniva una meravigliosa frescura.

Per ingannare il tempo aveva unapalla d’oro, la lanciava in aria e lariprendeva. Era il suo gioco preferito.Ma un giorno la lanciò sbadatamente enon riuscì a riafferrarla. La palla rotolòvia lontano verso il pozzo, passò oltre ilbordo e scomparve.

La principessa la rincorse e guardògiù dentro l’acqua, ma era così profondache la palla non si vedeva. Non riuscivanemmeno a scorgere il fondo del pozzo.

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Cominciò a piangere sempre piùforte, inconsolabile. Ma proprio mentrepiangeva e singhiozzava, qualcunoparlò.

«Che succede, principessa? Piangetecosì amaramente che farestecommuovere un sasso».

Lei si guardò intorno per capire dadove venisse la voce e vide il bruttotestone di un ranocchio spuntaredall’acqua.

«Ah, sei tu, vecchio sguazzatore»disse lei. «Piango perché la palla d’oromi è caduta nell’acqua, che è tantoprofonda, e non la vedo più».

«Be’, allora puoi smettere dipiangere» disse il ranocchio. «Ti aiuto

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io, ma se ti riporto la palla tu che cosami dai?»

«Tutto quello che vuoi, ranocchiomio! Qualunque cosa! I miei vestiti, lemie perle, i miei gioielli, persino lacorona d’oro che ho in testa».

«Non li voglio i tuoi vestiti, e i tuoigioielli e la tua corona d’oro non fannoper me, ma se mi amerai e mi terraicome amico e compagno di giochi, se mifarai sedere vicino a te a tavola e mifarai mangiare dal tuo piatto e bere daltuo bicchiere, e se mi farai dormire neltuo letto, allora mi tufferò in acqua e tiriporterò la palla d’oro».

La principessa pensò: ‘Ma che dicequesto stupido ranocchio? Può pensare

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quello che vuole, ma deve starsene alposto suo, nell’acqua. Forse però puòprendermi la palla’. Ovviamente nondisse nulla di ciò. Disse invece: «Sì, sì,ti prometto che farò tutte quelle cose, semi riporti la palla».

Non appena il ranocchio le sentì diredi sì, infilò la testa sott’acqua e siimmerse fino al fondo. Un momentodopo, tornò nuotando con la palla inbocca e la lanciò sull’erba.

La principessa era così felice che laafferrò e corse subito via.

«Aspetta, aspetta!» disse ilranocchio. «Portami con te! Non riescoa saltellare tanto veloce per startidietro!»

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Ma a lei non importava. Tornò a casain tutta fretta e si dimenticò delranocchio, che dovette tornarsene giùnel suo pozzo.

Il giorno seguente, la principessa eraseduta a tavola con suo padre il re e tuttii cortigiani e spazzolava via il cibo dalsuo piatto d’oro quando qualcosa arrivòsaltellando sugli scalini di marmo: plipplop, plip plop. Una volta in cima, bussòalla porta e disse: «Principessa!Principessina! Aprimi!»

Lei corse a vedere chi era, aprì laporta e trovò il ranocchio.

Spaventata, la richiuse di colpo etornò di corsa a tavola.

Il re si accorse che il cuore le batteva

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forte e disse: «Cos’è che ti fa paura,bambina mia? C’è un gigante dietro laporta?»

«Oh no» disse lei, «non è un gigante,ma un orribile ranocchio».

«E cosa vuole da te questoranocchio?»

«Oh, papà, ieri mentre giocavo nellaforesta vicino al pozzo, la palla d’oromi è caduta in acqua. Mi sono messa apiangere fortissimo, allora il ranocchioè andato a riprendermela e, dato cheinsisteva, ho dovuto promettergli diprenderlo come compagno di giochi. Manon pensavo che sarebbe davvero uscitodall’acqua. E adesso è là, fuori dallaporta, e vuole entrare!»

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Bussarono una seconda volta e unavoce disse:

«Principessa, principessina,apri la porta e lasciami entrare!O ciò che hai promesso, reale bambinaaltro non è che volermi ingannare.La promessa mantieni, principessina,apri la porta e lasciami entrare!»Il re disse: «Se hai fatto una

promessa, la devi mantenere. Vai adaprirgli».

Lei aprì la porta e il ranocchiosaltellò dentro e saltellò fino alla suasedia.

«Tirami su» disse. «Mi voglio sederevicino a te».

La principessa non voleva, ma il reordinò: «Su, fai come ti dice».

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Così lo tirò su. Una volta sulla sedia,il ranocchio espresse la volontà di starea tavola, così la principessa dovettemetterlo lì sopra, e poi lui disse:«Avvicinami un po’ il tuo piatto d’oro,così posso mangiare con te».

Lei lo avvicinò, ma si capivabenissimo che non ne era affattocontenta. In compenso il ranocchio erafelicissimo: mangiò di gusto, mentre allaprincipessa andava di traverso ogniboccone.

Alla fine il ranocchio disse: «Bene,sono sazio, grazie, vorrei andare a letto.Portami su in camera tua e fai preparareil letto con le lenzuola di seta e poiandremo a dormire».

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La principessa iniziò a piangere, lapelle fredda del ranocchio le mettevapaura. Tremava al solo pensiero diritrovarselo nel suo lettino tutto lindo.Ma il re disse, accigliato: «Non dovrestidisprezzare chi ti ha aiutato quando eriin difficoltà!»

Allora lei prese il ranocchio tra ilpollice e l’indice, lo appoggiò a terradavanti alla camera e serrò la porta.

Ma il ranocchio continuava a bussaredicendo: «Lasciami entrare! Lasciamientrare!»

Allora lei aprì e disse: «Va bene,entra, ma dormirai sul pavimento».

Lo mise a dormire ai piedi del letto.E quello continuava a dire: «Fammi

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salire! Fammi salire! Anch’io sonostanco come te».

«Oh santa pazienza!» disse lei e loraccolse e lo mise sul letto nel punto piùlontano.

«Più vicino! Più vicino!» riprendevalui.

Fu troppo. In uno scatto di rabbia, laprincipessa prese il ranocchio e loscaraventò contro il muro. E quandoricadde sul letto, che sorpresa! Non erapiù un ranocchio. Era diventato ungiovane principe dai begli occhi ridenti.

E lei lo amò e lo accettò comecompagno, proprio come il re si eraaugurato. Il principe le disse che unastrega cattiva gli aveva fatto un

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incantesimo e che solo lei, laprincipessa, avrebbe potuto salvarlo dalpozzo. Inoltre, il giorno seguente unacarrozza li avrebbe portati nel regno delprincipe. Poi si addormentarono l’unoaccanto all’altra.

Il mattino seguente, appena svegli,una carrozza li portò fuori dal palazzo,proprio come il principe aveva detto.Era tirata da otto cavalli ornati di piumedi struzzo che ondeggiavano sulle teste ecatenelle d’oro luccicanti tra le briglie.Sulla carrozza, dietro, c’era il FedeleEnrico. Era il servitore del principe che,venuto a sapere che il suo signore erastato trasformato in un ranocchio, erarimasto talmente sgomento da andare

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dritto dritto dal fabbro a ordinargli trecerchi di ferro da mettersi intorno alcuore perché non gli scoppiasse daldolore.

Il Fedele Enrico li aiutò a salire incarrozza e prese posto dietro. Era colmodi gioia nel rivedere il suo principe.

Erano in viaggio da poco, quando ilprincipe udì un forte schianto. Si voltò edisse: «Enrico, la carrozza si starompendo!»

«No, no, signore mio, è solo il miocuore. Quando stavate nel pozzo ederavate un ranocchio, soffrivo così tantoche mi sono fasciato il cuore con cerchidi ferro, perché il ferro è più forte deldolore. Ma l’affetto è più forte del ferro

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e, ora che siete di nuovo un uomo, icerchi stanno cedendo».

E sentirono quello schianto ancoradue volte e ogni volta pensarono fosse lacarrozza, ma ogni volta si sbagliavano:era un cerchio di ferro che si staccavadal cuore del Fedele Enrico, ora che ilsuo signore era salvo.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 440, ‘The Frog King’ (Ilprincipe ranocchio).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmdalla famiglia Wild.Storie simili: Katharine M. Briggs, ‘The Frog’,‘The Frog Prince’, ‘The Frog Sweetheart’, ‘ThePaddo’ (Folk Tales of Britain).Una delle fiabe meglio conosciute. La

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questione centrale del ranocchio repellente chesi trasforma in un principe è così accattivante epiena di implicazioni morali da essere diventatametafora dell’esperienza umana. Tuttiricorderanno che il ranocchio diventa principenel momento in cui la principessa lo bacia. Mail narratore dei Grimm la sa diversamente ecosì anche i narratori delle versioni dellaBriggs, in cui il ranocchio deve esseredecapitato dalla principessa per potersitrasformare. In ogni caso, sul bacio c’è moltoda dire. Ormai rappresenta, in sé, una parte delfolclore e cos’altro può implicare il desideriodi dormire con la principessa?

Non c’è dubbio che il ranocchio diventi unprincipe (ein Königsohn) nonostante nel titolooriginale della storia venga definito re (‘DerFroschkönig’). Forse, essendo stato ranocchiouna volta, continua a essere associato a quellafigura anche quando eredita il regno. Non sonocose che si dimentichino.

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La figura di Enrico di Ferro spunta dal nullaalla fine della fiaba e ha così poco a che farecon il resto che viene quasi sempredimenticata, benché molto probabilmente fossestata considerata essenziale, dato che comparenel titolo. I cerchi di ferro sono un’immaginetalmente toccante che meriterebbero una storiaa sé.

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DUE

IL GATTO E IL TOPOVANNO

A VIVERE INSIEME

C’era una volta un gatto che aveva fattoamicizia con un topo. Gli aveva fatto unatale sviolinata sul calore dell’affetto chesentiva, su quanto era gentile e prudente,su come sapeva muovere la coda ameraviglia e così via, che alla fine iltopo acconsentì ad andarci a vivere

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insieme.«Però dobbiamo fare provviste per

l’inverno» disse il gatto. «Altrimenti poici viene fame proprio nel momento incui abbiamo più bisogno di cibo. E untopolino come te non può uscire alfreddo per andare a procurarselo. Anchese non muori di un malanno, sicuramentefinisci in trappola».

Il topo pensò che era davvero unasaggia idea, allora misero insieme isoldi e comprarono un vaso di strutto.Ma il problema era dove metterlo. Nediscussero a lungo e alla fine il gattodisse: «Guarda, secondo me il postomigliore è la chiesa. A nessuno verrebbein mente di andare a rubare lì. Lo

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mettiamo sotto l’altare e non lotocchiamo fino a che non ne abbiamodavvero bisogno».

Così nascosero il vaso in chiesa. Manon passò molto tempo che il gatto iniziòad avere una voglia matta di quellostrutto delizioso, così disse al topo:«Ah, ecco cosa volevo dirti: a miacugina è appena nato un figlio tuttobianco con macchioline marroni».

«Oh, che amore!» disse il topo.«Sì, e mi hanno chiesto di fargli da

padrino. Ti dispiace se ti lascio da soloa sbrigare le faccende di casa per unagiornata e lo tengo a battesimo?»

«Figurati» disse il topo. «Ci sarà disicuro un ricco banchetto. Se trovi

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qualche bel boccone, pensami. Quantomi piacerebbe assaggiare quel dolcevino rosso che c’è ai battesimi».

Ovviamente, la storia del gatto erauna panzana. Cugine non ne aveva enessuno che lo conoscesse si sarebbemai sognato di fargli fare da padrino. Sene andò dritto alla chiesa, strisciò sottol’altare, aprì il tappo del vaso di struttoe leccò via la pellicola formatasi insuperficie.

Poi si fece una placida passeggiatinasui tetti come suo solito. Quindi si steseal sole leccandosi i baffi al dolcepensiero dello strutto. Tornò a casaverso sera.

«Bentornato!» disse il topo. «Hai

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passato una buona giornata? Come hannochiamato il piccolino?»

«Pellemangiata» disse il gatto confreddezza, scrutandosi attentamente lezampe.

«Pellemangiata? Che strano nome perun gattino» disse il topo. «È un vecchionome di famiglia?»

«A me non sembra per niente strano»disse il gatto. «Non più strano diRubabriciole, come si chiamano tutti ituoi figliocci».

Non molto tempo dopo, al gattovenne di nuovo voglia di strutto e disseal topo: «Caro amico, posso chiederti unfavore? Mi hanno chiesto di fare dapadrino a un altro neonato e, dato che ha

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un anello bianco intorno al collo,sarebbe brutto rifiutare. Puoi pensare tualle faccende? Sarò di ritorno entrosera».

Il buon topo disse che non era affattoun problema e augurò al gatto una buonagiornata. Il gatto uscì di corsa e strisciòlungo le mura della città in direzionedella chiesa, ci si infilò di soppiatto e sileccò via metà del vaso di strutto.

‘Non c’è niente di meglio di quel chesi mangia da soli’ pensò.

Quando tornò a casa il topo disse:«Come hanno chiamato il piccolo?»

«Mezzomangiato» disse il gatto.«Mezzomangiato? Ma che razza di

nome è? Mai sentita una cosa del genere.

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Sono sicuro che non esiste nelcalendario dei santi».

Al ricordo del sapore dello struttotanto grasso e unto, al gatto tornò prestol’acquolina in bocca.

«Non c’è due senza tre» disse ilgatto. «Pensa un po’, mi hanno chiestoancora di fare da padrino. Stavolta ilpiccolo è tutto nero, nemmeno un pelobianco, a parte le zampe. È una verararità, sai, non accade spesso. Mi lasciandare, vero?»

«Pellemangiata? Mezzomangiato?»disse il topo. «Che nomi strani avetenella tua famiglia! Mi fanno sorgerequalche dubbio, veramente».

«Oh, uffa» disse il gatto. «Te ne stai

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in casa da mattina a sera a trastullarti lacoda e ti vengono in mente un mucchiodi stupidaggini. Dovresti prendere unpo’ d’aria fresca».

Al topo i dubbi restarono e, inassenza del gatto, lavorò sodo perrendere la casa pulita e in ordine.

Nel frattempo il gatto era in chiesa,impegnato a leccarsi via lo strutto dalvaso. Dovette usare la zampa perraccogliere quel che restava, poi sisedette ad ammirare il proprio riflessosul fondo del vaso.

‘Che dolce dolore, vederlo vuoto’pensò.

Era notte inoltrata quando se ne tornòdondolando verso casa. Appena

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rientrato, il topo gli chiese che nomeavessero dato al piccolo.

«Credo che nemmeno questo tipiacerà» disse il gatto. «L’hannochiamato Tuttomangiato».

«Tuttomangiato!» gridò il topo. «Oh,caro mio, in tutta sincerità la cosa mipreoccupa. Non ho mai visto scritto danessuna parte un nome così. Chesignifica?»

Si arrotolò la coda intorno al corpo eandò a dormire.

Dopo quella volta, nessuno chiesepiù al gatto di fare da padrino. E quandogiunse l’inverno e fuori non si trovavapiù cibo, il topo pensò a quel vaso didelizioso strutto nascosto al sicuro sotto

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l’altare della chiesa.Allora disse: «Su, Gatto, andiamo a

prendere il vaso di strutto che abbiamomesso da parte. Pensa che buono chesarà».

«Sì» disse il gatto. «Ti piacerà comemangiare l’aria fuori dalla finestra».

E uscirono. Arrivati in chiesa, il vasoc’era ancora, certo, ma ovviamente eravuoto.

«Oh! Oh! Oh!» disse il topo. «Oratutto si fa chiaro! Ecco che razza diamico sei. Altro che padrino! Tu veniviqui a ingozzarti di strutto. Prima lapellicola...»

«Sta’ attento» disse il gatto.«Poi mezzomangiato...»

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«Ti ho detto attento!»«Poi tutto...»«Un’altra parola e mi mangio anche

te!»«...mangiato!» disse il topo, ma fu

troppo tardi: il gatto gli saltò addosso ese lo ingoiò in un lampo.

Be’, che altro vi aspettavate? Vannocosì le cose a questo mondo.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 15, ‘The Theft of Food byPlaying Godfather’ (Gatto e topo in società).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Gretchen Wild.Storie simili: Italo Calvino, ‘La volpe e il lupo’(Fiabe italiane); Joel Chandler Harris, ‘MrRabbit Nibbles Up the Butter’ (The Complete

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Tales of Uncle Remus).Una favola semplice e molto comune. In moltevarianti si ritrova un materialismo scatologico:il vero colpevole spalma del burro sotto la codadell’amico addormentato, per dimostrarne lacolpevolezza. Ho preso in prestito l’idea delriflesso nel fondo del vaso dalla fiaba di UncleRemus, che, come anche questa versione,termina con un’alzata di spalle rispetto alleingiustizie del mondo: ‘Sembra che latribolazione ci aspetti dietro l’angolo pronta aprenderci’ (The Complete Tales of UncleRemus, p. 53).

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TRE

IL RAGAZZO CHE SE NEANDÒ

DI CASA IN CERCADELLA PAURA

C’era una volta un padre che aveva duefigli. Il più grande era sveglio, bello ecapace di fare qualsiasi cosa, ma il piùgiovane era talmente ottuso che noncapiva niente e non imparava niente.Tutti quelli che li conoscevano

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dicevano: «Quel ragazzo darà problemia suo padre».

Era il figlio maggiore a fare tutti ilavori. Ma se il padre gli chiedeva diandare a prendere qualcosa di sera o dinotte, o se gli diceva di passare in uncimitero o in qualche altro postospaventoso, rispondeva: «Oh, no, papà,non ci vado, mi fa paura».

O la sera, quando la gente sedevaattorno al fuoco a raccontare storie difantasmi e luoghi infestati, capitava chequalcuno tra quelli riuniti ad ascoltaredicesse: «Oh, che paura».

Il fratello più giovane se ne stavasempre seduto in un angolo ad ascoltare,ma non capiva cosa fosse la paura.

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«Tutti dicono: ‘che paura, che pauraquesta cosa!’ Io non so di che parlano. Iola paura non ce l’ho, eppure ho ascoltatotanto quanto loro».

Un giorno il padre gli disse:«Ascolta, ragazzo mio, ti stai facendogrande e forte. Stai crescendo ed è orache cominci a guadagnarti da vivere.Guarda tuo fratello! Ha imparato comesi lavora, e tu invece non hai imparatoniente, mi pare».

«Oh, sì, papà» disse. «Mi guadagneròda vivere, vedrai. Vorrei imparare adavere paura, che è una cosa che proprionon capisco».

Il fratello maggiore, sentendolo, simise a ridere: ‘Che zuccone!’ pensò.

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‘Non combinerà mai niente di buono.Non si può cavare sangue da una rapa’.

Il padre ci rimase male. «Be’,scoprire cos’è la paura non può certofarti male» disse, «ma non ciguadagnerai nulla».

Qualche giorno dopo, il sagrestanofece una capatina da loro per scambiaredue chiacchiere. Il padre non poté fare ameno di riversargli addosso tutte lepreoccupazioni per il figlio minore, cheera uno scemo, che non imparava nulla,che non capiva niente di niente.

«Senti qua, per esempio» disse.«Quando gli ho chiesto che cosa avevaintenzione di fare per guadagnarsi davivere, mi ha detto che voleva imparare

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ad avere paura».«Se è questo che vuole» disse il

sagrestano, «mandalo da me. È ora didargli una lezione».

«Buona idea» disse il padre,pensando: ‘forse con qualcun altromigliora. Gli farà bene, comunque’.

Così il sagrestano si portò il ragazzoa casa e gli diede il compito di suonarela campana. Dopo avergli spiegato cosafare, a mezzanotte lo svegliò e gli dissedi salire sul campanile a suonarla.

‘Ora imparerai cosa sono i brividi’pensò. E mentre il ragazzo si vestiva,sgattaiolò nel campanile precedendolo.

Il ragazzo raggiunse la torrecampanaria e, quando si girò a prendere

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la corda, vide una sagoma bianca inpiedi in cima alle scale, esattamente difronte al buco dove passava la corda.

«Chi è là?» disse.La sagoma non si mosse né parlò.«Sarà meglio che mi rispondi» urlò il

ragazzo. «Non c’è niente da fare per te,qui, nel cuore della notte».

Il sagrestano se ne stava zitto efermo. Era sicuro che il ragazzo avrebbepensato di avere davanti un fantasma.

Il ragazzo urlò di nuovo: «Ti hoavvisato. Rispondimi o ti butto giù dallescale. Chi sei e che vuoi?»

Il sagrestano pensò: ‘Figuriamoci semi butta dalle scale’. E se ne stava lìcome un sasso, senza emettere suono.

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Allora il ragazzo urlò un’altra voltae, non avendo risposta, aggiunse: «Be’,te la sei cercata!»

Corse verso la sagoma bianca e laspinse giù per le scale. Il fantasmaruzzolò fino in fondo e restò lì a frignarein un angolino. Il ragazzo, sbarazzatosidi quella seccatura, suonò la campanacome gli era stato detto e se ne tornò aletto.

La moglie del sagrestano, che pertutto il tempo aveva aspettato il marito,non vedendolo tornare cominciò apreoccuparsi e andò a svegliare ilragazzo. «Dov’è mio marito?» disse.«L’hai visto? È salito sulla torre primadi te».

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«Che ne so?» disse il ragazzo. «Ionon l’ho visto. C’era uno coperto con unlenzuolo bianco, vicino al buco dellacorda, e non mi rispondeva e non se nevoleva andare, e allora ho pensato cheaveva cattive intenzioni e l’ho spinto giùdalle scale. Vai a guardare, forse èancora lì. Spero che non sia lui. Ha fattoun tale botto, quando è caduto!»

La moglie trovò il marito che gemevadal dolore, aveva una gamba rotta.Riuscì a portarlo a casa e poi corse dalpadre del ragazzo, strillando: «Quelloscemo di tuo figlio! Lo sai cos’ha fatto?Ha spinto mio marito giù dalle scaledella torre campanaria! Quel poverettosi è rotto una gamba e non mi

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meraviglierei se fossero andate in pezzianche le altre ossa! Tieni queldisgraziato buono a nulla fuori da casanostra prima che faccia crollare tutto.Non voglio vederlo mai più».

Il padre era sconvolto. Corse a casadel sagrestano e svegliò il ragazzo. «Mache diavolo stai combinando? Vuoiprofanare la casa del sagrestano? È ilDiavolo che ti mette in testa questeidee!»

«Ma papà» disse il ragazzo, «io sonoinnocente. Non sapevo che era lui. Stavalì vicino al buco con un lenzuolo biancoaddosso. Non sapevo chi era e l’hoavvisato tre volte».

«Dio del cielo!» disse il padre. «Tu

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mi dai solo problemi. Sparisci dalla miavista, subito. Non voglio più vedere latua faccia».

«Con molto piacere» disse il ragazzo.«Aspetta solo che faccia giorno e poi mene andrò per il mondo e ti lascerò solo.Posso andare in cerca della paura, cosìalla fine avrò qualcosa con cuiguadagnarmi da vivere».

«Sì, proprio la paura! Fai come tipare, per me è uguale. Eccoti cinquantatalleri. Prendili e vai per il mondo, manon osare dire a nessuno da dove vieni edi chi sei figlio. Mi faresti vergognare».

«Benissimo, papà, sì, farò come vuoi.Se è questo tutto ciò che ti aspetti da me,me ne ricorderò».

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Appena fatto giorno, il ragazzo simise in tasca i cinquanta talleri e partì,continuando a ripetere a se stesso:«Voglio prendere paura! Magari laprendessi!»

Un uomo che passava di lì sentì leparole del ragazzo. E non molto doposcorsero un patibolo.

«Guarda» disse l’uomo, «voglio dartiun consiglio. Le vedi quelle? Setteuomini hanno preso per mogli le figliedel cordaio e ora stanno imparando avolare. Se ti siedi lì sotto e aspetti chevenga notte, vedrai se non ti vienepaura!»

«Davvero?» disse il ragazzo. «Tuttoqui? Allora farò in un attimo. Se mi

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viene paura prima di mattina, ti puoiprendere i miei cinquanta talleri. Vieni acercarmi qui, dopo».

Andò a sedersi ai piedi del patiboloe aspettò che scendesse la notte. Avevafreddo, così si accese un falò, ma versomezzanotte si alzò il vento e il ragazzonon riusciva a scaldarsi, nonostante iceppi bruciassero. Il vento facevadondolare gli uomini appesi, i loro corpisbattevano l’uno contro l’altro, tanto cheil ragazzo pensò: ‘Se sento freddo io,qui vicino al fuoco, chissà quei poverettilassù’. Prese una scala, ci si arrampicòsopra per slegarli e li portò tutti a terra.

Poi mise un altro paio di ceppi sulfuoco e ci mise intorno i morti per farli

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scaldare; ma quelli continuavano astarsene lì immobili, anche quando iloro vestiti presero fuoco.

«Ehi, state attenti» disse lui. «Viriappendo, se non fate attenzione».

Ovviamente, i morti non ci badarono.Continuarono a fissare il nulla mentre ivestiti bruciavano.

Il ragazzo allora si arrabbiò: «Vel’avevo detto di stare attenti!» disse.«Non voglio prendere fuoco perché sietetroppo pigri per scostarvi dallefiamme».

Li riappese tutti in fila, si sdraiòvicino al fuoco e si addormentò.

Il mattino seguente si svegliò e trovòl’uomo che reclamava i suoi cinquanta

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talleri.«Preso paura, ieri notte, eh?»«No» disse il ragazzo. «Cosa potevo

prendere, da quegli stupidi? Nondicevano una parola e se ne stavano lìimmobili mentre gli bruciavano icalzoni».

L’uomo capì che non c’era verso diavere i cinquanta talleri, quindi alzò lebraccia al cielo e se ne andò. «Chescemo!» disse tra sé e sé. «Non l’ho maiincontrato in vita mia, uno così tonto».

Il ragazzo si rimise in cammino,sempre borbottando: «Voglio prenderepaura! Magari la prendessi!»

Un carrettiere che camminava dietrodi lui, sentendo quelle parole, lo

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raggiunse e gli chiese: «Chi sei?»«Non so» disse il ragazzo.«E da dove vieni?»«Non so».«E chi è tuo padre, allora?»«Non posso dirlo».«E cos’è che vai borbottando?»«Ah» disse il ragazzo «che voglio

prendere paura, ma nessuno saspiegarmi come fare».

«Sei un povero sempliciotto» disse ilcarrettiere. «Fai la strada con me evediamo almeno di trovarti un postodove stare».

Il ragazzo fece la strada con lui equella sera arrivarono in una locanda evi rimasero per la notte. Appena entrato,

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il ragazzo disse ancora: «Magariprendessi paura! Oh, magari laprendessi!»

Il locandiere, a sentire quelle parole,scoppiò a ridere. «Se è questo che vuoi,sei fortunato. Potresti prenderla in unposto non lontano da qui».

«Taci» disse la moglie «non parlaredi quella cosa. Pensa a tutti i poverettiche ci hanno lasciato la pelle. Sarebbeun vero peccato se i begli occhi diquesto giovane non vedessero più laluce del giorno!»

«Ma io voglio prendere paura» disseil ragazzo. «È per questo che me ne sonoandato di casa. Che intendete dire? Qualè questa cosa non lontana da qui?

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Dov’è?»Non smise di scocciare fino a che il

locandiere non gli disse che lì vicinoc’era un castello infestato dove chivoleva prendere paura ci sarebberiuscito facilmente, se solo fosse statocapace di vegliare laggiù per tre notti.

«Il re ha promesso che chi ci riusciràavrà sua figlia in sposa» disse, «e giuroche la principessa è la più bella ragazzache sia mai esistita. Per di più, nelcastello ci sono mucchi di ricchezzecustodite da spiriti maligni. Ti puoiprendere anche quelle, se resisti per trenotti: ce n’è abbastanza da diventarciricchi. Un sacco di giovani ci sonoandati per provarci, ma nessuno ne è

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uscito vivo».La mattina seguente il ragazzo andò

dal re e disse: «Col vostro permesso,vorrei passare tre notti nel castelloinfestato».

Il re lo guardò e il ragazzo glipiacque. Allora disse: «Ti permetto diportarti tre cose al castello, ma nessunacosa viva».

Il ragazzo disse: «In questo caso,vorrei portarmi il necessario per unfuoco, poi un tornio e un banco daintagliatore con il coltello».

Il re ordinò di portare tutte quellecose al castello finché era giorno.Quando scese la notte, il ragazzo entrò eaccese un bel fuoco in una delle stanze,

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vi trascinò il banco da intagliatore e ilcoltello e si sedette al tornio.

«Ah, se solo prendessi paura!» disse.«Ma questo posto non mi sembra moltopromettente».

Era quasi mezzanotte quando si misea riattizzare il fuoco. Mentre ci soffiavasopra, udì delle voci provenire da unangolo della stanza.

«Miao, miao! Che freddo che fa»dicevano.

«Cos’avete da gridare?» disse lui.«Se avete freddo venite a sedervi vicinoal fuoco».

Un momento dopo, due enormi gattineri balzarono fuori dall’ombra e gli sisedettero uno da una parte e uno

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dall’altra, fissandolo con occhi di brace.«Ti andrebbe di giocare a carte?»

dissero.«Perché no?» rispose lui. «Ma prima

fatemi vedere le zampe».E quelli allungarono le zampe.«Buon Dio» disse, «che unghie

lunghe che avete. Ve le taglierò prima diiniziare».

Li afferrò per la collottola, li tirò sulbanco da intagliatore e strinse la morsaintorno alle zampe.

«Non mi piacete per niente» disse.«Mi avete fatto passare la voglia digiocare». Li uccise tutti e due e li gettònel fossato. Era appena tornato a sedersiquando da ogni angolo della stanza

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uscirono gatti e cani neri e ognunoportava un collare incandescente conuna catena incandescente. Siammassarono da ogni direzione fino acircondarlo. Ululavano, abbaiavano estrillavano orribilmente, saltavano nelfuoco e facevano schizzare i ceppiardenti ovunque.

Il ragazzo li guardò incuriosito per unminuto o due, ma alla fine perse lapazienza. Afferrò il coltello e urlò:«Fuori di qui, canaglie!» E balzò loroaddosso. Alcuni li uccise e gli altricorsero via. Quando se ne furono andatitutti, gettò i cadaveri nel fossato eritornò a scaldarsi.

Ma non riusciva a tenere gli occhi

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aperti, così si mise nel lettone all’angolodella stanza.

‘Sembra comodo’ pensò. ‘Quel che civuole’.

Ma appena si fu steso, il letto iniziò amuoversi. Avanzò verso la porta, che sispalancò, poi rotolò per tutto il castello,prendendo sempre più velocità.

«Non male» disse, «però dài,corriamo più forte!»

E il letto filò come fosse tirato da seicavalli, su e giù per corridoi e scale,fino a che all’improvviso: hop! sirovesciò, intrappolandolo sotto. Pesavasu di lui come una montagna.

Ma il ragazzo buttò via coperte ecuscini e arrampicandosi riuscì a

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venirne fuori.«Io col letto ho chiuso» gridò. «Chi

lo vuole se lo prenda pure».E si sdraiò vicino al fuoco per

addormentarsi in pace.Quando la mattina arrivò il re e lo

trovò per terra, disse: «Oh, che peccato.I fantasmi l’hanno ucciso. Un così belragazzo, per giunta!»

Il ragazzo, sentendolo, si alzò dicolpo. «Non mi hanno ucciso ancora,vostra maestà» disse.

«Oh, sei vivo!» disse il re. «Bene,sono contento di vederti. Come èandata?»

«Molto bene, grazie» disse ilragazzo. «Una notte è passata, ne restano

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due».Tornò alla locanda. Il locandiere era

esterrefatto.«Sei vivo! Non pensavo che ti avrei

rivisto. Hai avuto paura?»«Macché. Spero di venirne a sapere

qualcosa stanotte».La seconda notte salì al castello,

accese il fuoco e si sedette lì accanto dinuovo.

«Oh» disse. «Magari trovassiqualcuno che mi spieghi cos’è la paura».

Quando fu quasi mezzanotte, udì deirumori su per il camino. Colpi e urla, ungridare, un azzuffarsi e alla fine, con unforte strillo, cadde giù un uomo a metà.

«Che fai?» disse il ragazzo. «Dov’è

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l’altra metà?»Ma il mezzo uomo, che non aveva né

occhi né orecchie, non poteva sentirlo,né vedeva niente e correva intorno perla stanza sbattendo di qua e di là,ruzzolando e balzando in piedi di nuovo.

Poi ci fu altro rumore nel camino e,in una nuvola di fuliggine, la parte disopra dell’uomo venne giù e balzò fuoridal fuoco.

«Non ti basta il caldo?» disse ilragazzo.

«Gambe! Gambe! Da questa parte!Qui!» gridava la parte di sopra, maquella di sotto non sentiva e andavaavanti a sbattere di qua e di là, finché ilragazzo la afferrò per le ginocchia e la

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bloccò. L’altra metà ci saltò sopra e siricongiunsero formando un uomoorrendo che si sedette sul banco delragazzo vicino al fuoco e non volevaspostarsi, e il ragazzo fu costretto aspintonarlo via per sedersi lui.

Poi altro trambusto e dal caminocadde una mezza dozzina di morti, unodopo l’altro. Si portavano dietro novefemori e due teschi e li misero inposizione per giocare a birilli.

«Posso giocare anch’io?» chiese ilragazzo.

«Dipende, ce li hai i soldi?»«Sicuro» disse lui. «Ma le vostre

bocce non sono abbastanza rotonde».Prese i teschi, li mise sul tornio e li

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lavorò fino a renderli tondi.«Così va meglio» disse. «Ora

rotoleranno alla grande. Cidivertiremo!»

Giocò coi morti per un po’ e persedei soldi. Alla fine, a mezzanotte,l’orologio batté dodici colpi e i mortisvanirono. Il ragazzo andò serenamentea sdraiarsi e si addormentò.

La mattina seguente tornò il re avedere com’era andata.

«Che mi dici stavolta?» disse.«Ho giocato a birilli» disse il

ragazzo. «Ho anche perso un po’ disoldi».

«E hai avuto paura?»«Nemmeno un po’» rispose lui. «Mi

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sono divertito, ma tutto qui. Magariavessi paura!»

La terza notte si sedette di nuovo albanco vicino al fuoco e sospirò. «Miresta solo una notte» disse. «Spero diprendere paura, almeno stavolta».

Quando fu quasi mezzanotte, sentì unoscalpiccio pesante e lento all’internodella stanza e vide sei uominigiganteschi portare una bara.

«Oh, è morto qualcuno?» disse ilragazzo. «Mi sa che è mio cugino. Èmorto pochi giorni fa». Fischiò e loinvitò a uscire dicendo: «Vieni fuori,cugino! Vieni a salutarmi!»

I sei uomini poggiarono la bara aterra e uscirono. Il ragazzo aprì il

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coperchio e guardò il morto che stavadentro. Gli toccò la faccia che erafredda come il ghiaccio.

«Non ti preoccupare» disse, «tiscaldo io».

Si scaldò le mani vicino al fuoco e lepoggiò sulle guance del morto, ma lafaccia rimase fredda.

Poi tirò fuori il corpo, lo appoggiòvicino al fuoco mettendosi la sua testa ingrembo e gli strofinò le braccia perfargli ripartire la circolazione. Ma nonfunzionò lo stesso.

«Se ci mettiamo nel letto insieme ciscalderemo. Ti porto nel letto con me,ecco che faccio».

Così mise il morto nel letto e gli si

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sdraiò a fianco, tirando su le coperte.Dopo qualche minuto, il morto cominciòa muoversi.

«Ecco fatto!» disse il ragazzo perincoraggiarlo. «Su, cugino, sei quasivivo di nuovo».

Ma il morto improvvisamente si alzòa sedere e ruggì: «Chi sei? Eh? Tistrangolo, lurido diavolo!»

E cercò di afferrargli il collo, ma ilragazzo fu più veloce e, dopo un attimodi baruffa, lo infilò di nuovo nella bara.

«Bel ringraziamento» disse,martellando i chiodi per fissare ilcoperchio.

Quando ebbe finito, i sei uominiriapparvero, sollevarono la bara e

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lentamente la portarono via.«Oh, così non va» disse il ragazzo,

afflitto, «qui non imparerò mai nientesulla paura».

E mentre lui diceva così, un vecchiosaltò fuori da un angolo buio dellastanza. Era più grande degli uomini cheportavano la bara e aveva una lungabarba bianca e occhi che brillavano dimalvagità.

«Verme miserabile» disse. «Adessoimparerai cos’è la paura. Stanottemorirai».

«Tu dici? Prima mi deviacchiappare» disse il ragazzo.

«Non mi scapperai, anche se corriveloce!»

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«Io sono forte quanto te e forse dipiù» disse il ragazzo.

«Ora vediamo» disse il vecchio. «Seriesci a battermi, ti lascio andare. Manon ci riuscirai. Seguimi».

Il vecchio guidò il ragazzo attraversoil castello, lungo corridoi bui e giù peroscure scalinate fino ad arrivare in unafucina nelle tenebre delle viscere dellaterra.

«Ora vediamo chi è più forte» disse.Prese un’accetta e con un solo colpoconficcò un’incudine nel terreno.

«Io so fare di meglio» disse ilragazzo. Prese l’accetta e colpì un’altraincudine con tanta forza da spaccarla indue, e in quel momento afferrò la barba

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del vecchio e ce la ficcò dentro.L’incudine si rinchiuse ed ecco che ilvecchio era stato catturato.

«Ora sei in mano mia» disse ilragazzo. «Vedrai chi è che morirà».

Prese una spranga di ferro e lopicchiò senza pietà, dandogli unagragnuola di colpi fino a che quello simise a piagnucolare e frignare,gridando: «Basta! Mi arrendo!»

Il vecchio promise di riempire ilragazzo di ricchezze se solo l’avesselasciato andare. Il giovane fece pernocon l’accetta nella spaccatura e loliberò, e il vecchio lo guidò in un altrosotterraneo per mostrargli tre cassepiene di tesori.

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«Una di queste è per i poveri»spiegò, «una per il re e la terza è perte».

In quel momento suonò la mezzanottee il vecchio scomparve lasciando ilragazzo al buio.

«Chi se ne importa» disse. «Troveròla via d’uscita da solo».

A tentoni ritrovò la strada fino allacamera e si addormentò vicino al fuoco.

La mattina arrivò il re. «Ormai avraiimparato cos’è la paura» disse.

«No» disse il ragazzo. «Mi stoancora domandando cosa sia. Hodormito con mio cugino morto, poi èvenuto un vecchio con una lunga barba emi ha mostrato dei tesori, ma nessuno mi

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ha insegnato come avere paura».Allora portarono su i tesori e se li

divisero, poi il ragazzo e la principessasi sposarono. Il ragazzo ereditò il regno.Ma, benché amasse tanto la sposa efosse felice, continuava a ripetere: «Sesolo riuscissi ad avere paura! Se solosapessi cos’è!»

Alla fine la sposa si scocciò e loraccontò alla cameriera, che le disse:«Lasciate fare a me, maestà. Gliela doio la paura, stanotte».

La serva andò al ruscello e raccolseun secchio pieno di pesciolini. Quellanotte, mentre il giovane re dormiva, laserva disse alla regina di tirar via lecoperte e rovesciargli il secchio

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addosso.La regina fece come le era stato

detto. Il giovane re sentì prima l’acquafredda e poi i pesciolini che sidimenavano e gli guizzavano addosso.

«Oh! Oh! Oh!» urlò. «Ooh! Chepaura! Ooh! Oh! Sì, ho paura!Finalmente! Benedetta moglie mia! Seiriuscita a fare quello che nessun altro hafatto. Che paura!»

* * *

Tipo di fiaba: ATU 326, ‘The Youth WhoWanted to Learn What Fear is’ (Storia di unoche se ne andò in cerca della paura).Fonte:: una versione più breve fu pubblicatanella prima edizione delle fiabe dei fratelliGrimm del 1819, a seguito di una versione

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manoscritta inviata loro da Ferdinand Siebert diTreysa, vicino Kassel.Storie simili: Alexander Afanasjev: ‘The ManWho Did not Know Fear’ (Senza paura)[Russian Fairy Tales (Fiabe russe)]; KatharineM. Briggs ‘The Boy Who Feared Nothing’, ‘TheDauntless Girl’, ‘A Wager Won’ (Folk Tales ofBritain); Italo Calvino: ‘Giovannin senzapaura’, ‘Il braccio di morto’, ‘Lo sciocco senzapaura’, ‘La regina delle tre montagne d’oro’(Fiabe italiane).Una fiaba molto diffusa, una versione dellaquale fu inclusa nel volume di note alle Fiabedel focolare dei Grimm, pubblicato nel 1856.‘Il braccio di morto’ di Calvino è la più vivace edivertente delle sue quattro versioni, ma poichéil suo eroe non parte con l’intenzione esplicitadi imparare la paura, la lezione finale delsecchio di pesciolini non serve. E non servenemmeno all’eroina di ‘The Dauntless Girl’della Briggs, una bella storia proveniente da

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Norfolk, che invece ha in comune con questa ildestino sfortunato del sagrestano e il fantasmache rivela il luogo del tesoro nel sotterraneo.Secondo me la versione dei Grimm è lamigliore.

Le varianti di questa storia hanno un vividoumorismo; i fantasmi e i morti sono più comiciche terrificanti. Marina Warner, nel suo Fromthe Beast to the Blonde, suggerisceun’interpretazione sessuale del secchio disanguinerole.

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QUATTRO

IL FEDELE GIOVANNI

C’era una volta un vecchio re che siammalò e mentre era a letto sofferente,pensò: ‘Questo sarà il mio letto dimorte’. E disse: «Andate a chiamare ilFedele Giovanni, voglio parlargli».

Il Fedele Giovanni era il suoservitore preferito. Era chiamato in quelmodo perché si era dimostrato sincero eleale col re per tutta la vita. Quando

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arrivò, il re gli fece cenno di avvicinarsial letto e disse: «Mio buono e fedeleGiovanni, non starò al mondo ancora alungo. L’unica cosa che mi dà pensiero èmio figlio. È un bravo ragazzo, ma ègiovane e non sempre sa cosa è meglioper lui. Non potrei chiudere gli occhi inpace se tu non mi promettessi di essereper lui come un secondo padre einsegnargli tutto ciò che gli occorresapere».

Il Fedele Giovanni disse: «Lo faròcon piacere, non lo lascerò solo e loservirò fedelmente a costo della vita».

«Questo è di gran conforto per me»disse il re. «Ora posso morire in pace.Quando me ne sarò andato, devi fare

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questo: mostragli tutto il castello, tutte lesegrete, le camere, i cortili e tutti i tesoriche contiene, ma tienilo lontanodall’ultima stanza in fondo alla lungagalleria. Lì c’è un ritratto dellaPrincipessa del Tetto d’Oro e se lo vedesi innamorerà di lei. Te ne accorgeraidal fatto che perderà i sensi e poi andràa cacciarsi in pericoli di ogni sorta, peramor suo. Tienilo lontano da tuttoquesto, Giovanni: è l’ultima cosa che tichiedo».

Il Fedele Giovanni gli diede la suaparola e il re, riappoggiatosi al cuscino,morì.

Dopo i funerali, il Fedele Giovannidisse al giovane re: «È tempo che

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vediate quali sono i vostri possedimenti,maestà. Vostro padre mi ha chiesto dimostrarvi il castello. Ora appartiene avoi, dovete conoscere tutti i tesori checontiene».

Giovanni lo portò dappertutto, su egiù dalle scale, nelle soffitte e neisotterranei. Tutte quelle stanzemagnifiche erano aperte a lui, tuttetranne una, e il Fedele Giovanni loteneva lontano dall’ultima stanza infondo alla lunga galleria, dove eraappeso il ritratto della Principessa delTetto d’Oro. Il quadro era posizionato inmaniera tale che chiunque, entrandonella stanza, se lo trovava davantiall’improvviso ed era dipinto così bene

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e in modo così vivido da sembrare chela principessa fosse viva e respirasse.Nessuno avrebbe potuto immaginareniente di più bello al mondo.

Il re notò che il Fedele Giovanni,davanti a quella porta, lo spingevasempre oltre e tentava di distrarlo edisse: «Su, Giovanni, è chiaro che mistai impedendo di entrare lì. Perché nonapri mai questa porta?»

«C’è una cosa orribile dentro,maestà. Meglio che non la vediate».

«E invece io voglio! Ho visto tutto ilcastello e questa è l’ultima stanza.Voglio sapere cosa c’è dentro!»

E tentò di aprire la porta forzandola,ma il Fedele Giovanni lo trattenne. «Ho

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promesso al re vostro padre che non viavrei lasciato entrare qui» disse.«Porterebbe sventura sia a voi che ame».

«Be’, ti sbagli» disse il giovane re.«Sono talmente curioso che la sventurasarebbe non poter vedere cosa c’è làdentro. Non avrò più pace, giorno enotte, fino a che non lo saprò. Giovanni,apri la porta!»

Il Fedele Giovanni capì di non averescelta. Col cuore pesante e profondisospiri, prese la chiave e aprì la porta.Entrò per primo, pensando di coprire ilritratto agli occhi del re, ma non viriuscì: il re, in punta di piedi, guardòoltre le sue spalle. E accadde proprio

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ciò che il vecchio re aveva detto: ilgiovane vide il ritratto e cadde a terrasvenuto.

Il Fedele Giovanni lo sollevò e loportò nella sua stanza. ‘Oh, Signore’pensò, ‘un cattivo inizio per il regno.Quale sventura si abbatterà ora su dinoi?’

Presto il re si riprese e disse: «Chebel dipinto! Che bella ragazza! Chi è?».

«È la Principessa del Tetto d’Oro»disse il Fedele Giovanni.

«Oh, Giovanni, sono innamorato! Laamo così tanto che anche se tutte lefoglie degli alberi fossero lingue nonsaprebbero dire quanto. Rischierò lamia vita per avere il suo amore.

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Giovanni, servo fedele, devi aiutarmi!Come posso raggiungerla?»

Il Fedele Giovanni rifletté a lungo.Era risaputo che la principessa avevauna natura solitaria. Ma ben presto glivenne in mente un piano e andò a dirloal re. «È circondata d’oro: tavoli, sedie,stoviglie, sofà, coltelli e forchette, tuttod’oro massiccio. Tra i vostri tesori,maestà, come senz’altro ricorderete, cisono cinque tonnellate d’oro. Iosuggerisco di dire agli orafi reali diprenderne, che so, una tonnellata e fareogni genere di cose graziose, uccelli,bestiole, strani animali. Così laprincipessa si incuriosirà e noi avremola nostra occasione».

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Il re radunò tutti gli orafi e disse lorocosa fare. Lavorarono notte e giorno perprodurre un gran numero di pezzi cosìbelli che il giovane re era sicuro che laprincipessa non ne avesse mai visti disimili.

Caricarono tutto su una barca e ilFedele Giovanni e il re si travestironoda mercanti per non farsi riconoscere.Poi tirarono su l’ancora e salparonoverso la città della Principessa del Tettod’Pro.

Il Fedele Giovanni disse al re:«Meglio se aspettate sulla barca,maestà. Io scenderò a terra a cercare dicatturare l’interesse della principessaper il nostro oro. La cosa migliore è se

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tirate fuori qualcosa da farle vedere.Decorate un po’ la barca».

Il principe restò lì impaziente, ilFedele Giovanni scese a terra con alcunidegli oggetti d’oro raccolti nelgrembiule e andò dritto a palazzo. Nellacorte trovò una bella ragazza che tiravasu l’acqua da due pozzi con due secchid’oro, uno per l’acqua naturale e uno perquella frizzante. Girandosi per rientrarevide il Fedele Giovanni e gli chiese dipresentarsi.

«Sono un mercante» disse lui. «Vengoda terre lontane a vedere se a qualcunointeressa il nostro oro».

Aprì il grembiule per mostrarglielo.«Oh, che cose belle!» disse lei,

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poggiando i secchi a terra per prenderequei pezzi d’oro uno dopo l’altro.«Devo dirlo alla principessa. Amal’oro, sapete, e sono sicura checomprerà tutto quello che portate».

Prese il Fedele Giovanni per mano elo guidò al piano superiore, poiché leiera la prima cameriera. Quando laprincipessa vide gli oggetti d’oro fucontentissima.

«Non ho mai visto dei manufatti cosìbelli» disse. «Non resisto. Ditemi unprezzo! Li compro tutti!».

Il Fedele Giovanni disse: «A dire ilvero, vostra altezza reale, io non sonoche un servitore. Il mercante è il miopadrone: è lui a occuparsi di queste cose

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di solito. E il mio piccolo campionarionon è nulla rispetto a ciò che ha lui sullabarca. Ci sono gli oggetti d’oro più belliche siano mai stati creati».

«Portateli tutti qui!» disse lei.«Ah, be’, mi piacerebbe

accontentarvi, ma sono tantissimi. Siimpiegherebbero giorni a trasportaretutto qui e inoltre servirebbe tantissimospazio per tirare fuori tutti i pezzi e noncredo che il vostro palazzo abbiaabbastanza stanze, benché sia grande esplendido».

Pensò in questo modo di incuriosirlae infatti così fu e lei disse: «Alloraverrò io alla vostra barca. Fate strada everrò a vedere tutti i tesori del vostro

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padrone».Il Fedele Giovanni la guidò fino alla

barca, compiaciuto. Quando il giovanere vide la principessa sul molo, capì cheera ancora più bella del ritratto e ilcuore quasi gli scoppiò. Ma la scortò abordo e poi la accompagnò sottocoperta,mentre Giovanni rimase sul ponte. «Tirasu l’ancora e dispiega tutte le vele»disse al nostromo. «Vola come unuccello nell’aria».

Nel frattempo sottocoperta il remostrava alla principessa i vasi d’oro etutti gli altri begli oggetti, gli uccelli, glianimali, gli alberi e i fiori, sia realisticiche fantastici.

Passarono le ore e lei non si accorse

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che stavano navigando. Dopo averguardato tutto la principessa sospirò dicontentezza.

«Grazie, signore» disse. «Che bellacollezione! Non ho mai visto nulla delgenere. Davvero deliziosa! Ma ora perme è tempo di tornare a casa». Alloraguardò attraverso l’oblò e vide che sitrovavano in alto mare.

«Cosa fate?» urlò. «Dove citroviamo? Tradimento! Cadere nellemani di un mercante... ma voi non sieteun mercante, siete un pirata! Mi aveterapita? Oh, preferirei morire!»

Il re le prese la mano e disse: «Nonsono un mercante. Sono un re, con ivostri stessi nobili natali. Se vi ho teso

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questo tranello facendovi venire a bordoè solo perché sono sopraffattodall’amore. Quando ho visto il vostroritratto nel mio palazzo, sono caduto aterra svenuto».

La Principessa del Tetto d’Oro sisentì rassicurata da quelle manieregentili, presto le si scaldò il cuore eacconsentì a diventare sua moglie.

Mentre la barca puntava verso casa eil Fedele Giovanni suonava il violino aprua, tre corvi che volavano intorno allabarca si appoggiarono sul bompresso elui smise di suonare per ascoltare quelloche dicevano, visto che conosceva illinguaggio degli uccelli.

Il primo disse: «Craa! Guarda! La

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Principessa del Tetto d’Oro! La vuoleportare a casa con sé!»

Il secondo disse: «Sì, ma non èancora sua».

Il terzo disse: «Sì che lo è! Craa!Eccola lì sul ponte, seduta vicino a lui».

«Non gli porterà niente di buono»disse il primo. «Non appenascenderanno a terra, un cavallo saurocorrerà loro incontro in saluto e ilprincipe proverà a montarlo. Craa! Mase lo farà, quello con un balzo lo porteràvia e lui non vedrà più la principessa».

«Craa!» disse il secondo. «Non c’èmodo di evitarlo?»

«Sì, certo che c’è, ma loro non sannoqual è. Se qualcun altro salta in sella,

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prende la pistola dalla fondina eammazza il cavallo, il re si salverà.Craa! Ma non dovrà mai dirne il motivoal re, altrimenti sarà trasformato inpietra dai piedi alle ginocchia».

«Io so un’altra cosa» disse il secondocorvo. «Non basta ammazzare il cavalloper salvare il re. Entrando a palazzo,troveranno un bellissimo vestito dasposo su un appendiabiti d’oro.Sembrerà fatto d’oro e d’argento, inveceè fatto di zolfo e pece e se lui loindossa, si brucerà fino alle midolla.Craa!»

«Di sicuro da ciò nessuno lo puòsalvare» disse il terzo.

«Oh sì, è facile, ma loro non sanno

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come. Una persona con i guantidovrebbe prendere il vestito e buttarlonel fuoco, bruciarlo e salvare il re.Craa! Ma se gli dice perché l’ha fatto,verrà trasformato in pietra dalleginocchia al cuore».

«Ah, che destino!» disse il terzo. «Enon è finita qui. Anche se si brucia ilvestito, la sposa non sarà ancora sua.Dopo la cerimonia, quando inizierannole danze, la giovane reginaall’improvviso si farà pallida e cadrà aterra come morta».

«E si può salvare?» disse il primocorvo.

«Con estrema facilità, sapendo comefare. Nient’altro che sollevarla, darle un

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morso sul seno destro, succhiarne tregocce di sangue e sputarle, e lei torneràin vita. Ma se qualcuno lo rivela al re,sarà trasformato tutto in pietra, dallatesta ai piedi. Craa!»

E poi i corvi volarono via. Il FedeleGiovanni aveva capito tutto, ma da quelmomento restò triste e taciturno. Se nonavesse fatto ciò che i corvi dicevano, ilsuo signore sarebbe morto, ma se gliavesse spiegato la ragione di quellestrane azioni, sarebbe stato trasformatoin pietra.

Alla fine si disse. «Be’, è il miosignore e gli salverò la vita a costo dellamia».

Quando sbarcarono, accadde

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esattamente quello che i corvi avevanopredetto. Un magnifico cavallo sauro,con sella e briglie d’oro, arrivò algaloppo.

«Un buon auspicio!» disse il re. «Miporterà a palazzo».

Stava per montarci sopra quando ilFedele Giovanni lo scansò e ci saltòsopra lui. Subito dopo tirò fuori lapistola dalla fondina nella sella eammazzò la bestia.

Gli altri servitori del re, che nonavevano il Fedele Giovanni in simpatia,dissero: «Vergogna, uccidere un cavallocosì bello che doveva portare il re apalazzo! E spingere il re a quel modo!»

«Chiudete il becco» disse il re. «Non

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vi permetto di parlare così del FedeleGiovanni. Di certo aveva una buonaragione per farlo».

Entrarono a palazzo e all’ingressoc’era un bel vestito adagiato su unvassoio d’argento, proprio come avevadetto il corvo. Il Fedele Giovanni loteneva d’occhio e non appena il re feceper prenderlo, si mise i guanti, prese ilvestito e lo gettò nel fuoco e le fiammedivamparono.

Gli altri servitori sussurraronoancora insieme. «Hai visto? Hai vistoche ha fatto? Ha bruciato il vestito dasposo del re!»

Ma il giovane re disse: «Ne hoabbastanza di voi! Sono certo che

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Giovanni abbia avuto una buona ragione.Lasciatemi solo».

Poi fu tempo della cerimonia nuziale.Subito dopo furono aperte le danze e ilFedele Giovanni si mise in piedi abordo della pista, senza mai staccare gliocchi dalla regina. All’improvvisoquella si fece pallida e cadde a terra.Subito Giovanni le corse incontro, laraccolse e la portò nella camera reale.La adagiò sul letto, poi si inginocchiò, lemorse il seno destro per succhiarne tregocce di sangue e le sputò. La reginaaprì subito gli occhi e si guardò intorno,poi si alzò, respirando normalmente,perfettamente in salute.

Il re, che aveva visto tutto senza

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comprendere il comportamento diGiovanni, si arrabbiò e ordinò alleguardie di portarlo subito in prigione.

Il mattino seguente il FedeleGiovanni fu condannato a morte eportato al patibolo. Mentre stava lìsopra con il cappio al collo disse: «Tuttii condannati a morte hanno diritto a direun’ultima cosa. Ho anch’io questodiritto?»

«Sì» disse il re. «Ce l’hai».«Sono stato ingiustamente

condannato» disse il Fedele Giovanni.«Mi sono comportato sempre con lealtà,maestà, con voi e prima con vostropadre. E raccontò della conversazionetra i corvi sul bompresso e di come

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fosse stato costretto a fare quelle cosestrane per salvare re e regina dallamorte.

A queste parole, il re gridò: «Oh, mioFedele Giovanni! Perdonami! Ti chiedoperdono! Tiratelo subito giù!»

Ma mentre parlava, a Giovanniaccadeva qualcosa di strano: appenadetta l’ultima parola i piedi e poi legambe e poi il busto, le braccia e allafine anche la testa si trasformarono inpietra.

Il re e la regina erano affranti per ildolore.

«Ah, che terribile ricompensa per lasua fedeltà!» disse il re e ordinò diportare la statua di pietra in camera sua

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e metterla vicino al letto. Tutte le volteche la guardava, gli colavano le lacrimesulle guance e diceva: «Oh, se solopotessi riportarti in vita, caro miofedelissimo Giovanni!»

Il tempo passava e la regina mise almondo due bei gemelli sani che lariempivano di gioia. Un giorno, mentresi trovava in chiesa, i due bambinigiocavano nella camera reale e il recome sempre disse, guardando la statuadi pietra: «Oh, mio caro FedeleGiovanni, se solo potessi farti tornare invita!»

E con sua grande sorpresa la pietrainiziò a parlare dicendo: «Puoiriportarmi in vita sacrificando ciò che

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ami di più».Il re disse: «Per te farò qualsiasi

cosa!»La pietra continuò: «Se tagli le teste

ai tuoi figli con le tue mani e mi spruzziil sangue addosso, io tornerò in vita».

Il re inorridì. Uccidere i suoi amatifigli! Che terribile prezzo da pagare! Masi ricordò della grande fedeltà diGiovanni pronto a dare la vita per i suoisignori, si fece forza, sguainò la spada emozzò la testa ai due figli in un colposolo. E dopo aver spruzzato la statua conil sangue, la pietra si trasformò in carne,a partire dalla testa e giù verso le ditadei piedi ed ecco di nuovo il FedeleGiovanni, vivo e vegeto.

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Disse al re: «Mi siete stato fedele,maestà, e per questo avrete unaricompensa».

Giovanni prese le teste dei bambini ele rimise sui colli, attaccandole con illoro stesso sangue e quelli tornarono invita sbattendo le palpebre econtinuarono a saltare qua e là e giocarecome se niente fosse accaduto.

Il re era sopraffatto dalla gioia.Sentendo la regina rientrare di ritornodalla chiesa, fece nascondere Giovannie i bambini nell’armadio. Quando leientrò disse: «Mia cara, hai pregato?»

«Sì» disse lei, «ma non riuscivo asmettere di pensare al Fedele Giovannie a quanto di terribile gli è accaduto per

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causa nostra».«Be’» disse il re, «possiamo

riportarlo in vita, ma a caro prezzo.Dobbiamo sacrificare i nostri duebambini».

La regina impallidì e l’orrore perpoco non la uccise. Ma disse. «Glidobbiamo davvero tanto per la sualealtà».

Il re si rallegrò a sentire che larisposta della moglie era la stessa sua,aprì l’armadio e ne uscirono il FedeleGiovanni e i due bambini.

«Dio sia lodato!» disse il re. «IlFedele Giovanni è salvo e lo sono anchei nostri bambini!»

Raccontò poi alla regina come erano

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andate le cose. E poi vissero per sempreinsieme felici fino alla fine dei lorogiorni.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 516, ‘Faithful John’ (Ilfedele Giovanni).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Dorothea Viehmann.Storie simili: Alexander Afanasjev: ‘Koshkeythe Deathless’ (Russian Fairy Tales).Ci sono diversi leitmotiv stuzzicanti in questastoria: il ritratto che deve essere nascosto, lafatidica conoscenza acquisita origliando idialoghi degli uccelli, lo spaventoso destinodel povero Giovanni e l’orrendo dilemma chesi pone al re.

In Afanasjev la storia non è coesa e bencostruita come la versione dei Grimm, che

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invece si muove con grande rapidità e abilità daun evento all’altro. Come anche in altre lorostorie, riusciamo a riconoscere la manoorganizzatrice di Dorothea Viehmann (vedi lanota a ‘L’indovinello’, p. 156).

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CINQUE

I DODICI FRATELLI

C’erano una volta un re e una regina chevivevano insieme felici governando illoro regno nel migliore dei modi.Avevano dodici figli, tutti maschi.

Un giorno il re disse a sua moglie:«Porti in grembo il nostro tredicesimofiglio. Se sarà una femmina, tutti gli altridovranno morire. Voglio che sia lei aereditare il regno e tutti i miei beni».

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Le mostrò dodici bare già pronte e fuchiaro che era proprio intenzionato afare come aveva detto. Ogni bara erariempita di trucioli di legno e in testa aognuna c’erano un cuscino di piume e unvelo ripiegato. Le chiuse tutte in unastanza e ne consegnò la chiave allaregina.

«Non dirlo a nessuno» disse.Lei passò tutto il giorno a piangere,

tanto che alla fine il figlio più piccolo,di nome Beniamino come il ragazzodella Bibbia, le chiese: «Mamma,perché sei così triste?»

«Caro figlio mio» disse lei, «nonposso dirtelo».

Ma lui non si accontentò di quella

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risposta. Non le diede pace fino a chelei non aprì la porta della stanza e glimostrò le dodici bare tutte in fila, con itrucioli di legno e i cuscini e i veliripiegati.

Piangendo disse: «Dolce Beniaminomio, queste bare sono per te e i tuoifratelli. Se il figlio che aspetto è unabambina, verrete tutti uccisi e chiusi lìdentro».

Beniamino la abbracciò dicendole:«Non piangere, mamma. Scapperemovia e ce la caveremo».

«Sì!» disse lei. «Fate così. Andatenella foresta a cercare l’albero più altoche c’è. Tenete d’occhio la torre delcastello. Se metterò al mondo un

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maschio, isserò una bandiera bianca, mase sarà una femmina, isserò una bandierarossa e voi dovrete fuggire in gran fretta.Che Dio vi protegga! Ogni notte misveglierò a pregare per voi. In invernopregherò perché possiate sempre avereun fuoco per scaldarvi e in estatepregherò perché la calura non viopprima».

Dopo l’augurio della mamma, idodici fratelli andarono nella foresta.Fecero i turni di guardia su un’altaquercia e dopo undici giorni, arrivato ilturno di Beniamino, si vide sventolareuna bandiera, ma non era bianca. Erarossa.

Scese giù velocemente dall’albero e

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lo disse ai fratelli che si infuriarono.«Perché dovremmo soffrire per colpa

di una bambina?» dissero. «Cidobbiamo vendicare! Tutte le bambineche incontreremo si pentiranno di esserecapitate sulla nostra strada. Scorrerà illoro sangue rosso!»

Si inoltrarono sempre più fra glialberi e nel cuore profondo e scuro dellaforesta trovarono una casetta. Sedutadavanti alla porta c’era una vecchia conla valigia pronta.

«Eccovi finalmente!» disse. «Vi hotenuto la casa calda e pulita e hopiantato dodici gigli qui sul davanzale.Quando questi gigli fioriranno, saretesalvi. Ora devo andare». Prese la

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valigia e sparì giù per uno scurosentiero prima che riuscissero a dire unaparola.

«Bene, staremo qui» dissero.«Sembra un alloggio comodo e lei hadetto che è tutto per noi. Beniamino, tuche sei il più giovane e delicato, baderaialla casa. Noialtri andremo a caccia diqualcosa per sfamarci».

Così i fratelli più grandi presero auscire ogni giorno e a uccidere conigli,cerbiatti, uccelli e qualunque cosa sipotesse mangiare. Portavano tutto aBeniamino, che cucinava e metteva intavola. Trascorsero dieci anni al sicuronella casetta e il tempo passòvelocemente.

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Nel frattempo la figlioletta cresceva.Aveva cuore gentile, un bel viso e unastella d’oro sulla fronte. Un giorno cheal castello era appena stato fatto ilbucato, vide dodici camicie di linostese, una più piccola dell’altra e dissea sua madre: «Di chi sono questecamicie, mamma? Sono troppo piccoleper essere di papà».

La regina rispose con un peso sulcuore: «Appartengono ai tuoi dodicifratelli, mia cara».

«Non sapevo di avere dodici fratelli»disse la bambina. «Dove sono?»

«Dio solo lo sa. Sono andati nellaforesta e ora potrebbero essere ovunque.Vieni, mia cara, ti racconterò tutto».

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Portò la bambina nella stanza chiusa e lemostrò le dodici bare con i trucioli, icuscini e i veli ripiegati. «Queste baresono state fatte per i tuoi fratelli» spiegòla regina, «ma sono scappati prima chetu nascessi». E le raccontò come eranoandate le cose.

La bambina disse: «Non piangere,mamma! Andrò a cercarli e sono sicurache li troverò».

Poi stirò le dodici camicie, leimpacchettò per bene e andò nellaforesta. Camminò per tutto il giorno ealla sera giunse alla casetta.

Entrò e ci trovò un ragazzino chedisse: «Chi sei? Da dove vieni?»

Dal bell’abito, lui capì che si trattava

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di una principessa, ma rimaseabbacinato dalla sua bellezza e dallastella d’oro che aveva sulla fronte.

«Sono una principessa» disse lei, «esto cercando i miei dodici fratelli. Hogiurato di camminare fin dove il cielo èazzurro, pur di trovarli». E gli mostrò ledodici camicie, una più piccoladell’altra.

Allora Beniamino capì che quella erasua sorella e disse: «Ci hai trovati! Iosono il fratello più piccolo e mi chiamoBeniamino».

Piansero entrambi di gioia. Sibaciarono e si abbracciarono conaffetto.

Ma poi Beniamino si ricordò del

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giuramento dei fratelli e disse: «Sorella,devo metterti in guardia: i miei fratellihanno fatto voto di uccidere tutte lebambine che incontreranno, poiché èstato per causa di una bambina cheabbiamo dovuto lasciare il nostroregno».

Lei disse: «Rinuncerò alla mia stessavita per salvare i miei fratellidall’esilio».

«No» disse lui «non morirai. Non lopermetterò. Siediti sotto questa tinozza equando loro torneranno ci penserò io».

Lei ubbidì. Quando alla seratornarono dalla caccia, si sedettero amangiare e dissero a Beniamino:«Novità?»

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«Non lo sapete?» disse.«Cosa?»«Siete stati tutto il giorno fuori nella

foresta e io a casa e so più cose di voi».«Cosa sai? Diccelo!»«Ve lo dirò» disse, «ma solo se mi

promettete di non uccidere la prossimabambina che incontrate».

E a quel punto erano così curiosi chegridarono all’unisono: «Sì! Promesso!Saremo clementi! Parla!»

Allora lui disse: «C’è nostra sorella»e sollevò la tinozza.

La principessa uscì, bellissima neisuoi vestiti reali, con la stella d’orosulla fronte, delicata, leggiadra, perfetta.

Tutti piansero di gioia, la

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abbracciarono e baciarono e ci miseroun attimo ad affezionarsi.

Da quel momento in poi, lei rimasecon Beniamino ad aiutarlo nellefaccende di casa. Gli undici fratelli piùgrandi andavano ogni giorno nellaforesta a prendere selvaggina, cervi,piccioni e cinghiali, e Beniamino e suasorella cucinavano. Raccoglievano lalegna per il fuoco e le erbe per gli infusie quando gli altri tornavano a casa erapronto in tavola, tenevano in ordine lacasa, spazzavano il pavimento,rifacevano i letti, lei lavava e stendevaad asciugare al sole le loro camicie, unapiù piccola dell’altra.

Un giorno che avevano preparato un

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pasto sopraffino ed erano tutti seduti atavola a mangiare, la sorella pensò diaggiungere del prezzemolo allo stufatoper dargli un tocco in più. Così uscì araccoglierne un mazzetto nell’orto, notòdodici bei gigli che crescevano suldavanzale e pensò di fare cosa gradita aifratelli portandoli in casa per decorarela tavola.

Ma nel momento in cui tagliò i gigli,la casetta sparì e i dodici fratelli furonotrasformati in dodici corvi che volaronovia sugli alberi con versi lugubri escomparvero. La povera ragazza restòda sola nella foresta.

Si guardò intorno sgomenta e videuna vecchia.

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«Bambina mia, cos’hai fatto?» dissela vecchia. «Ora i tuoi dodici fratellisono stati trasformati in corvi e non sipuò tornare indietro».

«Non c’è proprio nessun modo?»disse tremante la ragazza.

«Beh, uno ce n’è» disse la vecchia«ma è così difficile che nessuno ci è mairiuscito».

«Dimmi, dimmi qual è, ti prego!»disse la ragazza.

«Devi restare in silenzio per setteanni, senza parlare né ridere. Se diraiuna sola parola, anche se sarà l’ultimominuto dell’ultimo giorno dell’ultimoanno, sarà stato tutto vano e i tuoi fratelliverranno uccisi da quell’unica parola».

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E la vecchia velocemente sparì lungouno scuro sentiero, prima che la ragazzapotesse rispondere.

Ma pensò: ‘Posso farcela! So cheposso farcela! Riscatterò i miei fratelli,vedrete!’

Scelse un alto albero, vi salì sopra, sisedette tra i rami e filando pensava frasé e sé: ‘Non parlare! Non ridere!’

Accadde però che un re andò acaccia in quella zona della foresta.Aveva un fido levriero che, mentrepercorrevano un sentiero, corseall’improvviso abbaiando e saltando aipiedi di un albero. Il re lo seguì e,vedendo la principessa con la stellad’oro sulla fronte, restò così colpito

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dalla sua bellezza che se ne innamoròall’istante. La chiamò e le chiese didiventare sua moglie.

Lei non disse una parola, ma annuìmostrando di aver capito. Il re siarrampicò sull’albero per aiutarla ascendere, la mise sul cavallo e se neandarono a casa insieme.

Il matrimonio fu celebrato con grandegioia e festeggiamenti, ma la gente notòlo strano silenzio della sposa. Non solonon parlava, ma non rideva neanche.

A ogni modo fu un matrimonio felice.Dopo qualche anno però, la madre del reiniziò a parlare male della sposa.Diceva: «Quella disgraziata che ti seiportato a casa è una stracciona

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qualunque. Chissà che malvagità pensa!Sarà anche muta, ma almeno qualchevolta potrebbe ridere. Chi non ride maiha la coscienza sporca, puoi starnecerto».

All’inizio il re non voleva ascoltarequei discorsi, ma col passare del tempola vecchia continuava a inventarsi ognigenere di cattiverie contro la nuora ealla fine lui cominciò a credere cheavesse ragione. La giovane regina fuchiamata a giudizio davanti a una corteformata da persone scelte dalla reginache non esitarono a condannarla a morte.

Nel cortile fu preparato un rogo perbruciarla. Il re guardava da una finestrain alto e le lacrime gli rigavano le

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guance, poiché la amava ancora con tuttoil cuore. La regina fu legata al palo e ilfuoco rosso iniziò a salire e lambiva giàla sua veste quando l’ultimo attimo deisette anni passò.

Allora il cortile risuonò di battitid’ali e arrivarono i dodici corvi.Appena toccarono terra con le zampe,tornarono a essere i fratelli, corseroverso il fuoco, calciarono via i ceppiardenti, slegarono la sorella espazzolarono via le scintille cheavevano preso a incendiarle la veste. Labaciarono e abbracciarono, portandolavia dal palo.

Quanto alla giovane regina, rise eparlò come aveva sempre fatto. Il re era

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stupefatto. Potendo finalmente parlare,gli disse perché era stata in silenziotanto tempo. Lui gioì nel sentire che tuttele cose terribili di cui sua madre l’avevaaccusata erano false.

Ma poi fu la vecchia a essereaccusata e la corte la dichiarò subitocolpevole. La infilarono in un barilepieno di serpenti velenosi e oliobollente e non visse ancora per molto.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 451, ‘The Maiden WhoSeeks Her Brothers’ (La fanciulla che cerca isuoi fratelli).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Julia e Charlotte Ramus.Storie simili: Alexander Afanasjev: ‘The

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Magic Swan Geese’ (Le oche cigno) [RussianFairy Tales (Fiabe russe)]; Katharine M.Briggs: ‘The Seven Brothers’ (Folk Tales ofBritain); Italo Calvino: ‘Il vitellino con lecorna d’oro’, ‘I dodici buoi’ (Fiabe italiane);Jacob e Wilhelm Grimm: ‘The Seven Ravens’ (Isette corvi) [Children and Household Tales(Fiabe del focolare)].Questa storia esiste in molte versioni ed èfacile capire perché. Il fascino del motivoricorrente di fratelli quasi identici trasformatiin uccelli, della sorella che involontariamentecausa la trasformazione e a cui viene posta unacondizione quasi impossibile, della sua fedeltàe del suo coraggio e del terribile destino chesembra travolgerla e il tempismo perfetto delritorno dei fratelli e il suono del loro battitod’ali: tutto ciò la rende una storia davvero bella.

La versione dei Grimm affronta in modogoffo il tema della casetta magica e dei gigli. Iointroduco la vecchia prima che nell’originale,

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per amor di tempismo.Un dettaglio interessante è che la madre del

re prima viene chiamata Mutter (mamma) e poiStiefmutter (matrigna), quasi a correggere unprecedente scivolone linguistico. Ma lei cos’è,mamma o matrigna? Non è la prima volta cheviene fuori questa questione. È chi racconta lastoria che deve decidere, non può farlo nessunaltro.

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SEI

FRATELLINO ESORELLINA

Il fratellino prese la sorellina per mano.«Ascoltami» le disse a bassa voce,

«da quando la mamma è morta nonabbiamo avuto una sola ora di felicità:la matrigna ci picchia tutti i giorni equell’orba di sua figlia ci prende a calciogni volta che ci avviciniamo. Per dipiù, mangiamo solo croste di pane

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raffermo. Il cane sotto il tavolo mangiameglio di noi, almeno a lui tocca unpezzo di carne saporita ogni tanto. Dio,se la mamma vedesse come ci toccavivere! Andiamocene per il mondo.Nemmeno i vagabondi vivono peggio dinoi».

La sorellina annuì, perché tutto quelloche diceva il fratello era vero.

Aspettarono che la matrigna andassea fare un pisolino, poi uscirono di casa,chiudendosi la porta alle spalle senzafar rumore, e camminarono per l’interagiornata attraverso campi e prati,pascoli e rocce. Iniziò a piovere e lasorellina disse: «Dio piange e con luipiangono i nostri cuori».

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A sera arrivarono nella foresta.Esausti, affamati, tristi e impauriti dalletenebre che stavano calando intorno aloro, entrarono in un albero cavo e siaddormentarono.

Quando al mattino si svegliarono, ilsole stava già illuminando l’internodell’albero.

Il fratellino disse: «Svegliati, sorella!Fa caldo, c’è il sole e ho sete. Misembra di sentire il rumore di unasorgente, andiamo a bere!»

Anche la sorellina si alzò e, manonella mano, andarono in direzione delrumore che sentivano tra gli alberi.

Il problema era che la matrigna erauna strega. Ci vedeva anche a occhi

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chiusi e aveva osservato i bambini cheuscivano di casa in punta di piedi. Liaveva seguiti come fanno le streghe,acquattata a terra, e aveva gettato unincantesimo su tutte le sorgenti dellaforesta, per poi tornare di soppiatto acasa.

Ben presto il fratellino e la sorellinatrovarono la sorgente che avevanosentito e videro l’acqua fresca escintillante che sgorgava dalle pietre.Era così invitante che entrambi siinginocchiarono a bere.

Ma la sorellina aveva imparato adascoltare il mormorio dell’acqua e sentìla sorgente parlare. Il fratellino stavaavvicinando le mani a coppa alla bocca

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secca e lei gridò: «Non bere! Lasorgente è stregata. Tutti quelli chebevono la sua acqua verrannotrasformati in tigri. Buttala via, buttalavia! Mi farai a pezzi!»

Il fratellino le diede ascolto,nonostante la sete. Continuarono acamminare e presto trovarono un’altrasorgente. Stavolta fu lei a inginocchiarsiper prima e avvicinare la testaall’acqua.

«No, nemmeno questa!» disse. «Stadicendo ‘Chi beve la mia acquadiventerà un lupo’. Sarà stata lamatrigna a fare un incantesimo».

«Ma io ho tanta sete!» disse lui.«Se diventi un lupo, poi mi mangi in

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un boccone».«Ti prometto che non lo farò!»«I lupi non si ricordano delle

promesse. Ci deve pur essere unasorgente che non è stregata. Continuiamoa cercare».

Poco dopo trovarono una terzasorgente. Stavolta la sorellina si chinòad ascoltare attentamente e sentì l’acquadire: «Chi mi berrà, in un capriolo sitrasformerà».

Si girò a dirlo a suo fratello, ma eratroppo tardi. Aveva così tanta sete che siera buttato a terra lungo lungo con lafaccia tuffata nell’acqua. E subito il suoviso cambiò, allungandosi e coprendosidi peli sottili, le membra gli si

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trasformarono in zampe, si alzò in piedivacillando ed ecco lì un piccolocapriolo.

La sorellina lo vide guardarsi intornoinnervosito, pronto a scappare, così gligettò le braccia al collo. «Fratello, sonoio! Tua sorella! Non scappare o ciperderemo per sempre! Oh, che hai fatto,povero fratello mio? Che hai fatto?»

Pianse e anche il capriolo pianse conlei. Alla fine la sorellina si fece forza edisse: «Non piangere, mio dolcecapriolo. Non ti lascerò mai e poi mai.Vieni, faremo come si può».

Si tolse la giarrettiera d’oro cheindossava e la mise intorno al collo delcapriolo, intrecciò una corda di giunchi

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e la legò alla giarrettiera. E tenendolocosì al guinzaglio, si inoltrarono semprepiù nel profondo della foresta.

Dopo un lungo cammino, giunsero inuna radura dove c’era una casetta.

La sorellina si fermò e si guardòintorno. Tutto tranquillo. Il giardino eracurato e la porta era aperta.

«C’è qualcuno in casa?» chiamò.Nessuna risposta. Entrarono e videro

che era la casetta più ordinata e lindache avessero mai visto. La matrignastrega non si occupava delle incombenzedomestiche e casa loro era semprefredda e sporca, mentre questa eraincantevole.

«Facciamo così» disse la sorellina al

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capriolo, «baderemo noi alle faccendedi casa e la terremo ordinata per i suoipadroni. Così non sarà un problema sestiamo qui».

Nel frattempo continuava a parlare alcapriolo. Lui la capiva abbastanza benee obbediva quando lei gli diceva: «Nonmangiare le piante in giardino e quandodevi fare i tuoi bisogni vai fuori».

Gli preparò un letto di morbidomuschio e foglie davanti al focolare.Ogni mattina lei usciva a cercarequalcosa da mangiare: baccheselvatiche, noci o radici saporite.C’erano carote, fagioli e cavoli nell’ortoe raccoglieva sempre tanta erba dolce efresca per il capriolo, che gliela

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mangiava dalle mani. Lui era felice digiocarle attorno e la sera, dopo averpulito e detto le preghiere, la sorellina sistendeva con la testa sulla schiena delcapriolo a mo’ di cuscino. Se ilfratellino fosse stato ancora umano, laloro vita sarebbe stata perfetta.

Vissero così per qualche tempo. Maun giorno il re organizzò una grossabattuta di caccia nella foresta. Tra glialberi risuonavano il corno, l’abbaiaredei segugi e le grida gioiose deicacciatori. Il capriolo drizzò leorecchie, con la voglia di parteciparealla caccia.

«Sorella, lasciami andare con loro!»supplicò. «Darei qualsiasi cosa per

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prendere parte alla caccia!»La implorò con fare così

appassionato che lei si convinse.«Però» gli disse aprendo la porta,

«fa’ in modo di tornare entro sera. Iochiudo la porta a chiave, perché magari icacciatori sfrenati vengono qui, quindiper farmi capire che sei tu bussa e dici‘Sorella cara, tuo fratello è tornato’. Senon lo dirai, non aprirò la porta».

Il giovane capriolo si catapultò fuorie saltellò via tra gli alberi. Non si eramai sentito così bene e così libero comeora che i cacciatori gli stavano dietro enon riuscivano a catturarlo; ogni volta siavvicinavano pensando di averlo preso,ma lui balzava tra i cespugli e spariva.

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Quando si fece buio, corse a casa ebussò alla porta.

«Sorella cara, tuo fratello è tornato!»La sorellina aprì la porta, lui

trotterellò dentro e le raccontò tuttodella caccia. Poi dormì profondamenteper tutta la notte.

Giunto il mattino, sentì di nuovo ilsuono del corno da lontano e i segugi enon poté resistere.

«Sorella, per favore! Apri la porta, tisupplico! Li devo raggiungere o moriròdi desiderio!»

Contrariata, la sorellina aprì la portae disse: «Non dimenticarti la parolad’ordine quando torni».

Lui non rispose e con un balzo era già

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verso la caccia. Quando il re e icacciatori videro il capriolo con ilcollare d’oro, si lanciaronoall’inseguimento. E il piccolo corse tuttoil giorno in mezzo a rovi e cespugli,boschi e radure, in testa aquell’inseguimento selvaggio. Più volterischiò di essere catturato e, al calar delsole, lo raggiunse un colpo di fucile chelo ferì alla gamba. Ora non poteva piùcorrere veloce e uno dei cacciatoririuscì a seguirlo fino a casa, lo videbussare e udì le parole: «Sorella cara,tuo fratello è tornato!»

Il cacciatore vide la porta che siapriva, la ragazza che lo faceva entraree chiudeva. Andò a dirlo al re.

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«È così?» disse il re. «Bene, domanigli daremo la caccia con più ferocia»

La sorellina si spaventò quando videche il capriolo era ferito. Gli medicò lazampa con un cataplasma di erbe e lafasciò perché guarisse in fretta. Non erauna ferita seria, in effetti, e quando almattino il piccolo capriolo si svegliò, sene era già dimenticato. Riprese asupplicare perché voleva uscire.

«Sorella, non immagini la voglia diandare a caccia che mi infiamma! Lidevo raggiungere o divento matto!»

La sorellina iniziò a piangere. «Ieri tihanno ferito» singhiozzò, «e oggi tiuccideranno. E io resterò sola in questiboschi selvaggi: pensaci! Non mi resta

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nessuno! Non posso lasciarti andare!»«Allora morirò qui davanti a te.

Quando sento le note del corno, ogniparte del mio corpo salta di gioia. Ildesiderio è insostenibile, sorella! Tisupplico, lasciami andare!»

Non riuscendo a resistere davanti aquelle suppliche, la sorellina, con cuorepesante, sbloccò la porta. Senzaguardarsi indietro, il capriolo salterellòfuori e corse via a balzi nella foresta.

Il re aveva dato ordine ai cacciatoridi non fare del male al capriolo con ilcollare d’oro. «Se lo vedete, sollevate ifucili e trattenete i segugi. Dieci tallerid’oro a chi lo avvista per primo!»

Gli diedero la caccia ovunque nella

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foresta per tutto il giorno e alla fine, alcalar del sole, il re richiamò icacciatori.

«Mostratemi dov’è la casetta. Se nonriusciamo a prenderlo in un modo, lometteremo in trappola in un altro. Qualera la filastrocca che diceva?»

Il cacciatore gliela ripeté. Giunti allacasetta, il re bussò e disse: «Sorellacara, tuo fratello è tornato!»

Subito la porta si aprì. Il re entrò e sivide davanti la più bella ragazza maiincontrata prima. Lei si spaventò avedere un uomo e non il suo piccolocapriolo, ma l’uomo indossava unacorona d’oro e sorrideva gentile.

Il re le toccò la mano. «Vuoi venire a

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palazzo e diventare mia moglie?»«Direi di sì» rispose la sorellina.

«Ma il mio piccolo capriolo dovràvenire con me. Non andrò da nessunaparte senza di lui».

E detto questo, entrò saltellando ilcapriolo. La sorellina lo prese per ilcollare e lo legò con la corda di giunchi.

Il re mise la ragazza sul cavallo etornarono a palazzo, con il capriolo chetrotterellava fiero dietro a sua sorella eal re.

Presto vennero celebrate le nozze e lasorellina prese la corona. E per quel cheriguarda il capriolo, ora aveva l’interogiardino del palazzo per giocare e unasquadra di servi che si occupavano di

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lui: lo Stalliere dell’Erba, il Vallettodelle Corna e degli Zoccoli e la Ragazzadal Pettine d’Oro, incaricata distrigliarlo a fondo ogni giorno prima cheandasse a letto e di occuparsi di tutte lezecche, le pulci e i pidocchi che avevaraccolto.

