Polvere d’anima - Codice Edizioni · 5 Arthur Conan Doyle, Il segno dei quattro, BUR, Milano...

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Polvere d’anima La magia della coscienza Nicholas Humphrey Traduzione di Giuseppe Maugeri

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Polvere

d’animaLa magia

della coscienza

Nicholas Humphrey

Traduzione di Giuseppe Maugeri

Nicholas HumphreyPolvere d’animaLa magia della coscienza

Titolo originaleSoul Dust

Copyright © 2011 by Nicholas HumphreyAll rights reserved

Progetto grafico: Limiteazero + Cristina ChiappiniRedazione e impaginazione: Daiana GaliganiCoordinamento produttivo: Enrico Casadei

© 2013 Codice edizioni, TorinoTutti i diritti sono riservatiISBN 978-88-7578-395-2

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La verità non può essere sporcata da nessun tocco esterno, così come un raggio di sole; sebbene questa sorte avversa incomba sulla sua natività, perché non venga mai al mondo, se non come un ba-stardo, a ignominia di colui che la dà alla luce; fino a che il tempo, levatrice della verità piuttosto che madre, non abbia lavato e asper-so l’infante e dichiarato la sua legittimità.

John Milton, The Doctrine and Discipline of Divorce, 1643

Capitolo 1

Il risveglio spiegato

Ci sono buone possibilità che abbiate ripreso coscienza da meno di un giorno. Probabilmente ciò è avvenuto poco dopo che la luce del sole, questa mattina, è tornata a splendere. Che esperienza è stata ritornare in voi? Ricordate? Il tintinnio della bottiglia del latte, il tocco delle lenzuola, la vista di una chiazza di cielo azzurro. Vi siete strofinati gli occhi, vi siete stiracchiati e, ancora prima di rendervene conto, ondate di sensazioni hanno ripreso ad alimentare quel denso lago che ospita il vostro essere. Siete ri-emersi nel presente soggettivo. Ancora una volta, avete sentito di essere vivi.

Non siete stati i soli. Qualcosa del genere è accaduta oggi a innumerevoli altri individui, qui sul pianeta Terra. Il nostro pianeta, così ci è stato detto, non è altro che un condensato di polvere stellare, non troppo diverso da tutti gli altri corpi co-smici minori che affollano l’universo; ma solo questo pianeta è diventato teatro di un fenomeno straordinario. Qui è dove si è evoluto l’essere senziente. Qui è dove gli esseri coscienti sono en-trati in contatto con loro stessi. Qui è dove albergano le anime.

In questo libro affronterò le questioni di cosa siano la con-dizione dell’essere senziente, l’ipseità1 e la profondità del senti-

1 L’identità dell’essere individuale con se stesso, caratteristica degli esseri dotati di coscienza. [N.d.R.]

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1 mento. Nel frattempo, proporrò una soluzione al cosiddetto e celeberrimo hard problem, il «problema difficile della coscien-za». Il problema difficile consiste nel riuscire a spiegare in che modo un’entità fatta interamente di materia fisica – come un essere umano – possa sperimentare sensazioni coscienti. Il pro-blema è difficile perché a noi che vi siamo soggetti queste sensa-zioni sembrano possedere proprietà che forse la materia da sola non può giustificare. Diciamo (perché non sappiamo che altro dire) che essere coscienti “è come qualcosa”. L’inadeguatezza di questa espressione, “è come qualcosa”, sta nel fatto che quel qualcosa non ci sembra – meglio, non è – simile a nient’altro nel mondo materiale.

Ci sono filosofi convinti che il problema sia sostanzial-mente troppo difficile per ammettere una soluzione. Per Colin McGinn cercare di spiegare la coscienza fenomenica come un prodotto del cervello è come tentare di spiegare il procedimen-to attraverso cui ottenere «numeri dai biscotti o regole etiche dal rabarbaro»2. Per Jerry Fodor «non possiamo, stando così le cose, neppure immaginare la soluzione dell’hard problem. È probabile che immaginare questa soluzione richiederà una re-visione delle nostre concezioni e teorie molto profonda e diso-rientante… Forse dovremo liberarci di tutto prima di farla finita con l’hard problem»3.

