Prefazione all’edizione italiana · di approcci e psicoterapie efficaci in teoria, ma una serie...

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Io sento poco […] e non mi concedo mai emozioni di pancia. È per la faccenda dei colori. Se non hai i colori, non hai nemmeno la pancia per sentire le emozioni. È un brutto guaio perdere i colori. Un brutto guaio davvero. IGIABA SCEGO Leggere il libro di Sebern Fisher equivale a guardare una di quelle figure ambigue che, a seconda dei punti di vista, mostrano due immagini diverse: l’una e l’altra sono visibili solo in alternanza ma, di fatto, esistono entrambe. In effetti, sono le aspettative o le abitudini con le quali approcciamo il mondo a orientare la nostra percezione per poi magari accorgerci – in modo a volte sorprendente – che ci sono altre versioni degli eventi. L’addentrarsi tra le pagine di questo lavoro produce proprio un simile ef- fetto sorpresa: si inizia pensando di avere a che fare con un manuale che il- lustra in maniera rigorosa e precisa, passo dopo passo, l’utilizzo di una tecni- ca di intervento sul trauma, basata peraltro sull’uso di un macchinario EEG e, man mano che si procede, ci si trova a riflettere su cosa sia veramente il trauma dello sviluppo e su come sia possibile curarlo: più che di un manua- le teorico-pratico sul neurofeedback, si tratta di un manuale teorico-pratico su che cos’è la cura. Procediamo tuttavia con ordine, tenendo conto della presenza delle di- verse “immagini”. Innanzitutto, il neurofeedback non è, nella sostanza, una tecnica tera- peutica, ma un vero e proprio allenamento del cervello, volto a modificare * Psicologa e psicoterapeuta. Coordinatrice del Servizio Diagnosi e Terapia del Trauma Psico- logico e del Master in Psicotraumatologia dell’ARP di Milano. ** Psicologo, psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psychoanaliti- cal Society. Professore incaricato all’Università Cattolica di Milano. Responsabile del Servizio Diagno- si e Terapia del Trauma Psicologico e direttore del Master in Psicotraumatologia dell’ARP di Milano. Prefazione all’edizione italiana Maria Silvana Patti, * Alessandro Vassalli **

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Io sento poco […] e non mi concedo mai emozioni di pancia. È per la faccenda dei colori. Se non hai i colori, non hai nemmeno la pancia per sentire le emozioni. È un brutto guaio perdere i colori. Un brutto guaio davvero.

igiaba scego

Leggere il libro di Sebern Fisher equivale a guardare una di quelle figure ambigue che, a seconda dei punti di vista, mostrano due immagini diverse: l’una e l’altra sono visibili solo in alternanza ma, di fatto, esistono entrambe.

In effetti, sono le aspettative o le abitudini con le quali approcciamo il mondo a orientare la nostra percezione per poi magari accorgerci – in modo a volte sorprendente – che ci sono altre versioni degli eventi.

L’addentrarsi tra le pagine di questo lavoro produce proprio un simile ef-fetto sorpresa: si inizia pensando di avere a che fare con un manuale che il-lustra in maniera rigorosa e precisa, passo dopo passo, l’utilizzo di una tecni-ca di intervento sul trauma, basata peraltro sull’uso di un macchinario EEG e, man mano che si procede, ci si trova a riflettere su cosa sia veramente il trauma dello sviluppo e su come sia possibile curarlo: più che di un manua-le teorico-pratico sul neurofeedback, si tratta di un manuale teorico-pratico su che cos’è la cura.

Procediamo tuttavia con ordine, tenendo conto della presenza delle di-verse “immagini”.

Innanzitutto, il neurofeedback non è, nella sostanza, una tecnica tera-peutica, ma un vero e proprio allenamento del cervello, volto a modificare

* Psicologa e psicoterapeuta. Coordinatrice del Servizio Diagnosi e Terapia del Trauma Psico-logico e del Master in Psicotraumatologia dell’ARP di Milano.