Erano tutti felici.In quel lungo periodo, la matrigna

aveva pensato che fratello e sorellafossero stati fatti a pezzi dagli animaliselvatici. Quando lesse sui giornali chela sorellina era diventata maestà e che ilsuo amico fedele era un capriolo, nonimpiegò molto a capire cos’erasuccesso.

«Quel disgraziato avrà bevuto dal

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ruscello su cui ho fatto l’incantesimo delcapriolo!» disse a sua figlia.

«Non è giusto» gemette quella.«Regina dovevo diventarlo io, non lei».

«Smettila di frignare» disse lavecchia. «Avrai ciò che ti spetta almomento giusto».

Il tempo passò e la regina diede allaluce un bel bambino. Quel giorno il reera fuori a caccia. La strega e sua figliaandarono a palazzo travestite dacameriere e riuscirono a trovare lacamera della regina.

«Venite, maestà» disse la strega allaregina, che giaceva debole ed esaustanel letto. «Il bagno è pronto. Vi faràsentire molto meglio. Venite con noi!»

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La trasportarono nella stanza dabagno e la misero nella tinozza. Poi viaccesero un fuoco sotto, un fuoco cosìgrande che la regina soffocò per il fumo.Per nascondere il crimine, fecero unincantesimo e misero un muro al postodella porta, coperto con un arazzo.

«Ora tu ti metti nel letto» disse lastrega alla figlia e poi fece unincantesimo per farla somigliareesattamente alla regina. A parte l’occhioorbo, per cui non c’era niente da fare.«Stenditi con quel lato della testa sulcuscino, e se qualcuno ti parla, rispondiborbottando».

Quando il re tornò quella sera e sentìche aveva avuto un figlioletto, fu

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contentissimo. Andò nella camera dellacara moglie e stava per aprire le tendeper vedere come si sentiva, quando lafalsa cameriera disse: «No, maestà! Nondovete assolutamente aprire! Ha bisognodi riposo, non deve essere disturbata».

Il re uscì in punta di piedi, senzaaccorgersi che nel letto c’era una falsaregina.

Quella notte il capriolo non dormìnella stalla. Salì le scale fino allacamera del bambino e non volle piùandarsene.

Non poteva spiegare il motivo,poiché dalla morte della regina avevaperso la facoltà di parlare, così siaddormentò disteso accanto alla culla.

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A mezzanotte la balia che dormivanella stanza si svegliò all’improvviso evide arrivare la regina, che sembravabagnata dalla testa ai piedi, comeappena uscita da un bagno. Si chinòsulla culla e baciò il bambino, accarezzòil capriolo e disse:

«Come sta il mio figliolo? Come sta ilcapriolo?Due volte ancora ritornerò, e subitodopo sparire dovrò».

E uscì senza aggiungere altro.La balia si spaventò talmente tanto

che non lo disse a nessuno. Pensava chela regina fosse ancora a letto ariprendersi dalle fatiche del parto.

Ma la notte successiva accadde lastessa cosa, però questa volta la regina

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apparve coperta di fiammelle e disse:«Come sta il mio figliolo? Come sta ilcapriolo?Un volta ancora ritornerò, e subitodopo sparire dovrò».

La balia pensò di dirlo al re. Allora lanotte successiva attesero insieme nellastanza del bambino e quando suonò lamezzanotte, la regina entrò di nuovo,stavolta in una spirale di fumo nero edenso.

Il re gridò: «Dio mio, cos’è?»La regina lo ignorò e si diresse verso

il bambino e il capriolo come aveva giàfatto in precedenza e disse:

«Come sta il mio figliolo? Come sta ilcapriolo?

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Vengo da voi per l’ultima volta, perchédevo sparire stavolta...»

Il re provò ad abbracciarla, ma lamoglie svanì nel fumo, scivolandogli viadalle braccia e mescolandosi all’aria.

Il capriolo strattonò il re per lamanica e lo spinse verso il punto in cuipendeva l’arazzo. Poi tirò l’arazzo eurtò il muro con le piccole corna. Il recapì e ordinò ai servi di abbattere ilmuro. A causa del trambusto, la falsaregina uscì dal letto senza che nessuno lavedesse e se ne andò in punta di piedi.Tirato giù il muro, scoprirono la stanzada bagno annerita dalla fuliggine e ilcorpo della regina che giaceva pulito,pallido e fresco nel bagno.

Il re gridò: «Moglie! Cara moglie

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mia!»Si chinò ad abbracciarla e per grazia

di Dio quella resuscitò. Gli raccontò delterribile crimine che era stato commessoe il re mandò il suo più velocemessaggero ai cancelli del palazzo,giusto in tempo per dire alle guardie difermare la strega e sua figlia mentrecercavano di filarsela.

Vennero portate entrambe davanti allacorte. La condanna fu pronunciata: lafiglia sarebbe stata portata nel boscoperché le bestie selvatiche lamangiassero e la strega sarebbe statabruciata. Non appena la vecchia furidotta in cenere, l’incantesimo perse ilsuo effetto sul capriolo che fu

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ritrasformato in fratellino, di nuovoumano, e insieme alla sorellina visserofelici per il resto della loro vita.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 450, ‘Little Brother andLittle Sister’ (Fratellino e sorellina).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmdalla famiglia Hassenpflug.Storie simili: Alexander Afanasjev: ‘SisterAlionushka, Brother Ivanushka’ (SorellinaElenuccia, fratellino Giovannino) [RussianFairy Tales (Fiabe russe)]; GiambattistaBasile: ‘Ninnillo e Nennella’ (Lo cunto dei licunti); Jacob e Wilhelm Grimm: ‘The LittleLamb and The Little Fish’ (L’agnellino e ilpesciolino), ‘The Three Little Men in theWoods (I tre omini nel bosco) [Children’s andHousehold Tales (Fiabe del focolare)]; Arthur

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Ransome: ‘Alenoushka and Her Brother’ (OldPeter’s Russian Fairy Tales).Una delle poche storie di fantasmi presentinella raccolta, somiglia in un certo senso a ‘Itre ometti nel bosco’ (p. 86).

Secondo David Luke, nella sua introduzionea Brothers Grimm: Selected Tales, nella primatrascrizione della storia del 1812, il ruscellostregato era solo uno, quindi il fratello venivatrasformato subito in capriolo, ma inun’edizione successiva Wilhelm Grimmaggiunse gli altri due per amore del numero tre,che ricorre nelle fiabe.

La fiaba, così come la presentano i Grimm,comincia bene, ma poi perde vigore. La partefinale presenta vuoti inutili e passaggi chelasciano il lettore sconcertato: se la strega esua figlia hanno ucciso la sorellina nel bagnoreale, dov’è finito il corpo? Perché il capriolonon ha detto nulla quando ha visto il fantasma?E poi, perché il capriolo non ha fatto niente di

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niente? Perché la balia non ha detto nulladell’apparizione della regina se non dopo‘molte notti’? La figlia della strega è rimastasempre a letto per tutto il tempo?

Non è che queste siano cose di cui le fiabenon si preoccupano affatto e per cui sarebbefolle aspettarsi delle risposte; tutt’altro, qui sitratta di goffaggine narrativa. Ho pensato chefosse possibile lavorarci un po’ e migliorarla.

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SETTE

RAPERONZOLO

C’erano una volta un marito e unamoglie che desideravano tanto avere unbambino, ma per molto tempo lodesiderarono invano. Però alla fine lamoglie vide da segni inequivocabili cheDio aveva esaudito il suo desiderio.

Su un muro della loro casa c’era unafinestrella che dava su un magnifico ortopieno di ogni tipo di frutta e verdura.

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Tutt’intorno all’orto c’era un muro alto enessuno osava entrare, perché lapadrona era una strega potentissima dicui tutti avevano paura. Un giorno ladonna era davanti alla finestra e vide unbel letto di valerianella o raperonzoliche dir si voglia. Sembravano così verdie freschi che le venne voglia diassaggiarne qualcuno. La voglia crebbeogni giorno di più, fino a diventare unamalattia vera e propria.

Il marito, preoccupato, disse:«Moglie cara, che ti succede?»

«Oh» disse lei, «se non avrò qualcheraperonzolo che cresce nell’orto dietrocasa morirò».

L’uomo, che amava molto la moglie,

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pensò: ‘Costi quel che costi, devoportargliene qualcuno, non posso farlamorire’. Così, all’imbrunire, siarrampicò sull’alto muro, entrò nell’ortodella strega e raccolse una manciata diraperonzoli. Corse via alla svelta e liportò alla moglie, che subito li preparòin insalata e li divorò.

Erano buoni. A dire il vero eranocosì buoni che lei ne ebbe sempre piùvoglia e pregò il marito di andare aprenderne altri. Così, ancora una volta,all’imbrunire, lui uscì e si arrampicò sulmuro. Ma nel momento in cui poggiòpiede a terra e si girò per andare versol’aiuola dei raperonzoli, restò di sassotrovandosi di fronte la strega.

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«Allora sei tu il disgraziato che miruba i raperonzoli!» disse lei,fissandolo. «La pagherai, te loassicuro».

«Giusto» disse l’uomo. «Non discutosu questo, ma vi supplico di concedermiuna grazia. Dovevo farlo. Mia moglie havisto i raperonzoli da quella finestralassù e le è venuta una voglia matta,sapete com’è: una voglia così forte chene sarebbe morta, se non li avessemangiati. Non avevo scelta».

La strega fu comprensiva. La rabbiasparì dal suo volto e annuì. «Capisco.Be’, se è così, puoi prendere tutti iraperonzoli che vuoi. Ma a unacondizione: la bambina che tua moglie

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porta in grembo sarà mia. Staràbenissimo, me ne occuperò come sefosse figlia mia».

L’uomo, spaventato, accettò lacondizione e si affrettò a tornare a casacon i raperonzoli.

Quando fu tempo e la moglie partorì,la strega apparve vicino al letto e presela bambina tra le braccia. «La chiameròRaperonzolo» disse e svanironoentrambe.

Raperonzolo crebbe e divenne la piùbella bambina su cui il sole avesse maipoggiato i suoi raggi. A dodici anni, lastrega la portò nel cuore del bosco e lachiuse in una torre senza porte, senzascale e senza finestre, tranne una

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piccolissima proprio in cima. E le volteche voleva entrare, chiamava:

«Raperonzolo, Raperonzolo,buttami i capelli».

Raperonzolo aveva dei bei capelli,chiari e lucenti come fili d’oro. Quandosentiva la voce della strega, se lislegava, li attorcigliava intorno algancio della finestra e poi li facevascendere giù fino a terra in tutta la lorolunghezza, per circa venti iarde, e lastrega si arrampicava fino alla stanzetta.

Passò qualche anno. Un giorno ilfiglio del re uscì a cavallo nella foresta.Arrivato nei pressi della torre, sentì uncanto così delizioso che si fermò adascoltare. Ovviamente era Raperonzoloche, sempre sola, cantava con voce

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soave per passare il tempo.Il principe voleva salire da lei, ma

non c’erano porte. Confuso, decise diandare a casa, ma deciso a ritornare pervedere se c’era un altro modo di saliresulla torre.

Tornò l’indomani, senza però averepiù successo del giorno precedente.Impossibile vedere chi cantava cosìbene! Ma mentre ci pensava sentìarrivare qualcuno e si nascose dietro unalbero. Era la strega. Una volta sotto latorre, il principe la sentì chiamare:

«Raperonzolo, Raperonzolo,buttami i capelli».

Con stupore, vide una lunga chiomad’oro srotolarsi dalla finestra, e lastrega che ci si arrampicava fino in

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cima.‘Bene’ pensò il principe, ‘se è così

che si sale, tenterò la fortuna’.Così, il giorno successivo,

all’imbrunire andò alla torre e chiamò:«Raperonzolo, Raperonzolo,buttami i capelli».

I capelli vennero giù e il principe liprese, folti e profumati com’erano, e cisi arrampicò fino a entrare dallafinestra.

All’iniziò Raperonzolo parveterrorizzata. Non aveva mai visto unuomo in vita sua. Lo trovava strano,perché non somigliava per niente allastrega, ma era bello e la confondevatanto da impedirle di dire anche solo unaparola. Ma siccome ai principi le parole

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non mancano mai, lui la pregò di nonavere paura e le spiegò che avevasentito il suo canto delizioso proveniredalla torre e che non avrebbe avuto pacefinché non avesse trovato chi cantava,ma ora che vedeva il suo viso potevadirlo ancora più bello della sua voce.

Raperonzolo, incantata da quelleparole, non ebbe più paura. Anzi,cominciò a provare un grande piacereper la compagnia del principe eacconsentì di buon grado a una secondavisita. Nel giro di pochi giornil’amicizia si trasformò in amore e,quando il principe le chiese di sposarlo,Raperonzolo disse subito di sì.

All’inizio la strega non sospettò

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nulla. Ma un giorno Raperonzolo ledisse: «Pensa che strano, i vestiti che honon mi vanno più bene. Sono tutti troppostretti».

La strega capì subito.«Ragazzaccia!» disse. «Mi hai

ingannata! Ecco cosa succede ad avereun amante! Be’, metterò fine a questacosa».

Prese i bei capelli di Raperonzolonella mano sinistra, con la destraagguantò delle forbici e zac-zac! Leciocche lucenti su cui il principe si eraarrampicato caddero a terra.

Poi con un incantesimo la stregatrasportò Raperonzolo in un postodeserto e lontano. Lì la poverina

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soffriva moltissimo e dopo un po’ dimesi diede alla luce due gemelli, unmaschio e una femmina. Vivevano comemendicanti: non avevano soldi, nonavevano casa, avevano solo l’elemosinadei passanti che sentivano Raperonzolocantare. Spesso avevano fame: ininverno per poco non morivano difreddo e d’estate il sole infuocatobruciava loro la pelle.

Ma torniamo alla torre.La sera del giorno in cui i capelli di

Raperonzolo furono tagliati, il principevenne come al solito e chiamò:

«Raperonzolo, Raperonzolo,buttami i capelli».

Ad aspettarlo c’era la strega. Avevalegato i capelli di Raperonzolo al gancio

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della finestra e, quando lo sentìchiamare, li buttò giù come faceva laragazza. Il principe si arrampicò, mainvece di trovare l’amata Raperonzolo,trovò ad aspettarlo alla finestraun’orribile vecchia folle di rabbia, chemandava lampi di furia dagli occhi eimprecava contro di lui: «Allora ilbellimbusto sei tu! Ti sei intrufolatonella torre, ti sei intrufolato nel suocuore, ti sei intrufolato nel suo letto, seiun furfante, una sanguisuga, uncascamorto, un bastardo di nobili natali!Be’, l’uccello non è più nel nido! Se l’èmangiato il gatto. Che te ne pare, eh? Eti verrà a graffiare quei begli occhi.Raperonzolo non c’è più, capito? Non la

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vedrai mai più».E gli diede una spinta, facendolo

cadere dalla finestra. Un cespuglio dirovi fermò la caduta, ma gli bucò gliocchi. Cieco nel corpo e spezzato nellospirito, il principe diventò unvagabondo.

Visse da mendicante, senza saperedove si trovava. Ma un giorno sentì unavoce familiare, una voce amata, e laseguì. Avvicinandosi udì altre due vociche si univano alla prima, quelle deibambini, che subito smisero di cantare,perché Raperonzolo, la loro mamma,aveva riconosciuto il principe e gli eracorsa incontro.

Si abbracciarono piangendo dalla

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gioia e poi due lacrime di Raperonzolocaddero sugli occhi del principeridandogli la vista. Allora lui rivide lacara Raperonzolo e vide per la primavolta i due figli.

Così, di nuovo insieme, tornarono alregno del principe, dove furono accolti evissero ancora a lungo felici.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 310, ‘The Maiden in theTower’ (Raperonzolo).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Friedrich Schultz, basata su ‘Persinette’ daLes Contes des contes (Tales of Tales, 1698)di Charlotte-Rose de Caumont de La Force.Storie simili: Giambattista Basile:‘Petrosinella’ (Lo cunto de li cunti); Italo

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Calvino: ‘Prezzemolina’ (Fiabe italiane).Come ‘Il principe ranocchio’ (p. 25), anche‘Raperonzolo’ sopravvive nel pensiero popolarecome evento singolo più che come unanarrazione coesa. Memorabile l’immagine deilunghissimi capelli che si srotolano giù dallafinestra della torre, ma ciò che accade prima edopo l’episodio dei capelli viene spessodimenticato. Cosa succede ai poveri genitori,ad esempio? Desiderano per anni di avere unafiglia, finalmente ne nasce una, la strega laporta via e non sentiamo più parlare di loro.Questo è, di certo, uno degli aspetti per cui lefiabe sono diverse dai romanzi.

Nell’ultima versione della fiabe dei fratelliGrimm, Wilhelm censurava lo scambio traRaperonzolo e la strega presente invece in tuttele versioni precedenti e in realtà anche nellaprima dei Grimm del 1812. Invece di rivelare lagravidanza dicendo che i vestiti non le andavanopiù bene, Raperonzolo, mentre tirava su la

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strega, le chiedeva come mai fosse tanto piùpesante del principe. Ma non mi sembra unmiglioramento: rende Raperonzolo stupida piùche innocente. Inoltre, nella storia il tema dellagravidanza è centrale: come scrive MarinaWarner nel suo From the Beast to the Blonde,ciò che la moglie ha tanta voglia di mangiare èin origine prezzemolo, cioè una nota piantaabortiva. Inoltre, ‘Persinette’, il titolo dellastoria di La Force su cui si basa ‘Raperonzolo’,significa ‘Prezzemolina’.

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OTTO

I TRE OMETTI NELBOSCO

C’erano una volta un vedovo e unavedova. L’uomo aveva una figlia e anchela donna ne aveva una. Le ragazze siconoscevano, un giorno andarono a fareuna passeggiata insieme e arrivarono acasa della donna.

La vedova prese da parte la figlia delvedovo e, senza farsi sentire dall’altra

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ragazza, le disse: «Sai, vorrei sposaretuo padre. Diglielo e vedi che ne pensa.Se dice di sì, ti prometto che ogni giornoavrai latte per lavarti il viso, che famolto bene all’aspetto, e vino da bere. Emia figlia avrà solo acqua. Questo perdire quanto ci tengo a sposarlo».

La ragazza andò a casa e riferì tuttoal padre.

L’uomo disse: «Sposarla? Ohsignore! Che fare? Il matrimonio è unadelizia, ma può essere anche untormento, sai».

Non riusciva a decidersi. Alla fine sisfilò uno stivale e disse alla figlia:«Ecco, prendi questo. C’è un buco nellasuola. Vai ad appenderlo in solaio e

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riempilo d’acqua. Se la trattiene,prenderò moglie, se l’acqua fuoriesceinvece no».

La ragazza fece quel che le era statodetto. Con l’acqua il cuoio si gonfiò e ilbuco si strinse fino a chiudersi, cosìdopo aver riempito lo stivale, l’acqua cirestò dentro. La ragazza lo disse alpadre che salì in solaio a vedere.

«Be’, pensa un po’! Allora mitoccherà sposarla» disse. «Non sirinnegano le promesse fatte».

Si mise il vestito migliore per andarea far la corte alla vedova e poco dopoerano già sposati.

La mattina seguente, al risveglio, lafiglia dell’uomo trovò latte per lavarsi il

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viso e vino da bere. La figlia delladonna soltanto acqua.

La seconda mattina, entrambe leragazze trovarono acqua per lavarsi eacqua da bere.

La terza mattina, la figlia dell’uomotrovò acqua e la figlia della donna trovòlatte per lavarsi e vino da bere e così fututte le mattine a venire.

Il fatto era che la donna odiava lafigliastra e ogni giorno pensava a unnuovo modo per tormentarla. Alla radicedel suo odio c’era un’invidia amara,perché la figliastra era bella e dicarattere buono, mentre sua figlia erabrutta ed egoista e nemmeno la panna dilatte l’avrebbe resa più graziosa.

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Un giorno d’inverno in cui tutto eraghiacciato, la donna preparò un vestitodi carta. Chiamò la figliastra e le disse:«Ecco, mettiti questo. E poi vai nelbosco a raccogliermi delle fragole. Sonol’unica cosa di cui ho voglia».

«Ma le fragole non crescono ininverno» disse la ragazza. «La nevericopre tutto e la terra è dura come ferro.E perché devo indossare questo vestitodi carta? Il vento ci passerà attraverso ei rovi lo ridurranno a brandelli».

«Non permetterti di contraddirmi!»disse la matrigna. «Vai e non tornarefino a che non avrai riempito il cesto difragole». Poi le diede un pezzo di paneduro come il legno. «Eccoti da

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mangiare» disse. «Fattelo bastare pertutto il giorno, visto che non nuotiamonell’oro». Tra sé e sé pensava: ‘Se nonla uccide il freddo, la ucciderà la fame enon l’avrò più tra i piedi’.

La ragazza fece come le era statodetto. Si mise quell’inconsistente vestitodi carta e uscì col cesto. Ovviamentec’era neve dappertutto e non si vedevanemmeno una foglia verde, figuriamociuna fragola. Non sapeva dove cercare,così entrò nel bosco prendendo unsentiero che non conosceva e ben prestoarrivò a una casetta alta più o menoquanto lei. Seduti su una pancaall’esterno c’erano tre ometti che subitosi alzarono tutti in piedi per fare un

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inchino. Le arrivavano sì e no alginocchio.

«Buongiorno» disse lei.«Che ragazza ammodo!» disse uno.«Che buone maniere» disse il

secondo.«Dille di entrare» disse il terzo. «Fa

freddo».«È vestita di carta» disse il primo.«Alla moda, immagino» disse il

secondo.«Che gelo, comunque» disse il terzo.«Vuole entrare, signorina?» dissero

tutti insieme.«Gentile da parte vostra» disse lei.

«Sì, accetto».Prima di aprire la porta, batterono le

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pipe per svuotarle.«Non si fuma vicino alla carta» disse

uno.«Prende fuoco in un attimo» disse il

secondo.«Pericolosissimo» disse il terzo.Le diedero una sediolina e tutti e tre

si sedettero su una panca vicino alfocolare. Lei aveva fame e tirò fuori ilpezzo di pane.

«Vi dispiace se faccio colazione?»disse.

«Quello cos’è?»«Un pezzo di pane».«Possiamo averne un pezzetto?»«Certo» disse e lo spezzò in due

parti. Era così duro che fu costretta a

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sbatterlo sul bordo del tavolino. Diedeagli ometti il pezzo più grande e prese arosicchiare il più piccolo.

«Che ci fai qui in mezzo al bosco?»dissero.

«Devo raccogliere fragole» disse.«Non so dove le troverò, ma non possotornare a casa fino a che non avròriempito il cesto».

Il primo ometto sussurrò qualcosa alsecondo e il secondo sussurrò qualcosaal terzo e il terzo di nuovo al primo. Poila guardarono.

«Spazzeresti il vialetto?» dissero.«C’è una scopa nell’angolo. Giusto unapulitina davanti alla porta sul retro».

«Sì, volentieri» disse lei prendendo

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la scopa e uscì.Non appena se ne fu andata dissero:

«Che possiamo regalarle? Una ragazzacosì perbene. Ha diviso il pane con noi,anche se era tutto ciò che aveva! Chepossiamo regalarle?»

E il primo disse: «Che diventisempre più bella».

Il secondo disse: «Che ogni volta cheparla le cada oro dalla bocca».

Il terzo disse: «Che arrivi un re asposarla».

Nel frattempo, la ragazza spazzava laneve dal vialetto e ci trovò nientemenoche delle fragole, dozzine di fragole,rosse e mature come d’estate. Guardòverso la casa e vide i tre ometti che la

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guardavano dalla finestra sul retro.Annuivano e le dicevano: «Sì, fai pure,raccogli tutte quelle che vuoi».

Riempì il cesto e andò a ringraziaregli ometti. Loro si misero tutti in fila afare un inchino e stringerle la mano.

«Arrivederci! Arrivederci!Arrivederci!»

Tornò a casa e diede il cesto allamatrigna.

«Dove le hai prese?» scattò la donna.«Ho trovato una casetta...» iniziò lei,

ma le cadde una moneta dalla bocca. Eappena riprese a parlare, monete emonete caddero sul pavimentoammucchiandosi intorno alle suecaviglie.

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«Guarda che spaccona!» disse lasorellastra. «Se voglio lo so fareanch’io. Non ci vuole mica tanto».

Ovviamente la sorellastra era folled’invidia e appena restarono sole dissea sua madre: «Lasciami andare nelbosco a raccogliere fragole! Ci voglioandare! Ci voglio andare e basta!»

«No, cara» rispose la madre, «fatroppo freddo. Rischi di morirecongelata».

«E dài, per favore! Ti darò la metàdelle monete d’oro che mi cadrannodalla bocca! Su!»

Alla fine la madre cedette. Prese lasua pelliccia migliore e la accomodòalle misure della figlia, le diede dei

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tramezzini con paté di fegato di pollo eun gran bel pezzo di torta al cioccolatoper il viaggio.

La sorellastra andò nel bosco e trovòla casetta. I tre ometti erano dentro eguardavano dalla finestra, ma lei non livide, aprì la porta ed entrò.

«Spostatevi da lì che mi vogliosedere vicino al fuoco».

I tre ometti si sedettero sulla panca ela guardarono tirar fuori i tramezzini conil paté.

«Che cos’è?» dissero.«Il mio pranzo» disse lei con la

bocca piena.«Possiamo averne un pezzetto?»«Certo che no».

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«E un pezzo della torta? È grande.Non te la mangi mica tutta?»

«Quasi non basta per me. Mangiatevila vostra, di torta».

Quando ebbe finito di mangiare, ledissero: «Puoi andare a spazzare ilvialetto, ora».

«Io non spazzo nessun vialetto» disselei. «Che mi avete preso per la vostraserva? Che nervi».

La guardavano continuando a fumarele pipe e, dato che era evidente che nonle avrebbero dato niente, uscì in cercadelle fragole.

«Che maleducata!» disse il primoometto.

«Egoista, per giunta» disse il

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secondo.«Non somiglia per niente all’altra»

disse il terzo. «Che possiamoregalarle?»

«Che diventi ogni giorno più brutta».«Che ogni volta che parla le cadano

rospi dalla bocca».«Che faccia una brutta fine».La ragazza non riuscì a trovare

nemmeno una fragola, così tornò a casaa lagnarsi. Appena apriva bocca nesaltava fuori un rospo e nel giro di pocoil pavimento fu tutto un brulichio e laragazza finì per far ribrezzo persino asua madre.

Dopo quella storia la matrigna si feceprendere dall’ossessione. Era come se

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un tarlo le rosicchiasse il cervello. Nonaveva altro pensiero che rovinare la vitaalla figliastra e al tormento siaggiungeva il fatto che la ragazzadiventava ogni giorno più bella.

Alla fine la donna mise a bollire unamatassa di filo e glielo appese allaspalla.

«Ecco» le disse, «prendi l’accetta,vai a fare un buco nel ghiaccio del fiumee sciacqua il filo. E vedi di non mettercitutto il giorno».

Sperava che la ragazza cadesse nelbuco e affogasse, ovviamente.

La figliastra fece come le avevadetto. Prese l’accetta e il filo e andò alfiume e stava per fare il primo passo sul

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ghiaccio quando una carrozza chepassava di lì si fermò. E nella carrozzac’era un re.

«Fermatevi! Che fate?» gridò. «Ilghiaccio è pericoloso in quel punto!»

«Devo sciacquare il filo» spiegò laragazza.

Il re vide quanto era bella e aprì ilportello della carrozza.

«Volete venire con me?» disse.«Sì, volentieri» disse lei, felice di

andare via da matrigna e sorellastra.Salita a bordo, la carrozza partì.«Vedete, sto proprio cercando

moglie» disse il re. «I miei consiglierimi hanno detto che è tempo di sposarmi.Voi non siete sposata, vero?»

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«No» disse la ragazza e ripose concura in tasca la moneta d’oro che le eracaduta di bocca.

Il re era affascinato.«Che bel gioco di prestigio!» disse.

«Volete sposarmi?»Lei acconsentì e le nozze furono

celebrate al più presto. Dunque tutto eraandato come i tre ometti avevanopredetto.

Dopo un anno, la giovane regina miseal mondo un bambino. Tutto il regno gioìe la notizia uscì su tutti i giornali. Lamatrigna venne a saperlo e si recò apalazzo insieme alla figlia, fingendo diandare in visita di cortesia. Il re erafuori e, quando non ci fu nessuno nei

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paraggi, la donna e la figlia presero laregina e la buttarono dalla finestra,facendola annegare nel fiume che viscorreva sotto. Il corpo di lei sprofondòe le alghe sul fondo lo ricoprirono.

«Ora mettiti nel suo letto» disse ladonna alla figlia «e non aprire bocca innessun caso».

«Perché?»«I rospi» disse la donna,

raccogliendo quello che era appenasaltato fuori e lanciandolo fuori dallafinestra da cui aveva buttato la regina.«Mettiti nel letto. Fa’ come ti dico».

La donna coprì la testa della figlia,perché, a parte i rospi, era veramentediventata ogni giorno più brutta. Quando

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il re tornò, la donna spiegò che la reginaaveva la febbre. «Deve starsenetranquilla» disse. «Nienteconversazione. Non deve parlare.Lasciatela riposare».

Il re mormorò qualche parolinatenera alla figlia della donna copertadalle lenzuola e uscì. La mattina dopotornò a farle visita e quella rispose,prima che la donna riuscisse a fermarla.Saltò fuori un rospo.

«Buon Dio, cos’è?» disse il re.«Non riesco a fermarli» disse la

figlia della donna e un altro rospo saltòfuori, «non è colpa mia» e un altroancora.

«Che succede?» disse il re. «Che

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storia è questa?»«Si è presa la rospite» disse la

donna. «È molto contagiosa. Ma guariràpresto se la si lascia tranquilla».

«Lo spero» disse il re.Quella notte, lo sguattero stava

finendo di pulire pentole e tegami,quando vide un’anatra bianca cherisaliva lo scarico che dalla cucina siriversava nel torrente.

L’anatra disse: «Starà dormendo ilre? Oh, povera me».

Lo sguattero restò senza parole.Poi l’anatra parlò di nuovo: «Le mie

ospiti che fanno?»«Di sicuro dormiranno» disse lo

sguattero.

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«E che fa il mio bambino?»«Sta facendo un sonnellino» disse il

ragazzo. «Forse».Poi con un bagliore l’anatra si

trasformò nella regina. Salì in cameradel bambino, lo prese e lo cullò, tornò aposarlo dolcemente e lo baciò. Poiriapparve in cucina, si ritrasformò inanatra e nuotò via giù per il canale discolo verso il torrente.

Lo sguattero l’aveva seguita e avevavisto tutto.

La notte successiva l’anatra tornò eaccaddero le stesse cose. La terza notte,l’apparizione disse al ragazzo: «Vai adire al re cos’hai visto. Digli di portarela spada e passarla tre volte sopra la

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mia testa e poi tagliarmela».Lo sguattero corse dal re e gli

raccontò tutto. Il re inorridì. Andò disoppiatto nella camera da letto dellaregina, spostò le lenzuola e restò senzafiato alla vista della brutta figlia cherussava, in compagnia di un rospo.

«Portami dall’apparizione» disse,impugnando la spada.

Arrivati in cucina, si trovò davanti ilfantasma della regina e fece ondeggiaretre volte l’arma sulla testa di lei. Subitocon un bagliore il corpo di lei sitrasformò in quello dell’anatra bianca eil re le tagliò la testa con un colpo. Unmomento dopo l’anatra svanì e al suoposto rimase la vera regina, resuscitata.

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Si salutarono con gioia. Ma il reaveva un piano e la regina accettò dinascondersi in un’altra camera da lettofino alla domenica successiva, giornodel battesimo del bambino. Albattesimo, la falsa regina si presentòvestita di pesanti veli, con sua madre difianco, fingendo di essere troppo malataper parlare.

Il re disse: «Qual è la giustapunizione per chi ha trascinato fuori dalletto una vittima innocente e l’ha buttatanel fiume facendola annegare?»

La matrigna subito disse: «Checrimine orrendo. L’assassinomeriterebbe di essere messo in unacassa foderata di chiodi e poi fatto

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rotolare giù nell’acqua».«Allora farò così» disse il re.Ordinò di costruire una cassa in

quella guisa e appena fu pronta ciinfilarono dentro la donna e la figlia echiusero il coperchio con i chiodi. Lacassa fu fatta rotolare giù fino a che noncadde nel fiume e per loro fu la fine.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 403, ‘The Black and theWhite Bride’ (La sposa bianca e quella nera).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Dortchen Wild.Storie simili: Italo Calvino: ‘Belmiele eBelsole’, ‘Il re dei Pavoni’ (Fiabe italiane);Jacob e Wilhelm Grimm: ‘Little Brother andLittle Sister’ (Fratellino e sorellina), ‘The

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White Bride and the Black Bride’ (La sposabianca e quella nera) [Children’s andHousehold Tales (Fiabe del focolare)].La seconda parte di questa storia somiglia a‘Fratellino e sorellina’ (p. 69), ma la primaparte, con il siparietto dei tre ometti, ha untono abbastanza diverso. I tre nani della miastoria sono un po’ più chiacchieroni rispetto aquelli dei Grimm.

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NOVE

HANSEL E GRETEL

Sul margine di una grande foresta vivevaun povero taglialegna con la moglie e idue figli di primo letto, un maschio dinome Hansel e una femmina di nomeGretel. Avevano poco e niente damangiare e in più nel paese c’era unacarestia e il papà non riusciva nemmenoa procurarsi il pane tutti giorni.

Una notte, nel letto, preoccupato per

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quella povertà, disse alla mogliesospirando: «Che fine faremo? Comefacciamo a dare da mangiare ai nostrifigli se non basta nemmeno per noi?»

«Senti qua» disse lei. «Faremo così.Domattina presto li porteremo nel cuoredella foresta, li faremo mettere comodi,accenderemo un fuoco per scaldarli,daremo loro un po’ di pane e poi lilasceremo soli. Non riusciranno atrovare la via di casa e così ce nesaremo sbarazzati».

«No, no, no» disse il marito, «nonposso. Abbandonare i miei figli nellaforesta? Mai! Le bestie li faranno abrandelli».

«Sei uno sciocco» disse la moglie.

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«Se non ci sbarazziamo di loro,moriremo di fame tutti e quattro. Puoigià cominciare a preparare il legno perle bare».

Non gli diede pace finché lui non siarrese.

«Ma non mi piace questa cosa» disselui. «Non riesco a non provare pena perloro...»

I bambini nella stanza a fianco eranosvegli. Non riuscivano a dormire per lafame e sentirono quel che diceva lamatrigna.

Gretel, piangendo amaramente,bisbigliò: «Oh, Hansel, è la fine!»

«Zitta» disse Hansel. «Nonpreoccuparti. So io cosa fare».

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Non appena i grandi si furonoaddormentati, Hansel scese dal letto, simise la sua vecchia giacca, aprì la metàinferiore dell’uscio e strisciò fuori. Laluna splendeva e i ciottoli bianchidavanti a casa luccicavano come moneted’argento. Hansel si accucciò e se neriempì le tasche. Poi tornò dentro, simise a letto e bisbigliò: «Nonpreoccuparti, Gretel. Adesso dormi. Dioci protegge e io ho un piano».

Alle prime luci dell’alba del giornodopo, entrò la donna e li buttò giù dalletto. «Svegliatevi, fannulloni! Andiamonella foresta a fare un po’ di legna». Ediede loro una fetta di pane secco.«Eccovi il pranzo. E non vi ingozzate

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subito, perché non c’è altro».Gretel si mise il pane nel grembiule,

perché le tasche di Hansel erano pienedi ciottoli. E si incamminarono insiemeverso la foresta. Di tanto in tanto Hanselsi fermava e guardava verso casa, finchéalla fine il padre disse: «Che fai,ragazzo? Cammina. Usale, le gambe».

«Guardo il mio gattino bianco» disseHansel. «È seduto sul tetto. Vuole dirmiaddio».

«Che stupido» disse la donna. «Non èil gatto, è il riverbero del sole sulcamino».

In realtà, Hansel aveva lasciatocadere i sassolini sul sentiero alle suespalle, uno dopo l’altro. Si guardava

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indietro per assicurarsi che fosserovisibili.

Arrivati in mezzo alla foresta il padredisse: «Andate a raccogliere deiramoscelli. Vi preparo un fuoco, cosìnon vi raffreddate».

I bambini fecero una fascina e ilpadre l’accese. Quando il fuoco prese abruciare per bene, la donna disse:«Mettetevi comodi, cari. Rannicchiateviaccanto al fuoco a scaldarvi. Noiandiamo a fare un altro po’ di legna etorniamo a prendervi più tardi».

Hansel e Gretel si sedettero vicino alfuoco. Quando capirono che era quasimezzogiorno, mangiarono il pane.Sentivano il rumore di una scure non

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molto lontano e pensarono che il papàfosse vicino; ma non era una scure, bensìun ramo che era stato appeso a un alberosecco. Il vento lo faceva ondeggiareavanti e indietro, mandandolo a sbatterecontro il legno.

I bambini rimasero seduti lì a lungo ea poco a poco le palpebre si feceropesanti. Trascorso il pomeriggio, la lucecalò e loro, appoggiati l’uno all’altra, siaddormentarono.

Quando si svegliarono era buiopesto. Gretel si mise a piangere: «Comefaremo a trovare la strada?»

«Aspettiamo che spunti la luna» disseHansel, «e vedrai che il mio pianofunzionerà».

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La luna spuntò, piena e lucente, e iciottoli bianchi che Hansel avevalasciato cadere brillavano come monetenuove di zecca. Mano nella mano, i duebambini seguirono la traccia per tutta lanotte e arrivarono a casa sul faredell’alba.

Bussarono forte perché la porta eraserrata. La donna andò ad aprire esgranò gli occhi dalla sorpresa:«Disgraziati! Ci avete fattopreoccupare!» E li abbracciò così forteda togliere loro il respiro. «Perché avetedormito così tanto? Pensavamo che nonsareste mai tornati!» E diede loro deipizzicotti sulle guance come se fossestata davvero contenta di vederli.

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Un momento dopo scese il padre e ilviso gli si riempì di gioia e sollievo,poiché lui in realtà non avrebbe volutoabbandonarli.

E per quella volta furono salvi. Madopo poco tempo che ci fu un’altracarestia, la gente pativa la fame. Unanotte i bambini udirono la donna chediceva al papà: «Le cose vanno male. Ciè rimasta solo una pagnotta e poimoriremo tutti. Dobbiamo assolutamentesbarazzarci dei bambini. L’altra voltadevono avere usato un trucco, ma se liportiamo ancora più in là nel bosco nonriusciranno a trovare la via di casa».

«Oh, non posso, non posso» disse ilpapà. «Nella foresta ci sono le bestie

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feroci, lo sai, e anche i folletti, lestreghe e Dio sa che altro. Non sarebbemeglio dividere la pagnotta con ibambini?»

«Non essere stupido» disse la donna.«Che senso ha? Tu sei un rammollito,questo è il problema. Uno stupidorammollito».

Lo riempì di critiche e lui non seppepiù come difendersi: se si cede unavolta, poi si è costretti a cedere sempre.

I bambini erano svegli e avevanoudito tutto. Quando i grandi siaddormentarono, Hansel si alzò e provòdi nuovo a uscire, ma la donna avevaserrato la porta e nascosto la chiave.Ciononostante Hansel tornò a letto a

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confortare la sorella dicendole: «Non tipreoccupare, Gretel. Adesso dormi. Dioci proteggerà».

La mattina dopo, la donna venne asvegliarli come aveva fatto la voltaprima e diede loro un pezzo di pane,ancora più piccolo dell’altra volta.Mentre andavano nella foresta, Hanselsbriciolò il pane sul sentiero,fermandosi di tanto in tanto perassicurarsi che le briciole fossero benvisibili.

«Hansel, cammina» gli disse il padre.«Smettila di guardare sempre indietro».

«Stavo guardando il mio piccioneappoggiato sul tetto» disse Hansel.«Vuole dirmi addio».

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«Non è il tuo piccione, scemo» dissela donna, «è il riverbero del sole sulcamino. Smettila di tergiversare».

Hansel smise di guardare indietro,ma continuò a sbriciolare il pane intasca e a buttarlo sul sentiero. La donnali costringeva a camminare velocementee si inoltrarono nella foresta più diquanto non avessero mai fatto.

Alla fine la donna disse: «Eccoci» eaccesero di nuovo un fuoco per farscaldare i bambini. «Non muovetevi diqui. Sedetevi e non spostatevi finché nonveniamo a prendervi. Abbiamo giàabbastanza preoccupazioni, nonaggiungetene altre. Saremo di ritornostasera».

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I bambini se ne stettero lì seduti equando fu mezzogiorno si divisero ilpezzetto di pane di Gretel, perché quellodi Hansel non c’era più. Poi siaddormentarono e l’intero giornotrascorse, ma nessuno tornò a prenderli.

Era buio quando si svegliarono.«Zitta, non piangere» disse Hansel aGretel. «Quando spunterà la lunariusciremo a vedere le briciole e atrovare la via di casa».

La luna spuntò e cominciarono acercare le briciole, ma non ne trovarononessuna. Le migliaia di uccelli chevolavano per boschi e campi le avevanobeccate tutte.

«Troveremo la strada» disse Hansel.

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Ma in nessuna direzione trovarono lavia di casa. Camminarono tutta la notte etutto il giorno successivo, continuando aperdersi. In più avevano fame, una fameterribile, dato che non avevano mangiatonient’altro che una manciata di bacche.Erano tanto stanchi che a un certo puntosi stesero sotto un albero e subito siaddormentarono. Il mattino del terzogiorno si svegliarono e provarono arimettersi in cammino, si persero dinuovo e a ogni passo si addentravanosempre di più nella foresta. Dovevanotrovare aiuto o sarebbero morti.

A mezzogiorno però, videro unuccello bianco come la neve poggiato suun ramo. Aveva un canto così soave che

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i bambini si fermarono ad ascoltarlo,poi allungò le ali e volò più in là e ibambini lo seguirono. Si posò ericominciò a cantare, poi di nuovo volòpiù in là, muovendosi alla stessaandatura dei bambini, come per guidarli.

E all’improvviso si ritrovaronodavanti a una casetta. L’uccello sipoggiò sul tetto, un tetto che sembravaavere qualcosa di strano. Infatti...

«È di pan di Spagna!» disse Hansel.E per quanto riguarda le pareti...«Sono di pane!» disse Gretel.E le finestre, poi, erano fatte di

zucchero.I poveri bambini erano così affamati

che nemmeno bussarono per chiedere il

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permesso. Hansel staccò un pezzo ditetto e Gretel spaccò una finestra, sisedettero e presero subito a mangiare.

Dopo qualche buon boccone,sentirono una vocina proveniredall’interno:

«Un topolino rosicchia rosicchia,chissà chi è che il tetto mordicchia?»

I bambini risposero:«Il vigoroso vento,figlio del firmamento».

E ripresero a mangiare, insaziabili. AHansel piaceva così tanto il tetto che nestaccò un pezzo lungo come un braccio eGretel staccò un bel riquadro dallafinestra e prese a sgranocchiarlo.

All’improvviso la porta si aprì e neuscì zoppicando una vecchia decrepita.

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Hansel e Gretel, colti di sorpresa,smisero di mangiare e la fissarono abocca piena. Ma la vecchia scosse latesta: «Niente paura, miei cari bambini!Chi vi ha portati qui? Venite dentro,poveri tesori, venite a riposarvi nellamia capanna di delizie. Sarete al sicurocome a casa vostra!»

Diede loro un pizzicotto affettuososulle guance e prendendoli entrambi permano li portò dentro. C’era una tavolaapparecchiata per due, come se avessesaputo che sarebbero arrivati. Servì dellatte e deliziose frittelle dolci e speziatecon mele e noci.

Poi li accompagnò in una camerettadove c’erano due lettini con lenzuola

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bianche come la neve. Hansel e Gretel siaddormentarono subito, pensando diessere in paradiso.

Ma la vecchia aveva solo finto diessere gentile. Infatti era una terribilestrega e aveva costruito quella casadeliziosa per adescare i bambini. Unavolta catturati, maschi e femmine, liuccideva, li cucinava e se li mangiava.Ogni volta era una festa. Come tutte lestreghe, aveva occhi rossi ed era un po’orba, ma aveva un olfatto acuto e sentivasubito la presenza di esseri umani neiparaggi. Rimboccò le coperte e poiridendo si strofinò le mani ossute. «Liho acciuffati!» disse con voce stridula.«Non mi sfuggiranno!»

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La mattina seguente si alzò presto eandò nella stanza per guardarli mentredormivano. Tratteneva a fatica la vogliadi mettere le mani su quelle guancerosse. ‘Bei bocconcini!’ pensò.

Poi afferrò Hansel e senza darglinemmeno il tempo di urlare lo trascinòin una piccola baracca all’esterno e lochiuse in gabbia. Hansel gridò, maormai nessuno poteva sentirlo.

Poi la strega svegliò Gretel dicendo:«Svegliati, tonta! Vai al pozzo aprendere dell’acqua e prepara qualcosada mangiare per tuo fratello. È nellabaracca, lo voglio mettere all’ingrasso.Quando sarà abbastanza paffutello, melo mangerò».

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Gretel si mise a piangere, ma nonpoteva permetterselo: doveva fare ciòche la strega le aveva ordinato. Hanselmangiava ogni giorno pietanze deliziose,mentre a lei toccava campare a gusci diaragoste.

Ogni mattina la strega andava allabaracca, zoppicando e appoggiandosi albastone, e diceva a Hansel: «Ragazzo!Tira fuori il dito! Fammi sentire se haimesso ciccia».

Ma Hansel che era molto astutometteva fuori dalle sbarre un ossicino ela strega lo scrutava con gli occhi rossi,pensando che fosse il dito. Non riuscivaa capire perché non diventava pingue.

Passarono quattro settimane, ma la

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strega non lo vedeva ingrassare. Poiperò si accorse che le guance eranobelle rosse e gridò a Gretel: «Ehi! Vai aprendere dell’acqua, molta acqua.Riempi il calderone e mettilo a bollire.Grasso o magro, pelle e ossa orotondetto, domani macellerò tuofratello per farci uno stufato».

Povera Gretel! Piangeva e piangeva,ma doveva prendere l’acqua come lastrega aveva ordinato. «Dio, aiutaci, tiprego!» singhiozzava. «Se ci avesseromangiati i lupi nella foresta, almenosaremmo morti insieme».

«Smettila con questo piagnisteo»disse la strega. «Tanto non ne ricaverainiente».

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La mattina dopo Gretel fu costretta adaccendere il fuoco nel forno.

«Prima prepariamo il pane» disse lastrega. «Ho già fatto l’impasto. È caldoal punto giusto?»

Trascinò Gretel davanti al forno. Lefiamme divampavano scoppiettanti sottola superficie di ferro.

«Arrampicati a vedere se èabbastanza caldo» disse la strega. «Su,vai».

Aveva intenzione di chiudere ilportello del forno con Gretel dentro ecucinare anche lei. Ma Gretel lo capì edisse: «Non ho inteso bene. Devoentrarci dentro? E come faccio?»

«Che stupida oca» disse la strega.

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«Levati di lì, ti faccio vedere io. Non ècosì difficile». Si chinò per infilare latesta nel forno.

Subito Gretel la spintonò tanto forteda farla cadere dentro e si affrettò achiudere il portello assicurandolo conuna spranga di ferro. Dal forno uscivanourla, orribili grida, ululati, ma Gretel sitappò le orecchie e corse fuori. Lastrega morì bruciata.

Gretel corse dritta alla baracca eurlò: «Hansel, siamo salvi! La vecchiastrega è morta!»

Hansel saltò fuori, contento come unuccello che trova la gabbia aperta. Chefelicità! Si buttarono le braccia al collo,si abbracciarono, fecero salti di gioia, si

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baciarono le guance a vicenda. Nonc’era più nulla di cui avere paura, cosìcorsero a ispezionare l’interno dellacapanna. In ogni angolo c’erano bauli eceste piene di pietre preziose.

«Queste sono meglio dei sassolini!»disse Hansel, facendosene caderequalcuna in tasca.

«Ne prendo qualcuna anch’io» disseGretel riempiendosi il grembiule.

«Andiamocene ora. Lasciamociquesta foresta stregata alle spalle».

Dopo qualche ora di cammino,raggiunsero un lago.

«Non sarà facile attraversarlo» disseHansel. «Non vedo ponti».

E Gretel disse: «E nemmeno barche.

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Guarda però. C’è un anatroccolo bianco.Vado a vedere se può aiutarci a passaredi là». E gridò:

«Sii buono, anatroccolo, portaci tuoltre il lago, vedi, laggiù.È freddo e profondo, aiutaci tusii buono, anatroccolo, portaci tu».

L’anatroccolo li raggiunse e Hansel glimontò sopra.

«Vieni, Gretel!» disse. «Sali anchetu!»

«No» disse Gretel, «in due siamotroppo pesanti. Dobbiamo andare unoalla volta».

Così il buon anatroccolo li portò dilà, prima uno e poi l’altra. Giunti sullariva sani e salvi, si rimisero in camminoe presto la foresta riprese un aspetto

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familiare. Alla fine da lontano videro laloro casa e vi si precipitarono correndo,gettandosi tra le braccia del papà.

L’uomo non aveva avuto un attimo diserenità da quando li aveva lasciatinella foresta. Non molto tempo dopoquel fatto, la moglie era morta e lui erarimasto solo, più povero di sempre. Maecco che Gretel aprì il grembiulino, loscosse e tutti i gioielli caddero a terra,rimbalzando e sparpagliandosi sulpavimento, e Hansel ne aggiunse altremanciate.

Così finirono i loro problemi evissero sempre felici e contenti.

Il topo è fuggito,la storia ho narrato:e chi lo acciuffa

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un bel cappello di pelo si fa.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 327, ‘Hänsel and Gretel’(Hansel e Gretel).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmdalla famiglia Wild.Storie simili: Alexander Afanasjev: ‘Baba Yagaand the Brave Youth’ (La Baba Jaga) [RussianFairy Tales (Fiabe russe)]; GiambattistaBasile: ‘Ninnillo e Nennella’ (Lo cunto de licunti); Italo Calvino: ‘Pulcino’, ‘La vecchiadell’orto’ (Fiabe italiane); Charles Perrault:‘Little Thumbling’ (Pollicino) [Perrault’sComplete Fairy Tales (Tutte le fiabe)].

Le storie più conosciute, e questa ne èsicuramente una, sono sopravvissute all’internodi innumerevoli antologie, libri illustrati,

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adattamenti teatrali (in questo caso anchel’opera lirica) fino a che la loro familiarità haminacciato di spegnerne le qualità migliori. Maquesta è un grande classico di spietatezza. Lamagnifica invenzione della casa commestibile,insieme alla crudeltà implacabile della strega eal coraggio e all’astuzia di Gretel nell’avere ache fare con lei, rendono questa storiaindimenticabile.

Madre o matrigna? Nella prima edizione deiGrimm del 1812, la donna è semplicemente ‘lamamma’. Nella sesta edizione del 1857, èdiventata una matrigna e tale rimane. MarinaWarner, nel suo From the Beast to the Blonde,dice cose molto interessanti sulle ragioni deiGrimm rispetto a questa scelta (l’unico modoche avevano per preservare l’immagine idealedella Mamma era di toglierla e rimpiazzarla) eanche sull’interpretazione freudiana di BrunoBettelheim (la scissione mamma/matrigna fasentire i bambini autorizzati a non sentirsi in

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colpa nel provare rabbia nei confronti del latopiù minaccioso della loro madre). Dal punto divista narrativo, io preferisco la semplicità.

Jack Zipes, nel suo Why Fairy Tales Stick,fa notare che di sfondo a questa storia, benchéa tanti possa sembrare un fatto puramente difantasia, c’è l’infelice realtà rurale con la suapovertà e la prospettiva, per molte famiglie, dimorire davvero di fame. A mali estremi,estremi rimedi, non c’è dubbio, ma la storianon dovrebbe condannare un po’ di più il padre?E la morte della matrigna è veramente utile,specialmente se si considera l’associazione tramatrigna e strega che molti narratori modernihanno voluto vederci (me incluso). Nonsarebbe stato un lieto fine per i bambini tornarea casa e trovare ancora lei a farla da padrona.Forse l’ha uccisa il papà. Se avessi dovutoriscrivere questa storia come un romanzo,sicuramente gliel’avrei fatto fare.

L’episodio dell’anatroccolo è un piccolo

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curioso intervento sulla storia che c’ènell’ultima edizione dei Grimm. Non comparein precedenza, almeno in quelle stampate, mapenso che funzioni, così l’ho voluto mettereanch’io. Il lago è una barriera impossibile dasuperare tra la foresta minacciosa e lasicurezza della casa, e una barriera è una bellacosa, a meno che non ci si trovi dal latosbagliato; però può essere attraversata grazie auna combinazione di benevolenza della natura epurezza umana.

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DIECI

LE TRE FOGLIE DELSERPENTE

C’era una volta un pover’uomo che nonaveva più nulla da dar da mangiare alsuo unico figlio. Quando il figlio locapì, disse: «Papà, non posso più starequi. Sono solo un peso per te. Partirò emi guadagnerò da vivere da solo».

Il padre gli diede la sua benedizionee addolorati si divisero.

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Il re di un paese vicino era un potentesovrano e stava per dichiarare guerra. Ilgiovane si arruolò nell’esercito e prestosi ritrovò al fronte a combattere unagrande battaglia. Volavano raffiche dipallottole, i pericoli erano tanti e icommilitoni morivano intorno a lui.Quando anche il generale cadde, il restodella truppa pensò di fuggire, ma ilgiovane prese il comando e urlò: «Nonci sconfiggeranno! Seguitemi e che Diosalvi il re!»

Gli uomini lo seguirono nella caricae presto riuscirono a mettere il nemicoin fuga. Quando il re venne a saperequale importanza aveva avuto il giovanenella vittoria, lo promosse alla carica di

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feldmaresciallo, gli diede oro ericchezze e gli conferì le più alteonorificenze.

Il re aveva una figlia molto bella conuna strana fissazione. Aveva fattogiuramento di sposare solo l’uomo chesi sarebbe fatto seppellire vivo con leiquando sarebbe morta. «Dopotutto, semi ama davvero, perché dovrebbe volercontinuare a vivere?» E diceva cheanche lei si sarebbe fatta seppellire conil marito, nel caso in cui fosse morto perprimo.

Questa macabra condizione avevascoraggiato molti giovani che altrimentil’avrebbero chiesta in sposa, ma ilsoldato fu talmente colpito dalla sua

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bellezza che nulla poté trattenerlo. Cosìchiese al re la mano della ragazza.

«Sai cosa devi promettere?» disse ilre.

«Se muore prima di me, devoscendere nella tomba con lei» disse ilsoldato. «Ma io la amo così tanto chevoglio correre questo rischio».

Il re acconsentì e le nozze furonocelebrate con fasto.

Per un certo periodo vissero felici,ma un giorno la principessa si ammalò.Giunsero dottori da ogni parte del regno,ma nessuno riuscì a curarla e prestomorì. Allora il soldato si ricordò dellapromessa che aveva dovuto fare ed ebbeun brivido d’orrore. Non c’era modo di

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scamparla, anche se avesse volutorompere la promessa, perché il re eraintenzionato a mettere sentinelle pressola tomba e tutt’intorno al cimitero perimpedirgli di fuggire. Quando giunse ilgiorno della sepoltura della principessa,il corpo fu portato nella tomba reale, siassicurarono che anche il giovane fosselì dentro e poi il re personalmentechiuse e sprangò l’ingresso.

Avevano lasciato delle provvisteall’interno: su un tavolo c’erano quattrocandele, quattro pagnotte e quattrobottiglie di vino. Il giovane, giorno dopogiorno, se ne stava seduto lì vicino alcorpo della principessa, mangiando soloun boccone di pane e bevendo un sorso

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di vino per farli durare il più a lungopossibile. Quando rimasero solo unsorso e un boccone e quando l’ultimacandela non fu che un mozzicone, capìche era quasi giunta la sua ora.

Ma mentre sedeva lì disperato, videun serpente strisciare fuori da un angolodella cripta in direzione del corpo dellaprincipessa. Pensando che volessemangiarselo, il giovane sguainò laspada: «Dovrai passare sul miocadavere prima di toccarla!» disse ecolpì il serpente tre volte tagliandolo apezzi.

Poco dopo, un secondo serpentestrisciò fuori dall’angolo. Raggiunse ilcorpo del primo serpente, guardò i pezzi

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e poi strisciò via. Presto tornò con trefoglie verdi in bocca. Riunì il corpo delprimo serpente con molta cura, applicòuna foglia su ognuna delle ferite e ilserpente morto si rianimò, risanato etutto intero. I due serpenti siallontanarono in fretta.

Ma le foglie erano rimaste lì e ilgiovane pensò che se quel poteremiracoloso aveva riportato in vita ilserpente, poteva funzionare anche con unessere umano. Così raccolse le foglie ele applicò sul viso bianco dellaprincipessa morta, una sulla bocca e lealtre due sugli occhi.

Subito il sangue riprese a scorrere.Le guance si colorirono del rosa della

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salute, la principessa respirò e aprì gliocchi. «Santo cielo! Dove mi trovo?»

«Con tuo marito, moglie mia» disse ilsoldato e le raccontò quel che eraaccaduto. Le diede l’ultimo boccone dipane e l’ultimo sorso di vino e poi simisero a battere sulla porta e a urlarecosì forte che le sentinelle all’esterno lisentirono e andarono di corsa dal re.

Il re andò al cimitero e tolse laspranga per aprire l’ingresso dellacripta. La ragazza gli ruzzolò tra lebraccia, lui strinse la mano del giovanee tutti gioirono per il miracolo di averlariportata in vita.

Per quanto riguarda le foglie, ilsoldato fu cauto e non disse a nessuno

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come aveva fatto resuscitare laprincipessa. Ma aveva un servo onesto eaffidabile a cui consegnò le tre fogliedel serpente chiedendogli di custodirle.«Abbine cura e assicurati di averlesempre con te ovunque tu vada. Non sipuò sapere quando ne avremo bisogno dinuovo».

La principessa, tornata in vita, eracambiata. Tutto l’amore per il marito leera scomparso dal cuore. Tuttaviafingeva di amarlo ancora e, quando luile propose di fare un viaggio per mareper andare a far visita al vecchio padre,accettò subito: «Che gran piacereincontrare il nobile padre del miocarissimo marito!»

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Ma non appena furono in mare sidimenticò della grande devozione che ilgiovane le aveva dimostrato e cominciòa provare un desiderio smodato per ilcomandante della nave. Niente avrebbepotuto placarla se non dormire con lui,così presto divennero amanti. Una notte,mentre era tra le braccia di lui, sussurrò:«Oh, se mio marito morisse! Chematrimonio che faremmo!»

«Si può fare» disse il capitano.Prese un pezzo di corda e, con la

principessa al suo fianco, s’introdussedi soppiatto nella cabina dove dormivail giovane. Mentre la principessa tenevaun’estremità, il capitano avvolse lacorda intorno al collo del marito e poi

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tirarono così forte che, per quanto lui sidibattesse, di lì a poco morì strangolato.

La principessa prese il cadavere perla testa e il capitano per i piedi e logettarono al di là del parapetto.«Torniamo a casa. Dirò a mio padre chemio marito è morto in mare e canterò letue lodi, così lui acconsentirà al nostromatrimonio e diventerai erede delregno».

Ma il servo fedele aveva visto tuttoe, non appena si voltarono, staccò unascialuppa e tornò indietro, in cerca delcorpo del suo signore. Lo trovò subito,lo trascinò in barca e gli slegò la cordadal collo, poi applicò le tre foglie delserpente sugli occhi e sulla bocca e in un

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attimo lo riportò in vita.A quel punto, entrambi remarono con

tutte le loro forze. Remarono giorno enotte senza mai fermarsi e la barcascivolava sulle onde così veloce chefurono a riva con un giorno di anticiposulla nave con la principessa e andaronodritti a palazzo.

Il re si sorprese di vederli. «Cose èsuccesso? Dov’è mia figlia?»

Gli raccontarono tutto.Il re fu sconvolto a sentire del

tradimento. «Non posso credere cheabbia fatto una cosa tanto orribile. Ma laverità verrà presto a galla».

E così fu. Poco dopo la nave arrivòin porto e il re, saputo ciò, fece

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nascondere il giovane e il servitore inuna stanza da cui avrebbero potutosentire tutto.

La principessa, tutta vestita di nero,andò dal padre singhiozzando.

«Come mai sei tornata da sola?»disse il re. «Dov’è tuo marito? E perchései vestita a lutto?»

«Oh, padre mio caro, niente mi puòconsolare! Mio marito ha preso lafebbre gialla ed è morto. Io e ilcomandante l’abbiamo seppellito inmare. Se non mi avesse aiutato lui, nonso cosa avrei fatto. Ma il comandante èdavvero un brav’uomo: si è occupato dimio marito quando aveva la febbre alta,nonostante il pericolo. Ti può raccontare

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tutto lui».«Oh, allora tuo marito è morto?»

disse il re. «Vediamo se è possibileriportarlo in vita».

E aprì la porta invitando i due auscire. Quando la principessa vide ilgiovane, cadde a terra come fulminata.Provò a dire che forse suo marito avevaavuto le allucinazioni con la febbre altae che era andato in coma e per questosembrava morto, ma il servitore tiròfuori la corda e lei, davantiall’evidenza, fu costretta ad ammetterela colpa.

«Sì, siamo stati noi» singhiozzò, «maper favore, padre, sii clemente!»

«Non parlarmi di clemenza» disse il

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re. «Tuo marito ti ha seguito nella tombae ti ha ridato la vita e tu l’hai ucciso nelsonno. Avrai la punizione che meriti».

E la principessa e il capitano furonomessi a bordo di una barca con lo scafobucato e spediti nel mare in tempesta.Presto affondarono insieme alla barca enessuno li vide mai più.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 612, ‘The Three SnakeLeaves’ (Le tre foglie della serpe).Fonte:: storie raccontate ai fratelli Grimm daJohann Friedrich Krause e dalla famiglia vonHaxthausen.Storie simili: Italo Calvino: ‘Il Capitano e ilGenerale’, ‘L’erba dei leoni’ (Fiabe italiane).Una storia affascinante e vivace, che si può

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dividere in due parti, una magica e unaromantico-realistica. La versione dei Grimm letiene insieme con abilità, per mezzo dellefoglie del titolo. Non l’ho modificata, se nonper la questione dell’assassinio del giovane.Nell’originale si limitano a gettarlo dalla barca,ma nelle due storie simili di Calvino l’eroeviene giustiziato, nel primo caso da un plotonedi esecuzione e nel secondo sulla forca, dunqueè inconfutabilmente morto prima di essereriportato in vita per mezzo delle foglie delserpente. Ho pensato che anche il giovane diquesta storia dovesse essere ucciso in manieraincontrovertibile e teatrale, ecco perché lostrangolamento, che dà anche la possibilità alservitore di provare la colpevolezza dellamoglie mostrando la corda.

Ma in quanti pezzi è stato tagliato ilserpente? È una questione di vitale importanzache sembra aver confuso tutti, compresi iGrimm. Il testo presenta un inequivocabile

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‘und hieb sie in drei Stücke’ – ‘e lo tagliò intre pezzi’ – e David Luke, Ralph Mannheim eJack Zipes lo hanno lasciato tutti così com’ènelle loro traduzioni. Ma per fare questo algiovane sarebbero bastati due colpi di spada e,di conseguenza, ci sarebbero stati solo duepunti su cui applicare le foglie e non tre.Bisogna che guardiamo a ciò che è essenziale,ossia al numero tre (le tre foglie, gli occhi e labocca della principessa, il classico modelloternario delle fiabe), quindi devono esserci trepunti su cui il secondo serpente applica lefoglie e quindi tre colpi di spada, chetaglierebbero il serpente non in tre pezzi ma inquattro. Ma questo introduce l’idea del quattroche non è di nessuna utilità nella mente di chilegge o ascolta. Secondo me la soluzionemigliore è quel che ho fatto sopra.

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UNDICI

IL PESCATORE E SUAMOGLIE

C’era una volta un pescatore che vivevacon sua moglie in una baracca sudiciaquanto un pitale. Ogni giorno lui uscivaa pescare e pescava e pescava. Ungiorno se ne stava seduto a guardarel’acqua limpida e, aspetta aspetta, lalenza andò giù giù fino a toccare ilfondale. Quando la tirò su, c’era un

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rombo attaccato all’amo.Il rombo disse: «Senti, pescatore, che

ne dici di lasciarmi andare, eh? Nonsono un rombo come tanti. Sono unprincipe sotto incantesimo. Cosa ciguadagneresti a uccidermi? Non sonobuono da mangiare. Ributtami in acqua,da bravo».

«Mi sembra giusto» disse ilpescatore. «Non dire più niente. Mibasta la parola di un pesce parlante».

Quando lo ebbe rimesso in acqua, ilrombo nuotò verso il fondo lasciandosidietro una scia di sangue.

Allora il pescatore tornò dallamoglie nella baracca sudicia.

«Non hai preso niente oggi?» disse

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lei.«Oh sì. Ho preso un rombo. Bello

grande. Ma siccome mi ha detto che eraun principe sotto incantesimo, l’holasciato andare».

«Che ci si può aspettare da te? Potevialmeno chiedergli qualcosa!»

«Che ne so?» disse il pescatore.«Che dovevo chiedere?»

«I principi sotto incantesimo possonofare qualsiasi cosa» disse la moglie.«Guarda questa baracca. Puzza, ci piovedentro, le mensole cadono dai muri; è unposto terribile per viverci. Torna lì,richiama il pesce e digli che vorremmouna bella casetta, tutta linda e pulita.Vai».

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Il pescatore non ne aveva moltavoglia, ma d’altra parte sapeva cosasarebbe successo se non avesse fattocome diceva sua moglie, così tornò sullariva. Arrivando vide che l’acqua non erapiù limpida, ma verde scuro, densa egiallastra. In piedi sulla riva disse:

«Rombo, rombo che stai nel mare,ascoltami, mi devi aiutare.La bella Ilsebilla, mia mogliemi ha mandato a dir le sue voglie».

Il rombo salì in superficie e disse:«Be’? Cos’è che vuole?»

«Oh, eccoti qui. Be’, non è un’ideamia, ma dice che ti dovevo chiedere diesaudire un desiderio. E mi ha detto ildesiderio. Dice che è stanca di vivere inuna baracca che sembra un pitale e

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vuole vivere in una casetta».«Torna a casa» disse il rombo. «Il

suo desiderio si è già avverato».Il pescatore andò a casa e trovò la

moglie davanti a una bella casetta linda.«Ecco qua!» disse. «Non è meglio?»

C’erano un giardino sul davanti, unbel salotto, una camera con un veromaterasso di piume e una cucina condispensa. C’erano bei mobili in tutte lestanze, ciotole di latta e casseruole dirame erano tirate a lucido tanto dascintillare. Fuori, sul retro, c’eranoun’aia, uno stagno con le anatre e un ortocon verdura e alberi da frutto.

«Be’, che ti avevo detto io?» disse lamoglie.

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«Oh, sì» disse il pescatore. «È moltocarina. Staremo bene qui».

«Si vedrà» disse la moglie.Poi cenarono e andarono a letto.Tutto filò liscio per una settimana o

due. Poi la moglie disse: «Ascoltami.Questa casetta è troppo piccola. Incucina riesco a malapena a girarmi, epoi guarda il giardino: in sei passi l’haigià attraversato. Non è un granché. Quelrombo avrebbe potuto darci una casa piùgrande se avesse voluto, non gli cambianiente. Voglio vivere in un palazzo dimarmo. Torna lì e chiedi un palazzo».

«Oh, moglie mia» disse l’uomo,«questo posto è giusto per noi. Noi nonvogliamo un palazzo. Che ce ne

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faremmo?»«Un sacco di cose» disse la moglie.

«Sei un disfattista, ecco cosa sei. Avanti,vai a chiedere un palazzo».

«Mah, non so... Ci ha appena dato lacasetta, non voglio disturbarlo ancora.Magari si arrabbia».

«Non essere così irresoluto. Puòfarlo. Non sarà affatto un problema.Vai».

Il pescatore non era per nientecontento. Non voleva proprio andarci.«Non è giusto» diceva fra sé e sé, maandò ugualmente.

Quando arrivò sulla riva, l’acquaaveva cambiato colore di nuovo. Oraera blu scuro, viola e grigia. In piedi sul

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bordo dell’acqua disse:«Rombo, rombo che stai nel mare,ascoltami, mi devi aiutare.La bella Ilsebilla, mia mogliemi ha mandato a dir le sue voglie».

«Che vuole stavolta?» disse il rombo.«Be’, vedi, dice che la casetta è

troppo piccola. Vorrebbe vivere in unpalazzo».

«Va’ a casa. È già lì sulla porta».Il pescatore si diresse verso casa e,

quando arrivò, al posto della casettac’era un grande palazzo fatto tutto dimarmo.

Sua moglie era in cima ai gradinid’ingresso, in procinto di aprire laporta. «Vieni!» gli disse. «Nonstrascicare i piedi! Vieni a vedere!»

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La seguì. La prima stanza era ungrande salone con il pavimento bianco enero. C’erano grandi porte su tutte lepareti e di fianco a ogni porta c’era unservitore a spalancarla con un inchino.C’erano stanze da tutte le parti e lepareti erano dipinte di bianco e copertedi arazzi. Le sedie e i tavoli di ognistanza erano d’oro puro e c’eranocandelieri di cristallo appesi ai soffitticon migliaia di diamanti sfavillanti suognuno. I tappeti erano così spessi che ilpescatore e la moglie ci sprofondavanofino alle caviglie e nella sala da pranzoc’era un tale banchetto che i tavoli eranostati rinforzati con puntelli di rovere perevitare che crollassero. All’esterno

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c’era un grande cortile coperto di ghiaiabianca, le pietre lucidate una per una,con una fila di carrozze scarlatte di tuttele grandezze, tirate da cavalli. Quando ilpescatore e la moglie uscirono, tutti icavalli abbassarono la testa in uninchino. Al di là del cortile c’era ungiardino di indescrivibile bellezza, confiori che profumavano l’aria per miglia,e alberi da frutto carichi di mele e peree arance e limoni, e al di là del giardinoc’era un parco lungo almeno mezzomiglio, con alci e cerbiatti e lepri e ognitipo di bestie selvatiche ornamentali.

«Non è bello?» disse la moglie.«Oh, sì» disse il pescatore. «È quasi

troppo per me. Possiamo stare qui senza

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avere più bisogno di niente».«Si vedrà. Andiamo a dormire e

vediamo come ci sentiamo domani».La mattina seguente la moglie si

svegliò per prima. Il sole stava sorgendoe lei si sedette sul letto, da dove vedevail giardino, il parco e al di là di quellole montagne. Il marito russavafelicemente al suo fianco, ma lei glidiede una gomitata nelle costole e disse:«Marito! Svegliati. Avanti, guarda fuoridalla finestra».

Lui sbadigliò, si stirò e si trascinòalla finestra. «Cosa c’è?» disse.

«Be’, abbiamo il giardino. Perfetto. Eabbiamo il parco. Molto bello e grande.Ma guarda laggiù! Le montagne! Voglio

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essere il re, così potremo avere anche lemontagne».

«Oh, moglie mia, io non voglioessere il re. Perché dovremmo volereessere il re? Non abbiamo ancora finitodi vedere tutte le stanze di questopalazzo».

«È questo il tuo problema» gli disselei, «non hai ambizioni. Tu non vuoiessere il re, ma io sì».

«Oh, moglie, non posso chiederequesto. È già stato tanto generoso. Nonposso dirgli che vuoi essere il re».

«Sì che puoi. Vai, sbrigati».«Ohhh» sospirò il pescatore. E andò,

a malincuore. Al pesce non sarebbeandata giù, pensò, ma partì lo stesso.

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Quando arrivò sulla riva l’acqua eradi un grigio scuro e le onde sisollevavano dagli abissi producendo unodore terribile.

Il pescatore disse:«Rombo, rombo che stai nel mare,ascoltami, mi devi aiutare.La bella Ilsebilla, mia moglieMi ha mandato a dir le sue voglie».

«Be’?» disse il rombo.«Mi dispiace, ma vuole essere il re».«Va’ a casa. È già re».E andò a casa. Quando arrivò, il

palazzo era diventato due volte piùgrande di prima e c’era una torre moltoalta sopra l’ingresso, con una bandierascarlatta che sventolava in cima.C’erano sentinelle di guardia alle porte

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e quando il pescatore entrò concircospezione, spararono fucilate asalve, facendolo sobbalzare dallospavento. I tamburini suonarono itamburi e i trombettieri intonarono unafanfara e i portoni si spalancarono.

Entrò in punta di piedi e trovò tuttoricoperto d’oro e due volte più grandedi prima. Tutti i cuscini erano coperti divelluto cremisi e ricamati d’oro.C’erano nappine d’oro appese a ognimaniglia, su ogni parete c’erano cornicid’oro con ritratti del pescatore e suamoglie vestiti da imperatori romani o ree regine o dei e dee, e tutti gli orologimandavano rintocchi al suo passaggio.Poi due enormi ante si spalancarono e lì

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c’era l’intera corte ad aspettarlo.Un maggiordomo tuonò: «Sua Maestà

il Pescatore!»Entrò e centinaia di nobiluomini e

nobildonne si inchinarono fino a terra esi divisero in due ali per lasciarloaccedere al trono. E seduta sul tronoc’era sua moglie con un vestito di setatutto coperto di perle, zaffiri e smeraldi.Aveva una corona d’oro in testa e tenevain mano uno scettro d’oro con rubinigrandi almeno quanto l’alluce delpescatore. Da entrambi i lati del tronoc’era una fila di damigelle, dalla piùalta alla più bassa, che fecero unariverenza quando lui si avvicinò.

«Be’, moglie mia» disse il pescatore,

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«sei re adesso?»«Sì, ora sono re» disse la moglie.«Mi fa piacere. È tutto molto bello. E

ora non abbiamo più niente dadesiderare».

Lei tamburellò con le dita sulbracciolo del trono. «Uhm, non saprei.Mi sto stufando di essere re. Torna dalpesce e digli che voglio essereimperatore».

«Oh, moglie mia, pensaci» disse ilpescatore. «Non può farti imperatore.Ce n’è già uno e non ce ne può essere unaltro».

«Non azzardarti a parlarmi così! Iosono il re, non dimenticartelo! Fa’ cometi dico e vai dal pesce. Se può farmi re,

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può farmi anche imperatore. Tanto perlui fa lo stesso. Vai, su!»

E lui andò, ma era molto agitato. ‘Quifinisce male’ pensò. ‘Il rombo ne avràabbastanza di tutti questi desideri’.

Quando arrivò sulla riva l’acqua eranera e densa e ribolliva. Un vento fortesferzava le onde schiumose. Il pescatoresi fermò e disse:

«Rombo, rombo che stai nel mare,ascoltami, mi devi aiutare.La bella Ilsebilla, mia mogliemi ha mandato a dir le sue voglie».

«Bene, dimmi» disse il rombo.«Vuole essere imperatore».«Va’ a casa. È già imperatore».Così tornò a casa e stavolta trovò il

palazzo ancora più alto di prima, con

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torrette a ogni angolo, una fila dicannoni sul davanti e un interoreggimento di soldati che marciava su egiù in uniformi scarlatte. Non appena lovidero si misero sull’attenti e fecero ilsaluto, sparando una cannonata a salveche gli fece dolere le orecchie. Ilcancello si spalancò, lui entrò e scoprìche tutto l’interno dell’edificio era d’oroe lungo le pareti c’erano statue dialabastro raffiguranti lui e sua moglie inposture eroiche. Da qualunque parteandasse, duchi e principi si affrettavanoa tenergli aperte le porte e siinchinavano fino a terra. Nella stanzadel trono trovò sua moglie seduta su untrono fatto di un blocco d’oro massiccio

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alto due chilometri e riuscì a vederlasolo perché indossava una corona altatre metri e larga due. Anche quella erad’oro massiccio, incrostata di rubini esmeraldi. In una mano teneva uno scettroe nell’altra il globo imperiale. Due filedi soldati formavano la sua guardiapersonale, dal più alto al più basso, apartire da giganti alti come il trono perarrivare a omini non più alti del miodito, tutti con le armi alzate. Principi,duchi, conti e baroni tutti al seguito.

Il pescatore andò ai piedi del trono egridò: «Moglie, sei imperatore ora?»

«A te cosa sembro?»«Davvero notevole. La smetterai di

desiderare adesso».

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«Questo lo pensi tu. Mancanza diambizioni. Non è abbastanza, lasciatelodire».

«No, moglie mia, non farlo ancora!»«Torna dal pesce. Digli che voglio

essere papa».«Ma non puoi essere papa! Ce n’è

solo uno in tutta la cristianità!»«Sono l’imperatore» sbraitò lei. «E ti

dico: torna dal pesce e ordinagli difarmi papa».

«No, no, è troppo. Ti prego. Nonposso farlo».

«Stupidaggini! Ti ordino di andaredal pesce! Subito!»

Ora il pescatore era spaventato. Sisentiva male e le ginocchia gli

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tremavano, il vento soffiava forte estrappava le foglie dagli alberi.Calavano le tenebre. Quando arrivò allariva, le onde ruggivano e si infrangevanosulle rocce esplodendo come il fuocodei cannoni. Al largo vedeva barche chelanciavano razzi di segnalazione mentrevenivano scosse e sballottate dalle onde.Nel cielo era rimasto solo un po’ di blu,circondato da nuvole rosso sangue ebagliori di lampi.

Il pescatore disperato urlò:«Rombo, rombo che stai nel mare,ascoltami, mi devi aiutare.La bella Ilsebilla, mia mogliemi ha mandato a dir le sue voglie».

«Be’, che vuole?»«Vuole essere papa».

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«Va’ a casa. È già papa».Quando arrivò a casa trovò

un’immensa chiesa al posto del castello.Era circondata da palazzi di tutte ledimensioni e forme, ma il campanile erapiù alto di tutti. Una vasta folla siagitava tutt’intorno cerando di entrare,ma all’interno c’era una calca ancorapiù fitta, così il pescatore fu costretto afarsi strada a spintoni. La chiesa erailluminata da migliaia e migliaia dicandele e in ogni nicchia c’era unconfessionale con un prete impegnatonelle confessioni. Al centro di tuttoc’era un grosso trono d’oro su cuisedeva sua moglie, con tre corone intesta, una sull’altra, e scarpini rossi. Una

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fila di vescovi aspettava di allungarsi aisuoi piedi per baciarle lo scarpinodestro e una fila altrettanto lunga di abatiaspettava di allungarsi ai suoi piedi perbaciare il sinistro. Alla mano destraaveva un anello grande quanto ungalletto e a sinistra un anello grandequanto un’oca e una lunga fila dicardinali aspettava di baciarle l’anello adestra e una lunga fila di arcivescoviquello a sinistra.

Il pescatore gridò: «Moglie, sei papaora?»

«A te cosa sembro?»«Non so, non ho mai visto un papa.

Sei contenta, una buona volta?»Lei restò seduta immobile senza dire

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niente. I baci che le ricoprivano mani epiedi facevano un rumore di passeri chebecchettavano. Il pescatore pensò chenon lo avesse sentito, così urlò dinuovo: «Moglie, sei felice adesso?»

«Mah, non saprei. Ci devo pensare».Andarono a letto e il pescatore dormì

profondamente, dopo quella giornatacosì impegnativa. Ma sua moglie passòtutta la notte a girarsi e rigirarsi, nonriusciva a decidere se era soddisfatta ono e non sapeva cos’altro poteva esseredopo il papa, così ebbe una bruttanottata.

Al sorgere del sole, nel vedere laluce, si levò a sedere di scatto. «Hocapito! Svegliati, marito. Su, svegliati!»

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Gli diede una gomitata nelle costole.Lui aprì gli occhi con un gemito.

«Che c’è? Che vuoi?»«Torna subito dal pesce. Voglio

essere Dio!»Il marito si alzò a sedere. «Cosa?»«Voglio essere Dio. Voglio far

sorgere il sole e la luna. Non sopportoquando li vedo sorgere e non è meritomio. Ma se fossi Dio, potrei farlo. Epotrei farli tornare indietro se volessi.Quindi vai a dire al pesce che voglioessere Dio».

Lui si stropicciò gli occhi e laguardò, ma le sembrò talmente pazza dafargli paura e si alzò velocemente dalletto.

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«Subito» gridò lei. «Vai!»«Oh, moglie mia, per favore» pregò

il pover’uomo cadendo in ginocchio,«pensaci ancora, amore mio, pensaciancora. Il rombo ti ha fatto imperatore epapa, ma non può farti Dio. Questodavvero è impossibile».

Lei si catapultò fuori dal letto e lopicchiò, con i capelli tutti arruffati comeuna selvaggia e gli occhi rigirati. Sistrappò di dosso la camicia da notte eurlò, gridò, batté i piedi: «Non possoaspettare un minuto di più! Mi staifacendo diventare pazza! Va’ e fa’ cometi dico, subito!»

Il pescatore si infilò i pantalonisaltando fuori dal letto e corse in riva al

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mare. Infuriava una terribile tempesta esi riusciva a malapena a stare in piedi.La pioggia gli frustava la faccia, glialberi venivano sradicati, le caserotolavano via in tutte le direzioni edalle scogliere precipitavano massi.C’erano schianti di tuoni e bagliori dilampi e onde alte come chiese, castelli emontagne, con la cresta schiumante.

«Rombo, rombo che stai nel mare,ascoltami, mi devi aiutare.La bella Ilsebilla, mia mogliemi ha mandato a dir le sue voglie».

«Cosa vuole?»«Be’, ecco, vuole essere Dio».«Va’ a casa. Abiterete di nuovo in un

pitale».E così fu. Ancora oggi abitano lì.

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* * *

Tipo di fiaba: ATU 555, ‘The Fisherman andHis Wife’ (Il pescatore e sua moglie).Fonte:: una storia scritta da Philipp OttoRunge.Storie simili: Alexander Afanasjev: ‘TheGoldfish’ (Il pesciolino d’oro) [Russian FairyTales (Fiabe russe)]; Italo Calvino: ‘Il dragodalle sette teste’ (Fiabe italiane); Jacob eWilhelm Grimm: ‘The Golden Children’ (I figlid’oro) [Children’s and Household Tales(Fiabe del focolare)].Una fiaba conosciuta e assai diffusa. La storiadi Calvino ‘Il drago dalle sette teste’ mostracome da un principio molto simile si puòsviluppare una storia diversa.

Questa versione è piena di energia e dettaglimolto fantasiosi. Come anche ‘The JuniperTree’ (Il ginepro) (p. 211), viene dalla penna delpittore romantico Philip Otto Runge (1777-

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1810) e fu scritta in Plattdeutsch, anche dettoBasso tedesco, dialetto della Pomerania, suaregione d’origine:

Dar wöör maal eens en Fischer un syneFru, de waanden tosamen in’n Pißputt,dicht an der See...

Arrivò ai Grimm grazie a Clemens Brentanoe Achim von Arnim, scrittori checondividevano il loro crescente interesse per lestorie della tradizione. Queste due storiedimostrano che Runge aveva talento con lapenna tanto quanto con il pennello. Il climaxmonta con rapidità eccellente, a effetto, e latempesta che si prepara funziona comecommento divino all’ossessione crescentedella moglie.

La maggior parte dei traduttori ha reso la

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parola Pißputt con ‘porcile’ o termini simili. Ame il termine migliore è sembrato ‘pitale’.

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DODICI

IL SARTINO IMPAVIDO

In una mattina di sole, un sartino eraseduto a gambe incrociate sul tavolo,come al solito, accanto alla finestradell’ultimo piano con vista sulla strada.Era di buonumore e cuciva di buonalena, quando dalla strada arrivò unavecchina che vendeva marmellata.

«Ottima marmellata in vendita!Comprate la mia dolce marmellata!»

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Al sartino la cosa piacque, cosìgridò: «Portala su, tesoro! Fammi dareun’occhiata!»

La vecchina trascinò il cestino su perle tre rampe di scale. Quando arrivò, ilsarto fece spacchettare tutti i vasetti peresaminarli da vicino, li soppesò con lamano tenendoli alla luce, annusò lamarmellata e così via. Infine disse: «Mipare buona questa qui alla fragola.Pesamene tre once, brava donna, e searrivi a un quarto di libbra, tantomeglio».