Non sono d’accordo. Riconosco, certo, che i teorici non sono stati poi così bravi nell’immaginare la soluzione. Sono colpi-to come chiunque altro da quelle che sembrano difficoltà in-sormontabili. Ma suggerirei, appunto, di considerare la paro-la sembrano: il fatto che qualcosa sembri avere caratteristiche misteriose e inesplicabili non significa necessariamente che le possegga sul serio.

2 Colin McGinn, Consciousness and Cosmology: Hyperdualism Ventilated, in Consciousness, a cura di M. Davies e G.W. Humphrey, Blackwell, Oxford 1993, pp. 155-177.

3 Jerry Fodor, Headaches Have Themselves, in “London Review of Books”, 24 maggio 2007, p. 9.

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Permettete che illustri la differenza tra il sembrare impossi-bile e l’essere impossibile con l’aiuto di un esempio abbastanza noto. Supponete di imbattervi in un oggetto solido di legno del tutto simile a quello rappresentato nella figura 1, il triangolo impossibile di Penrose. Senza dubbio sembrerebbe una cosa fisicamente impossibile. Nondimeno, nessuno sosterrebbe che per via di ciò che l’oggetto sembra dovreste buttar via i vostri libri di fisica e sbarazzarvi del vostro bagaglio di conoscenze. Di certo non passerà molto tempo prima che vi rendiate conto che si tratta di un’illusione. Ma quasi sicuramente, se solo foste in grado di cambiare il vostro punto di vista, scoprireste che ciò che state davvero guardando è il curioso oggetto rappresentato nella figura 2. Quest’oggetto è stato ingegnosamente concepito dallo psicologo Richard Gregory proprio perché, osservato da una determinata posizione, restituisse l’impressione di un trian-golo impossibile. Quest’oggetto merita un nome, e con il per-messo di Gregory lo chiamerò Gregundrum4.

Se doveste imbattervi in un gregundrum poggiato su un tavo-lo da laboratorio, senza conoscerne la “funzione”, sono sicuro che non lo riterreste in alcun modo depositario di qualcosa di

4 In un’e-mail del 16 maggio 2008 inviata all’autore, Richard Gregory ha con-fermato: «Penso di essere stato il primo a realizzare un modello di legno del Triangolo di Penrose. Quale potrebbe essere quello adatto? Gregundrum non è per niente male!».

Figura 1. Il Triangolo di Penrose.

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interessante; di per sé non è che sia proprio una meraviglia. Chi lo avrebbe mai detto che un concetto perfetto come il triangolo di Penrose potesse avere una spiegazione tanto prosaica? Tut-tavia, come Sherlock Holmes ebbe a dire a Watson, «quando hai eliminato l’impossibile, qualsiasi cosa rimanga, quantunque improbabile, deve essere la verità»5.

Dimostrerò che la verità sulla coscienza – se e quando la osserviamo dalla giusta prospettiva – è che quest’ultima è un prodotto altamente improbabile di ingegneria biologica: una meravigliosa opera d’arte della natura che dà origine ad ogni genere di misteriosa impressione nella nostra mente, e che tut-tavia ha una spiegazione fisica relativamente elementare. Come diceva ancora Holmes nel seguito del suo ragionamento, «sap-piamo che non è entrato né dalla porta, né dalla finestra, né dal camino. Sappiamo anche che non poteva essersi nascosto nella stanza perché non c’è posto dove avrebbe potuto nascondersi. Allora, da dove è venuto?». E Watson, colto dall’impeto: «At-traverso il foro nel soffitto!». Il nostro lavoro di ricercatori della coscienza è proprio quello di trovare il foro nel soffitto.

