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Premessa: crisi del sistema delle fonti. L'insegnamento tradizionale della classificazione delle fonti del diritto in leggi, regolamenti e consuetudini, concepito con riferimento ad un assetto economico -sociale ottocentesco, è entrata in crisi per effetto delle sollecitazioni dell'economia globalizzata, che esige una regolazione più flessibile, veloce e meno formale. Le pressioni derivanti dal mondo del mercato e della finanza, in particolare, hanno prodotto una vera e propria destrutturazione dell'assetto delle fonti così come disegnato nella Costituzione, mediante forzature e deviazioni dagli schemi tipici. Se sul piano delle fonti primarie, le esigenze di velocità ed immediatezza degli interventi normativi sono state soddisfatte da un uso smodato della decretazione d'urgenza, tuttavia il settore in cui si è sviluppato maggiormente questo fenomeno di “crisi delle fonti” è stato quello della normazione secondaria. I regolamenti governativi, infatti, sono ormai concepiti come strumenti di regolazione obsoleti, lenti ed inidonei a soddisfare le esigenze dinamiche del mondo produttivo. La regolazione di rango secondario sempre più spesso viene concepita fuori dallo schema procedurale tipico stabilito dall'art. 17 della legge 400/1988. Infatti, al modello classico dei regolamenti governativi e ministeriali, sono stati preferiti schemi regolativi più snelli e flessibili, attuandosi così un processo di progressiva erosione della sfera di regolazione autoritativa, formale e costituzione, a favore di strumenti di normazione atipica e flessibile (si è parlato, per descrivere questo fenomeno, di “fuga dal regolamento”). L’atipicità è stata decisamente favorita dal legislatore il quale, dopo il 1997, ha espressamente autorizzato la fuga dal regolamento, rinviando, per l’esecuzione ed attuazione delle leggi, a decreti ministeriali “di natura non regolamentare” ed attivando il procedimento dell’art. 17 l. n. 400 del 1988 solo nei casi in cui si intendesse attribuire al Governo una maggiore sfera di discrezionalità. Inoltre, l'entrata in vigore della riforma del Titolo V della Costituzione ha incoraggiato le deroghe al regime formale dei regolamenti governativi, nella misura in cui ha circoscritto il perimetro di operatività della potestà regolamentare dello Stato alle sole materie affidate alla sua competenza legislativa esclusiva (art. 117, comma 6 Cost.). Pertanto, si può affermare che la vicenda della “fuga dal regolamento” ha due cause: una più risalente, riconducibile alla volontà di non soggiacere ai vincoli normativi e procedimentali posti dalla l. n. 400 del 1988, ed una più recente, connessa al nuovo riparto di competenze normative, sia di grado primario sia di rango secondario, disposto dal nuovo titolo V della Costituzione. Un eterogeneo, complesso insieme di ragioni ha quindi condotto lo Stato ad esercitare le proprie funzioni normative “in frode alla Costituzione”, in forme non rispondenti cioè alla legalità costituzionale, ora per non

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Premessa: crisi del sistema delle fonti.

L'insegnamento tradizionale della classificazione delle fonti del diritto in leggi, regolamenti e consuetudini,

concepito con riferimento ad un assetto economico -sociale ottocentesco, è entrata in crisi per effetto delle

sollecitazioni dell'economia globalizzata, che esige una regolazione più flessibile, veloce e meno formale.

Le pressioni derivanti dal mondo del mercato e della finanza, in particolare, hanno prodotto una vera e propria

destrutturazione dell'assetto delle fonti così come disegnato nella Costituzione, mediante forzature e deviazioni

dagli schemi tipici.

Se sul piano delle fonti primarie, le esigenze di velocità ed immediatezza degli interventi normativi sono state

soddisfatte da un uso smodato della decretazione d'urgenza, tuttavia il settore in cui si è sviluppato maggiormente

questo fenomeno di “crisi delle fonti” è stato quello della normazione secondaria.

I regolamenti governativi, infatti, sono ormai concepiti come strumenti di regolazione obsoleti, lenti ed inidonei a

soddisfare le esigenze dinamiche del mondo produttivo.

La regolazione di rango secondario sempre più spesso viene concepita fuori dallo schema procedurale tipico

stabilito dall'art. 17 della legge 400/1988.

Infatti, al modello classico dei regolamenti governativi e ministeriali, sono stati preferiti schemi regolativi più snelli

e flessibili, attuandosi così un processo di progressiva erosione della sfera di regolazione autoritativa, formale e

costituzione, a favore di strumenti di normazione atipica e flessibile (si è parlato, per descrivere questo fenomeno,

di “fuga dal regolamento”).

L’atipicità è stata decisamente favorita dal legislatore il quale, dopo il 1997, ha espressamente autorizzato la fuga

dal regolamento, rinviando, per l’esecuzione ed attuazione delle leggi, a decreti ministeriali “di natura non

regolamentare” ed attivando il procedimento dell’art. 17 l. n. 400 del 1988 solo nei casi in cui si intendesse

attribuire al Governo una maggiore sfera di discrezionalità.

Inoltre, l'entrata in vigore della riforma del Titolo V della Costituzione ha incoraggiato le deroghe al regime formale

dei regolamenti governativi, nella misura in cui ha circoscritto il perimetro di operatività della potestà

regolamentare dello Stato alle sole materie affidate alla sua competenza legislativa esclusiva (art. 117, comma 6

Cost.).

Pertanto, si può affermare che la vicenda della “fuga dal regolamento” ha due cause: una più risalente,

riconducibile alla volontà di non soggiacere ai vincoli normativi e procedimentali posti dalla l. n. 400 del 1988, ed

una più recente, connessa al nuovo riparto di competenze normative, sia di grado primario sia di rango

secondario, disposto dal nuovo titolo V della Costituzione.

Un eterogeneo, complesso insieme di ragioni ha quindi condotto lo Stato ad esercitare le proprie funzioni

normative “in frode alla Costituzione”, in forme non rispondenti cioè alla legalità costituzionale, ora per non

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soggiacere ai penetranti controlli di legittimità sanciti dalla legge n. 400 del 1988, ora per assicurare allo Stato una

perdurante legittimazione normativa su materie in realtà sottratte, dal nuovo testo dell’art. 117 Cost., sia alla sua

potestà legislativa primaria sia alla sua competenza regolamentare.

Il problema posto da queste fonti atipiche o “anomale”, secondo la definizione della Corte Costituzionale, è da un

lato quello, appunto della loro normatività e consiste nell’interrogativo se sia o meno legittimo affidare contenuti

normativi ad atti formalmente amministrativi, di guisa da perdere di vista i confini stessi della normatività.

L'esempio forse più clamoroso di questo allontanamento dal sistema tradizionale delle fonti secondarie è

costituito dalla recente innovazione delle linee guida dell'ANAC, come previste dal D.Lgs. 18 aprile 2016 n. 50.

Tale strumento di regolazione, discostandosi da quello schema classico delle fonti secondarie, si pone ai limiti

dell'operatività del principio di legalità, rischiando in definitiva di minare da un lato le garanzie procedimentali

sancite dall'art. 17 della legge n. 400/1988 e dall’altro il sistema di rapporti di competenza tra Stato-Regioni-

Province Autonome.

La discrasia tra la forma (di atti amministrativi generali) e la sostanza (di atti normativi) che caratterizza questi

provvedimenti ha suscitato una reazione che ha tentato di ricondurre alla legalità le fattispecie di deviazione di tali

provvedimenti dal modello tipico dei regolamenti.

Questa innovazione nel sistema delle fonti costituisce quindi un'occasione fondamentale per una riflessione

sull'attualità e sull'utilità del sistema formale di produzione del diritto risultante dalla normativa costituzionale ed

ordinaria vigente.

Le linee guida dell'ANAC: fondamento e definizione

Si tratta di una novità assoluta nell'ambito delle fonti dell'ordinamento giuridico italiano e trova il suo fondamento

nel nuovo Codice degli Appalti (D.Lgs. n. 50/2016).

Se il legislatore del 2006 aveva optato per un modello unitario di attuazione delle regole da esso poste, mediante

l’adozione di un generale regolamento governativo (D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207), il legislatore della riforma ha

optato per un sistema diversificato e più flessibile basato essenzialmente su alcune tipologie di atti attuativi

rimessi ai poteri ed alle funzioni dell'ANAC.

Tuttavia si è previsto che il D.P.R. n. 207 del 2010 continui a trovare applicazione fino all’entrata in vigore di queste

nuove modalità esecutive (art. 213).

La legge delega n. 11/2016 aveva previsto la “attribuzione all’ANAC di più ampie funzioni di promozione dell’efficienza,

di sostegno allo sviluppo delle migliori pratiche, di facilitazione allo scambio di informazioni tra stazioni appaltanti e di

vigilanza nel settore degli appalti pubblici e dei contratti di concessione, comprendenti anche poteri di controllo,

raccomandazione, intervento cautelare, di deterrenza e sanzionatorio, nonché di adozione di atti di indirizzo quali linee

guida, bandi-tipo, contratti-tipo ed altri strumenti di regolamentazione flessibile, anche dotati di efficacia vincolante e

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fatta salva l’impugnabilità di tutte le decisioni e gli atti assunti dall’ANAC innanzi ai competenti organi di giustizia

amministrativa” (art. 1, comma 1, lett. t).

La previsione della legge delega è piuttosto ampia, perché in essa sono compresi interventi di tipo molto diverso

tra loro e comunque, lungi dall’attribuire un effetto precettivo pieno a tutti questi strumenti, si dice che solo alcuni

avranno efficacia vincolante ed altri no (“..anche dotati di efficacia vincolante..”).

Tale disposizione ha trovato attuazione nell'art. 213 del D.Lgs n. 50/2016 (Nuovo Codice Appalti).

Secondo quanto disposto dall'art. 213, comma 2 D.Lgs. n. 50/2016: “L’ANAC, attraverso linee guida, bandi-tipo,

capitolati-tipo, contratti-tipo ed altri strumenti di regolamentazione flessibile, comunque denominati, garantisce la

promozione dell’efficienza, della qualità dell’attività delle stazioni appaltanti, cui fornisce supporto anche facilitando lo

scambio di informazioni e la omogeneità dei procedimenti amministrativi e favorisce lo sviluppo delle migliori pratiche.

Trasmette alle Camere, immediatamente dopo la loro adozione, gli atti di regolazione e gli altri atti di cui al precedente

periodo ritenuti maggiormente rilevanti in termini di impatto, per numero di operatori potenzialmente coinvolti,

riconducibilità a fattispecie criminose, situazioni anomale o comunque sintomatiche di condotte illecite da parte delle

stazioni appaltanti. Resta ferma l’impugnabilità delle decisioni e degli atti assunti dall’ANAC innanzi ai competenti organi

di giustizia amministrativa. L'ANAC, per l'emanazione delle linee guida, si dota, nei modi previsti dal proprio

ordinamento, di forme e metodi di consultazione, di analisi e di verifica dell'impatto della regolazione, di consolidamento

delle linee guida in testi unici integrati, organici e omogenei per materia, di adeguata pubblicità, anche sulla Gazzetta

Ufficiale, in modo che siano rispettati la qualità della regolazione e il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli

di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalla legge n. 11 del 2016 e dal presente codice”.

