“Polvere nel ventricolo destro” di Valentina Moretti

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Èchos23

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© 2013 Edizioni Ensemble, Roma

I edizione settembre 2013

ISBN 978-88-97639-93-0

www.edizioniensemble.com

[email protected]

Edizioni Ensemble

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Valentina Moretti

Polvere nel ventricolo destro

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a Claudio

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Desiderare l’immortalità è desiderarela perpetuazione in eterno di un grande errore.

A. Schopenhauer

La vecchia Lada di Rahim sobbalza in maniera infernale. Sen-to le forze venirmi sempre meno, il cuore mi batte all’impazzata.Sudo freddo e tremo, ho le mani gelide e umide come se le aves-si appena immerse in quelle casse da pescheria che tengono il pe-sce in fresco, tra il ghiaccio tritato. Dico a Rahim di andare piùveloce, ma la voce mi si spezza. La ferita mi pulsa e c’è sanguedappertutto. Chiedo a Rahim, istericamente, quanto manca an-cora all’ospedale. Le sue risposte sono tutte vane, non mi interes-sa sapere più nulla. Qualsiasi cosa dica, non servirebbe. Manca iltempo che manca. Il tempo non è affatto una questione mate-matica di minuti e secondi. La domanda da porre non è maiquanto tempo; è solo questione di arrivare in tempo. Chiedo seha qualcosa di dolce, magari una caramella, ma non ha niente.Non ci sono negozi dove possiamo comprarne lungo il tragitto,senza contare che saranno le cinque del mattino. Forse vogliodello zucchero perché sono un condannato a morte e sto espri-mendo il mio ultimo desiderio. Voglio della vodka, allora, cazzo,vodka turkmena che è maledettamente buona. Forse morirò qui,in quest’auto sovietica scassata, senza ammortizzatori, sballottatoqua e là dalle buche, in mezzo al deserto di Ashgabat. Non ave-vo mai pensato ad Ashgabat come luogo della mia morte – seb-

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bene ne abbia vagliati senz’altro più di un centinaio, e con dovi-zia di particolari riguardo come suicidarmi. Il fatto che sulla mialapide ci possa essere scritto «Ashgabat, 2012», sopra l’epitaffioche ho coniato a vent’anni, inizialmente era un’idea che mi di-sgustava, ma ripensandoci ora, mentre bevo a canna la Fanta sga-sata che ho trovato sul sedile posteriore dell’auto di Rahim, oramentre mi si stanno lentamente chiudendo gli occhi e la testa migira forte, penso che non sarebbe poi così terribile. Un luogodavvero singolare, dove morire. Se fossi famoso, regalerei a que-sta città la fama, a questo posto che ho amato e odiato così tan-to, senza una ragione, come si amano le cose più belle della vita:il solo modo davvero sincero di amare. Fossi uno di cui la gentesi ricorda, fossi stato nella mia vita una star, uno scrittore, un pa-lestrato protagonista di qualche reality show, quella massa di ca-ni imbecilli verrebbe in pellegrinaggio a visitare la mia tomba, ecosì avrebbero idea di cosa sia, Ashgabat. Saprebbero che esiste.Fossi John Lennon, Madre Teresa, Shakespeare, Galileo. Ho pro-vato in ogni modo ad assomigliare a chi ha cercato di impedireil proliferare dell’umanità – Osama bin Laden, Hitler, re Erode,Stalin, il virus dell’AIDS, papa Pio V. Non mi è riuscito, e sono ri-masto un anonimo libero pensatore. Peccato. Vorrei proprio far-lo, a questa città, un regalo del genere. Un regalo che lei neppu-re desidera. Forse Ashgabat vuole restare anonima, vergine, silen-ziosa come lo sono le sue notti. Forse è giusto che Ashgabat siaun luogo per pochi. Pochi ci potrebbero capitare, ancor meno lopotrebbero capire, ancor meno ci potrebbero morire, quasi nes-suno lo potrebbe apprezzare. Forse lo apprezzo solo io. Forse ne-anche. Perché, poi, lo apprezzo così tanto? Ecco, ecco che la miavista si fa annebbiata. Rahim mi sta farfugliando qualcosa in unpessimo inglese, ma sento le sue parole lontane. Sembra preoc-cupato. Un’altra buca mi fa trasalire dal dolore, ma è un dolore