Non dico che sarà facile. Tanto per cominciare, in un cam-po in cui i teorici parlano continuamente senza capirsi, ci sono

5 Arthur Conan Doyle, Il segno dei quattro, BUR, Milano 2007, cap. 6, p. 70 (ed. orig. The Sign of the Four, 1890).

Figura 2. Il Gregundrum.

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oquestioni legate all’uso delle parole. Per prevenire almeno al-cuni potenziali malintesi verbali, ho esposto nel riquadro una guida rudimentale al territorio concettuale per come lo vedo (non sottilizzate troppo su nessun punto della lista, in questo momento: più avanti avrò modo di spiegare e giustificare tutte queste definizioni).

Ma potrebbero non essere soltanto le parole a frapporsi tra noi e la verità, bensì anche quei pregiudizi profondamente ra-dicati che tutti quanti mettiamo sul tavolo quando noi stessi siamo i soggetti della coscienza.

· In generale, quando parlo di coscienza intendo riferirmi alla “coscienza fenomenica”.

· Un soggetto è fenomenicamente cosciente (o del tutto co-sciente) quando e se c’è qualcosa che in quel momento “è come se fosse lui”.

· C’è quel qualcosa come se fosse lui quando il soggetto in questione sperimenta “sensazioni”, o ciò che i filosofi chia-mano qualia.

· I qualia – per esempio, il rossore percepito del fuoco, la dol-cezza del miele, il dolore per la puntura di un’ape – sono caratteristiche delle sensazioni.

· Il soggetto è fenomenicamente cosciente quando appunto percepisce sensazioni implicanti queste caratteristiche pecu-liari.

· Percepire sensazioni implicanti queste caratteristiche equiva-le a crearne una rappresentazione mentale (dove il significato di rappresentazione è ancora da stabilire).

· Dunque la coscienza (o l’essere coscienti), come stato men-tale, è lo stato cognitivo in grado di allestire tali rappresen-tazioni mentali.

· La coscienza può modificare la vita del soggetto fino al pun-to da consentire che queste rappresentazioni ne influenzino pensieri e azioni.

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1 Ovviamente non possiamo chiamarci fuori dalla nostra po-sizione privilegiata, ma possiamo almeno cercare di immaginare dove ci troveremmo se dovessimo rinunciarvi. A tal fine, voglio iniziare la nostra indagine sul problema consegnandola a qual-cun altro, qualcuno che dovrebbe avere un punto di vista più distaccato e oggettivo del nostro sul modo in cui la coscienza agisce in noi.

Torniamo a stamattina; però adesso immaginate che a poche centinaia di chilometri, nello spazio, una scienziata venuta da una civiltà avanzata della galassia di Andromeda stia orbitando intorno al nostro pianeta, nel suo primo viaggio mirato a esplo-rare la vita sulla Terra (la immagino come una “lei” dando per scontato che le abitanti di Andromeda si siano sbarazzate del sesso maschile da molto tempo).

Posizionata la sua navicella in modo da avere un’ottima vi-suale del fronte di oscurità che fa posto alla luce sulla superfi-cie terrestre, la scienziata osserva come, lungo questo fronte, le creature viventi riemergano dal loro coma notturno. Gli uccelli cominciano a cinguettare, le farfalle scuotono le ali, le scimmie abbandonano i loro giacigli sugli alberi e gli esseri umani scen-dono in cucina per prepararsi il caffè mattutino.

Osserva il risveglio generale e annuisce con l’aria di chi la sa lunga. Di certo ha compreso come i processori centrali che gesti-scono questo software che regola la vita delle creature terrestri siano stati in modalità “sleep” durante la notte, così da rispar-miare energia ed eseguire la manutenzione del sistema; quando i raggi del sole riportano luce e calore è tempo di riprendere i compiti vitali. In qualità di scienziata la nostra osservatrice non sta più nella pelle: se potesse atterrare fra quelle creature sarebbe interessantissimo per lei studiarne il cervello e i comportamenti, così da capire come funzionano. A dirla tutta, si immagina già come una specie di filosofa: un giorno scriverà un libro intitolato Il risveglio spiegato.