L'art. 213 definisce le funzioni ed i poteri dell'ANAC nella materia dei contratti pubblici, attribuendo all'Autorità i

poteri di vigilanza e controllo e di “regolazione” (comma 1). Per la realizzazione delle finalità fondamentali del

settore – efficienza e qualità dell'attività delle stazioni appaltanti – è tra l'altro attribuiti all'ANAC anche il potere di

emanare linee guida, bandi-tipo, contratti-tipo ed altri strumenti di regolamentazione flessibile, con possibilità di

successiva trasmissione alle Camere degli atti “ritenuti maggiormente rilevanti in termini di impatto” per la

regolamentazione (comma 2).

Viene quindi demandata all’ANAC l’autonoma adozione di atti a carattere generale finalizzati a offrire

indicazioni interpretative e operative agli operatori del settore (stazioni appaltanti, imprese

esecutrici, organismi di attestazione) nell’ottica di perseguire gli obiettivi di semplificazione,

standardizzazione delle procedure, trasparenza ed efficienza dell’azione amministrativa, apertura della

concorrenza, garanzia dell’affidabilità degli esecutori e di riduzione del contenzioso.

L’art. 213 ha previsto l’emanazione di una notevole quantità di decreti ministeriali e di linee guida a

carico dell’ANAC, stabilendo anche una specifica tempistica.

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Nelle more dell’emanazione dei vari decreti, restano comunque in vigore tutta una serie di disposizioni previste dal

vecchio Regolamento di attuazione (D.P.R. n. 207/2010).

L’ANAC ad oggi ha ultimato la fase di consultazione pubblica di 10 linee guida (dalla n.1 alla n. 7 il 16 maggio e dalla

n. 8 alla n. 10 il 27 giugno 2016).

Il 21 giugno 2016 l’ANAC ha pubblicato sul proprio sito le prime 5 linee guida definitive, che hanno completato

la fase di revisione a seguito della consultazione pubblica:

1. “direttore dei lavori”;

2. “direttore dell’esecuzione”;

3. “responsabile unico del procedimento”;

4. “offerta economicamente più vantaggiosa”;

5. “servizi di ingegneria e architettura”.

Il 28 giugno 2016 l’ANAC ha pubblicato le linee guida recanti “Procedure per affidamenti sottosoglia”.

Il 6 luglio 2016 l’ANAC ha pubblicato le linee guida recanti “Criteri di scelta commissari di gara”.

Alcune linee guida sono state già trasmesse dall’ANAC al Consiglio di Stato per il parere della “Commissione VIII –

Lavori pubblici, comunicazioni del Senato della Repubblica” e della “Commissione VIII – Ambiente, Territorio e Lavori

Pubblici della Camera dei Deputati”; la pubblicazione degli atti definitivi avverrà dopo l’acquisizione dei pareri

richiesti.

Ad oggi le seguenti linee guida hanno già ricevuto il parere delle commissioni parlamentari e del Consiglio di Stato

(non previsto dalle norme):

• Responsabile unico del procedimento

• Offerta economicamente più vantaggiosa

• Servizi di ingegneria e architettura

• Procedure per affidamenti sottosoglia

• Criteri di scelta dei commissari di gara

• Direttore dei lavori

• Direttore dell’esecuzione

• Indicazione dei mezzi di prova

• Procedure negoziate senza bando nel caso di forniture e servizi ritenuti infungibili

Ad oggi sono 6 le linee guida dell'ANAC pubblicate in via definitiva sulla Gazzetta Ufficiale:

1. Linee guida n. 1 in materia di “Indirizzi generali sull’affidamento dei servizi attinenti all’architettura e

all’ingegneria”, approvate con delibera n. 973 del 14 settembre 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale Serie

Generale n. 228 del 29 settembre 2016;

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2. Linee guida n. 2 in materia di “Offerta economicamente più vantaggiosa”, approvate con delibera n.

1005 del 21 settembre 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 238 dell’ 11 ottobre 2016;

3. Linee guida n. 3 concernenti “Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del procedimento per

l’affidamento di appalti e concessioni”, approvate con delibera n. 1096 del 26 ottobre 2016 e pubblicate nella

Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 273 del 22 novembre 2016;

4. Linee guida n. 4 in materia di “Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore

alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori

economici”, approvate con delibera n. 1097 del 26 ottobre 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale Serie Generale

n. 274 del 23 novembre 2016;

5. Linee guida n. 5 relative ai “Criteri di scelta dei commissari di gara e di iscrizione degli esperti nell’Albo

nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici”, approvate con delibera n. 1190 del

16 novembre 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 283 del 3 dicembre 2016;

6. Linee guida n. 6 in materia di “Indicazione dei mezzi di prova adeguati e delle carenze nell’esecuzione di

un precedente contratto di appalto che possano considerarsi significative per la dimostrazione delle circostanze

di esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett. c)”, approvate con delibera n. 1293 del 16 novembre 2016

e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 2 del 3 gennaio 2017.

Le linee guida costituiscono atti del tutto atipici, persino nel nome, non rientranti nel tradizionale assetto delle

fonti di produzione del diritto, pertanto la loro qualificazione si palesa problematica ed incerta.

È impropria la nozione di soft law: infatti, mentre questo fenomeno è nato nel diritto anglosassone ed

internazionale con la finalità di risolvere questioni e rapporti giuridici non soggetti ad alcuna normazione

vincolante, le linee guida, al contrario, sono state pensate e previste come idonee a costituire diritti ed obblighi in

capo ai destinatari, tanto da sostituire le disposizioni regolamentari contestualmente abrogate (es. il regolamento

esecutivo del vecchio codice appalti – D.P.R. n. 207/2010).

Il Consiglio di Stato, con parere della Commissione Speciale sul Nuovo Codice degli Appalti dd. 01.04.2016 n.

855, ha classificato tre tipologie di linee guida:

1) Le linee guida ministeriali, contenute appunto in decreti ministeriali, i quali sono sottoposti al parere delle

Commissioni Parlamentari: esse prevedono norme generali ed astratte e sono dei veri e propri regolamenti

ministeriali, che seguono lo schema procedimentale disegnato dall'art. 17 della legge n. 400/1988 per i

regolamenti ministeriali, con tutte le implicazioni in termini di rispetto delle garanzie procedimentali previste, in

ragione della loro natura normativa: comunicazione al Presidente del Consiglio dei ministri prima della loro

emanazione; adozione previo parere del Consiglio di Stato; visto e registrazione della Corte dei conti; pubblicazione

nella Gazzetta Ufficiale.

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Le amministrazioni e gli enti aggiudicatori sono obbligati a osservare il precetto normativo, senza che alle stesse

sia attribuito il potere di disattenderne il contenuto. La violazione dei decreti comporta l’illegittimità del

provvedimento attuativo. I decreti, essendo privi di immediata lesività per la loro natura sostanzialmente

normativa, potranno essere impugnati, normalmente, unitamente al provvedimento della stazione appaltante che

ad essi dà attuazione. Non può, però, escludersi che particolari enti, portatori di interessi diffusi, possano essere

legittimati ad una impugnazione immediata senza che sia necessario attendere il provvedimento di svolgimento

attuativo (in questo senso Cons. Stato, Commissione speciale, 26 giugno 2013, n. 3014, che si è espresso in ordine

alle modalità di impugnazione del d.P.R. n. 207 del 2010).

2) Le linee guida “vincolanti” dell'ANAC, le quali non sono regolamenti, bensì atti di regolazione di un'Autorità

indipendente, che devono seguire alcune garanzie procedimentali minime: consultazione pubblica, metodi di

analisi e di verifica di impatto della regolazione, metodologie di qualità della regolazione, compresa la

codificazione, adeguata pubblicità e pubblicazione, se del caso parere facoltativo del Consiglio di Stato;

3) Le linee guida non vincolanti dell'ANAC, le quali avranno un valore di indirizzo ai fini di orientamento di

stazioni appaltanti ed operatori economici.

Il problema della natura giuridica delle linee guida dell’ANAC

Mentre risulta agevole la qualificazione delle linee guida di cui ai punti 1), quali regolamenti ministeriali, e 3), quali

atti amministrativi generali al pari delle circolari contenenti istruzioni operative sulla normativa di riferimento, più

problematica risulta invece la catalogazione delle linee guida di cui al punto 2), ovvero le linee guida vincolanti

adottate dall'ANAC, ma non approvate con decreto del Ministro per le Infrastrutture e i trasporti.

Secondo la concezione tradizionale “le linee guida fanno riferimento non già ad una precisa e puntuale disciplina,

bensì agli indirizzi e alle direttive di carattere sostanzialmente conformativo alle quali si dovranno attenere i vari

soggetti titolari di potestà amministrative in subiecta materia.

Le parole linee guida, infatti, indicano archetipi e moduli di carattere generale, entro i quali la regolamentazione

concreta diviene oggetto di un successivo passaggio. Le linee guida sono atti con i quali si indirizzano le attività di

altri soggetti ed organi, indicando loro priorità, criteri informatori dell’azione, modalità di attuazione obiettivi da

perseguire.

Caratteristica degli atti in questione è di non specificare in modo precettivo in contenuti così che ai destinatari

sono rappresentate le metodiche per il raggiungimento del risultato” (Consiglio di Stato, sezione consultiva per gli

atti normativi, parere dd. 21.01.2008).

Tale potere di direttiva si declina a sua volta per mezzo di raccomandazioni, istruzioni operative e, quindi, in

definitiva mediante l'indicazione di modalità attuative del precetto normativo, ma mai per mezzo di regole cogenti

e vincolanti, le quali semmai costituiscono il presupposto logico dei chiarimenti affidati alle linee guida.

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Quindi un primo problema è costituito dall'antinomia ontologica tra la stessa nozione di linee guida ed il carattere

vincolante assegnato a quelle sub n. 2).

Premesso che la natura vincolante, oltre alla portata certamente generale, astratta ed innovativa di tali linee guida

(si vedano ad esempio quelle di cui agli artt. 83 e 84 del D.Lgs. n. 50/2016) impone di escludere la loro natura di

atto amministrativo generale, anche in considerazione della loro preordinazione a sostituire il regime normativo di

cui al regolamento di attuazione del previgente Codice dei Contratti Pubblici, il Consiglio di Stato, nel formulare il

parere sul nuovo D.Lgs. n. 50/2016 ha esaminato due distinte ipotesi ricostruttive:

• da un lato la tesi che qualifica le linee guida vincolanti come atti normativi atipici;

• dall'altro lato la tesi che le classifica come atti di regolazione del tipo di quelli adottati dalle Autorità

Amministrative Indipendenti.