«Non vuoi il barattolo intero?»«Per amor del cielo, no. Non me lo

posso permettere tutto».Allora lei pesò, brontolando, e se ne

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andò per la sua strada.«Be’, Dio benedica questa

marmellata, possa dare salute e forza achi se la mangia!» disse il sarto,andando a prendere un pezzo di pane eun coltello. Si tagliò una bella fetta e laspalmò di marmellata. «Sarà anchebuona, ma prima di mettermi a mangiaredevo finire questa giacca». Saltò dinuovo sul tavolo, prese l’ago e cucìsempre più veloce. Nel frattempo, ildolce profumo della marmellata riempìl’aria, fluttuò per la stanza e si propagòfuori dalla finestra. In strada c’era unosquadrone di mosche che stavanobanchettando sul cadavere di un cane.Intercettarono il profumo e subito si

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alzarono in volo per scoprirne laprovenienza. Entrarono dalla finestra esi posarono sul pane.

«Ehi! Chi vi ha invitate?» disse ilsartino, sventagliando la mano percacciarle via.

Ma loro non capivano una parola epoi erano già impegnate con lamarmellata e non se ne curarono.

Alla fine il sarto perse la pazienza.«E va bene, l’avete voluto voi». Afferròun pezzo di stoffa e glielo sbatté sopra,infuriato. Quando riprese fiato e fece unpasso indietro, ne vide sette che eranorimaste stecchite con le zampe all’aria.«Guarda un po’ che eroe che sono! Saràmeglio farlo sapere subito in città!»

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Prese le forbici, tagliò velocemente unafascia di seta cremisi e vi cucì sopra agrandi lettere d’oro: SETTE IN UN COLPO!

Se la mise addosso e si guardò allospecchio.

‘Altro che città’ pensò. ‘Lo devesapere il mondo intero!’

Il cuore gli scodinzolò di gioia comela coda di un agnello. Prima di partireper far mostra di sé al mondo, si guardòattorno per cercare qualcosa da portarecon sé, ma trovò solo una ciotola dicrema di formaggio. La prese, se la misein tasca, corse al piano di sotto e poi instrada. Passata la porta della città trovòun uccello intrappolato in un cespuglio esi intascò anche quello. Poi si mise in

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marcia per vedere il mondo.Era leggero e agile, non si stancava

facilmente. Seguì la strada fino alla cimadi una montagna e lì trovò un giganteseduto su una roccia che si riposavaammirando il paesaggio.

Il sartino marciò verso di lui e disse:«Buongiorno, amico! Guardi il mondo?Anch’io. Ti va di unire le forze e andareavanti insieme?»

Il gigante guardò il piccoletto conprofondo disprezzo. «Tu, mezza calzetta!Tu, nanerottolo! Unire le forze con uninsetto come te?»

«Oh, è questo che pensi?» disse ilsarto e sbottonò la giacca per mostrarela sua fascia. «Questo ti dimostra che

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razza di uomo sono».Il gigante compitò: «Sette in un

colpo!» E sgranò gli occhi.«Complimenti» disse. Ma sentiva chedoveva ancora mettere alla prova queltizio, perciò continuò: «Magari avraiucciso sette uomini in un colpo solo, manon è poi una grande impresa se eranotutti topolini come te. Fammi vederequanto sei forte. Sai fare questo?» Preseuna pietra e la strinse finché la mano glicominciò a tremare, la faccia gli diventòrossa e le vene furono sul punto difuoriuscirgli dalla testa. Strinse la pietracosì forte che riuscì a spremerne fuoriqualche goccia d’acqua. «Vediamo sehai questa forza anche tu!»

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«Tutto qui?» disse il sartino. «Nientedi che. Guarda qua». Tirò fuori la cremadi formaggio dalla tasca e la strinse.Ovviamente il formaggio era pieno disiero che presto cominciò a gocciolaredalla mano del sarto sul terreno. «Sonopiù bravo io!»

Il gigante si grattò la testa. «Bene,uhm... D’accordo, prova questo». Preseun altro sasso e lo lanciò più in alto chepoté. Il sasso salì così in alto che quasiscomparve.

«Non male» disse il sartino, «maguarda, torna di nuovo giù. Io so fare dimeglio».

Tirò fuori l’uccello dalla tasca e lolanciò in aria e appena l’uccello ritrovò

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la libertà volò verso l’alto e svanì.«Quando lancio qualcosa in aria, nontorna più indietro. Che ne pensi, miocolossale amico?»

«Uhm» disse il gigante. «Be’, saispremere e sai lanciare. Ma adessoarriva la vera prova: vediamo cosa saitrasportare». Condusse il sartino almargine del bosco, dove una grandequercia era appena stata tagliata.«Aiutami a portarla».

«Con piacere. Tu prendi il tronco e ioporterò le foglie e i rami, che sonocomunque più pesanti, come tutti sanno».

Il gigante si chinò, trattenne il respiroe poi si issò il tronco sulle spalle.

Ora che il gigante non poteva

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guardarsi dietro, il sartino si miseconfortevolmente a sedere tra le foglie,fischiettando Tre sarti coraggiosiuscirono un dì mentre il gigantebarcollando lungo il sentiero portavatutto il peso dell’albero sulle spalle.

Il gigante non riuscì ad andare moltolontano perché l’albero era grosso; benpresto si fermò. «Ehi, ascolta! Non ce lafaccio a continuare» gridò.

Il sarto saltò giù in fretta prima chepotesse voltarsi e prese un mucchio difoglie e rami con entrambe le braccia,come se li avesse appena trasportati.«Grande e grosso come sei, non ce la faia portare mezzo albero? Hai propriobisogno di fare un po’ di esercizio».

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Camminarono un po’ fino ad arrivarea un ciliegio. Il gigante afferrò i rami piùalti e li tirò in basso, mostrando al sartoil frutto più maturo. «Tienilo unmomento che devo tirarmi fuori unapietra dalla scarpa» disse.

Il sarto prese in mano il ramo.Quando il gigante lasciò andare, il

ramo scattò indietro e il sarto, troppoleggero per tenerlo giù, fu sbalzato inaria. Ma era agile ed ebbe la fortuna diatterrare su un mucchio d’erba senzafarsi male. Riuscì perfino a fare unacapriola e cadere in piedi.

«Ah, non sei abbastanza forte datenerlo giù!» disse il gigante.

«Niente affatto» disse il sarto. «Un

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uomo che ne ha uccisi sette con un colpopuò mantenere qualsiasi albero a terra.Il fatto è che quei cacciatori laggiùstavano per sparare tra gli alberi e hopensato fosse meglio togliersi di torno.Scommetto che non sai saltare in altotanto quanto me. Prova, avanti».

Il gigante prese la rincorsa e provò,ma era troppo pesante per staccarsi daterra, così finì impigliato tra i rami delciliegio e il sartino vinse anche quellagara.

«Bene» disse il gigante quando toccòdi nuovo terra, «se pensi davvero diessere un eroe, vieni a trascorrere lanotte nella nostra caverna. Vivo conun’altra coppia di giganti e non siamo

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facilmente impressionabili, tel’assicuro».

Il sarto accettò con piacere e siavviarono verso la caverna. Era buioquando arrivarono e gli altri due gigantisedevano accanto al fuoco acceso.Entrambi avevano un’intera pecoraarrostita tra le mani e la stavanorosicchiando voracemente, con un suonoorribile, succhiando e arrotando i denti.

Il sartino si guardò attorno. «È moltopiù grande del mio laboratorio. Dovedormirò?»

Il gigante gli mostrò un letto enorme.Il sarto ci si arrampicò e si sistemò, manon riusciva a mettersi a proprio agio,così, mentre i giganti borbottavano

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vicino al fuoco, scese giù e si nascose inun angolo della caverna.

A mezzanotte il primo gigante,pensando che il sartino fosseaddormentato, prese una clava enorme econ un colpo fracassò il letto a metà.‘Così ho schiacciato quella cavalletta’pensò.

Al mattino i giganti si svegliaronopresto e si trascinarono fuori nei boschi.Avevano completamente dimenticato ilsartino. Ma lui si era svegliato allegro eradioso ed era andato dietro a lorotrotterellando, fischiando e cantando equando lo videro furono presi daterrore.

«È vivo!»

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«Si salvi chi può!»E corsero via.«Bene, ne ho abbastanza dei giganti»

disse tra sé il sarto. «Andiamo a cercarenuove avventure».

Seguendo il proprio fiuto vagò qua elà per diversi giorni finché giunse a unosplendido palazzo. C’erano bandiere alvento, soldati che facevano il cambiodella guardia e il sarto si sedette su unmucchio d’erba ad ammirare il tutto.Sentendosi assonnato, si sdraiò e chiusegli occhi. In un attimo si addormentòprofondamente.

Mentre dormiva, la sua fascia cremisicon le lettere d’oro che dicevano: SETTEIN UN COLPO! attirò l’attenzione di

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diversi passanti che cominciarono aparlare:

«Deve essere un grande eroe!»«Ma cosa ci fa qui?»«Siamo in tempo di pace, dopotutto».«Sono sicuro che si tratta di un duca

o qualcosa del genere. Guarda chelineamenti nobili».

«No, credo sia un popolano, ma hacertamente partecipato a una battaglia.Si vede dal fiero portamento militare,perfino nel sonno».

«Sette in un colpo, pensa!»«Sarà meglio dirlo al re».«Hai ragione. Andiamo subito!»Un gruppo di loro chiese

immediatamente udienza al re, che

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ascoltò con molta attenzione. Se fosseaccaduto il peggio e fosse scoppiata laguerra, dissero, avrebbero a tutti i costicercato di ottenere i servigi diquell’eroe.

«Avete assolutamente ragione» disseil re. Poi convocò il capo della difesa.«Vai da quel signore, aspetta che sisvegli e offrigli il posto di maresciallo.Non possiamo permetterci che qualchealtro regno ottenga i suoi servigi».

Il capo della difesa andò e aspettòche il sartino si svegliasse. «Sua maestàvuole offrirvi il posto di maresciallo,con il comando immediato di tuttol’esercito».

«È proprio per questo che sono qui!»

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disse il sartino. «Sono pronto, non vedol’ora di entrare al servizio del re, tutta lamia abilità è a sua disposizione».

Fu predisposta una guardia d’onore,il sartino fu ricevuto con un grancerimoniale e gli venne assegnato unappartamento nel palazzo. Gli fuconcesso anche di disegnare il modellodella sua divisa.

Ciononostante, i soldati che stava percomandare avevano molti dubbi.

«E se ci prende in antipatia?»«O se ci dà ordini che non ci

piacciono e litighiamo con lui?»«Sì! Può uccidere sette di noi con un

solo colpo. Siamo soldati semplici. Nonpossiamo combattere contro uno così».

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Ne parlarono in caserma emandarono una delegazione dal re.

«Vostra maestà, chiediamo di essereesonerati dal servizio! Non possiamostare con un uomo che può uccidere settedi noi con un solo colpo. È un’arma didistruzione di massa!»

«Lasciatemi pensare» disse il re.Era turbato. Perdere tutti i suoi fedeli

soldati per un solo uomo! Ma se avessecercato di sbarazzarsi del sartino, cosasarebbe accaduto? Il sarto potevauccidere lui e tutto l’esercito e poimettersi sul trono.

Ci pensò a lungo e attentamente,infine ebbe un’idea. Mandò a prendere ilsartino e disse: «Maresciallo, ho un

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compito che solo voi potete eseguire. Ungrande eroe come voi non potràrifiutare, sono sicuro. In uno dei mieiboschi ci sono due giganti che stannocreando disordini in tutta la campagna,rubando, uccidendo, saccheggiando,incendiando case e non so che altro.Nessuno osa avvicinarsi per paura diperdere la vita. Ora, se potestesbarazzarci di questi giganti, vi darò miafiglia in sposa e la metà del mio regnocome dote. Potete portare con voi uncentinaio di cavalieri».

‘Questo è il tipo di offerta che stavoaspettando’ pensò il sartino. «Vostramaestà, accetto l’incarico con piacere»disse. «So come trattare con i giganti.

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Ma non ho bisogno di cavalieri.Chiunque abbia ucciso sette con uncolpo non ha paura di due soltanto».

Così partì e lasciò che lo seguisseroanche i cento cavalieri, soltanto per farscena.

Quando giunsero al margine delbosco, disse loro: «Aspettate qui. Aigiganti penserò io. Quando non ci saràpiù pericolo vi chiamerò».

Marciò baldanzoso nella foresta,guardando qua e là. Trovò ben presto igiganti. Erano entrambi addormentatisotto una quercia, russavano così forteda far alzare e abbassare i rami. Il sartonon perse tempo. Si riempì le tasche dipietre, scalò l’albero e si arrampicò su

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un ramo, finché non fu proprio sopra igiganti.

Poi lasciò cadere una pietra dopol’altra sul petto di uno dei dormienti. Ilgigante all’inizio non sentì niente, maalla fine si svegliò e strattonò ilcompagno. «Cosa credi di fare,prendendomi a sassate?»

«Non ti sto prendendo a sassate!»disse l’altro gigante. «Te lo staisognando!»

Si addormentarono di nuovo e il sartocominciò a tirare pietre al secondogigante, che si svegliò e diede unagomitata al primo. «Ohi! Smettila!»

«Non sto facendo niente! Di cheparli?»

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Brontolarono un po’ ma erano stanchidopo tutto il loro saccheggiare edepredare, e ben presto siaddormentarono di nuovo. Così ilsartino scelse la pietra più grande, preseaccuratamente la mira e colpì il primogigante dritto sul naso.

Quegli si svegliò con un ruggito.«Adesso basta! Non ti sopporto più!»

Spinse l’altro gigante contro l’albero,con tanta forza da scuoterlo. Il sartino siaggrappò forte per non cadere e guardò idue giganti che si colpivano a vicenda.

Si diedero botte e calci e sberle, ealla fine erano così arrabbiati chesradicarono degli alberi e si colpirono avicenda così forte che caddero entrambi

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morti.Il sartino balzò giù. ‘Meno male che

non hanno sradicato questo albero’pensò. ‘Mi sarebbe toccato saltare fuoricome uno scoiattolo. Ma in famigliasiamo sempre stati svelti di piede’.

Estrasse la spada e diede loro unpaio di fendenti sul petto, poi tornò daicavalieri che lo aspettavano.

«Tutto a posto» disse. «Li ho fattifuori entrambi. È stato un lavoro duroper un minuto o poco più, perché hannosradicato alberi per cercare didifendersi ma non è servito a niente.Posso ucciderne sette con un colpo».

«Non sei ferito?»«No, nemmeno un graffio. Be’, la mia

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giacca si è un po’ strappata, vedete?Andate a dare un’occhiata ai corpi deigiganti se non mi credete».

I cavalieri cavalcarono fin lì etrovarono i giganti proprio come eranostati descritti, riversi nel loro stessosangue e circondati da alberi sradicati.

Così il sartino tornò dal re,aspettando la ricompensa.

Ma il re aveva avuto tempo perpensarci e si pentì di aver promesso lafiglia in sposa a quell’uomo che in findei conti poteva essere pericoloso.«Prima di darvi mia figlia e metà delmio regno, c’è un altro compito per cuiserve un eroe. Nel bosco c’è unrinoceronte spaventoso che sta causando

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ogni genere di danni e voglio che locatturiate».

«Non c’è problema, maestà» disse ilsartino. «Un rinoceronte è anche menopericoloso di due giganti».

Prese una scure e una matassa dicorda e marciò verso i boschi, ancorauna volta dicendo al reggimento che eraandato con lui di aspettare fuori dallaforesta. Non ci volle molto a trovare ilrinoceronte: andò verso di lui caricandocon il corno in avanti come se volessepassargli attraverso. Ma il sartino restòimmobile fino a quando la bestia nonarrivò a un metro di distanza o poco più,poi balzò di lato. Proprio alle sue spallec’era un albero. Il rinoceronte ci finì

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dritto contro e il corno ci restò infilzato.«Bene, mia piccola graziosa bestia»

disse il sarto, «ora sei stata catturata,no?»

Gli legò la corda attorno al collo epoi scalpellò l’albero con l’ascia fino aliberargli il corno. Il rinoceronte da quelmomento diventò docile e si lasciòcondurre fuori dal bosco.

Lui lo portò a palazzo e lo presentòal re.

«Ah» disse il re. «Bene. Mmm. C’èancora una cosa. Prima che sposiate miafiglia mi piacerebbe che catturaste uncinghiale selvaggio che stadanneggiando un sacco di frutteti efattorie. Manderò i cacciatori laggiù per

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aiutarvi».«Oh, non ho bisogno di nessuno»

disse il sartino, con gran sollievo deicacciatori che avevano incontrato ilcinghiale un paio di volte e non avevanoalcuna intenzione di affrontarlo dinuovo. Andarono con lui comunque, pergodersi lo spettacolo, e stettero fuori dalbosco a giocare a dadi aspettando diessere ricondotti indietro.

Nel bosco c’era una piccolacappella. Il sarto andò lì e aspettò che ilcinghiale si avvicinasse, sapendo cheavrebbe seguito il suo odore e sarebbepartito alla carica. Presto la grandebestia arrivò fracassando ogni cosa sullasua via e caricando dritto verso di lui,

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sbavando e digrignando le zanne affilatecome rasoi. Appena lo vide, il sartocorse nella cappella e la bestia loinseguì.

Il sarto saltò fuori dalla finestra efece il giro per chiudere la porta primache la bestia potesse capire dove eraandato. E così lo prese. I cacciatori glifecero un applauso e suonarono i cornimentre lo accompagnavano di nuovo apalazzo.

L’eroe andò dal re a dirgli che allafine doveva mantenere la promessa, chelo volesse o no. Così il matrimoniovenne organizzato, benché con pocagioia, e il sarto diventò re.

Dopo poco tempo la giovane regina

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sentì il marito urlare nella notte:«Ragazzo! Muoviti con quella giacca erammenda i pantaloni o ti frusterò lanuca con il metro».

La mattina dopo andò dal padre.«Papà» disse, «credo che mio marito siasoltanto un umile sarto», e gli raccontòcosa gli aveva sentito urlare nel sonno.

«Sai, in effetti avevo dei sospetti»disse il re. «Facciamo così. Questa nottelascia aperta la porta della camera daletto. I miei servitori aspetteranno fuori.Appena lui si addormenterà, tu uscirai inpunta di piedi e li avvertirai, loroentreranno, lo legheranno e lometteranno su una nave diretta in Cina».

Alla giovane regina sembrò un buon

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piano. Tuttavia il valletto del re, cheammirava moltissimo il sarto, avevasentito tutto e corse a raccontargli qualera il piano.

«Me ne occuperò io» disse il sarto.«Lascia fare a me».

Quella notte andò a letto alla solitaora. La moglie, quando credette chestesse dormendo, andò alla porta inpunta di piedi. Ma il sarto, che stavasolo fingendo di dormire, gridò a granvoce: «Ragazzo! Fai quella giacca emuoviti a rammendare i pantaloni o tispezzerò il metro dietro alle orecchie!Ne ho massacrati sette in un solo colpo,ucciso due giganti, domato unrinoceronte selvaggio, catturato un

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cinghiale selvatico e dovrei avere pauradi qualche servitore tremante appostatodietro la porta?»

Quando i servitori sentirono questeparole, si spaventarono così tanto chescapparono come se avessero avuto allecalcagna un esercito di diavoli. Enessuno gli si avvicinò più.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 1640, ‘The Brave LittleTailor’ (Il prode piccolo sarto – Sette in uncolpo).Fonte:: una storia dal Wegkürtzer di MartinusMontanus (1557 circa).Storie simili: Alexander Afanasjev: ‘FomaBerennikov’, ‘Ivan the Simpleton’ (IvanBardotto) [Russian Fairy Tales (Fiabe russe)];

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Katharine M. Briggs: ‘John Glaick, the BraveTailor’ (Folk Tales of Britain); Italo Calvino:‘Giuanni Benforte che a cinquecento diede lamorte’, ‘Giovan Balento’ (Fiabe italiane).Una storia famosa, con versioni nelle varielingue. Al pubblico piace sempre ilpersonaggio piccolo, agile e astuto messocontro il gigante goffo: Davide e Golia sonol’esempio migliore. Questa versione deiGrimm è una delle più vivaci.

Secondo il proverbio inglese, ‘per fare unuomo ci voglion nove sarti’, ma non è facilecapirne il perché.

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TREDICI

CENERENTOLA

C’era una volta un uomo ricco la cuimoglie si ammalò e quando sentì chestava per morire, chiamò l’unica figliaal suo capezzale.

«Bambina mia» disse, «cerca diessere buona come l’oro e mite come unagnello, così Iddio benedetto tiproteggerà sempre. Inoltre io ti guarderòdal cielo e ti starò vicino».

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Dette queste parole, chiuse gli occhie morì.

Ogni giorno la ragazza andava allatomba della madre vicino allacolombaia e piangeva. Era buona comel’oro e mite come un agnello.

Quando giunse l’inverno, la neve sipoggiò come un lenzuolo bianco sullatomba e quando venne il sole diprimavera a sciogliere la neve, l’uomosposò un’altra donna.

La nuova moglie aveva due figlie.Erano belle, ma di cuore duro, egoiste earroganti. Dopo il matrimonio sitrasferirono tutte nella casa e poi tuttoiniziò ad andare male per la poverafigliastra.

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«Perché quella stupida oca deve starseduta in salotto con noi?» diceva unasorella. «Se vuole mangiare, deveguadagnarsi il pane. Il suo posto è lacucina».

Le portarono via i bei vestiti che lamadre le aveva cucito e le diedero unvestito grigio e logoro e zoccoli dilegno.

«Guardatela, la PrincipessaPerfettina! Tutta in ghingheri!» laschernivano portandola in cucina.

Fu costretta a lavorare come unaschiava da mattina a sera. Dovevaalzarsi all’alba, prendere l’acqua alpozzo, pulire i focolari, cucinare elavare i piatti. Come se non bastasse, le

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sorelle facevano il possibile perrenderle tutto più difficile. Lacanzonavano, si prendevano gioco di leidavanti alle loro frivole amiche e latormentavano in un modo che ledivertiva moltissimo: sparpagliavanoceci secchi o lenticchie tra la cenere percostringerla a sedersi a terra eraccoglierli tutti. E a fine giornata,quando era esausta, non poteva micacercarsi un letto comodo! Nemmeno persogno. Le toccava dormire appoggiata alfocolare, tra la cenere e i carboni. E nonpoteva mai lavarsi e mettersi in ordine edunque era sempre impolverata esudicia.

Per questo motivo, le trovarono un

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soprannome.«Come la possiamo chiamare,

Facciadicenere?»«Culdifuliggine?»«Cenerina?»«Cenerentola, ecco!»Un giorno il padre andò in città per

affari e chiese alle figliastre cosavolevano in regalo.

«Vestiti!» disse una. «Tanti begliabiti».

«Per me gioielli» disse l’altra.«Perle, rubini, tante cose».

«E tu, Cenerentola?» disse il padre.«Papà, portami solo il primo ramo

che ti sfiorerà il cappello sulla via dicasa».

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Così il padre tornò a casa con begliabiti per una e gioielli costosi perl’altra. Cavalcando verso casaattraversò un boschetto e un ramo dinocciolo gli sfiorò il cappello. Lui locolse e lo portò a Cenerentola.

Lei lo ringraziò e piantò il ramo sullatomba della mamma, lo innaffiò con lelacrime e dal ramo crebbe unbell’albero. Lo innaffiava tre volte algiorno ed era anche il preferito degliuccelli e ci si appollaiavano le colombee le tortorelle.

Un giorno arrivò una lettera dalpalazzo reale. Il re dava una grande festache sarebbe durata tre giorni e tutte legiovani dame del regno erano invitate e

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tra queste il principe avrebbe scelto unamoglie. Quando le due sorellastresentirono la notizia, si fecero prenderedall’eccitazione e iniziarono subito ipreparativi.

«Cenerentola! Vieni qui, sbrigati!Spazzolami i capelli. Non tirare! Staiattenta! Lucida i fermagli delle scarpe.Aggiustami il vestito. Dammi la collanadi tua madre. Tirami su i capelli come laragazza di questo ritratto. No, non cosìtirati, cretina» eccetera eccetera.

Cenerentola obbediva ma piangeva,perché anche a lei sarebbe piaciutoandare al ballo. Lo chiese alla matrigna,che però rispose: «Tu? Al ballo? Chi ticredi di essere? Sei solo una piccola

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sudiciona, ecco cosa sei. Che figurapensi di fare a un ballo dell’alta società,senza bellezza né fascino né buonaconversazione? Torna in cucina,bambinetta».

Dato che Cenerentola insisteva, lamatrigna perse la pazienza e buttò unaciotola di lenticchie nella cenere.

«Se in due ore le raccogli e dividiquelle buone da quelle guaste, potraiandare al ballo» le disse.

Cenerentola uscì dalla porta sul retroe andò in giardino. Sotto il nocciolodisse:

«Tortorelle e piccioncini,e voi tutti, miei uccellini,aiutatemi a dividerele lenticchie nella cenere!

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Le cattive voi beccate,quelle buone a me lasciate».

Due tortorelle entrarono dalla portadella cucina e iniziarono a beccare lelenticchie tra la cenere. Muovevano ilcapo facendo pic, pic, pic, pic. Poiarrivarono colombine e colombesenegalesi, tortore orientali, palombellee piccioni selvatici e anche loro facendopic, pic, pic beccarono tra la cenere. Inmeno di un’ora avevano finito evolarono via.

La ragazza portò la ciotola allamatrigna, pensando che le avrebbepermesso di andare al ballo.

«Non puoi» disse la donna. «Non hainiente da indossare e non sai ballare.Vuoi che tutti ridano di te?» E buttò due

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ciotole di lenticchie nella cenere edisse: «Dividi queste. Se finisci in menodi un’ora puoi andare al ballo».

E pensò: ‘Non ci riuscirà mai’.Cenerentola uscì di nuovo dalla porta

sul retro. Da sotto il nocciolo disse:«Uccellini miei tuttisotto il nocciolo venite,aiutatemi a dividerele lenticchie nella cenere!Le cattive voi beccate,quelle buone a me lasciate».

E vennero giù colombe bianche chevolarono dritte in cucina ecominciarono: pic, pic, pic, pic. Poi unacoppia di pettirossi, una coppia di merli,una coppia di uccelli ballerini, unacoppia di tordi e una coppia di

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scriccioli, e tutti: pic, pic, pic, pic.In meno di un’ora Cenerentola portò

le ciotole alla matrigna. La poveraragazza era così ingenua da pensare cheora la donna avrebbe detto di sì.

«Non se ne parla» disse la matrigna.«Non hai le scarpe giuste perl’occasione. Pensi di poter venire alballo con gli zoccoli di legno? La gentepenserà che sei una sempliciotta. Cifaresti vergognare». E se ne andò con ledue figlie, lasciando Cenerentola dasola.

La ragazza per prima cosa si lavòdalla testa ai piedi e si spazzolò icapelli per togliere ogni minima tracciadi cenere e fuliggine. Poi uscì dalla

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porta sul retro e sotto il nocciolosussurrò:

«Mio bell’albero, sii buono!Scuoti le foglie e libera sono!Io sono povera, lo dico a te,vorrei un bell’abito tutto per me».

«Di che colore?» sussurrò l’albero.«Oh! Vorrei un vestito del colore

delle stelle».Le foglie si mossero ed ecco che sul

ramo più basso, proprio di fianco a lei,apparvero un bell’abito da ballo delcolore delle stelle e scarpette di seta.

«Grazie!» disse Cenerentola e corsein casa a indossarlo.

Le stava a meraviglia. Non potevavedere quant’era bella perché non avevauno specchio e quando arrivò al ballo si

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sorprese a notare che tutti la trattavanoparticolarmente bene e le cedevano ilpasso e le dame la invitavano a sedersia bere un tè con loro e gli uomini lechiedevano di ballare. Nessuno si eramai mostrato gentile con lei e lasensazione di essere amata e ammiratale era nuova.

Ma non danzò con nessuno, négiovani né vecchi, ricchi o dibell’aspetto. Solo quando il principecon un inchino la invitò, si alzò e sidiresse sulla pista da ballo. Danzavacosì leggera e aggraziata che tutti sifermavano a guardarla, anche le duesorelle. Non la riconobbero, pensandoche Cenerentola fosse a casa tra la

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cenere e che questa bella sconosciutafosse una principessa straniera. La suabellezza ebbe uno strano effetto su diloro: per una volta scacciò l’invidia dailoro cuori di pietra e la ammiraronosinceramente.

Ma Cenerentola non rimase a lungo.Danzò con il principe e promise di nonballare con nessun altro e poi,approfittando di un intervallo, sgattaiolòfuori e andò di corsa a casa.

Il principe la seguì, ma Cenerentolacorreva così veloce che lui non riuscivaa raggiungerla e quando arrivò alla casa,era svanita. Il principe si mise adaspettare finché non apparve il padre.

«Avete visto la principessa

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misteriosa?» gli chiese il principe.«Credo sia entrata nella vostracolombaia».

Il padre pensò: ‘Potrebbe essere lamia Cenerentola’ e andò a prendere lechiavi della colombaia per aprire. Dellafiglia non c’era nemmeno l’ombra e ilprincipe se ne tornò al ballo da solo.

Cenerentola era sgattaiolata dal retrodella colombaia, si era tolta il vestitodel colore delle stelle e le scarpette diseta, li aveva messi su una gruccia e liaveva riappesi al nocciolo. In un frusciodi foglie erano spariti. E lei era tornataai vecchi abiti vicino al focolare.Quando la matrigna e le sorellastretornarono, la svegliarono per farsi

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aiutare a togliere i bustini strettissimi.«Ooof! Ora sì che si respira» disse

una.«Oh, Cenerentola, avresti dovuto

esserci» disse l’altra.«Che emozione!» continuarono.

«C’era una principessa straniera,nessuno sa come si chiama, e il principeha voluto danzare solo con lei. Era bellada non credere. Ancora me la vedo!Aveva il vestito più bello, del coloredelle stelle. Chissà dove l’ha preso! Inquesto paese non c’è nessuno che siacapace di fare un vestito così. Non locrederesti, Cenerentola, ma al confrontotutte le altre sembravano sciatte, persinonoi».

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Il giorno seguente impiegaronoancora più tempo a prepararsi.Cenerentola dovette dare cento colpi dispazzola ai loro capelli ispidi,allacciare i bustini strettissimi elucidare le scarpe finché non ci sipoteva specchiare.

Appena furono uscite, corse alnocciolo e sussurrò:

«Mio bell’albero, oh, ascolta,scuoti le foglie ancora una volta!Io soffro tanto, lo dico a te,vorrei un altro abito tutto per me».

«Di che colore?» dissero le foglie.«Vorrei un abito del colore della

luna», disse lei.In uno stormir di fronde, ecco che al

suo fianco comparve una gruccia con un

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abito argentato come la luna e un paio discarpette d’argento.

«Grazie!» sussurrò. Corse aindossarlo e andò al ballo.

Stavolta il principe la aspettava e nonappena la vide apparire, andò di corsa achiederle di danzare. Agli altri cheglielo chiedevano, lui diceva: «Questadama è mia per tutti i balli».

La serata trascorse come quellaprecedente, ma c’erano ancora piùeccitazione e illazioni tra i gentiluominie le dame. Chi era quella bellastraniera? Di sicuro una principessaproveniente da un regno grande e ricco,ma nessuno la conosceva e nessuno lanotò sgattaiolare via, a parte il principe.

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Le corse dietro nel buio e la seguì fino acasa. Nel giardino c’era un bellissimoalbero di pere, coperto di frutti.Cenerentola ci salì con agilità e sinascose tra i rami e il principe perse lesue tracce.

Quando il padre di Cenerentola tornòa casa, il principe era ancora lì.

«Secondo me è salita sull’albero»disse.

Il padre pensò: ‘Vuoi vedere che èdavvero Cenerentola?’

Portò una scure e tagliò l’albero, mafra i rami non c’era nessuno.Cenerentola era sgattaiolata giù dallaparte opposta, aveva riportato alnocciolo il vestito color luna ed era

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corsa in casa a raggomitolarsi tra lacenere come sempre.

La terza sera andò tutto come inprecedenza. La matrigna e le due sorelleandarono al ballo e Cenerentolasussurrò al nocciolo:

«Mio bell’albero, alberello,mandami un altro abito bello!Questa, al ballo, è l’ultima notte,fa’ che io sia la più bella di tutte».

«Di che colore?» frusciarono le foglie.«Stavolta vorrei un abito del colore

del sole» disse lei.Ancora una volta l’albero ebbe un

fremito e cadde giù un abito così belloche Cenerentola aveva quasi timore atoccarlo. Era d’oro puro, brillava escintillava come il sole del mattino. E

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c’era anche un paio di scarpette d’oro.«Grazie!» disse Cenerentola.Al ballo, il principe non ebbe occhi

che per lei. Danzarono tutta la sera e lerimase sempre a fianco. Quando leidisse che era ora di andare, il principeavrebbe voluto accompagnarla, ma leisgattaiolò via prima che lui riuscisse afermarla. Stavolta però aveva preparatouna trappola. Aveva detto ai servitori dispargere della pece sulle scale, cosìmentre correva giù una delle scarpine siattaccò e Cenerentola fu costretta alasciarla indietro.

Il principe la raccolse e non la fecetoccare a nessuno. La ripulì dalla pece evide che era d’oro puro.

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La mattina dopo fu emanato un bandoin tutto il regno: «Chiunque abbia persouna scarpetta al ballo potrà venire apalazzo a richiederla. E il principesposerà la ragazza cui calzerà aperfezione».

Nobildonne e serve, contadine eprincipesse vennero da tutto il reame edai regni limitrofi, ma nessuna riuscì ainfilare il piede nella scarpetta. Allafine si arrivò anche alle sorellastre diCenerentola. I piedi erano il loromaggior pregio, essendo di bella formae proporzionati e ognuna di loro pensòche sarebbe riuscita a calzare lascarpetta. Ma per sicurezza la madreprese la figlia più grande da parte e le

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disse a bassa voce: «Se non ti entra,prendi questo coltello e tagliati un po’ iltallone. Non ti farà tanto male e sarairegina».

E poi la sorellastra andò in cameraper fare la prova. Non riusciva a infilareil piede e allora fece quel che le avevadetto la madre, si tagliò una fetta ditallone, ficcò il piede nella scarpetta e sialzò zoppicando, cercando di sorridere.

Al principe toccò fare quel che avevadetto, quindi la accettò come sposa e laaiutò a salire a cavallo. Ma mentrecavalcava via, le colombe cantarono dalnocciolo:

«Ruucuuu-cuu, ruucuuu-cuu,guarda la scarpa, è insanguinata!Non è la sposa che cerchi tu,

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il piede di questa ha la formasbagliata!»

Il principe guardò il piede e vide cheavevano ragione. Il sangue colava dallascarpetta. Girò il cavallo e tornòindietro.

La madre disse alla figlia minore:«Se non ti entra, tagliati l’alluce. Non fatanto male, giusto una fitta, ma intantosposerai il principe».

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E lei fece come aveva detto la madree il principe ripartì a cavallo. Ma lecolombe cantarono di nuovo dalnocciolo:

«Ruucuuu-cuu, ruucuuu-cuu,guarda la scarpa, è insanguinata!Il suo piede è lungo di più,questa qui è la sposa sbagliata!»

Il principe la riportò indietro e disse alpadre: «Sono sicuro che la principessamisteriosa si trova in questa casa. Nonavete un’altra figlia?»

«Be’, c’è Cenerentola» disse ilpadre, «ma non può essere lei».

«È impossibile!» disse la matrigna.«Non possiamo permetterle di uscire,vostra altezza reale. È troppo sporca».

«Se avete un’altra figlia, insisto per

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vederla» disse il principe. «Fatelavenire subito».

Così l’andarono a prendere in cucina.Prima di presentarsi si lavò tutta, lascarpetta d’oro venne risciacquata e ilprincipe dovette attendere. Ma alla fineCenerentola entrò facendo una riverenzae il cuore del principe batté forte nelpetto a vederla; Cenerentola si sedette esi infilò la scarpetta che le calzava aperfezione.

«Sarà lei la mia sposa!» disse ilprincipe e la prese tra le braccia.

La matrigna e le sorellastrediventarono pallide come fantasmi e simangiarono le mani dalla rabbia e dallamortificazione.

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Il principe mise Cenerentola sulcavallo, partirono al galoppo e lecolombe sul nocciolo cantarono:

«Ruucuuu-cuu, ruucuuu-cuu,guarda la scarpa, non è insanguinata!Questa è la sposa che cerchi tu,per lei è giusta la scarpa calzata!»

Poi volarono giù e si poggiarono sullespalle di Cenerentola, una da una parte euna dall’altra, e lì restarono.

Al matrimonio le due sorellastre nonfecero che adulare la coppia reale,sperando di cavare qualcosa dallafortuna di Cenerentola. Quando ilprincipe e la sposa entrarono in chiesa,la sorella maggiore camminava alla lorodestra e la minore alla sinistra e lecolombe scesero in volo e col becco

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cavarono loro un occhio ciascuna. Dopola cerimonia, uscite dalla chiesa, lamaggiore era a sinistra e la minore adestra e le colombe di nuovo volaronogiù per strappar loro gli altri due occhi.

Così furono punite per la loromalvagità e falsità e vissero cieche finoalla fine dei loro giorni.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 510A, ‘Cinderella’(Cenerentola).Fonte:: un narratore anonimo dell’ElizabethHospital di Marburg, con materiale aggiunto daDorothea Viehmann.Storie simili: Giambattista Basile: ‘La gattaCenerentola’ (Lo cunto de li cunti); KatharineM. Briggs: ‘Ashpitel’ (Peldicenere) (Fiabe

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popolari inglesi), ‘The Little Cinder-Girl’,‘Mossycoat’, ‘Rashin Coatie’ (Folk Tales ofBritain); Italo Calvino: ‘Grattula-Bedattulla’(Fiabe italiane); Charles Perrault: ‘Cinderella’[Perrault’s Complete Fairy Tales (Tutte lefiabe)]; Neil Philip: The Cinderella Story (checontiene ventiquattro versioni diverse e uneccellente commento).La storia di Cenerentola è sicuramente unadelle più attentamente studiate dell’interocorpus fiabesco. Sono stati scritti interi libri sudi essa e le sue varianti. È, tra tutte, lapantomima più importante. Ma ancora piùimportante è che, a quanto pare, funzionasempre.

La sua popolarità è dovuta perlopiù aCharles Perrault, che con la sua capacitàimmaginativa e il suo carisma ha deliziato ilettori fin dalla comparsa delle sue Histoiresou contes du temps passé (Storie e fiabe delpassato, meglio conosciute con il sottotitolo

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di Storie di Mamma Oca) nel 1697. È opinionecomune che Perrault abbia frainteso la parolavair, pelliccia, scambiandola per verre, vetro,ma io non ci credo: Perrault aveva abbastanzafantasia per pensare a scarpette di vetro, che èassurdo, impossibile, magico e infinitamentepiù memorabile della pelliccia. Fu sempre lui acambiare l’aiutante (che è sempre un surrogatodella madre, che sia un nocciolo che crescesopra la tomba della mamma, una capra, unamucca o una colomba) in una madrina, la cuifunzione è immediatamente comprensibile.

Un malinteso ricorrente è che questa storiasia semplicemente la classica ‘dalle stalle allestelle’. Ci sono le stalle e ci sono le stelle, maBruno Bettelheim, nel suo The Uses ofEnchantment (Il mondo incantato: uso,importanza e significati psicoanalitici dellefiabe), scrive che il tema più importante è larivalità tra fratelli o sorelle, combinata conl’approdo delle ragazze alla maturità sessuale,

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simboleggiata dal matrimonio.È per questo che la funzione della fata

madrina è così importante: rappresenta lamadre che fa ciò che deve, aiutando la ragazza aessere bella esteriormente tanto quantointeriormente.

Per questa versione ho preso in prestitol’idea dei vestiti di colori diversi dalla‘Mossycoat’ inglese, che per me è la migliorCenerentola in assoluto.

Nella prima versione dei Grimm, del 1812,le sorellastre non vengono punite. La storiafinisce con le colombe che cantano che èCenerentola la sposa giusta. La punizione dellacecità viene aggiunta nella versione del 1819 econservata in tutte quelle successive. La cecitàfunziona sempre molto bene nelle storie, ma èdifficile poi da portare sulla scena. Non è ilKing Lear. Nella pantomima non ci sono bruttesorelle cieche e nemmeno nell’opera: ilCendrillon di Massenet (1899) e la

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Cenerentola di Rossini (1817) hanno entrambeun lieto fine. In Perrault, che è pieno didolcezza, le sorelle in verità si sposano con deigentiluomini di corte.

Cenerentola ha molti nomi: i Grimm lachiamano Aschenputtel, in inglese è Cinderella.Nelle nostre case di oggi, che hanno ilriscaldamento centralizzato, sono davveropochi i bambini che hanno visto la cenere dicarbone, quindi ‘Cenerentola’ è solo un belnome, ma ho ritenuto che un po’ diambientazione fosse necessaria.

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QUATTORDICI

L’INDOVINELLO

C’era una volta un principe che si eramesso in testa di viaggiare per tutto ilmondo, senza portare nessuno con sé, aparte un fedele servitore. Un giornogiunsero in una grande foresta e quandovenne sera non riuscirono a trovare unposto per rifugiarsi. Non sapevano dovepassare la notte.

Poi il principe vide una casetta.

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Camminando in quella direzionetrovarono una ragazza e avvicinandosividero che era giovane e bella.

Il principe la raggiunse e disse:«Ditemi, signorina, io e il mio servitorepossiamo ripararci per la notte in quellacasetta?»

«Sì» disse lei tristemente, «potete,ma non credo che sia una buona idea.Non entrerei se fossi in voi».

«Perché mai?» chiese il principe.La ragazza sospirò. «Ci abita la mia

matrigna, che pratica la magia nera. Perdi più, non ama gli estranei. Se propriodovete andarci, non mangiate o bevetenulla di ciò che vi offrirà».

Il principe capì che era la casa di una

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strega. Ma era buio e non si potevaproseguire, inoltre lui non aveva pauradi niente, quindi bussò ed entrò.

La vecchia era seduta su una poltronaaccanto al fuoco e quando guardò ilprincipe gli occhi le brillarono comebraci. «Buonasera, giovani signori»disse con voce cordiale. «Sedetevi ariposare». Soffiò sul fuoco e mescolòqualcosa in un pentolino.

Ripensando all’avvertimento dellaragazza, il principe e il servitore nonmangiarono e non bevvero nulla; sicoprirono e dormirono russando fino almattino.

Quando fece giorno si prepararonoper andare via. Il principe era già

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montato a cavallo quando la vecchiauscì e disse: «Aspettate un attimo.Lasciate che vi dia una bevanda che viaccompagnerà per la strada».

Mentre rientrava a casa il principe sene andò ma il servo doveva stringere ilsottopancia della sella ed era ancora lìquando la strega uscì con la bevanda.

«Ecco» disse. «Portala al tuopadrone».

Non fece in tempo, perché appena laprese, il bicchiere scoppiò e la bevandaschizzò sul cavallo. Era veleno,ovviamente, ed era così forte che ilpovero animale cadde morto sul colpo.Il servitore corse dietro al principe e gliraccontò quel che era successo. Avrebbe

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fatto bene ad andarsene subito con ilprincipe, ma non voleva lasciare lì lasella, così tornò indietro a prenderla.Quando raggiunse il cavallo morto,trovò un corvo già appollaiato sulla suatesta che gli beccava gli occhi.

‘Chissà? Magari oggi non troveremoniente di meglio da mangiare’ pensò,così uccise il corvo e lo portò con sé.

Vagarono nei boschi per tutto ilgiorno ma non trovarono la via d’uscita.Quando scese la notte giunsero a unalocanda e il servitore diede il corvoall’oste e gli disse di prepararlo per lacena.

Non sapevano di essere finiti in uncovo di briganti assassini. Appena il

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principe e il servitore si sedettero,dodici di quei mascalzoni si alzarono,con l’intenzione a eliminarli, mavedendo che era pronta la cenapensarono di mangiare. Fu l’ultimopasto che consumarono, poiché al primoboccone dello stufato di corvo cadderomorti tutti quanti: il veleno era così forteche dal cavallo era passato al corvo edera bastato a ucciderli tutti. Dopo avervisto quel che era successo, l’oste fuggì,lasciando in casa soltanto la figlia: unabrava ragazza che non aveva nulla a chefare con gli assassini e le loromalvagità. Aprì una porta nascosta emostrò al principe tutto il tesoro che ibriganti avevano rubato: mucchi d’oro e

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argento e cumuli di gioielli. Il principele disse di tenerselo poiché lui non lovoleva.

Poi ripartì a cavallo insieme alservitore.

Viaggiarono a lungo e un giornogiunsero in una città dove c’era unaprincipessa molto bella e molto superba.Aveva annunciato che sarebbe diventatamoglie solo dell’uomo che le avesseposto un indovinello che lei non avrebbesaputo risolvere. Tuttavia, se ci fosseriuscita, con il plauso di dodici saggimaestri d’indovinelli, gli avrebbe fattotagliare la testa. Aveva tre giorni perpensarci ma era così intelligente che lirisolveva sempre molto prima che il

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tempo scadesse. Già nove uominiavevano tentato di batterla, ma eranostati tutti decapitati.

Tuttavia il principe non se nepreoccupava; era così abbagliato dallagrande bellezza della principessa cheera disposto a perdere la vita. Andò apalazzo e pose il suo indovinello.

«Uno uccise nessuno» disse, «eppurene uccise dodici. Cos’è?» Lei non avevaidea di cosa potesse essere. Pensava epensava ma non le veniva in menteniente. Consultò tutti i suoi libri ma nonc’era niente di simile in tutta la storiadegli indovinelli. Sembrava proprio cheavesse finalmente trovato un uomocapace di tenerle testa.

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Ma non era disposta a rinunciare,così quella notte mandò la cameriera ainfilarsi zitta zitta nel letto del principe.Le disse di ascoltare attentamente tuttoquello che diceva nel sonno, magariavrebbe rivelato la soluzionedell’indovinello. Non servì a nulla,perché il servitore aveva preso il postodel principe e, quando la camerieraarrivò, le strappò la veste con la qualesi era coperta e la cacciò a bastonate.

La seconda notte la principessamandò un’altra serva sperando cheavesse più successo. Il servitore strappòanche la sua veste e la cacciò via con unbastone più grande.

La terza notte il principe decise di

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vegliare lui stesso. Questa volta arrivòla principessa in persona. Indossava unabella veste grigia come la nebbia, sisedette delicatamente sul letto vicino alui e aspettò fino a essere sicura chestesse dormendo.

Ma il principe era ancora sveglio equando lei gli sussurrò: «Uno uccisenessuno. Cos’è?» lui rispose: «Un corvoche mangiò carne di cavallo avvelenatae morì egli stesso».

Allora lei disse: «Eppure ne uccisedodici. Che significa?»

Lui rispose: «Dodici assassinimangiarono uno stufato preparato con ilcorvo e per questo morirono».

Ora era sicura di avere la risposta e

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provò ad andarsene in punta di piedi mail principe afferrò stretta la veste tantoche per fuggire lei dovette liberarsene.

La mattina dopo la principessaannunciò che aveva risoltol’indovinello. Mandò a chiamare idodici esperti e raccontò loro cosasignificava. Ormai sul principe pendevala condanna a morte, ma chiese di essereascoltato.

«La principessa entrò nella miastanza pensando che dormissi» disse, «emi chiese la risposta. Non avrebbe maiindovinato altrimenti».

Gli esperti si riunirono a discutere edissero: «Avete una prova?» Allora ilservitore portò le tre vesti. Quando gli

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esperti videro quella grigia, che solo laprincipessa indossava, dissero:«Prendete questa veste ricamata d’oro ed’argento, vostra altezza, perché sarà ilvostro abito da sposa. Il giovane havinto!»

* * *

Tipo di fiaba: ATU 851, ‘The Princess WhoCannot Solve the Riddle’ (L’indovinello).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Dorothea Viehmann.Storie simili: Alexander Afanasjev: ‘ThePrincess Who Wanted to Solve Riddles’(Russian Fairy Tales); Katharine M. Briggs:‘The Young Prince’ (Folk Tales of Britain);Italo Calvino: ‘Il figlio del mercante di Milano’(Fiabe italiane).

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Un tipo di fiaba ampiamente diffuso, con unaversione che spunta, ad esempio, anche nellaTurandot di Puccini del 1926. La versione deiGrimm è la migliore di tutte, soprattutto perl’accuratezza e la chiarezza della strutturatripartita. Accuratezza e chiarezza sono grandivirtù della narrazione. Per questa storia, lafonte dei Grimm fu Dorothea Viehmann, unafruttivendola di Zwehrn, non lontano da Kassel,dove vivevano i Grimm. Fornì loro diversefiabe e un certo numero di esse appare anche inquesta raccolta; aveva l’insolita capacità diraccontare una storia in maniera vivace e fluidae poi di ripeterla tutta frase per frase di modoche loro potessero trascriverla. I Grimm lemostrarono riconoscenza nella prefazione allaloro prima edizione:

Quelli che credono che la narrativa oralevenga abitualmente contraffatta, che nonsia preservata attentamente e che lerecitazioni lunghe siano di norma

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impossibili, dovrebbero avere lapossibilità di ascoltare con qualeprecisione lei tratti ogni storia e quantoci tenga a raccontarla correttamente;quando racconta qualcosa per la secondavolta, non cambia mai la sostanza ecorregge gli errori appena se ne accorge,anche a costo di interrompersi.

(Citato in traduzione da Maria Tatar in TheHard Facts of the Grimm’s Fairy Tales).

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QUINDICI

IL TOPO, L’UCCELLO ELA SALSICCIA

Un topo, un uccello e una salsicciadecisero di mettere su casa insieme. Perlungo tempo furono felici, vissero con ipropri mezzi e riuscirono perfino arisparmiare un po’. Il lavorodell’uccello consisteva nell’andare nellaforesta ogni giorno e riportare legna, iltopo doveva prendere l’acqua dal pozzo,

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accendere il fuoco e preparare la tavolae la salsiccia doveva cucinare.

Ma non si è mai contenti di viverebene se si pensa di poter vivere meglio.Un giorno l’uccello era nella foresta,incontrò un altro uccello e si vantò dellabella vita che conduceva. L’altro glidiede del babbeo.

«In che senso?»«Be’, chi è che fa la parte del leone

nel lavoro? Tu. Ti tocca volare avanti eindietro portando legni pesanti, mentregli altri due se la prendono comoda. Sistanno approfittando di te, non illuderti».

L’uccello ci pensò. Era vero che iltopo, dopo aver acceso il fuoco eportato l’acqua dentro, di solito si

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ritirava nella sua stanzetta e si faceva unsonnellino prima di alzarsi in tempo perapparecchiare la tavola.

La salsiccia rimaneva vicino allapentola per la maggior parte del tempo,buttando un occhio alle verdure e ditanto in tanto scivolava nell’acqua percondirle. Se invece voleva arricchirne ilgusto, ci nuotava dentro più lentamente.Più o meno era questo che faceva.

Quando l’uccello tornava a casa conla legna, la impilavano ordinatamenteaccanto al fuoco, si sedevano a mangiaree poi dormivano tranquilli fino al giornoseguente. Vivevano così e non era nientemale.

Tuttavia, l’uccello non riusciva a non

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ripensare a quel che gli aveva dettol’altro uccello, e il giorno dopo si rifiutòdi andare a raccogliere legna. «È da unbel po’ che faccio lo schiavo. Miprendete per scemo? È ora che ciorganizziamo un po’ meglio».

«Ma va talmente bene in questamaniera!» disse il topo.

«Questo lo dici tu!»«E poi» disse la salsiccia, «in questo

modo si tiene conto dei nostri differentitalenti».

«Solo perché non abbiamo maiprovato a fare diversamente».

Il topo e la salsiccia provarono adiscuterne, ma l’uccello non vollesentire ragioni. Alla fine acconsentirono

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e tirarono a sorte e il lavoro di raccoltadella legna toccò alla salsiccia, lacucina al topo e all’uccello toccò andarea prendere l’acqua e fare il fuoco.

E cosa accadde?La salsiccia uscì a raccogliere legna

e l’uccello accese il fuoco e il topo misela pentola a bollire. Poi aspettarono chela salsiccia tornasse con il primo caricodi legna, ma era fuori da così tantotempo che cominciarono a preoccuparsi,così l’uccello andò a vedere se era tuttoa posto.

Non lontano da casa si imbatté in uncane che si leccava i baffi.

«Non hai mica visto una salsiccia?»«Sì, l’ho appena mangiata.

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Deliziosa».«Che dici? Non può essere! È

spaventoso! Io ti denuncio!»«Si può andare a caccia liberamente.

Non c’è una stagione della salsiccia, cheio sappia».

«No, che non si può! Si faceva i fattisuoi, lei! Questo è senza dubbio unomicidio!»

«Be’, è proprio qui che ti sbagli,amico. Aveva documenti falsi, questo èun crimine capitale».

«Documenti falsi, che sciocchezze.Dove sono? Che prove hai?»

«Mi sono mangiato anche quelli».Non c’era niente da fare. In un

combattimento tra un cane e un uccello

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ci può essere solo un vincitore, e non ècerto l’uccello. Tornò a casa e raccontòal topo quel che era successo.

«Mangiata?» disse il topo. «Oh, èterribile! Mi mancherà tantissimo».

«Che tristezza. Non ci resta che faredel nostro meglio senza di lei» dissel’uccello.

Allora apparecchiò la tavola e il topodiede il tocco finale allo stufato.

Ricordava la facilità con cui lasalsiccia riusciva a nuotarci dentro perinsaporirlo e pensò di fare la stessacosa, così si arrampicò sul manico dellacasseruola e si lanciò dentro, ma, operché era troppo calda da soffocare operché non riuscì a nuotare e annegò,

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comunque non ne uscì mai più.Quando l’uccello vide lo stufato di

verdure raggiungere l’ebollizione con iltopo morto dentro, prese paura. In quelmomento stava accendendo il fuoco e,nello spavento, sparpagliò i tizzoniardenti dappertutto e diede fuoco allacasa. Corse al pozzo per prenderel’acqua da versarci sopra ma la zampagli si incastrò nella corda; quando ilsecchio calò nel pozzo, andò giù purelui. Così annegò e fu la fine per tutti.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 85, ‘The Mouse, the Birdand the Sausage’ (Il topino, l’uccellino e lasalsiccia).

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Fonte:: una storia presa da Wunderliche undWahrhafftige Gesichte Philanders vonSittewald (The Wonderful True Story ofPhilander von Sittewald, 1650) di HansMichael Moscherosch.A differenza del gatto e del topo (p. 31) questicoinquilini in fondo non sono male assortiti.Avrebbero potuto vivere felici insieme a lungo,se la soddisfazione dell’uccello non fosse statafatalmente compromessa. Questa è l’unicamorale di questa storia, ma è una sorta difavola, come quella del gatto e del topo, quindila morale la possiamo solo supporre.

Alcuni lettori curiosi potrebbero volersapere di che tipo di salsiccia si tratta.Dopotutto, basandosi su ciò che si trova inInternet, la Germania ha più dimillecinquecento tipi di salsicce: da qualedovremmo aspettarci questo altruismodomestico? Be’, questa – anzi, questo – era unbratwurst. Però la parola ‘bratwurst’ non è

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buffa quanto ‘salsiccia’. Secondo un famosocomico di cui mi sfugge il nome, ‘sausage’ è laparola più buffa della lingua inglese. La storiaavrebbe di certo avuto una causticità diversa setrattasse di un uccello, un topo e una costolettad’agnello.

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SEDICI

CAPPUCCETTO ROSSO

C’era una volta una bambina così dolceche l’amavano tutti. La nonna, chel’amava più di ogni altro al mondo, leregalò un cappuccio di velluto rosso. Lestava così bene che la bimba volevaindossarlo di continuo. Per questo tuttiavevano preso a chiamarla CappuccettoRosso.

Un giorno la madre le disse:

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«Cappuccetto Rosso, devi farmi unacommissione. Tua nonna non sta tantobene e voglio che le porti questa torta euna bottiglia di vino. La faranno sentiremolto meglio. Sii educata quando sarailì e dalle un bacio da parte mia. Faiattenzione per strada e non uscire dalsentiero perché potresti inciampare,rompere la bottiglia e far cadere la tortae poi non resterebbe più niente da darle.Quando entrerai nel salotto nondimenticarti di dire: ‘Buongiorno,nonna’, e non andare a sbirciare in tuttigli angoli».

«Farò tutto per bene, nonpreoccuparti» disse Cappuccetto Rossoe salutò la madre con un bacio.

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La nonna viveva nel bosco, a circamezz’ora di cammino. CappuccettoRosso era partita solo da qualcheminuto, quando un lupo le si avvicinò.Non sapeva che razza di animalemalvagio fosse e quindi non si spaventò.

«Buongiorno, Cappuccetto Rosso!»disse il lupo.

«Grazie, lupo. Buongiorno a te».«Dove vai così di buon’ora?»«A casa della nonna».«E cosa c’è in quel cestino?»«La nonna non sta bene, così le porto

un po’ di vino e una torta. L’abbiamopreparata ieri ed è buona, fatta confarina e uova; le piacerà e la farà sentiremeglio».

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«Dove vive tua nonna, CappuccettoRosso?»

«Be’, devo percorrere il sentiero finoa che non arrivo a tre grandi querce e lacasa è lì, dietro una siepe di noccioli.Non è molto lontano, circa quindiciminuti a piedi, credo. Dovresticonoscere il posto».

Il lupo pensò: ‘Questa delicatagiovincella sembra proprio un buonbocconcino. Sarà anche più gustosadella vecchia, ma con un po’ diattenzione riuscirò a mangiarmeleentrambe’.

Così camminò per un po’ assieme aCappuccetto Rosso e poi disse: «Guardaquei fiori, Cappuccetto Rosso! Non sono

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belli? Quelli sotto gli alberi laggiù.Perché non ti avvicini così li vedimeglio? Mica stai andando a scuola, chesei così seria e determinata. Non sentiraimai gli uccelli se continui così. È tantobello il bosco, sarebbe un peccato nongoderselo».

Cappuccetto Rosso guardò nelladirezione indicata dal lupo e quandovide i raggi del sole danzare qua e là tragli alberi e quanti bei fiori crescevanodappertutto, pensò: ‘Potrei raccogliereun mazzolino da portare alla nonna! Nesarebbe felice. Ed è ancora presto,arriverò comunque in orario’.

Così uscì dal sentiero e corse versogli alberi per raccogliere i fiori; ma ogni

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volta che ne prendeva uno ne vedeva diancora più belli e un po’ più lontani,così correva a prendere anche quelli. Esi inoltrava sempre di più nel bosco. Ementre lei era lì, il lupo corse dritto acasa della nonna e bussò alla porta.

«Chi è?»«Cappuccetto Rosso» disse il lupo.

«Ho una torta e del vino per te. Apri laporta!»

«Basta tirare il chiavistello» disse lanonna. «Sono troppo debole per alzarmidal letto».

Il lupo lo tirò e la porta si aprì.Entrò, si guardò intorno in cerca dellanonna, saltò sul letto e se la mangiò in unsolo boccone. Poi si mise i vestiti di lei,

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la cuffia da notte, tirò le tende e si infilònel letto.

Per tutto quel tempo, CappuccettoRosso aveva vagato raccogliendo fiori.Quando ne ebbe raccolti così tanti chenon riusciva a tenerne altri, si ricordò diquel che doveva fare e si avviò lungo ilsentiero verso casa della nonna. Quandoarrivò rimase sorpresa, perché la portaera aperta e non c’erano luci accese.

‘Santo cielo’ pensò, ‘ho un bruttopresentimento. Di solito mi piace venirea casa della nonna, invece stavolta hopaura’.

Gridò: «Buongiorno, nonna!» ma nonebbe risposta.

Si avvicinò al letto e aprì le tende. La

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nonna era lì, con la cuffia tirata sugliocchi e un aspetto molto strano.

«Oh, nonna, che orecchie grandi chehai!»

«Per sentirti meglio».«Nonna, che occhi grandi che hai!»«Per vederti meglio».«E nonna, che mani grandi che hai!»«Per abbracciarti meglio».«E oh, nonna, che bocca grande,

orrenda e spaventosa che hai...»«Per mangiarti meglio!»Detto ciò, il lupo saltò giù dal letto e

si mangiò Cappuccetto Rosso. Dopoaverla inghiottita si sentì sazio esoddisfatto e, visto che il letto era tantobello e morbido, si rimise a dormire

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profondamente e cominciò persino arussare.

Proprio in quel momento passava dilì un cacciatore.

‘Quanto rumore che fa la vecchia’pensò, ‘meglio andare a controllare se ètutto a posto’.

Entrò nel salotto, ma arrivato vicinoal letto sì fermò stupito.

‘Vecchio peccatore!’ pensò. ‘Ti hocercato a lungo. Alla fine ti ho trovato!’

Alzò il fucile ma poi lo abbassò,perché gli venne in mente che il lupoforse aveva mangiato la vecchia signorae che avrebbe potuto salvarla. Così posòil fucile, prese un paio di forbici ecominciò a tagliare la pancia gonfia del

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lupo. Un paio di sforbiciate e vide ilberretto di velluto rosso, un altro paio disforbiciate e saltò fuori la bambina.

«Oh, che orrore» disse, «che paura!Era così buio nella pancia del lupo!»

Poi cominciò a venir fuori la nonna,un po’ senza fiato ma nemmeno troppo,considerando l’esperienza che avevavissuto. Mentre il cacciatore la aiutava asedersi sulla sedia, Cappuccetto Rossocorse fuori a prendere delle pietrepesanti. Ci riempirono la pancia dellupo e Cappuccetto Rosso lo ricucì perbene e poi lo svegliarono.

Vedendo lì il cacciatore con l’arma,il lupo si spaventò e corse fuori, ma nonandò molto lontano. Le pietre erano così

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pesanti che ben presto cadde a terramorto.

Tutti e tre furono molto felici. Ilcacciatore scuoiò il lupo e andò a casacon la pelliccia, la nonna mangiò la tortae bevve il vino, e Cappuccetto Rossopensò: ‘L’ho scampata per un pelo! Nonlo farò mai più. Se la mamma mi dirà direstare sul sentiero, farò come mi dice’.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 333, ‘Little Red RidingHood’ (Cappuccetto Rosso).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Jeanette e Marie Hassenpflug.Storie simili: Italo Calvino: ‘La finta nonna’,‘Il lupo e le tre ragazze’ (Fiabe italiane);Charles Perrault: ‘Little Red Riding Hood’

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(Cappuccetto Rosso) [Perrault’s CompleteFairy Tales (Tutte le fiabe)].Penso che questa e ‘Cenerentola’ (p. 139)siano le due fiabe più famose (almeno inInghilterra) ed entrambe devono gran partedella loro popolarità a Charles Perrault (vederela nota a ‘Cenerentola’, p. 149). La sua versionesi differenzia da quella dei Grimmprincipalmente perché finisce con il lupo chesi mangia Cappuccetto Rosso. Non c’è uncacciatore coraggioso che la salva; compareinvece una frase di tipo moralistico che avverteche non tutti i lupi sono animali feroci: alcunidi loro sono melliflui seduttori.

Il cacciatore è un dettaglio interessante. Laforeste tedesche non erano regioni selvaggesenza padroni: i proprietari spesso erano dirango principesco e c’era grande richiesta dilegname per la costruzione di barche, così leforeste venivano abbattute per fare spazio acolture e allevamenti di bestiame che

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sfamassero gli eserciti della Guerra deiTrent’anni, e il maggior desiderio dei padroniera poterci fare qualcosa di piacevole edivertente: in una parola, la caccia. Come diceJohn Eliot Gardiner nella sua opera su J. S.Bach: ‘Quanto ad autorità nell’amministrazionedei loro [cioè dei principi] boschi, il cacciatoreoscurava il guardaboschi di mestiere (cosìcome il contadino e il guardacaccia oggi hannopiù potere del guardaboschi)’.

Forse un guardaboschi, che ha menoconfidenza con gli animali selvatici di uncacciatore e ha anche meno familiarità conun’arma da fuoco, si sarebbe allontanato inpunta di piedi dal lupo addormentato,lasciandolo a digerire Cappuccetto Rosso e lanonna.

Al di là della verosimiglianza, sia Perraultche i Grimm rinforzano la morale borghesedella rispettabilità. Cappuccetto Rosso, nellaversione dei Grimm, non ha bisogno di una

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morale che ripeta che non si esce dal sentiero:ha imparato la lezione da sola. (Negli anni delpanico per la pedofilia, questa storia venivaspesso usata per mettere in guardia i bambinicontro lo ‘strano pericolo’). Non si allontaneràpiù dal sentiero.

La famosa incisione di Gustav Doré,pubblicata nel 1863 per illustrare un’edizionedi Perrault, che mostra Cappuccetto Rosso nelletto col lupo, ci ricorda parte della forza diquesta storia: i lupi hanno una valenzasessuale. E così le volpi, come sapeva BeatrixPotter quando ha disegnato il raffinato‘gentiluomo dai baffi biondo-rossicci’ in TheTale of Jemima Puddle-Duck (1908), la suaversione della storia di Cappuccetto Rosso.Perrault l’avrebbe riconosciuto subito.

Forse il commento di Charles Dickensriassume nella maniera più chiara l’attrazioneper l’eroina della fiaba. ‘Cappuccetto Rosso èstata il mio primo amore’ aveva detto, secondo

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la citazione di Bettelheim. ‘Avevol’impressione che, se avessi potuto sposarla,avrei conosciuto la vera gioia’. [The Uses ofEnchantment, p. 23 (Il mondo incantato: uso,importanza e significati psicoanalitici dellefiabe)].

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DICIASSETTE

I MUSICANTI DI BREMA

C’era una volta un uomo che aveva unasino che da anni trasportava sacchi digrano al mulino senza mai lamentarsi;ma poi le sue forze vennero meno e nonriuscì più a lavorare come prima e ilpadrone pensò di non dargli più damangiare. L’asino lo capì e non ne fuaffatto contento, così scappò e si misesulla strada per Brema. Il suo piano era

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di diventare musicante in città.Poco dopo, s’imbatté in un cane da

caccia steso in mezzo alla strada. Il caneaveva il respiro affannato come seavesse corso miglia e miglia.

«Come mai tanto affanno, cagnone?»disse l’asino.

«Mi sto facendo vecchio, come vedi»spiegò il cane, «e non riesco più acorrere come prima. Il mio padrone mivoleva uccidere perché non vado piùbene, così sono scappato; ma non socome guadagnarmi da vivere e comincioad avere fame».

«Be’, sai che ti dico?» risposel’asino. «Io sono più o meno nella stessasituazione, ma ho un piano. Sto andando

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a Brema, perché lì i musicanti vengonopagati bene. Vieni con me e datti allamusica. Io suonerò il liuto, che non misembra molto difficile, e tu potrestisuonare i tamburi».

«Buona idea» disse il cane e si unìall’asino.

Poco dopo videro un gatto seduto sulciglio della strada, con la faccia di unoche ha perso una sterlina e ha trovato uncentesimo.

«Che ti è successo, vecchioLisciabaffi?» disse l’asino.

«Caro, oh, caro» disse il gatto, «misono messo in un guaio spaventoso. Stoinvecchiando. Magari non ve ne sieteaccorti, ma non sono giovane come

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sembro e i miei denti non sono piùaffilati. Andavo a caccia di topi, ratti etutti i tipi di insetti, pensate, maultimamente preferirei starmene vicinoalla stufa a farmi un pisolino. La miapadrona stava per affogarmi, ma sonoscappato. Ora non so proprio che fare.Voi che dite?»

«Vieni a Brema con noi» dissel’asino. «Ci uniremo alla banda dellacittà. Tu sai cantare, ho sentito il dolcecanto notturno dei tuoi simili. Vieni connoi».

Al gatto piacque l’idea e si rimiseroin cammino insieme. Di lì a pocoarrivarono in una fattoria. Sul tetto c’eraun gallo che cantava a più non posso.

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«Perché canti così?» disse l’asino.«L’alba è passata da un pezzo».

«Previsioni del tempo» disse il gallo.«Oggi si festeggia Nostra Signora chelava le camicie di Gesù Bambino e leappende ad asciugare. Sto comunicandoalla famiglia che sarà una giornata seccae soleggiata e voi penserete che misaranno grati, e invece non è così:domani arriveranno gli ospiti e mimangeranno, infatti la padrona ha dettoal cuoco di tirarmi il collo stasera.Canterò e canterò fino a che avrò arianei polmoni».

«Be’, non è una bella prospettiva»disse l’asino. «Perché non vieni aBrema con noi? Faremo i musicanti. Hai

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una bella voce e saremo fantastici tuttiinsieme».

Il gallo fu d’accordo. Partirono, manon riuscirono ad arrivare a Brema ingiornata, così, trovandosi nella foresta,decisero di cercare rifugio per la notte.L’asino e il cane si stesero sotto ungrande albero, il gatto prese posto su unramo e il gallo volò sulla cima. Di lì apoco però tornò dabbasso con unanotizia: prima di addormentarsi si eraguardato intorno, a nord, a sud, a est e aovest, e gli era sembrato di vedere unacasa illuminata non lontano da lì.

«Be’, andiamoci» disse l’asino.«Peggio di qui non sarà».

«E se c’è una casa» disse il cane, «ci

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sarà qualche osso da rosicchiare».Così si misero in cammino in

direzione della luce e presto la viderobrillare tra gli alberi. Man mano diventòpiù grande e poi si trovarono davantialla casa. L’asino, che era il più alto, siaffacciò alla finestra e guardòall’interno.

«Che vedi, Facciagrigia?» chiese ilgallo.

«C’è una tavola piena di cose buoneda mangiare e da bere, ma...»

«Ma cosa?»«Intorno al tavolo ci sono dozzine di

briganti, tutti che si ingozzano».«Magari fossimo al loro posto!»

disse il gallo.

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Discussero su come cacciare ibriganti e alla fine si accordarono:l’asino avrebbe messo le zampeanteriori sul davanzale, il cane glisarebbe salito in groppa, il gatto a suavolta si sarebbe appoggiato sulla groppadel cane, il gallo si sarebbe appollaiatosul gatto e poi sarebbero partiti con lamusica. Così si prepararono e quandol’asino diede il via, iniziarono a cantaretutti insieme più forte che potevano:l’asino ragliava, il cane abbaiava, ilgatto miagolava e il gallo cantava. Finitodi cantare, entrarono tutti saltando dallafinestra, frantumando il vetro e facendoun terribile rumore.

I briganti balzarono in piedi,

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pensando che fosse il diavolo o unfantasma e fuggirono nella forestaspaventati.

I quattro musicanti si sedettero atavola e mangiarono le pietanze rimaste,ingozzandosi come se dovessero restarea digiuno per un mese.

Appena finito, stanchi della lungagiornata, si misero a dormire, trovandosiognuno il posto che preferiva: l’asino sistese fuori sul cumulo di letame, il canesi accoccolò dietro la porta, il gatto siallungò per terra vicino al fuoco e ilgallo si appollaiò sulla trave del tetto.

A mezzanotte, i briganti che litenevano d’occhio da lontano videro laluce spegnersi.

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«Non dovevamo farci cacciare a quelmodo» disse il capo. «Non abbiamofatto una figura da gente coraggiosa, no?Avanti, Sinistro, torna a dareun’occhiata. Vedi che sta succedendo».

Sinistro strisciò fino alla casa. Non sisentivano rumori, così entrò in cucina inpunta di piedi e si guardò intorno. Nonsi vedeva niente, se non gli occhifiammeggianti del gatto... Sinistro pensòsi trattasse di carboni ardenti, accese unfiammifero per ravvivarli, ma toccò ilnaso del gatto.

Naturalmente, il gatto non ne fuaffatto contento. Balzò in aria soffiandoe strillando e graffiò il brigante infaccia.

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«Ahiiii!» urlò Sinistro e uscì dallaporta correndo.

Inciampò nel cane che gli diede unbel morso sulla gamba.

«Uhhahh!» gridò Sinistro e corse nelcortile.

L’asino aprì gli occhi e gli diede uncalcio nel didietro.

«Ahuuu!» strillò Sinistro.E così svegliò il gallo che cantò:

«Chicchirichì!»«Noooo!» sbraitò Sinistro e corse in

mezzo agli alberi terrorizzato.«Che c’è? Che c’è?» disse il capo

dei briganti.«Non possiamo tornare lì!» disse

Sinistro. «In cucina c’è una strega

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orribile che mi ha graffiato con leunghie. E dietro la porta c’è un uomoche mi ha ficcato un coltello nellagamba. E fuori c’è un mostro con unbastone che mi ha dato un colpo tantoforte che credo mi abbia rotto ilfondoschiena. E sul tetto c’è il giudiceche ha gridato: ‘Portate qui ilprigioniero!’. Così sono scappato agambe levate».

Da quel momento in poi, i brigantinon si azzardarono più a tornare. Iquattro musicanti di Brema, invece, sitrovarono talmente bene che non se neandarono più. E vivono ancora lì. E lelabbra di chi per ultimo ha raccontatoquesta storia si muovono ancora.

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* * *

Tipo di fiaba: ATU 130, ‘The Animals in NightQuarters’ (I musicanti di Brema).Fonte:: storie raccontate ai fratelli Grimmdalla famiglia Haxthausen e da DorotheaViehmann.Storie simili: Katharine M. Briggs: ‘The Bull,the Tup, the Cock and the Steg’, ‘How JackWent to Seek His Fortune’ (Folk Tales ofBritain).I poveri vecchi animali in pensione, con la loroappassionata idea di suonare nella città diBrema, alla fine la spuntano, e anche bene. Mipiace molto questa storia per la sua semplicitàe la potenza della forma. Quando una storia èmodellata così bene che sembra che il filodella narrazione non possa portare danessun’altra parte se non dove porta e che ognievento importante venga toccato per comporsinel finale, ci si può solo inchinare con rispetto

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dinanzi al narratore.

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DICIOTTO

L’OSSO CHE CANTA

La gente di una certa regione erapreoccupata per un cinghiale cherovinava i campi dei contadini, uccidevail bestiame e con le sue zanne squartavale persone. Con un proclama, il recomunicò che chiunque li avesse liberatida quella bestia avrebbe avuto unaricompensa, ma l’animale era cosìgrande e forte che nessuno si azzardò ad

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avvicinarsi alla foresta dove viveva.Alla fine il re annunciò che avrebbe datoin sposa la sua unica figlia a chiunquel’avesse ucciso o catturato.

In quella regione vivevano duefratelli, figli di un pover’uomo, chedichiararono che si sarebbero accollatiquel compito spaventoso. Il maggiore,intelligente e astuto, lo faceva perarroganza, mentre il più giovane,ingenuo e puro, era mosso solo dallabontà di cuore.

Il re disse: «Per essere sicuri ditrovare la bestia, dovete entrare nellaforesta dai due lati opposti».

Accettarono il consiglio: il fratellomaggiore entrò nella foresta da ovest,

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l’altro da est.Non era da molto che il giovane

camminava quando sul sentiero apparveun omino con una lancia nera in mano,che gli disse: «Ti do questa lancia,perché hai un cuore puro. Usala peruccidere il cinghiale, stai certo chefunzionerà. E non riuscirà a ferirti innessun modo».

Il giovane ringraziò l’omino e siaddentrò nella foresta, con la lancia inspalla. E presto si ritrovò vicino allabestia. Il cinghiale caricò, ma nellarabbia selvaggia finì proprio contro lalancia che il ragazzo reggeva, così forteche la punta gli tagliò il cuore in due.

Il giovane si caricò in spalla il

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mostro e s’incamminò, con l’intenzionedi portarlo al re; ma sulla soglia dellaforesta trovò una taverna piena di genteche si intratteneva bevendo e ballando.Con loro c’era suo fratello. Quellacanaglia non aveva avuto abbastanzacoraggio e considerando che il cinghialenon aveva fretta di andare chissà dove,si era fermato a bere del vino per darsiun po’ di forza. Quando vide il fratellominore con il cinghiale in spalla, il suocuore malvagio e invidioso prese atentarlo.

Gridò: «Fratello! Che impresa!Congratulazioni! Vieni a sederti qui ebeviamo alla tua vittoria».

Il giovane, ingenuo com’era, non

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sospettava nulla. Disse al fratellomaggiore dell’omino e della lancia neracon cui aveva ucciso il cinghiale.

Rimasero lì fino a sera e poi sirimisero in cammino insieme. A notte,arrivarono nei pressi di un ponte su untorrente.

«Vai prima tu» disse il fratellomaggiore.

Il fratello più giovane andò.Raggiunta la metà del ponte, il fratellogli diede un colpo in testa tanto forte dafarlo cadere a terra morto. Poi loseppellì sulla sponda sotto il ponte, simise il cinghiale in spalla e lo portò alre.

«L’ho ucciso» disse, «ma non ho

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visto mio fratello. Spero che stia bene».Il re mantenne la parola data e il

fratello maggiore sposò la principessa.Passato un po’ di tempo, poiché il

giovane non tornava, disse: «Ho paurache il cinghiale l’abbia fatto fuori. Oh,povero fratello mio!»

Tutti gli credettero, così pensò che laquestione fosse finita lì.

Ma niente si può nascondereall’occhio di Dio. Dopo molti anni, unpastore che attraversava il ponte con lepecore vide luccicare qualcosa sullasponda. Pensò che potesse esserequalcosa di interessante e quando andò araccoglierlo trovò un osso bianco comela neve, se lo portò a casa e lo intagliò

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per farne l’imboccatura del corno.Ma con sua grande sorpresa, quando

soffiò nell’osso, quello iniziò a cantare:«Suona, pastore, il corno e anche me,sì che la mia voce si potrà ancora udire,dacché mio fratello mi ha fatto morire,io sotto terra e il cinghiale per sé.Questa cosa crudele l’ha fatta perchévoleva sposare la figlia del re».

«Che fantastica imboccatura!» disse ilpastore. «Il mio corno canta da solo.Devo portarlo al re».

Quando glielo portò il corno iniziònuovamente a cantare. Il re non erasciocco: capì subito cosa doveva essereaccaduto e fece scavare sotto il ponte. Lìsotto c’era l’intero scheletro dell’uomo,tutto tranne un osso.

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Il fratello malvagio non poté negare.Per ordine del re fu cucito in un sacco eannegato nello stesso torrente vicino alquale era stato seppellito suo fratello. Eper quanto riguarda il fratello piùgiovane, le sue ossa riposano in unabella tomba al cimitero.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 780, ‘The Singing Bone’(L’osso che canta).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Dortchen Wild.Storie simili: Alexander Afanasjev: ‘TheMiraculous Pipe’ (Russian Fairy Tales);Katharine M. Briggs: ‘Binnorie’ (Folk Tales ofBritain); Italo Calvino: ‘La penna di hu’ (Fiabeitaliane).

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Eccettuati gli elementi soprannaturali, cioèl’osso che canta e l’omino che dà al giovane lalancia amazzacinghiali, potrebbe essere unadelle storie domestiche dell’enorme antologiapopolare di Johann Peter Hebel dal titoloSchatzkästlein des Rheinischen Hausfreundes(The Treasure Chest) pubblicata nel 1811,l’anno che precede la prima edizione deiGrimm. La specialità di Hebel erano le storiedi vita quotidiana con caratteristiche divertenti,sbalorditive o di tipo moralistico e il temadell’assassinio che viene scoperto per casocompare in diversi suoi aneddoti.

Ma il carattere soprannaturale di questastoria è importante e assai diffuso. Talvolta lostrumento magico che canta la verità è fattod’osso, talvolta è una canna e talvolta è un’arpafatta con le costole della vittima e i capelli,come nella ‘Binnorie’ inglese; ma la veritàviene sempre a galla.

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DICIANNOVE

IL DIAVOLO CONI TRE CAPELLI D’ORO

C’era una volta una povera donna chemise al mondo un bambino con lamembrana amniotica sulla testa. Questamembrana è un segno della fortuna, cosìquando l’indovina del villaggio lo vennea sapere profetizzò che a quattordicianni il ragazzo avrebbe sposato la figliadel re.

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Qualche giorno più tardi il re inpersona venne al villaggio. Viaggiava inincognito, dunque nessuno lo riconobbee quando chiese cosa era successo e sec’erano novità e di cosa si parlava alvillaggio e così via, gli raccontaronoche era nato un bambino segnato dallafortuna. E a quanto pareva, dissero, lafortuna sarebbe stata sposare aquattordici anni la figlia del re.

Ma il re era un uomo malvagio e laprofezia non gli piacque. Andò daigenitori del bambino e disse: «Amicimiei, avete un figlio segnato dallafortuna e io sono un uomo ricco. Ecco ilprimo segno della sua fortuna:affidatemelo e me ne occuperò io».

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Inizialmente i genitori rifiutarono, maquando il re offrì una grossa quantitàd’oro capirono il valore della propostae dissero: «Be’, dopotutto è un bambinofortunato, di sicuro gli andrà bene»; cosìalla fine accettarono e glieloconsegnarono.

Il re lo mise in una scatola, partì acavallo e poco dopo giunse nei pressi diun fiume profondo. Gettò la scatola inacqua e pensò: ‘Ho fatto un bel lavoro.Ho salvato mia figlia da un pretendenteindesiderato’.

Poi se ne tornò a casa. Se fosserimasto a guardare si sarebbe accortoche la scatola non era affondata comeera nelle sue intenzioni, ma si era messa

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a galleggiare come una barchetta enemmeno una goccia d’acqua vi erapenetrata. Galleggiò lungo il fiume finoad arrivare a due miglia dalla capitale,in un punto dove guarda caso c’era unmulino, e finì nel canale. Il garzone, chein quel momento stava pescando propriolì, tirò fuori la scatola con un gancio,pensando di aver trovato un bel tesoro.Quando l’ebbe aperta fu sorpreso ditrovarci un bebè dalle guance fresche erosee. Non sapendo che farsene, lo portòal mugnaio e a sua moglie che, nonavendo figli, furono felicissimi di quelbambino. «Ce lo ha mandato Dio»dissero.

Così lo accolsero in casa e se ne

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presero cura. Crebbero quel bambinofortunato nel migliore dei modi e gliinsegnarono le buone maniere e a esseresempre buono e onesto.

Il tempo passò e qualche anno piùtardi il re fu sorpreso da un temporaledurante una battuta di caccia e il casovolle che cercasse rifugio proprio alpiccolo mulino. Chiese al mugnaio e asua moglie se il bravo ragazzo cheaveva visto fosse loro figlio.

«No» dissero loro. «È un trovatello.Quattordici anni fa è finito nel canale,era dentro una scatola e il garzone l’hapescato».

Il re capì che si trattava proprio delbambino fortunato che lui stesso aveva

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gettato in acqua e disse: «Brava gente,lasciate che il ragazzo porti una letteraalla regina. Lo pagherò con due moneted’oro».

La coppia acconsentì e disse alragazzo di prepararsi. Nel frattempo ilre prese un foglio di carta e scrisse allaregina: ‘Non appena vedrai arrivare ilragazzo che porta questa lettera,condannalo a morte e seppelliscilo.Fallo prima che io torni a casa’.

Il ragazzo prese la lettera e si mise incammino, ma non molto tempo dopo siperse e a sera si ritrovò a vagare nellaforesta. L’oscurità si addensava e videuna luce solitaria brillare tra gli alberi.Era l’unica luce visibile, così andò in

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quella direzione e poco dopo si ritrovòdavanti a una casetta. All’interno c’erauna vecchina che sonnecchiava vicino alfocolare. Quando lo vide fece un balzo egli disse: «E tu da dove salti fuori? Edove vai?»

«Vengo dal mulino» disse lui, «eporto una lettera per la regina. Ma misono perso nella foresta e vorrei passarela notte qui, per favore».

«Oh, povero ragazzo» disse lavecchina, «sei finito nella tana deibriganti. Al momento sono fuori peraffari, ma appena tornati ti uccideranno,sicuro come la morte».

«Che tornino pure» disse ilfortunello, «io non ho paura dei briganti.

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Ho bisogno di stendermi e dormire,perché sono esausto».

Si stese sulla panca e si addormentòsubito. Poco dopo rientrarono i brigantie chiesero minacciosi: «Chi è questoragazzo?»

«Un povero innocente» disse lavecchina. «Si è perso nel bosco ed eratanto stanco che l’ho lasciato riposare.Deve portare una lettera alla regina».

«Ah sì?» disse il capo brigante.«Diamoci un’occhiata».

Gli presero la lettera dalla tasca, laaprirono e ne lessero attentamente adalta voce il contenuto: il ragazzoavrebbe dovuto essere ucciso nonappena consegnata la lettera.

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«Oh, non è giusto» disse il capo.«Questo vuol dire giocare sporco».