La nostra visitatrice ha tutti i motivi per affidarsi al metodo scientifico: in qualsiasi altro posto dell’universo lei e le sue col-

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oleghe lo abbiano applicato, i fenomeni naturali hanno rivelato i loro segreti. Senza dubbio, suppone, non ci sarà nulla di così di-verso o difficile in quegli organismi viventi che affollano la Terra.

Ma sarà proprio così? Che dire della coscienza? Risulterà mai chiaro alla visitatrice di Andromeda che esiste una dimen-sione, relativa alle vite di almeno alcune delle creature che sta studiando, che necessita di un trattamento speciale? Una dimen-sione che fa sì che, ogni volta che quelle creature “tornano in sé”, una luce si accenda dentro le loro teste? Dato che al mo-mento può osservare le cose solo dall’esterno, è possibile che questo aspetto le sfugga del tutto, e che non sospetti nemmeno dell’esistenza della coscienza6?

Penso che dovremmo partire dall’assunto che il cervello della scienziata di Andromeda sia privo di quei circuiti che la rende-rebbero fenomenicamente cosciente; altrimenti non sapremmo come valutare la sua eventuale rivendicazione di aver scoperto l’esistenza della coscienza in altre creature (anche se potrebbe sostenerlo semplicemente in analogia con il suo caso, allo stesso modo in cui noi potremmo sostenere, per esempio, l’ovvietà del fatto che un cane senta il dolore al pari degli umani).

L’assenza di coscienza fenomenica potrebbe (o meno) ri-percuotersi sul modo in cui la scienziata considera determina-te questioni scientifiche e filosofiche (si tratta di qualcosa che alla fine del libro dovremmo essere in grado di valutare me-glio); ma non vedo alcuna ragione, al momento, per cui ciò dovrebbe porre qualche limite alla sua intelligenza (intelligenza

6 Il tropo della scienziata di Andromeda, o di Marte, è già stato utilizzato. Ho discusso di ciò che un marziano potrebbe cogliere riguardo alla coscienza in Enciclopedia Oxford della mente, Sansoni, Firenze 1991 (ed. orig. Thinking about Feeling, in Oxford Companion to the Mind, a cura di R.L. Gregory, 2004). Daniel Dennett ha affrontato lo stesso tema in modo ancora più efficace in Un approccio in terza persona alla coscienza, contenuto in Sweet Dreams. Illusioni filosofiche sulla coscienza, Raffaello Cortina, Milano 2006, pp. 23-59 (ed. orig. Sweet Dreams: Philosophical Obstacles to a Science of Consciousmess, 2005). Dennett e io discutiamo di queste idee da così tanto tempo che nessuno dei due può più stabilire con certezza chi sia stato il primo a cominciare.

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1 artificiale, potremmo definirla) o alle sue abilità nella ricerca scientifica. Supponiamo, dunque, che abbia una mente anali-tica eccezionalmente brillante. E concediamole la disponibilità di ogni qualsiasi altro ritrovato scientifico, anche il più ambito. Diamole la possibilità di intraprendere meticolosi studi com-portamentali su come le creature terrestri interagiscano con il loro ambiente naturale, e poi di approfondire la ricerca sul campo con qualsiasi tipo di analisi di laboratorio. La scienziata può gestire tutti gli strumenti di ricerca possibili e immaginabi-li: scanner, imager e calcolatori di una potenza inarrivabile qui sulla Terra. Può investigare e sondare, ascoltare e interrogare. Ha modo, se lo vuole, di fare a pezzi i terrestri ed esaminarne i meccanismi interni (i comitati etici di Andromeda non pongono alcuna obiezione alla vivisezione degli alieni). Poi, una volta a casa, sarà in grado di effettuare simulazioni teoriche sul suo computer e di costruire un modello di funzionamento (umano) nella sua officina robotica.