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lieve, perché sta venendo meno anche lui, come me. Speravo diaver modo di dire ancora qualcosa prima di andarmene, di avermodo almeno di comunicare le mie ultime volontà. A chi lascia-re la mia chitarra Les Paul, a chi Apologia della misantropia. Miaccorgo che è troppo tardi. Non c’è tempo per queste stronzatesull’eredità. Riduciamo al nocciolo. La mia volontà più urgentee profonda resta una sola: che Ljudmila legga quella lettera cheho scritto per lei un anno fa e che è ancora lì, abbandonata nelmio PC, nella cartella «Robe mie», file intitolato Confessioni di unamante infelice. Non pensavo che l’unica cosa importante cheavrei voluto fare in un momento simile fosse confessare a unadonna con le tette piuttosto piccole il mio amore non corrispo-sto, che peraltro già ben conosce. Non pensavo che di ogni altracosa che ho avuto nella mia vita non me ne fregasse in fondoniente. Nemmeno di Vova, di Michele, di Esther, del vinile deiJethro Tull con l’autografo di Ian Anderson, in fondo. O alme-no, non così tanto, se in questo momento li lascio da parte e pre-ferisco pensare a lei. Non pensavo che il momento di darle quel-la lettera sarebbe arrivato così presto. Avevo sopravvalutato la vi-ta e la sorte. Soprattutto, non pensavo di morire così, e di nonriuscire neppure a comunicare la mia volontà di farle leggerequelle confessioni. Rahim non potrebbe capire. Ma c’è lui, qui,ora. Dannazione, è a lui, solo a lui che lo posso dire. Devo farlo.Rahim non sa un cazzo del mio PC, sa a malapena dire “hallo” ininglese, ma deve aiutarmi. Non posso svenire ora. Sverrò tra dueminuti, il tempo di spiegargli dove e cosa deve dire ai miei colle-ghi; voglio che lo chieda a Michele, non è poi così complicato,dovrebbe solo andare a sbirciare nel mio computer, mettere quel-la dannata password e trovare la cartella «Robe mie» e… ma no,non riesco a mettere insieme i pensieri. Non riesco neppure aemettere suoni. Provo ad aprire la bocca, ma non esce niente.

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Tutto ciò che ho intorno è diventato sfumato come un acquerel-lo caduto nel fiume. Una striscia di sole mi trafigge l’occhio de-stro, facendo riflesso con il finestrino e la sabbia. Devo dire qual-cosa. Una sola cosa, prima di morire. È troppo stupido morire inquesto modo, con tutta la fatica che ho fatto per non suicidarmiprima! Su questa macchina, con Rahim, senza spettatori, senzanemmeno dire una parola… Tutti dicono qualcosa prima di mo-rire, e si pensa che debbano annunciare la cosa più solenne e fi-losofica di tutta la loro vita, una frase definitiva, riassuntiva, chene riveli il senso. Chissà perché pensiamo che si debba dire qual-cosa di determinante, nel momento in cui si abbandona la vita.Se la vita non ha senso, perché dovrebbe acquistarlo improvvisa-mente nell’attimo in cui scompare? Perché dovrebbe averlo lamorte? Non potrebbero semplicemente scorrere i titoli di codacome quando finisce un film? Non mi viene in mente niente dadire, dannazione, e allora dirò qualcosa a caso, sì, se riesco a farfunzionare queste maledette corde vocali proprio adesso, devoriuscirci… Guardo Rahim. Probabilmente ora ho uno sguardofermo, ebete, forse sorridente forse no. Che diavolo ne so di co-me appaio adesso che sto per andarmene, cosa me ne frega, infondo, ma non voglio neppure morire con la faccia da imbecille,non so se il becchino può sistemarmela, può truccarmi, certo,ma quell’espressione, dannazione, non so se si potrà cancellare,perché quando muori diventi freddo e rigido e i muscoli dellafaccia forse non sono più plasmabili, però se chiudo gli occhi for-se… forse sembrerò meno idiota. Eccomi pronto, caro Rahim,ascolta bene, ascolta quello che ti sto per dire, poi di’ a tutti cheho detto così, riferiscilo, se vuoi, oppure dimenticatene, nonconta più niente ormai, dannazione sto morendo, che diavolo miimporta di quello che sto per dire, eppure dico:

– È uscito lo zero!

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Prologo

Nasciamo nudi, umidicci e affamati.Poi le cose peggiorano.

Anonimo

Ve lo dico subito: questo scritto parla di me – e io sono in-sopportabile. Parla di me per arrivare a parlare di altro. Parla diqualcosa di grande che mi è successo in un luogo apparente-mente insignificante, eppure fondamentale: Ashgabat. A pro-nunciarlo pare misterioso, orientale e arcano come certi vecchimonili d’argento. Ashgabat, lo sfondo parossistico e ignoto cheprende il sopravvento sull’ego di un uomo patetico. Ashgabat,la città rivelatrice – perché è qui, in questo luogo surreale e sco-nosciuto, che ho capito qualcosa di essenziale.

Che diavolo è, Ashgabat? Me lo chiedo anch’io, di continuo.Nessuno può capire cosa sia, se non ci mette piede. Persino do-po avercelo messo, assieme a tutto il resto (l’ora di attesa all’ae-roporto per ottenere il visto, la ricerca del proprio bagaglio inuno stanzone caotico e ogni altra stupida procedura irritante diquesto Paese) non è affatto scontato capirlo. È ciò su cui mi in-terrogo tutt’ora. Lo sapete dov’è, Ashgabat? Se sì, pensateci be-ne, perché potreste anche conoscere la sua posizione geografica,ma esattamente cosa sia è impossibile dirlo con certezza. Se nonne avete idea, questa potrebbe essere una buona scusa per anda-re avanti nella lettura: per curiosità (è già una motivazione piùche sufficiente per fare qualsiasi cosa); azzarderei, per continua-

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re a vivere, almeno per me. Sono curioso persino della mia cu-riosità, perché alla base vi è la noia, e io mi sono sempre anno-iato immensamente. Di vivere, in primo luogo.

A ogni modo, proverò a dirvi qualche parola su che diavo-lo sia Ashgabat. Non sarà una descrizione esaustiva, solo untratteggio.

Ashgabat è un non-luogo, che quasi tutti ignorano e forseneppure esiste. Nel cuore del deserto del Turkmenistan, nel cen-tro del nulla. Ashgabat è una città che attende qualcosa di inde-finito, forse un’occasione, eppure allo stesso tempo se ne resta lì,silenziosa e immobile; non grida, non parla. Ad Ashgabat tuttoè bianchissimo, completamente nuovo o in costruzione; ognigiorno la città cambia leggermente: spunta una strada, un palaz-zo candido, perfetto e finto. Tutto è apparenza, ogni cosa è crea-ta per dare l’idea di sfarzo e prestigio, ma pochi edifici sono dimarmo autentico; generalmente, usano un polimero che costameno. I palazzi sono un misto tra casermoni sovietici e costru-zioni orientaleggianti dalle cupole d’oro, dalla geometria sim-metrica che richiama le ziqqurat babilonesi. Hanno uno stilemoderno e orientale: arabo, con una punta di neoclassico equalcosa di sovietico. Anche gli abitanti di Ashgabat non hannoun’identità unica: sono meticci, eppure facilmente identificabi-li, come tutto ciò che c’è qui, che è senza storia, ma allo stessotempo inconfondibilmente turkmeno. Si tratta di un popolo diceppo prevalentemente turco – con minoranze di russi, uzbekie armeni – che ha vissuto sotto il dominio dell’Unione Sovieti-ca e ne ha assorbito non solo la lingua, ma anche lo spirito diforti contrasti tra inutile lusso e umile miseria, accentuatosi sot-to il nuovo capo di Stato-dittatore. Ad Ashgabat il Presidentecostruisce nuovi palazzi perché non sa che cosa farsene dei sol-di, ma poi la gente non può permettersi di viverci dentro, per-