** Psicologo, psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psychoanaliti-cal Society. Professore incaricato all’Università Cattolica di Milano. Responsabile del Servizio Diagno-si e Terapia del Trauma Psicologico e direttore del Master in Psicotraumatologia dell’ARP di Milano.

Prefazione all’edizione italianaMaria Silvana Patti,* Alessandro Vassalli**

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la produzione di onde cerebrali, in termini quantitativi e qualitativi: il pa-ziente, collegato a uno strumento non invasivo (un macchinario EEG), im-para a modulare e controllare le onde cerebrali, per giungere a creare onde associate a diversi tipi e livelli di coscienza vigile e di esperienze coscienti (calma, attenzione, concentrazione ecc.). Si tratta, quindi, di un trattamento sulla neuroplasticità, non molto conosciuto in ambito clinico perché svilup-pato prima che il concetto di neuroplasticità venisse accolto dalla comunità scientifica e, di conseguenza, studiato (Doidge, 2014).

D’altro canto, era possibile misurare le onde cerebrali già a partire dai primi del Novecento ed è stato Barry Sterman a scoprire, in modo più o meno ca-suale, attraverso esperimenti condotti sui gatti, che questi ultimi riuscivano a controllare le proprie onde cerebrali. Questa scoperta fece sì che l’automodula-zione delle onde cerebrali potesse essere insegnata agli astronauti della NASA per prevenire gli attacchi epilettici ai quali erano soggetti a causa dell’esposi-zione al combustibile utilizzato per i razzi (Doidge, 2014; van der Kolk, 2014).

Il neurofeedback, quindi, si rivolge al cervello e non alla mente, ma solo occupandosi del primo è possibile permettere a persone gravemente trau-matizzate di usare la seconda.

E veniamo, quindi, all’altra “immagine” del libro: il paziente che soffre di un disturbo traumatico dello sviluppo.1

Sebern Fisher, infatti, si è avvicinata al neurofeedback perché ha dedica-to gran parte della sua vita professionale alla ricerca di terapie realmente ef-ficaci per le persone esposte a trascuratezza grave, maltrattamenti e/o abusi in età evolutiva.

Si tratta di persone che presentano una disregolazione emotiva cronica, che vivono in un costante assetto di sopravvivenza e con una forte reattività alle sollecitazioni esterne, percepite spesso come minacce mortali, capaci di minare l’incolumità fisica.

Se, come dice Porges, si parla di trauma quando il sistema di coinvolgi-mento sociale fallisce, è facile dedurre che in questi pazienti tale sistema non si sia mai effettivamente creato: il loro cervello, guidato dalla paura, funzio-na in un assetto di non integrazione fra le varie strutture e con le aree neo-corticali messe in scacco da un sistema di allarme costantemente attivato.

La loro anima, dominata dal terrore e dal dolore, risulta, per citare una canzone, “anestetizzata e mancante di un senso del pericolo ‘reale’”: il mon-

1. Categoria diagnostica proposta da van der Kolk e da altri, indicante la complessa sintoma-tologia dei pazienti che hanno subito traumi cumulativi e continuativi in età evolutiva. Tale cate-goria, non inclusa nell'edizione del DSM-5, si sovrappone a quella di disturbo da stress post-trau-matico complesso, a sua volta mai introdotta nelle precedenti edizioni del DSM. Date le evidenze cliniche, l'esclusione del disturbo traumatico dello sviluppo dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali ha suscitato non poche polemiche nella comunità scientifica e clinica. Per mag-giori informazioni, vedi Il corpo accusa il colpo (van der Kolk, 2014). [NdC]

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do appare di un’unica tinta spaventosa, mancante di tutte quelle sfaccetta-ture cromatiche che rendono la vita degna di essere vissuta. Le relazioni, compresa quella terapeutica, rischiano, pertanto, di finire tutte nello stesso calderone del pericolo e della minaccia, innescando continuamente reazio-ni di difesa primitive.