Persino i briganti, che pure sonogente dal cuore duro, si impietosirono. Ilcapo prese un altro pezzo di carta escrisse una nuova lettera, dicendo che ilragazzo appena arrivato avrebbe dovutosposare la figlia del re. Lo lasciaronodormire sulla panca fino al mattino equando si svegliò gli diedero la lettera egli mostrarono la via per arrivare apalazzo.

Quando arrivò, consegnò la letteraalla regina e in effetti l’ordineriguardava un matrimonio grandioso ecosì si sposò con la principessa. Era unragazzo bello, gentile e educato con tutti

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e la principessa ne fu contenta.Alla fine tornò il re e scoprì che la

profezia del villaggio si era avverata e,a dispetto di tutto, il ragazzo si erasposato con sua figlia.

«Com’è potuto accadere?» disse allaregina. «Non hai ricevuto la mia lettera?Non parlava di matrimonio».

La regina gli mostrò la lettera. Il re lalesse e capì cos’era accaduto. Mandò achiamare il ragazzo e disse: «Cosasignifica questa? Non è la lettera che tiavevo dato. L’altra era completamentediversa. Che hai da dire, eh?»

«Mi dispiace, ma non so spiegarlo»rispose il ragazzo. «Ho passato la nottenella foresta e qualcuno deve averla

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cambiata mentre dormivo».«Bene, non credere di scamparla

così» ringhiò il re. «Chi sposa mia figliadeve andare all’Inferno a prendere i trecapelli d’oro dalla testa del diavolo».

«Oh, questo posso farlo» disse ilragazzo. «Vi porterò i capelli d’oro.Non ho paura del diavolo».

Quindi si congedò e partì. Il primoluogo in cui giunse fu una grande cittàcon un guardiano sulla porta.

«Qual è il tuo mestiere? E cosa sai?»«Io so tutto» disse il ragazzo, «e quel

che non so lo posso scoprire».«Bene, allora ti chiediamo un favore.

C’è una fontana nella piazza del mercatoda cui zampillava vino e ora non

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zampilla nemmeno acqua. Come mai?»«Lo scoprirò, garantito» disse il

ragazzo. «Ve lo dirò al mio ritorno».Si rimise in cammino e ben presto

arrivò in una cittadina dove c’era unaguardia che gli rivolse la stessadomanda: «Qual è il tuo mestiere? Ecosa sai?»

«Io so tutto» disse il ragazzo, «e quelche non so lo posso scoprire».

«Dimmi, allora: c’è un albero nelparco da cui nascevano mele d’oro. Maè successo qualcosa e ora non crescononemmeno le foglie».

«Ci penso io» disse il ragazzo. «Velo dirò al mio ritorno».

Camminò ancora un poco e arrivò a

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un fiume dove c’era un barcaiolo inattesa di trasportare gente avanti eindietro.

«Qual è il tuo mestiere? E cosa sai?»«Io so tutto» disse il ragazzo, «e quel

che non so lo posso scoprire».«Bene, una domanda, allora. Perché

devo continuare ad attraversare il fiumesenza nessuno che mi venga a dare ilcambio?»

«Non preoccupatevi» disse ilragazzo, «troverò di certo la risposta».

Poco dopo aver attraversato il fiume,il ragazzo trovò l’ingresso all’Inferno.Era scuro, fumoso e abominevole. Inquel momento il diavolo era fuori, maaveva lasciato sua nonna, seduta in

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poltrona a leggere il giornale.«Cosa vuoi?» chiese la vecchia.Non sembrava poi così cattiva e il

ragazzo le disse il motivo per cui eravenuto. «Il re ha detto che se non gliprendo i tre capelli d’oro del diavolo, ilmio matrimonio andrà all’aria».

«Non sarà così facile» disse la nonnadel diavolo. «Se scopre che sei qui èquasi certo che ti mangerà. Ma sei un belragazzo e mi dispiace per te, quindi faròquel che posso. Per prima cosa titrasformerò in una formica». Così fece,poi lo prese sul polpastrello perassicurarsi che udisse la sua voce.«Nasconditi tra le mie sottane, i capelliglieli staccherò io».

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«C’è dell’altro» disse la formica.«Ho bisogno di sapere la risposta acerte domande. Perché la fontana dellapiazza del mercato non dà più acqua,mentre prima addirittura dava vino?Perché l’albero nel parco da cuinascevano mele d’oro non produce piùnemmeno foglie? E perché il barcaiolodeve continuare a portare gentedall’altra parte?»

«Mica facile» disse la nonna deldiavolo. «Non posso prometterti niente.Ma stai calmo e ascolta attentamente ciòche dirà».

La formica annuì con la testolina e leila nascose tra le sottane. Appena intempo, perché il diavolo rientrò proprio

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in quel momento e iniziò a ruggire.«Che c’è?» disse la vecchia.«Sento odore di umano. Qualcuno è

stato qui? Eh?» Il diavolo cercò la predatutt’intorno nella stanza, tirando su lesedie e guardando in ogni angolo.

«Per amor dell’Inferno» disse lanonna. «Ho appena rassettato la stanza,non vedi? Metterai di nuovo indisordine. Siediti e mangia, e smettila difare storie».

«Sento odore, però» borbottò ildiavolo. «Lo sento». Ma si sedette atavola e si ingozzò, poi si stese eappoggiò la testa nel grembo dellanonna.

«Cercami i pidocchi, nonnina» le

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disse.Lei iniziò a cercargli tra i capelli e il

diavolo subito si addormentò e prese arussare. Allora la vecchia gli staccò unodei capelli.

«Uuhhh» urlò il diavolo,svegliandosi di scatto. «Che fai?»

«Ho fatto un sogno» disse la nonnina,poggiando il capello a fianco a séperché lui non lo vedesse.

«Che sogno? Che succedeva?»«Una fontana» disse lei. «La piazza

del mercato. Anni fa ci scorreva dentroil vino e ora nemmeno l’acqua».

«Che stupidi che sono» borbottò ildiavolo, tornando ad appoggiare la testasul grembo della nonna. «Basta tirare

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fuori il rospo che sta sotto la pietra dellafontana. Se lo uccidono, tornerà ascorrere vino».

La nonna ricominciò a togliere ipidocchi e il diavolo ricominciò arussare. Cercando tra i capelli arruffatidi lui, trovò un altro capello d’oro e lostaccò.

«Uh! Perché continui a fare così?»«Mi dispiace, tesoro» disse lei. «Ho

sognato di nuovo e non mi sono accortadi quel che facevo».

«Un altro sogno, eh? E stavolta chesuccedeva?»

«C’era un albero nel parco da cui nonnascevano più foglie, mentre anni primaera carico di mele d’oro».

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«Non capiscono niente in quella città.Vangando intorno alle radici,troverebbero il topo che le rosicchia. Selo uccidono, riavranno le loro meled’oro».

«Ecco, ecco» disse lei. «Se fossiintelligente come te, non ti sveglierei.Torna a dormire ora, bestiolina mia».

Irrequieto, il diavolo rimise la testasul grembo e riprese subito a russare.Stavolta lei attese un po’ più a lungoprima di staccargli il terzo capello emetterlo insieme agli altri.

«Ohi! Ancora! Che ti prende, stupidavecchia?»

«Ecco, vedi» disse. «È colpa delformaggio che ho mangiato a cena. Mi ha

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fatto sognare un’altra volta».«Tu e i tuoi sogni. Se lo fai ancora ti

picchio. Che hai sognato?»«Ho sognato che c’era un barcaiolo

che per anni e anni aveva portato avantie indietro le persone senza che mainessuno gli desse il cambio».

«Ah. Ma non sa proprio niente questagente? Non deve fare altro che passare ilbastone alla prossima persona che vorràandare dall’altra parte e quella dovràprendere il suo posto».

«Ecco, ecco» disse lei, «torna adormire, tesorino. Non farò altri sogni».

Lo lasciò in pace per il resto dellanotte e il diavolo si fece una belladormita. La mattina dopo si svegliò per

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andare al lavoro e quando la nonna fusicura che fosse uscito, prese la formicada sotto le sottane e la ritrasformò nelragazzo. «Sentito tutto?» gli disse.

«Sì, parola per parola. E voi sieteriuscita a prendere i tre capelli?»

«Eccoli qui» disse lei e glieliconsegnò.

Il giovane, che era tanto educato, laringraziò e andò per la sua strada, felicedi aver trovato ciò di cui aveva bisogno.

Arrivato al fiume, il barcaiolo glidisse: «Be’? Scoperto qualcosa?»

«Prima portami dall’altra parte»replicò il ragazzo. Quando furonodall’altra parte, disse: «Non devi farenient’altro che mettere il bastone in

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mano alla prossima persona che vorràattraversare e sarai libero».

Camminando arrivò alla città conl’albero sterile. Anche il guardiano sullaporta stava aspettando la sua risposta.

«Uccidete il topo che rosicchia leradici e l’albero ricomincerà a produrremele d’oro» gli disse il ragazzo.

Il sindaco e il consiglio cittadinofurono così sollevati che loricompensarono con due asini carichid’oro. Portando gli asini verso casa, ilragazzo si fermò nell’altra città, dove lafontana si era seccata.

«Tirate fuori la pietra che è nellafontana e uccidete il rospo che sinasconde lì sotto» disse.

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Lo fecero subito e difatti dallafontana ricominciò a sgorgare vino.Bevvero alla salute del ragazzo e loricompensarono con altri due asinicarichi d’oro.

Allora si diresse verso casa, con iquattro asini. Erano tutti felicissimi dirivederlo, soprattutto la moglie epersino il re, alla vista degli asini conquel carico.

«Caro ragazzo! Che meravigliavederti! E questi capelli del diavolo –magnifici – mettili sulla credenza. Madove hai preso tutto quest’oro?»

«Un barcaiolo mi ha portatodall’altra parte del fiume. La rivaopposta però non è di sabbia ma d’oro e

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se ne può prendere tutto quel che sivuole. Fossi in voi ne prenderei diversisacchi».

Il re era talmente avido che partìsubito. Corse tutto il giorno e, arrivatoal fiume, impaziente fece cenno albarcaiolo.

«State fermo ora» disse il barcaioloquando il re salì sulla barca, «nondondolate. Vi dispiace tenermi un attimoil bastone?»

Il re lo prese e il barcaiolo saltòsubito giù dalla barca. Ridendo,cantando e saltando di gioia corse via eil re fu costretto a rimanere sulla barcaper sempre, traghettando gente avanti eindietro come punizione per le sue

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colpe.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 930, ‘The Prophecy That aPoor Boy Will Marry a Rich Girl’ (I tre capellid’oro del diavolo), che continua con ATU 461,‘Three Hairs from the Devil’s Beard’ (I trecapelli d’oro del diavolo).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Dorothea Viehmann.Storie simili: Alexander Afanasjev: ‘Marco theRich and Vassily the Luckless’ (Marco il Riccoe Vasilij Senza fortuna) [Russian Fairy Tales(Fiabe russe)]; Katharine M. Briggs: ‘Fairestof All Others’, ‘The Fish and the Ring’, ‘TheStepney Lady’ (Folk Tales of Britain); ItaloCalvino: ‘L’orco con le penne’, ‘Il mercanteismaelita’, ‘Mandorlinfiore’ (Fiabe italiane);Jacob e Wilhelm Grimm: ‘The Griffin’ (Il

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grifone) [Children’s and Household Tales(Fiabe del focolare)].Come ‘Le tre foglie del serpente’ (p. 108),questa storia si divide in due parti. In alcunedelle fiabe a essa correlate, la profezia cheriguarda una bambina nata per sposare un uomoricco è seguita da un testo diverso: non ci sonoda prendere i tre capelli di diavolo (o piume diorco e simili), ma un anello che il futuro sposoriluttante ha buttato nel mare e le nozze nonpossono essere celebrate fino a che non vienepuntualmente ritrovato nello stomaco di unpesce. A me piace la versione qui propostaperché a essere ricompensato è il coraggio enon è solo questione di fortuna.

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VENTI

LA RAGAZZA SENZAMANI

C’era una volta un mugnaio che poco apoco affondò nella miseria e tutto ciòche gli restava era il suo mulino e unbell’albero di mele sul retro. Un giornoera andato nel bosco a raccogliere dellalegna quando gli comparve davanti unuomo anziano che non aveva mai visto.

«Perché ti affatichi tanto a tagliare la

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legna?» disse il vecchio. «Basta che miprometti di darmi tutto ciò che è dietroal mulino e ti farò ricco».

‘Cosa c’è dietro al mulino?’ pensò ilmugnaio. ‘C’è solo l’albero di mele’.«Va bene, ci sto».

Il vecchio stilò un contratto e ilmugnaio lo firmò. Il vecchio se loriprese con una strana risata. «Torneròtra tre anni. Vedi di non dimenticartelo».

Il mugnaio corse a casa e la mogliegli andò incontro.

«Oh, marito mio, non crederai mai aquello che è successo! Ci sono scatole ecasse di tesori piene fino all’orlo in giroper tutta la casa, monete d’oro, denarod’ogni genere, gioielli e così via, ma da

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dove sono venuti? Forse alla fine unabenedizione di Dio?»

«Quindi ha tenuto fede al contratto»disse il mugnaio e raccontò alla mogliedel vecchio nella foresta. «Non dovevofare altro che firmare rinunciando a tuttociò che c’è dietro al mulino. Questotesoro vale più di un albero di mele,vero?»

«Oh, marito mio! Non sai cos’haifatto! Quello era il Diavolo! Nonintendeva l’albero di mele. Intendevanostra figlia che era lì fuori a spazzare!»

La figlia del mugnaio, che era unabella ragazza, visse i tre anni successivipregando Dio con devozione. Quandovenne il tempo che il Diavolo la venisse

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a prendere, si lavò dalla testa ai piedi,indossò un abito bianco e col gessodisegnò un cerchio intorno a sé sulpavimento.

Al mattino ecco subito comparire ilDiavolo che scoprì di non potersiavvicinare. Disse al mugnaio: «Perchéhai lasciato che si lavasse, vecchiosciocco? Non devi darle nemmeno unagoccia d’acqua, altrimenti non possotoccarla».

Il mugnaio era terrorizzato. Fececome diceva il Diavolo e non diede allafiglia nemmeno una goccia d’acqua,senza curarsi della sua sete.

La mattina dopo il Diavolo tornò.«Guarda! Ha le mani pulite. Perché hai

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lasciato che se le lavasse?»Si scoprì che la ragazza aveva pianto

per tutta la notte e le lacrime le avevanolavato le mani. Il Diavolo era furiosoperché ancora non poteva toccarla.

«D’accordo» disse, «adesso dovraitagliargliele».

Il mugnaio fu preso dall’orrore. «Nonposso farlo!» gridò. «Non posso farequesto alla mia bambina». Era troppoper lui. Andò dalla ragazza e disse:«Cara figlia mia, devo tagliarti le mani oil Diavolo prenderà me e ho tanta paura.Perdonami, figlia mia! Aiutami eperdonami!»

La ragazza disse: «Papà caro, sonotua figlia. Puoi farmi tutto quello che

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vuoi». E tese le mani per farseletagliare.

Il Diavolo ritornò un’altra volta mala povera ragazza aveva pianto ancora ecoperto di lacrime i moncherini cheerano perfettamente puliti. Allora ildiavolo fu costretto a rinunciare, perchéera al suo terzo tentativo e non potevafarne altri.

Il mugnaio disse: «Cara mia, è graziea te se siamo così ricchi. Non devichiedere nulla, perché farò in modo chetu viva nel lusso per tutta la vita».

Ma lei rispose: «Non posso più starequi. Me ne andrò e sarà la bontà deglisconosciuti a fornirmi ciò di cui hobisogno».

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Chiese ai genitori di legarle lebraccia mutilate dietro la schiena e se neandò. Camminò per tutto il giorno e nonsi fermò finché non fece buio. La lunasplendeva e alla sua luce vide dall’altraparte di un fiume un giardino reale conalberi carichi di bei frutti.

Avrebbe voluto tanto mangiarnequalcuno, ma attraversare l’acqua le eraimpossibile.

Non aveva mangiato nulla per tutto ilgiorno e pativa la fame. Pensò: ‘Oh, sesolo fossi nel giardino! Mangerei lafrutta direttamente dall’albero. Ma cosìmorirò’.

Si mise a pregare in ginocchio. Dopoun po’ apparve un angelo. Andò al

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fiume, serrò una chiusa, il torrente siprosciugò e la ragazza potéattraversarlo.

Entrò nel giardino seguitadall’angelo. Vide un albero carico dibelle pere mature che erano state tuttenumerate per evitare i furti, ma nonriuscì a trattenersi: si avvicinò e si misea mangiare una pera direttamentedall’albero per placare un po’ la fame,senza esagerare. Dopo mangiato andò asdraiarsi tra i cespugli.

Il giardiniere era di guardia, mavedendo l’angelo, pensò che anche laragazza fosse uno spirito e non osòdisturbarli.

Il giorno dopo venne il re e

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guardandosi intorno si accorse subitoche una pera era stata mangiata e mandòa chiamare il giardiniere.

«Oh, vostra maestà! La scorsa notte èvenuto lo spirito di una ragazza, haattraversato il torrente e mangiato lapera direttamente dall’albero! Nonaveva le mani, maestà!»

«Come ha fatto ad attraversare iltorrente?»

«È sceso un angelo dal cielo e haserrato la chiusa e il torrente si èasciugato. Avevo paura, maestà, cosìnon ho gridato e non l’ho fermata. Dopoaver mangiato la pera, se n’è andata viada qualche parte».

«Non mi sembri molto credibile»

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disse il re. «Sarà meglio che io resti afare la guardia con te questa notte, sedovesse ricapitare».

La notte seguente il re andò quattoquatto in giardino accompagnato da unprete che avrebbe parlato con lo spirito.Si sedettero e attesero e, come previsto,a mezzanotte la ragazza uscì dalnascondiglio, si avvicinò all’albero emangiò una pera soltanto con la bocca.Accanto a lei un angelo vestito di biancostava in piedi di guardia.

Il prete andò loro incontro e disse:«Da dove vieni, fanciulla? Sei divina osei terrena? Uno spirito o un essereumano?»

«Non sono uno spirito» disse, «sono

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una povera donna che è stataabbandonata da tutti eccetto che daDio».

Il re sentendola parlare così rispose:«L’intero mondo ti ha abbandonata, maio non lo farò».

La portò al castello. Era così bella ebuona che si innamorò di lei, la prese insposa e le fece costruire delle manid’argento. E vissero felici.

Dopo un anno, il re partì per laguerra. Lasciò la giovane regina allecure di sua madre. «Se mi darà un figlio,ti prenderai cura di lei e del bambino emi scriverai per darmi la notizia».

Dopo un po’ la regina diede alla luceun bel bambino. La madre del re scrisse

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come promesso, raccontandogli la lietanotizia.

Ma il messaggero, andando dal re, sifermò presso un ruscello per riposare.Per tutto quel tempo il Diavolo avevasorvegliato la ragazza, deciso adistruggere la sua felicità, così prese lalettera e la sostituì con una che dicevache la regina aveva partorito un mostro.

Quando il re la lesse, inorridì e ne fuaddolorato ma scrisse per dire diprendersi cura di lei fino al suo ritorno.Ancora una volta il messaggero si stesea dormire e ancora una volta il Diavolovenne a mettere una sua lettera al postodi quella che il messaggero portava.Diceva di uccidere la regina e il

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bambino.La regina madre lesse la lettera e ne

fu turbata. Scrisse ancora al figlio maottenne la stessa risposta perché ilDiavolo sorvegliava tutto e continuava ascambiare le lettere. L’ultima letteraaddirittura diceva di cavare gli occhi estrappare la lingua alla regina comeprova. Leggendo ciò, la vecchia reginapianse amaramente perché si spargevasangue innocente ma poi ebbe un’idea:fece macellare una cerva, le tagliò viaocchi e lingua e li mise da parte.

«Mia cara» disse la regina, «non puoistare qui. Non so perché il re hamandato questo tremendo ordine, maeccolo, è la sua grafia, e l’unica cosa da

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fare è che tu e il bambino ve ne andiateper il mondo e non torniate mai più».

La regina madre le legò il bambinosulla schiena e la povera donna,piangendo, andò via ancora una volta.Camminò e camminò fino a raggiungereuna profonda e scura foresta, dove simise a pregare.

Anche stavolta le apparve un angelo,che la condusse in una casetta. Unascritta sopra la porta diceva: ‘Quichiunque è il benvenuto e tutti vivonoliberi’.

Dalla casa uscì una fanciulla biancacome la neve, tanto quanto l’angelo, edisse: «Vostra maestà, entrate». Slegò ilbimbo e lo appoggiò al seno della regina

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perché potesse allattarlo e poi mostròloro un letto ben fatto.

«Come fai a sapere che sono unaregina?»

«Sono un angelo, mandato dal cieloper prendermi cura di voi. Non dovetepreoccuparvi di niente».

Per sette anni vissero nella casettadove furono accuditi con cura. Durantequel periodo, per grazia del Cielo e perla sua anima pia, le mani ricrebbero.

Alla fine il re tornò dalla guerra, eper prima cosa avrebbe voluto salutarela cara moglie e il bambino.

La vecchia madre cominciò apiangere. «Malvagio! Come puoi direquesto quando volevi ucciderli?»

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Il re era stupito ma lei gli mostrò lelettere scritte dal Diavolo. «Io ho fattociò che chiedevi» disse.

«Ecco le prove: i suoi occhi e la sualingua».

Il re si mise a piangere ancora piùamaramente di sua madre. Alla finel’anziana donna ebbe pietà di lui edisse: «Qui sta accadendo qualcosa dimalvagio. Ma non c’è bisogno dipiangere perché tua moglie è ancoraviva. Questi sono gli occhi e la lingua diuna cerva. Le ho legato il bambino sullaschiena e le ho detto di andare per ilmondo con la promessa di non tornaremai più qui, considerata la tua rabbianei suoi confronti».

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«Hai ragione» disse il re. «Questa èopera del Diavolo. Ma andrò a cercarlae non mangerò, non berrò e non dormiròin un letto fino a che non avrò ritrovatola mia cara moglie e il mio bambino».

Il re viaggiò per tutto il mondo perquasi sette anni, cercando in ogni grottae tugurio, in ogni città e villaggio, nontrovando tracce di lei, finché noncominciò a pensare che fosse morta.Come promesso, non mangiò niente pertutto il tempo ma il favore del Cielo loteneva in vita. Alla fine arrivò in unagrande foresta dove trovò una casettacon una scritta sulla porta che recitava:‘Qui chiunque è il benvenuto e tuttivivono liberi’.

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L’angelo bianco come la neve uscì elo prese per mano. «Benvenuto, vostramaestà! Da dove venite?»

«Ho viaggiato per il mondo per quasisette anni. Cerco mia moglie e mio figlioma non riesco a trovarli da nessunaparte».

L’angelo gli offrì da mangiare e dabere ma il re rifiutò dicendo che tuttociò che desiderava era riposare. Sisdraiò e si coprì il volto con unfazzoletto.

L’angelo andò nella stanza accanto,dove la regina sedeva con il figlio cheaveva preso a chiamare Addolorato.

L’angelo disse: «Andate in salotto eportate vostro figlio. Vostro marito è

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venuto in cerca di voi».Lei andò subito e il fazzoletto cadde

dal viso del re.«Prendi quel pezzo di stoffa,

Addolorato» disse, «e rimettilo sul visodi tuo padre».

Il bambino obbedì.Il re sentì tutto mentre dormiva e lo

fece cadere di nuovo apposta.Allora il bambino perse la pazienza e

disse: «Ma mamma, com’è possibile chesia il viso di mio padre? Mi avevi dettoche non ne avevo uno su questa terra, masolo in Paradiso, quello che pregoquando dico ‘Padre nostro, che sei neicieli’. Come può questo uomo selvaggioessere mio padre?»

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Sentendo ciò, il re si alzò e chiesealla donna chi fosse.

«Sono tua moglie» disse, «e questo ètuo figlio Addolorato».

Ma guardò le mani e vide che eranovive e vere.

«Mia moglie aveva mani d’argento»disse.

Lei rispose: «Nella sua misericordia,il buon Dio ha fatto in modo che miricrescessero».

L’angelo portò le mani d’argentodall’altra stanza e il re allora lecredette.

Si trattava proprio della sua amatamoglie e del suo bambino, non c’eranodubbi, allora li baciò e abbracciò

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entrambi e disse: «Mi sono tolto unmacigno dal cuore!»

L’angelo diede loro da mangiare etornarono a casa dalla buona vecchiamadre. Quando la notizia si sparse per ilregno tutti si rallegrarono. Il re e laregina celebrarono il matrimonioun’altra volta e vissero felici e contenti.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 706, ‘The Maiden WithoutHands’ (La fanciulla senza mani).Fonte:: storie raccontate ai fratelli Grimm daMarie Hassenpflug, Dorothea Viehmann eJohann H. B. Bauer.Storie simili: Alexander Afanasjev: ‘TheArmless Maiden’ (Russian Fairy Tales);Katharine M. Briggs: ‘The Cruel Stepmother’,

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‘Daughter Doris’(Folk Tales of Britain); ItaloCalvino: ‘Uliva’, ‘La tacchina’ (Fiabe italiane).Questa è una storia che si ritrova un po’ovunque. Gli elementi sono nitidi eraccapriccianti e l’esito è soddisfacente, con lafamiglia reale che viene ristabilita, maniincluse. E l’immagine che ci viene data dellabella ragazza senza mani, tutta vestita di biancoe accompagnata da un angelo, che mangia unapera a morsi nel giardino rischiarato dalla luna,è commovente e bizzarra.

Comunque, la storia in sé è disgustosa.L’aspetto più repellente è la codardia delmugnaio, che finisce per essere impunita. Ilsenso di incrollabile devozione è nauseante e lamaniera in cui vengono restituite le mani èsemplicemente improbabile.

‘Ma non è tipica delle fiabe l’abbondanza dicose improbabili?’

No. La resurrezione del bambino ne ‘Ilginepro’, per esempio (p. 211), appare

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verosimile ed esatta. Questa è semplicementefolle: invece di essere presi da stupore, qui civiene da ridere. È ridicola. Questa storia e altrecome questa devono comunque essere piaciutea un vasto pubblico per avere una talediffusione o forse c’è un gran numero dipersone che ama le storie di mutilazioni,crudeltà e sentimentale devozione.

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VENTUNO

GLI ELFI

Prima storia

C’era una volta un calzolaio che eradiventato tanto povero (anche se non percolpa sua) e gli era rimasto giusto ilcuoio per un paio di scarpe. Alla sera lotagliò, pensando di lavorarlol’indomani, e andò a letto. Aveva lacoscienza pulita, così disse le preghieree dormì in pace.

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La mattina seguente si svegliò,mangiò un tozzo di pane secco, si sedetteal tavolo da lavoro e trovò le scarpe giàbell’e fatte. Era sbalordito. Le prese e leguardò da vicino da ogni angolazione.Le cuciture erano precise e salde, nonc’era nulla fuori posto. Non avrebbesaputo fare di meglio.

Di lì a poco arrivò un cliente checercava scarpe proprio di quella misurae quel paio gli piacque così tanto che locomprò subito per una bella somma.

In questa maniera il calzolaio ebbe ildenaro di cui aveva bisogno percomprare il cuoio per due paia discarpe. Lo acquistò e, come aveva giàfatto, lo tagliò la sera con l’idea di

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lavorarlo la mattina dopo. Ma non ce nefu bisogno: quando si alzò, le scarpeerano già pronte, come il giorno prima,con cuciture da vero maestro. Trovòsubito i clienti, guadagnando ciò che gliserviva per comprare cuoio per quattropaia di scarpe: la mattina seguente eranopronte e riuscì subito a venderle e cosìvia. Ogni sera tagliava il cuoio per lescarpe e la mattina dopo erano giàpronte, così ben presto le entrate furonobuone e non molto dopo divenne unuomo ricco.

Una sera, poco prima di Natale,tagliò il cuoio per un certo numero dipaia di scarpe come sempre e poi primadi dormire disse a sua moglie: «Perché

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non restiamo svegli stanotte per vederechi è il nostro aiutante?»

La moglie pensò che era una buonaidea, accesero la lampada e si nascoserodietro il bucato steso in un angolo dellaboratorio.

A mezzanotte due piccoli ometti nudientrarono da sotto la porta, saltarono sultavolo da lavoro e si misero subito acucire insieme i ritagli di cuoio a unavelocità incredibile. Lavorarono fino afinire tutte le paia, poi le poggiarono sultavolo e uscirono com’erano entrati.

La mattina la moglie del calzolaiodisse: «Dovremmo contraccambiare.Dopotutto siamo ricchi grazie a quei dueomini che invece se ne vanno in giro

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senza niente addosso. Cucirò dellecamicie e della giacche, biancheria epantaloni e farò un paio di calze di lanaper ognuno di loro. E tu puoi fare dellescarpine».

«Buona idea» disse il calzolaio e simise al lavoro.

Quella sera poggiarono sul tavolo dalavoro i vestiti al posto dei ritagli dicuoio e si nascosero nuovamente pervedere la reazione degli omini. Amezzanotte entrarono e balzarono sultavolo per iniziare a lavorare, marestarono a guardare i vestiti grattandosila testa con aria interrogativa. Poicapirono e saltarono di gioia, liindossarono subito e si pavoneggiarono

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cantando:«Che belli che siamo, che belli chesiamoe i ciabattini mai più noi facciamo!»

Saltavano qua e là come gatti, sullesedie, sul tavolo, a terra, sul davanzale ealla fine con un guizzo sparirono sotto laporta.

Non tornarono mai più, ma ilcalzolaio ebbe successo. Da quelmomento in poi il lavoro andò sempremeglio e lui e sua moglie furono ricchi efelici per sempre.

Seconda storia

C’era una volta una povera servetta che

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lavorava sempre tanto, diligente eprecisa in tutto. Ogni giorno spazzava lacasa e ammucchiava l’immondizia fuoridalla porta sul retro.

Un giorno, proprio mentre iniziava lefaccende, vide una lettera tral’immondizia. Poiché non sapevaleggere, poggiò la scopa in un angolo eportò la lettera alla padrona. Ne risultòche si trattava di un invito degli elfi chevolevano che la ragazza facesse damadrina di battesimo al piccolo elfo inarrivo.

«Non so che fare, signora!» disse.«Non è facile, Gretchen» disse la

padrona. «Ma ho sentito dire che non èbene declinare gli inviti degli elfi. Penso

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che tu debba accettare».«Be’, se lo dite voi, signora» disse

Gretchen.La padrona la aiutò a scrivere una

risposta in cui accettava l’invito, lasciòla lettera dove aveva trovato l’altra enon appena lei si fu voltata la bustasvanì; poco dopo saltarono fuori tre elfiche la portarono in una montagna cava.Dovette chinare un po’ la testa perentrare, ma una volta dentro fu sorpresanel vedere che tutto era bello, fine eprezioso al di là di ogni descrizione.

La puerpera era stesa su un letto fattodi ebano nerissimo e incastonato diconchiglie madreperlate. Il coprilettoera ricamato con filo prezioso, la culla

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era d’avorio e il bacile del bagnetto erad’oro massiccio. Il bambino era grandequanto il suo dito mignolo.

La ragazza fece da madrina e poichiese di tornare a casa, perché il giornoseguente doveva lavorare, ma gli elfi lapregarono di rimanere per tre giorni.Furono così cordiali e convincenti chealla fine accettò e si trovò molto bene efecero di tutto per renderla felice.

Dopo tre giorni era davvero tempo dirientrare. Le riempirono le tasche d’oroe la accompagnarono fuori. Si mise incammino verso casa, arrivò in tardamattinata e la sua scopa era ancoranell’angolo dove l’aveva lasciata. Laprese e cominciò a spazzare come al

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solito, ma si stupì quando dalla casauscirono estranei che le chiesero cosastesse facendo. Venne fuori che la suavecchia padrona era morta e che lei nonaveva trascorso tre giorni nellamontagna, come credeva, ma ben setteanni.

Terza storia

A una mamma gli elfi rubarono ilbambino dalla culla e al suo posto nemisero un altro, un mostriciattolo con ungran testone e occhi sbarrati che nonfaceva altro che mangiare e bere.

Addolorata, la mamma andò achiedere consiglio da una vicina, che le

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disse di portare il bambino scambiato incucina, poggiarlo a terra e accendere ilfuoco. Poi doveva prendere due guscid’uovo e farci bollire dell’acqua dentro.Così il bambino si sarebbe messo aridere e sarebbe finito tutto.

La donna fece come la vicina avevadetto. E quando mise i gusci d’uovo sulfuoco a bollire, lo zuccone si mise acantare:

«Io sono vecchiocome il Westerwald,ma mai nessuno ho visto dentro i guscicucinar!»

E giù uno scroscio di risate. Dopodiché,apparve una folla di piccoli elfi a

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riportare il bambino legittimo. Lomisero a terra e portarono via l’altro ela donna non li vide più.

* * *

Tipo di fiaba: Prima storia: ATU 503, ‘TheGifts of the Little People’ (Gli gnomi);seconda storia: ATU 476, ‘Midwife in theUnderworld’ (Gli gnomi); terza storia: AT 504,‘The Changeling’ (Gli gnomi).Fonte:: tutte e tre le storie furono raccontateai fratelli Grimm da Dortchen Wild.Storie simili: Katharine M. Briggs: ‘Food andFire and Company’, ‘Goblin Combe’, ‘That’sEnough to Go On With’, ‘The Two Humphs’(Folk Tales of Britain); Italo Calvino: ‘I duegobbi’ (Fiabe italiane).Questo è un gruppetto di quelle poche fiabe deiGrimm in cui davvero compaiono esseri fatati.

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Non importa come chiamiamo questo genere diesseri soprannaturali, elfi, fate o brownie (illoro nome tipico in inglese), ma c’è unprotocollo ben definito da tenere a mentequando si ha che fare con loro. Katharine M.Briggs, la grande autorità in quanto a fiabetradizionali in Inghilterra, dice: ‘Qualsiasiricompensa per i suoi servizi manda via la fata:sembra che sia un tabù assoluto’ [A Dictionaryof Fairies (Dizionario di fate, gnomi, follettie altri esseri fatati)]. A ogni modo questaaffermazione sembra essere contraddetta nellasua storia ‘That’s Enough to Go On With’, incui ai bambini ammodo viene data unaricompensa e il contadino scortese vienepunito. Forse è solo questione di fortuna e diattenzione.

La seconda e terza storia qui sono poco piùche aneddoti, così come ci sono pervenuti, manulla toglie la possibilità di elaborarli. Il primoè il più conosciuto: alcuni lettori potrebbero

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riconoscervi una vaga somiglianza con TheTailor of Gloucester (1902) di Beatrix Potter.

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VENTIDUE

IL FIDANZATOBRIGANTE

C’era una volta un mugnaio che avevauna bella figlia. Quando fu in età damatrimonio, pensò di trovarle un maritoadeguato. ‘La darò in sposa alla primapersona rispettabile che si presenterà’pensava.

Si sparse la voce e dopo non moltotempo si presentò un gentiluomo a

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chiedere la mano della sua bella figlia.Il mugnaio gli fece delle domande, lotrovò a posto e promise di dargliela insposa.

La figlia però non era del tuttoconvinta. In quell’uomo c’era qualcosache non le ispirava fiducia e inoltre,tutte le volte che sentiva parlare di lui, ilcuore le si stringeva per l’orrore.

Un giorno il fidanzato le disse: «Miacara, siamo promessi sposi e tu non seimai venuta a farmi visita. Perché nonvieni a casa mia? Dopotutto, presto saràanche casa tua».

«Non so dove abiti» disse la ragazza.«Nella foresta» le disse. «Un bel

posto, vedrai».

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«Non penso che riuscirei a trovare lastrada» disse lei.

«No, no, devi venire domenica. Hogià invitato degli ospiti che vorrebberoconoscerti. Segnerò il percorso con lacenere così lo vedrai tra gli alberi epotrai seguirlo».

La domenica la ragazza ebbe unbrutto presentimento; avrebbe preferitodi gran lunga evitare di inoltrarsi nelbosco per andare a casa del fidanzato.Si riempì le tasche di piselli per segnareil tragitto nel caso fosse successoqualcosa. Al margine della foresta trovòla traccia di cenere e a ogni passo gettòun paio di piselli a destra e a sinistra.Camminò per quasi tutto il giorno, fino

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ad arrivare in un punto dove gli albericrescevano così fitti e alti che al di sottoera buio e lì, proprio nel mezzo, c’era lacasa del fidanzato. La casa era scura enon si udiva nulla e sembrava deserta;all’interno c’era solo un uccello ingabbia, ma non era di conforto perchénon faceva che cantare:

«Stai attenta, torna a casa, devi andare,devi uscire,se per mano di chi abita qui non vuoimorire!»

Guardò l’uccello e disse: «Non puoidirmi niente di più, uccellino?»

Ma l’uccello cantò di nuovo:«Stai attenta, torna a casa, devi andare,devi uscire,se per mano di chi abita qui non vuoimorire!»

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La futura sposa vagò da una stanzaall’altra, ma non vide nessuno finché nonscese nello scantinato. Lì c’era unavecchia decrepita seduta vicino alfuoco, con la testa tremolante.

«Potete dirmi, per favore, se il miofidanzato vive qui?»

«Oh, povera bimba» rispose lavecchia, «perché mai sei venuta inquesta casa? È un covo di assassini.Parli di un fidanzato, ma qui l’unicofidanzamento che esiste è con la Morte.Vedi il pentolone sul fuoco? Me ne devooccupare io. Quando torneranno tifaranno a pezzi, ti butteranno nellapentola e ti cuoceranno finché la tuacarne non sarà tenera e ti mangeranno in

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un boccone. Sono un branco dicannibali. Ma ho pena di te, poverainnocente con quel bel faccino. Vieniqui».

La vecchia la portò dietro una grandebotte, dove nessuno poteva vederla.

«Sta’ lì in silenzio» disse. «Se tisentono è la fine per te. Quando sisaranno addormentati, fuggiremo».

Dette queste parole, la banda diassassini rincasò, trascinando un’altraragazza appena catturata che piangeva esinghiozzava, ma erano ubriachi e non sicuravano delle sue preghiere. Lacostrinsero a bere un bicchiere di vinorosso, poi uno di bianco e poi unbicchiere di rosato, ma al terzo il cuore

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le scoppiò.Poi le strapparono i bei vestiti di

dosso e la misero sul tavolo per farla apezzi e cospargerla di sale. La poverafutura sposa, nascosta dietro la botte,tremava tutta a vedere che fine avrebbefatto per mano di quegli assassini.

Uno di loro poi vide un anello d’oroal dito della ragazza morta. Prese unascure e le tagliò il dito che schizzò inaria e andò a finire proprio dietro labotte, in grembo alla futura sposina.L’assassino non capiva dove fosse finitoe prese un lume per cercarlo.

Un altro assassino disse: «Guardadietro la botte grande, mi sa che è finitolì».

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Ma la donna gridò: «Venite, la cena èpronta. Il dito non scappa, lo potetetrovare domattina».

«Ha ragione» dissero e si sedettero amangiare. La vecchia aveva versato unadose di sonnifero nel vino, così, primaancora di finire di mangiare, crollaronotutti a terra addormentati.

Sentendoli russare, la futura sposinastrisciò fuori dal nascondiglio. Scavalcòtutti gli assassini stesi a dormire sulpavimento. Temeva di inciampare esvegliarli.

«Buon Dio, aiutami!» disse piano eriuscì ad arrivare sana e salva alle scaledello scantinato, dove la aspettava lavecchia. Salirono furtivamente di sopra

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e poi corsero via più veloce chepotevano.

Per fortuna la ragazza aveva buttato ipiselli a terra, perché la cenere chetracciava il percorso era stata spazzatavia dal vento. Ma i piselli avevanogermogliato e si vedevano alla lucedella luna, così poterono seguire iltragitto fino al mulino, dove arrivaronogiusto all’alba. La ragazza raccontò tuttoal padre, dall’inizio alla fine, e lavecchia confermò.

Arrivato il giorno del matrimonio,apparve il fidanzato sorridente e cortesecon tutti. Il mugnaio aveva invitatoparenti e amici e a tutti quell’uomo belloe gentile aveva fatto una buona

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impressione. Quando si sedettero amangiare, a ogni invitato fu chiesto diraccontare una storia. La sposa ascoltòin silenzio. Alla fine il fidanzato disse:«Su, mia cara, non hai qualche storia daraccontare? Dicci qualcosa».

Allora lei rispose: «Bene. Viracconterò un sogno che ho fatto.Camminavo nella foresta e arrivai a unacasa buia. Non c’era anima viva dentro,solo un uccello in gabbia che diceva:‘Stai attenta, torna a casa, devi andare,devi uscire, se per mano di chi abita quinon vuoi morire!’ Lo disse due volte. Maera solo un sogno, tesoro mio.Attraversai tutte le stanze e nonostantenon ci fosse nessuno, in quel posto c’era

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qualcosa di strano. Scesi nelloscantinato e lì trovai una vecchia con latesta tremolante. Le chiesi: ‘Vive qui ilmio fidanzato?’ Lei disse: ‘Oh, poverabimba, sei nella casa di un assassino. Iltuo fidanzato vive qui, ma ti farà a pezzi,ti cucinerà e ti mangerà’».

«Non è così!» disse il fidanzato.«Tesoro mio, non preoccuparti, era

solo un sogno. La vecchia mi nascosedietro una grande botte e a quel punto ibriganti tornarono, trascinando unapovera ragazza che urlava e pregavaperché la risparmiassero. La costrinseroa bere tre bicchieri di vino, uno dirosso, uno di bianco e uno di rosato ecosì il cuore le scoppiò e morì».

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«Non è così, non è mai stato così!»urlò il promesso sposo.

«Tesoro mio, stai calmo, era solo unsogno. Le strapparono i bei vestiti didosso, la misero sul tavolo, la fecero apezzi e la cosparsero di sale».

«Non è così, non è mai stato così,Dio non voglia così sia!» strillò ilpromesso sposo.

«Tesoro mio, calmati, era solo unsogno. Poi uno dei briganti vide unanello d’oro al dito della poveraragazza. Prese una scure e glielo tagliò eil dito schizzò per aria e mi finì ingrembo. Ed eccolo qui, insiemeall’anello».

A quelle parole sollevò il dito con

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l’anello, perché tutti lo vedessero.Il promesso sposo, bianco come il

gesso, balzò in piedi e tentò di fuggire,ma gli invitati lo afferrarono e loportarono subito a corte. Furono mandatidei soldati a catturare gli altri briganti efurono tutti condannati a morte per lemalvagità commesse.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 955, ‘The RobberBridegroom’ (Il fidanzato brigante).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Marie Hassenpflug.Storie simili: Katharine M. Briggs: ‘The Cellarof Blood’, ‘Dr Forster’, ‘Mr Fox’ (Il signorFox) [Folk Tales of Britain (Fiabe inglesi)];Italo Calvino: ‘Le nozze d’una Regina e d’un

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brigante’ (Fiabe italiane).Non c’è nulla di minimamente soprannaturalein questa storia: è un buon raccontosensazionale e cruento e piuttosto aderentecome ambientazione al nostro mondo, tantoche non ci sorprende poi tanto che in una dellevarianti, cioè ‘The Cellar of Blood’ diKatherine M. Briggs, la brava ragazza chiamiScotland Yard e chieda di mandare dei detectivealla festa in cui verranno raccontate le storie.

In Inghilterra esistono molte varianti, perqualche motivo. Io ho preso in prestito da unadi esse le esclamazioni del fidanzato brigantequando sente il racconto del sogno della sposa.Anche Shakespeare l’aveva fatto:

BENEDICK: Come quel vecchio dettoche fa: «Non è così... non è mai statocosì... Dio non voglia così sia...»3

(Molto rumore per nulla, ATTO I, SCENA I)

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VENTITRÉ

IL PADRINO MORTE

Un pover’uomo aveva dodici figli edoveva lavorare giorno e notte per darloro qualcosa da mangiare. Così quandola moglie diede alla luce il tredicesimo,non sapeva più come fare e corse instrada pensando di chiedere alla primapersona che incontrava di fare dapadrino.

La prima persona che arrivò fu

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nientemeno che Dio. Dato che eraonnisciente, non ebbe bisogno dichiedergli quali fossero le suepreoccupazioni. «Mio pover’uomo»disse, «mi dispiace per te. Sarò felice ditenere il tuo bambino a battesimo. Miprenderò cura di lui, non preoccuparti».

«Chi sei tu?» disse l’uomo.«Io sono Dio».«Be’, fatti i fatti tuoi. Non ti voglio

per padrino. Tu dai ai ricchi che hannogià tutto, e lasci i poveri a morire difame».

Diceva così solo perché nonconosceva il proposito di Dionell’essere così buono con i ricchi etanto crudele con i poveri.

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Continuò per la sua strada e subitodopo incontrò un gentiluomo vestito conraffinatezza.

«Sarei felice di rendermi utile» disseil signore elegante. «Fatemi padrino divostro figlio e gli darò tutte le ricchezzee i piaceri del mondo».

«E tu chi sei?»«Io sono il Diavolo».«Eh? Non ti voglio come padrino. Tu

inganni la gente e la porti al peccato, sotutto di te».

Così se ne andò e subito dopoincontrò un vecchio che barcollava sullegambe avvizzite.

«Prendimi come padrino del tuobambino» disse il vecchio.

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«Tu chi sei?»«Sono la Morte e rendo tutti uguali».«Allora sei tu quello giusto» disse il

pover’uomo. «Porti via i poveri e portivia i ricchi. Tu sarai il padrino di miofiglio».

«È una saggia decisione» disse laMorte. «Renderò tuo figlio ricco efamoso. Chiunque mi abbia per amiconon può fallire».

«Domenica prossima, allora» dissel’uomo. «Cerca di arrivare in tempo».

La Morte comparve al battesimoproprio come aveva promesso e fecetutto a dovere.

Il ragazzo crebbe e quando diventòmaggiorenne il padrino lo raggiunse e

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disse: «Vieni con me, giovanotto».Il ragazzo seguì il padrino nella

foresta e lì il vecchio gli mostrò unapianta particolare.

«Questo è un dono del tuo padrino»disse la Morte. «Ti renderò un medicofamoso. Ogni volta che sarai chiamato alcapezzale di una persona malata, basteràguardarti intorno e vedrai me. Se staròsopra alla testa del paziente, potrai direalla famiglia che tutto andrà bene. Poigli darai un po’ di questa erba, inqualsiasi modo tu voglia, facendonemasticare le foglie, preparando un infusocon i fiori, macinando le radici perottenerne una pasta per delle pillole, nonfa alcuna differenza: entro un giorno o

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giù di lì starà di nuovo perfettamentebene. Ma se starò ai piedi del letto,vorrà dire che mi appartiene, te loricordi? Devi dire che non c’è niente dafare per lui e che nessun dottore almondo può salvarlo. Questa cosafunzionerà sempre, ma attenzione: sedarai l’erba a qualcuno che appartiene ame, ti accadrà qualcosa di molto brutto».

Il giovane fece come gli aveva dettoil padrino e in breve tempo diventò ilmedico più famoso del mondo. La gentesi stupiva della sua abilità nel saperesubito se il paziente sarebbe morto osopravvissuto e venivano da ogni paesedel mondo per consultarlo e gli davanocosì tanti soldi che ben presto divenne

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un uomo molto ricco.Avvenne che il re di quella regione si

ammalò. Il famoso medico fu mandato ei cortigiani gli chiesero di dire se ilregale paziente aveva speranze disopravvivere. Quando il giovane entrònella camera, vide il padrino ai piedidel letto. Il re era condannato. Non eraquesto che la famiglia del re volevasentirsi dire, naturalmente.

‘Se solo potessi contraddire il miopadrino, per una volta!’ pensò il medico.‘Senza dubbio si arrabbierà, ma sono ilsuo figlioccio, dopotutto. Magari non cifarà caso. Rischierò, comunque’.

Così girò il paziente in modo che laMorte venisse a trovarsi dietro la testa e

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gli diede un decotto di foglie da bere eben presto il re riuscì a tirarsi su e sisentì meglio.

Tuttavia, non appena il giovane fusolo, la Morte venne da lui, conun’espressione scura e accigliata,agitando il dito. «Mi hai ingannato! Nonmi aspetto niente di buono da ciò. Perquesta volta farò finta di niente perchései il mio figlioccio, ma provaci un’altravolta e te ne pentirai, perché porterò viate quando me ne andrò».

Non molto tempo dopo, laprincipessa si ammalò gravemente. Eral’unica figlia e il re piangeva giorno enotte finché gli occhi furono così gonfiche ci vedeva a malapena. Annunciò in

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lungo e in largo che chiunque fosse statoin grado di curarla l’avrebbe sposataereditando il regno.

Naturalmente il giovane era tracoloro che accorsero per provare.

Ancora una volta, entrando in cameradella malata, vide la Morte ai piedi delletto. Questa volta, però, il giovane videdi sfuggita il padrino, perché dopo unosguardo al viso della principessa si sentìperduto: era così bella che non potépensare più a nient’altro. La Morte conespressione accigliata ringhiava eagitava il pugno e il giovane non se neaccorgeva nemmeno: girò laprincipessa, le diede due pillole e pocodopo eccola seduta con le guance che

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tornavano a colorirsi.Ma la Morte, essendo stata ingannata

per la seconda volta, non era in vena diaspettare. Afferrò il medico con la manoossuta e disse: «Bene, ragazzo mio, orasei spacciato».

E lo tirò via dal capezzale dellaprincipessa portandolo lontano dalpalazzo, lontano dalla città, e quellagelida presa era così stretta che nonriusciva a liberarsi, benché si sforzasse.La Morte lo portò in una grande cavernasotto le montagne, dove migliaia emigliaia di candele ardevano, alcunealte, alcune di media lunghezza e altrecosì corte che erano sul punto dispegnersi. Infatti di momento in

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momento alcune candele si spegnevano ealtre si accendevano altrove e lefiammelle sembravano saltare da unposto all’altro in costante movimento.

«Vedi queste candele?» disse ilpadrino Morte. «Tutti coloro che vivonosulla terra hanno una candela che ardequi. Quelle alte appartengono aibambini, quelle medie alle personesposate nel fiore della vita, quellepiccole ai vecchi. È così, per la maggiorparte di loro. Alcune persone giovaniperò hanno una candela molto corta».

«Qual è la mia?» disse il giovane,pensando che la sua candela fossedestinata a bruciare a lungo.

La Morte gliene indicò una piccola

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con la fiamma già vacillante.Il giovane inorridì. «Oh, padrino,

padrino caro, accendine un’altra per me,ti prego! Ho voglia di sposare laprincipessa – tu sai perché ho dovutogirarla – mi sono subito innamorato dilei, non ho potuto farne a meno! Perfavore, caro padrino, lasciami vivere lamia vita!»

«Questo è impossibile» disse laMorte. «Non posso accenderne unasenza lasciare che quella prima sispenga».

«Oh, ti prego, metti questa in cima auna nuova in modo che continui abruciare quando la prima finirà».

La Morte finse di farlo, mise una

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nuova lunga candela in posizioneverticale prima di prendere il piccolomozzicone che era quasi finito, mavoleva a tutti i costi la sua vendetta e nelmetterlo sopra alla nuova, lasciò che lavecchia fiamma si spegnesse. Il medicocadde a terra, perché era al pari tutti glialtri ed era finito nelle mani dellaMorte.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 332, ‘Godfather Death’ (Ilcompare – Comare Morte).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Marie Elisabeth Wild.Storie simili: Italo Calvino: ‘Il paese dove nonsi muore mai’ (Fiabe italiane); Jacob eWilhelm Grimm: ‘The Godfather’ (Il compare),

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‘The Messengers of Death’ (I messaggeri dellamorte) [Children’s and Household Tales(Fiabe del focolare)].L’altra fiaba dei Grimm dello stesso genere, ‘Ilpadrino’, è breve e spiritosa e non ha la forza diquesta. La fiaba di Calvino è simile solo nellaconclusione: nessuno può sfuggire alle grinfiedella morte. Indubbiamente, le varianti sul temasono innumerevoli e la meglio conosciuta è‘The Pardoner’s Tale’ (Il raccontodell’indulgenziere) di Geoffrey Chaucer.

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VENTIQUATTRO

IL GINEPRO

Duemila anni or sono, o comunque tantotanto tempo fa, vivevano un uomo riccoe la sua brava e bella moglie. Siamavano moltissimo. A completare laloro felicità mancavano solo deibambini, ma nonostante l’ardentedesiderio e le preghiere che la donnafaceva giorno e notte, il bambino nonarrivava, non arrivava.

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Si dà il caso che davanti casa loro cifosse un cortile dove cresceva unginepro. In un giorno d’inverno, ladonna, sbucciando una mela sottol’albero, si tagliò un dito e una goccia disangue cadde nella neve.

«Oh» sospirò, «se solo avessi unbambino rosso come il sangue e biancocome la neve!»

Detto ciò si sentì subito sollevata efelice. Tornò a casa, sicura che sarebbeandato tutto per il verso giusto.

Passò un mese e la neve scomparve.Passarono due mesi e tutto rinverdì.Passarono tre mesi e sbocciarono i

fiori.Passarono quattro mesi e tutti i

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ramoscelli degli alberi si rinforzarono einfoltirono e gli uccelli cantarono cosìforte da far risuonare tutto il bosco e dafar cadere le gemme.

Passarono cinque mesi e la donna sitrovò di nuovo sotto il ginepro.Mandava un profumo così dolce che ilcuore le balzò nel petto e lei cadde inginocchio piena di gioia.

Passarono sei mesi, i frutti crebberosodi e pesanti e la donna ammutolì.

Dopo sette mesi, raccolse le bacchedi ginepro e ne mangiò così tante chedivenne triste e si ammalò.

Allo scadere dell’ottavo mese,chiamò il marito e gli disse, piangendo:«Se muoio, seppelliscimi sotto il

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ginepro».La promessa di lui la confortò. Un

altro mese trascorse e la donna mise almondo un bambino rosso come il sanguee bianco come la neve; alla vista delbambino il cuore le scoppiò di gioia elei morì.

Il marito la seppellì sotto il ginepro,piangendo lacrime amare. Dopo pocotempo il dolore si affievolì e, benché luipiangesse ancora, l’amarezza era menoforte di prima. E dopo un po’ di tempoancora, si risposò.

Dalla seconda moglie ebbe una figlia,mentre quello della prima, rosso come ilsangue e bianco come la neve, era unmaschio. La seconda moglie amava la

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figlia, ma quando guardava il bambino ilcuore le si contorceva d’odio alpensiero che sarebbe stato lui aereditare i beni del marito e temeva chea sua figlia non sarebbe andato nulla. Avedere ciò, il Diavolo le entrò in corpoe fece in modo di farle avere semprequel pensiero fisso, così da quelmomento in poi la donna non diede paceal bambino: non gli risparmiava schiaffie ceffoni, lo sgridava e lo metteva inpunizione, fino a che il povero bimbo,per la paura, non volle nemmeno piùtornare a casa dopo la scuola, poichénon aveva un posto per starsenetranquillo.

Un giorno la donna andò nella

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dispensa e Marleenchen, la figlioletta, laseguì e le disse: «Mi dai una mela,mamma?»

«Certo, cara» disse la donna e leprese una bella mela rossa dalla cassa.La cassa aveva un coperchio pesantecon una serratura di ferro tagliente.

«Mamma, me ne dai una anche permio fratello?» disse Marleenchen.

A sentir nominare il bambino ladonna sentì montare la rabbia, ma sicontenne e disse: «Sì, certo, appenatorna da scuola».

Proprio in quel momento guardò fuoridalla finestra e lo vide arrivare. E comese le fosse entrato in testa il Diavolo inpersona, strappò la mela di mano alla

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bambina e disse: «Non prima di tuofratello». Lanciò la mela nella cassa e larichiuse e Marleenchen se ne tornò incamera sua.

Poi entrò il bambino e il Diavolofece sì che la donna dicesse dolcemente:«Figlio mio, vuoi una mela?» Avevaperò la furia negli occhi.

«Mamma» disse il bambino, «sembritanto arrabbiata! Sì, voglio una mela».

La donna non riuscì a frenarsi.Doveva andare avanti. «Vieni con me»disse, aprendo il coperchio della cassa,«scegline una. Piegati, ecco, le migliorisono dietro...»

E mentre il bambino si piegava, ilMaligno le diede un colpetto e... bam! Il

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coperchio si richiuse e la testa delbambino si staccò e rotolò tra le melerosse.

Subito dopo la donna fu presa dalterrore e pensò: ‘Cosa posso fare? Forsec’è un modo...’ Corse al piano di sopra eprese una sciarpa bianca dal cassettonee poi mise il bambino a sedere vicinoalla porta della cucina, gli riappoggiò latesta sul collo e ci legò intorno lasciarpa di modo che non si vedessenulla. Poi gli mise una mela in mano eandò in cucina a mettere a bollirel’acqua sui fornelli.

Allora Marleenchen entrò in cucina edisse: «Mamma, mio fratello è sedutovicino alla porta con una mela in mano e

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ha una faccia così bianca! Gli ho chiestodi darmi la mela, ma non mi ha rispostoe mi sono spaventata».

«Bene, torna da lui e parlagli ancora»disse la mamma, «e se non ti rispondenemmeno stavolta dagli uno schiaffo».

Allora Marleenchen andò dalbambino e disse: «Fratello mio, dammila mela».

Ma lui se ne stava lì silenzioso, cosìlei gli diede uno schiaffo e la testacadde giù. La povera Marleencheen eraterrorizzata. Corse da sua madreurlando: «Oh, mamma, mamma, ho fattocadere la testa di mio fratello!»Singhiozzava e piangevainconsolabilmente.

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«Oh, Marleenchen, bambina cattiva»disse la mamma, «cos’hai combinato?Stai calma, zitta, non dire una parola.Non possiamo farci niente. Non lodiremo a nessuno. Lo metteremo nellostufato».

Così prese il bambino, lo fece a pezzie lo mise in pentola. Marleenchen nonsmetteva di piangere e cadderonell’acqua così tante lacrime che non cifu bisogno di salarla.

In quel momento rientrò il padre e sisedette a tavola. Si guardò intorno edisse: «Dov’è il mio bambino?»

La donna mise sul tavolo un belpiatto di stufato. Marleenchencontinuava a piangere senza requie.

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Il papà disse ancora: «Dov’è miofiglio? Perché non è a tavola?»

«Oh» disse la donna, «è andato a farvisita alla famiglia del prozio di suamadre. Resterà lì per un po’».

«Ma perché? Senza nemmeno unsaluto».

«Voleva andare. Ha detto che staràvia sei settimane. Non preoccuparti,avranno cura di lui».

«Be’, mi turba questa cosa» disse ilpapà. «Non avrebbe dovuto andarsenesenza chiedermi il permesso. Midispiace che non sia qui. Avrebbedovuto salutare». Cominciò a mangiare edisse: «Marleenchen cara, perchépiangi? Tuo fratello tornerà, non

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preoccuparti».E mangiò ancora un po’ di stufato e

poi disse: «Moglie mia, mai mangiatouno stufato migliore. È delizioso!Dammene ancora un po’. Voi nonmangiate nulla? Pare che sia tutto perme». E lo mangiò fino all’ultimopezzettino e gettò le ossa sotto il tavolo.

Marleenchen tirò fuori dal cassettonela sua sciarpa di seta più bella. Poiraccolse le ossa da sotto il tavolo, leavvolse nella sciarpa e le portò fuori.Non le era rimasta nemmeno una lacrimanegli occhi e piangeva solo sangue.

Appoggiate le ossa sull’erba verdesotto il ginepro, sentì che il cuore sifaceva più leggero e smise di piangere.

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Allora il ginepro iniziò a muoversi. Irami si aprirono e si richiusero, comequando si battono le mani. A quel puntouna nebbiolina d’oro si raccolse tra irami e poi salì verso l’alto come unafiamma e nel cuore di essa apparve unbellissimo uccello che volò su nel cielocantando e cinguettando gaiamente. Poil’uccello sparì e il ginepro tornò comeprima, ma la sciarpa e le ossa nonc’erano più. Marleenchen si sentì dinuovo felice, felice come se suo fratellofosse ancora vivo e corse a casa per lacena.

Nel frattempo l’uccello volavalontano. Giunse in una cittadina e sipoggiò sul tetto della casa di un orefice

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e iniziò a cantare:«Un giorno mia madre la testa mitagliò,più tardi mio padre tutto mi ingoiò,mia sorella le mie ossa sotterròsotto il ginepro.Cip! Cip! Non esiste uccelloche di me sia più bello!»

Nel laboratorio, l’orefice stava facendouna catena d’oro. Sentì cantare l’uccelloe trovò quel canto così dolce che si alzòe corse fuori a veder di cosa si trattasse.Uscì di casa così velocemente che perseuna pantofola e si ritrovò in mezzo allastrada con il grembiule di cuoio e unapantofola soltanto, con le pinze in unamano e la catena nell’altra. Guardò inalto per vedere l’uccello riparandosi gliocchi dal sole con la mano e disse:

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«Ehi, uccello! Che canto dolce! Cantaancora per me!»

«Oh no» disse l’uccello, «voglioqualcosa in cambio. Dammi quellacatena d’oro e canterò ancora per te».

«Eccola» disse l’orefice. «Vieni aprenderla, ma canta ancora!»

L’uccello volò giù e prese la catenanella zampa destra, poi si appollaiòsulla staccionata del giardino e cantò:

«Un giorno mia madre la testa mitagliò,più tardi mio padre tutto mi ingoiò,mia sorella le mie ossa sotterròsotto il ginepro.Cip! Cip! Non esiste uccelloche di me sia più bello!»

Poi l’uccello volò via fino alla casa diun calzolaio, si appollaiò sul tetto e

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cantò:«Un giorno mia madre la testa mitagliò,più tardi mio padre tutto mi ingoiò,mia sorella le mie ossa sotterròsotto il ginepro.Cip! Cip! Non esiste uccelloche di me sia più bello!»

Il calzolaio stava finendo un paio discarpe, ma restò col martello per aria asentire quel canto, corse fuori e guardòverso il tetto. Si schermò gli occhi conuna mano per ripararsi dal sole.

«Uccello» chiamò, «chemeraviglioso cantante che sei! Non homai sentito cantare così!» Tornò dentrodi corsa e disse: «Moglie mia, vienifuori a sentire come canta l’uccello! Èun portento!»

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Chiamò la figlia e i nipoti, i garzoni ela serva e uscirono tutti e stettero aguardare stupiti. L’uccello aveva piumeverdi e rosse scintillanti e quelle doratedel collo mandavano bagliori alla lucedel sole e gli occhi brillavano comestelle.

«Uccello» disse il calzolaio, «cantaancora!»

«Oh no» disse l’uccello, «non cantodue volte senza niente in cambio. Dammile scarpette rosse poggiate sul tuo tavoloda lavoro».

La moglie corse nel negozio e portòfuori le scarpette, l’uccello volò giù e leafferrò con la zampa sinistra. Poi,volando intorno alle loro teste, cantò:

«Un giorno mia madre la testa mi

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tagliò,più tardi mio padre tutto mi ingoiò,mia sorella le mie ossa sotterròsotto il ginepro.Cip! Cip! Non esiste uccelloche di me sia più bello!»

Poi volò via lontano dalla città e lungoil fiume portando la catena d’oro nellazampa destra e le scarpette rosse nellasinistra. Volò e volò fino ad arrivare aun mulino con la ruota che giravafacendo clippete-clappete, clippete-clappete. Venti garzoni erano sedutifuori dal mulino e lavoravano con loscalpello a una nuova macina, tac-tac,tac-tac e intanto il mulino clippete-clappete, clippete-clappete, clippete-clappete.

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L’uccello andò ad appollaiarsi su untiglio che stava di fronte al mulino einiziò a cantare:

«Un giorno mia madre la testa mitagliò...

E uno dei garzoni smise di lavorare eguardò verso l’alto.

«Più tardi mio padre tutto mi ingoiò...E altri due si fermarono.

«Mia sorella le mie ossa sotterrò...E quattro si fermarono.

«Sotto il ginepro...E otto poggiarono gli scalpelli.

«Cip! Cip! Non esiste uccello...E altri quattro iniziarono a guardarsiintorno.

«Che di me sia più bello!»

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Alla fine anche l’ultimo garzone udì,fece cadere lo scalpello e tutti e ventiesplosero in acclamazioni e applausi elanciarono i cappelli in aria.

«Uccello» gridò l’ultimo garzone, «èil più bel canto che io abbia mai sentito!Ma ho sentito solo l’ultimo verso. Cantaancora per me!»

«Oh no» disse l’uccello, «non cantodue volte senza niente in cambio. Datemila macina a cui stavate lavorando e iocanterò di nuovo».

«Se solo fosse nostra, potresti averlasubito!» disse lui. «Ma...»

«Oh, su» dissero gli altri, «se cantaancora può averla eccome».

Così i venti garzoni presero una lunga

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trave e la infilarono sotto il bordo dellamacina per issarla: Oh-issa! Oh-issa!Oh-issa!

L’uccello volò giù e infilò la testa nelbuco al centro, tornò a poggiarsisull’albero portandola come un collare ecantò:

«Un giorno mia madre la testa mitagliò,più tardi mio padre tutto mi ingoiò,mia sorella le mie ossa sotterròsotto il ginepro.Cip! Cip! Non esiste uccelloche di me sia più bello!»

Finito di cantare, spiegò le ali e si librònell’aria. Nella zampa destra portava lacatena d’oro, nella sinistra le scarpette eintorno al collo la macina. Volò e volòfino a tornare a casa di suo padre.

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Lì c’erano il papà, la mamma eMarleenchen seduti a tavola.

Il papà disse: «Sapete, c’è qualcosache mi rende felice. Mi sento bene comenon mi sentivo da giorni».

«Buon per te» disse la moglie. «Ionon mi sento affatto bene. Forse staarrivando un temporale».

Quanto a Marleenchen, se ne stavaseduta e piangeva.

In quel momento arrivò l’uccello.Volò intorno alla casa e si poggiò sultetto proprio mentre il papà diceva:«No, non credo di essermi mai sentitocosì bene. Fuori il sole splende e hocome l’impressione di stare per rivedereun vecchio amico».

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«Be’, io mi sento malissimo!» dissela donna. «Non so che mi prende. Sentofreddo e caldo insieme. Mi battono identi e ho le vene infuocate».

Si aprì il corpetto con mani tremanti.Marleenchen se ne stava sedutanell’angolo e piangeva piangevatalmente tanto che il fazzoletto erainzuppato.

Poi l’uccello si alzò dal tetto e volòsul ginepro da dove tutti potevanovederlo e cantò:

«Un giorno mia madre la testa mitagliò...

La mamma si coprì le orecchie con lemani e serrò gli occhi. Nella testasentiva un ruggito e vedeva bagliori dilampi e fulmini dietro le palpebre.

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«Più tardi mio padre tutto mi ingoiò...«Moglie, guarda!» gridò l’uomo. «Nonsi è mai visto un uccello così bello!Canta come un angelo e il sole brillacaldo e l’aria profuma di cannella!»

«Mia sorella le mie ossa sotterrò...Marleenchen appoggiò la testa sulleginocchia singhiozzando e piangendo,ma il papà disse: «Io esco. Vogliovedere quell’uccello da vicino!»

«No! Non andare!» gridò la moglie.«Mi sembra di sentire un terremoto e unincendio!»

Ma il papà corse fuori nel sole eguardò l’uccello che cantava:

«Sotto il ginepro.Cip! Cip! Non esiste uccelloche di me sia più bello!»

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Cantata l’ultima nota, fece cadere lacatena d’oro che si poggiò a perfezioneintorno al collo del padre. Il padre corsesubito dentro dicendo: «Chebell’uccello! E guardate cosa mi hadato!»

La donna era troppo terrorizzata perguardare. Piombò a terra e le cadde lacuffia dalla testa e andò a finire in unangolo.

Poi l’uccello cantò di nuovo:

«Un giorno mia madre la testa mitagliò...

«No! Non posso sopportarlo! Vorrei

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essere giù giù sotto terra pur di nonsentirlo cantare!»

«Più tardi mio padre tutto mi ingoiò...

E la donna cadde di nuovo tramortitagraffiando il pavimento con le unghie.

«Mia sorella le mie ossa sotterrò...

E Marleenchen si asciugò gli occhi e sialzò. «Vado a vedere se l’uccello dàqualcosa anche a me» disse e corsefuori.

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«Sotto il ginepro...

E detto questo, l’uccello fece cadere giùle scarpette rosse.

«Cip! Cip! Non esiste uccelloche di me sia più bello!»

Marleenchen indossò le scarpe e videche le calzavano a perfezione. Erafelicissima e danzò e saltellò in casadicendo: «Che bell’uccello! Ero tantotriste quando sono uscita e guarda cosa

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mi ha dato! Mamma, guarda che bellescarpe!»

«No! No!» gridò la donna. Saltava suse stessa, con i capelli come fiamme difuoco. «Non ce la faccio più! Sento chesta per finire il mondo! Non ce la facciopiù!»

E corse fuori sull’erba e... bam!L’uccello le fece cadere la macina intesta uccidendola.

Il papà e Marleenchen sentirono ilrumore e corsero a vedere. Dal puntodove era caduta la macina si alzavanofumo e fiamme, poi un alito di vento lidissipò e al loro posto comparve ilfratellino.

Diede una mano al papà e una a

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Marleenchen e furono tutti felici;rientrarono in casa e si sedettero atavola per la cena.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 720, ‘The Juniper Tree’ (Ilginepro).Fonte:: una storia scritta da Philipp OttoRunge.Storie simili: Katharine M. Briggs: ‘The LittleBird’, ‘The Milk-White Doo’, ‘Orange andLemon’, ‘The Rose Tree’ (Folk Tales ofBritain).Per bellezza, orrore e perfezione formale,questa fiaba non ha eguali. Come anche ‘Ilpescatore e sua moglie’ (p. 115), il racconto èopera del pittore Philipp Otto Runge e arrivò aiGrimm su manoscritto in Plattdeutsch, o bassotedesco, che è il dialetto della Pomerania.

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Se la mettiamo a confronto con le molteversioni contenute nelle Folk Tales of Britain(Fiabe popolari inglesi) di Katharine Briggs, èevidente quanto Runge abbia migliorato il filodella narrazione. Le versioni della Briggs sonoscarne e inconsistenti. Questa è un capolavoro.

Il preludio, con la bella evocazione delpassare delle stagioni che va di pari passo conla gravidanza della moglie, serve ad associare ilbambino che cresce nel ventre con la forzarigeneratrice della natura e soprattutto con ilginepro. La storia prende davvero il via con lamorte della mamma ed è costituita dal raccontoraccapricciante della matrigna e del bambino,fino all’apparizione dell’uccello, che sarebbesemplicemente grandguignolesco se non fosseper la cattiveria stranamente intensa che vienemostrata dalla matrigna. Anche i parallelismicon il teatro greco (Atreo che fa mangiare ifigli a Tieste) e con Shakespeare (TitoAndronico che li fa mangiare a Tamora) sono

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interessanti. Le interpretazioni sul padre chemangia i figli sono molteplici: una volta un miostudente suggerì che il padre è inconsciamenteconsapevole del pericolo che il bambino correa causa della matrigna e dunque lo mette in unposto dove possa essere perfettamente alsicuro. Trovo quest’idea particolarmente acuta.

Dopo l’orrore della prima parte della fiaba,tutto si fa luminoso e leggero. All’inizio noncapiamo cosa stia facendo l’uccello, ma lacatena d’oro e le scarpette rosse sono elementipiacevoli e l’orefice che corre fuori casaperdendo una delle pantofole è divertente. Allafine eccoci al mulino e la seconda parte dellastoria finisce con l’uccello che, in manieraimprobabile ma convincente, vola via portandola macina insieme alle scarpette e alla catena.Poi iniziamo a capire.

La parte conclusiva della storia ricorda ilclimax che si trova in ‘Il pescatore e suamoglie’, con la tempesta che cresce di pari

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passo con il senso di colpa e la follia dellamoglie. Stavolta, la tempesta è interiore: ilpapà e Marleenchen provano solo grandepiacere e felicità quando rivedono il bambino,mentre la mamma impazzisce di terrore.

C’è una questione legata all’effettivanarrazione della storia che avvalora la suanatura letteraria. È importante ricordare lasequenza esatta delle fasi della gravidanza delladonna e il numero di garzoni che smettono discalpellare la macina con i singoli versiabbinati e la precisione con cui il terrore dellamadre viene intervallato con il cantodell’uccello e la catena e le scarpette chevengono donate. L’accuratezza della narrazionedi Runge merita fedeltà e con fedeltà ripaga.

Raccontare questa fiaba è un privilegio.

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VENTICINQUE

ROSASPINA

C’erano una volta un re e una regina cheogni giorno si ripetevano a vicenda:«Non sarebbe bello avere dei bambini?»Ma a dispetto del desiderio, dellepreghiere e di tutte le medicine costose edelle diete speciali, non ne arrivavano.

Poi un giorno, mentre la reginafaceva il bagno, una rana uscìdall’acqua, si fermò sulla riva e disse:

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«Il tuo desiderio sarà esaudito. Primache un anno passi, metterai al mondo unabambina».

Le parole della rana si avverarono.Dopo un anno la regina diede alla luceuna bambina che era così bella che il renon riuscì a contenere la gioia e ordinòuna grande festa alla quale invitò nonsolo i parenti reali da tutti i paesi vicini,ma anche amici e persone illustri di ognigenere, e tra queste anche tredici fate. Ilre voleva che fossero ben disposte versosua figlia, ma il problema era che avevasolo dodici piatti d’oro per farlemangiare. Una delle fate avrebbe dovutorestare a casa.

Le celebrazioni andarono avanti per

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un bel po’ e si conclusero con le fate cheportarono regali speciali alla nuovaprincipessa. Una le diede la virtù,un’altra le diede la bellezza, la terza ledonò la salute e così via, e laprincipessa alla fine ebbe tutto ciò chesi poteva desiderare. L’undicesimaaveva appena consegnato il suo regalo(la pazienza) quando si udì un trambustofuori dalla porta. I guardiani cercavanodi trattenere qualcuno, che però riuscìugualmente a entrare spazzandoli via.

Era la tredicesima fata. «Pensavi chenon valesse la pena invitarmi?» disse alre. «Che errore! Eccoti la risposta aquesto insulto: quando avrà quindicianni, la principessa si pungerà il dito sul

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fuso di un arcolaio e morirà». Girò itacchi e volò via.

Tutti rimasero allibiti. Ma ladodicesima fata, che non aveva ancoradato il suo regalo, si fece avanti e disse:«Non posso annullare il sortilegio, peròposso alleggerirlo. La principessa nonmorirà ma dormirà per cento anni».

Il re, volendo proteggere la figlia,comandò di bruciare tutti gli arcolai delregno. La principessa cresceva ed eraevidente che possedeva in abbondanzatutto ciò che le era stato regalato:nessuno aveva mai conosciuto unaragazza più gentile, più bella, piùintelligente e di temperamento più dolce.Era amata da tutti.

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Nel giorno del suo quindicesimocompleanno, il re e la regina erano fuorie la ragazza era sola nel castello.Vagava da una parte all’altra, sbirciandoin questa e quella stanza, nei sotterranei,sul tetto, andava dove voleva e alla finearrivò a una vecchia torre dove non eramai stata prima. Salì su per la polverosascala a chiocciola e in cima trovò unaporticina con una chiave nella serraturaarrugginita.

Incuriosita, girò la chiave e subito laporta si spalancò. Nella stanzetta c’erauna vecchia con un arcolaio, intenta afilare il lino.

«Buongiorno, vecchia signora» dissela principessa. «Cosa fate?»

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«Sto filando» disse la vecchia.Naturalmente la principessa non

aveva mai visto nessuno filare prima diallora. «Che cos’è quella cosina cherimbalza in fondo al telaio?» disse.

La vecchietta si offrì di mostrarlecome si faceva. La principessa afferrò ilfuso e un secondo dopo sentì una punturasul dito e cadde sul letto già pronto perlei, profondamente addormentata.

Quel sonno profondo si propagò pertutto il castello. Il re e la regina, appenatornati, entrarono nel salone e cadderoaddormentati dove si trovavano. Siaddormentarono pure i servitori e isudditi, come un domino, e così i cavallinella scuderia e gli scudieri che li

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custodivano e i piccioni sul tetto e i caninel cortile. Un cane si stava grattando: siaddormentò così, con la zampaposteriore dietro l’orecchio. Le moschesul muro si addormentarono. Al piano disotto in cucina le fiamme sottoall’arrosto di bue si addormentarono.Una goccia di grasso che stava percadere dalla carcassa sfrigolante restòdov’era, immobile. Il cuoco era sulpunto di colpire lo sguattero e la manogli si bloccò ad appena un palmodall’orecchio del ragazzo, il cui visorimase fermo in una smorfia in attesa delcolpo. Fuori il vento smise di soffiare:non si muoveva una foglia. Leincrespature del lago restarono

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com’erano, come fossero state di vetro.In tutto il castello e nelle terre

circostanti l’unica cosa che continuava amuoversi erano i rovi. Ogni annocrescevano un po’ di più e lentamentecrebbero e crebbero fino a raggiungerele mura del castello e poi siarrampicarono sempre più su, anno dopoanno, fino a coprirlo interamente. Non sivedeva più nulla dell’edificio, nemmenola bandiera sul tetto.

Naturalmente la gente si chiedevaperché accadessero quelle cose e dovefossero il re, la regina e la lorobellissima figlia. Ma c’erano personeche erano state ospiti alla festa per lanascita della principessa e si

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ricordavano delle fate, dei regali eanche della maledizione.

«Tutto per via della principessa chesi è addormentata» dicevano. «Deveessere lì dentro. Chi riuscirà a entrareper salvarla la sposerà, vedrete».

Il tempo passava e svariati giovani –principi, soldati, figli di contadini,mendicanti – di tutti i tipi provarono afarsi strada in mezzo ai rovi per trovarela porta del castello. Erano sicuri cheuna volta entrati avrebbero trovato laprincipessa e, svegliandola con unbacio, avrebbero rotto l’incantesimo.

Ma nessuno di loro ci riuscì. I rovierano fittissimi e le spine lunghe eaffilate si infilzavano nei vestiti e nella

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carne di chiunque cercasse di penetrarli.Tutti i giovani si punsero. Quanto piùlottavano tanto più profondamente lespine li infilzavano e non riuscivano adandare avanti né a tornare indietro e nonpotevano liberarsi e morivano tutti tra irovi senza poter fare niente.

Molti, molti anni più tardi, dopo chela storia della principessa era stataquasi del tutto dimenticata, giunse sulposto un giovane principe. Viaggiava inincognito, stava in un’umile locanda nonlontano dal castello e nessuno sapevachi fosse. Un notte sentì un anzianoraccontare la storia vicino al focolare.Era la storia del grande roveto: lì inmezzo c’era un castello, all’interno del

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castello una torre e dentro la torre unastanza dove una bella principessagiaceva addormentata.

«Più di un uomo coraggioso hacercato di attraversare i rovi» diceva ilvecchio, «e nessuno ce l’ha fatta.Avvicinandosi si possono vederescheletri o pezzi di ossa. Ma nessuno havisto la principessa che ancora oggigiace lì addormentata».

«Proverò!» disse il giovane. «La miaspada è abbastanza affilata pervedersela con le spine».

«Non farlo, figliolo!» disse ilvecchio. «Una volta che ti sarai infilatoin quel roveto, non ci sarà forza terrenache potrà tirarti fuori. Smusserai la

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spada su centinaia di spine e poi tiaccorgerai di non aver fatto nemmeno unpasso».

«No» dichiarò il principe. «Lo farò,non sento ragioni. Cominceròdomattina».

Si dà il caso che l’indomani fossel’ultimo giorno dei cento anni.Naturalmente il principe non lo sapeva esi mise in cammino con cuore impavido.Arrivò al grande roveto e non glisembrò per niente come il vecchio gliaveva detto, perché i rovi erano copertidi migliaia e migliaia di fiori rosa, oltreche di spine. Ma si vedevano glischeletri dei tanti giovani avviluppati trai rovi. Una fragranza dolce come le mele

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riempiva l’aria e appena il principe siavvicinò al roveto i rami si fecero daparte per lasciarlo passare,richiudendosi alle sue spalle.

Arrivò nel cortile e vide i piccioniaddormentati, il cane con la zampadietro al collo, le mosche addormentatesul muro, scese in cucina e vide il voltodel ragazzo ancora in una smorfia inattesa del colpo della mano del cuoco,le fiamme immobili nel camino, lagoccia di grasso ancora pronta a caderedal bue arrosto; vagò per le stanze alpiano di sopra e vide i servitoriaddormentati uno vicino all’altro nel belmezzo di ciò che stavano facendo e il ree la regina addormentati sul pavimento

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del salone esattamente dov’erano caduti.Poi si avvicinò alla torre. Si

arrampicò su per la polverosa scala achiocciola, trovò una porticina, girò lamaniglia arrugginita e la porta si aprìsubito. Lì sul letto c’era la più bellaprincipessina che avesse mai visto opotuto immaginare.

Si chinò su di lei, la baciò sullelabbra e Rosaspina aprì gli occhi,sospirò per la sorpresa e sorrise algiovane che si innamorò subito.

Scesero insieme al piano di sotto evidero che tutti si svegliavano attorno aloro. Anche il re e la regina, che siguardarono intorno con occhi spalancativedendo il grande roveto cresciuto tutto

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intorno al castello. I cavalli sisvegliarono, scrollandosi e nitrendo, eanche i piccioni sul tetto e il cane nelcortile, che riprese a grattarsi, il cuococolpì l’orecchio dello sguattero tantoforte da farlo urlare e la goccia digrasso cadde nel fuoco sfrigolando.

E a tempo debito, il principe sposòRosaspina. Le nozze furono celebratecon grande fasto e loro vissero felicifino alla fine dei loro giorni.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 410, ‘Sleeping Beauty’(Rosaspina).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Marie Hassenpflug.

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Storie simili: Giambattista Basile: ‘Sole, Lunae Talia’ (Lo cunto de li cunti); Italo Calvino: ‘Ilsoldato napoletano’ (Fiabe italiane); Jacob eWilhelm Grimm: ‘The Glass Coffin’ (La bara divetro) [Children’s and Household Tales(Fiabe del focolare)]; Charles Perrault: ‘TheSleeping Beauty in the Wood’ (La bellaaddormentata nel bosco) [Perrault’s CompleteFairy Tales (Tutte le fiabe)].Bruno Bettelheim, come ci si può aspettare,interpreta la storia in modo del tutto freudiano.Secondo il suo punto di vista, il sonno dicent’anni che segue un’inaspettata perdita disangue, ‘non è altro che un quieto periodo dicrescita e preparazione da cui la persona sisveglierà matura, pronta per l’unione sessuale’[The Uses of Enchantment, p. 232 (Il mondoincantato: uso, importanza e significatipsicoanalitici delle fiabe)].

Inoltre, non ha senso tentare di prevenire ciòche accadrà a un bambino che sta crescendo. Il

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re prova a distruggere tutti i fusi del regno ‘perevitare il fatidico sanguinamento dellaprincipessa nel momento in cui raggiunge lapubertà, a quindici anni, così come avevaprevisto la fata malvagia. Qualsiasi sia laprecauzione di un padre, la pubertà comincerànel momento in cui la figlia sarà matura’.

L’interpretazione di Bettelheim èconvincente. Tuttavia, che la durevolepopolarità di questa storia sia dovuta alsimbolismo implicito o alla ricchezza dipiacevoli dettagli (il povero piccolo sguatterocostretto ad aspettare cento anni lo schiaffoche il cuoco sta per tirargli), rimane comunqueuna delle fiabe dei Grimm più amate.

E alla principessa servono i suoi cento annie i rovi. A quindici anni non è ancora diventatagrande o, come cantava Louis Jordan: ‘Thatchick’s too young to fry’ (Il pollo è troppogiovane per friggerlo).

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VENTISEI

BIANCANEVE

Un giorno d’inverno in cui i fiocchi dineve cadevano giù dal cielo comepiume, una regina cuciva seduta a unafinestra con una cornice di ebanoscurissimo. Aprì le ante per guardare ilcielo e nel farlo si punse un dito e tregocce di sangue caddero sulla neve deldavanzale. Il rosso e il bianco insiemeerano così belli che la regina disse tra

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sé: «Vorrei avere un bambino biancocome la neve, rosso come il sangue enero come il legno di questa finestra».

Poco tempo dopo mise al mondo unafemminuccia bianca come la neve, rossacome il sangue e nera come l’ebano e lachiamarono Biancaneve. Nata labambina, la regina morì.