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ciò sono tutti vuoti. I cittadini non pagano il gas perché la ter-ra ne è ricca, ma mangiano pochissimo e aspettano di essere in-vitati a un matrimonio per abbuffarsi. Si guida senza cinture disicurezza – la polizia si insospettisce se vede qualcuno che le in-dossa – ma si prendono multe altissime se si fuma al volante. AdAshgabat quello che fa il Presidente è legge. Ci sono sue imma-gini e poster ovunque: negli ospedali, negli atri dei condomini;ci sono statue d’oro con la sua effigie, opuscoli che ne millanta-no le gesta eroiche. Le vie della città sono state rinominate persuo volere e dedicate ai suoi famigliari. La legge che detta il Pre-sidente è del tutto irrazionale, perché della razionalità non sache farsene come dei soldi, sicché si limita a vietare giusto per-ché possa esserci qualcosa da infrangere. Non si possono tenerele finestre aperte. C’è il coprifuoco, per cui non si può girare apiedi dopo le 22. Perché? Perché non si può e basta. Non sem-pre ci deve essere un perché non tautologico nelle decisioni. Lefinestre aperte, dicono, disturbano il vicinato, ma gli apparta-menti sono silenziosissimi, con soffitti di quattro metri e rico-perti di tappeti. Sembra di stare in una prigione a doppi vetri,serrati ermeticamente in case faraoniche. Le poche macchinepassano felpate perché le strade sono di sabbia. Di sera non vo-la una mosca, e si sente il silenzio. Sentire il silenzio! Sembra im-possibile, ma è così. Ashgabat è esattamente questo – perciò mista simpatica. Un’allegoria dell’imbecillità umana, del degradodel cervello, dell’assurdità del banale. Un luogo che mette difronte non soltanto a se stessi, ma anche all’abisso del nulla co-smico. Ashgabat è il nulla. Il rifugio rassicurante dall’orrore del-la vita. Il ventre materno, il posto in cui ci si non-trova prima dinascere, cioè di nuovo un niente. Forse Ashgabat è un miraggio;un roboante, delirante, scintillante e pericolosissimo sogno.

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Sorpresaovvero Una telefonata decisiva

Il perché vi parli di Ashgabat si può ricollegare a una telefo-nata fatidica. Premetto che, quando squilla il telefono, io non ri-spondo mai. Non saprei nominarvi una sola persona che io ab-bia voglia di sentire, dato che non mi interessa nessuna delle co-se che mi direbbero gli altri. Non amo essere disturbato, tanto-meno interrotto, e il telefono interrompe per natura: è impossi-bile che mentre squilla non si stia facendo qualcosa, e pensareper i fatti propri a qualsiasi idiozia è comunque meglio cheascoltare quelle degli altri. Suona sempre, peraltro, nei momen-ti migliori: mentre mangi, dormi, caghi, ti fai una sega, e si tro-va sempre esattamente cinque centimetri oltre l’estensione delbraccio, o fra i cuscini del divano, dando persino un tempo li-mite per rispondere.

Eva, la mia segretaria, mi disturba mentre sto mangiando unsalmone speziato al pub sotto l’ufficio. Spero per lei si tratti diqualcosa di molto urgente. Dice agitata:

– Abbiamo ottenuto una grande opportunità.Le chiedo di cosa stia parlando, cosa ci sia di più interessan-

te del mio magnifico salmone fresco. Mi annuncia che la nostraazienda è stata selezionata per un progetto di appalti immobilia-ri ad Ashgabat, in Turkmenistan. Si tratterebbe di creare un