Il Consiglio di Stato accoglie l'interpretazione che combina la valenza certamente generale di tali linee guida con la

natura del soggetto emanante, l'ANAC, che si configura a tutti gli effetti come un'Autorità Amministrativa

Indipendente, con funzioni anche di regolazione, e pertanto riconduce le linee guida vincolanti dell'ANAC alla

categoria degli atti di regolazione delle Autorità Amministrative Indipendenti, che non sono regolamenti in senso

stretto, ma atti amministrativi generali e, appunto, di regolazione.

In altre parole, il Consiglio di Stato ha volto lo sguardo ad un modello ormai rassicurante, perché oggetto per circa

un ventennio di una solida elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, in un dibattito che ha dovuto risolvere sia la

questione del fondamento costituzionale delle autorità indipendenti di regolazione sia il problema della legittimità

del loro potere “regolamentare”. Proprio rispetto alla regolazione che opera nei mercati finanziari e del credito, nel

mercato delle comunicazioni elettroniche, nel mercato postale, nel mercato dell’energia elettrica e del gas, per fare

gli esempi più importanti, si era infatti avvertito un pericoloso allontanamento da quello che è il tradizionale

rapporto tra legge e regolamento, a causa dell’ampiezza di siffatto potere di regolazione.

La classificazione delle linee guida come atti di regolazione (di autorità indipendente), in primo luogo,

confermerebbe gli effetti vincolanti ed erga omnes di tali provvedimenti ed, in secondo luogo, consentirebbe di

assicurare anche per tali atti dell'ANAC tutte le garanzie procedimentali e di qualità della regolazione, già oggi

pacificamente vigenti per le Autorità Amministrative Indipendenti, in considerazione della loro natura non politica,

ma tecnica (l'obbligo di sottoporre le delibere di regolazione ad una preventiva fase di consultazione, l'esigenza di

dotarsi per gli interventi di impatto significativo di strumenti quali un procedimento di consultazione secondo il

congegno del c.d. notice and comment, l'analisi di impatto della regolazione-AIR e la verifica ex post dell'impatto

della regolazione-VIR, la concentrazione in “testi unici integrati”, l'adozione di forme di adeguata pubblicità, tra cui

la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale).

Inoltre, pur in assenza del parere obbligatorio del Consiglio di Stato ex art. 17 della legge n. 400/1988, tale

sostegno consultivo resterebbe pur sempre possibile in via facoltativa, sotto forma di quesito, sia in ragione della

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generalità delle questioni e dell'impatto erga omnes dei provvedimenti, sia per analogia con l'art. 17 comma 25

della legge n. 127/1997, che prevede il parere obbligatorio del Consiglio di Stato sugli schemi generali di contratti-

tipo, accordi e convenzioni dei Ministeri.

Inoltre, si sottolinea nel parere in esame, resterebbe confermata la piena giustiziabilità delle linee guida dell'ANAC

di fronte al Giudice Amministrativo, come già previsto nella legge delega (lett. t).

Tale opzione interpretativa, ancorchè ben argomentata, ha incontrato diverse critiche.

Se la compatibilità con il sistema delle fonti della potestà regolamentare, benché in generale sprovvista di

copertura costituzionale, è stata riconosciuta da tempo (si veda il parere dd. 14.02.2005 della sezione consultiva

per gli atti normativi del Consiglio di Stato), tuttavia la titolarità ed il valido esercizio del potere di regolazione sono

stati presidiati da rilevanti cautele e condizioni che consentono di affermare la loro compatibilità con il principio di

legalità.

Le condizioni di legalità che assistono gli atti delle Autorità Amministrative Indipendenti (la base costituzionale di

tale potere, la copertura europea, il carattere settoriale e tecnico della regolazione ed i criteri di fondo per

l'esercizio dell'attività regolatoria) appaiono invece difficilmente rintracciabili nelle linee guida dell'ANAC.

Infatti, mentre gli atti di regolazione rispondono all'esigenza di affidare ad un'autorità amministrativa indipendente

dal Governo l'introduzione di regole prevalentemente tecniche in alcuni settori di mercato circoscritti nei quali

l'esecutivo conserva, per mezzo di società partecipate, un interesse che ne sconsiglia qualsivoglia intervento

normativo, al contrario le linee guida dell'ANAC non presentano i caratteri della tecnicità e della settorialità, né

intervengono in settori di mercato che esigono una regolazione autonoma.

Il “mercato” di riferimento della disciplina che l'ANAC è chiamata ad adottare è molto più ampio e trasversale di

quelli su cui incidono le altre Autorità di settore (con la sola possibile eccezione dell'Antitrust) e, peraltro,

contrariamente a quanto avviene per queste, l'ANAC è chiamata dal Codice ad esprimersi anche su materie che

involgono scelte anche di natura para-normativa e non solo profili strettamente tecnici (si pensi alle linee guida

previste sul sistema di qualificazione delle imprese, sul regime delle SOA e sulle regole dell'avvalimento).

Ad esempio, è evidente come le linee guida che andranno a definire i criteri di selezione e il regime delle SOA di cui

agli artt. 83 e 84 del D.Lgs. n. 50/2016, pur presentando i caratteri della generalità ed astrattezza che caratterizzano

la produzione normativa regolamentare, dall'altro lato non presentano alcun profilo tecnico che ne imponga

l'affidamento ad un'autorità diversa dal Governo e non si riferiscono ad un particolare settore di mercato, ma si

applicano a tutte le procedure di affidamento di appaltante pubblici di lavori.

Inoltre, si osserva come nell'ambito dei lavori pubblici non sono nemmeno ravvisabili esigenze di regolazione

indipendenti dal potere esecutivo che sconsiglino di disciplinare una determinata materia mediante regolamenti

governativi.

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Infine, non sarebbero rinvenibile, in nessuna fonte di rango sovraordinato costituzionale o europea, il fondamento

del potere regolativo affidato dalla legge all'ANAC, né nelle disposizioni che prevedono l'adozione delle linee guida

sarebbero rintracciabili criteri e principi alla stregua dei quali declinare tale regolazione, risolvendosi al contrario in

una sorte di “delega in bianco”.

In definitiva, la catalogazione delle linee guida vincolanti dell’ANAC nel novero degli atti di regolazione delle

Autorità Indipendenti si rivela una forzatura ermeneutica dettata dalla duplice esigenza di conservare gli equilibri

dell’assetto tradizionale delle fonti regolative e di evitare l’espresso riconoscimento dell’anomalia dell’introduzione

di una nuova e atipica fonte del diritto, con tutte le difficoltà ricostruttive e sistematiche che ne conseguirebbero.

Una parte della dottrina (G. MORBIDELLI) ha obiettato a tale classificazione delle linee guida come atti delle

Autorità Amministrative Indipendenti, ritenendo che essa non abbia un significato autosufficiente sul piano della

qualificazione giuridica: essa è sì servita a fini descrittivi per dare un nomen juris alla vasta serie di atti posti in

essere dalle autorità indipendenti di regolazione, ma non riesce, da sola, a sciogliere il nodo del se un certo atto sia

un regolamento o un atto amministrativo generale. L’esigenza di distinguere è però irrinunciabile, perché il regime

del primo è diverso da quello del secondo.

In particolare solo per i regolamenti valgono le seguenti regole: la ricorribilità per Cassazione per violazione di

legge; l’applicazione del principio jura novit curia ed ignorantia legis non excusat; la pubblicazione e l’entrata in

vigore dopo il periodo di vacatio legis; la disapplicazione in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità,

secondo il criterio gerarchico per la risoluzione delle antinomie tra le fonti e in sintonia con una giurisprudenza

ormai piuttosto consolidata; il principio di inderogabilità del regolamento. Inoltre, solo gli atti amministrativi

generali, e non i regolamenti, hanno la caratteristica di poter incidere in modo da “chiudere” la fattispecie,

producendo effetti nei confronti di destinatari che sono indeterminati ex ante ma determinabili a posteriori.

Un'ulteriore critica che si eleva a tale interpretazione è che l'introduzione nell'ordinamento di norme giuridiche

destinate a regolare i rapporti tra cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni non può che restare riservata ad

autorità democraticamente legittimate a limitare le posizioni soggettive dei consociati e, quindi, ad autorità alle

quali la Costituzione riconosce la rappresentatività della collettività tramite la delega di sovranità e, quindi, solo al

Parlamento o al Governo.

Al riguardo, parte della dottrina esclude la titolarità della legittimazione a produrre norme di diritto in capo ad

Autorità del tutto sprovviste di quella legittimazione democratica che fonda il potere di limitare la sfera giuridica

dei cittadini.

Lo stesso Consiglio di Stato ha dimostrato di avvertire le difficoltà di un corretto inquadramento giuridico delle

linee guida vincolanti dell’ANAC, suggerendo al Governo di riesaminare il riparto della disciplina attuativa tra i

modelli dei decreti ministeriali e delle linee guida.

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Per queste ragioni affiora la tesi che, viceversa, le linee guida ANAC siano dei veri e propri regolamenti, anche

perché di essi hanno e devono avere le caratteristiche proprie: generalità, astrattezza, idoneità ad innovare

nell’ordinamento.

Il più immediato corollario di quest'ultima ipotesi ricostruttiva consiste nell’incompatibilità di tale tipo di atti con il

sistema delle fonti secondarie, così come definito dal combinato disposto degli artt. 117, comma 6 della

Costituzione ed art. 17 della legge n. 400/1988, con l’ulteriore conseguenza che tale tipologia di provvedimenti non

dovrebbero trovare valido ingresso nell’ordinamento.

Accedendo alla tesi della tipicità e tassatività anche delle fonti di rango secondario, ne potrebbe derivare come

conseguenza che le disposizioni che autorizzano l’emanazione di atti di normazione sub-legislativa al di fuori dello

schema del regolamento, oltretutto affidandone la responsabilità ad autorità diverse dal Governo, potrebbero

giudicarsi incostituzionali per violazione dell’art. 117, comma 6, della Costituzione, perché in contrasto con il

precetto che configura l’attività di normazione secondaria come consentita nella sola forma tipica del regolamento.

Inoltre, le medesime disposizioni legislative potrebbero ritenersi incostituzionali per violazione dell’art. 76 della

Costituzione se contenute in un decreto legislativo, senza che la legge delega avesse autorizzato il Governo ad

affidare la normazione secondaria ad un atto atipico, ovvero per violazione dell’art. 100 della Costituzione, per la

lesione delle prerogative consultive del Consiglio di Stato, come declinate dall’art. 17 della legge n. 400/1988.