A quel punto, cosa scoprirà (e cosa invece no)? Prendiamo in considerazione alcune possibilità.

· Scoprirà, con sua grande sorpresa, che per spiegare il com-portamento di alcune specie terrestri le occorre postulare l’esistenza di uno stato mentale speciale, dotato di proprie-tà qualitative peculiari, che lo rendono diverso da qualsiasi altra cosa, e che per il solo fatto di essere com’è influisce sul modo in cui queste creature vivono le loro vite.

· Anche se non sarà probabilmente in grado di dedurre l’esi-stenza di un particolare stato interiore dalla sua osservazione di comportamenti pubblici, si renderà tuttavia conto del fat-to che tale stato esiste non appena avrà modo di esaminare nel dettaglio il flusso di informazioni nei cervelli dei terrestri, e di comprendere quale tipo di rappresentazioni mentali pri-vate vengono generate.

· Farà ancora meglio. Oltre alla semplice scoperta dell’esisten-za di stati coscienti, sarà in grado – sia dalle osservazioni comportamentali, sia dalle scansioni cerebrali – di giungere

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oa una completa descrizione di cosa significhi essere oggetto di un determinato stato. Forse arriverà perfino al punto di riuscire a confrontare lo stato di un individuo con quello di un altro, così da poter dire, per esempio, se differenti sogget-ti stiano sperimentando la percezione del rosso alla stessa maniera.

· Oppure, forse, non sarà in grado di fare nulla di quanto ap-pena descritto.

Ora, si dà il caso che ci siano molti bravi studiosi della co-scienza, qui sulla Terra (potrebbero essere la maggior parte), convinti che l’unica risposta possibile sia l’ultima: a parer loro, la nostra visitatrice non riuscirebbe a scoprire alcunché sulla co-scienza tramite i mezzi scientifici a sua disposizione, e questo a causa di un’imbarazzante quanto innegabile verità: nonostante la sua importanza soggettiva, la coscienza è priva di caratteri-stiche fisiche; non si manifesta. Scrive per esempio lo psicologo Jeffrey Gray: «Nulla di tutto ciò che al momento conosciamo sul comportamento e sulla fisiologia, sull’evoluzione dell’uno come dell’altra, o sulla possibilità di costruire automi in grado di mettere in atto forme complesse di comportamento, è tale da originare un’ipotesi di coscienza, se non venisse ad aggiungersi come dato portato dalla nostra stessa esperienza; né, una volta originata, essa è in grado di fornire una spiegazione utile dei fenomeni osservati in quei domini»7.

Altri si sono spinti ancora più in là, sostenendo quello che il filosofo Owen Flanagan ha definito inessenzialismo della co-scienza, «la visione secondo cui per ogni attività intelligente I, assolta in un qualsiasi dominio cognitivo d, anche se eseguiamo I con l’accompagnamento della coscienza, I può essere in linea di principio eseguita senza questo accompagnamento cosciente»8.

7 Jeffrey Gray, The Contents of Consciousness: A Neuropsychological Conjecture, in “Behavioral and Brain Science”, 18, 1995, p. 660.

8 Owen Flanagan, Consciousness Reconsidered, MIT Press, Cambridge, MA 1993, p. 5 (in questa e nelle altre citazioni, i corsivi sono nell’originale).

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1 Così, secondo John Searle «potremmo avere un comportamen-to identico in due sistemi differenti, uno dei quali è cosciente mentre l’altro non lo è affatto»9. Potrebbe esistere perfino uno «zombie filosofico umano», come ha suggerito David Chalmers, fisicamente identico a un normale essere umano, nell’aspetto e nel comportamento, ma che non è fenomenicamente cosciente («dentro, è tutto buio»10). Dunque, se voi o io dovessimo incon-trare uno di questi zombie filosofici per strada, non saremmo in grado di riconoscerlo.