Un anno dopo, il re si risposò. Lanuova moglie era una bella donna, masuperba e arrogante, e non sopportavache ci fosse qualcuno più bello di lei.Aveva uno specchio magico e tutte lemattine ci si rimirava e diceva:

«Specchio, specchio che stai appeso almuro,

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chi è la più bella? Tu lo sai di sicuro».

E lo specchio rispondeva:

«Maestà, la più bella siete voi».

E lei era soddisfatta, poiché sapeva chelo specchio diceva sempre la verità.

Ma nel frattempo Biancanevecresceva. A sette anni era bella come ungiorno di primavera e di fatto molto piùdella regina.

Così un giorno, quando la reginachiese allo specchio:

«Specchio, specchio che stai appeso al

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muro,chi è la più bella? Tu lo sai di sicuro»

lo specchio rispose:«Maestà, voi siete sempre bella, è vero,ma Biancaneve lo è mille volte più, nonè un mistero».

Fu un duro colpo per la regina. Lostomaco le si contorceva di invidia e lasua carnagione perfetta ingiallì. Da quelmomento in poi, le bastava guardareBiancaneve per sentire una morsa diastio al cuore. L’invidia e la superbia lecrebbero sempre più nel petto come unamalerba e non ebbe più un attimo dipace.

Alla fine chiamò uno dei cacciatoridel re e gli disse: «Porta la ragazzina nelprofondo della foresta. Non voglio

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vederla mai più. Uccidila e portami isuoi polmoni e il suo fegato per prova».

Il cacciatore eseguì l’ordine. PortòBiancaneve nella foresta, tirò fuori ilcoltello e stava per colpirla al cuorequando la principessina si mise agridare: «Oh, ti prego, buon cacciatore,risparmiami! Fuggirò via nel bosco enon farò più ritorno, lo prometto!»

Era così bella che il cacciatore fumosso a compassione e disse:«Poverina. Corri, fuggi via». ‘Tanto sela mangeranno le bestie feroci’ pensò,ma il fatto di non dover essere lui aucciderla gli tolse un gran peso.

In quel momento ecco arrivare uncucciolo di cinghiale tra i cespugli. Il

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cacciatore lo uccise e ne prese polmonie fegato da portare alla regina comeprova della morte di Biancaneve.Dissero al cuoco di condirli per bene,passarli nella farina e friggerli e poi laregina malvagia se li mangiò. ‘Ecco lafine di Biancaneve’ pensò.

Nel frattempo Biancaneve, rimastasola nella foresta, non sapeva doveandare. Si guardava intorno, ma trafoglie e cespugli non c’era niente che lefosse d’aiuto. Ebbe paura e si mise acorrere, senza badare alle pietre affilate,ai rovi e agli animaletti selvatici in cuiincappava. Corse e corse e solo sul fardella sera si imbatté in una casetta.Bussò, ma in casa non c’era nessuno,

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così decise di entrare a riposarsi.Nella casa era tutto piccolo, ma

pulito e in ordine. C’era una pentola distufato accanto al fuoco e un tavolo conuna tovaglia bianca come la neve, settepiatti e una fetta di pane di fianco aognuno, sette coltellini, forchettine ecucchiaini e sette piccole tazze. Al pianosuperiore c’erano sette lettini, tutti infila, tutti fatti con cura con lenzuolabianche come la neve e vicino a ognilettino un tavolinetto con sopra unpiccolo bicchiere e un piccolospazzolino.

Biancaneve moriva di fame e di sete,allora mangiò un po’ di stufato dallapentola e diede un morso a ogni fetta di

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pane e prese un sorso di vino da ognitazza. Poi, stanchissima, si stese su unodei letti, ma era troppo stretto, ne provòun altro ed era troppo corto. Il settimoera della misura giusta. Disse lepreghiere e un attimo dopo si era giàaddormentata.

A notte, i padroni di casa rientrarono.Erano sette nani che si guadagnavano davivere estraendo metalli preziosi dallamontagna.

Entrarono, accesero le lanterne ecapirono che c’era qualcosa di diversoda quando erano usciti.

«Qualcuno si è seduto sulla miasedia!»

«Qualcuno ha mangiato nel mio

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piatto!»«C’è un morso sulla mia fetta di

pane, guardate!»«Hanno usato il mestolo per mangiare

lo stufato!»«E hanno usato il mio coltello...»«E hanno usato la mia forchetta...»«E hanno bevuto dalla mia tazza!»Si guardarono sgranando gli occhi.

Poi alzarono gli occhi verso il soffitto,in punta di piedi salirono le scale e allavista dei letti sussurrarono:

«Qualcuno ha provato il mio letto!»«Anche il mio...»«Anche il mio...»«Anche il mio...»«Anche il mio...»

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«Anche il mio...»«Oh, guardate!»Il settimo nano aveva trovato

Biancaneve addormentata. Siavvicinarono tutti in punta di piedi e laguardarono con meraviglia. Con lalanterna le illuminarono la facciapoggiata sul cuscino bianco come neve.

«Cielo! Che bella bambina!»«Chi sarà mai?»«Non svegliamola! Dorme

profondamente...»«Che bel faccino!»«Chissà da dove viene?»«Fratelli, è un mistero! Un gran

mistero!»«Torniamo dabbasso. Dobbiamo

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discutere sul da farsi...»Tornarono al piano di sotto in punta

di piedi e si sedettero intorno al tavolo.«Sembra esausta, poverina».«Meglio non svegliarla».«La sveglierà il mattino».«Forse sta scappando da una

strega...»«Sciocco! Le streghe non esistono».«Secondo me è un angelo».«Potrebbe essere, ma è nel mio letto.

E io dove dormo?»Gli altri sei furono d’accordo nel

condividere il letto col settimo, un’oraciascuno. E andarono a dormire.

Quando Biancaneve si svegliò almattino, si spaventò alla vista dei sette

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nani che la guardavano (si erano alzati evestiti di già).

«Non aver paura, signorina!»«Siamo buoni!»«Forse non belli, ma...»«Non ti faremo del male».«Promesso!»«Qui sei al sicuro».«Come ti chiami, cara?»«Mi chiamo Biancaneve» disse lei.Le chiesero da dove veniva e come

aveva trovato la casetta e così via, e leiraccontò che la matrigna aveva cercatodi ucciderla e che il cacciatore l’avevarisparmiata e che poi lei terrorizzata siera messa a correre tra i cespugli e irovi finché non aveva trovato la casetta.

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I nani si ritirarono in un angolo eparlarono a bassa voce, poi tornaronoda lei e dissero: «Se ti occupi dellefaccende di casa...»

«Cioè spazzare e pulire, capito,tutto...»

«E cucinare e fare i letti...»«E fare il bucato...»«E cucire, lavorare a maglia e

rammendarci i calzini...»«Allora puoi restare qui con noi,

cara, e avrai tutto ciò che desideri».«Oh, lo farò di tutto cuore!» disse

Biancaneve.Così si misero d’accordo e

Biancaneve iniziò a occuparsi dellefaccende. Ogni mattina i nani andavano

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in montagna a scavare in cerca di oro,rame e bronzo, e quando tornavano acasa la cena era pronta ed era tuttopulito e in ordine.

Durante il giorno, ovviamente,Biancaneve rimaneva da sola e i nanil’avevano messa in guardia: «Staiattenta. La matrigna ti verrà a cercarequando scoprirà che sei viva. Non farentrare nessuno!»

La regina, una volta mangiati ipolmoni e il fegato credendoli diBiancaneve, tornò a guardarsi allospecchio senza paura e disse:

«Specchio, specchio che stai appeso almuro,chi è la più bella? Tu lo sai di sicuro».

Ma il colpo fu terribile quando si sentì

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rispondere:«Maestà, voi siete ancora bella, è vero,ma lontano lontano, nella forestadistantevive coi nani che la trovaron dormienteBiancaneve, è lei la più bella e non è unmistero»

La regina per l’orrore fece un saltoall’indietro, perché sapeva che lospecchio non poteva mentire e capì cheil cacciatore l’aveva ingannata.Biancaneve era ancora viva! Aveva soloun pensiero in testa: come ucciderla? Senon era lei la donna più bella, l’invidial’avrebbe tormentata giorno e notte.

Alla fine le venne in mente un piano.Si truccò attentamente e si travestì davecchia venditrice ambulante e il

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travestimento le riuscì così bene chenessuno l’avrebbe riconosciuta. Si misein cammino verso la casa dei sette nani,aspettò che fossero al lavoro sotto lamontagna e poi bussò.

Biancaneve stava rifacendo i letti.Sentì bussare e aprì una finestra dalpiano di sopra. «Buongiorno» gridò.«Cosa vendete?»

«Lacci e nastri stupendi» rispose laregina. «Vuoi vedere la mia merce,cara? Guarda che belli!»

E sollevò dei lacci di seta ricamata.A Biancaneve piacevano moltissimo epoi la vecchia aveva una faccia onesta,si poteva farla entrare.

Corse dabbasso, tolse il chiavistello

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e aprì la porta per vedere i lacci.«Provali!» disse la venditrice.

«Bambina mia, devi prenderti cura di te.Vieni qui, tesoro, lascia che ti chiuda ilbustino con questi bei lacci».

Biancaneve se ne stava lì senzasospettare nulla mentre la donna leallacciava il bustino e stringeva estringeva così forte da toglierle ilrespiro. La povera ragazza batté lepalpebre, mosse le labbra e poi cadde aterra svenuta.

«Non sei tanto bella da morta»borbottò la vecchia e si affrettò adandarsene.

Era sera e poco dopo rientrarono inani. Si spaventarono a morte quando

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videro Biancaneve a terra. Lasollevarono, capirono la causa etagliarono i lacci perché tornasse arespirare. Poco alla volta si riprese eraccontò loro quel che era successo.

«Be’, lo sai chi era quella venditrice,no?»

«La regina malvagia!»«Proprio lei e nessun altro!»«Non farla più entrare, mai».«Fa’ attenzione, Biancaneve! Fa’

attenzione».«Non dimenticarti di stare in

guardia!»«Non lasciar entrare nessuno!»Nel frattempo la regina correva verso

casa. Non appena al sicuro nel suo

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boudoir, chiese allo specchio:«Specchio, specchio che stai appeso almuro,chi è la più bella? Tu lo sai di sicuro».

E lo specchio rispose:«Maestà, voi siete ancora bella, è vero,ma i nani i lacci hanno tagliatocosì Biancaneve ha respiratola più bella è sempre lei, non è unmistero».

A sentire queste parole, ebbe uno scattodi disgusto e il cuore pompò il sanguecosì forte che gli occhi quasi lescoppiarono. «Ancora viva! Ancoraviva! Vedremo!» disse. «Non lo saràancora per molto, garantito!»

La regina, che conosceva l’arte dellastregoneria, spremette erbe rarepronunciando una formula magica e ci

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intinse un bel pettine. Era una pozionemortale. Con qualche altra magia, sitrasformò completamente per nonsomigliare più alla vecchia di prima e simise in cammino verso la casa dei nani.

Bussò alla porta gridando: «Ninnoli,bei ninnoli! Pettini, spille e specchietti!Gingilli per belle ragazze!»

Biancaneve guardò fuori dallafinestra del piano di sopra e rispose:«Non posso farvi entrare. Non mi èpermesso. Andate via che è meglio».

«Va bene, tesoro caro» disse lavecchia, «non metterò piede oltre lasoglia. Sono certa che nessuno te nevorrà se dai un’occhiata. Guarda che belpettine!»

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Era davvero un bel pettine eBiancaneve pensò che non c’era nientedi male a dare un’occhiata. Corse giù eaprì la porta.

«Oh, che bei capelli!» disse lavecchia. «Così neri, folti e lucenti! Mache nodi: quand’è stata l’ultima voltache li hai spazzolati, tesoro caro?Nessuno si prende cura di te qui?»

Mentre parlava passava le dita tra icapelli di Biancaneve.

«Lasciami sciogliere un paio di nodicon questo bel pettine, che ne dici? Tipiacerà, vieni, cara...»

Biancaneve chinò la testa obbedientee la vecchia affondò il pettine nel cuoiocapelluto con tale brutalità che la povera

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ragazza cadde a terra senza nemmenogridare.

«L’ho fatto per te, signorina! Vediamocome sarai bella quando inizierai adecomporti!» disse la regina e si affrettòad andarsene prima che rientrassero inani.

Per fortuna era quasi sera e non moltodopo che la regina malvagia se n’eraandata lasciando Biancaneve a terra, inani rientrarono e la trovarono.

«Biancaneve! Cos’è successo?»«Respira?»«Di nuovo quella regina malvagia...»«Cos’è quella roba tra i capelli?»«Toglilo, veloce!»«Attenti, potrebbe essere

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avvelenato!»«Piano... piano...»Misero un fazzoletto intorno al

pettine e lo tirarono via delicatamente equasi all’istante Biancaneve sospirò eaprì gli occhi.

«Oh, nani, che stupida che sono! Eradiversa dall’altra vecchia e ho pensatoche non c’era niente di male se...»

Le ribadirono che se avesse datoascolto ai loro consigli e se fosse stataall’erta non le sarebbe accaduto nulla.Non doveva aprire la porta a nessuno.

La regina tornò di corsa a casa egettò via il travestimento prima dimettersi davanti allo specchio magico.Disse:

«Specchio, specchio che stai appeso al

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muro,chi è la più bella? Tu lo sai di sicuro».

E lo specchio rispose:«Maestà, voi siete ancora bella, è vero,ma i nani tornando la trovaronoil pettine stregato dai capelli lelevarono,Biancaneve è la più bella e non è unmistero».

La regina barcollò e dovette appoggiarsial muro. Il viso diventò bianco a chiazzegialle e verdi. Poi si erse in tutta la suastatura, mandando scintille dagli occhi.«Biancaneve deve morire!» urlò.

Si recò nella più segreta delle suestanze, chiudendosi la porta alle spalle.Lì non poteva entrare nessuno, nemmeno

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i servi. Con un libro di magia e tantepiccole bottigliette scure, preparò unamela avvelenata. Era bianca da un lato erossa dall’altro e chiunque vedendolaavrebbe desiderato morderla, ma chi neavesse mangiato anche soltanto unboccone piccolissimo sarebbe mortoall’istante.

Poi la regina si travestì per la terzavolta, si mise la mela in tasca, andò allacasa dei nani e bussò.

Biancaneve guardò dalla finestra.«Non posso lasciare entrare nessuno.Non mi è permesso».

«Giusto, mia cara» disse la regina,che aveva l’aspetto di una vecchiacontadina. «Mi chiedevo solo se vuoi

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una mela. Quest’anno ne ho raccolte unmucchio e non so che farmene».

«No, non posso prendere niente»disse Biancaneve.

«Oh, che peccato» disse la vecchia.«Sono deliziose, per giunta. Guarda, lamordo io, se non ti fidi».

Aveva preparato la mela con astuziae solo il lato rosso era avvelenato.Diede un morso alla parte bianca e poiporse il frutto a Biancaneve.

La mela sembrava così appetitosache la poverina non riuscì a resistere.Allungò la mano, la prese e diede un belmorso sulla parte rossa. Non avevanemmeno finito di ingoiare che cadde aterra morta.

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La regina malvagia si sporse dentrola finestra a guardare e, vedendola sulpavimento, scoppiò in una forte risata.«Bianca come la neve, rossa come ilsangue e nera come l’ebano! E ora mortastecchita! Stavolta quelle scimmiette nonriusciranno a risvegliarti».

Tornata al suo boudoir chiese allospecchio:

«Specchio, specchio che stai appeso almuro,chi è la più bella? Tu lo sai di sicuro».

E lo specchio rispose:«Maestà, la più bella siete voi».

La regina tirò un profondo sospiro disoddisfazione. E se esiste riposo per uncuore pieno di invidia, lei in quelmomento l’aveva ottenuto.

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Quando i nani tornarono a casa quellasera, trovarono Biancaneve sulpavimento, rigida e immobile. Nonrespirava, aveva gli occhi chiusi e nonsi muoveva. Era morta. Si guardaronointorno per vedere cosa l’aveva uccisa,ma non trovarono nulla: le allentarono ilacci del bustino, cercarono un pettineavvelenato tra i suoi capelli, lascaldarono vicino al fuoco, le miserouna goccia di brandy sulle labbra, laappoggiarono sul letto e la misero asedere su una sedia, ma invano.

Capirono che era morta, allora laadagiarono su una lettiga e si sedetteroaccanto a lei e piansero per tre giorni.Volevano seppellirla, ma Biancaneve

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era ancora fresca e bella, come se stessesolo dormendo, e loro non riuscivano adaccettare l’idea di metterla sotto la neraterra.

Così le fecero una bara di vetro sucui scrissero a lettere d’oro PRINCIPESSABIANCANEVE e la portarono in cima allamontagna. Da quel momento ci fusempre uno dei nani al suo fianco.Fecero dei turni e anche gli uccellivennero a piangerla: prima un gufo, poiun corvo e infine una colomba.

E restò tutto così per lungo, lungotempo. Il corpo non si decomponeva,Biancaneve continuava a essere biancacome la neve, rossa come il sangue enera come l’ebano.

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Un giorno un principe che andava acaccia nella foresta giunse alla casa deinani e chiese riparo per la notte. Lamattina dopo vide un luccichio sullacima della montagna e andò a vedere diche si trattava. Trovò la bara di vetro,lesse l’iscrizione a caratteri d’oro evide il corpo di Biancaneve.

Disse ai nani: «Lasciate che mi portivia la bara. Vi pagherò quel che volete».

«Il denaro non ci interessa» dissero.«Non venderemmo quella bara per tuttol’oro al mondo».

«Allora regalatemela» li pregò. «Misono innamorato della principessaBiancaneve e non posso vivere senzavederla. La tratterò con tutto l’onore e il

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rispetto che si devono a una principessaviva».

I nani si ritirarono a confabulare. Poitornarono e dissero che il principe liaveva mossi a compassione ed eranosicuri che avrebbe trattato bene la loroBiancaneve e dunque poteva portarselanel suo regno.

Il principe li ringraziò e disse aiservi di sollevare la bara facendo moltaattenzione e portarla via con loro. Mamentre scendevano dalla montagna unservo fece un passo falso e inciampò,scuotendo la bara; quello scossone feceuscire il pezzo di mela che era rimastoincastrato nella gola di Biancaneve.

E lei lentamente si svegliò, aprì il

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coperchio della bara e si mise a sedere,di nuovo viva. «Santo cielo, dovesono?» disse.

Il principe rispose con gioia: «Seicon me!» Le raccontò tutto quello cheera successo e poi disse: «Ti amerò piùdi ogni altra cosa al mondo. Vieni conme al castello di mio padre e diventamia moglie».

Biancaneve se ne innamorò subito efurono organizzate nozze magnifiche.

Tra gli invitati alla cerimonia c’era lamatrigna di Biancaneve. Avevaindossato il suo più bel vestito, si eramessa davanti allo specchio e avevadetto:

«Specchio, specchio che stai appeso almuro,

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chi è la più bella? Tu lo sai di sicuro».E lo specchio aveva risposto:

«Maestà, voi siete sempre bella, è vero,ma Biancaneve mille volte più, non è unmistero».

La regina era rimasta senza fiatodall’orrore. Era talmente spaventata eterrorizzata che non sapeva cosa fare.Non voleva andare al matrimonio manon voleva nemmeno mancare e a dire ilvero sentiva di dovere andare a vederela giovane regina, così alla fine ci andò.Quando vide Biancaneve la riconobbesubito e rimase sconvolta. Prese atremare.

Ma un paio di scarpe di ferro eranogià state messe nel fuoco. Appena furonoincandescenti, le presero con delle

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tenaglie per metterle sul pavimento. E laregina malvagia fu costretta a indossarlee a danzare finché non cadde a terramorta.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 709, ‘Snow White’(Biancaneve).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmdalla famiglia Hassenpflug.Storie simili: Katharine M. Briggs: ‘Snow-White’ (Folk Tales of Britain); Italo Calvino:‘Bella Venezia’, ‘Giricoccola’ (Fiabe italiane).L’attrazione gravitazionale di Biancaneve e isette nani di Walt Disney avrà sempreinfluenza su questa fiaba, a meno che ilnarratore non decida di ignorarla, cosa che inverità non è così difficile, scegliendo la guidadei Grimm.

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Disney comunque è stato un grandenarratore ed è interessante vedere come gliartisti dei suoi studi, lavorando sotto la suadirezione, si siano focalizzati non solo su unaspetto presente nella fiaba dei Grimm (lamalvagità della matrigna/regina), ma anche suun altro che non c’è (la commedia dei nani, iloro nomi e le loro personalità). ‘Lavora suituoi punti forti’ è un buon motto in narrativa. Ilgruppo Disney riusciva molto bene nelletrovate comiche visive e a usare il fascinofacilmente leggibile dei bambini, che si incarnanegli animali della foresta (occhioni, naturesemplici e fiduciose, corpi arrotondati) e neinani, che sono bambini con la barba.

E io sono del tutto favorevole a rubare tuttociò che funziona. Tuttavia, non è detto che ciòche funziona con un mezzo di comunicazionefunzioni anche con un altro, e credo checaratterizzare i nani uno per uno non funzioniaffatto fuori dallo schermo. Nei Grimm sono

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un’altra cosa: una banda di spiritelli della terra,benevolenti e senza nome. Sono perfettamentein grado di occuparsi di se stessi, a differenzadei bambini con la barba di Disney, che hannobisogno di una Biancaneve ‘mamma perfetta’che cucini e riordini per loro.

Sia in Disney che nei Grimm, i nanipiangono Biancaneve, ma non sono in gradoriportarla in vita. Ci si riesce solo grazie a unfelice incidente che dipende da un principe.

Nella prima edizione dei Grimm del 1812,la regina malvagia era la mamma di Biancaneve.Si trasformò in matrigna solo nell’edizione del1819, con la mamma di Biancaneve che morivadi parto. E il padre? Vago, debole e soloabbozzato, come tanti altri personaggi maschilinei Grimm, viene semplicemente annientatodal potere della mostruosa regina.

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VENTISETTE

TREMOTINO

C’era una volta un povero mugnaio cheaveva una bella figlia. Un giorno sitrovò per caso a conversare con il re eper impressionarlo gli disse: «Sapete,maestà, mia figlia sa filare la paglia etrasformarla in oro».

Il re disse al mugnaio: «Mi piacequesta storia. Se tua figlia è brava comedici, portala al castello domani e

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vedremo cosa sa fare».Quando gli portarono la ragazza, la

accompagnò in una stanza piena dipaglia fino al soffitto. Le diede unfilarello e diverse spolette e disse:«Ecco qui. Lavora giorno e notte e seentro domani mattina non avraitrasformato in oro tutta questa paglia,sarai condannata a morte».

Poi serrò la porta e la ragazza rimasesola.

La poverina se ne stava seduta lì enon sapeva cosa fare. Ovviamente nonera in grado di filare la paglia etrasformarla in oro e più stava lì piùaveva paura e alla fine iniziò a piangere.

All’improvviso si aprì la porta ed

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entrò un omino. «Buongiorno, signorinaDel Mulino, che vai piagnucolando?»

«Dovrei filare questa paglia etrasformarla in oro e non so come, ma senon lo faccio mi uccideranno!»

«Oh. Be’, che cosa mi dai se lofaccio io al posto tuo?»

«La mia collana!»«Fammela vedere».La guardò da vicino e annuì, se la

mise in tasca e si sedette al filarello.Lavorava talmente veloce che non sivedevano nemmeno le mani. Uir! uir!uir! La ruota girava e la prima spolettaera già piena. Ne mise un’altra e uir!uir! uir! piena anche quella. Andò avanticosì fino al mattino e a quel punto tutta

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la paglia era stata filata e le spoletteerano piene d’oro. Poi l’omino se neandò senza dire altro.

All’alba arrivò il re e aprì la porta.Fu soddisfatto di vedere tutto quell’oroe anche un po’ sorpreso dal fatto che lafiglia del mugnaio ci fosse riuscita. Manon gli bastava, così la accompagnò inun’altra stanza, ancora più grande, pienadi paglia come la prima. «Devi filaretutto in una notte o perderai la vita!»disse, e serrò la porta.

La poverina ricominciò a piangere ela porta tornò ad aprirsi ed eccoarrivare l’omino.

«Che mi dai se filo tutta la paglia inoro al posto tuo?»

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«L’anello che ho al dito!»«Fammelo vedere».Lo guardò socchiudendo gli occhi e

se lo mise in tasca. Poi iniziò a filare.La ruota andò avanti facendo uir! uir!uir! per tutta la notte e al mattino tutta lapaglia era trasformata in oro.

Il re fu ancora più contento, maquell’oro non gli bastava. Accompagnòla figlia del mugnaio in una stanzaancora più grande piena di paglia comele altre e disse: «Trasforma tutto in oro ediventerai mia moglie». Pensava: ‘Non èche la figlia del mugnaio, ma in tutto ilmondo non si trova una moglie più riccadi lei’.

Quando la ragazza fu sola, l’omino

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aprì la porta per la terza volta. «Che midai?»

«Non ho più niente!»«Allora promettimi che quando

diventerai regina mi darai il tuoprimogenito».

‘Be’, chissà cosa accadrà in futuro?’pensò lei, e promise all’omino quel chele aveva chiesto.

Lui prese a lavorare e al mattino tuttala paglia era stata trasformata in oro.Quando il re vide ciò, mantenne lapromessa e la bella figlia del mugnaiodiventò regina.

Un anno dopo mise al mondo un belbimbo. L’omino le era uscito di mente,ma tutt’a un tratto lui si ripresentò.

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«Ora mi devi ciò che hai promesso»disse lui.

«Oh, no, no, per favore, tutto ma nonquesto! Ti darò tutte le ricchezze delregno».

«Cosa me ne faccio, se so filare lapaglia e trasformarla in oro? Voglio unbambino vivo, ecco cosa voglio».

La regina si mise a piangere, ma cosìtanto che l’omino ne ebbe compassione.

«Va bene, ti do tre giorni» disse. «Sein tre giorni scopri come mi chiamo,puoi tenerti il bambino».

La regina trascorse la notte a pensarea tutti i nomi che aveva udito nella suavita. Mandò un messaggero in città ainformarsi su tutti i nomi insoliti e li

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trascrisse. Alla comparsa dell’omino,cominciò: «Gaspare?»

«Non è il mio nome».«Melchiorre?»«Non è il mio nome».«Baldassarre?»«Non è il mio nome».Disse tutti i nomi che il messaggero

le aveva portato e ogni volta l’ominorispose: «Non è il mio nome».

Il secondo giorno mandò unmessaggero in campagna. Forse c’eranodei nomi strani da quelle parti, pensò, einfatti c’erano. L’omino ricomparve, elei provò: «Scoppiasottaceti?»

«Non è il mio nome».«Fazzolettumidiccio?»

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«Non è il mio nome».«Senapimpiastro?»Ma lui continuava a rispondere:

«Non è il mio nome».La regina iniziava a disperare. Il

terzo giorno, il messaggero tornò conuna strana storia.

«Non ho trovato altri nomi comequelli di ieri, maestà, ma vicino allacima del monte, dove la foresta è piùfitta, ho visto una casetta. Lì davantiardeva un fuoco e un omino – avrestedovuto vederlo, era assurdo – cidanzava intorno, saltellando su unagamba e cantando:

‘Un altro giorno deve passare,i quattro elementi voglio invocare,poi sarà mio il reale bambino

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questo è il mio nome: io sonTremotino!’

Be’, immaginatevi la soddisfazionedella regina nel sentire queste parole.

L’omino tornò strofinandosi le mani esaltando di gioia e disse: «Allora,signora, qual è il mio nome? Eh? Eh?»

«Tizio?»«No, non è il mio nome».«Caio?»«No, non è il mio nome».«Vediamo... Sempronio?»«No, non è il mio nome».«Be’, allora potrebbe essere forse...

Tremotino?»«Te l’ha detto il Diavolo! Te l’ha

detto il Diavolo!» strillò l’omino e dallarabbia pestò il piede destro così forte

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che sprofondò nella terra fino allacintola. Poi afferrò il piede sinistro conentrambe le mani e si strappò in due dasolo.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 500, ‘The Name of theSupernatural Helper’ (Tremotino).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Dortchen Wild.Storie simili: Katharine M. Briggs: ‘Duffy andthe Devil’, ‘Peerifool’, ‘Titty Tod’, ‘Tom TitTot’ (Tom Tit Tot) (Fiabe popolari inglesi),‘Whuppity Stoorie’ (Folk Tales of Britain).‘Tremotino’ non può mancare in una selezionedai Grimm che voglia essere completa. Ifratelli modificarono la fiaba dopo la primaedizione del 1812, puntando a una maggioreelaborazione: per esempio nella prima edizione

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Tremotino si limita a correre via arrabbiatoquando il suo nome viene scoperto invece ditagliarsi in due nell’ingegnosa maniera quidescritta, che viene dall’edizione del 1819. Lestorie con struttura ripetitiva possono portare aun discreto numero di elaborazioni.

La filatura era un’occupazione domestica digrande importanza economica prima che larivoluzione industriale mettesse fine a quelgenere di sussistenza. Una moglie in grado difilare bene era di grande valore, anche(quantomeno in una storia) per un re.Sopravvivono locuzioni come ‘perdere il filo’,‘trama’, ‘tessuto narrativo’, nonostante il nessosi sia ormai perso.

La fiaba inglese ‘Tom Tit Tot’ (da Fiabepopolari inglesi), con la sua eroina avida,sudicia e sexy, è a mio avviso una versionepersino migliore di questa fiaba.

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VENTOTTO

L’UCCELLO D’ORO

Nei tempi antichi c’era un re che avevaun bel giardino dietro al palazzo e inquesto giardino c’era un albero cheproduceva mele d’oro. Ogni anno,appena le mele erano mature, il re lefaceva contare e numerare, ma una voltaaccadde che all’indomani della conta siscoprì che ne mancava una. Ilcapogiardiniere lo riferì al re, che

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ordinò di fare la guardia all’albero ogninotte.

Era un compito importante, e lui loaffidò ai tre figli. La prima notte inviò ilmaggiore ma il principe non riuscì arimanere sveglio, a mezzanotte siaddormentò profondamente e la mattinamancava un’altra mela.

La notte successiva mandò il secondofiglio che non seppe fare di meglio.Quando l’orologio batté i dodicirintocchi, gli occhi gli si erano giàchiusi e al mattino un’altra mela nonc’era più.

Poi fu il turno del terzo figlio. Il renon si fidava del tutto di lui ed erariluttante a lasciargli fare la guardia, ma

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il giovane lo persuase e alla fine ilpadre acconsentì. Come i fratelli, ancheil terzo figlio si stese sotto l’albero e sipreparò a una lunga guardia, deciso aresistere al sonno.

Appena l’orologio suonò lamezzanotte, ci fu un fruscio tra le fogliesopra di lui e un bellissimo uccellod’oro volò a poggiarsi su un ramo. Eracosì lucente che il giardino sembravailluminato da mille luci. Il giovaneprincipe osservò attentamente,prendendo la mira con arco e freccia epoi, appena l’uccello si mise a beccareuna mela, scoccò una freccia in mezzo airami. L’uccello volò subito via, ma unadelle sue piume dorate cadde nell’erba.

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Al mattino il principe la portò al re espiegò quello che era successo. Il reconvocò una riunione del consiglioprivato, tutti esaminarono la piuma edecretarono che una piuma come quellavaleva più del regno stesso.

«Be’, se è così preziosa» disse il re,«non ci si può aspettare che io miaccontenti di una sola piuma. Vogliol’uccello intero. E lo avrò, vedrete!»

Così il figlio maggiore partì in cercadell’uccello, convinto di essere cosìbravo da trovarlo e portarlo al castello.Camminava da poco quando vide unavolpe seduta sul margine della forestache lo guardava. Il principe alzò il fucilee prese la mira ma la volpe gridò: «Non

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sparate! Vi darò un consiglio. Nonsparate! State cercando l’uccello d’oro,non è vero? Bene, se continuate suquesta strada arriverete a un villaggiocon due locande, una su ciascun latodella strada. Ne troverete una benilluminata dove c’è gente che ride ecanta, ma non andateci in nessun caso:andate nell’altra, anche se non vi piacel’aspetto».

Il principe pensò: ‘E sarebbe un buonconsiglio? Come può uno stupidoanimale del genere darmi un consiglio?’e premette il grilletto. Ma la volpe eravelocissima e in un momento scappò viatra gli alberi scuri con la coda tesa. Ilprincipe andò per la sua strada e sul far

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della sera arrivò al villaggio, che eraproprio come l’aveva descritto la volpe.C’erano due locande, una ben illuminatadove tutti facevano baldoria, l’altratriste e buia.

‘Be’, sarei un pazzo se alloggiassi inquel miserabile tugurio’ pensò e sidiresse verso il posto più allegro, se laspassò e si scordò dell’uccello d’oro, disuo padre e di quel che di buono sapeva.

Passato un po’ di tempo, dato che ilfiglio maggiore non tornava, ilsecondogenito si recò a sua volta acercare l’uccello d’oro. Anche luiincontrò la volpe, ascoltò il suoconsiglio, non se ne curò e raggiunse ledue locande. Il fratello lo chiamò e lui

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non poté resistere: entrò a fare baldoria,dimenticando tutto per lasciarsi andareai piaceri.

Altro tempo passò e il principe piùgiovane chiese di andare a tentare lafortuna. Ma il padre la pensavadiversamente. «È inutile» disse al primoministro. «Ha ancora meno possibilitàdegli altri fratelli di trovare l’uccellod’oro. E se incontrasse qualche pericolonon saprebbe come badare a se stesso.Francamente, non credo che sia del tuttoa posto, quel ragazzo».

Tuttavia il principe insisteva e allafine il re acconsentì. Il giovane si misein cammino come i suoi fratelli e trovòla volpe seduta nello stesso punto a

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offrire lo stesso consiglio. Il principeera un ragazzo di carattere buono edisse: «Grazie, piccola volpe. Nonpreoccuparti, non ti farò del male».

«Non ve ne pentirete» disse la volpe.«Ora, se vi sedete sulla mia schiena, viporterò al villaggio in un battibaleno».

Il principe montò in groppa e lavolpe si mise a correre su per la collinae giù per la valle così veloce che ilvento gli fischiava tra i capelli. Quandoarrivarono al villaggio, il principe seguìil consiglio della volpe e restò nellasquallida locanda dove trascorse unanotte tranquilla e confortevole. Il giornodopo uscì in strada e trovò la volpe adaspettarlo.

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«Dal momento che siete stato tantoassennato da ascoltare il mio consiglio»disse la volpe, «vi aiuterò nellacontinuazione del viaggio. Ora andiamoin un castello davanti al quale c’èun’intera truppa di soldati. Non curatevidi loro perché saranno tutti stesi a terraa dormire e russare. Andate dritto inmezzo a loro ed entrate nel castello.Attraversate tutte le stanze e nell’ultimatroverete l’uccello d’oro. Sarà in unagabbia di legno. Vicino ci sarà ancheuna gabbia d’oro ma ignoratela: è soloun ornamento. Ricordate: qualunquecosa facciate, non tirate fuori l’uccellodalla sua semplice gabbia per metterlonell’altra. Se lo farete per voi saranno

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guai». Detto questo, la volpe allungò dinuovo la coda e il giovane principe le sisedette in groppa e se ne andaronoveloci come prima.

Quando raggiunsero il palazzo, lavolpe restò fuori e il principe entròtrovando tutto come la volpe avevadetto. Attraversò tutte le stanze enell’ultima c’era l’uccello d’oro nellasua gabbia di legno con la gabbia d’oroa fianco. C’erano anche le tre meled’oro, poggiate sul pavimento. Lagabbia di legno sembrava così brutta equella d’oro così bella che al principeparve ingiusto, e nonostante quello chegli aveva detto la volpe tolse l’uccellodalla gabbia di legno e lo mise in quella

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d’oro.Fatto ciò, l’uccello emise un grido

lacerante, i soldati fuori si svegliaronodi colpo e si precipitarono dentro,fecero prigioniero il giovane principe elo chiusero nelle segrete.

La mattina dopo lo portarono davantialla corte. Ammise tutto e il giudice locondannò a morte. Tuttavia il re di quelpaese trovava simpatico il giovaneprincipe e disse che lo avrebbe graziatoa una condizione: doveva portargli uncavallo d’oro che correva più velocedel vento. Se lo avesse fatto, la sentenzasarebbe stata annullata e lui avrebbericevuto l’uccello d’oro comericompensa.

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Il principe partì ma senza moltasperanza. In realtà non sapeva dovetrovare il cavallo e come iniziare acercarlo, ed ebbe pena di se stesso. Maappena mise piede in strada vide ancorauna volta la sua amica volpe.

«Che vi avevo detto?» disse la volpe.«Questo guaio dipende dal fatto che nonmi avete dato ascolto. Bene, nonimporta, adesso ci sono qua io, che vidirò come trovare il cavallo d’oro.Venite con me e vi porterò in uncastello: nella stalla si trova il cavallo.Ci sono diversi stallieri ma sono tuttiprofondamente addormentati, dunquepotrete portare il cavallo fuori senzaproblemi. Ma ricordate, mettetegli la

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vecchia sella di cuoio e non quellad’oro che troverete lì. Altrimentisaranno guai».

La volpe allungò la coda, il principele salì in groppa e partirono, così velociche il vento gli fischiava tra i capelli.Raggiunsero il castello dove tutto eracome aveva detto la volpe. Il principeentrò nella stalla e trovò il cavallod’oro, così bello da doversi riparare gliocchi, e mentre si guardava in giro incerca della sella, pensò che era ridicolomettergli quella di cuoio malconcioquando ce n’era una d’oro così bella inattesa di essere usata.

Così lo sellò con quella d’oro e ilcavallo nitrì così forte che gli stallieri si

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svegliarono, presero il principe e locondannarono a morte. Anche il re diquel castello gli risparmiò la vita:stavolta la condizione era riportareindietro la principessa d’oro dalcastello d’oro.

Il principe uscì ancora una volta conil cuore pesante e una volta ancoraincontrò la volpe.

«Siete un uomo difficile da aiutare»disse la volpe. «Dovrei lasciarvicontinuare da solo ma mi dispiace pervoi. Il sentiero su cui ci troviamoconduce direttamente al castello d’oro.Ci arriveremo di sera e quando saràbuio tutto sarà calmo e la principessaandrà a farsi un bagno. Quello che

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dovete fare appena la vedete è correre abaciarla. A quel punto lei vi seguirà epotrete portarla ovunque. Ma non dovetepermetterle di dire addio ai genitori. Selo farete, finirà male».

La volpe allungò la coda, il principesalì sulla groppa e partirono, il ventoche fischiava tra i capelli. Prestogiunsero al castello d’oro, dove tutto eracome la volpe aveva detto. Il principestette nascosto fino a mezzanotte ementre tutti dormivano la principessaandò a farsi il bagno. Il principe corse abaciarla e lei gli disse che sarebbeandata volentieri anche in capo almondo con lui, ma prima voleva direaddio alla madre e al padre. Lo pregò,

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lo implorò e pianse. All’inizio lui fuirremovibile, ma lei era così bella ecosì angosciata che alla fine il principesi arrese.

Naturalmente, non appena laprincipessa si avvicinò al letto reale, ilre si svegliò. E si svegliarono tutti nelpalazzo. Il principe venne arrestato egettato in prigione e il giorno dopo fuportato davanti al re.

«La tua vita non vale niente,giovanotto» disse il re. «Dovreicondannarti a morte subito, ma c’è uncompito che necessita di essere portatoa termine e se ci riuscirai avrai salva lavita. Fuori dalla mia finestra c’è unamontagna che ostruisce la vista. Portala

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via entro sette giorni e la principessasarà tua. Altrimenti ti farò tagliare latesta».

Gli diedero una pala e si mise subitoal lavoro ma passati sei giorni, fece unpasso indietro per guardare quello cheaveva fatto ed ebbe un colpo al cuore.Non era cambiato niente.

Tuttavia, continuò a spalare per tuttoil settimo giorno fino a sera. Alloraapparve di nuovo la volpe.

«Non so perché mi preoccupo» disse.«Non meritate alcun aiuto ma ho undebole per voi. Andate a letto e iosposterò la montagna».

La mattina seguente, quando ilprincipe si svegliò e guardò fuori dalla

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finestra vide che la montagna erasparita. Pieno di gioia, si precipitò dalre. «Vostra maestà, l’ho fatto. Lamontagna non c’è più!».

Il re guardò fuori dalla finestra e nonpoté negarlo: la montagna era sparita.«Molto bene. Che mi piaccia o no, devomantenere la parola. Puoi prendere miafiglia».

Così il giovane principe e laprincipessa d’oro partirono insieme epresto la fedele volpe li raggiunse.

«Avete avuto il migliore di tutti ipremi» disse la volpe, «ma laprincipessa d’oro ha bisogno delcavallo d’oro».

«Come faccio ad averlo?» disse il

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principe.«Ve lo dico io e ascoltatemi questa

volta» disse la volpe. «Per prima cosadovete portare la principessa dal re chevi mandò a cercarla. Ci saranno grandicelebrazioni e vi daranno volentieri ilcavallo. Quando ve lo porteranno,dovrete montarlo subito e poi stringerela mano a tutti e dire addio. Assicuratevidi stringere la mano della principessad’oro per ultima e quando ce l’avretenella vostra mano, tiratela su in sella egaloppate subito via. Nessuno riuscirà aprendervi perché il cavallo va piùveloce del vento».

Tutto andò come la volpe avevadetto, le celebrazioni, il dono del

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cavallo, la stretta di mano, la fuga. Lavolpe li seguì e quando alla finerallentarono disse: «Avete fatto come viavevo detto, bene. Adesso vi aiuterò aottenere l’uccello d’oro. Quando saretevicini al castello dove si trova, lasciatescendere la principessa dal cavallo. Miprenderò cura io di lei mentre voi fate ilresto. Andate nel cortile a cavallo e tuttigioiranno nel vederlo e vi porterannol’uccello d’oro. Quando la gabbia sarànelle vostre mani, galoppate come ilvento e tornate dalla principessa».

Il piano funzionò. Ora il principeaveva tutti i tesori che voleva ed erapronto per tornare a casa, ma la volpedisse: «Prima di andare, mi piacerebbe

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avere una ricompensa per tutto l’aiutoche vi ho dato».

«Certo!» disse il principe. «Cosa tipiacerebbe?»

«Quando saremo nella foresta, vorreiche voi mi sparaste e mi tagliaste latesta e le zampe».

«Sarebbe una strana forma digratitudine» disse il principe. «Nonposso farlo».

«Be’, se non lo farete, dovròandarmene via. Ma vi darò un ultimoconsiglio: ci sono due cose alle qualidovete stare attento. Non comprate carneda forca e non sedetevi sul bordo di unpozzo». Detto questo, la volpe corse vianella foresta.

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Il principe pensò: ‘Che stranoanimale e che razza di idee! Chicomprerebbe carne da forca? E non mi èmai passato per la testa di sedermi sulbordo di un pozzo’.

Continuò per la sua strada con labella principessa e in breve tempoarrivarono al villaggio dove stavano isuoi due fratelli. Qui trovò una follarumorosa e agitata di gente riunita equando chiese cosa stesse succedendogli dissero che due uomini stavano peressere impiccati. Si fece stradaattraverso la folla e scoprì che i dueuomini erano i suoi fratelli. Avevanodilapidato tutti i loro soldi e compiutoogni genere di nefandezza.

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Il giovane principe chiese se c’era unmodo per ottenere la grazia.

«Be’, potete comprare la lorolibertà» gli dissero, «ma perchéspendere tanto buon denaro per salvarequesti disgraziati?»

Non esitò. Comprò la loro libertà e ifratelli furono liberati dai ceppiricevendo severi ammonimenti di nonvisitare mai più quel villaggio. Poipartirono e dopo una mattina di viaggioarrivarono nella foresta dove primaavevano incontrato la volpe. Il sole eracaldo e dato che sotto gli alberi erapiacevolmente fresco, i fratelli dissero:«Riposiamoci qui per un po’. Guardate,possiamo prendere dell’acqua dal

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pozzo».Il giovane principe acconsentì.

Dimenticò l’avvertimento della volpe esi sedette sul bordo del pozzo, nonsospettando nulla. Subito i due fratelli lospinsero nel pozzo e partirono conprincipessa, cavallo e uccello perportarli al padre.

«Vedi, padre!» dissero. «Non solol’uccello ma anche il cavallo d’oro e laprincipessa del castello d’oro! Nonmale, eh?»

Il re ordinò una grande cerimonia mai cortigiani attenti notarono che ilcavallo si rifiutava di mangiare,l’uccello non voleva cantare e laprincipessa non faceva altro che

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starsene seduta a piangere.Nel frattempo, che ne era stato del

fratello giovane? Non era annegatoperché il pozzo era asciutto e non si erarotto nessun osso perché c’era delmuschio sul fondo. Si era seduto laggiùcercando di architettare una fuga e nonsapeva più cosa pensare quando lavolpe fedele apparve ancora una volta.Saltò giù nel pozzo e rimproverò ilprincipe.

«Cosa vi avevo detto?» disse. «Be’,suppongo che avrei dovuto aspettarmelo.Non importa, non vi lascerò quaggiù.Afferrate la mia coda e tenetevi forte».

Il principe si attaccò alla coda e unminuto dopo uscì fuori dal pozzo e si

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spazzolò i vestiti.«Ma non siete ancora fuori pericolo»

disse la volpe. «I vostri fratelli non sonosicuri della vostra morte, così hannoposizionato guardie tutt’attorno allaforesta con l’ordine di sparare a vista».

Si avviarono e presto il principe siimbatté in un pover’uomo e siscambiarono i vestiti. In questo modoriuscì a entrare a corte senza esserericonosciuto. Appena entrato, l’uccellocominciò a cantare, il cavallo cominciòa mangiare e la principessa smise dipiangere.

Il re era stupito. «Cosa significa?»disse.

«Non lo so» disse la principessa.

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«Ero triste e adesso sono felice. Misento felice come se fosse arrivato ilmio sposo». Raccontò al re tutto quelloche era successo, sfidando i due principiche avevano minacciato di ucciderla seavesse rivelato la verità. Il re ordinò diriunire tutta la corte, e c’era anche ilgiovane principe con addosso gli stracciche gli aveva dato il povero. Laprincipessa lo riconobbe subito e corsead abbracciarlo e i fratelli malvagifurono presi e messi a morte. Il giovaneprincipe sposò la principessa e funominato erede del re.

Ma la povera volpe? Un giorno,molto tempo dopo, al principe capitò dipasseggiare nella foresta e vide andargli

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incontro la sua vecchia amica che glidisse: «Voi adesso avete avuto tuttoquello che volevate ma io non ho avutoaltro che sfortuna per anni, perché aveterifiutato di liberarmi anche se ve loavevo chiesto».

E ancora una volta la volpe pregò ilprincipe di spararle e tagliarle la testa ele zampe. Questa volta il principe laascoltò e appena fatto la volpe sitrasformò nientemeno che nel fratellodella principessa, finalmente liberato daun incantesimo.

Da allora non mancò nulla alla lorofelicità per il resto della loro vita.

* * *

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Tipo di fiaba: ATU 550, ‘Bird, Horse andPrincess’ (L’uccello d’oro).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Gretchen Wild.Storie simili: Alexander Afanasjev: ‘PrinceIvan, the Firebird, and the Grey Wolf’ (La fiabadi Ivan Zarevic, dell’uccello di fuoco e del lupogrigio [Russian Fairy Tales (Fiabe russe)];Katharine M. Briggs: ‘The King of theHerrings’ (Folk Tales of Britain); AndrewLang: ‘The Bird Grip’ (Pink Fairy Book).Gretchen Wild e i Grimm fecero un lavoroeccezionalmente accurato su questa fiaba, chefacilmente rischia di divagare. Latrasformarono in qualcosa che assomigliavamoltissimo a una narrazione di tipo esotericosulla ricerca della salvezza, non diversa dallognostico ‘Canto della perla’ del terzo secolo odalle Nozze alchemiche di ChristianRosenkreutz del 1616. Sarebbe facile costruireun’interpretazione su queste linee: il giovane

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principe rappresenterebbe il Cercatore, laprincipessa d’oro la sua metà femminile, o, perusare le parole di Jung, la sua anima, che deveessere vinta dalle forze invisibili del mondo:invisibili perché la montagna blocca la vista alre, ovviamente. Quando la montagna vienespostata, il re diventa abbastanza saggio davederle e lascia che la giovane sposa vada per lasua strada. Il cavallo d’oro è la forza delprincipe, che non deve essere bardata con lesgargianti insegne dell’adulazione e dellavanità, ma solo con la dignità del duro lavorovero e onesto. L’uccello d’oro è l’anima delprincipe: solo lui riesce a vederlo nel giardinodel re e solo lui può seguirlo e averlo, alla fine.I due fratelli sono le personificazioni più bassedel sé, sopraffatte alla fine dalla bontàinnocente, e il principe è aiutato dalla volpe,che rappresenta la saggezza. La saggezza èstrettamente collegata alla coscienza delCercatore (è il fratello della principessa), ma

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non può essere vista fino a che non vienesacrificata. Le mele d’oro nel giardino del resono frammenti di verità, che dovrebberoessere regalati con mano generosa e che inveceil re, cieco a causa della sua ottusità, trattacome beni da contare e numerare, nonriuscendo così a...

Eccetera. Io non credo minimamente aquesta interpretazione, non più di quanto credanella maggior parte delle chiacchiere sub-junghiane, tuttavia è plausibile. Una lettura diquesto genere può anche essere appoggiata. Eche cosa mostra? Che l’idea preesisteva allastoria e che quest’ultima è stata compostacome allegoria per illustrarla? Oppure che lastoria ha casualmente assunto una formainterpretabile?

Ovviamente la seconda. Tante ingegnoseinterpretazioni delle storie somigliano molto aquelle piacevoli figure che ci sembra di vederenelle scintille di un fuoco, ma comunque non

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fanno nessun danno.

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VENTINOVE

CONTADINELLO

C’era una volta un villaggio dove tutti icontadini erano ricchi tranne uno, cheveniva chiamato Contadinello. Nonaveva i soldi nemmeno per comprareuna mucca e lui e la moglie morivanodalla voglia di averne una.

Un giorno lui le disse: «Ascolta, hoavuto una grande idea. Cerchiamo diconvincere tuo cugino falegname a farci

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un vitello di legno e dipingerlo delcolore giusto, così sembrerà vero. Allafine crescerà e avremo una mucca. Chete ne pare?»

«È una buona idea» disse la moglie.Così andarono dal falegname, gli

spiegarono cosa volevano, quello presedei buoni pezzi di pino, disegnò, segò,piallò, intagliò e inchiodò e lo costruì,poi prese della vernice marrone e lopitturò così bene che sembrava propriovero. Lo aveva fatto con la testaabbassata come al pascolo e con lungheciglia nere.

L’indomani, quando le mucche delvillaggio vennero portate al pascolo,Contadinello chiamò il bovaro e gli

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disse: «Ho qui un vitellino giovane, maè ancora troppo piccolo per camminare.Deve essere trasportato».

«Va bene» disse il bovaro, prese ilvitello in braccio, lo portò al pascolo elo posò sull’erba. Poi disse tra sé: «Traun attimo lo vedremo già correre di quae di là. Guarda come bruca!»

Quando arrivò il momento di portarele mucche a casa quella sera, il bovaronon riuscì a smuovere il vitello:«Dannazione» disse, «ti sei ingozzatotutto il giorno e dovresti essereabbastanza forte da tornare a casa con letue gambe. Non ho intenzione diriportarti anche indietro».

Contadinello stava sulla porta di casa

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in attesa che il vitello tornasse ed eccoarrivare le mucche e dietro il bovaro,ma del vitello neppure l’ombra.

«Ehi!» disse Contadinello. «Dov’èandato a finire?»

«È ancora al pascolo. L’ho chiamato,ma non si muove. Non posso aspettaretutto il giorno, le mucche devono esseremunte». Il bovaro portò le mucche nellasala di mungitura e tornò al pascolo conContadinello, ma arrivati lì videro che ilvitello era stato rubato.

«È colpa tua» disse Contadinello.«No, no! Deve essersi allontanato».«Be’, avresti dovuto riprenderlo»

disse Contadinello.E portò il bovaro dal sindaco che

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rimase sconvolto da tanta negligenza eordinò di dare a Contadinello una muccacome ricompensa per la perdita.

Così ora Contadinello e sua mogliepossedevano la mucca che avevanosempre desiderato. Erano felici ma nonavevano niente da darle da mangiare ecosì furono costretti a macellarla.Salarono la carne e conciarono la pelle– che era anche bella – e Contadinello laportò in città con l’intenzione divenderla per comprare un vitello.

Lungo la strada, dopo il mulino, c’eraun corvo a terra con le ali spezzate.Dispiaciuto, Contadinello lo prese conmolta cura e lo avvolse nella pelle.

Nuvole nere si addensavano nel cielo

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e stava salendo il vento e, appenaavvolto il corvo, cominciò a piovere adirotto. Non c’era nessun posto doveripararsi così Contadinello bussò allaporta del mulino.

La moglie del mugnaio, che era sola,gli aprì. «Cosa vuoi?»

«Mi dispiace disturbarvi, signora, maposso ripararmi qui?»

«Oh, mi sa che ne verrà giù un belpo’... Va bene, entra. Puoi sdraiarti sullapaglia laggiù». Indicò un grandemucchio in un angolo e quandoContadinello si fu accomodato gli portòun po’ di pane e formaggio.

«Molto gentile, signora!»«Be’, sembra che durerà tutta la

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notte» disse lei.Contadinello mangiò il pane e il

formaggio, si sdraiò e chiuse gli occhitenendosi la pelle della mucca di fianco.La donna lo teneva d’occhio e sapevache era molto stanco, così non appenasmise di muoversi fu certa che si eraaddormentato.

Poco dopo si sentì bussare piano allaporta e la donna rispose poggiandosi undito sulle labbra. Contadinello aprì gliocchi e vide entrare il prete.

«Mio marito è fuori» la sentì dire,«possiamo farci una sontuosa cena!»

Contadinello pensò: ‘Una sontuosacena, eh? Allora com’è che a me harifilato pane e formaggio?’

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Guardò attraverso gli occhi socchiusila moglie del mugnaio che facevaaccomodare il prete a tavola sbattendole ciglia e parlando con dolcezza e poigli serviva arrosto di maiale, un belpiatto d’insalata, torta alla frutta appenatirata fuori dal forno e una bottiglia divino.

Ma il prete aveva appena fatto intempo a rimboccarsi il tovagliolo sulcolletto clericale che si sentì un rumoreall’esterno.

«Oh, Santo Cielo!» esclamò la donna.«È mio marito! Nell’armadio, presto!»

Il prete ci si infilò più veloce di unoscarafaggio e la donna ficcò la carne nelforno, il vino sotto il cuscino, l’insalata

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sotto le coperte e la torta sotto il letto.Poi corse alla porta d’ingresso. «Oh,

grazie a Dio sei tornato! Mi stavospaventando. Che tempesta! Sembrava lafine del mondo!»

Il mugnaio entrò scuotendo vial’acqua dai vestiti e vide subitoContadinello che giaceva sulla paglia.«Che ci fa lui qui?»

«Oh, poverino» disse la moglie, «habussato alla porta proprio quandoiniziava a piovere. Ha chiesto riparo,così gli ho dato del pane e formaggio el’ho fatto sdraiare lì».

«Be’, non importa» disse il mugnaio.«Sai una cosa? Muoio di fame. Midaresti qualcosa da mangiare?»

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«C’è solo pane e formaggio, amoremio».

«Andrà bene qualunque cosa» disseil mugnaio. Poi si rivolse aContadinello: «Ehi, amico, alzati emangiamo un boccone insieme».

Contadinello non se lo fece ripeteredue volte. Si alzò subito, si presentò, sisedette al tavolo con il mugnaio e si tiròsu le maniche.

Dopo un minuto o poco più, ilmugnaio vide la pelle con il corvopoggiata a terra. «Cos’hai lì?»

«Ah, una cosa speciale» risposeContadinello. «Dentro c’è un indovino».

«Davvero? Mi può predire ilfuturo?»

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«Certamente. Ma predice solo quattrocose e la quinta se la tiene per sé».

«Avanti allora, digli di prevedere ilfuturo».

Contadinello prese con cura l’involtodi pelle e se lo mise in grembo. Poistrinse con delicatezza la testa del corvoe l’uccello gracchiò: «Crr, crr».

«Che cosa vuol dire?»«Be’» disse Contadinello, «dice che

c’è una bottiglia di vino sotto alcuscino».

«Ma va’!» disse il mugnaio, però sialzò a guardare e trovò il vino.«Incredibile! Che altro sa indovinare?»

Contadinello strinse di nuovo la testadel corvo: «Crr, crr».

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«Cosa dice adesso?»«Come seconda cosa» disse

Contadinello, «dice che c’è un pezzo dimaiale arrosto nel forno».

«Arrosto di maiale? Non ci credo...Be’, che io sia dannato! C’è tutto! Chebel pezzo di carne, guarda che roba! Chealtro dice?»

Contadinello attribuì al corvoun’altra profezia. «Questa volta dice chec’è dell’insalata sotto le coperte».

Il mugnaio trovò anche quella.«Straordinario. Non ho mai visto unacosa del genere in vita mia».

«Crr, crr» disse il corvo per laquarta volta e Contadinello interpretò:«C’è una torta sotto al letto».

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Il mugnaio la tirò fuori. «Be’, sonosbalordito!» disse.

«E noi che stavamo per mangiarcipane e formaggio. Moglie, che fai lì?Vieni a sederti con noi!»

«No» disse, «ho un po’ di mal ditesta. Penso che andrò a letto».

In realtà era terrorizzata. Andò aletto, si coprì con le coperte e siassicurò di avere le chiavi dell’armadio.

Il mugnaio divise il pezzo di maiale eversò del vino per sé e per Contadinelloe cominciarono a mangiare.

«Così questo indovino si tiene laquinta cosa per sé, giusto?» chiese ilmugnaio.

«Giusto, sì».

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«Che genere di profezia è, di solito?»«Potrebbe essere qualsiasi cosa,

davvero. Ma prima mangiamo, perchého la sensazione che la quinta profezianon sia niente di buono».

Così mangiarono a sazietà e poi ilmugnaio disse: «Questa quintaprofezia... quanto brutta può essere?»

«Be’, il fatto è» disse Contadinello,«che è di gran valore. Non la concedegratis».

«Oh. E quanto vuole, allora?»«Quattrocento talleri».«Buon Dio!»«Be’, come ti ho detto, è di gran

valore. Ma dal momento che ti seidimostrato un ospite generoso, credo di

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poterlo convincere a concedertela pertrecento».

«Trecento, eh?»«Proprio così».«Non scenderà più di così?»«Be’, hai già visto quanto è stato

preciso finora. Non puoi criticarlo innessun modo».

«Questo è vero. Non posso negarlo.Trecento talleri, quindi?»

«Trecento».Il mugnaio andò a prendere il

portamonete e contò il denaro. Poi tornòa sedersi. «Su, allora, sentiamo cos’hada dire».

Contadinello strinse la testa delcorvo. «Crr, crr», disse il corvo.

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«Be’?» disse il mugnaio.«Caro mio. Dice che è entrato il

Diavolo nell’armadio».«Cosa? Lo caccerò via». Il mugnaio

andò di corsa a togliere il catenacciodalla porta e ci mise un cuneo pertenerla aperta, poi disse: «Dov’è lachiave dell’armadio? Dov’è andata afinire?»

«Ce l’ho io» disse la moglie, con lavoce soffocata dalle coperte.

«Be’, dammela, presto!» disse ilmugnaio.

Afferrò la chiave, aprì l’armadio e ilprete schizzò fuori più veloce chepoteva e sparì.

Il mugnaio rimase a bocca aperta, i

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capelli ritti. Poi si affrettò a richiudere achiave la porta di casa. «Aveva proprioragione, il tuo indovino! Era il Diavolo,non c’è dubbio! L’ho visto coi mieiocchi quel bastardo!» E bevve il restodel vino per calmarsi i nervi.

Contadinello si mise a dormire sullapaglia e al mattino prestò se la filò con isuoi trecento talleri.

Una volta tornato al suo villaggio,cominciò a spendere soldi. Comprò unterreno e si costruì una bella casa e benpresto gli abitanti del villaggio dissero:«Sarà stato dove nevica oro. Si possonoportare a casa monete a palate da lì».

Quello che volevano dire era chesecondo loro non li aveva ottenuti

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onestamente.Contadinello fu chiamato a comparire

davanti al sindaco per un chiarimento.«È abbastanza semplice» disse. «Ho

preso la pelle della mia mucca e l’hovenduta in città. C’è grande richiestaora. I prezzi sono aumentati».

Sentito ciò, le persone di tutto ilvillaggio cominciarono a macellare leloro mucche e conciare le pelli per poiandare in città e venderle a prezziincredibili.

«Prima io» disse il sindaco.E mandò la cameriera con il primo

pezzo di pelle. Ne ricavò tre talleri e lostesso fu per gli altri abitanti delvillaggio.

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«Be’, che volete che ci faccia contutte queste pelli?» disse il mercante dipellami. «Non c’è richiesta in questoperiodo».

Naturalmente, gli abitanti delvillaggio erano furiosi con Contadinello.Lo denunciarono al sindaco cometruffatore e non molto tempo dopo ilconsiglio del villaggio si espresse sulsuo destino.

«Morirai» disse il sindaco. «Tiinchioderemo in una botte che imbarcaacqua e la faremo rotolare nello stagno».

Mandarono a chiamare un prete chedicesse una messa per la sua anima e gliabitanti del villaggio lasciarono i due dasoli.

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Per fortuna, Contadinello loriconobbe. «Ti ho tirato fuori daquell’armadio» disse, «adesso tu tiramifuori da questa botte».

«Be’, vorrei...»«Tirami fuori e basta» disse

Contadinello.Poi vide un pastore che arrivava

dalla strada con il suo gregge di pecore.Era venuto a sapere che proprio quelpastore desiderava più di ogni altra cosaal mondo diventare sindaco.

Così Contadinello gridò con tutta lavoce: «No, non lo farò! Me lo puòchiedere il mondo intero ma non lo farò!Mi rifiuto!»

Il pastore si fermò e disse: «Che

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succede? Cos’è che non farai?»«Vogliono farmi fare il sindaco»

disse Contadinello, «e mi hanno dettoche mi basta entrare nella botte, ma nonlo farò. Non voglio».

«Davvero?» disse il pastore.«L’unica cosa che devi fare per esseresindaco è entrare nella botte?»

Contadinello strattonò il prete, chedisse: «Sì, è vero».

«Oh, bene, se basta questo» disse ilpastore ed entrò nella botte.

Contadinello mise il coperchio allabotte, poi prese il bastone del pastore eportò via il gregge.

Il prete andò al consiglio delvillaggio e raccontò che aveva detto la

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messa e la botte era pronta. Il sindacofece strada, corsero a prendere la botte ela fecero rotolare verso lo stagno.

A ogni colpo sulla strada il pastoregridava: «Sarò felice di esseresindaco!»

Pensavano fosse Contadinello agridare, naturalmente, e rispondevano:«Certo che lo sarai! Ma prima vai a dareun’occhiata laggiù!»

Poi gettarono la botte in acqua e siavviarono verso casa.

Il prete rimase lì, si sollevò la tonacae provò a trascinare la botte fuoridall’acqua per salvare il pastore, invecegli abitanti del villaggio ebbero lasorpresa della vita, perché, arrivati alla

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piazza del villaggio, trovaronoContadinello con un gregge di pecore.

«Contadinello! Che diavolo ci faiqui? Come hai fatto a scappare dallabotte?»

«Niente di straordinario» disse. «Labotte è affondata sempre più fino atoccare il fondale, poi l’ho aperta con uncalcio e nuotando sono uscito. Non viimmaginate che bei pascoli ci sonolaggiù! Erba verde, sole caldo, talmentetante pecore che non si possono contare.Così ne ho prese una manciata e le hoportate con me».

«Ne è rimasta qualcuna?»«Oh, un sacco. Ce n’è per tutti».Così tutti tornarono allo stagno,

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ognuno determinato e farsi il propriogregge. In quel momento il cielo erapieno di quelle soffici nuvolette biancheche la gente chiama pecorelle e gliabitanti del villaggio erano eccitatissiminel vedere il riflesso delle nuvole nellostagno e non notarono sull’altra spondail pastore tutto bagnato che bastonava ilprete. Gridavano solo di gioia allenuvole e si accalcavano a riva cercandodi accaparrarsi la posizione migliore.

«Io per primo» disse il sindaco e situffò con uno spruzzo.

Ci fu un gorgoglio d’acqua epensando fosse lui che li chiamava perinvitarli a raggiungerlo si tuffarono tuttia seguirlo.

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Dopodiché al villaggio non rimasenessuno, così Contadinello fu a capo ditutto. Riconsegnò le pecore al pastore, sidichiarò sindaco e divenne un uomoricco.

* * *

Tipo di fiaba: AT 1535, ‘The Rich Peasant andthe Poor Peasant’ (Il contadinello), che includeun episodio del tipo 1737, ‘Trading Places withthe Trickster in a Sack’ (La rapa).Fonte:: storie raccontate ai fratelli Grimmdalla famiglia Hassenpflug e DorotheaViehmann.Storie simili: Alexander Afanasjev: ‘ThePrecious Hide’ (Russian Fairy Tales);Katharine M. Briggs: ‘Jack and the Giants’[Jack e i giganti (Fiabe popolari inglesi)],‘Sheep for the Asking’ (Folk Tales of Britain).

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Contadinello è il classico imbroglione. Perricoprire questo ruolo servono ingegno acuto esfacciataggine, ma è necessaria anche una bellaquantità di babbei. Ed è chiaro che nel villaggionon mancano.

Quanto deve essere severa la punizione per ibabbei ottusi? Una punizione più che giusta pergli abitanti del villaggio che voglionoContadinello morto è finire affogati, perché èla conseguenza diretta della loro avidità, inveceun po’ troppo sgarbo si fa al pastore che non gliha augurato nessun male. Nell’originale ilpastore annega e in più il prete resta impunito,e anche ciò non mi sembra molto giusto. Io gliho fatto salvare il pastore e poi l’ho fattobastonare per le sue malefatte, così mi sembraun po’ più corretto.

I preti non compaiono di frequente, neiGrimm, ma quando ci sono la loro funzione èspesso quella di combinare qualche guaio conla moglie di un altro. Nella fiaba ‘Old

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Hildebrand’ (Il vecchio Ildebrando), peresempio, c’è un prete che con l’ingannoconvince un contadino a partire per l’Italia, cosìda potersela spassare con la moglie. Alla fineviene colto in castagna e bastonato ed è più chegiusto che vada a finire così.

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TRENTA

DOGNIPELO

C’era una volta un re che aveva unamoglie con i capelli biondi come l’oro etanto bella che non ce n’erano eguali almondo.

Accadde che lei si ammalò e, poichésentiva che stava per morire, disse al re:«Se ti risposerai dopo la mia morte, nondovrai sposare una donna meno bella dime o con i capelli meno dorati dei miei.

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Promettimelo».Il re fece la sua promessa e subito

dopo lei chiuse gli occhi e morì.Per lungo tempo il re fu inconsolabile

e non riuscì nemmeno a pensare diprender moglie di nuovo. Ma alla fine iconsiglieri gli dissero: «Maestà, non c’èscampo: il paese ha bisogno di unaregina. Dovete risposarvi».

Così furono mandati messaggeri acercare una sposa bella quanto lo erastata la regina. Ma non riuscirono atrovarla, benché avessero cercato anchelontano. Inoltre, anche se avesserotrovato una donna di pari bellezza, nonavrebbe avuto gli stessi capelli dorati. Imessaggeri tornarono a casa a mani

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vuote.Si dà il caso che il re avesse una

figlia con gli stessi capelli dorati di suamadre e che prometteva di diventarealtrettanto bella. Quando era bambina ilre non se n’era accorto, ma un giorno,quando era appena maggiorenne, glicapitò di vederla con il sole che entravadalla finestra e le illuminava i capelli.Capì subito che era bella quanto suamadre e si innamorò di leiappassionatamente.

Riunì il consiglio privato e annunciò:«Finalmente ho trovato la mia sposa. Intutto il reame non c’è nessun’altra chesia bella quanto mia figlia, così hodeciso di sposare lei».

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I consiglieri erano sgomenti.«Maestà, non è possibile! Il Signorevieta queste unioni! È uno dei peccatipiù grandi. Non può venirne nessunbene, la nazione cadrà in rovina!»

La ragazza, dal canto suo, eraatterrita. Sperando di prendere tempodisse: «Padre, prima di sposarti, hobisogno di tre abiti: uno dorato come ilsole, uno argentato come la luna e unoche brilla come le stelle. Inoltre, voglioun mantello fatto di mille tipi diversi dipelliccia, uno per ogni specie animaledel regno».

Pensava che fosse una cosaimpossibile e che il padre così avrebberinunciato a perseguire il suo piano

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malvagio. Ma il re era talmente pazzod’amore che niente poteva fermarlo.Ingaggiò i più ingegnosi tessitori perfare preparare i tre diversi tipi di tessutoe i sarti più abili per tagliare e cucire itre magnifici abiti. Allo stesso tempomandò nella foresta i suoi cacciatori chegiorno dopo giorno riportarono a casatrofei di pelli e pellicce. I miglioriartigiani del cuoio e del pellametagliarono un migliaio di pezzetti diversie li cucirono insieme e non passò moltotempo che la ragazza capì che il padresarebbe riuscito ad accontentare ognisua richiesta.

Poi venne il giorno in cui le disse:«Cara, è quasi tutto pronto. Domani ci

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sposeremo!»Lei capì che non c’era speranza e che

l’unico modo per salvarsi era scappare.Mentre tutti dormivano, prese tre piccolitesori: un anello d’oro, un piccolofilarello d’oro e una spoletta d’oro.Ripiegò i tre vestiti per farli entrare inun guscio di noce, si mise il mantello dipellicce d’ogni tipo e si annerì il viso ele mani con la fuliggine.

Poi, raccomandandosi a Dio, lasciò ilpalazzo e si mise in cammino sullastrada maestra.

Cammina cammina, arrivò in unenorme bosco. La notte stava per finire,si cominciava a sentire il canto degliuccelli e la principessa era così stanca

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che, trovato un albero cavo, ci sirannicchiò dentro e si addormentòall’istante.

Il sole sorse che lei ancora dormiva.Il sole fu alto e lei continuava a dormire.Si dà il caso che un altro re, padrone diquella foresta, fosse uscito a cacciaquella mattina. I segugi sentirono unodore strano, corsero all’albero e locircondarono abbaiando.

«Deve esserci un animale nascostoqui» disse il re ai suoi cacciatori.«Andate a vedere cos’è».

Fecero come ordinato e tornatiindietro dissero: «Una bestia strana,maestà, come non ne abbiamo mai visteprima. Il pelo sembra di mille tipi

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diversi. Se ne sta lì a dormire».«Cercate di catturarla viva» disse il

re. «La legheremo al carro per portarlaal castello».

Con molta attenzione, poiché nonsapevano se era pericolosa, i cacciatoriraggiunsero la principessa nell’alberocavo e la presero.

Si svegliò mentre la trascinavano viadal nascondiglio e spaventatissima urlò:«Non fatemi del male! Sono solo unapovera ragazza! Mio padre e mia madremi hanno abbandonata e mi sono persa!»

«Bene, Dognipelo, ora ti abbiamotrovata» dissero. «Adesso sei un trofeo,ecco. Sei nostra. Ti porteremo in cucinae lì laverai i piatti».

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Visto che non era una bestia rara,anche il re perse il suo interesse. Icacciatori la issarono sul carro epartirono, sobbalzando sulla strada finoal castello, dove i servi la fecero entraree le mostrarono un bugigattolo scuro epolveroso sotto le scale.

«Puoi stare qui, creatura pelosa» ledissero.

La misero a lavorare in cucina.Andava a prendere la legna e tenevaacceso il fuoco, andava a prenderel’acqua al pozzo, tirava il collo allegalline, lavava e sbucciava le verdure,lavava i piatti unti: a Dognipelo toccavaogni genere di lavoro sporco. E lì vissea lungo come una sguattera. Ah, mia

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bella principessa, che ne sarà di te?Be’, un giorno fu annunciato che il re

dava un grande ballo al castello.Dognipelo era curiosa e disse al cuoco:«Posso andare di sopra a vedere?Resterò fuori dalla porta».

«Vai» disse il cuoco. «Ma vedi ditornare entro mezz’ora. Quella cenerenon si pulisce da sola».

Dognipelo prese una lanterna e unaciotola d’acqua e andò nel suobugigattolo. Si tolse il mantello e si lavòle mani e la faccia, perché la suabellezza fosse visibile. Poi aprì ilguscio di noce e tirò fuori il vestitodorato come il sole, lo indossò e salì alpiano di sopra nella sala da ballo. Tutti i

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servi si inchinarono al suo passaggio egli ospiti sorrisero cortesi, poichécapivano che doveva essere unaprincipessa.

Quando il re la vide, fu come se unfulmine gli avesse colpito il cuore. Nonaveva mai visto una tale bellezza in tuttala sua vita. Ballò con lei, mezzostordito, e alla fine della danza laragazza fece una riverenza e scomparvecosì in fretta che lui non riuscì a vederedove andava. Interrogò ogni guardia eogni sentinella: aveva lasciato ilcastello? Qualcuno aveva visto dove eraandata?

Nessuno seppe dire nulla, poiché erasgusciata via veloce ed era tornata nel

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bugigattolo. Mise via il vestito, indossòil mantello di pelliccia, si sporcò facciae mani e tornò a essere la servettaDognipelo.

Prese a pulire la cenere, ma il cuocodisse: «Lo farai domani. Ho un altrolavoro da darti: prepara una zuppa per ilre mentre io salgo al piano di sopra. Masta’ attenta a non farci cadere dentronemmeno un capello o non ti darò più damangiare».

Il cuoco andò di sopra e Dognipelo simise a preparare una zuppa di pane,come sapeva fare lei. Quando fu pronta,prese il suo anello d’oro e lo mise nelpiatto del re.

Dopo il ballo, il re chiese la sua

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zuppa e la trovò buona più di ogni altrazuppa mangiata prima. E, arrivato alfondo del piatto...

«Cos’è? Un anello d’oro? Come èpotuto finire qui dentro? Mandate achiamare il cuoco!»

Il cuoco era terrorizzato. Uscendo difretta dalla cucina disse a Dognipelo:«Di sicuro hai fatto cadere un capellonella zuppa. Cosa ti avevoraccomandato? Vedrai ora che torno. Tifarò nera, ragazza mia».

Il cuoco arrivò al cospetto del re,tremando e torcendosi il grembiule tra lemani.

«Hai fatto tu questa zuppa?» disse ilre. «Smettila di contorcerti. Stai dritto».

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«Sì, maestà» disse il cuoco con voceflebile.

«Tu non dici la verità. È diversadalla tua ed è molto meglio. Chi l’hafatta, eh?»

«Mi dispiace, maestà. Ecco, aveteragione, sire, non l’ho fatta io. L’ha fattala piccola sguattera pelosa».

«Mandatela qui».Quando Dognipelo arrivò, il re disse:

«Chi sei?»«Una povera bambina senza mamma

né papà».«Come mai lavori qui?»«Mi hanno trovata in un albero, sire».«Uhm. E dove hai preso questo

anello?»

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«Non so niente dell’anello, maestà».Il re pensò che fosse una sempliciotta

e la congedò.Un po’ di tempo dopo ci fu un altro

ballo e, come in precedenza, Dognipelochiese al cuoco il permesso di andare avedere di sopra.

«Sì, va bene» disse lui. «Solomezz’ora. Poi torna qui e prepara lazuppa di pane che piace tanto al re».

Dognipelo corse nel suo bugigattolo,si lavò in fretta e si mise il vestitoargentato come la luna. Salì nella salada ballo e il re la vide subito tra la folladi danzatori, poiché era ancora più belladella volta prima.

Danzarono insieme e a lui sembrò

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durare solo un attimo, poiché appenafinita la danza la ragazza scomparve.

Corse giù nel bugigattolo, mise via ilvestito e tornò a essere Dognipelo, poiandò alla svelta in cucina a preparare lazuppa di pane. Mentre il cuoco era alpiano di sopra ad assistere al ballo,mise il filarello d’oro nel piatto e civersò sopra la zuppa.

E come era già accaduto, il re lotrovò e mandò a chiamare il cuoco e ilcuoco ammise che la zuppa era statafatta di nuovo da Dognipelo e allora ilre mandò a chiamare la ragazza.

«Ho un po’ di confusione sul tuoconto» le disse. «Ripetimi da dovevieni».

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«Da un albero cavo, maestà».Il re pensò che quella poverina

doveva aver perso la ragione. Chepeccato: doveva essere carina, sottotutto quel sudiciume. Ma non sapevanulla del filarello, così lui la mandò via.

Quando il re diede un terzo ballo,accadde tutto di nuovo. Il cuoco tuttaviainiziava ad avere qualche sospetto edisse: «Secondo me sei una strega,ceratura pelosa. Ogni volta mettiqualcosa nella zuppa e il re la preferiscealla mia». Ma era buono e la lasciòandare di sopra a guardare le dame e isignori come le altre volte.

Lei indossò l’abito che brillava comele stelle e corse nella sala da ballo. Il re

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non aveva mai visto ragazza più bella eordinò all’orchestra di suonare unadanza molto lunga per avere modo diparlarle. La teneva tra le braccia e lasentiva leggera quanto la luce dellestelle, ma parlò molto poco; però riuscìa infilarle un anello al dito senza che leise ne accorgesse.

Finita la danza, la mezz’ora era giàpassata e la ragazza cercò di sgusciarevia. Il re voleva trattenerla, ma lei sidivincolò e corse via prima che luiriuscisse a fermarla.

Tornata nel bugigattolo non ebbe iltempo di togliersi il vestito, così ci misesopra il mantello di pelliccia e si sporcòdi fuliggine, ma nella fretta lasciò un

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dito pulito. Andò subito a preparare lazuppa e, mentre il cuoco era al piano disopra, mise la spoletta d’oro nel piatto.

Quando il re trovò la spoletta, nonperse tempo col cuoco e mandò achiamare direttamente Dognipelo. Nonappena la vide arrivare, notò il suounico dito pulito e l’anello che le avevainfilato mentre danzavano. Le afferrò lamano e la strinse e, mentre lei cercavadi divincolarsi, il mantello di pellicciasi aprì un po’ rivelando il luccichiodell’abito stellato. Il re le tolse ilcappuccio del mantello di pelliccia e icapelli d’oro le ricaddero sulle spalle;poi tolse tutto il mantello ed ecco labella principessa con cui aveva danzato

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meno di mezz’ora prima. Lavate faccia emani, nessuno poté negare che era laragazza più bella mai esistita.

«Sarà la mia amata moglie» disse ilre. «E non ci separeremo mai».

Subito dopo vennero celebrate lenozze e vissero per sempre felici econtenti.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 510B, ‘Peau d’Asne’(Dognipelo).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Dortchen Wild.Storie simili: Giambattista Basile: ‘L’orza’ (Locunto de li cunti); Italo Calvino: ‘Maria dilegno’ (Fiabe italiane); Charles Perrault:‘Pelle d’asino’ (Tutte le fiabe); Giovanni

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Francesco Straparola: ‘Tebaldo’ (Fiabeclassiche).La fiaba comincia molto bene: il re chepromette alla moglie che dopo la sua mortenon sposerà nessuna donna meno bella di lei epoi si innamora della figlia... Ma a metà,quando la principessa scappa via, non sappiamopiù nulla del padre ossessionato; la storiacambia di colpo diventando una sorta di‘Cenerentola’ (p. 139). Che ne è del temadell’incesto? Mi sembra che la fuga non sia ilmodo di trattare un tema così drammatico. Simerita una risoluzione migliore.

La versione di Straparola la attua lasciandoche il re Tebaldo insegua la figliaincessantemente. Prendendo spunto da questo,io volevo continuare la fiaba che i Grimm cihanno tramandato facendo sì che il re e lanuova sposa vivessero felici mettendo almondo due figli. Poi un giorno un mercantearrivava a palazzo con una cassa piena di giochi.

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Dava un gioco al bambino e uno alla bambina ediceva: «Ricordatemi a vostra madre».

I bambini correvano a mostrare alla mammaun filarello e una spoletta d’oro. Preoccupata,lei ordinava di mandare a chiamare il mercante,ma quello era scomparso.

Il giorno dopo era domenica e lo vedeva trala folla mentre si recava in chiesa con tutta lafamiglia reale. Lui le sorrideva e non c’eradubbio: era suo padre. A quel punto per la primavolta confessava al marito l’orrore che l’avevafatta fuggire di casa e diventare Dognipelo. Luiatterrito ordinava di cercare il mercante earrestarlo.

Quella sera la regina andava a confessarsi,sentendosi in qualche modo colpevole per ildesiderio che suo padre provava per lei.

Il prete la rassicurava sulla sua innocenza male diceva anche che stava giudicando male ilpadre, che provava per lei un amore puro esanto. Inoltre, l’amore tra padre figlia è

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santificato nelle scritture, come nel caso di...A quel punto lei riconosceva la voce e

scappava via chiamando aiuto, ma scopriva diessere chiusa in chiesa con suo padre. Le urlasvegliavano la guardie che buttavano giù laporta e trovavano il falso prete sul punto diviolentarla.

Per ordine del re, il delinquente venivaportato via e impiccato. Una volta morto, glitagliavano braccia e gambe e le seppellivanodivise in terra sconsacrata.

Quella notte la regina si svegliava a causadegli incubi e si accorgeva che delle dita diterra le toccavano le labbra: era il bracciodestro di suo padre.

Pazza di terrore, urlava chiamando il marito,salvo poi trovarselo a fianco nel letto sul puntodi morire strangolato: il braccio sinistro delpadre. Nessuno poteva aiutarla, doveva farlo dasola. Allora si strappava via il braccio dallafaccia e lo buttava nel fuoco e poi faceva lo

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stesso con il braccio che teneva la gola delmarito e metteva altra legna fino a che lefiamme ardevano alte e le braccia si riducevanoin cenere.

Penso che funzionerebbe piuttosto bene.

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TRENTUNO

JORINDA EJORINGHELLO

C’era una volta un vecchio castello nelmezzo di una cupa foresta, abitato da unavecchia. Era una potente strega. Ognigiorno si trasformava in un gatto o in ungufo e ogni sera tornava alla formaumana. Catturava uccelli e altraselvaggina, poi li macellava, li arrostivae se li mangiava. Se si avvicinava

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qualcuno a meno di cento passi dalcastello, la strega gli lanciava unincantesimo che lo immobilizzava finchénon andava lei a liberarlo. E se siavvicinava una ragazza innocente, lavecchia la trasformava in un uccello e lainfilava a forza in una gabbia di vimini.Poi portava la gabbia in una stanza delcastello dove c’erano più di settemilauccelli.

Si dà il caso che all’epoca vivesseuna fanciulla di nome Jorinda che a dettadi tutti era la ragazza più bella delregno. Era promessa a un bel giovanechiamato Joringhello. Non mancavamolto al matrimonio e il loro unicodesiderio era stare insieme. Un

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pomeriggio volevano restare soli e cosìandarono a fare una passeggiata nellaforesta: «Dobbiamo stare attenti a nonavvicinarci troppo al castello» disse ilragazzo.

Era una bella sera: il sole brillavacaldo sui tronchi degli alberi e sullosfondo verde scuro del cupo bosco, e letortore tubavano addolorate sui vecchifaggi. Di tanto in tanto Jorinda piangeva,senza sapere perché. Si sedette alla lucedel sole e sospirò e anche Joringhellosospirò. Si sentivano tristi come sefossero stati in procinto di morire. Presida emozioni così intense, si persero enon riuscirono più a trovare la stradaper tornare a casa.

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Nel momento in cui il sole non eraancora tramontato e stava metà sopra emetà dietro le montagne, Joringhello,cercando il sentiero giusto, spostò lefoglie di un cespuglio e vide le mura delcastello a pochi passi. Fu un tale colpoche rischiò di svenire. Nello stessomomento sentì che Jorinda iniziava acantare:

«O uccellino dall’anello rosso,triste è il tuo canto, udirlo io posso;è così rosso l’anello che hai tula tortorella già non c’è...»

E non finì il verso. In quel momentoJoringhello udì un canto provenire dallavoce di un usignolo e con grande orrorevide che l’uccello stava appollaiato suun ramo nel punto esatto in cui prima si

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trovava Jorinda. Non solo: un gufo conocchi ardenti le svolazzava intorno. Levolò intorno tre volte strillando: «Hu-hu! Hu-hu! Hu-hu!»