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nuovo quartiere residenziale di lusso – una sorta di residence pergli ospiti internazionali, le personalità di rilievo – in cui inten-dono inserire un’area business focalizzata sulle risorse locali(prevalentemente, gas). Le chiedo che cazzo è il Turkmenistan.Mi dice che è uno stato dell’ex Unione Sovietica tra l’Afghani-stan, l’Iran, il Kazakistan e l’Uzbekistan. Le dico che non ho al-cuna intenzione di trasferirmi per mesi in Fankulistan. Quandomi tira fuori la cifra che il governo del luogo ha offerto per larealizzazione del progetto, le dico che ok, in fondo Ashgabatnon sarà il paese dei balocchi, ma ci si può pensare. Quandoscopro su Wikipedia che il Turkmenistan fu una delle tappe del-la via della seta, che è diffuso il culto della personalità del Presi-dente, che si parla russo come lingua di scambio internazionale,che ha un cratere che brucia perennemente in mezzo al deserto,che la popolazione è musulmana ma per metà sono alcolisti,penso che ok, in fondo dieci mesi passeranno in fretta. Bisognache ci si vada, in questo Qualkestan. Sono o non sono un ma-ledettissimo curioso?

– Fammi un dossier sul Turkmenistan a livello di appalti – ledico.

– Già fatto, signor V. Non appena salirà glielo mostrerò – mirisponde Eva.

Impeccabile, come sempre. È ancora giovane, ma tremenda-mente poco sexy, e non per via del recente aumento di peso, giu-stificato da una cura al cortisone. Il problema di Eva è che è na-ta vecchia. Non si presenta mai con cinque minuti di ritardo, oche puzza di vino. È una che va dall’erborista, che all’amica re-gala un’agenda di pelle; che cucina crostate che non sono catti-ve, per carità, ma nelle quali aspetti una sorpresa che non arrivamai – un po’ troppo burro o sale. Metodica ma non brillante, la-vora in maniera talmente precisa da risultare irritante. È cordia-

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le ma non fa battute. Mi accontenterei anche di freddure vec-chie, di gaffe che fanno calare il gelo. Ogni giorno mi verrebbeda implorarla: “Dimenticati un appuntamento”. Eppure, anni faaveva il suo perché: portava una gonna a tubo che le sagomavad’incanto i fianchi (unico motivo rilevante per la sua assunzio-ne), e nonostante quel modo di fare sottomesso e pacato – che èperò la sua forza, nel tenere buoni i fornitori imbecilli con cuimi tocca relazionarmi – era una che faceva dei gran numeri, sot-to le lenzuola. Come tutte quelle che parlano quasi sottovoce eal ristorante lasciano la pizza a metà, ma che volentieri si fannocastigare dal primo uomo furbo che incontrano. Chissà come sitroverà in un posto come Ashgabat, che ha tutta l’aria di essereparecchio ruspante. Ruspante, desolante, interessante. Di tuttigli aggettivi possibili da immaginare, non avrei mai potuto pen-sare che “illuminante” sarebbe stato uno dei più azzeccati.

A ogni modo è tutt’altro che spiacevole, l’idea di ritirarmi alungo in un posto mai sentito. Da sette anni lavoro come diret-tore tecnico della Shape Corporation proprio perché sono dro-gato della vita con la valigia in mano. La mia vita è un contrap-porsi di fasi alterne, totalmente senza senso – come lo è ogni esi-stenza – di modo che nulla mi venga mai a noia o riesca a di-sgustami irreparabilmente. Detesto Milano come ogni altra cit-tà, ma è importante avere un luogo in cui tornare, tanto più seè insopportabile. Non lascio niente e nessuno ogni volta cheparto – ho vissuto in Qatar, a Mosca, in Romania – se non lamia governante eritrea, Hamila. Ha l’incredibile facoltà di met-tere in disordine ciò che era in ordine e di nascondere in luoghiarcani cose che ci si aspetterebbe di trovare ovunque, tranne chelì. Agisce in modo imprevedibile e mai banale, poiché totalmen-te casuale, senza l’uso del cervello. In tal modo, ogni volta cheme ne allontano, non può certo mancarmi.

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