Infine, l’incostituzionalità di tali disposizioni potrebbe derivare dalla violazione del riparto di competenze tra Stato e

Regioni, laddove l’atto di normazione secondaria afferisca a una materia estranea a quelle di competenza esclusiva

dello Stato.

È evidente, quindi, la forzatura di affidare ad un atto atipico, adottato da un'Autorità diversa dal Governo,

l'introduzione nell'ordinamento di norme sub-legislative, difficilmente catalogabili come atti di regolazione delle

autorità amministrative indipendenti, che comporta uno sconvolgimento dell'assetto costituzionale ed

ordinamentale delle fonti di produzione del diritto.

In definitiva, per non incorrere in tali obiezioni, le linee guida quali strumenti di regolazione flessibile ed atipica,

dovrebbero fungere da accompagnamento e da supporto alle pubbliche amministrazioni, ai fini della più utile

attuazione della normativa primaria e secondaria di riferimento. Se ricondotte entro questi limiti, le linee guida

risulterebbero uno strumento molto efficace, attraverso il loro carattere informale e flessibile, ed eviterebbero di

complicare l'attuazione delle disposizioni di legge attraverso problemi di compatibilità costituzionale.

Una tale impostazione, per un verso, permetterebbe di arginare il fenomeno dell'atipicità delle fonti secondarie e

della cd. “fuga dal regolamento”, con conseguente riconduzione dell'attività di normazione sub-legislativa entro gli

schemi regolamentari tipici di cui alla legge n. 400/1988, ma per altro verso, manterrebbe quasi univoco il legame

tra il potere esecutivo e la disciplina degli appalti pubblici, limitando fortemente lo spazio di operatività normativa

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dell'ANAC con riferimento alla disciplina di settore, escludendo quindi la possibilità di emanare linee guida cogenti

che non siano recepite in regolamenti ministeriali.

Il problema del rapporto tra le linee guida dell’ANAC e le competenze riservate a Regioni e Province

Autonome: l'eventualità di un giudizio di legittimità costituzionale.

Secondo l'interpretazione accolta dal Consiglio di Stato e tuttavia oggetto di numerose critiche in dottrina, le linee

guida vincolanti dell'ANAC non avrebbero valenza normativa, ma costituirebbero atti amministrativi generali

appartenenti al genus degli atti di regolazione delle Autorità amministrative indipendenti, sia pure connotati in

modo peculiare.

Gli atti di regolazione delle Autorità indipendenti si caratterizzano per il fatto che il principio di legalità assume una

valenza diversa rispetto ai normali provvedimenti amministrativi. La legge, infatti, in ragione dell’elevato tecnicismo

dell’ambito di intervento, si limita a definire lo scopo da perseguire lasciando un ampio potere (implicito) alle

Autorità di sviluppare le modalità di esercizio del potere stesso. Nella fattispecie in esame, la legge, invece, ha

definito in modo più preciso le condizioni e i presupposti per l’esercizio del potere, lasciando all’Autorità un

compito di sviluppo e integrazione del precetto primario nelle parti che afferiscono a un livello di puntualità e

dettaglio non compatibile con la caratterizzazione propria degli atti legislativi.

L’esercizio del potere in esame non rientra nel modello di amministrazione pubblica contemplato dalla

Costituzione e fondato sulla “concezione governativa”, che attribuisce agli organi politici le funzioni di indirizzo

politico-amministrativo e agli organi dirigenziali le funzioni gestionali di attuazione. La Costituzione, pur

prevedendo questo modello, non esclude quello fondato sulle Autorità indipendenti, che agiscono con poteri

neutrali di attuazione della legge e non anche degli atti generali di indirizzo politico.

La natura non regolamentare delle linee guida adottate direttamente dall’ANAC consentirebbe, inoltre, che la fase

di attuazione delle disposizioni del nuovo Codice dei contratti pubblici che rinviano a esse non incontri i limiti che il

sesto comma dell’art. 117 Cost. pone all’esercizio del potere regolamentare statale.

Tale classificazione delle linee guida come atti “di natura non regolamentare” risponde, infatti, all'esigenza dello

Stato di preservare sfere di competenza normativa erose dall'art. 117 Cost. in favore delle Regioni, sia sul fronte

della potestà normativa primaria sia sul fronte di quella regolamentare.

Ebbene il problema potrebbe porsi laddove con linee guida vincolanti l'ANAC disciplini un settore non rientrante

nella competenza esclusiva allo Stato, e quindi riservato alle Regioni o alle Province Autonome in via esclusiva.

In sostanza, le linee guida estendono la propria disciplina anche nelle materie di competenza regionale o

provinciale, derogando a queste ultime?

Oppure si deve ritenere che nelle materie di esclusiva competenza delle Regioni o delle Province Autonome

sussista un obbligo per l'ente locale di adeguare la propria disciplina alle direttive provenienti dall'ANAC?

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O al contrario si deve ritenere che nelle materie di competenza le Regioni e le Province Autonome le linee guida

vincolanti dell'ANAC possano intervenire dettando una disciplina autonoma?

Tale problema si pone se si accoglie la classificazione adottata dal Consiglio di Stato delle linee guida dell'ANAC

dotate di carattere vincolante quali atti delle Autorità Amministrative Indipendenti.

Se neghiamo a tali provvedimenti la qualifica di regolamenti, ne deriva come corollario l'inapplicabilità agli stessi

dell'art. 117, comma 6 della Costituzione che prevede un limite alla potestà regolamentare dello Stato nelle

materie non rientranti nella sua competenza esclusiva.

Art. 117, comma 6 Costituzione: “La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva,

salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le

Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle

funzioni loro attribuite”.

Laddove, invece, ritenessimo che esse costituiscano fonti di natura regolamentare, dovremmo ritenere che tali

linee guida seguano la disciplina dei regolamenti, incontrando gli stessi limiti di applicazione.

Tale problema rileva maggiormente nella materia dei lavori pubblici che è stata ricondotta dalla Corte

Costituzionale tra le “cd. materie trasversali”: “la mancata inclusione dei ‘lavori pubblici’ nell’elencazione dell’art. 117

Cost., diversamente da quanto sostenuto in numerosi ricorsi, non implica che essi siano oggetto di potestà legislativa

residuale delle Regioni. Al contrario, si tratta di ambiti di legislazione che non integrano una vera e propria materia, ma si

qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere ascritti di volta in volta a potestà

legislative esclusive dello Stato ovvero a potestà legislative concorrenti” (Corte Cost. sentenza n. 303 dd. 01.10.2003).

La presenza di categorie ascrivibili a “materie trasversali”, determinavano una linea di confine “mobile”, favorendo

dubbi interpretativi, anche perché “le materie statali trasversali, a parere della Corte, devono rispettare dei limiti e

osservare un contenuto che non le porti a comprimere in senso verticale le materie regionali, le quali ultime

conservano sempre i loro spazi di attuazione garantiti in Costituzione. La trasversalità non deve esaurire ed

esautorare del tutto la materia regionale che sia, caso per caso, da essa attraversata.”.

Quindi, si delinea un nuovo assetto, caratterizzato da un complicato intreccio di attribuzioni, così come sottolineato

dalla stessa Corte, che dichiarò “In tali ipotesi può parlarsi di concorrenza di competenze e non di competenza ripartita

o concorrente. Per la composizione di siffatte interferenze la Costituzione non prevede espressamente un criterio ed è

quindi necessaria l’adozione di principi diversi: quello di leale collaborazione, che per la sua elasticità consente di aver

riguardo alle peculiarità delle singole situazioni, ma anche quello della prevalenza, cui pure questa Corte ha fatto ricorso

(v. sentenza n. 370 del 2003), qualora appaia evidente l’appartenenza del nucleo essenziale di un complesso

normativo ad una materia piuttosto che ad altre”. (Corte Cost. sentenza n. 50 dd. 28.01.2005).

Principalmente, l’ambito dei contratti pubblici inerisce a “materie” di competenza legislativa esclusiva dello Stato,

quali la tutela della concorrenza e l’ordinamento civile (art. 117, II comma, lett. e) e l), Cost.).

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Orbene, il Giudice delle Leggi ha ribadito la trasversalità della materia dei contratti pubblici, il criterio della

prevalenza della disciplina statale su ogni altra fonte normativa, riferendo all’ambito di legislazione della tutela

della concorrenza tutte quelle attività che concernono la disciplina delle procedure di scelta del contraente e

all’ambito di legislazione dell’ordinamento civile tutte quelle attività di definizione ed esecuzione del rapporto

contrattuale (Corte Cost., sentenza 23.11.2007 n. 401).

Ma soprattutto ha precisato chiaramente che non appartengono alla materia di competenza primaria (“lavori

pubblici di interesse regionale”) le norme relative alle procedure di gara ed alla esecuzione del rapporto

contrattuale.

Alle Regioni, anche a quelle speciali quindi, non rimane che ricavare una possibilità di intervento in ambito di

contratti pubblici dai settori non inerenti a “materie” di competenza statale ovvero dai limiti della proporzionalità e

della ragionevolezza, i quali consentono di confinare seppur limitatamente l’intervento legislativo e regolamentare

dello Stato.

Le materie trasversali non escludono comunque la possibilità per le Regioni di intervenire sfruttando la potestà

legislativa loro attribuita negli ambiti di competenza residuale o concorrente, restando libere di fissare livelli di

tutela più elevati rispetto a quelli di carattere unitario definiti dallo Stato. Così, ad esempio, la potestà statale di

dettare norme per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali o di

tutelare l’ambiente, non esclude il concorso di leggi regionali che siano volte allo stesso fine.

In conformità con tale impostazione, l'art. 2 del D.Lgs. n. 50/2016 stabilisce:

“1. Le disposizioni contenute nel presente codice sono adottate nell'esercizio della competenza legislativa esclusiva

statale in materia di tutela della concorrenza, ordinamento civile, nonché nelle altre materie cui è riconducibile lo

specifico contratto.

2. Le Regioni a statuto ordinario esercitano le proprie funzioni nelle materie di competenza regionale ai sensi dell'articolo

117 della Costituzione.

3. Le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e di Bolzano adeguano la propria legislazione secondo le

disposizioni contenute negli statuti e nelle relative norme di attuazione”.

Per quanto riguarda più in particolare l'ambito provinciale, in forza dello Statuto Speciale di Autonomia del

Trentino Alto Adige, approvato con D.P.R. 31.08.1972 n. 670, le Province Autonome di Trento e Bolzano hanno

competenza di emanare norme legislative nella materia dei lavori pubblici di interesse provinciale, in armonia con

la Costituzione e i principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica e con il rispetto degli obblighi internazionali

e degli interessi nazionali - tra i quali è compreso quello della tutela delle minoranze linguistiche locali - nonché

delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica (art. 8, n. 17 Statuto di Autonomia

Trentino-Alto Adige).