A dire il vero, ognuno di noi è presumibilmente convinto che nel suo caso specifico la coscienza esista, e dunque potremmo voler concedere il beneficio del dubbio a tutti quelli che ci as-somigliano in maniera tanto evidente. Ma la scienziata di An-dromeda non può sapere della coscienza a partire dalla propria esperienza. Dunque, se e quando osserva somiglianze tra se stes-sa e una qualsiasi delle creature terrestri che ha sotto esame (quei bipedi inermi che sembrano aver preso il controllo del pia-neta sono davvero ingegnosi, a giudicare dalla loro tecnologia!), è probabile che consideri queste ultime simili a sé anche sotto questo aspetto; e, se l’inessenzialismo della coscienza è una teo-ria corretta, la scienziata non troverà nulla, nel corso della sua ricerca, in grado di farle cambiare opinione. Alla fine penserà di non aver sbagliato nulla; farà ritorno su Andromeda e scriverà il suo libro con la soddisfazione di chi ha compiuto la propria missione: Il risveglio spiegato.

Ho detto di voler lasciare l’indagine dell’hard problem a questa visitatrice perché potevamo aspettarci che lei avesse «un punto di vista più distaccato e oggettivo del nostro sul modo in cui la coscienza agisce in noi». Se le cose stanno sul serio così, però, sembra proprio che il problema non sfiori nemmeno il suo orizzonte. Come ha scritto Fodor: «Forse dovremo liberarci di tutto prima di farla finita con l’hard problem». Magari non

9 John Searle, La riscoperta della mente, Bollati Boringhieri, Torino 2003 (ed. orig. The Rediscovering of the Mind, 1992).

10 David Chalmers, cfr. Zombies on the Web, http://consc.net/zombies.html.

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ointendeva darle questa interpretazione… ma questa frase forse non significa che, se vogliamo tenere il passo con la scienza mi-gliore dell’universo, dovremmo abbandonare il concetto stesso di coscienza?

Avrete modo di rendervi conto – per la semplice ragione che il libro non finisce qui – che non la penso così. Il mio punto di partenza è che la coscienza, per quanto elusiva ed enigma-tica in una prospettiva scientifica, è un fatto di natura. E se non lo è in maniera evidente, è solo perché scienziati e filosofi ne hanno cercato l’evidenza nei posti sbagliati. Nutro questa convinzione perché ritengo che l’idea secondo cui la coscienza non ha effetti osservabili sia stupida (e che ancor di più lo sia la nozione di zombie filosofico, un duplicato fisico di un essere umano cosciente, ma del tutto privo di coscienza). Devo, tut-tavia, aggiungere che non ritengo stupido supporre che certi aspetti dell’esperienza cosciente possano non avere effetti os-servabili. Così, prima di proseguire, desidero valutare fino a che punto l’esperienza cosciente possa essere osservabile – o meno – dall’esterno.

Sappiamo che non tutto quello che passa nella mente di una persona o di un animale deve necessariamente manifestarsi nel comportamento: possono benissimo esistere, infatti, stati men-tali puramente privati. A dire il vero, la maggior parte degli sta-ti mentali rimangono privati, nella misura in cui si verificano senza che alcuno – a parte il soggetto – ne venga a conoscenza. Nessun altro al di fuori di voi può sapere quali siano i vostri pensieri in questo preciso momento (perché ve lo chiederebbe, altrimenti?). E solo io so cosa ho sognato la notte scorsa (anzi, neanche lo ricordo più).

Tuttavia, potremmo essere ancora dell’idea che simili stati siano privati solo in maniera contingente: se vi chiedessero a cosa pensate, sareste in grado di comunicarlo; se avessi annotato i miei sogni su un diario, avrei potuto condividerli con voi. E an-che senza fare ricorso al linguaggio ci sarebbe probabilmente il modo di trasmettere molto del contenuto di questi stati mentali.