È quindi chiaro che intraprendere troppo presto un percorso terapeuti-co per questi pazienti può rivelarsi, oltre che inefficace, anche fortemente nocivo, ritraumatizzante. Ed è in questo scenario che si inserisce il neuro-feedback, inteso come un allenamento funzionale a favorire, attraverso la rimodulazione dei vari pattern di onde cerebrali, quella neuroplasticità indi-spensabile per poter usare la mente, per poter percepire “i colori” del mondo e dare significato agli eventi e agli stati d’animo.

L’intento è di agire sui circuiti cerebrali che sostengono e mantengono gli stati mentali di paura, terrore, rabbia e vergogna. Vale a dire quei cir-cuiti la cui continua attivazione è alla base della formazione dei disturbi post-traumatici cronici. Il neurofeedback può essere, quindi, propedeutico al trattamento o, in certi casi, parallelo a esso e, per arrivare a fare una scel-ta in questo senso, bisogna essere molto competenti: è necessario conoscere bene la tecnica per “pensare neurofeedback”.

“Pensare neurofeedback” significa cambiare i protocolli di allenamento al momento giusto, capire quali pattern di onde rinforzare e quali no, quali frequenze utilizzare per uno specifico paziente in un determinato momen-to, e decidere di fermarsi, se necessario; significa, in ultima analisi, acquisire quella flessibilità che solo il “sapere” profondo può conferire.

L’autrice si sofferma a lungo sul concetto di “pensare neurofeedback”, dando quell’illusione ottica di cui abbiamo parlato all’inizio, in seguito alla quale sembra che l’“immagine” del paziente che sperimenta una forte soffe-renza non ci sia, sparisca alla vista.

Ma è giusto un’illusione: il paziente è senz’altro il protagonista di questo lavoro e Sebern Fisher si rivela una terapeuta estremamente esperta e sensi-bile, evidenziando l’importanza della relazione anche all’interno di una se-duta di neurofeedback: orientare lo schermo del macchinario in modo da consentire il contatto visivo con la persona o applicare gli elettrodi in mo-do delicato permette al paziente di cominciare a percepire una relazione ac-cogliente e non invasiva, anche perché mediata da uno strumento e da un compito preciso.

Tutto ciò può far intravedere al paziente la possibilità di una relazione dif-ferente, che, unita all’effetto del processo di neurofeedback, pone le basi per un eventuale intervento psicoterapico. In altri termini, proprio come succede con la mindfulness, il neurofeedback (e l’assetto relazionale del training) ha lo scopo di costruire, insieme al paziente, quell’“apparato digerente”, quella

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“pancia” in cui contenere le emozioni e cominciare a cambiare il modo di sentirsi, di sentire e di fare esperienza.

Lo sfondo, quindi, dell’immagine ambigua di questo lavoro è costituito dalla riflessione implicita su che cosa sia la cura: non l’applicazione acritica di approcci e psicoterapie efficaci in teoria, ma una serie di scelte progres-sive, rispettose della persona, della sua storia e del suo funzionamento, mi-ranti a fornire al paziente un contesto di guarigione adeguato, centrato sulle sue risorse e sulla sua capacità di accedere al nutrimento terapeutico, che è fatto di timing, di varietà di approcci e, come dice Bruce Perry, di giusti rit-mi e giuste dosi, niente di più e niente di meno.

BibliografiaDoiDge, N. (2014), Le guarigioni del cervello. Tr. it. Ponte alle Grazie, Milano 2015.Perry, b., szalavitz, M. (2010), Born for Love. Harper-Collins, New York.Porges, s. (2013), La teoria polivagale. Tr. it. Fioriti, Roma 2014.scego, i. (2008), Oltre Babilonia. Donzelli, Roma.vaN Der KolK, b. (2014), Il corpo accusa il colpo. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano

2015.

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