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In questa materia lo Stato non potrebbe disporre per l'ambito locale ma solo fissare principi generali (di grande

riforma) vincolanti per il legislatore provinciale, il quale dovrebbe quindi adeguarvisi.

In attuazione di tale disposizione, la Provincia Autonoma di Trento si è adeguata alla nuova disciplina introdotta dal

D.Lgs. n. 50/2016 ed ha adottato la nuova legge provinciale sui lavori pubblici n. 2 dd. 09.03.2016 (“Recepimento

della direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull'aggiudicazione dei contratti

di concessione, e della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti

pubblici: disciplina delle procedure di appalto e di concessione di lavori, servizi e forniture e modificazioni della legge

provinciale sui lavori pubblici 1993 e della legge sui contratti e sui beni provinciali 1990. Modificazione della legge

provinciale sull'energia 2012”).

Ebbene l'art. 4 della L.P. n. 2/2016 prevede che “Per accrescere l'efficienza della spesa pubblica la Provincia promuove

l'uniforme applicazione della normativa provinciale in materia di contratti pubblici da parte delle amministrazioni

aggiudicatrici e degli altri soggetti che applicano tale normativa, anche attraverso l'osservatorio provinciale dei lavori

pubblici e delle concessioni previsto dall'articolo 10 della legge provinciale sui lavori pubblici 1993, e l'Agenzia provinciale

per gli appalti e i contratti, istituita dall'articolo 39 bis della legge provinciale 16 giugno 2006, n. 3 (Norme in materia di

governo dell'autonomia del Trentino). La Provincia, inoltre, esercita un ruolo di coordinamento tra le amministrazioni

aggiudicatrici, anche nei rapporti con l'Autorità nazionale anticorruzione (ANAC). La Provincia promuove la stipula di

convenzioni con l'ANAC per elaborare linee guida, anche dotate di efficacia vincolante, per l'interpretazione e

l'applicazione di questa legge, nel rispetto dei principi contenuti nelle linee guida e negli atti a valenza generale

approvati dall'ANAC. Le linee guida sono adottate con deliberazione della Giunta provinciale, previo parere della

competente commissione permanente del Consiglio provinciale. Queste deliberazioni sono sottoposte al parere del

Consiglio delle autonomie locali o a intesa, se ciò è necessario ai sensi dell'articolo 8, comma 5 bis, della legge provinciale

15 giugno 2005, n. 7 (legge provinciale sul Consiglio delle autonomie locali 2005)”.

Quindi, conformemente all'obbligo di adeguamento alla normativa nazionale, si prevede la possibilità per la

Provincia di elaborare proprie linee guida attuative della legge provinciale, sulla base di convenzioni adottata

d'intesa con l'ANAC, nel rispetto degli atti e delle linee guida adottati dall'Autorità.

Il problema che si prevede potrebbe sorgere riguarda i casi in cui le linee guida dell'ANAC intervengano su materie

già regolamentate a livello provinciale in maniera differente, generando un contrasto normativo.

Si pensi ad esempio a quanto previsto dall'art. 21 della L.P. n. 2/2016 circa la “Composizione delle commissioni

tecniche”, i cui componenti devono essere soggetti esterni alla stazione appaltante, selezionati sulla base di un

elenco telematico aperto di liberi professionisti, dipendenti pubblici e dipendenti delle amministrazioni, tranne i

Presidenti.

Diversamente le linee guida dell'ANAC sui “Criteri di scelta dei commissari di gara e di iscrizione degli esperti nell’Albo

nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici” (linee guida n. 5) stabiliscono che per la

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valutazione delle offerte dal punto di vista tecnico ed economico, quando il criterio di aggiudicazione è quello

dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la commissione giudicatrice debba esser composta da esperti iscritti

all'Albo, anche se appartenenti alla stazione appaltante che indice la gara.

Altro settore in cui potrebbe manifestarsi con frequenza il conflitto normativo, con invasione dei limiti di

competenza provinciale è quello della disciplina del responsabile unico del procedimento per l'affidamento di

appalti e concessioni, sul quale sono intervenute linee guida n. 3, o quelle, non ancora pubblicate in Gazzetta

ufficiale, sul direttore dell'esecuzione.

Potenzialmente, quindi, potrebbe avvenire che le linee guida citate intervengano su delle materie non riservate alla

competenza esclusiva dello Stato, violando il principio costituzionale di ripartizione delle competenze tra Stato -

Regioni e Province Autonome.

Se ritenessimo che gli atti delle Autorità Amministrative Indipendenti sfuggano alla disciplina di riparto delle

competenze, la conseguenza che ne deriverebbe sarebbe inevitabilmente quella di conferire ad un atto atipico,

non appartenente alla categoria dei regolamenti, il potere di invadere settori di materie che, per espressa

disposizione costituzionale, sono riservati alla competenza regionale e provinciale.

Una soluzione di questo genere porterebbe evidentemente dei grossi problemi di costituzionalità con riferimento

a tali provvedimenti.

È infatti difficilmente accettabile che un atto che sfugge alle garanzie costituzionali possa regolamentare

autonomamente materie riservate alle Regioni o alle Province Autonome o addirittura derogare alle stesse,

laddove la materia sia già coperta da una disciplina particolare.

E, come già osservato, a maggior ragione ciò si potrebbe verificare in presenza di categorie ascrivibili a “materie

trasversali”, come quella dei lavori pubblici, che determinano una linea di confine “mobile”, favorendo dubbi

interpretativi, anche perché le materie statali trasversali devono rispettare dei limiti e osservare un contenuto che

non le porti a comprimere in senso verticale le materie regionali e provinciali, le quali ultime conservano sempre i

loro spazi di attuazione garantiti in Costituzione. La trasversalità, infatti, non deve esaurire ed esautorare del tutto

la materia regionale e provinciale che sia, caso per caso, da essa attraversata.

Ciò rileva in particolare in un periodo come quello attuale di forte rafforzamento dell'autonomia provinciale del

Trentino Alto Adige.

Al riguardo infatti è opportuno evidenziare che lo scorso 1° febbraio è stata approvato dalla Commissione dei

Dodici (commissione paritetica composta da 12 membri, competente per l'approvazione delle norme di attuazione

dello Statuto Speciale) uno schema di norma di attuazione in materia di contratti pubblici.

Il testo del predetto schema recita all'art. 1: “1. Le Province autonome di Trento e Bolzano disciplinano con legge

provinciale, nel rispetto della normativa dell'Unione europea e e delle norme legislative fondamentali di riforma

economico-sociale, ivi comprese quelle che stabiliscono i livelli minimi di regolazione richiesti dal diritto

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comunitario degli appalti e delle concessioni, le procedure di aggiudicazione e i contratti pubblici, compresa la fase

della loro esecuzione, relativi a lavori, servizi e forniture ai sensi dell'articolo 8, comma 1, numeri 1) e 17) del decreto del

Presidente della Repubblica 31 agosto 1972 n. 670, attenendosi al predetto principio di cui all'art. 32, comma 1, lettera c),

della legge 24 dicembre 2012, n. 234. 2. Con la legge di cui al comma 1 e nel rispetto degli stessi limiti ivi previsti, possono

essere previsti interventi atti ad agevolare la partecipazione agli appalti pubblici delle piccole e medie imprese (PMI), in

quanto importanti fonti di competenze imprenditoriali, d'innovazione e di occupazione”.

Lo schema di decreto legislativo è stato trasmesso al Consiglio dei Ministri per l'approvazione finale, a seguito della

quale si prevede che le Province Autonome di Trento e Bolzano potranno esercitare pienamente le proprie

competenze settoriali in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture potendone disciplinare le

procedure di aggiudicazione e la fase di esecuzione.

A seguito di questa importante innovazione, inevitabile sarà il confronto-scontro con l'ulteriore novità

rappresentata a livello nazionale delle linee guida, che potrebbero spingersi a regolamentare in settori che la

Provincia Autonoma rivendica come di propria competenza.

Un modo in cui lo Stato presumibilmente tenterà di salvaguardare la propria competenza nell'ambito delle linee

guida di volta in volta emanate dall'ANAC potrebbe essere quello di richiamare materie di propria competenza

esclusiva ex art. 117, comma 2, quali quelle della tutela della concorrenza e dell’ordinamento civile, sfruttando la

delimitazione incerta dei confini di una materia trasversale come quella degli appalti pubblici.

Essendo quello delle linee guida dell'ANAC un fenomeno molto recente, la Consulta non ha ancora avuto modo di

pronunciarsi sulla legittimità costituzionale delle stesse per contrasto con l'art. 117 comma 6 della Costituzione, ma

si prevede che nel prossimo futuro la Corte Costituzionale sarà chiamata ad esprimersi su tale problematica.

Al riguardo può essere utile ricordare quanto a suo tempo aveva statuito la Corte Costituzionale con la sentenza

n. 482 dd. 07.11.1995 proprio con riferimento all'allora neocostituita Autorità per la Vigilanza sui lavori pubblici. A

fronte di una nutrita serie di ricorsi promossi da parte di molte regioni che contestavano la legittimità delle norme

che istituivano l'Autorità e ne delimitavano le competenze, la Corte Costituzionale dichiarò la piena costituzionalità

delle stesse sulla base della considerazione fondamentale secondo cui le attribuzioni riconosciute all'Autorità non

sostituivano né surrogavano alcuna competenza di amministrazione attiva o di controllo, esprimendo piuttosto

una funzione di garanzia e di vigilanza del settore.

In sostanza, le censure di illegittimità costituzionale furono respinte proprio mettendo l'accento sul fatto che gli atti

dell'Autorità non sostituivano le scelte dei committenti né interferivano in alcun modo con compiti e le attribuzioni

di amministrazione attiva, che venivano lasciati nella piena discrezionalità degli enti appaltanti.

Per analogia risulta utile analizzare l'atteggiamento assunto dalla giurisprudenza costituzionale che ha preso

posizione sulla conformità a Costituzione di alcuni provvedimenti che si inseriscono nel medesimo fenomeno di

fuga dal regolamento, di cui, come visto, sono espressione anche le linee guida emanate dall'ANAC: si tratta, in

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particolare, di decreti ministeriali e del Presidente del Consiglio dei ministri espressamente qualificati dalla legge

come “di natura non regolamentare” o “a contenuto non regolamentare”, cui il Governo affida, con sempre maggiore

frequenza, la disciplina di alcune materie con valenza normativa (Cfr. Corte cost. nn. 255/2004, 287/2004,

307/2004, 31/2005, 35/2005, 116/2006, 165/2007, 202/2007, 133/2008, 15/2010).

Quanto ai giudizi in via principale, la Corte ha riconosciuto la legittimità costituzionale delle norme che rinviavano a

tali tipologie di provvedimenti, ove nella materia fosse possibile rinvenire una qualche competenza statale (Cfr.