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1 Questo per quanto riguarda i pensieri. Con i sentimenti le cose sembrano andare in maniera diversa: che dire delle espe-rienze sensoriali elementari? Sembrano private in maniera an-cora più assoluta. Trovereste grosse difficoltà, per quanti sfor-zi possiate fare, nel rivelare il contenuto preciso di ciò che si sperimenta nell’annusare una rosa o nel maneggiare una palla di neve. Anche se foste in grado di comunicare parte di questa esperienza, non sapreste come catturare la qualità soggettiva delle sensazioni, i qualia.

La natura esatta del problema non è affatto chiara. C’è forse qualcosa nella condizione logica dei qualia, in quanto proprie-tà intrinsecamente soggettive, che li rende incomunicabili per principio? O, più semplicemente, nella pratica non disponiamo delle abilità comunicative necessarie? Non potrebbe perfino essere che la nostra mente sia stata progettata con una specie di firewall intorno all’esperienza sensoriale, che pone dei limiti adattivi a ciò che gli altri possono scoprire su di noi?

Potrebbe esserci una parte di verità in ciascuna di queste ipotesi. Ma, a prescindere da quale sia la causa del problema, dobbiamo senza dubbio accettare che un problema esiste; dob-biamo cioè riconoscere che in pratica, anche se non in linea di principio, le sensazioni coscienti sono private in determinati aspetti fondamentali, in modo che nulla di ciò che il soggetto è in grado di dire o fare possa rivelare qualcosa su di esse.

Ad ogni modo, direi che questo è tutto ciò che dobbiamo ri-conoscere. Non abbiamo bisogno – e non dovremmo averne – di accettare nessuna di queste due affermazioni categoriche, vale a dire (1) fintanto che un’osservatrice esterna si limiterà a studiare il comportamento, non sarà nemmeno in grado di rilevare la presenza di una coscienza fenomenica e (2) anche se all’osser-vatrice venisse consentito un completo accesso al cervello del soggetto, non sarebbe comunque in grado di scoprirne l’intero contenuto.

Diamo un’occhiata a queste due questioni. Per prima cosa, perché dovrei credere che la coscienza debba rivelare la sua pre-senza, se non qualcosa di più, al livello del comportamento?

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oLa ragione è quella fondamentale, ovvero la selezione natu-rale: dal momento che la coscienza, per come la conosciamo, è una caratteristica della vita sulla Terra, possiamo dare per asso-dato che – al pari di ogni altra caratteristica specializzata degli organismi viventi – si sia evoluta perché conferisce un vantaggio selettivo. In una maniera o nell’altra, cioè, deve aiutare l’orga-nismo in questione a sopravvivere e riprodursi. E naturalmente questo può accadere solo se in qualche modo influisce sul modo in cui l’organismo si relaziona con il mondo esterno.

Ora, come avviene tutto questo? Le creature coscienti non emanano un odore differente, né assumono un aspetto più gra-devole. La coscienza non procura una forza extra e non assicura una salute migliore. A dire il vero, la coscienza può avere i suoi effetti sulla sopravvivenza solo modificando quella che potrem-mo approssimativamente definire la psicologia della creatura. In altre parole, l’essere fenomenicamente cosciente deve influen-zare il modo in cui la creatura pensa ciò che vuole o ciò che crede, al punto da farla agire nel mondo per mezzo di strategie adattive che altrimenti non avrebbe intrapreso.

Più avanti esplorerò nel dettaglio il modo in cui tutto questo forse funziona: come gli effetti potrebbero presentarsi su diversi livelli, e come potrebbero essere più o meno importanti per le diverse specie animali, spingendo l’evoluzione della coscienza lungo linee specifiche. Come vedremo, gli esseri umani, con il loro senso sviluppato di un “sé cosciente”, fanno probabilmen-te parte di una classe a sé stante. Ma il punto importante, per adesso, è che se la selezione naturale può “vedere” gli effetti – qualunque essi siano – di una mutata psicologia sul compor-tamento, è presumibile che possano fare lo stesso anche altri osservatori esterni (se solo sapessero dove guardare); cosa più importante, se questi osservatori potessero vedere ciò che vede la selezione naturale, sarebbero altresì in grado di coglierne gli aspetti benefici, e dunque di comprendere il motivo per cui la selezione naturale li abbia privilegiati. A quel punto sarebbero sulla buona strada per poter stabilire il perché dell’evoluzione della coscienza.