Joringhello, invece, era statotrasformato in pietra. Non riusciva amuoversi, né a urlare e nemmeno abattere le ciglia. Ed era quasi buio. Ilgufo volò in un cespuglio e lui lo persedi vista. Poi, in un fruscio di foglie, dalcespuglio sbucò una vecchia ricurva,smunta e gialla, con occhi iniettati disangue e un naso a uncino con la puntache quasi toccava il mento. Borbottandotra sé, afferrò l’usignolo dal ramo e loportò via.

E Joringhello non poteva urlare, non

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poteva muovere nemmeno un muscolo.L’usignolo era sparito.

Poco dopo la vecchia tornò a manivuote. Con una voce rotta disse:«Zachiele, liberalo quando la lunabrillerà nel cesto».

E in quel momento Joringhello sentìle membra distendersi e riuscì amuoversi di nuovo. Cadde in ginocchioai piedi della strega implorando: «Perfavore, datemi indietro la mia Jorinda!»

«Mai!» disse la strega. «Non lavedrai mai più».

La scongiurò, urlò, pianse, ma nonservì a farle cambiare idea. La vecchialo ascoltava mentre lui continuava agridare: «Oh, che ne sarà di me?»

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Joringhello si allontanò dal castello eandò in un villaggio dove nessuno loconosceva. Lì trovò lavoro comepastore e vi rimase per lungo tempo.Tornò spesso a guardare il castello, masenza avvicinarsi mai troppo.

Una notte fece uno strano sogno:sognò di aver trovato un bel fiore rossocon una perla incastonata tra i petali.Nel sogno raccoglieva il fiore e loportava al castello e lì, con il solo toccodi quel fiore, riusciva ad aprire ogniporta e ogni gabbia di vimini e cosìriusciva a liberare Jorinda.

Quando la mattina dopo si svegliò, simise subito in cammino in cerca delfiore rosso che aveva sognato. Cercò

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per otto giorni e il nono giorno trovò unfiore rosso come il sangue, con unagoccia di rugiada al centro dei petali,grande come una minuscola perla.

Raccolse il fiore con delicatezza e sidiresse verso il castello. Superato ilcerchio magico, non fu immobilizzato:riuscì ad andare avanti senzaimpedimenti fino al cancello, che si aprìall’istante.

Entrò e si fermò nel lugubre cortile inascolto dei versi degli uccelli. Non fudifficile. Ne seguì il canto e presto siritrovò nella grande stanza dove stavanole settemila gabbie.

In quel momento la strega stavadando da mangiare agli uccelli. Quando

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Joringhello entrò, la vecchia si voltòverso di lui, schiumando e urlando dirabbia. Gli mandò terribili maledizioni esputò fiele e veleno dalle labbra rugose,ma niente poteva fargli del male e lastrega non poté avvicinarsi abbastanzaper graffiarlo con i suoi artigli.

Senza curarsi di lei, Joringhellocominciò a liberare gli uccelli uno dopol’altro, chiedendosi se tra quei tantiavrebbe mai ritrovato la sua Jorinda. Mapoi vide la vecchia allontanarsi con unadelle gabbie in mano.

Con un salto le fu addosso e aprì lagabbia toccandola con il fiore: toccòanche la strega con il fiore, sottraendoletutti i poteri. Ed ecco Jorinda, bella

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come sempre, che gli gettava le bracciaal collo e lo stringeva a sé.

Liberarono tutti gli altri uccelli e poiJorinda e Joringhello se ne tornarono acasa, si sposarono e vissero a lungofelici.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 405, ‘Jorinda and Joringel’(Jorinda e Joringhello).Fonte:: Heinrich Stillings Jugend (HeinrichStilling’s Youth; 1777) di Johann HeinrichJung-Stilling.C’è qualcosa di strano in questa fiaba, nel sensoche non somiglia affatto a una fiaba. Per unaragione, cioè che è l’unica fiaba dei Grimm incui compare una descrizione della natura (‘Erauna bella sera: il sole brillava caldo...’) che è lì

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per semplice amore della descrizione e perun’altra ragione, cioè il contegno deifidanzatini che mostrano di essereeccessivamente sensibili, di quella sensibilitàtipica del romanticismo letterario. Non sembrauna fiaba, tutto qui.

La fonte dei Grimm per questa storia è partedella biografia di Johann Heinrich Jung (1740-1817), medico e amico di Goethe, meglioconosciuto sotto il falso nome di HeinrichStilling. Il motivo della ricerca del fiore vistoin sogno richiama l’opera archetipica delromanticismo tedesco, cioè l’Heinrich vonOfterdingen (Enrico di Ofterdingen) diNovalis (1802). Questo genere di cose eranell’aria all’epoca. ‘Jorinda e Joringhello’avrebbe potuto essere anche più lunga, ma sisarebbe allontanata ancora di più dal regnodella fiaba popolare, spostandosi in quello delromanzo fantastico.

Qualsiasi cosa si faccia con questa fiaba,

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non le si può sottrarre quel sapore letterariocon cui è nata.

L’anello rosso dei versi si riferisceall’occhio della tortorella che ha l’iride chesembra un anello rosso.

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TRENTADUE

I SEI CHE SI FECEROSTRADA NEL MONDO

C’era una volta un uomo che se lacavava bene in tutto. Aveva combattutoin guerra e si era comportato davaloroso, ma quando la guerra terminòvenne congedato con tre soldi e nientepiù.

‘Un momento’ si disse. ‘Che razza diricompensa è questa? Se troverò i

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compagni giusti che mi aiutino,costringerò il re a vuotare i suoi forzieri,aspettate e vedrete’.

Furioso, si mise in marcia verso laforesta. Non era andato molto lontanoquando vide un uomo che sollevava seialberi come se fossero stati spighe digrano. Il soldato gli disse: «Vuoi farmida servitore e venire con me?»

«Certamente» disse l’uomo, «maprima devo portare a casa a mia madrequesto fascio di ramoscelli».

Allora prese uno degli alberi e cilegò insieme tutti gli altri, poi si misetutto in spalla e si incamminò. Pocodopo fece ritorno e se ne andò con il suopadrone, che disse: «Noi due di certo ci

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faremo strada nel mondo».Camminarono per un po’ finché non

videro un cacciatore, inginocchiato aterra, che prendeva la mira versoqualcosa che loro non riuscivano avedere.

Il soldato disse: «Cacciatore, a cosastai sparando?»

«A due miglia da qui» disse ilcacciatore, «c’è una mosca seduta sulramo di una quercia. Sto per colpirlanell’occhio sinistro».

«Vieni con me» disse il soldato. «Noitre insieme di certo ci faremo strada nelmondo».

Il cacciatore fu d’accordo e cosìandarono. Presto si trovarono davanti

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sette mulini le cui pale giravanovorticosamente, anche se non c’era unalito di vento e nemmeno una fogliatremava sui rami.

«Be’, guardate qui!» disse il soldato.«Non ho mai visto niente di simile.Cos’è che fa girare così forte quellepale?»

Proseguì con i suoi due servitori edue miglia più avanti incontrarono unuomo che stava su un albero e, tenendochiusa una narice, soffiava dall’altra.

«Cosa ci fai qui?» disse il soldato.«Due miglia più indietro lungo la

strada ci sono sette mulini a vento. Iofaccio girare le pale. Mi sorprende chenon li abbiate visti».

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«Vieni con me» disse il soldato. «Liabbiamo visti. Con un talento come iltuo, noi quattro di certo ci faremo stradanel mondo».

Il soffiatore fu d’accordo. Si rimiseroin cammino e dopo un poco videro unuomo che stava in piedi su una gambasola e l’altra era poggiata a terra difianco lui.

«Sembra che tu stia comodo» disse ilsoldato. «Stai facendo un riposino?»

«Vedete, io sono un corridore. Evado velocissimo, non posso farciniente. Con entrambe le gambe corro piùveloce di un uccello che vola».

«Vieni con me» disse il soldato.«Possiedi un talento raro. Unisciti a noi

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e insieme di certo ci faremo strada nelmondo».

Il corridore si unì a loro e ben prestoincontrarono un uomo che portava ilcappello tutto di traverso su un latodella testa, a coprirgli un orecchio.

«Perché porti il cappello a quelmodo?» domandò il soldato. «Sembrimezzo scemo».

«C’è una ragione» disse l’uomo. «Selo metto dritto, verrà all’improvviso unatremenda gelata che farà cadere gliuccelli dal cielo».

«Be’, non possiamo lasciare che undono come questo vada sprecato» disseil soldato. «Vieni con noi e ci faremodavvero strada nel mondo».

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Così si rimisero tutti in cammino epresto giunsero in una città dove il reaveva appena bandito un proclama.Chiunque avesse vinto una gara di corsacontro sua figlia, l’avrebbe avuta insposa e avrebbe ereditato il regno. Seavesse perso, però, avrebbe perdutoanche la testa.

Il soldato pensò che valesse la penarischiare, così andò dal re e gli disse:«Parteciperò alla gara, vostra maestà,alla sola condizione che uno dei mieiservitori possa correre al mio posto».«Come desideri» disse il re, «a ognimodo, se perderà, al patibolo ci andreteentrambi».

Concordarono i termini della gara:

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ciascun corridore avrebbe avuto con séun orcio da riempire a una sorgente agrande distanza da lì e il primo a tornareavrebbe vinto. Quando tutto fu pronto, ilsoldato allacciò le scarpe del corridoree gli disse. «Non prendertela comoda,ricorda che ne va della tua testa».

Il corridore e la figlia del re preserogli orci e partirono. Meno di un minutodopo, la figlia del re aveva fatto benpoca strada mentre il corridore era giàsparito dalla vista. In un baleno eraarrivato alla sorgente, aveva riempitol’orcio ed era ripartito. A metà della viadel ritorno però, gli venne voglia difarsi un riposino, così si distese a terra echiuse gli occhi, usando come cuscino

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un teschio di cavallo che si trovava lìaccanto, in modo da non stare troppocomodo, perché non voleva dormiretroppo a lungo e perdere la gara.

Nel frattempo, la figlia del re, checorreva più veloce delle personecomuni, aveva raggiunto la sorgente.Riempì l’orcio e ripartì immediatamentee ben presto incontrò il suo avversariodisteso a terra che dormivaprofondamente. ‘Il nemico si èconsegnato nelle mie mani!’ pensò,svuotò l’orcio dell’uomo e poi proseguìla sua corsa.

E a quel punto sarebbe stata la fine,se il cacciatore, piazzato in cima allemura del castello, non avesse osservato

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tutto con la sua vista acutissima. «Lafiglia del re non ci batterà!» esclamò, ecaricato il fucile prese la mira e sparò alteschio di cavallo che stava sotto la testadel corridore, svegliandolo disoprassalto.

Il corridore si alzò a sederestrizzando gli occhi e si accorse subitoche il suo orcio era vuoto e che la figliadel re lo aveva superato. Per nullapreoccupato, corse di nuovo allasorgente, riempì l’orcio e sfrecciò incittà, riuscendo a precedere la figlia delre di dieci minuti.

«Stavo giusto cominciando asgranchirmi le gambe» disse, «amalapena si può chiamare corsa quella

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che ho fatto all’andata».Il re non era molto contento di cedere

sua figlia a un semplice soldato, e lei loera anche meno. Così insieme si miseroa escogitare un sistema per sbarazzarsidi lui e dei suoi compagni. Alle fine il redisse: «Trovato! Non preoccuparti,faremo in modo che non rivedano più laloro casa».

Andò da loro e disse: «Voglioassicurarmi che vi divertiate, cari amici.Mangiate, bevete e siate allegri!»

Li condusse in una stanza che avevail pavimento di ferro, le porte di ferro egrosse sbarre di ferro alle finestre. Alcentro della stanza c’era una tavolaimbandita con uno splendido banchetto e

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il re disse loro: «Entrate e divertitevi!»Non appena furono tutti dentro, fece

chiudere e sprangare le porte. Quindimandò a chiamare il cuoco e gli disse diaccendere un fuoco nella stanzasottostante e alimentarlo finché il ferronon si fosse tanto arroventato dadiventare incandescente. Il cuoco eseguìl’ordine e così dopo non molto i seicompagni seduti a tavola cominciarono asentire caldo. Dapprima pensarono chefosse per via di tutte le pietanze chestavano mangiando, ma quando il caldoaumentò e provarono a uscire dallastanza, scoprirono che le porte eranoserrate e le finestre sbarrate. Alloracapirono l’intenzione del re: voleva

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bruciarli vivi.«Bene, lasciamo che ci provi» disse

l’uomo con il cappello di traverso.«Farò venire una tale gelata, che il fuocoscapperà con la coda tra le gambe».

Quindi si raddrizzò il cappello earrivò una tale gelata che il calore svanìimmediatamente e le pietanze sul tavolocominciarono a congelarsi. Dopo unpaio d’ore il re pensò che i sei fosseroormai morti bruciati, così fece aprire leporte per controllare, ma li trovò tutti inottima salute. Anzi gli dissero chedesideravano uscire per scaldarsi unpo’, perché lì dentro faceva così freddoche il companatico si era congelato neipiatti.

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Il re, furioso, andò al piano di sotto arimproverare il cuoco. «Credevo diaverti detto di alimentare il fuoco!»

«E così ho fatto, vostra maestà,eccolo qui, guardate che fiamme!»Quando il re vide il fuoco che ardeva,capì che non era riuscito ad avere lameglio sui sei compagni e che avrebbedovuto farsi venire in mente una trovatapiù furba.

Così si spremette le meningi fino ache non gli sembrò di avere escogitatoun modo di liberarsi di loro. Disse alsoldato: «Ascolta, tu sei un uomo dimondo, quindi possiamo dirci le cosechiaramente. Se ti darò dell’oro,rinuncerai alla principessa e te ne

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andrai?»«Va bene» disse il soldato.

«Prenderò tutto l’oro che uno dei mieiservitori riuscirà a trasportare. Poisaluterò la principessa e ce neandremo».

«Solo un servitore?»«Solamente uno. Dateci un paio di

settimane e poi verremo a prenderlo».Il re fu d’accordo. Il soldato se ne

andò e radunò tutti i sarti del regnoincaricandoli di cucire un saccogigantesco. Ci vollero due settimane perprepararlo. Una volta pronto, l’uomoforzuto, quello che sollevava gli alberi,se lo mise in spalla e con il suo padronesi recò dal re.

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Il re vedendoli arrivare disse: «Chi èquel tipo straordinario che trasportaquell’enorme fagotto di tela sullespalle? Santo cielo, è grosso come ungig...»

All’improvviso capì chi era l’uomo.‘Oh no!’ pensò. ‘Questo è il servitoreche trasporterà l’oro e quello è il saccoin cui lo metterà! Non posso crederci!’

Il re ordinò al suo tesoriere diconsegnargli una tonnellata d’oro,pensando che di certo sarebbe bastato.Ci vollero sedici robusti cannonieri pertrasportarlo tutto, ma l’uomo forzuto logettò nel sacco con una mano e disse:«Questo a malapena riempie il fondo.Datevi una mossa e portatene ancora,

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vogliamo andarcene entro oggi».Poco alla volta l’intero tesoro del re

andò a finire nel sacco. «È ancora mezzovuoto!» disse l’uomo forzuto. «Ci aveteportato soltanto le briciole. Forza!»

Allora da tutto il regno venneroinviati settemila carri pieni d’oro el’uomo forzuto li gettò tutti nel saccoinsieme ai buoi che li trainavano.

«Be’, non è pieno del tutto, mabasterà» disse. «Cerchiamo di nonessere troppo avidi». Si mise il sacco inspalla e partì con i suoi compagni.

Il re aveva osservato la scena equando vide tutta la ricchezza del regnoche se ne andava sulla schiena di un solouomo, perse le staffe. «Mandate la

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cavalleria a inseguirli!» ordinò. «Nonaccetterò tutto questo! Riportate indietrol’oro!»

Immediatamente i due migliorireggimenti raggiunsero il soldato e i suoicompagni e il comandante li minacciò:«Mani in alto! Abbandonate il sacco conl’oro e state indietro o vi faremo apezzettini!»

«Cosa dice?» disse il soffiatore.«Mani in alto? Farci a pezzettini?Vediamo quanto si divertono asvolazzare un po’». Chiuse una narice esoffiò dall’altra e in un attimo tutti icavalli e i cavalieri vorticarono in aria,come sballottati da un uragano. Alcunivolarono in alto, altri finirono tra i

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cespugli e allora un sergente esclamò:«Pietà! Pietà!»

Era un soldato valoroso, che era statoferito nove volte al servizio del re, cosìil soffiatore e i suoi compagni nonvollero infierire e lo rimisero giù congentilezza.

«Adesso ritorna dal re e digli chepuò inviare tutti i reggimenti che vuole»disse il soffiatore, «e io li farò danzaretutti tra le nuvole come voialtri».

Quando il re sentì il messaggio,disse: «Oh, lasciamoli andare. Ne hoavuto abbastanza».

Così i sei tornarono a casa, diviserola loro fortuna e vissero felici per ilresto dei loro giorni.

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Tipo di fiaba: ATU 513A, ‘Six Go Through theWhole World’ (I sei servi – I sei che si fannostrada per il mondo).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Dorothea Viehmann.Storie simili: Alexander Afanasjev: ‘The SevenSemyons’ (I sette Simeoni) [Russian FairyTales (Fiabe russe)]; Italo Calvino: ‘I cinquescapestrati’ (Fiabe italiane); Jacob e WilhelmGrimm: ‘The Six Servants’ (I sei servi)[(Children’s and Household Tales (Fiabe delfocolare)].

La storia della compagnia di talenti si presta amolte varianti. La versione di Calvino èparticolarmente vivace.

Il soggetto funziona bene anche al cinema,dove le trame che vedono il reclutamento di

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una squadra di specialisti che deve impegnarsiin missioni impossibili hanno spesso avutosuccesso. Ocean’s Eleven (Steven Soderbergh,2001) è una di queste. Così come, in mododiverso, lo fu Quella sporca dozzina (RobertAldrich, 1967). Il film francese L’esplosivopiano di Bazil (Jean-Pierre Jeunet, 2009) è ilpiù inventivo e affascinante sul tema.

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TRENTATRÉ

HANS RISCHIATUTTO

C’era una volta un uomo che sichiamava Hans e andava così pazzo peril gioco che tutti quelli che loconoscevano lo chiamavano HansRischiatutto. Non riusciva mai asmettere di giocare a carte o ai dadi ecosì perse tutto quello che possedeva,piatti e pentole, tavoli e sedie, il letto etutta la mobilia. Infine perse anche la

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casa.La sera prima che i creditori

venissero a prendere possesso dellacasa, il Signore e San Pietrocomparvero alla porta e gli chiesero diospitarli per la notte.

«Siete i benvenuti» disse HansRischiatutto, «ma dovrete dormire sulpavimento. Non mi è rimasto neanche unletto».

Il Signore disse che non importava eche alle vivande avrebbero provvedutoloro. San Pietro diede a Hans tre soldi egli chiese di andare dal fornaio ecomprare una pagnotta. Lui ci andòvolentieri, ma mentre era per stradapassò davanti alla casa dove di solito

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andava a giocare insieme a un gruppo dimascalzoni che gli aveva vinto quasitutto ciò che possedeva. Quelli quandolo videro passare lo chiamarono: «Ehi!Hans! Stiamo giocando! Perché nongiochi insieme a noi?»

«Non posso» disse, «non mi èrimasto nulla. E questi tre soldi non sonomiei».

«Che importa? Vanno bene lo stesso,vieni!»

Naturalmente non seppe resistere. IlSignore e San Pietro lo aspettarono alungo, ma poi visto che Hans nontornava, andarono a cercarlo. Aveva giàperso il denaro e quando li vide arrivarefinse di cercare le monete in una

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pozzanghera, chinandosi e rimestandonell’acqua con un bastone. Ma era unascena inutile, perché il Signore sapevache le aveva perse al tavolo da gioco.

Allora San Pietro gli diede altri tresoldi. Dato che stavolta lo tenevanod’occhio, Hans non andò a giocare macomprò il pane come gli era stato detto.Quindi tornarono a casa e, seduti sulpavimento, cenarono insieme senzanient’altro che la pagnotta.

«Hans, hai per caso del vino incasa?» disse il Signore.

«No, Signore, mi dispiace tanto. Ilvino è una delle prime cose che ho persoal gioco. Le botti in cantina sono tutteasciutte».

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«Be’, andiamo a vedere» disse ilSignore. «Potresti anche trovarlo».

«In tutta sincerità, già diverse volteho capovolto quelle botti e, credetemi,non ne è rimasta nemmeno una goccia».

«Io credo che valga la pena di dareun’altra occhiata» disse il Signore.

Per non essere scortese, Hans andò incantina e fece come il Signore gli avevadetto. E che sorpresa, quando scoprì chenon solo c’era del vino nelle botti, maera anche della migliore qualità. Siguardò intorno per cercare un recipientecon cui servirlo, poi tolse le ragnateleda un boccale smaltato e lo riempì finoall’orlo. I tre rimasero seduti passandosiil boccale e conversando fino e che non

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ebbero sonno, dopodiché si misero adormire sulle nude assi del pavimento.

La mattina il Signore disse: «Adesso,Hans, vorrei darti tre doni perricompensare la tua ospitalità. Cosadesideri?» Pensava che Hans avrebbechiesto un posto in Paradiso, ma prestocapì di essersi sbagliato.

«Be’, è molto gentile da parte vostra,Signore. Mi piacerebbe avere un mazzodi carte che non perde mai, due dadi chenon perdono mai, e... e... vediamo unpo’... mi piacerebbe avere un albero chedà ogni genere di frutti e inoltre vorreiche chiunque ci si arrampicasse nonpotesse più scendere senza il miopermesso».

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«Molto bene» disse il Signore, e conuno schiocco delle dita fece comparirecarte e dadi.

«E l’albero?» disse Hans.«È fuori, dentro un vaso».Così il Signore e San Pietro

proseguirono per la loro strada.Dopodiché, Hans ricominciò a giocarecome non aveva mai fatto prima.Vinceva ogni partita e ben presto eradiventato padrone di mezzo mondo. SanPietro lo teneva d’occhio e disse alSignore: «Signore, non possiamopermetterlo. Un giorno di questidiventerà padrone del mondo intero.Dobbiamo mandare la Morte aprenderlo».

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E così fecero. Quando la Mortearrivò, Hans era al tavolo da giococome al solito.

«Hans» disse la Morte, «il tempo digiocare è finito. Anzi, è finito tutto iltempo che ti era stato concesso. Vienicon me».

Proprio in quel momento Hans avevain mano una scala reale. Quando laMorte con le sue dita ossute gli afferròla spalla, lui si voltò e le disse: «Ah, seitu? Arrivo tra un attimo. Nel frattempopotresti farmi un favore? Qui fuori c’èun albero con dei bei frutti. Sali araccoglierne un po’, così dopo potremomangiarli per strada».

La Morte salì sull’albero e

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naturalmente non riuscì a scendere. Hansla lasciò lassù per sette anni e per tuttoquel tempo nessuno morì.

Allora San Pietro disse al Signore:«Signore, questa storia è durataabbastanza. Bisogna fare qualcosa».

Il Signore fu d’accordo e disse aHans di far scendere la Mortedall’albero. Naturalmente Hans dovetteobbedire e la Morte andò da lui e subitolo strangolò.

Così andarono insieme all’altromondo. Quando arrivarono, Hans corsedritto a bussare alla porta del Paradiso.

«Chi è?» disse San Pietro.«Sono io, Hans Rischiatutto».«Bene, allora vai via, sparisci. Non

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penserai di poter entrare qui?»Dopo andò alla porta del Purgatorio

e bussò anche lì.«Chi è?»«Hans Rischiatutto».«Vattene via. Abbiamo già

abbastanza miseria da queste parti e coni giocatori ne avremmo ancora di più».

Così a Hans non rimaneva altro postodove andare che l’Inferno e quandobussò alla porta lo fecero subito entrare.Non c’era nessuno tranne il Diavolo inpersona e tutti i diavoli più brutti,perché quelli belli erano sulla Terra peraffari. Non appena Hans entrò, si mise agiocare. Il Diavolo non aveva niente dapuntare, a parte i diavoli brutti, che ben

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presto passarono tutti a Hans, perchégiocava con le carte che non perdonomai.

Vinti i diavoli brutti, li spedì tutti aHohenfurt, dove si coltiva il luppolo.Quelli presero tutte le pertiche per illuppolo e le usarono per arrampicarsifino al Paradiso e lì, manovrandolecome leve, cominciarono a disfare lemura.

Le pietre cominciavano a cedere,così San Pietro disse: «Signore,dobbiamo lasciarlo entrare, nonabbiamo scelta».

Dunque lo fecero entrare. Ma nonappena fu dentro, Hans si rimise agiocare e molto presto tra i cittadini del

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Paradiso si creò un tale baccano di urlae litigi che gli angeli non riuscivano esentire i loro stessi pensieri.

San Pietro andò dal Signore ancorauna volta. «Signore, ne ho abbastanza.Dobbiamo cacciarlo via. Sta facendoimpazzire tutti».

Così lo presero e lo scaraventaronofuori dal Paradiso facendolo precipitaresulla Terra. La sua anima andò in pezzi ei piccoli frammenti finirono dappertuttoe infatti ancora oggi ce n’è unonell’anima di ogni giocatore.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 330A, ‘The Smith’s ThreeWishes’ (Il giocatutto).

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Fonte:: una storia scritta e spedita ai Grimmda Simon Sechter.

Questo racconto fu originariamente trascrittoda Simon Sechter, un compositore e insegnantedi musica di Weitra, nella Bassa Austria, e iGrimm lo diffusero nella versione in dialettoda lui ricevuta.

Is is emohl e Mon gewön, der hot ninx usg’spielt, und do hobend’n d’Leut nur in‘Spielhansl’ g’hoaßen, und wal er gor nitafg’hört zen spielen, se hot e san Hausund ullss vespielt.

L’interesse dei Grimm per lo studio filologicodelle varietà del tedesco fu una delle primeragioni che li spinse a raccogliere fiabepopolari. Si potrebbe discutere sul fatto cheavremmo dovuto presentare questa fiaba, eforse anche ‘Il pescatore e sua moglie ‘ (p.115) e ‘Il ginepro’ (p. 211), in una qualche

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varietà dialettale dell’inglese (e di conseguenzadell’italiano, N.d.T.) per provare a rendere lecaratteristiche dell’originale tedesco. La miasensazione è che se qualcuno fosse davverointeressato all’aspetto linguistico, con ogniprobabilità andrebbe a consultare l’originalepiuttosto che un faticoso tentativo di replicarnel’effetto e che la maggior parte dei lettori chevogliono una versione inglese (o italiana,N.d.T.) preferiscano leggerne una che presentimeno difficoltà possibile.

L’altra cosa da dire su questa fiaba è che èvivace, comica e veloce.

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TRENTAQUATTRO

L’ALLODOLA CHECANTAVA E SALTELLAVA

C’era una volta un uomo che stava perpartire per un lungo viaggio. Prima dellapartenza chiese alle sue tre figlie cheregalo desiderassero al suo ritorno. Lafiglia più grande chiese delle perle, laseconda dei diamanti e la terza disse:«Caro padre, vorrei un’allodola checanta e saltella».

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Il padre disse: «Se la trovo, l’avrai».Quindi le baciò tutte e tre e partì.

Durante il viaggio comprò perle ediamanti per le due figlie maggiori, maper quanto cercasse non riuscì a trovareda nessuna parte l’allodola che cantavae saltellava. E per questo era moltodispiaciuto, perché la terza figlia era lasua preferita.

Capitò che la strada lo conducesse inuna foresta, al centro della quale stavaun magnifico castello. Vicino al castelloc’era un albero e sulla cima dell’alberoc’era l’allodola che cantava e saltellava.

«Sei proprio ciò che volevo» dissel’uomo, e ordinò al servitore diarrampicarsi sull’albero e catturare

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l’uccellino.Ma appena si avvicinò, un leone

balzò fuori da sotto l’albero, si scosse elanciò un ruggito che fece tremare tuttele foglie sui rami. «Se qualcuno prova arubare la mia allodola che canta esaltella me lo mangio!» gridò il leone.

«Ti faccio le mie scuse» dissel’uomo. «Non sapevo che l’uccelloappartenesse a te, lascia che provi arimediare. Se ci risparmierai ti darò unmucchio d’oro».

«Dell’oro non so che farmene» disseil leone. «Voglio la prima cosa che tiverrà incontro quando arriverai a casa.Promettimelo, così voi avrete salva lavita e tua figlia potrà avere l’allodola».

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Da principio l’uomo rifiutò. «Laprima cosa a venirmi incontro potrebbeessere la mia figlia più giovane. Mivuole così bene che è sempre la prima acorrere a salutarmi quando ritorno acasa».

«Ma potrebbe non essere lei!» disseil suo servitore, che era moltospaventato. «Potrebbe essere un cane oun gatto!»

L’uomo si lasciò persuadere. Presel’allodola che canta e saltella e promiseche avrebbe dato al leone la prima cosache gli fosse andata incontro arrivando acasa.

E quando arrivò, proprio la figlia piùgiovane fu la prima a salutarlo. Corse a

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baciarlo e abbracciarlo e quando videche le aveva portato l’allodola checantava e saltellava fu pazza di gioia.

Ma suo padre non era certo lieto ecominciò a piangere. «Mia cara figlia,questo uccellino mi costa tanto caro. Peraverlo ho promesso di darti a un leoneferoce e quando quello ti avrà, ti farà apezzi e ti mangerà».

Allora le raccontò tutto quello cheera successo e la implorò di non andaredal leone, a qualsiasi costo.

Ma lei lo consolò e gli disse: «Caropadre, dobbiamo mantenere lapromessa. Andrò nella foresta,ammansirò il leone e poi ritornerò acasa sana e salva».

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Il giorno dopo il padre le indicò lastrada e lei si avviò sicura verso laforesta.

Il leone era in realtà un principevittima di un incantesimo. Durante ilgiorno lui e la sua corte avevanosembianze di leoni, ma la notteritornavano uomini. Quando la ragazzaarrivò al castello era scesa la notte evenne accolta con grande cortesia. Ilprincipe era bello e ben presto sicelebrarono le loro nozze con grandesfarzo e allegria. Per viadell’incantesimo, dormivano tutto ilgiorno e stavano felicemente sveglidurante la notte.

Un giorno il marito le disse:

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«Domani tua sorella maggiore si sposeràe ci sarà una festa a casa di tuo padre.Se desideri andarci, i miei leoni ti ciporteranno».

Lei rispose che sarebbe stata moltofelice di rivedere suo padre, e quindipartì accompagnata dai leoni. Quandoarrivò ci furono grandi feste, perché tutticredevano che fosse stata fatta a pezzi efosse morta da tempo, ma lei raccontòdel suo bel marito e della vita checonducevano insieme. Rimase fino allafine dei festeggiamenti e poi ritornònella foresta.

Quando la seconda figlia si sposò, lasorella minore venne invitata di nuovo edisse al leone: «Non voglio andare da

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sola questa volta. Vorrei che tu venissicon me».

Il leone disse che sarebbe stato moltopericoloso. Infatti, se un raggio di lucesi fosse posato su di lui, anche il raggiodi una singola candela, si sarebbetrasformato in una colomba e sarebbevolato via insieme con le altre colombeper sette anni.

«Oh, vieni, per favore» disse lei. «Cipenserò io. Ti proteggerò da ogni raggiodi luce, lo prometto».

Il principe si convinse e cosìpartirono, portando con loro anche ilfiglioletto. Nella casa del padre avevanofatto costruire una stanza speciale conmuri spessi e senza finestre e quando

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furono accese le luci nuziali, il principeper sicurezza rimase nella stanza. Ma icostruttori avevano fatto la porta con unlegno non stagionato e dopo averlamessa sui cardini, si aprì una piccolacrepa e nessuno se ne accorse.

Le nozze furono celebrate con grandegioia e la processione sfilò dalla chiesaalla casa del padre della sposa. Maquando passarono davanti alla stanza delprincipe con le torce e le lanterneaccese, un raggio di luce non più spessodi un capello penetrò attraverso la portae si posò su di lui. Quando la moglieandò a trovarlo vide che non c’era più.C’era solo una colomba bianca.

La colomba disse: «Dovrò volare per

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il mondo per sette anni. Ma ogni settepassi, lascerò cadere una piuma bianca euna goccia di sangue per indicarti dovesono. Se tu seguirai queste tracce potraisalvarmi».

La colomba volò via dalla porta e laprincipessa immediatamente la seguì.Proprio come aveva detto, ogni settepassi una piuma bianca e una goccia disangue cadevano per indicarle la via.

Lei si allontanò da casa e continuò aseguire la traccia in capo al mondo. Nonpensava a nient’altro che a seguirla,senza guardarsi attorno e senza mairiposarsi finché i sette anni furono quasipassati. A quel punto credette che prestoavrebbe potuto salvare il marito, ma si

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sbagliava: un bel giorno dal cielo noncaddero più né piume né gocce disangue. Guardò in alto, ma la colombaera scomparsa.

«Be’, adesso nessun essere umanopuò più aiutarmi» si disse la ragazza ecosì dicendo si arrampicò fino al sole.«Sole, tu che splendi sopra ognimontagna, dentro a ogni crepaccio efenditura, non hai forse visto passare lamia piccola colomba bianca?»

«No» disse il sole, «non ho visto latua colomba, ma ti regalerò questoscrigno. Aprilo quando sarai in unmomento di grande bisogno».

Lei ringraziò il sole e si rimise incammino finché non si fece notte e

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apparve la luna. E domandò alla luna:«Luna, tu che splendi su campi e foreste,non hai forse visto passare la miapiccola colomba bianca?»

«No» disse la luna, «non ho visto latua colomba, ma ti regalerò questo uovo.Rompilo quando sarai in un momento digrande bisogno».

Lei ringraziò la luna e proseguì.Allora il vento di tramontana si alzò

soffiandole addosso e lei gli disse:«Vento di tramontana, tu che soffi tratutti gli alberi del mondo, non hai forsevisto passare la mia piccola colombabianca?»

«No» disse il vento di tramontana,«io non l’ho vista, ma prova a chiedere

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agli altri venti. Loro forse l’hannovista».

Chiese al vento di levante e a quellodi ponente e loro arrivarono soffiando ele dissero che non avevano visto lacolomba, ma il vento di mezzogiornovenne e disse: «Sì, ho visto la piccolacolomba bianca. Stava volando sul MarRosso. È ritornata a essere un leoneperché i sette anni sono passati. Adessosta lottando contro un serpente. Staiattenta però, perché il serpente è inrealtà una principessa sottoincantesimo».

Il vento di tramontana le disse allora:«Ascolta, adesso ti darò dei consigli.Vai sul Mar Rosso. Sulla riva destra

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vedrai una fila di alte canne. Contalecon attenzione e taglia l’undicesima, poicon quella colpisci il serpente. Il leoneallora potrà sconfiggerlo ed entrambiritorneranno umani. Lì vicino vedrai ilgrifone che vive nel Mar Rosso. Sali sulsuo dorso con il tuo amato e lui viriporterà a casa attraversando il mare.Prendi questa noce. Quando sarete involo in mezzo al mare, lasciala cadere esubito un altissimo albero di nocicrescerà in modo che il grifone possariposarsi. Se non si riposa non sarà ingrado di riportarvi a casa. Non perderequesta noce per nessun motivo o finiraiin mare e affogherai».

Così andò sul Mar Rosso e trovò

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tutto proprio come il vento di tramontanale aveva detto. Contò le canne, presel’undicesima e con quella colpì ilserpente. Immediatamente il leone ebbela meglio sul serpente e lo sconfisse. Enel momento in cui il serpente si arreseridiventarono entrambi umani.

Ma prima che la moglie del leonepotesse muoversi, la principessa che erastata un serpente afferrò il principe permano, lo trascinò sul dorso del grifone evolarono via.

Così la povera ragazza si ritrovòancora una volta sola e abbandonata. Sisedette e si mise a piangere. Ma poiriprese coraggio e disse: «Continuerò acamminare e andrò lontano fino a dove

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soffia il vento e fino a quando canta ilgallo, finché non lo troverò».

Così si rimise in cammino. Viaggiò alungo e alla fine arrivò presso uncastello dove il principe leone e laprincipessa serpente vivevano insieme.Lì seppe che molto presto sarebberostate celebrate le loro nozze.

La ragazza disse: «Dio mi aiuterà» eaprì il piccolo scrigno che le aveva datoil sole. Dentro c’era un abito dorato chebrillava come il sole stesso. Lo indossòed entrò nel castello e tutti, compresa lasposa, rimasero meravigliati. Allaprincipessa piacque così tanto il vestitoche lo avrebbe voluto per sé come abitoda sposa e le chiese se era in vendita.

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«Né per oro né per denaro» disse laragazza, «ma soltanto per ciò che mi ècaro».

«E cosa significa?» disse laprincipessa.

La ragazza chiese di poter passareuna notte nella stanza dove dormiva losposo. La richiesta non piacque pernulla alla sposa, ma desiderava cosìtanto il vestito che acconsentì.Comunque disse al servitore delprincipe di dargli un sonnifero.

Quella notte, quando il principe giàdormiva, la ragazza venne portata nellastanza. Quando le porte furono chiuse,lei si sedette sul letto e gli sussurrò: «Tiho seguito per sette anni. Sono andata

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dal sole e dalla luna e dai quattro ventiper chiedere di te e ti ho aiutato asconfiggere il serpente. Mi hai propriodimenticata del tutto?»

Ma il principe dormiva cosìprofondamente che pensò che queisussurri fossero dovuti al vento chepassava tra gli abeti.

Quando fece giorno la fecero usciredalla stanza e dovette consegnare ilvestito dorato. Vedendo che il trucco nonaveva funzionato si intristì, andò asedersi in un prato e si mise a piangere.Ma allora si ricordò dell’uovo che leaveva dato la luna. Era certamente in unmomento di grande bisogno, così loruppe.

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Ne venne fuori una gallina con dodicipulcini, tutti d’oro. I pulcini si misero acorrere pigolando e poi corsero aripararsi sotto le ali della chioccia. Nonc’era al mondo cosa più dolce davedere.

La ragazza si alzò e li portò con sésul prato, fino a quando non si aprì unafinestra del castello e la sposa li vide.Le piacquero così tanto che, comeprima, le chiese se fossero in vendita.

«Né per oro né per denaro, masoltanto per ciò che mi è caro; fammidormire un’altra notte in camera dellosposo».

La principessa acconsentì, pensandodi ripetere lo stratagemma della notte

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precedente.Ma stavolta il principe domandò al

suo servitore di quei mormorii e frusciinotturni. Il servitore confessò che lasposa aveva ordinato di dargli unsonnifero, perché una povera ragazzavoleva dormire nella sua camera.

Il principe disse: «Bene, allorastanotte verserai il sonnifero fuori dallafinestra».

Quella notte la ragazza vennecondotta nuovamente nella stanza equesta volta quando cominciò asussurrare la sua storia il principericonobbe la voce della cara moglie esubito l’abbracciò.

«Adesso sono libero!» disse. «Mi

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sento come se avessi sognato. Credo chela principessa mi abbia stregato perfarmi dimenticare te. Ma Dio ha dissoltol’incantesimo in tempo!»

Uscirono in punta di piedi elasciarono il castello in segreto, perchétemevano il padre della sposa che era unpotente mago.

Trovarono il grifone, montarono sullasua groppa e subito volarono verso casa.A metà strada sul Mar Rosso la mogliesi ricordò di gettare la noce.Immediatamente spuntò un altissimoalbero e il grifone si riposò tra i suoirami prima di volare fino a casa dovetrovarono il loro bambino che si erafatto grande, forte e bello e da allora

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vissero felici fino al giorno della loromorte.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 425C, ‘Beauty and theBeast’ (L’allodola che canta e saltella).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Dortchen Wild.Storie (in qualche modo) simili: Katharine M.Briggs: ‘The Three Feathers’ (Folk Tales ofBritain); Italo Calvino: ‘Belinda e il mostro’(Fiabe italiane).Come in molte altre fiabe dei Grimm, anchequi c’è una questione aperta. Qual è ilsignificato dell’allodola che canta e saltella?Perché scompare dalla storia non appena laragazza la riceve? Cosa le accade in seguito? Ec’è un collegamento tra il leone (Löwe) e iltermine dialettale che i personaggi usano per

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l’allodola (Löweneckerchen e non Lerche)?Se avessimo voluto dare all’allodola più

spazio nel racconto (e non sarebbe statodifficile: avrebbe potuto condividere ipellegrinaggi della moglie, volare in sua vecedal sole e dalla luna, avrebbe potuto indurre laprincipessa serpente a guardare dalla finestra lagallina d’oro e i pulcini, per esempio),avremmo forse chiarito nella nostra mente larelazione tra la moglie, il leone e l’allodola.Nella fiaba così come è presentata non ci sonomolti indizi.

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TRENTACINQUE

LA GUARDIANA DELLEOCHE

C’era una volta una regina vedova damolti anni. Aveva una bella figlia che,da giovane, fu promessa a un principeche viveva molto lontano. Presto arrivòil tempo delle nozze e la figlia dovettepartire per la terra straniera dove vivevail principe. La vecchia reginaimpacchettò tutti gli oggetti di valore,

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oro e argento, coppe finemente cesellatee gioielli rari d’ogni genere e tutto quelche si confaceva a una dote reale,poiché amava sua figlia con tutto ilcuore.

Fece partire con sua figlia anche unacameriera, per assicurarsi che arrivassesana e salva al palazzo dello sposo.Avevano un cavallo a testa per ilviaggio. Quello della principessa sichiamava Falada ed era un cavalloparlante. Era ormai giunta l’ora dellapartenza e la vecchia regina andò incamera da letto, prese un coltello e sitagliò un dito. Lasciò cadere tre gocce disangue su un fazzoletto e lo diede allafiglia dicendole: «Bambina mia,

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conservalo con cura. Ne avrai bisognodurante il viaggio».

Poi si dissero addio. La principessasi mise il fazzoletto nel bustino e partìper la casa dello sposo.

Dopo un’ora, la principessa ardevadi sete e disse alla cameriera:«Scenderesti a prendermi dell’acqua alruscello con la coppa d’oro? Ho tantasete, devo bere».

La cameriera disse: «Prenditela dasola. Se hai sete, puoi bere direttamentedal ruscello. Non ci penso proprio afarti da serva».

La principessa aveva così tanta seteche si adattò a bere dal ruscello, vistoche la cameriera non le lasciava

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nemmeno usare la coppa. ‘Signore mio!’pensò.

E le tre gocce di sangue risposero:«Se tua madre lo venisse a sapere, ilcuore in due le si potrebbe spezzare».

La principessa era umile, non dissenulla e rimontò a cavallo. Continuaronoper alcune miglia, ma faceva caldo, ilsole era cocente e presto le venne dinuovo sete. Arrivate in prossimità di unaltro ruscello, disse alla cameriera: «Miporti un po’ d’acqua con la coppad’oro?» Si era dimenticata le parolesgarbate di prima.

Ma la cameriera rispose in modoancora più arrogante: «Te l’ho detto.Non ti faccio da serva. Se hai sete,

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scendi e bevi da sola».La principessa scese un’altra volta e

di nuovo pensò: ‘Signore mio!’E anche stavolta le tre gocce di

sangue mormorarono: «Se tua madre lovenisse a sapere, il cuore in due le sipotrebbe spezzare!»

Quando la principessa si chinòsull’acqua del ruscello per bere, ilfazzoletto le cadde dal bustino e venneportato via dalla corrente. Lei non se neaccorse nemmeno, affaticata com’era,ma la cameriera lo vide e provò unpiacere maligno. Sapeva che ora laprincipessa era debole e impotente.

Così, quando la principessa provò arimontare su Falada, la cameriera disse:

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«Che pensi di fare? Questo cavallo nonè tuo. È mio adesso. E puoi anchetoglierti tutti quei vestiti raffinati e darlia me. Ti puoi mettere i miei cenciscoloriti. Su, sbrigati».

La principessa fu costretta a obbediree poi la cameriera le fece giurare su Diodi non far parola di nulla alla corte delre. Se non avesse tenuto fede algiuramento, l’avrebbe uccisa.

Ma Falada osservò tutto con grandeattenzione.

Così la cameriera in groppa a Faladae la vera principessa sul ronzinoarrivarono al palazzo reale. Ci fu grandegiubilo all’arrivo e il principe corseloro incontro. Naturalmente pensò che la

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cameriera fosse la sua sposa, la fecescendere da cavallo e la portò al pianosuperiore, mentre la vera principessarimase lì dov’era.

Il vecchio re guardò fuori dallafinestra e la vide nel cortile e pensò cheera bellissima, i tratti fini e delicati,così andò subito negli appartamenti realiper chiedere alla sposa chi fosse laragazza che era con lei e che aspettavanel cortile.

«L’ho raccolta dalla strada mentrevenivo per tenermi compagnia» disse lafalsa sposa. «Fatele fare qualcosa o nonfarà altro che oziare».

Ma il vecchio re non aveva lavoro dadarle. «Potrebbe aiutare il guardiano

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delle oche» disse.Così la vera sposa prese a badare

alle oche insieme al piccolo guardianoche si chiamava Conrad.

Più tardi, la falsa sposa disse alfiglio del re: «Marito caro, vorrei che tufacessi una cosa per me».

«Certo» disse lui. «Volentieri».«Allora manda a chiamare qualcuno

al mattatoio e digli di tagliare la testa alcavallo con cui sono arrivata» disse lei.«Quella bestia mi ha dato un sacco diproblemi mentre venivo».

Di fatto, aveva paura che Faladadicesse la verità su come si eracomportata con la principessa. Il rischioche la verità venisse fuori era tanto più

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grande quanto più rimaneva in vita.Vennero date disposizioni e il fedele

Falada fu ucciso. La vera principessa lovenne a sapere e in segreto promiseall’uomo che l’aveva ucciso una monetad’oro in cambio di un piccolo favore.Nelle mura della città c’era un largopassaggio buio che lei attraversava conle oche ogni mattina. Gli chiese diappendere lì la testa di Falada, di modoche passando la vedesse.

L’uomo acconsentì e inchiodò la testaal muro del passaggio.

La mattina dopo, quando lei e Conradlo attraversarono con il branco di oche,disse:

«Oh, povero Falada appeso lassù!»E la testa rispose:

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«Oh, bionda principessa che passilaggiù,Se tua madre lo venisse a sapere,il cuore in due le si potrebbe spezzare».

La principessa non disse più nulla einsieme a Conrad portò le oche alpascolo. Arrivati nel solito punto, sisedette e si sciolse i capelli chesembravano d’oro puro. A Conradpiaceva vederle fare quel gesto e siavvicinò per strappargliene un paio.

Allora lei disse:«Forte vento, comincia a soffiaree il cappello di Conrad fai volare,così tutt’intorno lo dovrà cercaree io i miei capelli potrò pettinare».

E cominciò a soffiare un vento forte chestrappò il cappello dalla testa di Conrade lo fece volare via nel prato. Lui lo

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inseguì qua e là, sopra e sotto, finchénon riuscì a prenderlo. Nel frattempo laprincipessa era riuscita a pettinarsi icapelli e fare una treccia legandola inuna crocchia e non c’erano più capellida strappare. Conrad mise il broncio enon disse più una parola per tutto ilgiorno. Venuta la sera, riportarono leoche a casa.

La mattina seguente, mentreattraversavano il passaggio nelle muradella città, la ragazza disse:

«Oh, povero Falada appeso lassù!»E la testa rispose:

«Oh, bionda principessa che passilaggiù,Se tua madre lo venisse a sapereil cuore in due le si potrebbe spezzare».

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Raggiunto il pascolo, la principessa dinuovo si sedette a intrecciarsi i capelli edi nuovo Conrad tentò di strapparglieneuno e di nuovo lei disse:

«Forte vento, comincia a soffiaree il cappello di Conrad fai volare,così tutt’intorno lo dovrà cercaree io i miei capelli potrò pettinare».

Il vento prese a soffiare all’improvvisoe strappò via di nuovo il cappello diConrad che dovette inseguirlo per ilpascolo e quando tornò la principessa siera già messa a posto i capelli, così luinon poté strappargliene nemmeno uno. Econtinuarono a pascolare le oche fino asera.

Tornati a palazzo, Conrad andò dalvecchio re e disse: «Non voglio più

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pascolare le oche con quella ragazza».«Perché?» disse il re.«Perché mi importuna per tutto il

giorno!»«Be’, cos’è che fa?»«Al mattino, quando attraversiamo il

passaggio sulle mura della città, parlaalla testa di un vecchio ronzino che sta lìinchiodata. Dice: ‘O, povero Faladaappeso lassù!’ E la testa dice: ‘Oh,bionda principessa che passi laggiù, setua madre lo venisse a sapere, il cuorein due le si potrebbe spezzare’».

Poi Conrad proseguì raccontando alre cosa accadeva al pascolo e come laragazza gli faceva soffiar via il cappellodal vento.

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«Bene, domani andrai con lei comesempre» disse il re. «E io verrò acontrollare».

Così al mattino il vecchio re siavvolse in un mantello, si sedette sotto ilpassaggio e udì la principessa parlarecon la testa di Falada. Poi li seguì condiscrezione al pascolo e si nascose tra icespugli per vedere quel che accadeva.Proprio come Conrad gli aveva detto, laguardiana delle oche chiamò a sé ilvento che fece volar via il cappello diConrad nel pascolo, mentre lei sitoglieva le forcine dai capelli e poi sirifaceva le trecce.

Il re vide tutto e poi tornò a palazzo.Quando, a sera, la guardiana delle oche

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ritornò, la fece chiamare e le chiesespiegazioni.

«Non posso dirvelo» rispose lei. «Èun segreto. Non posso dirlo a nessuno.Mi hanno fatto giurare su Dio che non neavrei fatto parola. Se non avessi giurato,mi avrebbero uccisa».

Il vecchio re tentò di persuaderla, manon ci fu modo. Per nessun motivoavrebbe rotto la promessa.

Alla fine lui disse: «Sai cosa ti dico?Non raccontare a me le tue pene, madille alla stufa lì nell’angolo. In questomodo non romperai la promessa, mapotrai alleggerirti la coscienza».

Allora lei si infilò nella stufa e iniziòa piangere per svuotare il cuore.

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«Eccomi qui, sola e abbandonata dalmondo intero nonostante io sia la figliadi un re. Una cameriera infedele mi hacostretta a scambiare i vestiti con lei esi è sposata al posto mio. E ora mi toccapascolare le oche. Se la mamma losapesse, il cuore le si spezzerebbe indue».

Il re, che stava fuori sul comignolodella stufa, sentì tutto. Tornò da lei e ledisse di uscire. Le fece indossare abitiregali e si stupì di quanto era bella.

Poi chiamò il figlio e gli spiegò chela moglie l’aveva sposato con l’ingannoe non era una principessa, bensì unacameriera. La sua vera moglie era laguardiana delle oche. Quando il figlio

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del re vide quanto era bella e seppequanta virtù aveva dimostrato, si riempìdi gioia.

Diedero una grande festa a cuiinvitarono tutta la corte e i buoni amici.A capotavola sedeva lo sposo, da unlato la falsa sposa e dall’altro quellavera. La cameriera non si rendeva contodi nulla, poiché non aveva riconosciutola principessa nel suo bel vestito. Dopoaver mangiato e bevuto, erano tutti dibuonumore e il vecchio re pose unindovinello alla falsa sposa: chepunizione meriterebbe chi inganna lapropria padrona? E raccontò tutta lastoria, tornando a chiedere subito dopo:«Che condanna merita una persona

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così?»La falsa sposa disse: «Merita di

essere denudata e messa in una botterivestita di chiodi appuntiti all’interno.Poi la botte dovrebbe essere attaccata adue cavalli bianchi e trascinata su e giùper le strade finché non sarà morta».

«Sei tu» disse il vecchio re. «E haipronunciato la tua condanna. Tutto ciòche hai descritto sarà fatto a te».

E portata a termine la condanna, ilfiglio del re prese in moglie la verasposa e regnarono in pace e felicità.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 533, ‘The SpeakingHorsehead’ (La piccola guardiana di oche).

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Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Dorothea Viehmann.Storie simili: Giambattista Basile: ‘Le doiepizzelle’ (Lo cunto de li cunti); Katharine M.Briggs: ‘Roswal and Lilian’ (Folk Tales ofBritain).Povero Falada! Si meritava un destino migliore.Potremmo pensare anche che meritasse unaparte più lunga nella storia. Forse, se avesseparlato prima, la sua padrona non se la sarebbepassata tanto male.

Bella e buona come indubbiamente è, laprincipessa/guardiana delle oche deve ritirarsial secondo posto, quanto a intraprendenza edenergia, cedendo il passo alla camerieramalvagia, che merita una storia più lunga. Èdifficile per un narratore rendere interessanteun personaggio che è una vittima mite e docile,che non reagisce né contrattacca, ma dopotuttoqui non si tratta di un romanzo.

Il nome Falada, con una ‘L’ in più, è stato

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usato dal romanziere tedesco Rudolf Ditzen(1893-1947), autore di Jeder stirbt für sichallein (Ognuno muore solo, 1947), comenome d’arte: Hans Fallada.

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TRENTASEI

PELLEDORSO

C’era una volta un giovane che si eraarruolato come soldato, combattevavalorosamente ed era sempre in primalinea quando fischiavano le pallottole.Finché durò la guerra tutto andò bene,ma quando fu firmata la pace vennecongedato. Il capitano gli disse chepoteva andarsene dove voleva. I genitorierano morti e non aveva più una casa,

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così andò dai suoi fratelli a chiedere divivere con loro fino alla guerrasuccessiva.

Ma i suoi fratelli erano senza cuore egli dissero: «I tuoi problemi non ciriguardano! Qui non ti vogliamo. Vattenevia e arrangiati da solo».

Tutto ciò che il soldato possedevaera un moschetto, così se lo mise inspalla e se ne andò per il mondo. Prestogiunse in una grande piana brulla dove sivedeva solo un gruppetto di alberi incircolo. Si sedette sotto gli alberi,riflettendo tristemente sulla sua sorte.

‘Non ho denaro né prospettive’pensava. ‘L’unica cosa che so fare è laguerra, ma se tutti vogliono la pace,

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sono inutile. Probabilmente morirò difame’.

All’improvviso sentì un rumore, sivoltò e vide uno sconosciuto. Indossavauna bella giacca verde e in tutto e pertutto aveva un aspetto rispettabile, aeccezione della mostruosa zampa dicavallo che aveva al posto di un piede.

«So cosa vuoi» disse l’uomo, «epotrai ottenere tutto, tanto oro e tantiaveri, quanti ne desideri, ma primadovrai dimostrarmi di esserecoraggioso. Io non do il mio denaro achi fugge al primo segnale di pericolo».

«Bene, io sono un soldato e il miomestiere è non aver paura di nulla. Puoimettermi alla prova se vuoi».

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«Va bene» disse l’uomo, «guardadietro di te».

Il soldato si voltò e vide un orsoenorme, che gli si avventava addossocon un grugnito furioso.

«Ah! Ora ti faccio un po’ di solleticosul muso, brutta bestiaccia» disse ilsoldato, «e vedremo se poi avrai ancoravoglia di grugnire».

Puntò il moschetto verso l’orso e fecefuoco. Lo colpì sul muso e quello caddesubito a terra.

«Vedo che il coraggio non ti manca»disse lo straniero, «ma non ho ancorafinito. C’è un’altra condizione».

«Solo se non compromette le miepossibilità di andare in Paradiso» disse

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il soldato, che aveva capito bene chi eralo straniero. «Se c’è questo rischio,allora non voglio aver niente a che farecon te».

«Bene, vedremo» disse lo straniero.«Ecco cosa dovrai fare: per i prossimisette anni non potrai lavarti o spazzolartii capelli o tagliarti le unghie opronunciare le preghiere al Signore. Io tidarò una giacca e un mantello daindossare tutto il tempo. Se tu moriraidurante questi sette anni, sarai mio, èchiaro? Se sopravvivrai sarai libero eanche ricco per il resto della tua vita».

Il soldato rifletté. Aveva affrontato lamorte così tante volte sul campo dibattaglia che si era abituato ai pericoli,

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ma la povertà era tutta un’altra storia.Decise di accettare l’offerta delDiavolo.

Il Diavolo si tolse la giacca verde ela diede al soldato dicendo: «Con questaaddosso, ogni volta che metterai unamano in tasca troverai sempre deldenaro».

Poi il Diavolo scuoiò l’orso e disse:«Userai questa pelle come mantello edovrai anche dormirci dentro e nondovrai mai stenderti su altri letti. E saraiconosciuto col nome di Pelledorso».

Con queste parole il Diavolo sparì.Il soldato si mise la giacca, infilò una

mano in tasca e capì che il Diavoloaveva detto la verità. Indossò la pelle

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dell’orso a mo’ di mantello e cominciò avagabondare. Andava dove voleva,faceva ciò che gli andava di fare espendeva tutto quello che trovava intasca.

Per tutto il primo anno mantenne unaspetto accettabile, ma il secondo annocominciò ad assomigliare a un mostro.Aveva la faccia quasi interamentecoperta da una ruvida barba, i capelliarruffati e aggrovigliati, le unghie glierano diventate artigli ed era cosìsporco che se si fosse piantata dell’erbasulla sua faccia, sarebbe germogliata.Faceva fuggir via chiunque lo vedesse.Però, dava sempre del denaro ai poveriaffinché pregassero che lui rimanesse in

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vita per sette anni e inoltre, dato chepagava in moneta sonante, riuscivasempre a trovare accoglienza.

Nel suo quarto anno divagabondaggio, arrivò a una locanda. Ilpadrone non voleva farlo entrare e glirifiutava persino un posto nella stallaper timore di spaventare i cavalli. Maquando Pelledorso tirò fuori dalla tascauna bella manciata di monete, il padronesi ammorbidì un poco e gli permise distare in un capanno nel cortile, acondizione di non mostrare a nessuno ilsuo volto.

Una notte se ne stava seduto da solo epensava ai sette anni desiderando chefossero già trascorsi, quando udì dei

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penosi lamenti provenire da una stanzavicina. Pelledorso era un uomo di buoncuore e, volendo essere d’aiuto, aprì laporta. Vide un vecchio che piangevaamaramente battendo i pugni. Il vecchio,alla vista di Pelledorso, stava perscappare, ma sentendo una voce umanasi fermò e lasciò che il mostro gliparlasse.

Pelledorso parlò con gentilezza econvinse il vecchio a sedersi eraccontargli i suoi guai. A quanto parevapoco alla volta aveva perso tutto ildenaro in suo possesso e ora lui e le suefiglie erano a un passo della fame. Nonpoteva neppure pagare il conto alpadrone della locanda ed era certo che

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sarebbe finito in prigione.«Se il tuo unico problema è il

denaro» disse Pelledorso, «ne hoabbastanza per aiutarti».

Chiamò il padrone e pagò il conto epoi mise una borsa piena d’oro nellatasca del vecchio. L’uomo capì che tutti isuoi guai erano finiti e non sapeva comeringraziare quello strano benefattore.

«Vieni a casa mia» disse. «Vieni aconoscere le mie figlie. Sono tuttestraordinariamente belle e potraisceglierne una da prendere in moglie.Quando sapranno cosa hai fatto per me,certamente non ti rifiuteranno. Hai unaspetto, come dire... bizzarro, ma inpoco tempo colei che sceglierai ti

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renderà tutto lindo e pulito».A Pelledorso piacque sentir parlare

di figlie e quindi andò a casa con ilvecchio. Ma la figlia maggiore nonappena lo vide fuggì via urlando. Laseconda figlia lo squadrò per bene edisse: «Credi che io possa sposare unacosa del genere? Non ha nemmenol’aspetto di un uomo. Avrei fatto prima asposare quell’orso che venne qui unavolta, ricordi? Gli rasarono via lapelliccia e poi gli fecero metterel’uniforme da ussaro e i guanti bianchi.A lui avrei potuto abituarmi».

La figlia più giovane però disse:«Caro padre, se ti ha aiutato come dicideve essere un buon uomo. Tu gli hai

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promesso una sposa e io sono pronta amantenere la tua parola».

Era proprio un peccato che la facciadi Pelledorso fosse ricoperta di peli esudiciume, altrimenti il padre e la figliaavrebbero visto con quanta gioia avevareagito a quelle parole. Si sfilò unanello dal dito, lo spezzò in due parti ene diede una alla ragazza tenendo l’altraper sé. Scrisse il nome di lei nella suametà e il suo nome nella metà dellaragazza, dicendole di custodirla concura.

«Adesso devo andare» disse, «mirestano ancora tre anni divagabondaggio. Dopodiché, se non saròtornato, tu sarai libera, perché vorrà dire

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che sono morto. Ma io spero che tupreghi Dio per chiedergli di preservarmiin vita».

La povera ragazza si vestì tutta dinero e quando pensava al suo futurosposo le venivano le lacrime agli occhi.E per i tre anni successivi scherno ederisione furono tutto ciò che ebbe dallesue sorelle.

«Farai bene a stare attenta» diceva lasorella maggiore. «Se gli concederai latua mano, te la stritolerà con le suezampacce».

«Fai attenzione» diceva la secondasorella, «gli orsi sono golosi dileccornie. Se gli viene la fregola, in unattimo ti ritroverai nel suo gargarozzo».

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«E farai bene a fare come ti dice.Non vorrei essere nei tuoi panni secomincia a grugnire».

«Ma almeno il matrimonio saràdivertente. Gli orsi ballano sempre cosìbene».

La futura sposa non rispondeva e nonsi lasciava turbare. Nel frattempoPelledorso vagava dappertutto per ilmondo, facendo del bene ogni volta chepoteva e dando ai poveri con generositàaffinché pregassero per lui.

Infine, all’alba dell’ultimo giorno deisette anni, si recò nuovamente nellapiana brulla e si sedette sotto gli alberiin cerchio. Ben presto il vento cominciòa fischiare ed ecco che apparve il

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Diavolo, con la faccia rabbuiata.«Eccoti la tua roba» disse, e gettò a

Pelledorso la sua vecchia giacca.«Adesso ridammi indietro la mia giaccaverde».

«Non subito» disse Pelledorso. «Perprima cosa dovrai pulirmi per bene.Voglio quattro grandi vasche d’acqua, dabollente a tiepida, e quattro tipi disapone, da quello giallo che si usa perscrostare i pavimenti al più raffinatosavon de luxe parigino. Voglio glishampoo più assortiti, da quelli che siusano per strigliare i cavalli a quellidelicatissimi alla lavanda. Poi voglioanche un gallone di acqua di colonia».

E allora il Diavolo, volente o

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nolente, dovette portare acqua e saponee ogni tipo di prodotti cosmetici e lavòPelledorso da capo a piedi, gli tagliò icapelli, li pettinò per bene, gli tagliòbarba e unghie. Dopodiché, Pelledorsoebbe di nuovo l’aspetto fiero di un verosoldato e anzi, non era mai sembrato piùbello.

Il Diavolo scomparve con amarilamenti e Pelledorso si sentì raggiante.A grandi passi si recò in città, compròuna splendida giacca di velluto,noleggiò una carrozza trainata da quattrocavalli bianchi e si avviò verso la casadella sposa. Ovviamente nessuno loriconobbe. Il padre credeva che fosse undistinto ufficiale, un colonnello

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quantomeno, e lo condusse nella stanzada pranzo dove stavano sedute le figlie.

Lì prese posto tra le due figliemaggiori. Quelle iniziarono con lesmancerie. Gli versavano il vino,sceglievano i bocconi migliori damettergli nel piatto, civettavano con luiperché pensavano di non aver mai vistoun uomo più bello. Ma la figlia piùgiovane, seduta dall’altra parte deltavolo, non alzò lo sguardo e non disseuna parola.

Infine Pelledorso chiese al padre dipoter scegliere una delle figlie comesposa. Nel sentir ciò, le due figliemaggiori schizzarono in camera da lettoa indossare gli abiti migliori. E ciascuna

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credeva di essere la preferita diPelledorso.

Rimasto solo con la sua promessasposa, l’ospite tirò fuori la sua metàdell’anello e la fece cadere nelbicchiere di vino che poi le offrì. Leiprese il vino e lo bevve e quando videl’anello rotto nel fondo del bicchiere, ilcuore le cominciò a battere forte. Presela sua metà dell’anello, che teneva alcollo attaccata a un nastro, e l’accostòall’altra. Le due parti coincidevanoperfettamente.

Lo straniero disse: «Sono il tuopromesso sposo, colui che haiconosciuto come Pelledorso. Per graziadi Dio, ho ritrovato nuovamente la mie

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belle sembianze umane».La abbracciò e la baciò

calorosamente. In quel momentorientrarono le due sorelle con addossoabiti sgargianti e quando li videroinsieme e riconobbero Pelledorso,capirono cosa era accaduto eimpazzirono di rabbia. Corsero fuori euna di loro andò ad affogarsi nel pozzomentre l’altra si impiccò a un albero.

Quella sera si sentì bussare allaporta. Pelledorso aprì ed era il Diavolocon la sua giacca verde. «Cosa vuoi?»disse Pelledorso.

«Sono venuto a ringraziarti. Invece diun’anima sola, la tua, ora ne ho due concui trastullarmi».

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* * *

Tipo di fiaba: ATU 361, ‘Bear-Skin’ (Pelled’orso).Fonti: una storia raccontata ai fratelli Grimmdalla famiglia von Haxthausen e un racconto diHans Jakob Christoffel von Grimmelshausen,‘Vom Ursprung des Namens Bärnhäuter’ (‘TheOrigin of the Name Bearskin’, 1670) .Storie simili: Katharine M. Briggs: ‘The Coat’(Folk Tales of Britain); Italo Calvino: ‘Lebrache del diavolo’ (Fiabe italiane).Il patto che viene stipulato non pare granchévantaggioso per il Diavolo. Sicuramente cisarebbero stati sistemi più facili e menodispendiosi per ottenere l’anima del soldato. Aogni modo il soldato si dimostra pio ecaritatevole e forse non sarebbe stato facilesedurlo con i tradizionali espedienti diabolici.La dannazione delle due sorelle appare moltodura, ma dopotutto bisogna anche tener conto

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dei lunghi anni di malignità e umiliazioniinflitte.

La versione di Calvino è ricca diimmaginazione. Ho preso da lui ilsuggerimento che l’acqua da sola non sarebbebastata a pulire tutto il sudiciume accumulatosiin sette anni.

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TRENTASETTE

I DUE VIANDANTI

Le montagne e le valli non si incontranomai, ma i figli degli uomini, buoni ecattivi, si incontrano sempre tra loro.Così, avvenne che un calzolaio e unsarto si incontrassero una volta duranteun viaggio. Il sarto era un bel ragazzo,sempre allegro e di buonumore. Quandovide il calzolaio venirgli incontro sullastrada, avendone riconosciuto il

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mestiere dalla forma della sacca, si misea cantare una canzoncina per prenderloin giro:

«Passa il filo nell’occhiello,picchia il dito col martello...»

Ma il calzolaio non era tipo a cuipiacevano gli scherzi. Si fece scuro involto e serrò i pugni. Il sarto alloraridendo gli passò la sua bottiglia digrappa.

«Prendi, scolatene un po’» disse.«Non volevo certo offenderti. Fatti unabevuta e manda giù la rabbia».

Il calzolaio tracannò mezza bottigliae lo sguardo gli si rasserenò. Gli restituìla bottiglia dicendo: «Niente male. Si faun gran parlare delle grandi bevute, manon molto della gran sete. Vogliamo

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viaggiare insieme per un tratto?»«Mi sta bene» disse il sarto, «purché

tu voglia andare nelle grandi città, dovesi trova più lavoro».

«Proprio quello che avevo in mente.Non c’è granché da guadagnare neivillaggi, la gente di campagna preferisceandare in giro senza scarpe».

Così si misero in cammino insieme,un piede avanti all’altro, come donnolenella neve. Tempo a disposizione nongliene mancava di certo, ma da metteresotto i denti avevano ben poco. Nonappena arrivavano in una città simettevano in cerca di lavoro e visto cheil sarto era un tipetto intraprendentedalle belle gote colorite, riusciva a

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trovarne facilmente, e magari con un po’di fortuna quando ripartiva ricevevaanche un bel bacio di saluto dalla figliadel padrone.

Ogni volta che si ritrovavano, erasempre il sarto ad avere le tasche piùpiene. Il calzolaio, con il suocaratteraccio, faceva la faccia scura ediceva: «Più grosso il furfante, piùgrande la fortuna».

Ma il sarto rideva e cantava anchepiù di prima e divideva quel che avevacon il suo compagno. Non appena glicapitavano un paio di monete in tascaordinava qualcosa di buono da mangiaree batteva le mani sul tavolo facendoballare i bicchieri. Il suo motto era:

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«Facile il guadagno, facile la spesa».Dopo aver viaggiato per un certo

tempo, arrivarono in una grande foresta.Lì c’erano due sentieri che portavanoalla capitale, con uno si impiegavanodue giorni di cammino, ma con l’altro cene volevano sette, e loro non sapevanocome distinguerli. Si misero a discutereseduti sotto una quercia. Avrebberodovuto portarsi cibo per sette giorni osolo per due?

«Bisogna essere sempre pronti alpeggio» disse il calzolaio. «Porteròabbastanza pane per una settimana».

«Cosa?» disse il sarto. «Portarsidietro tutto quel pane come una bestia dasoma senza poter nemmeno godersi il

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paesaggio? Io non lo farò di certo.Confido in Dio come ho sempre fatto. Ildenaro è buono in estate come ininverno, ma il pane no, con il caldo sisecca in fretta e poi ammuffisce. Eperché poi non dovremmo prendere lastrada giusta? Se ci pensi avere unapossibilità su due non è affatto male. No,io porterò pane per due giorni ebasterà».

Così ciascuno prese il pane chevoleva e si avviarono nella foresta.Sotto gli alberi era tutto tranquillo comedentro una chiesa. Nessuna brezzasoffiava, non si sentiva mormorio ditorrenti o canti d’uccello e non un soloraggio di sole filtrava tra le foglie. Il

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calzolaio non diceva una parola.Procedeva a fatica, con il pane semprepiù pesante sulle sue spalle, e un rivolodi sudore che gli colava sulla facciacupa.

Il sarto, invece, non avrebbe potutoessere più felice. Con un filo d’erba inbocca, rideva, cantava e saltellava. Epensava: ‘Dio da lassù dovrebbe esseresoddisfatto nel vedermi così allegro’.

E così camminarono per due giorni.Ma il terzo giorno erano ancora nel fittodella foresta e il sarto aveva già finito ilpane. Era un po’ meno allegro adesso,ma non si era scoraggiato, confidava inDio e nella fortuna. La sera del terzogiorno si coricò affamato e il mattino

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seguente si alzò ancora più affamato. Ilquarto giorno passò allo stesso modo ela sera si trovò seduto a guardare ilcalzolaio che faceva una cenetta con lesue provviste.

Il sarto gli chiese una fetta di pane eil calzolaio gli disse ridendo: «Eri tantoconcentrato a cantare e a fare il buffone.Adesso vedi cosa te ne è venuto. Gliuccelli che mangiano troppo presto lamattina, prima che venga notte diventanopreda dei falchi».

E difatti, non ebbe pietà di lui. Lamattina del quinto giorno il povero sartoa malapena si reggeva in piedi e la suavoce era ridotta a un rantolo. Tutto ilcolore gli era sparito dalle gote, che ora

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erano bianche come il gesso, mentre gliocchi erano rossi.

E allora il calzolaio gli disse:«Adesso sei nei guai e la colpa è tua.Stammi a sentire, ti darò un pezzo dipane. Ma in cambio, ti caverò l’occhiodestro».

Il povero sarto doveva vivere, quindiaccettò. Pianse finché ebbe tutti e due gliocchi e poi offrì la testa in modo chequel calzolaio dal cuore di pietrapotesse cavargli l’occhio destro con ilcoltello del pane. Il sarto si ricordò diciò che gli diceva sua madre quando losorprendeva a mangiare la torta nelladispensa: «Mangia ora quello che puoi esoffri dopo quel che dovrai».

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Mangiò la sottile fetta di pane che ilcalzolaio gli diede e si sentì un pochinomeglio da riuscire a stare in piedi. Cosìriprese a camminare pensando che,dopotutto, ci vedeva ancora a sufficienzacon l’occhio sinistro.

Ma il sesto giorno fu di nuovosopraffatto dalla fame, persino più diprima. Quella sera praticamente caddein terra e si coricò dove si trovava e ilsettimo giorno era così debole da nonriuscire ad alzarsi. La morte non eralontana.

Allora il calzolaio disse: «Avròpietà. Vedo bene in che stato ti trovi e tidarò un’altra fetta di pane. Ma voglioqualcosa in cambio. Ti è rimasto un

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occhio e io me lo prenderò come hofatto con l’altro».

Il povero sarto si sentì come se tuttala sua vita stesse per andare perduta.Cosa aveva fatto di sbagliato permeritarsi tutto questo? Doveva averoffeso Dio in qualche maniera, cosìpregò per la misericordia e disse alcalzolaio: «Fallo allora. Cavamil’occhio. Ma ricorda, Dio vede tuttoquello che fai e verrà il momento in cuisarai punito per questa malvagità.Quando le cose andavano bene, non hoforse diviso con te ciò che avevo? Ioche ho sempre visto chiaramente doveinfilare l’ago, se non avrò gli occhi nonpotrò più cucire e diventerò un

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mendicante. Almeno non abbandonarmiqui da solo quando sarò cieco o finiròper morire di fame».

Al calzolaio non importava nulla ditutti quei discorsi su Dio, perché avevacacciato Dio dal suo cuore molto tempoaddietro. Prese il coltello e cavò alsarto l’altro occhio. Poi gli diede unpezzettino di pane, lo fece appoggiare alsuo bastone e lo trascinò via.

Al tramonto uscirono dalla foresta. Ilsarto poteva sentire il calore del solesulla faccia, ma naturalmente nonvedeva nulla e non si accorse che ilcalzolaio lo conduceva verso una forcache stava in mezzo a un campo. Lolasciò lì da solo e se ne andò. Il povero

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sarto, sopraffatto dalla stanchezza, dallafame e dal dolore, cadde a terra lì dovesi trovava e si addormentò.

Si svegliò all’alba, rabbrividendoper il freddo. C’erano due poveripeccatori che penzolavano dalla forcasopra di lui, ciascuno con un corvoposato in testa.

Uno degli appesi parlò all’altro,dicendo: «Fratello? Sei sveglio?»

«Sì, sono sveglio» disse il secondo.«Voglio dirti una cosa importante. La

rugiada che di notte si poggia sui nostricorpi e poi gocciola giù nell’erba ha unaproprietà speciale. Se una persona ciecaci si sciacqua gli occhi, riacquista lavista. Immagina se i ciechi lo sapessero,

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chissà quanti ce ne troveremmo ognimattina sotto la forca».

Il sarto non poteva credere alle sueorecchie. Ma prese il fazzoletto, lopoggiò sull’erba finché non fu benimbevuto e con quello si bagnò le cavitàdegli occhi. Immediatamente ciò chel’uomo appeso aveva detto si avverò: unbell’occhio perfettamente sano spuntò inciascuna cavità. Il sole stava sorgendo eil sarto guardava con meraviglia la luceche inondava le montagne, la vallata epoi l’intera pianura davanti a lui. Lìvicino c’era una grande città con portemagnifiche e centinaia di uccelli chepassavano in volo e riusciva a vederepersino i moscerini che svolazzavano

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nell’aria. Ma c’era un’ultima prova dafare: prese un ago dal porta-aghi, presedel filo e lo infilò nell’ago piùvelocemente e facilmente di quantoavesse mai fatto. Il cuore gli esultò perla gioia.

Si gettò in ginocchio e ringraziò Dioper la sua misericordia. Poi disse lapreghiera mattutina e non dimenticò dipregare per i due poveri peccatori chepenzolavano al vento sulla forca. Il sartosi gettò in spalla il fagotto e si mise perstrada, cantando e fischiettando come senulla gli fosse accaduto.

La prima cosa che incontrò fu un belpuledro bruno che correva libero nellaprateria. Il sarto lo afferrò per la

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criniera e provò a montarlo per andarein città. Ma il puledro implorò la libertà,dicendogli: «Vedi, io sono ancoragiovane e anche un piccolo sartomagrolino come te potrebbe pesarmitroppo. Mi spezzerai la schiena se provia cavalcarmi. Lascia che cresca forte egrande e magari un giorno sarò in gradodi ripagarti».

«Oh, allora vai pure» disse il sarto.«Vedo che sei un simpatico diavolacciocome me». Gli diede una pacca sullagroppa e la giovane creatura scalpitò digioia e filò via al galoppo, scavalcandofossi e siepi fino a scomparire lontano.

Il piccolo sarto non aveva mangiatonulla dopo quel misero pezzetto di pane

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che il calzolaio gli aveva dato il giornoprima. «La luce del sole riempie i mieiocchi» disse, «ma non ho nulla con cuiriempirmi la pancia. Appena incontreròqualcosa di commestibile... Ah! E quellocos’è?»

Era una cicogna e camminava nelprato con passo leggero. Il sarto le saltòaddosso e la prese per una zampa.

«Non so che sapore hai» disse, «maadesso lo scoprirò. Non muoverti che titaglio la testa e poi ti faccio arrosto».

«No, per favore non farlo» disse lacicogna. «Non è per niente una buonaidea. Vedi, io sono sacra. Sono amica ditutti, e nessuno mi fa mai del male. Se mirisparmierai certamente sarò in grado di

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farti del bene in un altro modo».«Oh, vai allora, gambelunghe» disse

il sarto e la lasciò andare. Il grossouccello sollevò graziosamente le ali erilasciando le gambe volò via.

«Quando finirà questa storia?» sidisse il sarto. «La fame cresce sempredi più e la mia pancia è sempre piùvuota. Be’, non ci sarà scampo per laprossima cosa che incontrerò».

In quel momento stava passandoaccanto a uno stagno dove una coppia digiovani anatre faceva la nuotatamattutina. Una delle due si avvicinò unpo’ troppo e il sarto l’acchiappòall’istante.

«Giusto in tempo!» disse, e stava per

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torcerle il collo quando si sentì unterribile starnazzare dall’altra partedello stagno e la vecchia mamma anatravenne fuori dal canneto e un po’ volandoun po’ nuotando andò da lui.

«Risparmia mio figlio!» piangeva.«Prova a immaginare come si sentirebbela tua povera mamma se qualcunovolesse mangiare te!»

«Oh, calmati» disse il buon sarto.«Puoi tenerti tuo figlio».

E rimise l’anatroccolo nell’acqua.Quando si voltò pronto a ripartire, si

trovò davanti un vecchio albero cavocon dozzine di api che gli ronzavanoattorno.

‘Miele!’ pensò subito. ‘Grazie al

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cielo! Questa è la mia ricompensa peraver risparmiato l’anatroccolo’.

Ma mosso un passo verso l’albero,uscì l’ape regina. «Se tocchi il miopopolo o distruggi il nostro nido» disse,«avrai modo di pentirtene. Diecimilapungiglioni acuminati ti pungeranno. Mase invece ci lascerai in pace, un giornoricambieremo il favore».

Il sarto dovette rassegnarsi. «Trepiatti vuoti e nulla nel quarto» si disse,«fanno una cena ben misera».

Così si trascinò in città con lostomaco vuoto, ma tutte le campanebattevano mezzogiorno e nella primalocanda che incontrò c’era del ciboappena preparato. Si mise a sedere e

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mangiò a quattro palmenti.Quando infine fu sazio, si disse:

«Bene, adesso è ora di trovare unlavoro».

Cominciò a girare per la città incerca di una bottega di sartoria e benpresto trovò un impiego. Nel suomestiere era un maestro e quindi non civolle molto perché diventasse famoso etutte le persone alla moda non vedevanol’ora di farsi fare un bel cappotto o unagiacca nuova dal piccolo sarto. Giornodopo giorno la sua buona reputazionecresceva.

«Non ce n’è un altro più bravo dime» disse, «quindi avrò sempre piùsuccesso».

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L’apice fu quando il re lo nominòsarto di corte.

Ma al mondo succedono tante cosestrane. Lo stesso giorno della suanomina, il suo antico compagno vennenominato ciabattino di corte. Quandoquello lo vide e si accorse che avevadue occhi sani, se ne stupì e subito lasua cattiva coscienza lo punse. ‘Primache si vendichi di me’ pensò, ‘gliscaverò io la fossa’.

Ma chiunque scavi una fossa per unaltro finisce per caderci dentro. Unasera, al calar della notte, il calzolaioandò dal re e gli disse umilmente:«Vostra maestà, non mi piace parlarmale di nessuno, ma il sarto va dicendo

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che può trovare la corona d’oro che si èpersa tanto tempo fa».

«Oh, è questo che dice?» disse il re.La mattina seguente fece chiamare ilsarto. «Ho sentito che ti vanti di potertrovare la mia corona d’oro» disse.«Bene, sarà meglio che sia vero odovrai lasciare la città e non tornarcimai più».

‘Oh no’ pensò il sarto, ‘vedo bene dache parte soffia il vento. È inutile girarciattorno, se davvero vuole farmi farel’impossibile. Me ne andrò via subito’.

Annodò il fagotto e uscì dalla città.Appena fuori, tuttavia, rimpianse di averdovuto lasciare la città dove avevalavorato tanto bene. E pensando a ciò,

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camminò fino ad arrivare allo stagnodove aveva incontrato le anatre. In quelmomento la vecchia mamma anatra a cuiaveva risparmiato il figlio stavasull’erba a lisciarsi le penne e loriconobbe subito.

«Buongiorno» disse. «Qual è ilproblema? Come mai sei cosìabbattuto?»

«Oh, anatra» disse lui, «non tisorprenderà saperlo». E raccontòall’anatra tutto quello che era successo.

«Be’, se è così» disse l’anatra,«dimentica i tuoi guai. La corona sitrova giù in fondo allo stagno. Laprenderemo noi per te. Stendi il tuofazzoletto sull’erba e goditi il sole».

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Chiamò i suoi dodici figli e tutti situffarono e sparirono dalla vista. Unpaio di minuti più tardi venne fuori leitenendo la corona in equilibrio sulle ali.

«Attenzione adesso» disse aglianatroccoli. «Alcuni di voi da questaparte, un po’ dall’altra...»

Tutti insieme le nuotarono intornosorreggendo la pesante corona con ibecchi e in meno di un minuto laportarono sul fazzoletto del sarto. Chebella! Il sole splendeva sull’oro e lofaceva brillare come centomilafiammelle.

Il sarto ringraziò le anatre, annodòinsieme i quattro angoli del fazzoletto eportò la corona al re. Il re ne fu così

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deliziato che gli mise al collo una catenad’oro.

Quando il calzolaio vide che il suopiano era fallito, ne escogitò un altro.Andò dal re e gli disse: «Vostra maestà,mi dispiace dirlo, ma il sarto si stavantando nuovamente. Adesso vadicendo che può fare un modello in ceradel palazzo reale, completo di tutte lestanze e di tutti i dettagli, mobili e tuttoil resto».

Il re fece chiamare il sarto e gliordinò di fabbricare il modello,completo di mobilia e di tutti i dettagli.

«E se mancherai di riprodurre anchesolo un chiodo sul muro, ti faròrinchiudere sotto terra per il resto della

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tua vita» disse il re.Il sarto pensò: ‘Qui le cose vanno

sempre peggio. Chi potrebbe maifabbricare un oggetto del genere?’

Si mise il sacco in spalla e partì dinuovo. Era arrivato all’albero cavo edera così depresso che si accasciòtenendosi la testa fra le mani. Le api cheronzavano attorno all’albero dovevanoaver detto alla regina che era lì, perchépresto venne fuori lei e gli si posòaccanto su un ramoscello.

«Ti pesa forse la testa?» glidomandò.

«Oh, salve. No, me la reggo solo perdisperazione». E quindi le dissedell’ordine del re. L’ape regina volò via

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ed ebbe una fitta discussione con le altreapi, poi tornò da lui.

«Adesso vai in città» gli disse, «mavieni qui domani mattina e porta con teun panno grande. Non preoccuparti,andrà tutto bene». Così il sarto se neandò. Nel frattempo, le api volarono alpalazzo, entrarono ronzando dallefinestre e registrarono ogni minimodettaglio. Dopo ritornarono tutteall’alveare, dove cominciarono amodellare il palazzo con la cera.Lavoravano così alacremente chechiunque avrebbe giurato che il modellosi stesse fabbricando da solo. Per lasera fu completo. Quando il sarto tornòla mattina seguente, non riusciva a

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credere a ciò che vedeva. Tutto ilpalazzo era lì, dalle tegole del tetto aiciottoli del cortile e non un singolodettaglio mancava, nemmeno un chiodosul muro. Per di più, era bianco edelicato come neve e profumava dimiele.