Corte Cost., Sentenze nn. 376/2003, 14/2004, 225/2004, 287/2004, 307/2004, 31/2005, 35/2005, 285/2005,

202/2007, 133/2008, 232/2009, 233/2009, 246/2009, 247/2009, 10/2010, 15/2010, 226/2010, 278/2010), mentre in

pochi casi ha invece dichiarato l’illegittimità costituzionale di analoghe norme in assenza di competenza statale

(Corte Cost., sentenze nn. 12/04, 116/06, 94/07, 133/10).

In qualche caso la Corte ha riconosciuto l’illegittimità della norma che rinviava a siffatti decreti nella parte in cui

non si prevedeva l’intesa o il parere della Conferenza Stato-Regioni prima della loro adozione (Corte Cost.,

sentenze nn. 165/2007 e 51/2008).

Analogamente nei conflitti di attribuzione, la Consulta ha riconosciuto come spettasse allo Stato adottare il decreto

in esame in presenza di una qualche competenza statale (Corte cost., sentenza n. 196/2009); e come non spettasse

a questo farlo in assenza di quest’ultima (Corte Cost., sentenze nn. 328/2006, 274/2010) o comunque senza le

procedure di leale collaborazione (Corte Cost., sentenza n. 88/2003).

Dalla giurisprudenza costituzionale sembra dunque emergere una sostanziale indifferenza della Corte

Costituzionale verso la natura normativa o provvedimentale di tali atti, ma essa risulta esclusivamente proiettata

sull’esclusivo profilo della ricerca di una qualche competenza statale o regionale, sia essa riconducibile all’art. 117 o

all’art. 118 Cost., nella materia che viene in rilievo nel caso concreto, a prescindere dunque dalla natura

dell’intervento stesso, se cioè normativo o provvedimentale.

Da un lato, infatti, ciò che viene indirettamente o direttamente in rilievo nei giudizi in questione è proprio la sfera

costituzionale di competenze attribuite alle Regioni. Dall’altro, sono spesso le stesse Regioni ricorrenti a

prospettare la natura dei decreti all’esame, invocando contemporaneamente con riguardo alle fattispecie concrete

il parametro di cui all’art. 117, sesto comma, Cost. assieme a quello di cui all’art. 118 Cost., nonché il principio di

leale collaborazione (ad es. Corte Cost. n. 12/2004 dove la Regione ricorrente afferma che la disposizione che rinvia

ad un D.M. incorrerebbe “nella lesione del riparto della potestà regolamentare delineato nell’articolo 117, sesto comma,

della Costituzione. Ove poi si ritenesse che la funzione affidata al Ministro abbia natura non regolamentare, sarebbe

comunque violato l’articolo 118 della Costituzione, e i principî di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione in esso

affermati”).

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La natura normativa o amministrativa del decreto sembra cioè rilevare fino ad un certo punto nell’ottica delle

Regioni: ad apparire preminenti sono piuttosto il profilo della competenza od incompetenza della legge statale ad

intervenire in una data materia e quello del proprio coinvolgimento in vista dell’adozione dell’atto.

Non è un caso d’altronde che una delle sentenze nelle quali la Corte si è soffermata ad argomentare in modo

approfondito le ragioni del riconoscimento della natura normativa o provvedimentale in capo ad un D.M. (la sent.

n. 115/2011), sia stata resa in un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale (diverso dunque dal giudizio

in via principale e dal conflitto di attribuzione tra enti) e con riferimento al parametro costituzionale della riserva di

legge ex art. 23 Cost. (diverso dunque dal parametro costituito dalla sfera costituzionale di competenze attribuite

alle Regioni).

In definitiva l’orientamento che sembra emergere da tali sentenze è costituito dal fatto che la Corte Costituzionale

tenda a minimizzare il problema dell’identità delle fonti normative, che vengono di volta in volta in rilievo nei

giudizi costituzionali: la Corte sembra infatti talmente assorbita nella risoluzione di problemi di competenza fra i

diversi livelli di governo, nella ricerca di equilibri e nella concreta indicazione di relazioni improntate alla leale

collaborazione, da sorvolare sulla questione squisitamente giuridica dei rapporti oggettivi tra le fonti, specie ove

chiamata a pronunciarsi sulla attrazione in sussidiarietà ex art. 118 Cost.

A conferma di ciò si veda anche l'atteggiamento del Consiglio di Stato, in sede consultiva, chiamato a pronunciarsi

su schemi di regolamento statale in materie ai confini della competenza regionale concorrente, che tenta di

superare le obiezioni di incostituzionalità per violazione dell'art. 117 comma 6 Cost., nelle “cd. materie-non materie”

o “materie trasversali”, facendo leva sull'elasticità del limite delle materie invocato a sostegno della potestà

regolamentare dello Stato: in particolare la il potere regolamentare dello Stato viene radicato nella determinazione

dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, nella tutela dell'ambiente e nella tutela della

concorrenza.

In sostanza, si è assistito ad un accentuarsi della flessibilità di giudizio in materia di riparto di competenze

normative, in nome della tutela dell'unità dell'ordinamento giuridico e dell'esercizio unitario della funzione

amministrativa.

Emerge quindi che, attraverso le linee guida, viene conferito allo Stato un nuovo strumento per ovviare al limite

delle competenze costituzionalmente delimitate, evitando di porre in essere regolamenti, ma affidando atti

formalmente provvedimentali, adottati da un'Autorità diversa dal Governo, la produzione di effetti

sostanzialmente normativi.

Attraverso l’uso di provvedimenti “di natura non regolamentare” non solo si produce la violazione dell’art. 17 della l.

n. 400 del 1988, non solo si determina un vulnus dei limiti costituzionali delle competenze dello Stato, ma si

determina anche una torsione in senso antidemocratico nella produzione del diritto.

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La ragione della scarsa percezione della pericolosità di tali atti consiste nella natura fondamentalmente occulta

della violazione del sistema da essi perseguita e nella fraus constitutioni ad essi sottesa.

Il problema, infatti, posto da detti atti, non consiste tanto nell’impossibilità dogmatica che la legge rinvii ad atti

provvedimentali “di natura non regolamentare” per l’attuazione o per la specificazione di elementi tecnici,

presupposti dalla normativa primaria, ma il problema sorge quando al provvedimento amministrativo si intendono

connettere effetti normativi.

Infatti, la conformazione precettiva di diritti e libertà o l'introduzione di obblighi o doveri, risolvendosi in un'attività

normativa, può essere prodotta soltanto da decisioni politiche e, cioè, da autorità alle quali la Costituzione

riconosce la rappresentatività della collettività e, quindi, solo al Parlamento e al Governo.

Pertanto, deve essere esclusa la titolarità della legittimazione a produrre norme di diritto in capo ad autorità del

tutto sprovviste di quella legittimazione democratica, che fonda il potere di limitare la sfera giuridica dei consociati,

garantendo ad un Autorità diversa dal Governo, non democraticamente legittimata a limitare la sfera giuridica dei

consociati .

Un'eccezione in tal senso è costituita dalle Autorità Amministrative Indipendenti nella misura in cui sono

istituzionalmente incaricate a dettare regole solo tecniche e settoriali.

È evidente che laddove l'ANAC verrà chiamata ad adottare con lo strumento delle linee guida il sistema di

qualificazione delle imprese, i requisiti di partecipazione alle procedure ed il regime delle SOA, in attuazione degli

artt. 83 e 84 del Codice, tali provvedimenti rivestiranno una portata normativa particolarmente pregnante, nella

misura in cui finirà per limitare o comunque condizionare l'accesso al mercato degli appalti pubblici e, in ultima

analisi, lo stesso esercizio della libertà di impresa.

Un atto preordinato a produrre effetti di conformazione dell'attività economica dei soggetti privati non può che

restare affidato alla responsabilità politica di un'autorità legittimata democraticamente ad intervenire sul

contenuto dei diritti e degli obblighi dei cittadini.

Pertanto, risulta decisamente problematica la compatibilità col nostro sistema costituzionale delle fonti e della

rappresentatività istituzionale l'affidamento (ancorchè per legge) ad un'autorità priva di legittimazione democratica

del compito di limitare la sfera di libertà dei consociati per mezzo dell'adozione di un atto atipico e asistematico.

La sentenza 12 luglio 2013 n. 187 della Corte Costituzionale in materiale di bandi-tipo

Sempre in tema di rapporti fra competenze dello Stato e delle Province Autonome, appare utile l’analisi della

sentenza 12 luglio 2013 n. 187, con la Corte Costituzionale ha analizzato fra l'altro, la questione della legittimità

della adozione da parte degli enti territoriali ad autonomia differenziata di schemi-tipo di bandi, di inviti a

presentare offerte e di altri atti necessari per svolgere le procedure di scelta del contraente in materia di contatti

pubblici.

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Più precisamente, la questione sottoposta alla Corte concerne la corretta individuazione dei limiti della

competenza legislativa provinciale di rango primario in materia di lavori pubblici nonchè la riconducibilità della

normativa sui bandi-tipo alla più ampia e trasversale materia della tutela della concorrenza, materia attribuita alla

competenza legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell'art. 117 della Costituzione.

Secondo il Presidente del Consiglio dei Ministri ricorrente l’art. 16, comma 1, lettere a) della L.P. n. 18/2012, che ha

introdotto il comma 3bis nell’art. 30 della L.P. n. 26/1993 sui lavori pubblici, atribuendo la competenza nella

predisposizione di bandi-tipo alla Giunta Provinciale, violerebbe l’art. 117, comma 2, lett. e) e l) della Costituzione,

in quanto lesiva delle prerogative esclusive del legislatore statale a dettare regole rispondenti ad esigenze unitarie,

valevoli su tutto il territorio nazionale, circa la disciplina dei lavori pubblici.

Al riguardo, infatti, l'art. 117, comma 2, lettere e) e l) della Costituzione attribuisce alla Stato potestà legislativa

esclusiva nelle materie, tra le altre, della tutela della concorrenza, della giustizia amministrativa e dell'ordinamento

civile.

Tale articolo, dunque, costituisce il parametro rispetto al quale valutare la compatibilità della norma censurata. In

modo particolare, va rammentato che nel giudizio di legittimità le fonti normative non contenute in norme di rango

costituzionale che trovano, però, copertura negli articoli della Costituzione, in quanto espressione diretta dei

principi in essi contenuti, vengono utilizzate come limite interposto (o indiretto) per le fonti di livello primario.

Integrano, dunque il parametro normativo in base al quale viene espresso il giudizio della Corte.

In applicazione di tale norma, nella sentenza n. 187/2013, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art.

16, comma 1, lettera a), della legge della Provincia Autonoma di Trento n. 18 del 2012 nella parte in cui prevede

che la Giunta provinciale, previo parere del Consiglio delle Autonomie Locali, possa adottare schemi-tipo di bandi,

di inviti a presentare offerte e di altri atti necessari per svolgere le procedure di scelta del contraente.