«Oh, api, non so davvero comeringraziarvi!» disse il sarto.

Mise il modello nel panno, l’avvolsecon estrema cautela e poi lo portò allastanza del trono, facendo la massimaattenzione a non farlo cadere. Giuntosenza incidenti, aprì il panno e lo mostròal re, che lo osservò girandoci attorno eammirando tutto, le finestre, i corridoi, ipiccoli dettagli del ferro battuto delle

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balconate.Era al colmo dell’ammirazione. Fece

mettere il modello nella sala più grandee ricompensò il sarto con una bellissimacasetta in pietra.

Il calzolaio era stato sconfittoun’altra volta, ma non si diede per vinto.Andò dal re e gli disse: «Mi dispiacetanto dirlo, vostra maestà, ma il sarto haricominciato a vantarsi. Ha saputo chenon c’è acqua sotto il cortile delcastello, ma sostiene che se solo lovorrà, potrà far sgorgare una bellafontana di acqua cristallina con un gettoalto quanto un uomo».

Il re fece chiamare il sarto.«Ho sentito che affermi di poter far

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spuntare una fontana in mezzo al cortile.Sappi che se non lo farai, io farò lafigura dello stupido e questo non mipiace. Quindi adesso metterai lì unafontana di acqua cristallina così comehai promesso, altrimenti quando il boiadi corte ti taglierà la testa, faremo unafontana da cui zampilla il tuo sangue».

Il povero sarto fuggì dalle porte dellacittà più in fretta possibile. Questa voltala sua vita era in pericolo e non riuscivaa fermare le lacrime che gli scorrevanosul viso.

Vagò per la campagna, senza averealcuna idea di come poter eseguirequell’ultima richiesta. Mentreattraversava un ampio pascolo verde,

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arrivò al galoppo il puledro a cui tempoprima aveva concesso la libertà. Eradiventato un magnifico cavallo sauro.

«È arrivato per me il momento diripagare la tua gentilezza» disse al sarto.«Non hai bisogno di dirmi cosa vuoi, loso già, e posso fare in modo che accada.Sali in groppa, adesso sono forteabbastanza da portare anche una coppiadi sarti».

Il sarto riprese subito coraggio. Conun salto montò in groppa e afferrò lacriniera del cavallo che partì speditoverso la città. La gente a piedi vennequasi travolta quando schizzò attraversola porta della città, dirigendosi dritto alcastello. Ignorando le sentinelle,

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galopparono su per le scale fino alcortile, dove il cavallo si mise a correrein circolo sempre più veloce, con ilsarto che si teneva aggrappato con tuttala forza, e poi il cavallo cadde a terraproprio al centro del cortile.

Nello stesso istante, con un potenteboato, un fiotto d’acqua alto come unuomo spruzzò fuori dal pavimento,sparando per aria una gran quantità diterra e ciottoli che volarono in altosuperando il tetto del castello. L’acquaera così limpida che i raggi del solecolpendola producevano piccoliarcobaleni.

Il re era fermo all’ingresso eguardava stupefatto. Non appena il

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cavallo si rialzò e il sarto, ancorascosso e tremante, fece lo stesso, il recorse ad abbracciarlo sotto gli occhi ditutta la corte.

Così il sarto tornò nei favori del re,ma non durò a lungo. Questa volta ilmalvagio calzolaio rivolse uno sguardocalcolatore alla famiglia reale. Il reaveva molte figlie, una più belladell’altra, ma nessun figlio, ed era notoche era ansioso di avere un successore.Il calzolaio andò da lui e disse: «Vostramaestà, ho paura che non vi piacerà ciòche sto per dirvi, ma non posso tacere.Quell’insolente del sarto si vantadicendo che se volesse, potrebbe farvipiovere un figlio dal cielo».

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Questo era troppo per il re. Fecechiamare di nuovo il sarto.

«Ho sentito che fai affermazioniriguardo al mio successore. E dici dipotermi portare un figlio. Bene, hai novegiorni. Portami un figlio per quel tempoe potrai sposare la mia figlia maggiore».

Il sarto pensò: ‘Sarebbe certo unpremio che vale la pena di vincere.Farei di tutto per sposarla, ma questesono ciliegie che crescono troppo in altoper me. Se mi arrampico così in alto, ilramo si spezza. Cosa farò stavolta?’

Andò nella sua bottega e si sedette suuna panca a gambe incrociate,domandandosi il da farsi. Infinerinunciò.

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«Non è giusto!» urlava. «Non si puòfare nulla e io dovrò andarmene perdavvero questa volta. Qui non c’è mododi avere pace».

Annodò il fagotto e partì ancora unavolta. Quando giunse nel prato vide lasua amica cicogna, che camminavalentamente con passo grave da filosofo.Ogni tanto si fermava, guardava assortauna rana, poi la prendeva e se lamangiava.

Vedendo il sarto, la cicogna si mosseverso di lui per salutarlo.

«Vedo che porti con te i tuoi averi. Ecosì, stai davvero lasciando la città?»

Il sarto le raccontò il guaio.«Continua a chiedermi di fare cose

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impossibili e con l’aiuto di alcuni amicisono sempre riuscito a portare a terminegli altri compiti, ma questo è certamenteirrealizzabile» disse.

«Be’, non farti venire i capellibianchi» disse la cicogna. «Noi cicogneabbiamo una certa esperienza in questocampo. Non mi ci vorrà molto a pescareun piccolo principe dal pozzo dovecrescono. Vai a casa, mio caro sarto, eriposati. Poi tra nove giorni recati alpalazzo e ci incontreremo lì».

Il piccolo sarto andò a casasentendosi molto più fiducioso e ilgiorno stabilito si presentò al palazzo.Era appena arrivato che la cicognabussò alla finestra. Il sarto aprì e la

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cicogna entrò portando un fagotto nelbecco. Scivolò con passo leggero sulpavimento di marmo e adagiò il fagottoin grembo alla regina, che lo aprì e videun bellissimo bambino che le tendeva lebraccia. Lo prese, lo accarezzò e lobaciò con trasporto.

Prima di volare via, la cicogna porseal re un altro fagotto. Dentro c’eranopettini, specchi, nastrini e tanti altriregali per tutte le principesse, tranne lamaggiore, perché il suo regalo era diprendere il sarto come marito.

«Mi pare di aver vinto il premio piùbello» disse il sarto. «La mia vecchiamamma aveva ragione dopotutto. Dicevasempre che chiunque ha fiducia in Dio

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non può fallire, fintanto che la suafortuna tiene».

Il calzolaio dovette fabbricare lescarpe con cui il sarto danzò al suomatrimonio. Dopodiché gli venneordinato di abbandonare la città persempre. Se ne andò d’umore tetro e,trascinandosi per la strada verso laforesta, passò accanto alla forca. A quelpunto era così stanco, arrabbiato eaffamato che si gettò in terra e stava peraddormentarsi, quando i due corvi cheerano posati sulle teste degli uominiappesi volarono giù e gli beccarono gliocchi. Allora impazzì e scappò nellaforesta, dove probabilmente morì difame, perché nessuno lo rivide mai più.

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* * *

Tipo di fiaba: ATU 613, ‘The Two Travellers’(Le cornacchie) che prosegue come ATU 554,‘The Grateful Animals’ (Le cornacchie – Laserpe bianca – La regina delle api).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda uno studente di Kiel chiamato Mein.Storie simili: Alexander Afanasjev: ‘Right andWrong’ (Russian Fairy Tales); Katharine M.Briggs: ‘The King of the Herrings’ (Folk Talesof Britain); Italo Calvino: ‘I due comparimulattieri’ (Fiabe italiane); Jacob e WilhelmGrimm: ‘The Queen Bee’ (La regina delle api),‘The Sea-Hare’ (Il leprotto marino), ‘The WhiteSnake’ (La serpe bianca) [Children’s andHousehold Tales (Fiabe del focolare)].Questa storia non compare nella raccolta deiGrimm fino alla quinta edizione del 1843. Tratutti i racconti è uno dei più piacevolmentevivaci, procede senza pause o intoppi e i due

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tipi di fiaba sono cuciti insieme così bene chenon si nota il punto di sutura. Il piccolo sartone sarebbe orgoglioso. Così come dovrebbeesserlo lo studente Mein, che fu la fonte deiGrimm.

Come molti sarti nei racconti popolari,anche questo è piccolo, fortunato e simpatico.Ha molti tratti in comune con altri protagonistidelle favole dei Grimm, che come è statonotato da Jack Zipes, «provengono in gran partedalle categorie dei contadini, degli artigiani edei commercianti. Alla conclusione di moltefiabe, questi protagonisti, uomini o donne chesiano, incontrano una grande fortuna che gliconsente di ottenere una moglie o un marito,accumulare ricchezze e potere... Ilraggiungimento del potere da parte di figuredelle classi più umili è legittimato da qualitàtipiche come industriosità, furbizia,opportunismo e franchezza» (The BrothersGrimm).

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Qualità che certamente descrivono ilpiccolo sarto, anche se la buona sorte gioca unagrande parte nelle sue fortune. Quanto alcalzolaio, è un farabutto dal principio. Gliauguriamo sfortuna.

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TRENTOTTO

HANS PORCOSPINO

C’era una volta un agiato contadino chepossedeva denaro e terreni, manonostante tutte le sue ricchezze c’eraqualcosa che gli mancava nella vita. Luie la moglie non avevano figli. Quandogli altri contadini lo incontravano incittà o al mercato, spesso lo prendevanoin giro, chiedendogli come mai lui e suamoglie non fossero ancora riusciti in ciò

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che riusciva benissimo persino alle lorobestie. Forse non sapevano come sifaceva? Un bel giorno perse le staffe etornato a casa giurò: «Avrò un figlio,anche se dovesse essere un porcospino».

Non molto tempo dopo sua mogliediede alla luce un bambino. O almeno,così sembrava per la parte del corpodalla cintola in giù. La parte di sopraera quella di un porcospino. Quando lovide, inorridì. «Guarda cos’hai fatto!»piangeva. «È tutta colpa tua».

«Non possiamo farci niente» disse ilcontadino. «Dobbiamo tenercelo. Lobattezzeremo come un vero bimbo,anche se non so a chi potremmo chiederedi fargli da padrino».

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«E non potremo che chiamarlo HansPorcospino» disse lei.

Quando venne battezzato, il pretedisse: «Non so come farete con il letto.Non può certo dormire su un normalematerasso, lo riempirà di buchi».

Allora il contadino e la moglie lomisero su un mucchio di paglia dietro lastufa. La madre non riusciva neppure adallattarlo, ci provava ma era troppodoloroso. La creaturina rimase dietro lastufa per otto anni e il padre la detestavasempre di più. ‘Spero proprio che tiri lecuoia’ pensava, ma Hans Porcospino nonmorì e rimase dov’era.

Un giorno in città c’era una fiera e ilcontadino voleva andarci. Chiese alla

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moglie cosa voleva che le portasse.«Un po’ di bistecche e qualche

pagnotta».Poi chiese alla serva, che voleva un

paio di pantofole e delle calze. Infinechiese anche a suo figlio: «E tu, cosavorresti?»

«Babbo» disse Hans Porcospino,«vorrei una cornamusa».

Quando il contadino ritornò, diedealla moglie le bistecche e i panini, allaserva le pantofole e le calze e infineandò dietro la stufa e diede a HansPorcospino la sua cornamusa.

Allora Hans Porcospino disse:«Babbo, vai dal maniscalco e fai ferrareil mio galletto. Me ne andrò e non

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tornerò più».Il contadino era ben contento di

sbarazzarsi di lui, così portò il gallettodal maniscalco e lo fece ferrare. Fattociò, Hans Porcospino saltò in groppa algalletto e partì, portando con sé alcunimaiali a cui badare.

Quando arrivò nella foresta, spronò ilgalletto e volò in cima a un albero. Dalassù teneva d’occhio i maiali e nelfrattempo faceva pratica con lacornamusa. Passarono gli anni e il padrenon aveva idea di dove si trovasse ilfiglio. Intanto i maiali si moltiplicavanoe lui diventava sempre più bravo con lacornamusa. Anzi, suonava una musicameravigliosa.

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Un giorno un re si trovò a passare perquei luoghi. Si era smarrito nella forestae si soprese nel sentire quella musicacosì melodiosa, al punto che si fermò adascoltarla. Ma non capiva da doveprovenisse, quindi inviò un servo acercare il musicista.

Il servo andò a dare un’occhiata neiparaggi e poi tornò dal re. «Vostramaestà, c’è uno strano animaletto sedutoin cima a un albero. Ha l’aspetto di ungalletto con un porcospino seduto sopra.Ed è il porcospino che suona lacornamusa».

«Allora vai da lui e domandagli lavia!» disse il re.

Il servo andò a chiamarlo e Hans

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Porcospino smise di suonare e scesedall’albero. Si inchinò al re e disse:«Cosa posso fare per vostra maestà?»

«Puoi indicarmi la strada per il mioregno. Mi sono perso».

«Con piacere, vostra maestà. Vi diròla strada se prometterete per iscritto didarmi la prima cosa che vi verràincontro a salutarvi quando fareteritorno a casa».

Il re lo guardò e pensò: ‘Non èdifficile da promettere. Questo mostrocertamente non sa leggere, dunque possoscrivere qualsiasi cosa’.

Quindi prese penna e inchiostro escrisse qualche parola su un foglio dicarta. Hans Porcospino prese il foglio,

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gli mostrò la strada, il re ripartì e benpresto fu a casa.

Il re aveva una figlia che quando lovide tornare, felicissima, corse giù asalutarlo e ad abbracciarlo. Fu la primapersona che incontrò al suo ritorno enaturalmente il re, pensando a HansPorcospino, raccontò alla figlia comeavesse quasi dovuto prometterla a unostrano animale che sedeva su un gallettoe suonava la cornamusa. «Ma nonpreoccuparti, mia cara» disse. «Hoscritto una cosa del tutto diversa. Quellacreatura di certo non è capace dileggere».

«Ottimo, perché io di certo non avreivoluto andare con lui» disse la

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principessa.Nel frattempo, Hans Porcospino se ne

stava tranquillo nella foresta a badare aimaiali e suonare la cornamusa. Laforesta era molto vasta e non moltotempo dopo un altro re arrivò con servie messaggeri e anche lui si era smarrito.Come il primo re, sentì la splendidamusica e inviò un messaggero perscoprire da dove provenisse.

Il messaggero vide Hans Porcospinosull’albero che suonava la cornamusa elo chiamò per chiedergli cosa stavafacendo.

«Tengo d’occhio i miei maiali» disseHans Porcospino. «Cosa vuoi?»

Il messaggero spiegò, Hans

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Porcospino scese e disse al re che gliavrebbe indicato la strada in cambio diuna promessa, la stessa dell’altra volta:il re avrebbe dovuto dargli la primacosa che lo avesse accolto al suoritorno. Il re acconsentì firmando unacarta.

Fatto ciò, Hans Porcospino,precedendoli in groppa al galletto finoal margine della foresta, mostrò loro lastrada, salutò il re e tornò ai suoi maiali.E così il re rientrò a casa sano e salvoper la gioia di tutti i suoi cortigiani.Aveva una sola figlia, che era moltobella, e fu lei la prima a corrergliincontro per dargli il benvenuto.

Gli gettò le braccia al collo e lo

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baciò, chiedendogli dove fosse stato ecome mai ci avesse messo tanto tempoper tornare.

«Ci eravamo persi, mia cara» disse ilre. «Ma nel fitto della foresta abbiamotrovato la più strana delle creature: unessere mezzo ragazzo e mezzoporcospino, seduto su un galletto, chesuonava la cornamusa. E la suonavaanche molto bene. Sai, è stato lui aindicarci la via e così... ho dovutopromettere di dargli chi mi avesseaccolto per primo al mio rientro. Midispiace così tanto, mia cara».

Ma la principessa amava il padre edisse che non gli avrebbe fatto romperela sua promessa e sarebbe andata con

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Hans Porcospino quando fosse venuto areclamarla.

Intanto nella foresta Hans Porcospinobadava ai suoi maiali. E quei maialifecero altri maiali, e questi ultimi nefecero altri ancora, finché ce ne furonocosì tanti che la foresta ne era piena daun margine all’altro. A quel punto HansPorcospino pensò di aver trascorsotempo a sufficienza nella foresta. Inviòun messaggio al padre dicendogli di farliberare tutti i porcili del villaggio,perché stava per arrivare con un brancotalmente grande che ci sarebbero statiprosciutti e pancetta in abbondanza pertutti.

Il padre non fu molto felice a questa

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notizia. Credeva che Hans Porcospinofosse morto e sepolto. Ma poi il figlioarrivò portando tutti quei maiali e ilvillaggio fece una tale festa che ilbaccano si udiva a due miglia didistanza.

Quando tutto fu finito, HansPorcospino disse: «Babbo, il miogalletto ha bisogno di ferri nuovi. Se loporterai dal maniscalco e lo faraiferrare, io andrò via e non tornerò maipiù per il resto della mia vita».

Il contadino eseguì e si sentìsollevato al pensiero che stavoltaavrebbe visto Hans Porcospino andarevia per sempre.

Quando il galletto fu pronto, Hans

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Porcospino saltò in groppa e partì.Viaggiò fino ad arrivare al regno delprimo re, quello che non avevamantenuto la promessa. Quel re avevadato precisi ordini: sparare, pugnalare,lapidare, strangolare e non far entrare innessun modo chiunque si fossepresentato al palazzo suonando lacornamusa e cavalcando un galletto.

Così quando apparve HansPorcospino, a una brigata di guardie fuordinato di caricarlo con la baionetta.Ma lui era troppo rapido per loro.Dando di sprone al galletto volò via inalto sopra i soldati e il palazzo, fino allafinestra del re.

Si appostò sul davanzale, reclamando

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a gran voce ciò che gli era statopromesso, e disse che se il re si fossecomportato in modo evasivo, lui e laprincipessa avrebbero pagato con lavita.

Il re disse alla figlia di fare ciò cheHans Porcospino chiedeva. Laprincipessa allora si mise un vestitobianco, mentre il re in tutta fretta ordinòche si preparasse una vettura con sei beicavalli, la fece riempire d’oro e diargento e ogni sorta di beni e aggiunseanche due dozzine dei suoi miglioriservitori.

I cavalli furono imbrigliati, i serviallineati, la principessa montò in groppae Hans Porcospino prese posto al suo

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fianco con il galletto sulle ginocchia e lacornamusa tra le braccia. Salutarono epartirono. Il re pensava che non avrebbepiù rivisto sua figlia.

Ma si sbagliava. Non appena uscitidalla città, Hans Porcospino fecescendere la principessa dalla carrozza,fece indietreggiare i servi di molti passie li fece voltare. Poi strappò e fece apezzi il vestito della principessa e lacolpì ripetutamente con i suoi aculei,finché non fu tutta ricoperta di sangue.«Questo è quello che ti spetta per averprovato a raggirarmi» disse. «Adessovattene. Torna a casa. Tu non fai per mee io non ti voglio».

E lei, umiliata, tornò a casa con i

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servi, l’oro e tutto il resto. Ben le stava!Quanto a Hans Porcospino, prese la

cornamusa, saltò in groppa al galletto egaloppò verso il secondo regno, il cui resi era comportato in modo assaidifferente. Aveva dato ordine che sequalcuno con l’aspetto di un porcospinosi fosse presentato a palazzo a cavallodi un galletto, sarebbe stato salutato escortato da cavalieri, accolto confesteggiamenti dalla folla e bandierespiegate e introdotto con onore alpalazzo reale.

Naturalmente il re aveva avvisato lafiglia dell’aspetto di Hans Porcospino,ma ugualmente quando ella lo vide restòsconvolta. Tuttavia non si poteva fare

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nulla, perché la parola era stata data.Accolse caldamente Hans Porcospino esubito si sposarono e sedettero albanchetto l’uno accanto all’altra.

Quindi fu tempo di andare a letto. Luicapiva chiaramente che la principessaaveva timore dei suoi aculei. «Non deviaver paura» le disse. «Farei qualunquecosa per non ferirti».

Disse al vecchio re di far preparareun grande fuoco nel caminetto fuori dallacamera da letto e di tenere quattrouomini di guardia alla porta.

«Toglierò la mia pelle da porcospinoappena entrerò nella camera» spiegò. «Iquattro uomini accorreranno e dovrannoafferrarla e gettarla nel fuoco e rimanere

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lì di guardia finché non sarà ridotta incenere».

Quando l’orologio batté le undici,Hans Porcospino andò nella camera daletto, si tolse la pelle e la lasciò caderea terra. Immediatamente i quattro uominientrarono, presero quella pelle spinosa ela scagliarono nel fuoco. Poi rimasero aosservarla mentre bruciava. Nelmomento in cui l’ultimo aculeo venneconsumato dalle fiamme, Hans fu libero.

Si distese sul letto con aspettofinalmente umano. Tuttavia, era bruciatoe spellato come se fosse stato nel fuocoegli stesso. Il re inviò subito il medicodi corte che lo pulì e curò la sua pellecon speciali balsami e unguenti e ben

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presto Hans prese le fattezze di uncomune ragazzo ed era persino più bellodi molti altri. La principessa erafelicissima.

La mattina seguente tutti e due silevarono dal letto reale pieni di allegriae dopo aver fatto colazionefesteggiarono di nuovo il loromatrimonio. Tempo dopo HansPorcospino divenne successore del re edereditò il regno.

Alcuni anni dopo prese la moglie e laportò in visita da suo padre. Ovviamenteil vecchio contadino non lo riconobbe.

«Sono tuo figlio» disse HansPorcospino.

«Oh, no, non può essere» disse il

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contadino. «Avevo un figlio, ma eracome un porcospino, tutto ricoperto diaculei, e se n’è andato per il mondomolto tempo fa».

Ma Hans disse di essere lui quelfiglio e raccontò così tanti dettagli dellasua vita che il vecchio contadino allafine si convinse. E, piangendo per lagioia, seguì il figlio nel regno.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 441, ‘Hans My Hedgehog’(Gian Porcospino).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Dorothea Viehmann.Storie simili: Italo Calvino: ‘Re Crin’ (Fiabeitaliane); Giovanni Francesco Straparola: ‘ThePig Prince’ (Il principe dei porci).

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Questo racconto è un lontano discendentedell’antica storia di Amore e Psiche, comerisulta più chiaramente nelle due versioniitaliane. Questa versione si è arricchita di moltidettagli affascinanti prima di finire nellaraccolta. Possiede la leggerezza e l’economiadi movimento caratteristiche di DorotheaViehmann (vedi la nota a ‘L’indovinello’ p.156), e un eroe meravigliosamente assurdo lacui galanteria, pazienza, per non dire il talentomusicale, lo rendono uno dei personaggi piùmemorabili dell’intera raccolta.

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TRENTANOVE

IL LENZUOLINOFUNEBRE

C’era una volta un bambino di sette anni,così dolce e carino che nessuno potevafare a meno di amarlo, e la mamma loamava più di ogni altra cosa al mondo.Un giorno, improvvisamente, si ammalòe morì e la mamma inconsolabile piansegiorno e notte.

Poco tempo dopo la sepoltura, il

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bambino prese ad apparire ogni notte neiluoghi dove era solito giocare quandoera vivo. Se la madre piangeva,piangeva anche lui e, al mattino, spariva.

Ma la mamma non la finiva più dipiangere e una notte il bambino leapparve avvolto nel lenzuolino biancocon cui era stato seppellito e la piccolacorona di fiori che gli era stata messanella bara.

Si sedette sul letto e disse: «Perfavore, mamma, smetti di piangere o nonpotrò mai riposare! Il mio lenzuolino ètutto bagnato delle lacrime che continuia versarci sopra».

La mamma allarmata smise dipiangere.

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La notte successiva tornò a sedersisul letto materno, con una piccolalampada in mano. Disse: «Guarda, ilmio lenzuolino si sta asciugando. Potròfinalmente riposare nella tomba».

La mamma offrì il suo dolore a Dio elo sopportò con pazienza e in silenzio, ilbambino non tornò più e riposò nel suolettino sotto terra.

* * *

Tipo di fiaba: non classificata.Fonte:: una storia proveniente dalla Baviera,raccontata ai fratelli Grimm da un informatoresconosciuto.V. nota alla storia successiva.

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QUARANTA

I CENTESIMI RUBATI

Una volta un padre, una madre e i figlierano seduti a tavola per il pranzo e conloro c’era anche un buon amico difamiglia in visita. Mentre erano seduti,la pendola batté le dodici e l’ospite videche la porta si apriva ed entrava unbambino pallido come un morto, vestitodi bianco come la neve. Non si guardòintorno né disse una parola, ma entrò di

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filato nella stanza adiacente. Unmomento dopo venne fuori dalla stanza,sempre senza dire niente, e uscì dallaporta.

Il giorno successivo e quello dopoancora, il bambino tornò allo stessomodo. Alla fine l’ospite chiese al padrechi fosse quel bel bambino che ognigiorno a mezzodì entrava e andava nellastanza adiacente.

«Io non l’ho visto» disse il padre.«Non ho idea di chi possa essere».

Il giorno dopo, quando il bambinotornò, l’ospite lo indicò, ma né il padrené la madre né gli altri bambinivedevano nulla. L’ospite si alzò e andòad aprire un po’ la porta della stanza

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adiacente. Vide il bambino seduto aterra che cercava qualcosa con le ditatra gli interstizi delle assi delpavimento, ma appena visto l’ospitescomparve.

L’ospite raccontò alla famiglia ciòche aveva visto e descrisse il bambinocon precisione. La mamma lo riconobbesubito e disse: «Oh, è il mio carofiglioletto, morto quattro settimane fa».

Sollevarono le assi del pavimento etrovarono due centesimi che la mammaaveva dato al bambino per unpover’uomo. Ma il bambino avevapensato: ‘Mi ci posso comprare undolce con questi’ e aveva nascosto lemonete sotto il pavimento.

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Questo era il motivo per cui nonaveva pace nella tomba e tornava acercarli ogni mezzogiorno. I genitoridiedero i soldi a un pover’uomo e inseguito il bambino non si vide più.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 769, ‘The Child’s Grave’ (Ilcentesimo rubato).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Gretchen Wild.Ho unito le note a questa fiaba e a ‘Illenzuolino funebre’ (p. 347) per via della loroevidente somiglianza. ‘Il lenzuolino funebre’non è classificata nell’indice Aarne-Thompson-Uther in cui l’unico esempio di questo tipo difiaba è questa qui, con il titolo ‘La tomba delbambino’.

Entrambe le storie sono lineari e pie. Sono

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pure storie di fantasmi, ma il loro scopo non èfarci rabbrividire, bensì indicarci una semplicemorale. Il sistema di credenze da cuiprovengono è precristiano: ai morti spetta ilriposo e i vivi possono aiutarli a trovarlo, nonsi può indulgere troppo nel dolore e bisognaespiare i peccati. Nel momento in cui l’azioneumana si compie, il soprannaturale si ritira.

Il risultato sarebbe dare loro il carattere distorie di fantasmi tradizionali e verosimili,come quelle raccolte nel famoso LordHalifax’s Ghost Book (Guida ai fantasmi,1934) o nel più recente The English Ghost (Ilfantasma inglese, 2010) di Peter Ackroyd.Tutto ciò che serve per renderle identiche aquel tipo di storie sono i nomi dei personaggicoinvolti e i luoghi dove sono accaduti glieventi. Per completare l’illusione, si potrebbeinventare una fonte resa non riconoscibile daun’iniziale puntata, tipo: ‘Herr A., ufficialerispettabile della città di D., viaggiava nel

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ducato di H., quando gli capitò di sentire laseguente storia...’

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QUARANTUNO

IL CAVOLO ASININO

C’era una volta un giovane cacciatoreuscito per andare a far la posta nellaforesta. Era allegro e spensierato efischiava con un filo d’erba camminandoper strada.

All’improvviso gli venne incontrouna povera vecchina che disse:«Buongiorno, mio bel cacciatore. Vedoche sei allegro, io invece ho fame e sete.

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Mi daresti una monetina?»Il cacciatore si impietosì, mise la

mano in tasca e le diede le poche moneteche aveva. Stava per andarsene per lasua strada quando la vecchina lo afferròper un braccio.

«Ascolta, buon cacciatore» gli disse.«Sei stato generoso con me e ti voglioricompensare. Vai sempre dritto inquella direzione e arriverai presto a unalbero con nove uccelli poggiati soprache tengono un mantello con le zampe ese lo litigano. Prendi il fucile e spara nelmucchio. Subito lasceranno andare ilmantello e uno di loro ti cadrà ai piedimorto. Prendi il mantello, è fatato. Te lobutterai sulle spalle e ti basterà

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desiderare di andare da qualche parteper esserci in un lampo. Inoltre, deviprendere il cuore dell’uccello morto.Strappaglielo e ingoialo tutto in unavolta. Se lo farai, ogni giorno troveraiuna moneta d’oro sotto il cuscino».

Il cacciatore ringraziò l’indovina epensò: ‘Sarebbero dei gran bei doni,spero che dica la verità’.

Non aveva fatto cento passi che sentìdei versi e rumore tra i rami sopra la suatesta. Guardò in su e vide uno stormo diuccelli che si litigava un pezzo di stoffatirandolo con le zampe e i becchi, comese ognuno lo volesse per sé.

«Be’» disse il cacciatore, «chestrano. Sta accadendo proprio ciò che ha

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detto la vecchina».Prese il fucile e sparò un colpo

proprio in mezzo agli uccelli.Cacciarono un grido e volarono viasubito, tranne uno che cadde a terramorto, insieme al mantello. Il cacciatorefece ciò che la vecchina gli aveva detto.Aprì l’uccello in due, prese il cuore e loingoiò e tornò a casa col mantello.

La mattina dopo, quando si svegliò,la prima cosa che gli venne in mentefurono le parole della vecchina. Guardòsotto il cuscino e, naturalmente, ci trovòla moneta d’oro luccicante. Il giornodopo ne trovò un’altra, poi un’altra ecosì via ogni mattina. Di lì a poco ebbeun bel mucchio d’oro e allora pensò:

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«Niente male tutti questi soldi, ma cosame ne faccio se resto qui? Me ne andròper il mondo».

Salutò i genitori, si gettò fucile esacca in spalla e si mise in cammino.Dopo aver camminato per qualchegiorno, uscendo da una fitta foresta, videun bel castello in aperta campagna, al dilà degli alberi. Si avvicinò e vide duepersone che lo guardavano dallafinestra.

Una delle due era una vecchia stregache disse all’altra, che era la figlia:«L’uomo che viene dalla foresta ha consé un grande tesoro. Dobbiamoprendercelo, cara, perché serve più anoi che a lui. Pensa che ha ingoiato il

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cuore di un uccello magico e diconseguenza trova una moneta d’orosotto il cuscino ogni mattina». Raccontòalla figlia tutta la storia del cacciatore edell’indovina e alla fine disse: «E senon farai esattamente come ti dico, caramia, te ne pentirai».

Avvicinandosi al castello, ilcacciatore riuscì a vederle per bene epensò: ‘Ho girovagato abbastanza esono pieno di denaro. Potrei fermarmi ariposare in questo castello per un giornoo due’.

Ovviamente, il vero motivo era cheaveva visto quanto era bella la ragazza.

Entrò e lo accolsero e si presero curadi lui con generosità. Poco dopo era già

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innamorato della figlia della strega enon riusciva a pensare a nient’altro;aveva occhi solo per lei e faceva tuttociò che lei gli chiedeva. Di fatto avevaperso la testa.

A vedere ciò, la vecchia disse allaragazza: «È ora di agire. Dobbiamoprenderci il cuore di quell’uccello. Nonsi accorgerà nemmeno di non averlopiù».

Preparò una pozione e la versò in unacoppa che la ragazza porse al giovane.

«Carissimo» gli disse, «non bevi allamia salute?»

Lui bevve tutto d’un fiato e si sentìsubito male e finì per vomitare il cuoredell’uccello. La ragazza lo aiutò a

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coricarsi, dicendogli tante parolinepremurose e poi andò subito a prendereil cuore, lo lavò e lo ingoiò.

Da quel momento in poi, il cacciatorenon trovò più monete d’oro sotto ilcuscino. Non sapeva che invece letrovava la ragazza e che la strega ognimattina le prendeva e metteva da parte.Era talmente infatuato che il suo unicointeresse era passare del tempo con laragazza.

La strega disse: «Abbiamo il cuore,ma non basta. Dobbiamo prendercianche il mantello fatato».

«Quello non possiamolasciarglielo?» disse la figlia. «In fondo,ha perso la sua fortuna, poverino».

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«Non essere troppo tenera» disse lastrega. «Un mantello del genere valemilioni. Non ne esistono tanti, te lo dicoio. Lo voglio e vedrai che lo avrò».

Disse alla figlia cosa fare e laminacciò che se non avesse obbedito sene sarebbe pentita. Così la ragazza fecequel che diceva la strega: si mise allafinestra a guardar fuori con un’ariamolto triste.

Il cacciatore disse: «Che ci fai lì cosìtriste?»

«Ah, tesoro mio» disse la ragazza,«quello laggiù è il Monte Garnet e cicrescono gioielli bellissimi. Quando cipenso, il desiderio è così grande chedivento triste... Ma chi riuscirebbe mai a

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prenderli? Solo gli uccelli che sannovolare. Un essere umano non ce lafarebbe mai».

«Se è questo che ti dà pensieri» disseil cacciatore, «ci penso io. Ti tirerò sudi morale in un niente».

Prese il mantello e se lo passòintorno alle spalle e intorno a quelledella ragazza, avvolgendo entrambi. Poiespresse il desiderio di essere sulMonte Garnet. In un batter d’occhio ci siritrovarono in cima. C’erano pietrepreziose che luccicavano da tutte le partie non si era mai visto niente di cosìbello.

A ogni modo la strega aveva fatto unincantesimo al cacciatore perché si

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addormentasse e infatti a un certo puntodisse alla ragazza: «Riposiamoci qui unattimo. Sono talmente stanco che nonriesco a stare in piedi».

Si sedettero, le poggiò la testa ingrembo e gli venne sonno. Quando si fuaddormentato del tutto, lei gli tolse ilmantello dalle spalle e ci si avvolse,raccolse tutte le pietre preziose e igioielli che riusciva a trasportare edespresse il desiderio di tornare a casa.

Quando il cacciatore si svegliò, siritrovò da solo sulla montagna deserta,il mantello non c’era più e allora capìche la sua amata lo aveva imbrogliato.

«Oh» sospirò, «non immaginavo cheil mondo fosse così perfido!»

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E se ne stette seduto lì, troppoaddolorato per muoversi. Non sapevacosa fare.

Si dà il caso che la montagnaappartenesse a certi giganti spietati,mostri micidiali, ed ecco che ilcacciatore li sentì arrivare. Si stesesubito a terra fingendosi profondamenteaddormentato.

Il primo gigante lo pungolò conl’alluce e disse: «Che ci fa qui questolombrico?»

«Fossi in te lo schiaccerei» disse ilsecondo.

Ma il terzo disse: «Non vipreoccupate. Morirà presto comunque,perché qui non ha niente di cui vivere. In

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più, se si arrampica sulla cima, lenuvole lo porteranno via».

Lo lasciarono solo e proseguironocontinuando a parlare. Il cacciatoreaveva udito tutto e non appena furonoscomparsi dalla vista, si rimise in piedie si arrampicò con grande fatica sulpunto più alto della montagna,circondato dalle nuvole.

Si sedette sul pinnacolo di gioielli ele nuvole gli andarono a sbattere contro,fino a che una lo agganciò e lo imbarcò.Navigò comodamente nel cielo e videtante cose interessanti guardando giù, maalla fine iniziò a calare verso terra edopo un po’ fu depositato nell’orto diqualcuno, circondato da alte mura.

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La nuvola risalì, lasciandolo tra icavoli e le cipolle.

«Peccato che non ci sia della frutta»disse tra sé. «Mangerei volentieri unabella mela o una pera con la fame cheho. Posso sempre dare un morso alcavolo. Non è buonissimo, ma mi daràun po’ di energia».

Nel giardino crescevano due tipi dicavolo, quelli appuntiti e quelli rotondie, tanto per iniziare, il cacciatore staccòqualche foglia da quello appuntito einiziò a masticarla. Era buono, ma dopopochi morsi sentì una sensazionestranissima: la fronte gli formicolavacome se gli stessero crescendo deilunghi peli, la spina dorsale gli si piegò

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e le braccia gli si allungarono e sitrasformarono in zampe pelose con glizoccoli, il collo si ingrossò e divennepiù lungo, la faccia anche gli si allungòe gli spuntarono due lunghe orecchie ailati della testa e, prima di capire cosastava succedendo, era diventato unasino.

Non c’è bisogno di dire che a quelpunto il cavolo gli piacque ancora dipiù. Andò avanti a mangiarlo con gusto epoi passò a un cavolo rotondo. Avevafatto due morsi che tutto accadde dinuovo, ma al contrario, e in men che nonsi dica era ridiventato un uomo.

«Be’» si disse, «ora mi possoriprendere quel che mi appartiene».

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Quindi raccolse un cavolo appuntitoe uno rotondo, li mise con cura nellasacca, scavalcò il muro e se ne andò.Capì subito dove si trovava e si diresseverso il castello della strega. Lo trovòdopo qualche giorno di cammino: non sifece vedere e si tinse la faccia dimarrone tanto che nemmeno sua madrel’avrebbe riconosciuto.

Poi bussò alla porta. Fu la strega inpersona ad aprire.

«Cerco riparo per la notte» disse ilgiovane. «Sono esausto e non possocontinuare».

«Chi sei, mio caro?» disse la strega.«Cosa ti porta da queste parti?»

«Sono un messo reale e il re mi ha

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mandato a cercare il cavolo migliore delmondo. Per fortuna l’ho trovato ed èdavvero delizioso, ma fa così caldo cheinizia ad appassire. Non credo che ce lafarò a rientrare in tempo».

Quando la strega sentì parlare di quelcavolo delizioso, iniziò a scalpitare perla voglia di assaggiarlo.

«Ne avresti un po’ da far assaggiare ame e mia figlia?» disse.

«Ne ho due. Visto che siete state tantogentili da accogliermi per la notte, ve nedarò uno».

Aprì la sacca e diede loro il cavoloasinino. La strega impaziente lo prese ecorse a cucinarlo con già l’acquolina inbocca. Mise a bollire l’acqua, tagliò il

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cavolo accuratamente e lo lessò peralcuni minuti con sale e burro. Facevaun profumo così buono che non potéresistere e prima di portarlo in tavolaassaggiò una delle foglie, poi un’altra enaturalmente appena ingoiato iniziò atrasformarsi. Questione di secondi edera diventata un vecchio asino e corsefuori nell’aia scalciando.

Poi arrivò la serva e, sentito l’odoredel cavolo al burro, non poté fare ameno di prenderne un boccone anche lei.Faceva sempre così e, come previsto, leaccadde la stessa cosa. Non riuscendo atenere il piatto con gli zoccoli che leerano appena spuntati, lo lasciò cadere aterra e corse all’aperto.

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Nel frattempo la figlia della stregaparlava con il messo reale. «Chissàperché non tornano. L’odore è buono».

Il cacciatore capì che la magia erariuscita. «Ci penso io. Lo vado aprendere». Andò in cucina e da lì vide idue asini che scorrazzavano nell’aia epensò: ‘Bene! Tutto secondo il miopiano e ben servito’.

Raccolse il cavolo caduto a terra, lomise nel piatto e lo portò alla ragazza.Lei lo mangiò subito, diventò un asino ecorse fuori.

Il cacciatore si lavò la faccia perfarsi riconoscere e uscì nell’aia con unacorda. «Sì» disse, «ero io. Ora siete miee pagherete per la vostra perfidia».

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Le legò tutte e tre con la corda e lespinse avanti a sé fuori dal castello elungo la strada fino ad arrivare a unmulino. Bussò alla porta.

«Cosa volete?» disse il mugnaio.«Ho con me tre brutte bestie cattive e

voglio liberarmi di loro. Ti pagherò quelche vuoi per tenerle e trattarle come tidirò di fare».

Non era un’offerta che il mugnaio sisentiva proporre tutti i giorni, cosìaccettò subito. «Come devo trattarle?»

«Batti la più vecchia tre volte algiorno e dalle da mangiare una volta»(questa era la strega). «La bestia dimezzo può mangiare tre volte al giorno ela batterai una volta sola» (questa era la

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serva), «e la giovane non è poi cosìmale. Dalle da mangiare tre volte algiorno senza batterla mai». Non potevasopportare che facessero del male allaragazza.

Tornò al castello a riposare. Dopo unpaio di giorni il mugnaio andò acercarlo.

«Quella vecchia asina» disse, «nonera un granché. È già morta. Ma le altredue sembrano veramente tristi e non soche farmene».

«Oh, bene» disse il cacciatore.«Credo che la punizione sia sufficiente».

Disse al mugnaio di riportare le altredue asine al castello, sparse un po’ difoglie del cavolo rotondo a terra, quelle

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lo mangiarono e tornarono umane.La bella figlia della strega cadde in

ginocchio dicendo: «Oh, mio caro,perdonami per tutto il male che ti hofatto! Mi ci ha costretta mia madre. Nonavrei mai voluto ingannarti, perché tiamo con tutto il cuore. Il mantello fatatoè nell’armadio del salone e, per quantoriguarda il cuore d’uccello, berròqualcosa che me lo faccia tornare su».

«Non ce n’è bisogno» disse lui,ancora innamorato di lei. «Puoi tenerlo.Non ha importanza chi dei due cel’abbia, perché ci sposeremo».

Le nozze furono celebrate al piùpresto e vissero per sempre felici.

* * *

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Tipo di fiaba: ATU 567, ‘The Magic Bird-Heart’ (I due fratelli), che prosegue come ATU566, ‘The Three Magic Objects and theWonderful Fruits’ (L’insalata magica).Fonte:: una storia proveniente dalla Boemiaraccontata ai fratelli Grimm da un informatoresconosciuto.Storie simili: Alexander Afanasjev: ‘Horns’(Le corna) [(Russian Fairy Tales (Fiaberusse)]; Katharine M. Briggs: ‘Fortunatus’(Folk Tales of Britain); Italo Calvino: ‘Ilgranchio dalle uova d’oro’ (Fiabe italiane).Come accade spesso nei Grimm, abbiamo quidue storie diverse cucite insieme. Una voltache il cacciatore ha il cuore d’uccello e ilmanto fatato, potrebbe in teoria partire per ognitipo di avventura. La storia del cavolo (a voltetradotto come ‘insalata’) che trasformachiunque lo mangi in un asino non haconnessioni logiche con la prima parte della

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storia, anche se ben ci si adatta.Nella versione russa di Afanasjev, quel che

si mangia (due tipi di mela, in questo caso) facrescere o sparire delle corna dalla testa di chimangia. Meno fastidioso che trasformarsi in unasino, senza dubbio, ma comunque non facileda spiegare.

Ciò che mi piace in particolar modo diquesta storia è il carattere allegro del giovanecacciatore. È interessante vedere di quantipochi dettagli di tipo comportamentaleabbiamo bisogno per evocare una personalità.

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QUARANTADUE

OCCHIO, DUEOCCHI ETREOCCHI

C’era una volta una donna che aveva trefiglie. La più grande si chiamavaOcchio, perché aveva un occhio inmezzo alla fronte. La seconda sichiamava Dueocchi, perché aveva dueocchi come tutti e la più giovane sichiamava Treocchi, perché aveva treocchi, il terzo dei quali in mezzo alla

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fronte come la sorella più grande.Dueocchi non era diversa da tutti gli

altri e allora la madre e le due sorellenon smettevano mai di criticarla.

«Mostro a due occhi» dicevano, «chiti credi di essere? Non hai niente dispeciale, ragazza mia. Non sei comenoi».

Le davano vestiti logori e solo avanzida mangiare. Le rendevano la vitadifficile.

Un giorno Dueocchi doveva portarela capra al pascolo. Aveva fame, comesempre, perché aveva solo leccato lapentola sporca di zuppa d’avenabruciata per colazione. Si sedette sulpendio erboso e cominciò a piangere.

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Quando anche l’ultimo singhiozzo passò,con grande sorpresa vide una fatadall’aspetto gentile proprio al suofianco.

«Perché piangi, Dueocchi?» disse lafata.

«Perché ho due occhi come tutti glialtri. Come te, per esempio. Mia madree le mie sorelle mi odiano, micomandano a bacchetta, mi danno solovestiti vecchi e logori e mi fannomangiare gli avanzi. Oggi ho leccato lapentola della zuppa d’avena bruciata».

«Bene, Dueocchi, smetti di piangere»disse la fata. «Ti dirò un segreto che nonti farà più avere fame. Basta che tu dicaalla capra:

‘Caprettina, devi belare

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e cose buone potrò mangiare’e una bella tavola imbandita con ognigenere di leccornie ti apparirà davantiagli occhi e potrai mangiare tutto ciò chevuoi. Quando sarai sazia, basta che tudica:

‘Caprettina, puoi belareio ho finito di mangiare’.

E sparirà tutto».Detto ciò anche la fata sparì.

Dueocchi pensò che avrebbe fattomeglio a provare subito prima didimenticarsi la formula e inoltre morivadalla fame.

Così disse:«Caprettina, devi belaree cose buone potrò mangiare»

e dette queste parole, ecco comparire di

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fronte a lei una tavola coperta da unatovaglia bianca come la neve. C’eranoposate d’argento e anche un tovagliolodi lino candido e una sedia, per nonparlare del cibo! Piatti caldi e freddi,pietanze in casseruola e arrosti di carne,verdure di tutti i tipi e una grandecrostata di mele, tutto appena fatto efumante.

Dueocchi non vedeva l’ora dimangiare. Disse la preghiera diringraziamento più breve checonosceva: «Signore, vieni alla nostratavola ora e sempre, amen». Poi sisedette e mangiò a piacimento. Era tuttodelizioso, quindi prese un pezzetto diogni pietanza e una volta sazia disse:

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«Caprettina, puoi belareio ho finito di mangiare».

E la tavola scomparve in un batterd’occhio.

‘Bel modo di gestire la cucina’ pensòDueocchi, felice come non era da anni.

Quando a sera tornò a casa con lacapra, trovò una vecchia pignatta con unavanzo di stufato freddo e unto che lesorelle le avevano lasciato, ma non lotoccò. E la mattina nient’altro che lebriciole del pane abbrustolito, ma nonmangiò nemmeno quelle. Le prime duevolte le sorelle non se ne accorsero,perché di solito la ignoravano, ma ilgiorno successivo accadde ancora e poi

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ancora e a quel punto non poterono farea meno di notarlo.

«Che cosa succede a Dueocchi, chenon mangia?»

«Scommetto che c’è qualcosa sotto».«Forse ha trovato qualcuno che le

porta la merenda. Quella vacca golosa».«Non mi stupirei!»Pensarono che era il caso di capire

cosa stava succedendo, così quandoDueocchi uscì per portare la capra alpascolo, Occhio le disse: «Quasi quasivengo con te. Mi devo assicurare chebadi alla capra come si deve».

Chissà come mai, si chiese Dueocchi.Portò la capra al solito pascolo dovec’era tanta erba da mangiare e poi disse:

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«Siediti qui, Occhio, ti canterò unacanzone».

Occhio era stanca, perché avevacamminato di più per andare al pascolodi quanto non le capitasse in interesettimane e inoltre il calore del sole ledava sonnolenza, così si lasciò cadereall’ombra e Dueocchi iniziò a cantare:

«Occhio, vegli tu?Occhio, dormi tu?»

L’unica palpebra di Occhio si abbassòsempre di più e alla fine prese a russare.Allora Dueocchi, sicura che la sorellafosse profondamente addormentata,disse:

«Caprettina, devi belaree cose buone potrò mangiare».

E subito apparve la tavola magica con

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sopra zuppa di porri, pollo arrosto efragole con panna. Dueocchi mangiò asazietà e poi disse:

«Caprettina, puoi belareio ho finito di mangiare».

E la tavola svanì.Dueocchi svegliò Occhio e disse:

«Non avevi detto di volermi aiutare abadare alla capra? Hai dormito tutto ilgiorno! Fosse stato per te, sarebbescappata e caduta nel fiume. Per fortunac’ero io. Dai, andiamo a casa».

Rientrarono e ancora una voltaDueocchi non toccò gli avanzi di cibo.Stavolta si trattava di crostebruciacchiate. Treocchi e la madre nonvedevano l’ora di sapere cosa erasuccesso al pascolo, ma Occhio si limitò

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a dire: «Non so. Mi sono addormentata.Be’, faceva caldo».

«Sei un’incapace!» disse la madre.«Domani vai tu, Treocchi. Ci deveessere sotto qualcosa».

Così la mattina seguente Treocchidisse a Dueocchi: «Oggi vengo con te eti starò con gli occhi addosso».

E uscirono con la capretta. Dueocchicapì subito che a Treocchi potevagiocare lo stesso tiro di Occhio, cosìappena furono nel pascolo e Treocchi silasciò cadere vicino alla siepe, iniziò acantare:

«Treocchi, vegli tu?»

Ma poi invece di cantare, come avrebbe

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voluto:«Treocchi, dormi tu?»

Cantò:«Dueocchi, dormi tu?

E continuò:«Treocchi, vegli tu?Dueocchi, dormi tu?»

Poco alla volta due dei tre occhi sichiusero per la sonnolenza, ma il terzono, perché Dueocchi non gli avevacantato di chiudersi. Treocchi abbassòla palpebra, ma solo per finta. Conquell’occhio riusciva a vedere tutto.

Quando Occhio pensò che Treocchistesse dormendo, cantò:

«Caprettina, devi belaree cose buone potrò mangiare».

E subito apparve la tavola magica.

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Stavolta sopra c’erano zuppa di raparossa, pasticcio di carne e una tortadeliziosa. Dueocchi mangiò e bevvecontenta fino a sazietà e poi cantò:

«Caprettina, puoi belareio ho finito di mangiare».

e la tavola svanì.Treocchi aveva osservato tutto e

chiuse in fretta il terzo occhio quandoarrivò Dueocchi a svegliarla.

«Su, Treocchi!» disse Dueocchi.«Hai dormito tutto il giorno. Per fortunac’ero io a badare alla capra. Dai,andiamo a casa».

Tornate a casa, Dueocchi non vollemangiare. Si trattava stavolta dell’acquadi lessatura del cavolo.

La madre prese Treocchi in disparte

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e disse: «Be’, che è successo? Hai vistoqualcosa?»

«Ebbene sì. Ha provato a farmiaddormentare, ma il mio terzo occhio èrimasto sveglio. Ho visto che canta allacapra queste parole:

‘Caprettina, devi belaree cose buone potrò mangiare’.

E una tavola imbandita con sopra delbuon cibo spunta fuori dal nulla e leimangia a sazietà. Poi canta:

‘Caprettina, puoi belareio ho finito di mangiare’.

E la tavola scompare. Giuro! Davvero!L’ho vista. Mi ha fatto addormentare dueocchi, ma il terzo no».

A sentire ciò la madre si infuriò egridò: «Dueocchi! Vieni subito qui!

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Pensi di essere migliore di noi, eh? Faile magie con la capra! Come ti permetti!Ti darò una lezione, vedrai».

Prese il coltello più grande cheavevano, pugnalò la capra al cuore equella cadde morta a terra.

Dueocchi corse subito fuori nelpascolo e scoppiò a piangere. Nonsmetteva più di singhiozzare per lapovera capretta che non aveva mai fattoniente di male e aveva pena per sestessa, anche.

Poi si accorse che la fata le stava afianco.

«Perché piangi, Dueocchi?» disse.«Non riesco a smettere» disse

Dueocchi. «Mia madre ha pugnalato al

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cuore la povera capretta e l’ha uccisa eora è morta e io non potrò più chiederleuna tavola imbandita».

«Ti do un consiglio» disse la fata.«Chiedi alle tue sorelle di darti leinteriora della capra e sotterrale ingiardino davanti alla porta d’ingresso.Ti porteranno fortuna».

E poi sparì. Dueocchi mogia mogiatornò a casa e disse alle sorelle: «Vorreiavere un ricordo della capra. Mi darestele sue interiora?»

«Be’, se è tutto qui» disse Occhio eTreocchi aggiunse: «Dagliele, così lasmette di frignare».

Dueocchi mise le interiora dellacapra nel secchio, le portò in giardino e

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le sotterrò in un fazzoletto di terra.La mattina dopo proprio in quel punto

c’era un albero. Aveva foglie d’argentoe dozzine di frutti d’oro puro grandicome mele. Nessuno aveva mai visto unalbero più bello e nessuno aveva idea dicome fosse cresciuto; solo Dueocchi losapeva, poiché cresceva proprio nelluogo dove aveva sotterrato le interioradella capra.

Non appena la madre lo vide, disse:«Occhio, sali a raccogliere qualchefrutto d’oro».

Occhiò salì ansimando e provò aprenderne qualcuno, ma ogni volta che siavvicinava, il ramo si spostava. Cercòdi afferrarne uno e poi un altro, ma

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riuscì a malapena a toccarli, nonostantegli sforzi.

«Sei un’incapace» disse la madre.«Tua sorella non ci vede bene, Treocchi,sali tu. Magari riesci a vedere un po’meglio».

Occhio scese dall’albero e Treocchisi arrampicò, ma nonostante avesse unavista migliore, non riuscì a far megliodella sorella. Appena si avvicinava auna mela, il ramo si spostava giusto queltanto per sfuggirle e alla fine si arrese.

«Posso provare io?» disse Dueocchi.«Magari ci riesco».

«Chi, tu, sgorbio?»«Sì, mostro, cosa ti fa credere che ci

riuscirai?»

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Dueocchi si arrampicò sull’albero, irami non si spostarono e anzi le fecerocadere le mele in mano. Lei ne raccolsetante da riempire il grembiule. Quandoscese dall’albero, la madre glielesottrasse e Occhio e Treocchi, invece ditrattarla meglio perché era l’unica cheriusciva ad arrivare ai frutti, si feceroinvidiose e maligne e le riservarono untrattamento peggiore di prima.

Accadde che un giorno si trovavanotutte in giardino e arrivò un cavaliere.

Le sorelle lo videro arrivare edissero: «Sbrigati, Dueocchi! Mettitisotto la botte! Se ti vede penserà chesiamo tutte orribili!»

E la spinsero sotto una botte vicino

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all’albero, insieme alle mele appenaraccolte. Poi si misero di fiancoall’albero, lisciandosi e lanciandosorrisini. Il cavaliere si avvicinò evidero che era bello e indossavaun’elegante armatura.

«Buongiorno, signore» disse,scendendo da cavallo. «Che splendidoalbero avete. Oro e argento! Se me nedate un ramo, vi darò qualsiasi cosa incambio».

«Oh, sì, l’albero è nostro» disseOcchio.

«Proprio nostro» disse Treocchi.«Ora prendo un ramo per voi».

Ma il risultato fu lo stesso delle altrevolte e nemmeno Occhio ci riuscì. Ogni

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volta che si avvicinavano, i rami siscansavano.

«Che strano» disse il cavaliere.«Dite che l’albero è vostro, ma non vilascia avvicinare».

«Oh, è proprio nostro nostro» disseOcchio.

«È solo timido» disse Treocchi.«Forse perché voi ve ne state lìguardare».

«Fatemi riprovare» disse Occhio.Ma mentre parlavano Dueocchi

sollevò un po’ la botte e fece rotolarequalche mela ai piedi del cavaliere. Luivedendo le mele fece un passo indietro,stupito.

«Dico io! Da dove vengono queste?»

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disse.«Be’, abbiamo un’altra sorella,

ma...»«È un po’ strana, vedete, perché ha

due occhi e...»«Be’, meglio che non la veda

nessuno. Per la reputazione dellafamiglia».

«Mi piacerebbe conoscerla» disse ilcavaliere. «Dueocchi, ovunque tu sia,vieni fuori!».

Dueocchi riuscì a sollevare la botte euscì. Il cavaliere si sorprese a vederequanto era bella.

«Puoi staccare un ramo da darmi,Dueocchi?» disse.

«Sì che posso» rispose Dueocchi,

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«visto che l’albero è mio».E con gran facilità si arrampicò

sull’albero, spezzò un ramo con bellefoglie d’argento e frutti d’oro e lo diedeal cavaliere.

«E cosa vuoi in cambio, Dueocchi?»disse.

«Ah» disse Dueocchi, «dalla mattinaalla sera ho sempre e solo fame e sete,dolori e dispiaceri. Se potete portarmivia da tutto ciò, ve ne sarò grata».

Il cavaliere la mise sul cavallo e laportò al castello di suo padre. Le diededei bei vestiti e la rifocillò per bene e,poiché si era innamorato, la sposò e lenozze furono celebrate con gioia in tuttoil regno.

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In seguito alla partenza di Dueocchiinsieme al bel cavaliere, le due sorellesi consumarono di invidia. Ma alla fine,pensarono, questo bell’albero è ancoranostro e anche se non possiamoraccogliere le mele, la gente si fermeràad ammirarlo e chissà che non ne vengaqualche fortuna?

La mattina seguente videro però constupore che l’albero era scomparso econ esso tutte le loro speranze. Nelfrattempo, Dueocchi guardava fuoridalla finestra della sua camera e videche l’albero si ergeva felice nella cortedel castello, poiché nel cuore della notteaveva tirato fuori le radici dal terrenoed era arrivato fin lì in punta di piedi

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per cercare lei.Dueocchi visse felice e a lungo. Un

giorno, molti anni più tardi, duepoverette vennero a bussare alla portadel castello chiedendo qualcosa damangiare, poiché erano state colpitedalla povertà e costrette a mendicare unpo’ di pane di casa in casa. Dueocchi leaccolse e le trattò con tale gentilezza cheloro si rammaricarono per tutto il maleche le avevano fatto e la cosa strana fuche, nonostante fossero passati tantianni, Dueocchi riconobbe subito Occhioe Treocchi.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 511, ‘One Eye, Two Eyes,

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Three Eyes’ (Occhietto, Duocchietti,Treocchietti).Fonte:: una storia di Theodor Peschekpubblicata su Wöchentliche Nachrichten fürFreunde der Geschichte, Kunst undGelahrtheit des Mittelalters (Weekly News forFriends of the History, Art and Learning ofthe Middle Ages), vol. 2 (1816).Storie simili: Alexander Afanasjev:‘Burenushka, the Little Red Cow’ (Burja l’eroefiglio di mucca) [Russian Fairy Tales (Fiaberusse)]; Jacob e Wilhelm Grimm: ‘Cinderella’(Cenerentola) [Children’s and HouseholdTales (Fiabe del focolare)].Questa è ‘Cenerentola’ (p. 139), certo, conl’aggiunta di altre assurdità. La presenza dellafata, della capra, delle interiora e dell’albero loconferma sopra ogni dubbio: rappresentanotutti i vari aspetti della madrina, che è assente eche in ogni variante di ‘Cenerentola’ comparein un modo o in un altro.

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Nella versione russa di Afanasjev, Dueocchiinvita le sorelle ficcanaso a poggiare le testesul suo grembo per farsi spidocchiare. Questosimpatico dettaglio igienico ricompare anchein ‘Il diavolo con i tre capelli d’oro’ (p. 176).

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QUARANTATRÉ

LE SCARPETTE FATTE APEZZI A FURIA DI

DANZARE

C’era una volta un re che aveva dodicifiglie, una più bella dell’altra.Dormivano tutte insieme in una camera, iletti in fila, e ogni sera, una voltarimboccate le coperte, il re in personachiudeva e sprangava la porta. Tuttavia,ogni mattina, apriva la camera e

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scopriva che le scarpe delle figlie eranoridotte a brandelli da tanto danzare enessuno sapeva come fosse accaduto. Leprincipesse a riguardo non dicevanonulla.

Il re annunciò che chi avessescoperto dove andavano le figlie di nottea danzare avrebbe potuto sceglierne unain moglie e un giorno diventare re. Seperò avesse fallito nello scoprire laverità, avrebbe pagato con la vita.

Presto un principe venuto da un altropaese si offrì di partecipare all’impresa.Gli diedero il benvenuto e loaccompagnarono in una stanza vicinoalla camera da letto delle principesse,così che le sorvegliasse, per vedere

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dove andavano a danzare. Gliprepararono un letto e per facilitarglil’impresa la porta della camera delleprincipesse fu lasciata aperta.

Sfortunatamente le palpebre gli sifecero pesanti e sempre più pesanti manmano che la notte cresceva, e il principecadde addormentato. Quando al mattinosi svegliò, le scarpe delle principesseerano ridotte in pezzi. Lo stesso accaddela seconda notte e la terza e così ilprincipe si giocò la testa. Molti altrigiunsero per tentare la fortuna in questapericolosa impresa, ma tutti fallironocome lui.

Accadde però che un povero soldato,che era stato ferito e non poteva più

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servire l’esercito, si stesse dirigendoproprio verso quella città. Sul camminoincontrò una vecchia che chiedeval’elemosina e mosso a dispiacere sisedette e divise con lei l’ultimo bocconedi pane e formaggio.

«Dove stai andando, caro?» disse lei.«A dire il vero non saprei» rispose

lui, ma poi continuò: «Ma sai che tidico? Mi piacerebbe scoprire dov’è chevanno a danzare quelle principesse finoa ridurre le scarpe in pezzi. Così me nesposo una e divento re».

«Non è difficile» disse la vecchia.«Ti porteranno un bicchiere di vinoquando andrai a dormire, ma tu nondovrai berlo in nessun caso».

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Quindi tirò fuori un mantello dal suosacco e disse: «E quando ti metteraiquesto diventerai invisibile, così potraiseguirle e scoprire dove vanno».

Il soldato la ringraziò e si rimise incammino, pensando: ‘Adesso lafaccenda si fa seria’.

Al palazzo lo ricevettero conmagnanimità, gli indicarono la suacamera e gli diedero splendidi abitinuovi da indossare. Quando fu l’ora diandare a dormire, la maggiore delleprincipesse gli portò una coppa di vino.

Lui se lo aspettava, così si era legatouna spugna sotto il mento. Lasciò che ilvino vi colasse dentro, tanto chenemmeno una singola goccia gli penetrò

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le labbra. Di lì a poco si stese e chiusegli occhi e russò un po’ per far crederedi essersi addormentato.

Le dodici principesse lo sentirono erisero, dicendo: «Eccone un altro cheperderà la vita».

Si alzarono e aprirono guardaroba,armadi e cassetti, provandosi questo equell’altro vestito, tirandosi su i capelli,facendosi più belle che potevano,saltellando e sgambettando per tutto iltempo, eccitate al pensiero del ballo avenire. Solo la più giovane non erasicura. «Ridete e scherzate» disse, «maio ho la sensazione che stia persuccedere qualcosa di brutto».

«Che stupida oca» disse la

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principessa più grande. «Hai semprepaura! Pensa a tutti quei principi chehanno tentato di sorvegliarci e non cisono riusciti. Scommetto che avreipotuto persino evitare il sonnifero. Sisarebbe addormentato comunque».

Una volta pronte, la principessa piùgrande guardò ancora verso il soldato,che sembrava dormire profondamente,così pensarono di essere al sicuro.Quindi andò verso il letto e vi bussòsopra. Immediatamente il lettosprofondò nel pavimento e una dopol’altra le principesse si calarononell’apertura. Il soldato le sorvegliavadi nascosto e, non appena furono scesetutte, si mise il mantello e le seguì. Per

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non perderle di vista, le seguiva così davicino che calpestò il vestito della piùgiovane, che se ne accorse e gridò: «Chiè là? Chi è che mi tira il vestito?»

«Oh, non essere stupida» disse la piùgrande. «Si sarà impigliato su un chiodoo qualcosa di simile».

Scesero giù per la scalinata fino agiungere a un bellissimo viale alberato.Le foglie sugli alberi brillavano chiarecome la luna, perché erano fatted’argento. Il soldato pensò: ‘Meglio semi porto dietro una prova’ e spezzò unramo.

Fece un tale rumore che laprincipessa più giovane si spaventò dinuovo. «Avete sentito? C’è qualcosa di

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strano...»«Tu sei matta» disse la più grande.

«È solo uno sparo a salve per darci ilbenvenuto».

Il viale d’argento divenne un viale dialberi d’oro e poi di diamanti. Il soldatostaccò un ramo da ognuno di essifacendo un tale rumore che laprincipessa più giovane si spaventò dinuovo ogni volta e ogni volta la piùgrande disse che era uno sparo a salve.

Proseguirono fino a uno specchiod’acqua dove c’erano dodici barche inattesa, su ogni barca un principe ai remi.Quando le principesse arrivarono, iprincipi si alzarono e le aiutarono asalire, uno per ognuna di loro; ma il

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soldato raggiunse la principessa piùgiovane e il suo principe a bordo, senzache se ne accorgessero.

Il principe disse: «Non so perché labarca è così pesante oggi. Faccio faticaa muoverla».

«Credo sia il caldo» disse laprincipessa. «Sto soffocando».

Sulla riva opposta c’era un belcastello illuminato a meraviglia damigliaia di lanterne. La musica ditrombe e di timpani risuonava vivacenell’aria e i principi portarono le barcheall’attracco e aiutarono le principesse ascendere per poi dare inizio alle danze.Il soldato ballava in mezzo a loro. Ognivolta che una principessa si portava alle

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labbra un bicchiere di vino, il soldato lobeveva prima di lei. Ma mentre le piùgrandi restavano solo interdette, la piùgiovane era spaventata e la più grandedovette nuovamente calmarla.

Rimasero lì fino alle tre e perquell’ora avevano danzato così tanto chele scarpe erano ridotte in pezzi edovettero andarsene. I principi leriportarono indietro e stavolta il soldatosi sedette nella barca della principessapiù grande. Scese per primo e corseavanti e, quando le principessetornarono nei letti, lui stava già russandonel suo.

«Siamo salve» dissero, e si tolsero ideliziosi vestiti, misero sotto i letti le

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scarpe distrutte e andarono a dormire.La mattina dopo il soldato non disse

nulla. Voleva rivedere quel bel castelloe i preziosi viali alberati. Andò con lorola seconda notte e poi la terza e tutto fudi nuovo come la notte precedente e ognivolta le scarpe furono ridotte in pezzi afuria di danzare; la terza notte si portòdietro una coppa come ulteriore prova.

Arrivò il mattino in cui doveva darela risposta, allora prese i tre rami e lacoppa e andò dal re. Le principesseascoltavano da dietro la porta.

Il re disse: «Bene, hai avuto le trenotti. Dov’è che le mie figlie riducono lescarpe in pezzi a furia di danzare?»

E il soldato rispose: «In un castello

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sotto terra, sua maestà. Incontranododici principi che le portano al di là diun lago con le barche».

Raccontò l’intera storia e mostrò alre i rami dell’albero d’argento,dell’albero d’oro e dell’albero didiamanti e anche la coppa che avevapreso al castello. Il re chiamò le figlie alsuo cospetto.

«Credo che abbiate sentito le paroledi quest’uomo» disse. «Dunque, chi èche dice la verità?»

Le principesse non avevano scelta:dovettero ammettere tutto.

«Così ci sei riuscito» disse il re alsoldato. «E ora quale delle mie figlievorresti in moglie?»

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«Be’, non sono più così giovane»disse il soldato «quindi credo chemeglio sarebbe la più grande».

«La avrai» disse il re e le nozzefurono celebrate quello stesso giorno.

Il re promise che il soldato sarebbestato il successore al trono e ai principisotto terra fu fatta una maledizione chedurò tante notti quante ne avevanotrascorse a danzare con le principesse.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 306, ‘The Danced-outShoes’ (Le scarpe logorate dal ballo).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Jenny von Droste-Hülshoff.Storie simili: Alexander Afanasjev: ‘TheSecret Ball’ (Le danze notturne) [Russian

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Fairy tales (Fiabe russe)].Conosciuta anche come ‘Le dodici principessedanzanti’, questa fiaba ha il fascino di tutti iracconti sulle meraviglie che si trovano sottoterra, soprattutto quelle che comprendonopiccole barche, graziose luci, alberi dalfogliame prezioso, musica e danza. Si presta,ovviamente, a belle illustrazioni. Per questastoria io non ho fatto altro che rendere i donidella vecchia (il consiglio e il mantello) ungesto di riconoscenza per la carità del soldato.

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QUARANTAQUATTRO

HANS DI FERRO

C’era una volta un re che viveva in uncastello vicino a una grande forestaabitata da ogni genere di animaliselvatici. Un giorno mandò il suocacciatore più anziano a uccidere uncervo, ma il cacciatore non fece ritorno.

«Forse gli è successo qualcosa»disse il re e il giorno successivo mandòaltri due cacciatori a cercarlo, ma non

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fecero ritorno neppure loro.Il terzo giorno chiamò a raccolta tutti

i cacciatori e disse: «Cercateli in tutta laforesta e non smettete fino a che non liavrete trovati tutti e tre».

Ma nessuno di quei cacciatori feceritorno e nemmeno la muta di segugi cheera con loro. Da quel giorno, nessunopiù osò andare nella foresta, che restòcosì profondamente silenziosa edesolata, con soltanto qualche aquila equalche falco che di tanto in tantovolavano al di sopra degli alberi.

Per molti anni rimase tutto cosìcom’era, fino a che un giorno uncacciatore sconosciuto, uno straniero, sipresentò al re in cerca di un impiego e si

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propose volontariamente per andare inquel pericoloso bosco. Ma il re nonacconsentì.

«C’è qualcosa di misterioso, lì»disse. «Forse è sotto incantesimo. Noncredo che tu possa riuscire meglio deglialtri e temo che faresti la loro stessafine».

Ma il cacciatore disse: «Correrò ilrischio, maestà. Io non conosco lapaura».

Così il cacciatore si mise in camminonella foresta col suo segugio. Pocodopo, il cane fiutò qualcosa e iniziò aseguire la traccia, correndo per qualchepasso, ma raggiunse il bordo di unostagno profondo e non poté proseguire.

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Un braccio nudo spuntò dall’acqua,afferrò il cane e lo trascinò sotto lasuperficie.

Visto ciò, il cacciatore tornò indietroa prendere tre uomini con dei secchi persvuotare lo stagno. Arrivati sul fondo, citrovarono un selvaggio. Aveva la pellebruna come ferro arrugginito e i capellidavanti agli occhi fino alle ginocchia.Lo legarono stretto con delle corde e loportarono al castello.

Tutti si stupirono quando lo videro. Ilre ordinò di metterlo in una gabbia diferro nel cortile e di vietare a tutti diaprirla, pena la morte, e consegnò lachiave alla regina in persona.

Si dà il caso che il re avesse un figlio

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di otto anni. Un giorno, mentre giocavain cortile, la sua palla d’oro rimbalzò trale sbarre della gabbia di ferro e ci finìdentro.

Il ragazzo si avvicinò e disse:«Ridammi la palla».

«Non te la darò fino a quando non miaprirai» disse il selvaggio.

«Non posso» disse il ragazzo. «Miopadre l’ha vietato».

E corse via. Il giorno seguente tornòa chiedere la palla, ma il selvaggio silimitò a dire: «Aprimi la porta». E ilragazzo rifiutò ancora.

Il terzo giorno, mentre il re era fuoria caccia, il ragazzo si avvicinò allagabbia e disse: «Anche volendo, non

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posso aprire la gabbia. Non ho lachiave».

Il selvaggio disse: «È sotto il cuscinodi tua madre, la puoi prendere confacilità».

Il ragazzo era disperato perchérivoleva la palla, così abbandonò ogniprecauzione e prese la chiave. Illucchetto era difficile da aprire e ilragazzo si fece male a un dito; ma poiaprì la gabbia, si riprese la palla e ilselvaggio scappò via.

Il ragazzo spaventato urlò: «Oh,selvaggio, non scappare o mipicchieranno!»

Il selvaggio si girò, si mise il ragazzosulle spalle e andò verso la foresta di

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buon passo.Quando il re tornò a casa notò la

gabbia vuota e chiese subito alla reginacos’era successo. Lei non ne sapevanulla e andò a cercare la chiave e videche non c’era più. Poi si accorsero chenon c’era più nemmeno il ragazzo, lochiamarono, ma non rispose nessuno. Ilre e la regina mandarono dei servi acercare nel parco reale intorno alcastello e nei campi e pascoli più in là,ma non lo trovarono e a quel puntointuirono ciò che era successo e tutta lacorte cadde in un profondo lutto.

Una volta raggiunta la foresta, ilselvaggio mise giù il ragazzo e disse:«Non vedrai più tua madre e tuo padre,

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ma io mi prenderò cura di te, perché mihai liberato e ho compassione. Fa’ cometi dico e andrà tutto bene. Sono pienod’oro e ricchezze, più di ogni altrapersona al mondo».

Raccolse un po’ di muschio e preparòun letto per il ragazzo che presto siaddormentò. La mattina seguente ilselvaggio lo portò presso una sorgente edisse: «Vedi? Questa è la mia sorgented’oro. È chiara e limpida e voglio cherimanga così. Siediti qui e fai la guardiae assicurati che non ci cada dentro nulla,perché non voglio che si inquini, capito?Tornerò ogni sera a controllare se haifatto come ti ho detto».

Il ragazzo si sedette vicino alla

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sorgente e si mise a guardare l’acqua. Ditanto in tanto vedeva un pesce oun’anguilla d’oro sotto la superficie estava attento che nulla ci cadesse dentro.Ma mentre se ne stava lì, il dito che siera schiacciato nella porta della gabbiaricominciò a fargli male e non poté farea meno di immergerlo nell’acqua. Lotirò fuori subito e vide che era diventatod’oro e per quanto cercasse di pulirlo,era proprio tutto d’oro e non c’era nienteda fare.

A sera, quando Hans di Ferro tornò acasa, guardò il ragazzo e gli disse:«Cos’è successo alla sorgente?»

«Proprio nulla» disse il ragazzo,nascondendo il dito dietro la schiena per

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non farlo vedere a Hans di Ferro.Ma l’uomo disse: «Hai immerso il

dito nell’acqua. Be’, passi per questavolta, ma stai attento che non ci cadadentro nient’altro».

La mattina presto il ragazzo sipreparò e andò alla sorgente a fare laguardia. Il dito riprese a fargli male estavolta se lo strofinò in testa, ma cosìfacendo un capello gli cadde in acqua.Lo tirò fuori più veloce che poteva, maera già coperto d’oro.

Quando tornò a casa, Hans di Ferrosapeva già cos’era successo. «Hai fattocadere un capello nella sorgente» disse.«Questa è la seconda volta. Farò dinuovo finta di non aver visto, ma se

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capita ancora la sorgente sarà inquinatae tu non potrai più stare qui».

Il terzo giorno il ragazzo se ne stavaseduto a fare la guardia con attenzionesenza muovere il dito, benché gli facessemale. Il tempo trascorreva molto lento epoiché si annoiava pensò di chinarsi aguardare il suo riflesso. Si avvicinòsempre di più all’acqua, cercando divedersi gli occhi, e i suoi capelli lunghicaddero da dietro in avanti finendo inacqua. Tirò la testa indietro di scatto, maera troppo tardi: tutti i capelli eranodiventati d’oro e brillavano come ilsole. Immaginate la paura del ragazzo.L’unica idea che gli venne in mente fu diavvolgersi il fazzoletto intorno alla

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testa, in modo che Hans di Ferro nonvedesse nulla.

Invece appena arrivato a casa, fuquella la prima cosa che notò.

«Togliti il fazzoletto» disse.Il ragazzo non aveva scelta. Tutti i

capelli biondi gli caddero sulle spalle enon poté nemmeno inventarsi una scusa.

«Non hai superato la prova» disseHans di Ferro. «Non puoi più stare qui.Devi andartene per il mondo e impararecos’è la povertà. Ma non sei cattivo e tiauguro il meglio e voglio farti un favore:quando ti troverai in un momento di verobisogno, vai nella foresta e grida ‘Hansdi Ferro’ e io verrò in tuo aiuto.Possiedo grandi poteri, più di quel che

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credi, e oro e argento in abbondanza».Così il principe lasciò la foresta e

vagò per sentieri selvaggi o ben battutifinché alla fine giunse in una grandecittà. Lì cercò un impiego, ma non netrovò, poiché non aveva mai imparato aguadagnarsi da vivere. Alla fine andò apalazzo e chiese se potevano dargliqualcosa da fare.

I funzionari di palazzo non sapevanocosa, ma era un ragazzo simpatico e lopresero. Alla fine il cuoco disse chepoteva trovargli del lavoro in cucina elo mise a trasportare legna e acqua e apulire la cenere del camino.

Un giorno, mentre gli altri camerierierano indaffarati, il cuoco disse al

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ragazzo di portare le pietanze alla tavoladel re. Lui non voleva che vedessero isuoi capelli d’oro, così non si tolse ilcappello. Il re, sorpreso dinanzi a talecomportamento, disse: «Ragazzo, allatavola del re devi toglierti il cappello».

«Preferirei di no, maestà» disse ilragazzo, «perché sono pieno di forfora».

Il re mandò a chiamare il cuoco e lorimproverò per aver lasciato avvicinareun ragazzo in quelle condizioni allatavola del re. Il cuoco volevalicenziarlo, ma poi ne ebbe compassionee lo scambiò con il garzone delgiardiniere.

Il suo lavoro a questo punto eraseminare e innaffiare, potare e zappare,

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anche col vento e con la pioggia. Ungiorno d’estate, stava lavorando da soloin giardino e faceva così caldo che sitolse il cappello per rinfrescarsi un po’.Il sole, colpendo i capelli d’oro, li fecebrillare e scintillare e il riflessoilluminò con un bagliore la camera daletto della principessa.

Lei balzò su a vedere di cosa sitrattasse e, notando il ragazzo, chiamòforte: «Ragazzo! Portami un mazzo difiori».

Lui si rimise velocemente ilcappello, raccolse dei fiori di campo eli legò insieme. Stava salendo gli scalinidel giardino quando il capo giardinierelo vide e disse: «Che pensi di fare, vuoi

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portare alla principessa un mazzo difiori così comuni? Buttali via, veloce, eprendi quelli rari. Sono appena spuntatele rose rosa, prendi quelle».

«Oh, no» disse il ragazzo, «quellerose non profumano. Questi fiori dicampo invece sono così odorosi... Lepiaceranno sicuramente di più».

Quando entrò in camera dellaprincipessa, lei disse: «Togliti ilcappello. Indossarlo in mia presenza nonè cortese».

«Non posso, vostra altezza reale»disse. «Ho la testa piena di croste».

Ma la principessa gli strappò via ilcappello e subito i capelli d’oro gliricaddero sulle spalle, in tutta la loro

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bellezza. Voleva scappar via, ma lei lotenne per un braccio, poi gli diede unamanciata di ducati e lo lasciò andare.Lui prese i ducati, ma non li voleva eallora li diede al giardiniere.

«Facci giocare i tuoi bambini» disse.Il giorno seguente la principessa lo

mandò di nuovo a chiamare, chiedendoun altro mazzo di fiori di campo.Quando glieli portò, gli afferrò subito ilcappello cercando di toglierlo, ma lui selo tenne stretto e non ci riuscì. Laprincipessa gli diede di nuovo i ducati elui di nuovo li diede al giardiniere per ibambini. Successe lo stesso il terzogiorno: lei non riuscì a strappargli ilcappello e lui non volle il denaro.

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Non molto tempo dopo, il paese entròin guerra. Il re chiamò a raccolta iconsiglieri, ma non riuscivano adecidere se continuare a combattere oarrendersi, visto che il nemico aveva unesercito grande e potente.

Il garzone del giardiniere disse:«Ormai sono grande. Datemi un cavallo,andrò in guerra e combatterò per ilpaese».

Gli altri giovanotti risero e dissero:«Non ti preoccupare, avrai un cavallodopo la nostra partenza. Ne lasceremouno nella stalla per te».

Così aspettò la partenza, poi andò acercare il cavallo nella stalla. Ne trovòuno zoppo che camminava facendo

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cloppete-clo, cloppete-clo.Ma lui comunque ci montò sopra e

cavalcò in direzione della fitta foresta.Arrivato sul margine si fermò e chiamòforte tre volte «Hans di Ferro!», cosìforte che l’eco si espanse tutto intorno.

Il selvaggio comparve subito e disse:«Di cosa hai bisogno?»

«Vado alla guerra» disse il ragazzo,«e ho bisogno di un buon cavallo».

«Ne avrai uno e anche molto altroancora».

Il selvaggio tornò nel bosco e unattimo dopo uscì dagli alberi un giovanestalliere con un magnifico cavallo chesbuffava e pestava il piede e sicontrollava a fatica. Inoltre, dietro di lui

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veniva un reggimento di cavalieri conarmature di ferro e spade cheluccicavano al sole.

Il ragazzo lasciò il cavallo zoppo conlo stalliere, montò sopra l’altro e partìin testa ai cavalieri. Raggiunto il campodi battaglia, trovarono già molti cadutitra le fila del re e gli altri in procinto dibattere in ritirata. Così il giovanegaloppò alla carica con il suoreggimento di ferro e si abbatté sulnemico come una tempesta, atterrandotutti gli uomini che incontrava sul suocammino. Il nemico nello scompiglioripiegò, ma il giovane impietoso non sifermò finché non furono tutti morti o infuga.

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Finita la battaglia, non tornò dal re,bensì guidò i suoi uomini su un tortuososentiero nella foresta e di nuovo chiamòHans di Ferro.

«Di cosa hai bisogno?» disse ilselvaggio.

«Riprenditi il cavallo e i tuoicavalieri e dammi indietro il miovecchio ronzino zoppo».

Hans di Ferro fece come egli erastato chiesto e il giovane tornò a casasul cavallo cloppete-clo.

Quando il re tornò a palazzo, la figliagli corse incontro a congratularsi per lagrande vittoria.

«Non è merito mio» disse. «Ci hasalvato uno strano cavaliere con il suo

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esercito di soldati di ferro».La principessa avrebbe voluto sapere

chi era il cavaliere misterioso ma il renon glielo disse.

«So solo che ha messo in fuga ilnemico e poi è andato via» disse il re.

La principessa andò dal giardiniere achiedere del garzone e quello si mise aridere.

«È appena tornato sul suo cavallo atre zampe» disse. «Lo prendono tutti ingiro e dicono ‘Guardate che arrivaCloppete-clo’. E lui dice: ‘Mi sonocomportato meglio di tutti voi. Senza dime avreste perso la battaglia’ e loro sisbellicano dalla risate».

Il re disse alla figlia: «Bandirò un

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grande torneo. Durerà tre giorni e tulancerai una mela d’oro che i cavalieridovranno afferrare. Magari il cavalieresconosciuto vi prenderà parte, non sipuò mai sapere».

Saputo del torneo, il giovane andònella foresta e chiamò Hans di Ferro.

«Di cosa hai bisogno?»«Di prendere la mela d’oro della

principessa».«Consideralo già fatto» disse Hans di

Ferro. «Inoltre, indosserai un’armaturarossa e monterai un fiero cavallo sauro».

Aperto il torneo, il giovane arrivò algaloppo, si posizionò tra i cavalieri enessuno lo riconobbe. Poi arrivò laprincipessa a lanciare la mela d’oro, lui

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la prese e corse via al galoppo.Il giorno seguente Hans di Ferro gli

diede un’armatura bianca e un cavallocandido come neve. Lui prese la melaun’altra volta e un’altra volta corsesubito via al galoppo.

Ma il re perse le staffe. «Se ilcavaliere scappa via senza dire il suonome» annunciò, «tutti dovrannoinseguirlo e se non tornaspontaneamente, saranno autorizzati ausare lance e spade. Non possoaccettare un comportamento del genere».

Il terzo giorno, Hans di Ferro glidiede un’armatura nera e un cavallo nerocome la notte e lui riuscì di nuovo aprendere la mela. Ma stavolta gli altri

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cavalieri lo inseguirono e uno di loro gliandò abbastanza vicino per pugnalarloalla gamba. E forse pugnalò anche ilcavallo, che si impennò così alto che neltentativo di controllarlo il giovane persel’elmetto. Cadde a terra e tutti videroche aveva i capelli d’oro. Ma nonvidero altro, perché riuscì a fuggire eloro tornarono a fare rapporto al re.

Il giorno seguente la principessachiese al giardiniere notizie del garzone.

«Sta potando le rose, vostra altezzareale. È un tipo strano. È stato al torneoe tutto. Ieri sera è tornato a casa e hamostrato ai miei bambini tre mele d’oro.Ha detto che le ha vinte, ma non so».

Il re lo fece chiamare e lui arrivò,

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ancora col cappello in testa. Laprincipessa gli si avvicinò e glielo tolse,i capelli biondi gli ricaddero sullespalle ed era così bello che tuttirimasero stupiti.

«Giovane, sei tu il cavaliere che èvenuto al torneo ogni giorno conun’armatura di colore diverso e che hapreso le tre mele d’oro?»

«Sì» disse il giovane, «eccole qui».Prese le tre mele dalle tasche e le porseal re. «Se avete bisogno di altre prove»continuò, «potete vedere la ferita che mihanno fatto gli altri cavalieri quando ierimi hanno inseguito. E io sono anche lostesso cavaliere che ha aiutato il vostroesercito a vincere il nemico».

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«Se sei in grado di fare queste cose,non puoi essere il garzone delgiardiniere» disse il re. «Dimmi, chi ètuo padre?»

«Un potente re, e ho tutto l’oro chevoglio».

«Sì, capisco. Devo ringraziarti,allora» disse il re. «C’è qualcosa cheposso fare per te?»

«Sì, a dire il vero» disse il giovane.«Potete darmi vostra figlia in sposa».

La principessa rise e disse: «Nonmena il can per l’aia! Ma io l’ho capitosubito che non era il garzone delgiardiniere».

Poi andò a baciarlo.Il padre e la madre del ragazzo

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parteciparono alle nozze, pieni di gioia.Avevano perso tutte le speranze dirivedere il figlio vivo.

Al culmine della festa, la musicaimprovvisamente si interruppe. La portesi spalancarono ed entrò un fiero re colsuo seguito. Si diresse a grandi passiverso il giovane, lo abbracciò e disse:«Sono Hans di Ferro, ero statotrasformato in un selvaggio con unincantesimo, ma tu mi hai liberato. Tuttele mie ricchezze saranno tue».

* * *

Tipo di fiaba: ATU 502, ‘The Wild Man’(L’uomo selvaggio).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimm

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dalla famiglia Hassenpflug e ‘Eiserne Hans’(‘Iron Hans’, Gianni ferroso), una fiabaappartenente a Hundert neue Mährchen imGebirge gesammelt (Hundred New Tales fromthe Mountains, 1844) di Friedmund vonArnim.Storie simili: Alexander Afanasjev: ‘PrinceIvan and Princess Martha’ (Russian FairyTales); Katharine M. Briggs: ‘Three-for-a-pot’(Tre buoni consigli) [Folk Tales of Britain(Fiabe popolari inglesi)]; Andrew Lang: ‘TheHairy Man’ (L’uomo peloso) [Crimson FairyBook (Libro cremisi)].Questa storia acquistò una certa fama nei primianni Novanta, in seguito alla pubblicazione diIron John: un libro sugli uomini (1990) diRobert Bly, testo del movimento maschilesempre presente nella sezione Mente, corpo espirito sugli scaffali delle librerie. Blysosteneva che l’uomo moderno è statofemminilizzato e allontanato, a causa dello stile

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di vita contemporaneo, dai modelli autentici disviluppo psichico e che ha bisogno di unmodello di mascolinità che comprendaun’iniziazione alla vera virilità da parte di veriuomini. Apparentemente questa storia, e ilselvaggio che ne è il centro, è un modello diquel tipo.

Potrebbe esserci qualcosa di vero, ma mipare di intuire che queste cose, ammesso chefunzionino, funzionano molto meglio quandonon lo si sa: per gli ascoltatori non c’è nulla dipiù respingente di una pesante interpretazionedi una cosa che inizialmente aveva procuratoloro meraviglia. È una gran bella storia,qualunque cosa significhi.

E per quanto riguarda il suono degli zoccolidel vecchio cavallo zoppo, nelle versioniinglesi si può scegliere tra ‘higgledy-hop’ (AGuide to folktales in the English Language diD. L. Ashliman), ‘clippete clop’ (The PenguinComplete Grimms’ Tales for Young and Old di

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Ralph Mannheim), ‘hobblety jig’ (TheComplete Grimm’s Fairy Tales di MargaretHunt), ‘hippety-hop’ (Brothers Grimm: TheComplete Fairy Tales di Jack Zipes) e‘hobbedy-clop’ (Brothers Grimm: SelectedTales di David Luke). La versione di Lukesembrava vincere su tutte, così ho rubatoproprio quella.

Credo che valga la pena sapere che intedesco era hunkepuus.

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QUARANTACINQUE

IL MONTE SIMELI

C’erano una volta due fratelli, uno riccoe l’altro povero. Il primo, riccocom’era, non aiutava affatto quellopovero, che sbarcava il lunariovendendo frumento. Le cose simettevano male per lui e spesso gliaccadeva di non avere nemmeno unacrosta di pane per la moglie e il figlio.

Un giorno il fratello povero stava

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attraversando la foresta con il carrettoquando notò un’alta montagna su un latodel sentiero. Poiché non l’aveva maivista prima, la guardò con sorpresa ementre se ne stava lì a guardarla siaccorse che dodici omaccioni siavvicinavano. Non l’avevano ancoravisto, così pensando che si trattasse dibriganti, spinse il carretto tra i cespuglie si arrampicò su un albero per togliersidalla strada.

Gli uomini andarono ai piedi dellamontagna, che non era tanto lontana, egridarono: «Monte Semsi, Monte Semsi,apriti!»

Subito, con un boato, si aprì unacaverna in mezzo alla montagna. I dodici

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uomini entrarono e la montagna sirichiuse.

Il mercante di frumento che stavasull’albero si mise a pensare cosa fare.Ma dopo non molto tempo ci fu un altroboato, la caverna si riaprì e gli uominiuscirono con pesanti sacchi sulle spalle.

Quando furono all’aperto gridarono:«Monte Semsi, Monte Semsi, chiuditi!»

L’ingresso della caverna si serrò cosìbene che era impossibile distinguerlo e idodici briganti se ne tornarono da doveerano venuti.

Quando ormai erano lontani e non sivedevano più, il pover’uomo scesedall’albero. Era curioso di vedere cosac’era nella caverna, così andò ai piedi

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della montagna e gridò: «Monte Semsi,Monte Semsi, apriti!»

La montagna si aprì all’istante e luientrò. Nelle sue viscere c’erano moneted’argento e d’oro, grossi mucchi diperle, rubini, smeraldi e diamanti, piùalti dei mucchi di cereali che il poveromercante aveva visto in tutta la sua vita.Si chiedeva cosa fare e se prendere persé un po’ di quelle ricchezze. Alla finenon poté resistere e si riempì le taschedi monete d’oro. Ma lasciò i gioielli alloro posto.

Poi si guardò intorno circospetto,uscì in punta di piedi e gridò: «MonteSemsi, Monte Semsi, chiuditi!»

La montagna ubbidiente si richiuse e

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il mercante di frumento tornò a casa colcarretto vuoto.

In seguito per qualche tempo fufelice, poiché aveva oro a sufficienzaper comprare pane per la famiglia eanche carne e vino. Inoltre, facevabeneficenza ai poveri; così viveva dauomo felice e onesto e faceva del bene.Quando il denaro gli finì, prese inprestito uno staio dal fratello e tornò alMonte Semsi a riempirlo di moneted’oro. Come già in precedenza, lasciò igioielli al loro posto.

Quando per la terza volta ebbebisogno delle monete d’oro, chiese dinuovo lo staio al fratello, che peròstavolta si incuriosì. Non riusciva a

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capire come facesse il mercante adavere una casa così bella e vivere tantobene, così gli tese un tranello. Ricoprì ilfondo dello staio di pece. Quando loriebbe indietro, ci trovò attaccata unamoneta d’oro.

Andò dritto dritto dal fratello.«Cos’hai misurato col mio staio?»

«Grano e orzo, come sempre» disseil mercante di frumento.

Poi il fratello gli mostrò la monetad’oro. «E questa cos’è, grano o orzo?Su, dimmi la verità! E se non mi diciesattamente cosa stai combinando, te lavedrai con la legge!»

Il mercante di frumento fu costretto araccontare tutto. E appena sentito del

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tesoro nascosto nel Monte Semsi, ilricco attaccò l’asino al carro e partì, conl’intenzione di prendere molto più orodel fratello e di portare a casa anchetanti gioielli.

Giunto alla montagna, gridò: «MonteSemsi, Monte Semsi, apriti!»

La montagna si aprì e lui entrò. Perun po’ restò a bocca aperta davanti aquei tesori, non sapendo in cosa tuffarele mani. Alla fine si decise per i gioielli.Se ne cacciò in tasca grandi manciateper portarli al carro, ma aveva cuore emente talmente concentrati su quellericchezze che si dimenticò la cosa piùimportante e quando volle riaprire lamontagna per uscire, gridò: «Monte

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Simeli, monte Simeli, apriti!»Ma era il nome sbagliato e la

montagna non si mosse. Lui cominciò aspaventarsi, provando un nome dopol’altro: «Monte Sipsack! Monte Sepsick!Monte Spittelboom! Monte Spotnik!Monte Sizwiz!»

Ma nessuno di quei nomi funzionò.Più gli si confondevano le idee e più sispaventava.

Il tempo passò e si spezzò tutte leunghie a forza di raspare sulle roccecercando il punto d’apertura. Continuavaa cercare il nome giusto: «MonteSnipfish! Monte Saucehorse! MonteSagsausage! Monte Siccapillydircus!»

Tutto il tesoro che aveva nelle tasche

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non gli servì a nulla: il reparto dicontabilità, i beni immobiliari, i conti inbanca, gli investimenti in titoli e azioni...nulla di ciò poté aiutarlo.

Poi con suo orrore udì una voce dafuori che gridava: «Monte Semsi, MonteSemsi! Apriti!»

Certo, quello era il nome! Comeaveva potuto scordarlo?

La montagna si aprì e gli occhi didodici spietati briganti lo guardarono.

«Eccoti qui» disse il più grosso ecattivo. «Alla fine ti abbiamo beccato.Pensi che non ci siamo accorti che seistato qui altre tre volte?»

«Non ero io! Era mio fratello!Credetemi! È stato lui a rubare i gioielli!

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Io sono solo venuto a riportarli! Logiuro!»

Ma parlare, pregare e implorare fuinutile. Quella mattina era entrato nellamontagna intero. La sera ne uscì apezzetti.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 676, ‘The Forty Thieves’(Il monte Simeli).Fonte:: una storia raccontata ai fratelli Grimmda Ludowine von Haxthausen.Storie simili: ‘The Story of Ali Baba and theForty Thieves Killed by a Slave Girl’ (Storia diAlì Babà e i quaranta ladroni sterminati da unaschiava) [The Arabian Nights (Le mille e unanotte)]; Italo Calvino: ‘I tredici briganti’ (Fiabeitaliane).

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È piuttosto chiaro che questa è la prima partedella famosa fiaba delle Mille e una notte.Perlomeno quella presa dalla traduzionefrancese delle fiabe fatta da Antoine Galland(1646-1715), che non è proprio la stessa cosa,perché, in mancanza dei manoscritti arabi suAlì Babà e Aladino, che sono antecedenti allatraduzione di Galland, gli studiosi sospettanoche Galland se la sia inventata. La versioneitaliana di Calvino è simile a questa.

Ma la seconda parte? Mancano il corpo fattoa pezzi che viene ricucito, i briganti che sinascondono nelle giare d’olio e vengono bollitia morte dalla fedele schiava. Forse Ludowinevon Haxthausen non conosceva questa parte(ma allora non la conosceva nemmeno Calvino)oppure qualcuno, probabilmente i Grimm, hadeciso che era più efficace così. Ma di fattonon lo è. E non sarebbe stato difficilegermanizzare gli elementi esotici dellameravigliosa fiaba di Galland e completarla

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tutta come si deve.

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QUARANTASEI

HEINZ IL PIGRO

Heinz era uno sfaticato. Benché nonavesse altro da fare che portare la capraa pascolare ogni giorno, ogni seraquando rincasava si lamentava.

«Sinceramente» diceva, «portare lacapra al pascolo tutti i giorni dell’anno èun lavoro d’inferno. Non è come altrilavori che ti permettono di chiudere gliocchi di tanto in tanto. No, no. È una

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grossa responsabilità. Mi toccacontrollare ogni secondo che non vada amordicchiare gli alberelli o che si infilinell’orto di qualcuno e scappi via.Quand’è che potrò riposarmi un po’,stare in panciolle e godermi la vita?»

Se ne stava seduto a raccogliere leidee. Era abbastanza facile raccoglierle,visto che non erano molte eriguardavano tutte lo stesso argomento,cioè quanto era pesante la sua vita. Sene stette lì per un bel po’, con lo sguardoperso, poi all’improvviso si tirò subattendo le mani.

«Ecco cosa posso fare!» disse. «Misposerò con Trina la Cicciona. Anchelei ha una capra e può portare fuori

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anche la mia, badare a entrambe erisolvermi il problema. Geniale!»

Così si alzò dalla sedia e a faticapercorse la strada che portava a casa deigenitori di Trina e chiese loro la manodella ragazza, che era piena di virtù euna gran lavoratrice. Non ci pensaronomolto a lungo, visto che da anni sichiedevano come liberarsi di lei.

‘Chi si somiglia si piglia’ pensarono,e diedero il consenso.

Così Trina la Cicciona divennemoglie di Heinz e ogni giorno portò alpascolo entrambe le capre. Heinz se lagodeva, non avendo nulla da fare. Avolte usciva insieme a lei, ma solo pergodersela ancora di più quando poi

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rimaneva a casa il giorno seguente.«Finirei per annoiarmi sennò»

diceva. «La varietà è il sale della vita».La grassa Trina però era pigra quanto

lui. «Heinz, caro» disse un giorno, «hopensato una cosa».

Pensare era uno sforzo anche per lei,Heinz lo capiva benissimo, così si misead ascoltarla con attenzione. «Allora?»

«Quelle capre» disse lei. «Cisvegliano sempre prestissimo con il lorobelato».

«Non hai mai detto niente di piùvero».

«Così ho pensato che magaripotremmo chiedere al vicino dibarattarle con la sua arnia. Potremmo

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metterla in quell’angolo assolato e nonpensarci più. Non c’è bisogno di portarele api a pascolare, no? Loro volano earrivano ai fiori e poi tornano a casafacendo tutto da sole. E raccolgono ilmiele senza darci nessun impegno».

«Le hai pensate tutte tu, questecose?» disse Heinz.

«Sì» disse lei con modestia.«Be’, mi sembra un gran colpo di

genio, davvero. Facciamolo subito.Anzi, no, magari rimandiamo a domani»disse lui. E con un certo entusiasmoaggiunse: «E poi c’è un altro vantaggio:il miele è molto meglio del latte dicapra».

«E si conserva anche più a lungo»

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commentò lei.«Oh, cara la mia Trina! Vieni qui che

ti do un bacio».«Magari dopo».«Sì, va bene».La mattina seguente ne parlarono con

il vicino, che accettò subito. Prese lecapre e portò l’arnia nel giardino dietrocasa di Heinz e Trina, nell’angoloassolato. Da quel momento in poi le apilavorarono instancabili, volando avantie indietro dalla mattina presto alla seratardi, raccogliendo il nettare perriempire l’arnia di dolce miele. E allafine dell’anno Heinz ne riempì un orciointero.

Insieme a Trina mise l’orcio sul

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ripiano sopra il letto. Trina temeva chevenissero i ladri a rubarlo o che cientrassero i topi e lo rovinassero, così siprocurò un bastone di nocciolo da teneresotto il letto. In quel modo potevafacilmente prenderlo e scacciare i topi oi ladri senza doversi alzare.

A Heinz anche questa sembrò unabuona idea. Era pieno di ammirazioneper la previdenza di sua moglie; pensarea cose che dovevano ancora accadere lostancava e non si alzava mai prima dimezzogiorno. «Alzarsi presto significasprecare il materasso» diceva.

Una mattina, mentre facevanocolazione a letto, a differenza del solito,Heinz pensò una cosa. «Sai» disse,

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poggiando il suo pezzo di pane tostatosul copriletto, «tu sei come tutte ledonne, una golosona, ecco cosa sei. Secontinui a infilare la mano nel miele traun po’ non ce ne sarà più. Forse sarebbeconveniente barattarlo con una coppia dipapere, prima che tu lo finisca».

«Una coppia di papere?» disse Trina.«Ma non abbiamo ancora un figlio!»

«Questo che vuol dire?»«Ci dovrebbe badare lui ovviamente!

Io non lo farei. Ti sembra che abbiatempo di stare a inseguire le papere?»

«Oh» disse Heinz. «Già, non ciavevo pensato. Ma credi che sarebbeobbediente? I bambini di oggi nonascoltano. Non c’è nessun rispetto per i

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genitori. Basta guardare in giro».«Ora ti faccio vedere cosa gli farò se

non obbedisce» disse Trina e sfilò ilbastone da sotto il letto. «Lo bastoneròcon questo. Lo concerò per le feste,vedrai. Così!»

E prese a randellate il letto con colpicosì vigorosi che polvere, piume e pezzidi materasso volarono per aria.Purtroppo, quando alzò il bastone perl’ultimo colpo, urtò l’orcio di miele sulripiano e quello si ruppe in mille pezzi eil miele colò sul muro fino al pavimento.

«Be’, così niente più papere» disseHeinz. «E non credo che avrebberorichiesto tanta cura, dopotutto. Menomale che l’orcio non mi è caduto in

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testa. Dov’è finito il pane tostato?»Lo trovò sul pavimento, con la parte

imburrata rivolta a terra e lo usò perpulire un po’ del miele che colava dalmuro.

«Ecco, cara» disse. «Dai un ultimomorso».

«Grazie, tesoro» disse Trina. «Misono presa una paura».

«Abbiamo bisogno di riposo, eccocos’è. Non è mica la fine del mondo, seci alziamo un po’ più tardi del solito».

«Sì» disse lei con la bocca piena dipane tostato, «abbiamo tutto il tempo.Come la lumaca che fu invitata allenozze, si mise in cammino di buon’ora earrivò giusto in tempo per il battesimo

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del primo figlio. ‘La fretta è cattivaconsigliera’ disse, scendendo giù dalrecinto».

* * *

Tipo di fiaba: AT 1430, ‘Air Castles’ (Castelliin aria).Fonte:: una storia presa da ProverbiorumCopia (Plenty of Proverbs; 1601) di EuchariusEyering.Storie simili: Esopo: ‘The Milkmaid and herPail’ (La mungitrice e il secchio) [TheComplete Fables (Fiabe)]; AlexanderAfanasjev: ‘The Daydreamer’ (GiovanninoPerdigiorno) [Russian Fairy Tales (Antichefiabe russe)]; Katharine M. Briggs: ‘ButtermilkJack’ (Folk Tales of Britain).Ci sono molte variazioni sul tema dellasognatrice a occhi aperti che fa ipotesi su cosa

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potrebbe fare con il latte che sta portando almercato e immagina il bell’abito che sicomprerebbe e scuote la testa pensando a comesarebbe elegante e così facendo rovescia ilsecchio col latte che porta in testa. Potrebbeavere qualsiasi tipo di ambientazione ed essereintessuta in innumerevoli modi, ma in questami è piaciuto l’affetto reciproco di questacoppia di scansafatiche e il profondoappagamento che trovano nella loro vitasfaccendata.

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QUARANTASETTE

HANS IL FORTE

Un uomo e sua moglie vivevano in unavalle remota, soli con il loro unicofiglio. Un giorno la moglie andò nelbosco a raccogliere rami di pino per ilfuoco e portò con sé il piccolo cheaveva solo due anni. Era primavera e,poiché il bimbo amava i colori brillantidei fiori, si inoltrarono sempre di piùnella foresta.

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All’improvviso saltarono fuori daicespugli due briganti, afferrarono madree figlio e se la svignarono con i due nelcuore più cupo della foresta, dove gliesseri umani onesti non mettono maipiede. La povera donna pregò i brigantidi lasciarli liberi, ma fu come se nonavesse parlato: sordi alle sue suppliche,la trascinarono senza pietà tra i rovi perdue ore, fino a una grande roccia conuna porta.

Bussarono e la porta si aprì.Attraverso un passaggio scuroarrivarono a una grande caverna con unfuoco acceso per terra. Alle pareti eranoappese spade e sciabole e altre armiletali, le lame luccicavano al bagliore

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del fuoco e al centro della caverna c’eraun tavolo nero con altri quattro brigantiseduti a giocare a dadi. Il capo eraseduto a capotavola e quando vide ladonna e il bambino si alzò e, rivolto alei, disse: «Basta pianti. Non c’è nientedi cui avere paura, a patto che ti occupidelle faccende. Spazza il pavimento etieni tutto pulito e in ordine e noi titratteremo benissimo».

Detto ciò, le diede un po’ di pane e dicarne e le mostrò un letto dove dormirecol bambino.

Restarono con i briganti per qualcheanno e Hans crebbe grande e forte. Lamamma gli raccontava storie e gliinsegnò a leggere con l’aiuto di un

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vecchio libro sui cavalieri che avevatrovato nella caverna.

A nove anni, Hans si fece un bastonecon un ramo di pino rubato dalla catastadi legna dei briganti. Lo nascose dietroil letto e poi andò dalla mamma e disse:«Mamma, voglio sapere, devi dirmi chiè mio padre».

La donna non rispose. Non volevadirgli nulla della loro vita prima dellacaverna per evitargli la nostalgia dicasa, poiché sapeva che i briganti non liavrebbero mai lasciati andare, ma le sispezzava il cuore a pensare che Hansnon avrebbe mai conosciuto il papà.

Quella notte, quando i brigantirientrarono da una delle loro scorrerie,

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Hans tirò fuori il bastone, andò dal capoe disse: «Voglio sapere chi è mio padre.Mia madre non vuole dirmelo, allora lochiedo a te e se non me lo dici tistendo».

Il capo rise e gli diede una sberla chelo fece cadere a terra e rotolare sotto iltavolo.

Hans non pianse né altro, ma pensò:‘Lascerò passare un po’ di tempo, poiquando sarò grande gliela farò vedereio’.

Dopo un anno, Hans tirò fuori ilbastone, soffiò via la polvere, lo feceroteare e pensò: ‘Sì, è proprio un belbastone resistente’.

Alle prime ore del mattino, quando i

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briganti rientrarono, erano in vena dibevute. Trangugiarono talmente tantebrocche di vino che le loro testecominciarono a ciondolare.

Hans aspettava proprio quelmomento. Prese il bastone, si mise difronte al capo e chiese di nuovo: «Chi èmio padre?»

Come aveva già fatto, il capo glidiede uno scapaccione e Hans cadde dinuovo. Solo che stavolta balzò subito inpiedi, impugnò il bastone e picchiò ilcapo e gli altri briganti fino a lasciarlitalmente storditi che non riuscirono piùa muoversi. La donna, che osservavadall’angolo della caverna, restò colpitadavanti alla forza e al coraggio del

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figlio.Allora Hans si voltò verso di lei e

disse: «Vedi? Faccio sul serio. Vogliosapere chi è mio padre».

«Bene, mio coraggioso Hans» dissela madre, «andiamo a cercarlo».

Mentre tentava di trovare la chiavetra quelle appese alla cintura del capo,Hans prese un grande sacco per la farinae lo riempì di oro, argento e gioielli. Poise lo caricò in spalla e seguì la madrefuori dalla caverna.

Appena uscito dal buio e messopiede all’aperto, Hans vide gli alberi, ifiori, gli uccelli e il sole nel cielo terso,si stupì e guardò ogni cosa a boccaaperta come se fosse uscito di senno.

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Nel frattempo la madre cercava la stradadi casa. Si misero in cammino e dopoqualche ora arrivarono alla loro casettanella valle.

Il papà di Hans era seduto sullasoglia e, quando capì che quella donnaera sua moglie e quel ragazzo robustosuo figlio, pianse dalla gioia, poiché liaveva dati per morti da un pezzo.

Nonostante la giovane età, Hans erapiù alto di suo padre di oltre una spannae molto più forte. Entrati in casa, Hanspoggiò il sacco sulla panca vicino alfuoco e subito si sentì uno schianto: lapanca si spezzò, il pavimento si sfondò eil sacco atterrò in cantina.

«Santo cielo, ragazzo! Che hai

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combinato?» disse il padre. «Pensi didemolire la casa?»

«Non preoccuparti, papà» disseHans. «In quel sacco ci sono tanto oro etante ricchezze da costruirci una casanuova».

E difatti Hans e suo padre iniziaronoben presto a costruire una bella casanuova. Inoltre comprarono dei terreniintorno, presero del bestiame e miserosu una fattoria. Quando Hans andavadietro all’aratro e lo spingeva nellaterra, i buoi non avevano quasi bisognodi tirare.

La primavera successiva Hans disse:«Papà, voglio andare a vedere il mondo.Prendi i soldi e di’ al fabbro di

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costruirmi un bastone da viandante dicento libbre. Quando sarà finito, mimetterò in cammino».

Quando il bastone fu pronto, Hanspartì. Camminava di buon passo e inpoco tempo giunse in una valle cupadove sentì un suono strano e si fermò adascoltare. Sembrava un rumore distrappi e scricchiolii. Si guardò intornoe vide un uomo enorme che attorcigliavaun pino tenendolo tra le mani come unafascina di vimini.

«Ehilà!» chiamò Hans. «Che staifacendo?»

«Ho tagliato dei tronchi, ieri» risposel’omone, «e mi serve una corda perlegarli insieme».

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‘Bene, mi piacciono i tipi così’ pensòHans. ‘Non è uno smidollato’. E gridò:«Lascia stare i tronchi, vieni con me e cidivertiremo!».

L’omone si avvicinò e si vide che erapiù alto di Hans di oltre una spanna, e sìche Hans non era certo basso.

«Ti chiamerò Torcipino» gli disseHans. «Piacere di conoscerti».

Si incamminarono e poco dopoudirono martellare e battere così forteda far tremare la terra sotto i piedi.Girato l’angolo ed ecco la causa delrumore: un gigante stava davanti a unarupe e ne staccava pezzi con i pugni.

«Buongiorno, amico» disse Hans.«Che stai facendo?»

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«Be’, non riesco a dormire» disse ilgigante. «Mi stendo, chiudo gli occhi ecinque minuti dopo i cinghiali, i lupi e levolpi vengono ad annusare, vagano incerca di prede e non mi danno pace.Allora ho pensato di costruirmi una casaper avere un po’ più di tranquillità».

«Capito» disse Hans. «Be’, noiabbiamo un’idea migliore. Lascia starela casa e vieni con me e Torcipino».

«Dove andate?»«Non lo so. Andiamo alla ventura».«Buona idea» disse il gigante.«E ti chiamerò Spaccaroccia»

aggiunse Hans.Il gigante fu d’accordo e tutti e tre si

misero in cammino nella foresta,

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terrorizzando gli animali ovunqueandassero. A sera arrivarono in uncastello abbandonato e si misero adormire.

La mattina seguente Hans si alzò eandò a dare un’occhiata al giardino, cheera incolto e pieno di rovi. Nel mentre,un cinghiale sbucò fuori dai cespuglipuntando verso di lui, ma Hans gliassestò un colpo in testa col suo bastonee la bestia cadde morta stecchita. Hansse la mise in spalla, la portò dentro e icompagni la infilarono su uno spiedo ela arrostirono sul fuoco per colazione.Si accordarono sui turni: ogni giornodue sarebbero usciti per la caccia e unosarebbe rimasto a casa a cucinare.

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Calcolarono che a ognuno di loroservivano nove libbre di carne algiorno.

Il primo turno di caccia lo feceroHans e Spaccaroccia, mentre Torcipinocucinava. Stava preparando una salsa,quando un vecchietto grinzoso entrò incucina.

«Dammi un pezzetto di carne» disse.«Fila via, vecchio scroccone» disse

Torcipino. «Niente carne per te».Allora il vecchietto scheletrico balzò

su Torcipino e gli diede una bastonatatalmente forte da farlo cadere a terrastordito. Lo gnomo non smetteva dipercuoterlo, anzi, continuò a punzonarloe a dargli calci fino a sfogare tutta la

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rabbia. A Torcipino non era mai capitatauna cosa del genere.

Quando gli altri due tornarono,Torcipino si era un po’ ripreso e decisedi non dire nulla del vecchio gnomo:dopotutto, non aveva fatto una gran bellafigura. ‘Stiamo a vedere come se lacavano loro con quel mostriciattolo’pensò.

Il giorno successivo, il turno dicucina toccò a Spaccaroccia. Gliaccadde la stessa cosa: rifiutò di dare unpo’ di carne allo gnomo e ne guadagnòbotte in risposta. Quando gli altririentrarono, Torcipino scrutòattentamente la faccia di Spaccaroccia ecapì che gli era capitata la stessa cosa.

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Ma entrambi tacquero, impazienti disapere come si sarebbe comportatoHans.

Il giorno seguente, uscirono a cacciae Hans restò a cucinare. Era vicino alfornello a schiumare il grasso dal brodoquando lo gnomo entrò e chiese un pezzodi carne.

‘Povero diavolo’ pensò Hans, ‘glidarò un pezzo della mia razione, cosìagli altri non cambierà niente’. Tagliò unbel pezzo di carne e lo gnomo lotrangugiò in un attimo. Subito dopochiese un altro pezzo e Hans, che era dibuon cuore, tagliò un’altra fetta e disse:«Questa è una bella porzione. Dovrebbebastarti».

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Lo gnomo divorò anche quella e poidisse: «Ancora! Ancora!»

«Stai diventando insolente» disseHans. «Ne hai avuta abbastanza».

Lo gnomo gli saltò addosso, mastavolta aveva scelto l’uomo sbagliato.Senza sforzarsi troppo, Hans lo stesecon uno scappellotto e poi con un calciolo fece volare giù per le scale nelsalone. Lo seguì, ma inciampò e cadde enel tempo che impiegò a rialzarsi, lognomo se la dava a gambe nella foresta.Hans lo rincorse più veloce che potevae lo vide infilarsi in un buco dellaroccia, allora memorizzò il luogo etornò a schiumare il brodo.

Quando gli altri tornarono al castello,

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si sorpresero di trovarlo di buonumore.Lui raccontò cos’era successo e anchegli altri due raccontarono le loro storie.Hans rise di cuore.

«Così imparate a essere così avari»disse. «E dovreste vergognarvi, grandi egrossi come siete, di esservi fatti battereda una scimmietta come quella. Non vipreoccupate, gli daremo una lezione».

Poi con un cesto e una cordaraggiunsero la roccia dove si era infilatolo gnomo. Il buco era profondo.Legarono la corda al cesto e lasciaronoche Hans con il suo bastone di centolibbre entrasse per primo.

In fondo Hans trovò una porta e,aperta quella, la prima cosa che i suoi

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occhi incontrarono fu una ragazza tantobella da sembrare uscita da un quadro.Era incatenata al muro e il suo visotrasmetteva disgusto e disperazione neiconfronti dello gnomo che le stavadavanti su una sedia e la guardava conlascivia e le accarezzava i capelli e leguance con le piccole dita ossute.

Non appena vide Hans lanciò un urloe balzò via come una scimmia. Hanschiuse la porta per impedirgli di uscire etentò di acciuffarlo, ma lo gnomorimbalzava sui muri e saltava di qua e dilà, gemendo e farfugliando, e Hans nonriusciva nemmeno a toccarlo. Era comecercare di infilzare una mosca con unamatita. Alla fine riuscì a stringere il

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piccolo demonio in un angolo, feceroteare il bastone e con un colpo loschiacciò.

Nell’attimo in cui lo gnomo caddemorto, la catene che tenevano la ragazzasi aprirono lasciandola libera. Hans noncredeva ai suoi occhi, non aveva maivisto cose o persone più belle di lei. Leigli disse che era figlia di un re.

«Non mi sorprende» disse Hans.«L’avrei detto che eri una principessa.Ma come sei finita incatenata qui?»

«Un nobile malvagio volevasposarmi e non accettava il mio rifiuto»disse. «Credo lo facesse impazzire,allora mi ha rapita e chiusa qui sotto conquell’essere a farmi la guardia. Ma

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anche lo gnomo stava diventando semprepiù esigente. Hai visto come mi trattava.Se non fossi arrivato tu...»

«Sì, ma ora non pensarci» disseHans. «Bisogna ancora farti uscire daquesta caverna. Ho un cesto con me.Salici dentro e due tipi lì fuori titireranno su».

La aiutò a salire nel cesto e diede unostrattone alla corda. Subito gli altri dueiniziarono a tirarla su e poco dopo ilcesto tornò giù di nuovo vuoto.

Ma Hans non era sicuro di potersifidare dei suoi due compagni. ‘Non mihanno detto dello gnomo che lipicchiava’ pensò, ‘chissà cosa stannotramando adesso’. Così invece di salire

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nel cesto, ci mise dentro il suo bastonedi ferro e diede un altro strattone allacorda. Il cesto salì, ma a metà strada lolasciarono cadere e si schiantò sulfondo. Se ci fosse stato dentro Hans,sarebbe morto di sicuro.

‘Be’, non mi sbagliavo su quei due’pensò, ‘ma ora cosa faccio?’

Camminò e camminò in tondo nelpiccolo spazio in fondo al tunnel,facendosi di ora in ora più disperato.Non riusciva a escogitare un modo peruscire di lì. ‘Che fine miserabile morirequi, in fondo a questo buco disgraziato’pensò. ‘Non sono nato per fare questafine’.

Poi si accorse che lo gnomo aveva un

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anello al dito che brillava mandandobagliori. ‘Chissà se è magico’ pensò.‘Non si può mai sapere’.

Sfilò l’anello dal dito del morto e lomise al suo. E all’improvviso sentìqualcosa che sibilava e ronzavaturbinando sopra la sua testa. Guardò sue vide migliaia di piccoli spiritellisospesi nell’aria. Quando si accorseroche li guardava, fecero tutti un inchino eil più grande disse: «Ai vostri ordini,signore. Cosa possiamo fare per voi?»

Hans era allibito, ma raccolse le suefacoltà mentali e disse: «Potete portarmifuori da questo dannato buco, ecco cosapotete fare».

«Lo faremo immediatamente,

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signore!»Ogni spiritello afferrò uno dei suoi

capelli e poi iniziarono a volare versol’alto. Lui aveva l’impressione dilibrarsi da solo nell’aria. Dopo circadieci secondi si ritrovò sul terreno dellaforesta, spaesato. Non c’erano tracce diSpaccaroccia e Torcipino e nemmenodella ragazza.

«Dove saranno andati queifarabutti?» disse.

Gli spiriti dell’aria si lanciaronoverso il cielo e dopo un minutotornarono giù, restando sospesi davantia lui come una nuvola di simpaticimoscerini.

«Si sono imbarcati, signore» disse lo

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spirito capo.«Di già? E la ragazza è con loro?»«Sì, signore, e l’hanno legata per

evitare che si butti in mare».«Oh, quella poverina! Cosa ha

dovuto sopportare! Be’, me la vedròpresto con quei disgraziati. Da che parteè il mare?»

«Laggiù, signore».Hans si mise in cammino, correndo

più veloce che poteva e poco doporaggiunse la spiaggia. In punta di piediin cima a una duna e coprendosi gliocchi contro il sole del tramonto, Hansriuscì a vedere solo la sagoma di unabarchetta.

«È quella?»

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«Proprio così, signore»«Grrr! Glielo insegnerò io che non si

tradiscono gli amici!»E pieno di giusta indignazione, Hans

corse verso l’acqua con l’intenzione diraggiungere la barca a nuoto. Ci sarebbeanche riuscito, ma il bastone di centolibbre lo appesantiva. Infatti lo trascinòfino al fondo del mare, creando grandeagitazione tra le stelle marine e lepiovre.

«Gluglugluglugluglu!» gridavaHans, ma non accadde nulla fino a chenon si ricordò dell’anello. Lo feceruotare con l’altra mano e subito loraggiunse un nugolo di bolle quando glispiriti dell’aria risposero alla sua

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chiamata. Lo tirarono in superficie e poilo spinsero velocemente sull’acquafacendo alzare spruzzi alla sua destra ealla sua sinistra.

Pochi secondi dopo era sul pontedella barca e Spaccaroccia e Torcipinotentavano di filarsela. Torcipino siarrampicò sull’albero maestro come unoscoiattolo e Spaccaroccia provò anascondersi nella stiva, ma Hans lotrascinò fuori e lo colpì col bastonelasciandolo svenuto e poi si mise ascuotere l’albero maestro per far cadereTorcipino che riatterrò su un angoloappuntito del casotto di rotta. Hans libuttò in mare e quella fu la loro fine.

Poi liberò la ragazza.

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«Come si arriva al regno di tuopadre?» le chiese.

«Andando verso sud-ovest» rispose eHans disse agli spiriti dell’aria disoffiare nelle vele. Grazie al venticelloda loro fornito, la barca raggiunse prestoil porto e Hans riconsegnò laprincipessa a suo padre e sua madre.

Lei raccontò tutto del coraggio diHans, che naturalmente la sposò. Il re ela regina furono felicissimi di averlocome genero e vissero tutti per semprefelici.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 301, ‘The Three StolenPrincesses’ (Lo gnomo).

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Fonte:: un a storia raccontata ai fratelli Grimmda Wilhelm Wackernagel.Storie simili: Katharine M. Briggs: ‘The LittleRed Hairy Man’, ‘Tom and the GiantBlunderbuss’, ‘Tom Hickathrift’ (Folk Tales ofBritain); Italo Calvino: ‘Il gobbino che picchia’(Fiabe italiane); Jacob e Wilhelm Grimm:‘The Gnome’ (Lo gnomo) [Children’s andHousehold Tales (Fiabe del focolare)].Questa è una fiaba fatta di spizzichi e bocconi,non strettamente connessi. I briganti nellacaverna esistono solo perché gli si sfugga;Torcipino e Spaccaroccia, i due talentuosicompagni, non hanno mai modo di usare i lorotalenti e il nobile malvagio che rapisce laprincipessa appare nella fiaba solo come agenteche serve a mettere la ragazza nella grotta e poinon si sente più parlare di lui. Si è dimenticatodi lei? È morto nel corso di qualche altramalvagia faccenda? Non potrebbe ricomparireper dare a Hans la possibilità di combattere un

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terribile duello e diventare ancora più eroe?In alternativa, poteva essere lo gnomo

cattivo a fare prigioniera la ragazza. Come maiinvece le fa soltanto da guardiano? Sarebbestato il modo più facile di risolvere laquestione.

E poi c’è l’anello che evoca gli spiritidell’aria. Trovare una cosa del genere in unagrotta da cui non c’è modo di uscire ricordachiaramente ‘Aladino’. E come mai lo gnomocattivo non usa l’anello per sconfiggere Hans?

E via dicendo. Una volta che inizi a‘migliorare’ una fiaba di questo genere, è facileche ti si rompa tra le mani.

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QUARANTOTTO

LA LUNA

Molto tempo fa c’era un paese dove lanotte era sempre buia. Dopo il tramontoil cielo copriva la terra come unlenzuolo nero, poiché la luna nonspuntava mai e non c’era nemmeno unastella a brillare nell’oscurità. Tantotempo prima, quando era stata creata laterra, ogni cosa emanava un baglioredelicato e ci si vedeva benissimo, ma

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poi quella luce si era spenta.Un giorno quattro giovani di quel

paese partirono per un viaggio earrivarono in un altro regno proprio nelmomento in cui il sole tramontava dietrole montagne. Sparito il sole, i giovani sifermarono a guardare stupiti una pallaluminosa comparsa al di sopra di unaquercia che mandava tutto intorno unaluce soffusa. Non era brillante come ilsole, ma la luce che emanava erasufficiente a vederci e distinguere lecose una dall’altra. I quattro viaggiatorinon avevano mai visto nulla di simile eallora fermarono un contadino chepassava di lì col carro e gli chiesero dicosa si trattasse.

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«Oh, è la luna, quella» disse. «L’hacomprata il sindaco e l’ha pagata tretalleri. Deve sempre metterci dentrodell’olio e pulirla bene per mantenerlabella lucente e noi lo paghiamo untallero a settimana per farlo».

Andato via il contadino, uno deigiovani disse: «Sapete una cosa, questastoria della luna potremmo farla anchenoi a casa nostra. Mio padre ha unaquercia grande come questa nel giardinodavanti casa. Scommetto che ci darà ilpermesso di appenderla lì. Non sarebbebello non dover più brancolare nelbuio?»

«Buona idea» disse il secondo.«Andiamo a procurarci un carro e un

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cavallo per portare via questa luna. Lorose ne compreranno un’altra».

«Io sono bravo ad arrampicarmi»disse il terzo. «Salgo io a prenderla».

Il quarto andò a prendere carro ecavallo, il terzo salì sull’albero, fece unbuco nella luna, ci passò dentro unacorda e la tirò giù. Messa la pallalucente al sicuro sul carro, la coprironocon un telone di modo che nessuno lavedesse e si misero in cammino versocasa.

Tornati nel loro paese, appesero laluna a un’alta quercia. Furono tutti feliciquando quella nuova lanterna illuminò icampi e brillò fuori da tutte le finestre.Persino i nani uscirono dalle grotte della

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montagna per vedere e i piccoli elfi conle giacche rosse uscirono a danzare suiprati al chiaro di luna.

I quattro amici se ne occupavano: latenevano pulita, spuntavano lo stoppinoe si assicuravano che non mancasse mail’olio. La comunità li pagava un talleroalla settimana.

E andò avanti così fino allavecchiaia. Un giorno uno di loro sentìche la morte si avvicinava, così mandò achiamare il notaio per fare testamento edisse che se un quarto della luna era suo,allora voleva che scendesse nella tombacon lui. Secondo gli accordi, quandomorì, il sindaco del paese salìsull’albero, tagliò un quarto di luna con

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le cesoie e lo fece mettere nella bara. Laluce della luna rimasta era un po’ piùfievole, ma bastava ancora a vederci.

Quando anche il secondo morì, unaltro quarto di luna andò sotto terra e laluce diventò ancora più fievole.Accadde lo stesso con il terzo e dopo lamorte e sepoltura del quarto, non ci fupiù luce e se la gente usciva senzalanterna andava a sbattere contro le cosecome era già stato in passato.

Quando le quattro parti di luna furonoinsieme negli Inferi, dove era statosempre buio, i morti divennero irrequietie si riscossero dal loro sonno. Eranosconvolti dal fatto di vederci di nuovo ela luce della luna era sufficiente per

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quegli occhi che erano rimasti chiusi pertanto tempo e per i quali il sole sarebbestato troppo luminoso. Si rallegraronoinfinitamente, uscirono dalle tombe epresero a spassarsela. Giocavano acarte, danzavano, andavano all’osteria aubriacarsi, litigavano, facevano risse, sidavano bastonate e il baccano si fecetalmente forte che arrivò fino inParadiso.

San Pietro, il guardiano celeste,pensò che stesse scoppiando unarivoluzione e chiamò a raccolta tutte leschiere angeliche per respingere ilDiavolo e il suo esercito infernale. Però,poiché i diavoli non si vedevano, salìsul suo sacro cavallo e andò negli Inferi

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a controllare cosa stava accadendo.«State giù, mostri!» ruggì. «Tornate

nelle tombe, tutti quanti! Siete morti, nondimenticatevelo».

Poi capì qual era il problema: iquattro pezzi di luna si erano riuniti enessuno riusciva a dormire. Così SanPietro la staccò dall’Inferno, la portò incielo e la appese in un punto dovenessuno poteva arrivare a prenderla. Daquel momento brilla su ogni paese,ovunque esso sia, e San Pietro ne toglievia un pezzetto alla volta fino a nonlasciarne nessuno e poi li rimette tuttinel corso di un mese per ricordare allagente chi è il capo.

Però non va a mettere i pezzi staccati

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negli Inferi. Ha una credenza speciale incui conservarli. E giù tra i morti è buiocome sempre.

* * *

Tipo di storia: non classificata.Fonte:: una storia contenuta in Märchen fürdie Jugend (Tales for the Young; 1854) diHeinrich Pröhle.

Wilhelm Grimm inserì questa fiaba nellasettima e ultima edizione di Die Kinder- undHausmärchen (Fiabe del focolare) del 1857.È una storia di un genere un po’ diverso dallamaggior parte delle altre fiabe, poichérappresenta una sorta di mito della creazioneche presto si trasforma in una fiaba delridicolo. È incredibilmente interessante, anche

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se finisce in maniera piuttosto repentina conSan Pietro che appende la luna in cielo. Io hopensato di elaborare un po’ la conclusione.

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QUARANTANOVE

LA GUARDIANA DELLEOCHE ALLA FONTE

C’era una volta una donna vecchissimache viveva con le sue oche in un luogosolitario tra le montagne, in una casettacircondata da una foresta cupa. Ognimattina prendeva la stampella ezoppicando andava nel bosco e lì sidava da fare a raccogliere erbe per leoche e tutti i frutti selvatici che riusciva

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a raggiungere. Si metteva tutto in spallae andava a casa. Se incontrava qualcunoper strada, salutava amichevolmente:«Buongiorno, vicino! Bella giornata,vero? Sì, ho preso dell’erba, quella cheposso trasportare; ognuno, poverino,deve portare il proprio fardello».

Ma per qualche ragione la gente nonamava incontrarla. Quando la vedevanoavvicinarsi spesso cambiavano strada ese un padre con il suo bambino laincrociava, diceva a bassa voce: «Staiattento a quella vecchia. È astuta.Secondo me è una strega».

Una mattina capitò che un bel giovaneattraversasse la foresta. Il solesplendeva, gli uccelli cinguettavano, una

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fresca brezza muoveva le foglie e lui sisentiva felice e allegro. Non avevaincontrato ancora nessuno, maall’improvviso si imbatté nella vecchiainginocchiata a terra a tagliare l’erbacon un falcetto. Ne aveva già tagliato unbel mucchio e aveva raccolto anche dueceste piene di mele e pere.

«Santo cielo, mia cara vecchina»disse lui, «non ditemi che intendetetrasportare tutto da sola!»

«Certo, signore, devo» disse lei. «Iricchi non hanno bisogno di fare questecose, ma noialtri popolani abbiamo undetto: ‘Se guardi dietro vedi solo la tuaschiena’. Pensate di potermi aiutare,signore? Avete due belle spalle e gambe

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forti. Ce la fate sicuramente. Casa mianon è lontana, è appena laggiù, in fondoal sentiero».

Il giovane si impietosì e disse: «Be’,devo confessarvi che io sono uno di queiricchi di cui parlate e mio padre è unnobile, ma sono felice di potervidimostrare che i contadini non sono gliunici a saper portare le cose. Sì, viporto io il fagotto fino a casa».

«Molto gentile da parte vostra,signore» disse lei. «È circa a un’ora dicammino, ma sono certa che non sarà unproblema. E potreste portarmi anche lemele e le pere».

Nel sentirle dire che c’era dacamminare un’ora, il giovane conte

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cominciò a ripensarci, ma la donna erastata così veloce ad accettare l’offerta diaiuto, che lui non poté rimangiarsi laparola.

La vecchietta avvolse l’erba in untelo e glielo legò sulla schiena, poi glimise le ceste in mano. «Vedete? Nonpesano un granché».

«Pesano eccome, invece» disse ilgiovane. «Quest’erba... ma è davveroerba? Sembra un mucchio di mattoni! E ifrutti pesano come pietre. Non riescoquasi a respirare!»

Avrebbe voluto buttare tutto a terra,ma non voleva che la vecchia locanzonasse troppo. Già lo stavaprendendo in giro in modo crudele.

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«Guardate il bel gentiluomo» diceva,«che fa questo gran chiasso per una cosache una povera vecchina fa tutti i giorni!Siete bravo a parlare, no? ‘I contadininon sono gli unici a saper portare lecose!’ Ma se veniamo ai fatti, cadete alprimo ostacolo. Su! Cosa fate lì?Muovetevi! Non lo farà nessun altro alvostro posto».

Finché camminò in piano, il giovaneriuscì bene o male a reggere il peso, manon appena il sentiero iniziò a salire, lepietre gli rotolarono via sotto i piedicome cose vive e lui non riusciva amuoversi. Gocce di sudore glibagnavano la fronte e gli colavano, oracalde e ora fredde, giù per la schiena.

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«Non ce la faccio ad andare avanti»disse affannato. «Devo fermarmi ariposare».

«Oh, certo che no» disse la vecchia.«Vi fermerete a riposare quando saremoarrivati, ma fino a quel momento dovetecamminare. Che ne sapete, magari viporta bene».

«Oh, questa poi! È un verooltraggio!» disse il conte.

Provò a buttar giù il fagotto, ma gli fuimpossibile toglierselo di dosso. Glistava attaccato alla schiena come seavesse messo radici. Il giovane sicontorceva e si girava di qua e di là,mentre la vecchia lo derideva esaltellava sulla stampella.

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«Non perdete le staffe, giovanesignore» disse lei. «Siete talmente rossoin faccia che sembrate un tacchino.Portate il fagotto con un po’ di pazienzae quando arriveremo a casa vi darò unamancia».

Cosa poteva fare? Solo arrancaredietro alla vecchia meglio che poteva.La cosa strana era che il caricodiventava sempre più pesante mentre leisembrava farsi sempre più agile.

Poi all’improvviso la vecchia fece unbalzo e atterrò in cima al fardello sullaschiena del giovane e lì si sedette. Eramagra come uno stecco, ma pesava piùdi una robusta contadinotta. Il giovanebarcollò, lo sforzo gli faceva tremare i

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muscoli e gli dava fitte di dolore, maogni volta che lui si fermava la donna lofrustava con un mazzo di ortiche. Lui silamentava, gemeva, si trascinava afatica. Quando ormai stava per crollarea terra, svoltarono sul sentiero ed eccola casa della vecchia.

Quando le oche la videro,allungarono il collo, dispiegarono le alie le corsero incontro starnazzando.Dietro le oche veniva un’altra donna conun bastone in mano. Non era vecchiaquanto la prima, ma grossa e robusta,con un brutto faccione grigio.

«Dove sei stata, mamma?» disse.«Sei stata fuori così a lungo che hopensato ti fosse successo qualcosa».

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«Oh, no, tesoro» disse la vecchia.«Ho incontrato questo giovane corteseche si è offerto di portare il fagotto alposto mio. E guarda, si è anche offertodi portarmi in groppa quando mi sonostancata. Abbiamo chiacchierato cosìamabilmente che il tempo è passato in unbaleno». Finalmente scivolò giù dallaschiena del giovane conte e prese ilfagotto e le ceste. «Eccoci arrivati,signore. Sedetevi a riprendere fiato. Visiete guadagnato la vostra piccolaricompensa. E tu, tesorino mio bello»disse all’altra donna, «farai meglio aentrare in casa. Non è bene che turimanga da sola con un giovanegagliardo come lui. Li conosco, gli

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uomini. Si innamorerebbe di te».Il conte non sapeva se ridere o

piangere: anche con trent’anni di meno,pensò, il tesorino non gli avrebbe maiacceso un barlume di sentimento nelcuore.

La vecchia, prima di rientrare,circondò le oche di attenzioni comefossero delle figlie. Il giovane si stesesu una panca sotto un melo. Era unabella mattina, il sole splendeva caldo,l’aria era mite e tutt’intorno a lui sistendeva un prato verde coperto diprimule, serpillo e migliaia di altri fiori.Un ruscelletto limpido scorreva nelprato scintillando alla luce del sole e leoche bianche dondolavano ora qui ora là

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o sguazzavano nel ruscello.‘Che bel posto’ pensò il giovane. ‘Ma

sono così stanco che non riesco a teneregli occhi aperti. Farò un pisolino perqualche minuto. Spero solo che il ventonon mi faccia volare via le gambe, chéme le sento deboli come fuscelli’.

Ed ecco che la vecchia già gliscuoteva il braccio. «Sveglia, sveglia,non puoi stare qui. Ammetto di avertidato del filo da torcere, ma sei ancoravivo ed ecco la tua ricompensa. Hodetto che ti avrei dato qualcosa, no? Nonhai bisogno di denaro o terreni, cosìeccoti qualcos’altro. Conservala concura e ti porterà fortuna».

Gli diede una scatolina ricavata da

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uno smeraldo. Il conte, rinfrancato dalsonno, balzò in piedi e la ringraziò per ildono. Poi si rimise in cammino, senzamai voltarsi indietro a guardare il ‘beltesorino’. Per un lungo tratto continuò asentire il verso allegro delle oche.

Vagò nella foresta per almeno tregiorni prima di ritrovare la strada. Allafine giunse in una grande città, dove eracostume che ogni straniero venisseportato davanti al re e alla regina, cosìfu accompagnato a palazzo, dove il re ela regina sedevano sui loro troni.

Il giovane si inginocchiò condeferenza. Poiché non aveva nient’altroda offrire, prese la scatolina di smeraldodalla tasca, la aprì e la posò davanti alla

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regina. Lei gli fece cenno di avvicinarlela scatola per guardarci dentro, maprima ancora di guardare cadde a terracome morta. Le guardie del corpoafferrarono subito il giovane e stavanoper trascinarlo in prigione quando laregina aprì gli occhi.

«Lasciatelo» urlò. «Uscite tutti dallastanza del trono. Voglio parlare conquesto giovane in privato».

Appena soli, la regina iniziò apiangere lacrime amare.

«A che serve questo splendidopalazzo?» disse. «Tutte le mattine,quando mi sveglio, il dolore mi inonda.Avevo tre figlie e la terza era così bellache tutti pensavano fosse un miracolo.

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Era bianca come la neve e rosea come iboccioli di melo e i capelli le brillavanocome i raggi del sole. Quando piangeva,non le scorrevano lacrime sulle guance,ma perle e pietre preziose. Il giorno delsuo quindicesimo compleanno, il rechiamò tutte e tre le figlie al suocospetto. Non potete immaginarel’incredulità di tutti quando entrò laterza figlia: fu come se fosse entrato ilsole. Il re disse: ‘Figlie mie, non soquando arriverà il mio ultimo giorno edevo decidere oggi cosa erediteràognuna di voi. So che mi amate tutte, masarà colei che mi ama di più a prenderela parte più grande del regno’. Ognunadi loro affermò di amarlo di più, ma a

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lui non bastava. ‘Ditemi esattamentequanto mi amate e io saprò capire’ disselui. La maggiore rispose: ‘Il mio amoreè come lo zucchero più dolce’. E laseconda: ‘Il mio è come quello per ilmio più bel vestito’. Ma la terza figlianon diceva nulla. Così il padre lechiese: ‘E tu, cara, quanto ami tuopadre?’ E lei rispose: ‘Non lo so. Nonposso paragonare a nulla il mio amore’.Ma lui continuò a chiederle dirispondere e alla fine lei trovò qualcosaa cui paragonare il suo amore e disse:‘Nessun cibo è buono senza sale. Cosìio posso dire di amare mio padre tantoquanto il sale’. A queste parole, il re siinfuriò e disse: ‘Se è così l’amore che

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provi per tuo padre, allora allo stessomodo sarà ricompensato’. Divise il suoregno tra le due figlie più grandi eordinò che legassero un sacco di salesulla schiena della figlia e poi la feceportare da due servitori nel cuore dellaforesta. Noi pregammo e implorammoper la grazia, ma non cambiò idea. Oh,quanto pianse quando fu costretta adandarsene! Il sentiero su cui passò eraricoperto di perle. Non molto tempodopo, il re si pentì di ciò che aveva fattoe la fece cercare ovunque nella foresta,ma non la trovarono. Quando penso cheforse le bestie selvatiche l’hannomangiata, non riesco a sopportare ildolore. A volte mi consolo pensando che

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magari ha trovato rifugio in una grotta oche qualche brava persona si prendecura di lei, ma... Dunque immagina laviolenta emozione che mi ha colpitaquando ho aperto la scatola di smeraldoe ho visto una perla proprio come quelleche mia figlia piangeva. E immagina loscompiglio del mio cuore. Ora devidirmi dove l’hai presa, com’è entrata intuo possesso».

Il giovane conte le raccontò chegliel’aveva data una vecchia nellaforesta, che forse era una strega,considerato come se l’era vista male insua presenza. A ogni modo, disse, era laprima volta che sentiva parlare dellaprincipessa. Il re e la regina decisero di

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andare subito a cercare la vecchia, nellasperanza che potesse dar loro qualchenotizia sulla figlia.

Quella sera la vecchia se ne stava incasa, seduta all’arcolaio a filare. Stavacalando la notte e l’unica luce era quelladi un ceppo di pino che ardeva nelfocolare. All’improvviso si udìstarnazzare, le oche rientrarono dalpascolo e subito dopo la figlia entrò incasa, ma la vecchia si limitò a farle uncenno senza dire una parola.

La figlia le si sedette a fianco e preseanche lei a filare, torcendo il filoabilmente come una ragazzina. Se nestettero lì sedute per due ore senzascambiarsi una parola.

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Poi si sentì un fruscio fuori dallafinestra ed entrambe alzarono lo sguardoe videro due occhi rossi fiammeggiantiche guardavano dentro. Si trattava di unvecchio gufo, che gridò tre volte: «Uh-uh, uh-uh».

La vecchia disse: «Be’, figliolettamia, è ora che tu esca a fare il tuolavoro».

La figlia si alzò. Per andar dove?Fuori per prati e per valli fino araggiungere tre vecchie querce vicino auna fonte. C’era la luna piena che eraappena spuntata da dietro la montagnaed era così luminosa che si sarebbepotuto trovare uno spillo per terra.

La ragazza si staccò la pelle dal collo

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e se la sfilò dalla testa prima diinginocchiarsi alla fonte per lavarsi.Fatto ciò, immerse la pelle del falsovolto nell’acqua, la strizzò e la mise adasciugare e sbiancare sull’erba. Macom’era cambiata! Da non credere!Tolto il faccione smorto e i capelli grigi,ecco i capelli fluenti come sole liquido.Gli occhi le brillavano come stelle eaveva le guance rosee come freschiboccioli di melo.

Ma la ragazza, benché così bella, eratriste. Si sedette vicino alla fonte epianse amaramente. Le lacrime, unadopo l’altra, le rotolarono giù suicapelli e caddero nell’erba. Se ne stavalì e ci sarebbe rimasta a lungo se non

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avesse sentito un fruscio tra i rami di unalbero vicino. Come un cervospaventato dal suono del fucile di uncacciatore, subito balzò in piedi. Nellostesso momento una nuvola scura passòdavanti al volto della luna e in quellaimprovvisa oscurità la fanciulla si infilònella vecchia pelle e svanì come lafiamma di una candela spenta dal vento.

Tremante come una foglia tornò allacasetta e trovò la vecchia sulla porta.

«Oh, mamma, io...»«Taci, cara» disse la vecchia con

dolcezza, «so tutto, so tutto». Condussela ragazza in casa e mise un altro cepponel fuoco. Ma invece di tornareall’arcolaio prese una scopa e si mise a

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spazzare il pavimento. «Dobbiamopulire e riordinare».

«Ma, mamma, a che serve ora? Ètardi! Che succede?»

«Non sai che ore sono?»«Non è ancora mezzanotte» disse la

ragazza, «ma le undici sono giàpassate».

«E non ti ricordi che oggi sono treanni da che sei arrivata qui? Il momentoè arrivato, cara. Non possiamo più stareinsieme».

La ragazza si spaventò. «Oh, madrecara, non vuoi cacciarmi via, vero?Dove andrò? Non ho amici, non ho unacasa. Ho fatto tutto quello che mi haichiesto e non ti sei mai lamentata del

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mio lavoro; ti prego, non mandarmivia!»

Ma la vecchia non volevarisponderle. «Sono io che non posso piùstare qui. Ma prima che io me ne vada,la casa deve essere linda e splendente.Quindi non starmi tra i piedi e nonpreoccuparti. Troverai un tetto sotto cuiabitare e vivrai bene con la paga che tidarò».

«Ma ti prego, dimmi, che succede?»«Te l’ho già detto e te lo ripeto: non

interrompere il mio lavoro. Vai incamera tua, togliti la pelle dal viso emettiti il vestito di seta che indossaviquando arrivasti qui. E poi aspetta cheio ti chiami».

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Nel frattempo, il re e la reginacontinuavano a cercare la vecchia cheaveva dato al conte la scatola dismeraldo. Il conte era andato con loro,ma poi nel fitto della foresta si eranoseparati e lui aveva proseguito da solo.Credeva di ritrovare il sentiero giusto,ma poi, quando la luce del giorno calò,pensò che sarebbe stato meglio noninoltrarsi ancora altrimenti si sarebbeperso; così salì su un albero, conl’intenzione di passare la notte al sicurotra i rami.

Ma quando spuntò la luna videqualcosa che si muoveva sul pratosottostante e con quella luce splendentesi accorse che era la guardiana delle

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oche che aveva visto a casa dellavecchia. Veniva in direzione degli alberie lui pensò: ‘Aha! Se prendo una delledue streghe, metterò le mani anchesull’altra’.

Ma poi la ragazza si fermò vicinoalla fonte e si tolse la pelle, e il conteper poco non cadde giù dall’albero perla sorpresa. Quando i capelli d’oro lericaddero sulle spalle e lui la videchiaramente al chiarore della luna, sirese conto di non avere mai vistoragazza più bella. Non osava nemmenorespirare. Ma non resistette e si piegò unpo’ per avvicinarsi. Così facendo, siappoggiò troppo pesantemente su unramo secco e lo spezzò con uno schianto

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che spaventò la ragazza e la fece balzarein piedi. La giovane si rimise l’altrapelle, poi la nuvola passò davanti allaluna e lei se la svignò nell’improvvisaoscurità.

Il conte scese subito dall’albero e lainseguì, ma non era andato molto lontanonel prato che vide due figure che siavvicinavano alla casa. Erano il re e laregina che avevano visto la luce delfuoco attraverso la finestra e quando ilconte li raggiunse e raccontò delmiracolo che aveva visto alla fonte,furono sicuri che quella ragazza era lafiglia.

Pieni di gioia e di speranza, andaronodi corsa verso la casetta. Le oche

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dormivano con le teste infilate sotto leali e nessuna si mosse. I tre cercatoriguardarono dalla finestra e videro lavecchia seduta tranquilla a filare, chemuoveva la testa su e giù. Tutto in casaera pulito come se lì vivessero gli gnomidella nebbia, che non hanno polveresotto i piedi, ma non c’era traccia dellaprincipessa.

Per uno o due minuti il re e la reginarestarono lì a guardare, ma poi preseroil coraggio a due mani e bussarono allafinestra.

Sembrava che la vecchia li stesseaspettando. Si alzò e disse con vocecordiale: «Entrate. So chi siete».

Quando tutti furono in casa, la

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vecchia disse: «Avreste potutorisparmiarvi affanno e viaggio, sapete,se non aveste scacciato vostra figlia inmaniera così ingiusta tre anni fa. Ma leinon ne ha avuto danni. Ha badato alleoche in questo tempo e l’ha fatto perbene. Non ha imparato cose cattive e siè conservata di cuore puro. Ma pensoche siate stati puniti abbastanzasoffrendo tanta infelicità».

Poi si avvicinò alla porta e disse:«Vieni, figlioletta mia».

La porta si aprì e la principessa entrònella stanza, vestita col suo abito di seta,con i capelli d’oro luccicanti e gli occhiche le scintillavano luminosi. Era comeun angelo sceso dal cielo.

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La principessa andò subito incontroalla madre e al padre, li abbracciò e libaciò. Entrambi non poterono fare ameno di piangere di gioia. Il conte era lìvicino e quando lei lo vide, le guance lediventarono rosse come una rosamuscosa e nemmeno lei sapeva perché.

Il re disse: «Bambina mia, ho giàdato il mio regno. Cosa donerò a te?»

«Non ha bisogno di nulla» disse lavecchia. «Le riconsegnerò le lacrimeche ha versato per causa vostra. Ognilacrima è una perla più preziosa di tuttequelle che si possono trovare nel mare evalgono più del vostro intero regno. Ecome ricompensa per aver badato alleoche, le darò la mia casa».

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E detto ciò, la vecchia svanì. Lepareti della casa fecero un rumore dituono e diedero uno scossone e, quandoil re, la regina, la principessa e il contesi guardarono intorno, videro che si eratrasformata in un bel palazzo. C’era unatavola apparecchiata come per la festadi un imperatore e servitori che siaffaccendavano per soddisfare i lorodesideri.

La storia non finisce qui. Il problemaè che mia nonna, che me l’ha raccontata,sta perdendo la memoria e si èdimenticata del resto.

Ma penso che la bella principessaabbia sposato il conte per poi stareinsieme e vivere felici. Per quanto

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riguarda le oche bianche come neve,qualcuno dice che erano delle ragazzevere che la vecchia aveva preso sotto lasua protezione ed è possibile cheabbiano riacquistato la loro formaumana e siano rimaste lì a servire lagiovane regina. Non mi sorprenderebbe.

E per quanto riguarda la vecchia, nonpoteva essere una strega, come pensavala gente, ma una maga buona. Perchéaveva trattato il giovane conte in quelmodo quando l’aveva incontrato laprima volta? Be’, chi lo sa? Forse gliaveva guardato dentro vedendo uno odue semi di arroganza. Se è così, hasaputo come fare.

Infine, è quasi certo che era presente

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alla nascita della principessa e le avevadato il dono di piangere perle inveceche lacrime. Cose del genere nonaccadono più. Se accadessero, i poveridiventerebbero presto ricchi.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 923, ‘Love Like Salt’ (Laguardiane delle oche alla fonte).Fonte:: ‘D’Ganshiadari’, una storia in dialettoaustriaco di Andreas Schumacher (1833).Storie simili: Katharine M. Briggs: ‘Cap o’Rushes’, ‘Sugar and Salt’ (Folk Tales ofBritain); Italo Calvino: ‘Bene come il sale’,‘Pelle di vecchia’ (Fiabe italiane); WilliamShakespeare: King Lear.Questa è una delle fiabe più sofisticate. Alcentro c’è la vecchia storia della principessache dice al padre che lo ama come ama il sale e

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viene punita per la sua sincerità. Ci sono moltevariazioni su questa fiaba, compreso KingLear.

Ma osserviamo come si comporta unracconto letterario come questo. Invece dicominciare dalla principessa sfortunata esincera, la tiene nascosta per un bel pezzo eparte invece da tutt’altra figura, la strega omaga, e non con un evento singolo, ma con unabreve descrizione di ciò che fa solitamente, leconseguenze del suo modo di vivere abituale ela reazione che provoca negli altri. Ma è unastrega o no? Le fiabe di solito ce lo diconodirettamente, questa invece ci mostra ciò chegli altri pensano di lei e lascia che la questionerimanga equivoca, indeterminata. Qui, lo spiritodella storia strizza già l’occhio al modernismo,in cui non ci sono voci che abbiano un’autoritàassoluta e l’unico punto di vista a disposizioneè quello che passa attraverso un particolaresguardo (del padre col figlio); ma tutti i punti di

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vista umani sono parziali. Il papà potrebbe avereragione, oppure no.

Poi incontriamo il conte e gli eventi dellastoria prendono avvio.

La vecchia tratta il giovane con una durezzaautoritaria e insensata; lui incontra una donnapiù giovane della prima, ma brutta, spenta; lavecchia gli dà in dono uno smeraldo checontiene qualcosa che, quando la regina apre lascatola nella città in cui lui è in visita, le causauno svenimento. Il narratore ci ha offerto unafiaba piena di mistero e suspense, ma nonsiamo ancora arrivati al cuore della vicenda.

Ora però, nelle parole della regina (di nuovolo spirito della storia, che ci mette a parte diinformazioni note soltanto a un personaggio)c’è il nocciolo della fiaba, cioè che la ragazza èstata sincera quando ha detto di amare il padretanto quanto ama il sale. Ha pianto perle, dicela regina, e nella scatola c’è una di quelle. Orasì che capiamo i nessi che il narratore ha

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stabilito tra questi misteriosi eventi e da questomomento la storia si muove rapida in unclimax. La guardiana delle oche si toglie lapelle alla luce della luna (anche qui, noi lavediamo solo perché c’è il conte che laosserva) e rivela la sua bellezza nascosta; lavecchia, trattandola con grande tenerezza, ledice di mettersi il vestito di seta; tutti ipartecipanti si riuniscono e la verità vienerivelata.

E poi c’è qualcos’altro a ricordarci che laconoscenza è parziale: il narratore ci dice chela storia non è finita, ma la vecchia che gliel’haraccontata sta perdendo la memoria e hadimenticato il resto. Ciononostante, potrebbeaccadere che... e così via. Questa meravigliosafiaba mostra come si può costruire unastruttura complessa sulle basi più semplici elasciare che rimanga immediatamentecomprensibile.

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CINQUANTA

L’ONDINA DEL CANALE

C’erano una volta un mugnaio e suamoglie, che vivevano serenamentepoiché avevano denaro a sufficienza eun pezzetto di terra e anno dopo annodiventavano un poco più ricchi. Ma ledisgrazie colpiscono tutti e infatti capitòloro una sventura dopo l’altra, tanto chetutta la ricchezza poco a poco svanì einfine si ritrovarono a possedere a

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malapena il mulino nel quale vivevano.Il mugnaio era in difficoltà, non riuscivaa dormire e passava tutte le notti adagitarsi e rivoltarsi in preda all’ansia.

Una mattina, dopo una notte diincessanti preoccupazioni, si alzò moltopresto e uscì, sperando che l’aria frescapotesse sollevargli un poco il morale.Camminava accanto all’argine e il primoraggio di sole toccava i suoi occhi,quando sentì che qualcosa si muovevanell’acqua.

Si voltò e vide una donna bellissimavenire fuori dal canale. Con manidelicate scostava dalle spalle i capelli,così lunghi che le ricadevano setosilungo il corpo chiaro. Lui capì subito

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che era l’ondina del canale. Per lospavento non sapeva nemmeno sescappare via o rimanere fermo, ma poilei parlò, e con voce dolcissima lochiamò per nome e gli domandò perchéfosse così triste.

Da principio il mugnaio non avevavoce, ma quando la sentì parlare cosìdolcemente, si fece coraggio e leraccontò di come fosse stato ricco inpassato e come a causa di una disgraziadopo l’altra si fosse impoverito al puntodi non sapere più cosa fare.

«Non preoccuparti» disse l’ondina.«Ti renderò ricco e felice più di prima.Tutto quello che dovrai fare èpromettere che mi darai ciò che è

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appena nato in casa tua».Il mugnaio pensò che poteva trattarsi

solo di un cucciolo o di un gattino epromise ciò che lei voleva.

L’ondina scivolò via sott’acqua e ilmugnaio, sentendosi molto meglio,rientrò di corsa al mulino, ma non eraancora giunto alla porta che la servavenne fuori con un gran sorriso dicendo:«Congratulazioni! Vostra moglie haappena dato alla luce un bambino».

Il mugnaio restò impietrito come sefosse stato colpito da un fulmine. Capìsubito che l’ondina lo aveva ingannato.Con la testa bassa e un peso nel cuoreandò al capezzale della moglie.

«Perché sei così triste?» disse lei.

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«Non è bellissimo il nostro bambino?»Le raccontò cosa era successo e

come l’ondina lo avesse raggirato.«Avrei dovuto saperlo!» disse poi.«Niente di buono viene da similicreature. E a cosa serve il denaro? Chece ne facciamo di oro e ricchezze sedobbiamo rinunciare al nostro bambino?Ma cosa possiamo farci?»

Anche i parenti che venivano a farvisita non sapevano cosa consigliare.

Però proprio in quel periodo lefortune del mugnaio cominciarono acambiare. Ogni sua iniziativa avevasuccesso, i raccolti erano stati buoni percui c’era tanto grano da macinare e iguadagni salivano. Sembrava che nulla

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potesse andargli storto e che il suoportamonete si riempisse da solo e lacassaforte stava per scoppiare. Benpresto divenne ricco come non era maistato prima.

Ma non riusciva a godersi la suafortuna. Il patto che aveva fatto conl’ondina lo tormentava, non voleva piùcamminare vicino al canale per paurache l’ondina venisse fuori a reclamare ilsuo debito. E naturalmente, nonpermetteva nemmeno al figlioletto diavvicinarsi all’acqua.

«Se ti trovi vicino all’argine» glidiceva, «fai attenzione e allontanatiimmediatamente. Lì c’è uno spiritocattivo. Se solo toccherai l’acqua ti

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afferrerà e ti tirerà giù».Ma gli anni passavano senza che ci

fosse segno dell’ondina e poco allavolta il mugnaio cominciò atranquillizzarsi.

Quando il ragazzo fu abbastanzagrande, andò da un cacciatore aimparare il mestiere. Imparava in frettae ci sapeva fare, così il signore delvillaggio lo prese al suo servizio. Si dàil caso che nel villaggio ci fosse unagiovane, onesta e gentile fanciulla cheaveva rapito il cuore del giovanecacciatore e quando il signore se neaccorse, regalò una casetta alla giovanecoppia come dono di nozze. Lì vivevanoin pace e serenità, amandosi con tutto il

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cuore.Un giorno il giovane cacciatore,

inseguendo un cervo che stavascappando, uscì dalla foresta e andò afinire in mezzo a un campo. Appena lavisuale fu buona, il cacciatore fecefuoco abbattendolo con un solo colpo.Entusiasta per il successo, non si resesubito conto di dove si trovava e, dopoaver scuoiato e sventrato l’animale,andò a lavarsi le mani in uno stagno chesi trovava nelle vicinanze.

Ma quello era il canale di suo padre.E nel momento in cui affondò le maninell’acqua, l’ondina venne fuoriridendo, lo strinse con le bracciagrondanti e lo trascinò giù così

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velocemente che le onde subito sirichiusero sulle loro teste.

Quando si fece sera e il cacciatorenon aveva fatto ritorno, la moglie si feceansiosa. Uscì per cercarlo e, ricordandoquante volte lui le aveva detto di starealla larga dal canale, immaginò quel cheera accaduto. Corse lì e appenariconobbe il carniere del marito sullasponda, non ebbe più dubbi. Cominciò aurlare, piangere e torcersi le mani,chiamandolo per nome ripetutamente, mafu tutto inutile. Andò sull’altra spondadel canale e chiamò forte anche da lì,maledicendo l’ondina dal profondo delcuore, ma non ci fu risposta. Lasuperficie dell’acqua era liscia e ferma

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come uno specchio nella luce delcrepuscolo e il riflesso della luna eratutto ciò che si vedeva.

La povera donna non lasciò il canale.Camminava intorno all’argine, senzafermarsi un attimo. Rapidamente quandole pareva di avvertire qualchemovimento e lentamente quando scrutaval’acqua. In certi momenti urlava a granvoce il nome del marito, in altripiagnucolava e quando la notte fu quasidel tutto trascorsa, allo stremo delleforze, cadde sull’erba e si addormentòin un attimo.

Immediatamente si ritrovò in unsogno. Scalava la parete rocciosa di unamontagna, spaventata. Spine e rovi le

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laceravano i piedi, la pioggia le colpivail volto con violenza e il vento selvaggiole scompigliava i capelli. Appenaraggiunta la vetta però, tutto cambiava. Ilcielo era azzurro e l’aria tiepida e inmezzo a un dolce declivio erbosoricoperto di fiori stava una piccolacapanna. Lei arrivava alla capanna eapriva la porta, trovandoci dentro unavecchia dai capelli bianchi che lesorrideva in modo amichevole... A quelpunto la povera ragazza si svegliò.

Il sole era già sorto. Dal momentoche non c’era più niente che la legassealla sua casa, decise di seguire il sogno.Sapeva dove si trovava la montagna esubito vi si recò. Quando arrivò, il

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tempo stava cambiando proprio comenel sogno, sopraggiunsero il ventoselvaggio e la pioggia dura comegrandine. Nonostante ciò, tenne duro etrovò che tutto era come l’aveva visto insogno: il cielo azzurro, il prato in fiore,la piccola capanna, la vecchia daicapelli bianchi.

«Vieni, mia cara» disse la vecchia,«e siedi accanto a me. Vedo che sei tantoinfelice e lo sei stata di certo a lungo pertrovare la mia capanna solitaria».

Sentendo quelle parole gentili lagiovane moglie prese a singhiozzare, masubito si ricompose e le raccontò tutta lastoria.

«Non preoccuparti» disse la vecchia.

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«Io posso aiutarti. Prendi questo pettinedorato. Aspetta fino alla prossima lunapiena e poi recati al canale, siedi sullariva e pettina i tuoi lunghi capelli neri.Dopo averlo fatto, sdraiati lì e sta’ avedere cosa succede».

La giovane moglie andò a casa econtava i giorni, che passavano troppolentamente. Infine una sera la luna pienaspuntò tra gli alberi e lei andò al canale,sedette sulla riva erbosa e cominciò apettinarsi i capelli con il pettine dorato.Fatto ciò, poggiò il pettine e si stese.Quasi subito l’acqua si increspò,un’onda si levò abbattendosi sulla riva equando l’acqua si fu ritirata, il pettinenon c’era più. Nello stesso istante la

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superficie dell’acqua si aprì ed emersela testa del cacciatore che angosciatoguardava la moglie, ma lei lo vide soloper un secondo, perché un’altra ondaarrivò a ricacciarlo giù. Quando infinel’acqua tornò ferma, non si vide piùnulla eccetto il riflesso della luna piena.

La giovane moglie tornò a casa con ilcuore spezzato. Ma quella notte fece lostesso sogno, così ancora una volta partìper andare nella piccola capanna inmezzo al prato in fiore. Questa volta lavecchia le diede un flauto dorato.

«Aspetta fino alla prossima lunapiena» le disse, «e porta con te il flautoal canale. Siedi sulla sponda e suona unabella melodia e, dopo averlo fatto,

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sdraiati sull’erba e sta’ a vedere cosasuccede».

La moglie del cacciatore fece tuttocome la vecchia le aveva detto. Suonòuna melodia e non appena depose ilflauto sull’erba, l’acqua si sollevò versola riva e lo trascinò via sul fondo. Unattimo dopo, l’acqua si increspò e siaprì e apparvero la testa e il busto delcacciatore. Provò disperatamente araggiungerlo, ma quando le loro manistavano per toccarsi, le onde loriportarono sul fondo e ancora una voltala moglie si ritrovò da sola sulla riva.

‘Così mi si spezzerà il cuore!’pensava. ‘Riuscire a vedere il mioamato per la seconda volta, solo per

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perderlo di nuovo, è troppo crudele dasopportare!’

Ma quando si addormentò fece lostesso sogno di nuovo. Per la terza voltasi recò alla montagna e la vecchia laconsolò.

«Non disperarti, mia cara. Non è tuttoperduto. Aspetta la prossima luna pienae porta questo filatoio dorato al canale.Siedi sulla riva a filare e quando laspoletta sarà completa, sta’ a vederecosa succede».

La giovane moglie fece esattamentecome le era stato detto. Quando la lunafu piena, filò un’intera spoletta di linosul ciglio dell’acqua e quindi depose ilfilatoio e si fece da parte. L’acqua

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ribollì e inondò la riva con più violenzache mai e una grande onda trascinò ilfilatoio giù verso il fondo. Nello stessoistante un’altra onda si sollevò portandocon sé la testa, le braccia e infinel’intero corpo del cacciatore e lui silanciò verso la riva, si aggrappò allamano della sposa e insieme fuggirono.

Ma alle loro spalle in un grantrambusto un’enorme quantità d’acqua sisollevò dal canale. Si abbatté conterribile forza sulla riva e sul pratoinseguendo la coppia che fuggiva etravolgendo alberi e cespugli. La donnaterrorizzata, temendo per le loro vite,invocò la vecchia e subito marito emoglie furono trasformati in rana e

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ranocchio. L’acqua che li sommerse nonriuscì ad annegarli, però li separògettandoli in luoghi lontani.

Quando le acque si ritirarono e i duepiccoli animali furono su suolo asciutto,ripresero le loro forme umane, manessuno sapeva dove fosse l’altro edentrambi si ritrovarono tra stranieri interre sconosciute. Altissime montagne eprofonde vallate li separavano. Persopravvivere, trovarono lavoroallevando pecore e per alcuni annibadarono alle loro greggi tra campi eforeste. E così vagavano, costantementepreda della tristezza e dellostruggimento.

Un giorno che la primavera era

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tornata e l’aria era tiepida e pura,entrambi uscirono con le pecore. Il casovolle che andassero verso il medesimoluogo. Il cacciatore vide un gregge dipecore su un’altura distante e condusseil suo in quella direzione. In fondo allavalle che si stendeva in mezzo, le duegreggi e i due pastori si congiunsero.Non si riconobbero, ma ciascuno fu lietodi avere compagnia in quei luoghidesolati e da quel momento pascolaronoinsieme le pecore, senza parlaregranché, ma prendendo conforto unodalla presenza dell’altra.

Una notte di luna piena, con le pecoregià chiuse al sicuro, il cacciatore tiròfuori dalla tasca un flauto e suonò una

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bellissima e triste melodia. Quando misegiù il flauto vide che la pastorellasinghiozzava.

«Perché piangi?» chiese.«Oh» disse lei, «la luna era

esattamente così quando io suonai lastessa canzone al flauto e la testa delmio amato spuntò dall’acqua...»

Lui la guardò e, come se in quelmomento un velo gli fosse caduto dagliocchi, riconobbe la sua cara moglie. Equando lei guardò il suo volto al chiarodi luna, lo riconobbe a sua volta. Sigettarono l’uno nella braccia dell’altra esi baciarono, si strinsero e si baciaronodi nuovo e non c’era bisogno di chiederese erano felici. E infatti, vissero beati

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per il resto delle loro vite.

* * *

Tipo di fiaba: ATU 316, ‘The Nix of the Mill-Pond’ (L’ondina della pescaia).Fonte:: un racconto di Moritz Haupt,pubblicato su Zeitschrift für DeutschesAlterthum (Magazine of German Antiquity),vol. 2 (1842).Ondine, sirene, selkies, rusalki o comunque lesi chiami, portano sempre guai. Questa non faeccezione alla regola, ma alla fine vienesconfitta: la moglie fedele la supera con il suoamore. La descrizione del ricongiungimento tramarito e moglie nel finale è molto toccante e ilmotivo lunare introdotto in precedenzarichiedeva che il riconoscimento avvenissesotto la luna piena, cosa che quindi apparesensata sia in senso artistico che visivo. In una

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notte qualunque non sarebbero stati in grado diriconoscersi così chiaramente.

Non sappiamo quale sia la melodia che vienesuonata col flauto. Ma con ogni probabilitàl’‘Inno alla luna’ di Dvorák, dall’opera Rusalkadel 1901, sarebbe perfetto.

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Note

Che ‘mette tutto il cielo in rabbia’(William Blake, ‘Gli auguridell’innocenza’, 1803).

‘La novella non è bella se sopra nunci si rappella’: proverbio toscanocitato da Italo Calvinonell’introduzione a Fiabe italiane.

Shakespeare, William, Moltorumore per nulla, traduzione di

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Nadia Fusini, Feltrinelli, Milano2009.

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Indice

Presentazione

Frontespizio

Pagina di copyright

Introduzione

Bibliografia

Uno. Il Principe Ranocchio, o Enrico di

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Ferro

Due. Il gatto e il topo vanno a vivereinsieme

Tre. Il ragazzo che se ne andò di casain cerca della paura

Quattro. Il fedele Giovanni

Cinque. I dodici fratelli

Sei. Fratellino e sorellina

Sette. Raperonzolo

Otto. I tre ometti nel bosco

Nove. Hansel e Gretel

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Dieci. Le tre foglie del serpente

Undici. Il pescatore e sua moglie

Dodici. Il sartino impavido

Tredici. Cenerentola

Quattordici. L’indovinello

Quindici. Il topo, l’uccello e la salsiccia

Sedici. Cappuccetto Rosso

Diciassette. I musicanti di Brema

Diciotto. L’osso che canta

Diciannove. Il diavolo con i tre capelli

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d’oro

Venti. La ragazza senza mani

Ventuno. Gli elfi

Prima storia

Seconda storia

Terza storia

Ventidue. Il fidanzato brigante

Ventitré. Il padrino morte

Ventiquattro. Il ginepro

Venticinque. Rosaspina

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Ventisei. Biancaneve

Ventisette. Tremotino

Ventotto. L’uccello d’oro

Ventinove. Contadinello

Trenta. Dognipelo

Trentuno. Jorinda e Joringhello

Trentadue. I sei che si fecero stradanel mondo

Trentatré. Hans rischiatutto

Trentaquattro. L’allodola che cantavae saltellava

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Trentacinque. La guardiana delle oche

Trentasei. Pelledorso

Trentasette. I due viandanti

Trentotto. Hans Porcospino

Trentanove. Il lenzuolino funebre

Quaranta. I centesimi rubati

Quarantuno. Il cavolo asinino

Quarantadue. Occhio, dueocchi etreocchi

Quarantatré. Le scarpette fatte apezzi a furia di danzare

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Quarantaquattro. Hans di ferro

Quarantacinque. Il monte Simeli

Quarantasei. Heinz il pigro

Quarantasette. Hans il forte

Quarantotto. La luna

Quarantanove. La guardiana delleoche alla fonte

Cinquanta. L’ondina del canale

Note