I giudici costituzionali hanno ritenuto tale norma in contrasto con la previsione (norma interposta) dell'art. 64,

comma 4 bis, del D. Lgs. n. 163/2006 - comma aggiunto dall'art. 4, comma2, lettera h) del Decreto legge 13 maggio

2011, n. 70, convertito dalla l. 106/2011 - che attribuisce all'Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici di lavori,

servizi e forniture il compito di approvare i bandi-tipo, previo parere del Ministero delle Infrastrutture e dei

Trasporti e sentite le categorie professionali.

La Corte, in particolare, ha, in via preliminare, ribadito il principio secondo cui in presenza di una specifica

attribuzione statutaria della materia dei “lavori pubblici di interesse provinciale” trova applicazione, non

contemplando il titolo V della parte II della Costituzione la materia generale dei lavori pubblici, la specifica

previsione in quanto norma di maggior favore per l'ente dotato di autonomia speciale. Tuttavia, secondo la

ricostruzione della Consulta, “la legislazione regionale o provinciale degli enti dotati di autonomia particolare non è

libera di esplicarsi senza vincoli, atteso che gli stessi statuti speciali prevedono limiti che si applicano anche alle

competenze legislative primarie”.

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A tal proposito la competenza della Provincia Autonoma di Trento nell’ambito dei lavori pubblici di interesse

regionale è delimitata innanzitutto dall'art. 4 dello Statuto di autonomia del Trentino Alto-Adige/SudTirol, il quale

annovera, tra gli altri, il limite del rispetto dei “principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica”, degli “obblighi

internazionali” e delle “norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica”.

In questa prospettiva, vengono sicuramente in rilievo i limiti derivanti dalla tutela della concorrenza e dunque delle

disposizioni contenute nel Codice dei Contratti Pubblici che costituiscono diretta attuazione delle norme

comunitarie.

Il D.lgs. n. 163/2006, infatti, è rilevante sia in quanto può essere considerato espressione di riforma economico-

sociale, sia in quanto disciplinante profili che rientrano nelle materie della tutela della concorrenza e

dell'ordinamento civile di competenze legislativa statale. Ciò significa che, in tale ambito, il legislatore provinciale,

ancorchè ad autonomia speciale, non può alterare negativamente il livello di tutela assicurato dalla normativa

statale.

La Consulta ha definito il Bando-tipo, anche alla luce della determinazione n. 4 del 10.10.2012 dell'Autorità per la

Vigilanza sui Contratti Pubblici, come il '”quadro giuridico di riferimento sulla base del quale le stazioni appaltanti sono

tenute a redigere la documentazione di gara''.

In altri termini, il Bando-tipo costituisce il principale parametro di recepimento e di specificazione di tutti i requisiti

richieste dal Codice dei Contratti Pubblici in relazione alle diverse fasi della procedura di scelta del contraente e

dunque, un modello a cui le diverse stazioni appaltanti devono necessariamente adeguarsi ai fini della

realizzazione di un mercato il più possibile concorrenziale. Proprio in virtù di tale funzione di garanzia il legislatore

statale ha attribuito ad una autorità nazionale ed indipendente quale l'AVCP la predisposizione ed approvazione di

tali schemi (art. 64, comma 4-bis, del Codice succitato).

Ne consegue, dunque, la preclusione per il legislatore provinciale, ancorchè dotato di autonomia speciale, di

intervenire in un ambito quale quello della tutela della concorrenza di diretta derivazione comunitaria e di

competenza esclusivamente statale. Nessun margine discrezionale di intervento può, infatti, essere riservato agli

organi statutari dei diversi enti territoriali poiché ciò non risponderebbe alle esigenze unitarie sottese all'obbligo di

adeguamento ai bandi-tipo delle stazioni appaltanti. Il legislatore provinciale risulta, dunque, privo del potere di

intervento in tale materia.

Sulla base di tali considerazioni, e soffermandosi sulla fattispecie sottoposta all'attenzione, la Corte ha quindi

dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 16, comma 1, lettera a), della legge della Provincia Autonoma di Trento n.

18/2012 nella parte in cui attribuiva alla Giunta Provinciale, previo parere del Consiglio delle Autonomie Locali,

anche se limitatamente alla materia dei lavori pubblici di interesse provinciale, un autonomo potere discrezionale

di adozione di schemi di bando-tipo.

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Tale previsione, secondo la Corte, è, infatti, confliggente con l'esigenza unitaria di tutela generalizzata della

concorrenza del mercato che sottende il disposto dell'art. 64 del Codice dei Contratti.

L’analisi di questa pronuncia emerge, allo stato attuale, la Corte tenda a salvaguardare la competenza statale nella

materia dei lavori pubblici in capo allo Stato, ritenendola espressione dei principi di tutela della concorrenza e

dell’ordinamento civile, esclusivamente attribuiti allo Stato dalla Costituzione, di cui è espressione la normativa

statale in materia di lavori pubblici.

In questa come in altre pronunce, la Corte Costituzionale ha posto l’accento sul fatto che la competenza della

Provincia Autonoma di Trento nell’ambito dei lavori pubblici è perimetrata innanzitutto dall’art. 4 dello Statuto , che

annovera, tra gli altri, il limite del rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica, che include

anche i principi dell’ordinamento civile (cfr. Corte Cost., sentenza n. 74 dd. 30.03.2012).

La Provincia Autonoma di Trento, quindi, nel dettare norme in materia di lavori pubblici di interesse provinciale,

pur esercitando una competenza primaria specificamente attribuita dallo Statuto di Autonomia, non di meno deve

rispettare, “con riferimento soprattutto alla fase del procedimento amministrativo di evidenza pubblica, i principi della

tutela della concorrenza strumentali ad assicurare le libertà comunitarie e dunque le disposizioni contenute nel Codice

degli appalti che costituiscono diretta attuazione delle prescrizioni poste a livello europeo” (Corte Costituzionale,

sentenza n. 45 dd. 12.02.2010).

L'eventualità di un controllo mediante conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato

Una delle soluzioni prospettata per risolvere il problema dell’invasione del campo di competenze riservate a

Regioni e Province Autonome è quella di un eventuale controllo mediante conflitto di attribuzioni tra poteri dello

Stato e, nello specifico, tra ANAC e Regioni o Province Autonome.

Al riguardo, sorge tuttavia il problema di stabilire se sia possibile configurare la partecipazione di un’Autorità

Amministrativa Indipendente, quale è appunto l’ANAC, a questa forma di conflitto e, di conseguenza, se sia

possibile qualificare l’Autorità quale “potere dello Stato”.

Dagli anni Novanta si è assistito ad una grande proliferazione delle Autorità Amministrative Indipendenti, tutte

accomunate dall’indipendenza dal Governo ma sono caratterizzate da poteri e funzioni differenti.

Possono, infatti, avere poteri normativi, di controllo (si pensi alla Consob), giustiziali o funzioni di garanzia di libertà

e diritti costituzionali (quali, la concorrenza, il pluralismo dell’informazione, la privacy, la tutela del risparmio).

Considerando l’ampiezza delle competenze e dei poteri delle Autorità amministrative indipendenti, non è

improbabile che le Autorità, nell’esercizio delle loro funzioni, entrino in conflitto con il Governo o il Parlamento.

La dottrina si è interrogata sulla natura giuridica e sul ruolo nell’ordinamento costituzionale delle Autorità

Indipendenti: all’interpretazione di coloro hanno sostenuto che potrebbero avere una natura giurisdizionale, data

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la loro indipendenza e la garanzia del diritto di difesa e del contraddittorio che è assicurato nei procedimenti che si

instaurano davanti agli stessi, si è obiettato che riconoscere la natura giurisdizionale delle Autorità in questione

significherebbe anche affermarne l’incostituzionalità per l’operare del divieto di istituire giudici speciali previsto

dall’art. 102, comma 2, Cost.

C’è poi chi ha invece sostenuto che le Autorità indipendenti siano annoverabili tra gli organi di garanzia, accanto

alla Corte costituzionale e al Presidente della Repubblica, e ha proposto di prevederle di istituirle con legge

costituzionale.

L'orientamento maggioritario ritiene, comunque, che le Autorità indipendenti abbiano natura amministrativa,

essendo preposte alla cura di interessi pubblici, da raggiungere attraverso l’esercizio di potestà discrezionali

secondo lo schema tipico dell’attività amministrativa.

Un’altra opinione dottrinale mette in luce il fatto che molte Autorità esercitano poteri serventi rispetto agli organi

parlamentari e ne fa derivare la spettanza alle Camere della legittimazione attiva e passiva negli eventuali conflitti;

anche in questo caso si finisce per negare un’autonomia funzionale e strutturale alle Autorità indipendenti e, in

ogni caso, è stato sottolineato che il Parlamento non dispone né di un potere di rimozione del Garante né di un

potere di controllo o di riesame sui suoi atti.

Il vero problema che involge le Autorità Indipendenti è il rapporto che intercorre tra indipendenza e responsabilità,

sulla cui natura incide prevalentemente l’individuazione dell’esatta collocazione istituzionale di tali organismi.

Sussiste il problema di stabilire a chi rispondono queste Autorità e le soluzioni prospettabili sono due: da una

parte, quella di un controllo “diffuso” sulle Autorità indipendenti, esercitabile da diverse istituzioni e con diversi

strumenti, nessuno dei quali però totalizzante; dall’altra, invece, un controllo pervasivo da parte della Magistratura

e della Corte dei Conti, opzione questa verso cui sembra si stia avviando, non senza difficoltà, il sistema italiano.

La legittimazione delle Autorità indipendenti a partecipare ai conflitti d’attribuzione rappresenterebbe un efficace

strumento, tra i tanti possibili, di un “controllo diffuso”, per contemperare la responsabilità con l’indipendenza.

L’art. 134 della Costituzione, infatti, assegna alla Corte Costituzionale il compito di giudicare “sui conflitti

d’attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni”: l’assoggettamento

delle Authorities a tali giudizi di accertamento sicuramente non ne minerebbe l’autonomia, avendo come arbitro

un’istituzione super partes quale la Consulta.

La legge 11.03.1953, n. 87, nell’attuare il dettato costituzionale in materia di conflitto tra poteri dello

Stato, sancisce all’art. 37 che, “ferme le norme vigenti per le questioni di giurisdizione”, esso “è risolto dalla Corte

costituzionale se insorge tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono e per

la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali”.

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In esito a tale accertamento, secondo l’art. 38 della medesima legge, la Consulta “risolve il conflitto sottoposto al suo

esame dichiarando il potere al quale spettano le attribuzioni in contestazione e, ove sia stato emanato un atto viziato da

incompetenza, lo annulla”.

Sul piano dell’utilità del riconoscimento agli organismi in questione della capacità processuale ad essere parte dei

conflitti di attribuzione, viceversa, rilievo assume la modifica del Titolo V della Costituzione, operata con legge

costituzionale 18.10.2001 n. 3.

La modificazione in senso federalista dell’assetto istituzionale dell’ordinamento (con la generalità-residualità delle

materie di competenza esclusiva della legislazione regionale e con l’incremento delle materie di competenza

concorrente o bipartita) ha determinato, infatti, un’inflazione di ricorsi per conflitti d’attribuzione tra Stato e

Regioni, attesa anche l’ambiguità di talune previsioni di ascrizione di poteri e la presenza di materie-scopo,

trasversali ad altre.

Tale rivoluzione potrebbe determinare sconvolgimenti istituzionali altresì per le Autorità indipendenti.

Talune Authorities (tra le quali l’ANAC) sono destinate a coabitare in determinati settori con il potere amministrativo

ed altresì normativo di ogni singola Regione e Provincia Autonoma, esponendosi in tal modo all’incremento di

potenziali, reciproche invasioni di campo. Invasioni suscettibili di un vertiginoso aumento allorché maturerà la

consapevolezza delle proprie potestà, e con essa le rivendicazioni, da parte dei singoli enti locali.

La giurisprudenza costituzionale, almeno fino ad oggi, ha negato la natura di poteri dello Stato e, quindi, la

legittimazione a proporre e resistere nei conflitti di attribuzione alle Autorità Amministrative Indipendenti e, in

particolare, al Garante per la radiodiffusione e l’editoria e all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.

Con l'ordinanza n. 118 del 07.04.1995, la Consulta decise nel senso dell’inammissibilità del conflitto di attribuzioni

proposto dal comitato dei promotori e presentatori di alcuni referendum contro il Garante per la radiodiffusione e

l’editoria.

La Consulta motivò l’inammissibilità con la carenza del requisito oggettivo necessario per decidere sui conflitti

d’attribuzione “stante la palese inidoneità dell'atto in relazione al quale il conflitto viene sollevato (...) a ledere la sfera di

attribuzioni dei ricorrenti”.

In pratica, la Corte ritenne che il provvedimento del Garante del 22 marzo 1995 non incidesse lesivamente nella

sfera di attribuzioni costituzionalmente riconosciuta ai ricorrenti, senza nulla statuire circa il profilo soggettivo e,

dunque, secondo la dottrina, postulando implicitamente la legittimazione passiva dell’Autorità indipendente.

Di diverso profilo, invece, è stata l’ordinanza con cui la Corte Costituzionale, dopo meno di due mesi ed in una

questione analoga sollevata dai promotori e presentatori di referendum, ha dichiarato l’inammissibilità di un altro

conflitto d’attribuzione proposto contro il Garante per la radiodiffusione e l’editoria.

In questo caso, infatti, la Consulta ha negato la sussistenza dei requisiti soggettivi atti a legittimare passivamente il

Garante, tacendo viceversa sulla condizione oggettiva della lesività di una sfera di competenze costituzionalmente

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garantita: un’inversione dell’ordine decisorio rispetto alla precedente ordinanza che ha determinato legittime

critiche da parte della dottrina e che è sintomo dell’inquietudine connessa ad una tale presa di posizione.

In particolare, con l’ordinanza n. 226 dd. 02.06.1995, la Consulta ha negato la suscettibilità dell’Autorità

indipendente ad essere parte di un conflitto di attribuzioni, in quanto “le attribuzioni del Garante disciplinate dalla

legge ordinaria (...) non assumono uno specifico rilievo costituzionale né sono tali da giustificare − nonostante la

particolare posizione di indipendenza riservata all'organo nell'ordinamento – il riferimento all'organo stesso della

competenza a dichiarare in via definitiva la volontà di uno dei poteri dello Stato”.

Ben cinque anni dopo, nell’ordinanza n. 137 dd. 12.05.2000, la Consulta ha negato con formule assolutamente

identiche la legittimazione passiva per i conflitti d’attribuzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che

frattanto, con la l. 249/1997, aveva assunto tra gli altri i poteri precedentemente esercitatati dal Garante per la

radiodiffusione e l’editoria.

La Consulta, in effetti, si è attenuta fedelmente al suo dictum del 1995, dimostrando così di assumere un

orientamento consolidato nel senso della preclusione alle Autorità dell’utilizzo di tale strumento.

“E’ inammissibile - si legge nell’ordinanza della Corte -…il conflitto (…) promosso nei confronti dell’Autorità per le

garanzie nelle comunicazioni, per carenza del requisito soggettivo di quest’ultima, in quanto essa, benché goda di una

posizione di particolare indipendenza nei confronti dell’ordinamento, esercita attribuzioni disciplinate dalla legge

ordinaria, prive - al pari di quelle svolte dal preesistente Garante per la radiodiffusione e l’editoria, al quale è succeduta -

di uno specifico rilievo costituzionale e, quindi, non idonee a fondare le competenze della medesima a dichiarare

definitivamente la volontà di uno dei poteri dello Stato”.

Si è osservato che l’aspetto più debole della posizione della Corte è l’aver negato la qualità di potere dello Stato ai

due Garanti sulla base della disciplina di legge ordinaria delle attribuzioni dei due organi, quando, invece, in altre

occasioni, è stata riconosciuta la natura di potere dello Stato e di organo competente a dichiarare in modo

definitivo la volontà di un potere ad altri organi (si pensi al Comitato promotore dei referendum abrogativi, ritenuti

“organo” del potere rappresentato dal corpo elettorale, all’Ufficio centrale presso la Corte di Cassazione,

considerato potere-organo, al magistrato di sorveglianza), i quali non sono espressamente previsti in Costituzione,

ma trovano il loro fondamento in leggi ordinarie.

Tale fondamento potrebbe essere riconosciuto nel valore costituzionale che il legislatore ha voluto tutelare con

l’istituzione di alcune Autorità, ma anche nell’art. 11 Cost. dal momento che le leggi istitutive di molte Autorità

spesso costituiscono attuazione del diritto comunitario.

Con l’ordinanza n. 378 del 2002, la Corte si è trovata a decidere su tre ricorsi, antecedenti alla riforma del Titolo V,

proposti dalla Provincia autonoma di Trento contro l’Autorità per la garanzia nelle comunicazioni.

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La decisione nasce a seguito dell’impugnazione da parte provinciale di tre delibere dell’Autorità per le garanzie

nelle comunicazioni, concernenti l’approvazione del “Piano nazionale di assegnazione delle frequenze per la

radiodiffusione televisiva” e sue successive integrazioni.

La Provincia ricorrente contestava che tali atti avessero violato le procedure di intesa previste dall’art. 2, comma 6,

della legge n. 249/1997 e dall’art. 1, comma 3, della successiva legge n. 122/1998.

Si trattava, in tutta evidenza, di un’ipotesi rientrante in quell’area di virtuale sovrapposizione tra funzioni regionali e

funzioni delle Autorità indipendenti.

In tal caso, la Provincia non aveva proposto il conflitto inerente a tali provvedimenti dell’Autorità indipendente non

già contro la medesima Autorità, bensì nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri: la Corte

Costituzionale, tuttavia, non si è espressa né sul merito della questione, né sulla corretta individuazione del

legittimato passivo, essendo intercorsi frattanto contatti tra le due parti contendenti ed essendo stata raggiunta

per “via politica” un’intesa con l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, perfezionatasi con una variazione

della deliberazione avente ad oggetto il piano nazionale di assegnazione delle frequenze, ed ha di conseguenza

rinunciato al ricorso.

È opportuno comunque interrogarsi su quali sarebbero state le possibili posizioni che il Giudice dei conflitti

avrebbe assunto se fosse entrato nel merito.

In primo luogo, la Corte, seguendo l’orientamento espresso con riguardo ai precedenti conflitti interorganici

sollevati contro gli atti del Garante per la radiodiffusione e l’editoria e dell’AGCOM, avrebbe potuto dichiarare il

ricorso manifestamente inammissibile, ritenendo che la lamentata violazione dell’intesa fosse di competenza del

giudice amministrativo dato il tono non costituzionale del conflitto.

Nel dichiarare il conflitto manifestamente inammissibile avrebbe potuto basarsi sulle discutibili ragioni avanzate

dall’Avvocatura dello Stato che aveva sostenuto che il ricorso era inammissibile “in quanto concernenti atti

dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, la quale rientrerebbe tra quelle autorità amministrative indipendenti i

cui atti non possono essere imputati al Governo, e che non potrebbe neppure essere considerata organo costituzionale

dotato di legittimazione passiva in un conflitto costituzionale di attribuzioni”.

Inoltre, secondo la difesa erariale, il conflitto sarebbe stato inammissibile anche perché le delibere adottate

dall’Autorità avrebbero rispettato le competenze costituzionalmente garantite della Provincia e, quindi, “con il

ricorso non si lamenterebbe l'avvenuta rottura dell'equilibrio tra interessi provinciali e statali, ma soltanto il cattivo uso

del potere riconosciuto allo Stato, ciò che potrebbe eventualmente essere fatto valere di fronte al giudice amministrativo”.

In questo modo la Corte avrebbe potuto evitare di pronunciarsi sul problema della collocazione nel giudizio

costituzionale dell’Autorità per la garanzia nelle comunicazioni.

In realtà, sarebbe stata difficilmente sostenibile la mancanza del cd. tono costituzionale del conflitto in esame,

essendo gli atti impugnati del tutto idonei a ledere la sfera di competenza spettante alla Provincia.

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Quindi, si potrebbe ritenere che la Corte avrebbe potuto entrare nel merito delle doglianze della Provincia, ma

questo avrebbe portato ad un duplice paradosso.

In primo luogo, avrebbe garantito alle Regioni una difesa contro gli atti delle Autorità amministrative indipendenti,

che è invece negata, alla luce delle ordinanze n. 226 del 1995 e n. 137 del 2000, agli organi dello Stato in sede di

conflitto di attribuzione tra poteri.

In secondo luogo, avrebbe riconosciuto alle Autorità amministrative indipendenti, a cui era stata negata la qualifica

di poteri dello Stato, la possibilità di essere parti in un conflitto di attribuzione tra enti, per il tramite della

rappresentanza processuale del Governo, come avviene per gli organi giurisdizionali.

Al riguardo, si auspica un revirement da parte della Consulta nel riconoscere la legittimità delle Autorità

Amministrative Indipendenti a partecipare ai conflitti di attribuzioni, in modo tale da garantire un’efficace forma di

controllo dinanzi alle prevedibili future lesioni delle attribuzioni costituzionalmente riconosciute a Regioni e

Province Autonome, che si presume si intensificheranno in conseguenza della dilatazione dei poteri di regolazione

in capo all’ANAC mediante lo strumento delle linee guida.