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1 Ad ogni modo, non travisatemi. Non sto suggerendo che, dal momento che la coscienza è stata elaborata dalla selezione naturale, ciò implica che tutti gli elementi del progetto debbano essere osservabili dall’esterno. Piuttosto, significa che ognuno di questi elementi deve contribuire agli effetti benefici che non passano inosservati alla selezione naturale.

Dato che sarebbe facile fraintendere questo concetto, lascia-temi inserire una breve parabola per spiegarlo meglio. Imma-ginate che in un determinato paese il governo disponga di un Ministero della felicità, il cui ministro ha il compito di massi-mizzare la felicità generale della popolazione. Il ministro deve perciò essere alla continua ricerca di cose che mettano la gente di buon umore. Un giorno si imbatte per caso in un gruppo di persone che ridono nel guardare una vignetta. Dal punto in cui si trova il ministro non può vedere l’immagine in questione, per cui non riesce a coglierne l’umorismo. Tuttavia, è in gra-do di cogliere le sensazioni positive suscitate dalla vignetta; e questo è sufficiente a fargli intraprendere un’iniziativa ministe-riale allo scopo di “replicarla”, ordinando la riproduzione di altre immagini sullo stesso stile. Fatto questo, il giorno dopo gli capita di vedere ancora più gente ridere davanti ai nuovi dise-gni. Il ministro reitera l’ordine, e ben presto vignette analoghe compaiono dappertutto: in pratica, diventano una caratteristi-ca distintiva ministeriale. E tutto questo, vi prego di notare, senza che il ministro abbia mai sentito la necessità di vedere di persona com’erano fatte queste vignette. Tutto ciò di cui ha avuto bisogno era la prova che queste vignette esistessero, e che fossero divertenti.

La mia opinione è che, in maniera analoga, la selezione na-turale non ha mai avuto bisogno di sapere come sia realmente l’esperienza cosciente per il soggetto. Tutto ciò che deve aver “visto” è la prova del fatto che l’esperienza cosciente esiste, e che in qualche modo migliora la vita. In tal caso è possibile, e perfino probabile, che il contenuto fenomenico dettagliato delle sensazioni non diventi mai evidente nel comportamento. Finché la nostra scienziata di Andromeda farà affidamento sul-

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ole osservazioni esterne, dunque, sarà in grado di giungere solo a metà strada del percorso che porta alla scoperta dei fatti legati alla coscienza. Dovrebbe essere senza dubbio in grado di rile-vare che in alcune creature esiste un particolare stato interiore e che, in qualsiasi maniera questo traspaia dal loro comporta-mento, tale stato accresce la loro affermazione nella lotta per l’esistenza. Ad ogni modo, difficilmente potrebbe spingersi ol-tre tale punto11.

Tuttavia, cosa succederebbe se la scienziata fosse in grado di frugare nelle loro teste? Perché sono convinto che un osser-vatore capace di andare oltre il comportamento fino al livello dell’attività cerebrale dovrebbe essere capace di scoprire tutto quello che c’è da sapere?

Semplicemente per via del principio sotteso a tutte le scienze, ovvero che nulla di rilevante avviene senza una causa materiale. Quando un’esperienza cosciente si manifesta nella mente di una persona, ci troviamo davanti al risultato di determinati eventi nel cervello. Per di più, se e quando questi eventi (nella loro to-talità) si manifestano, il risultato deve essere che la persona è co-sciente (motivo per il quale l’idea di uno zombie filosofico non ha senso). Così, se la nostra scienziata può andare in profondità e osservare questi eventi essenziali, dovrebbe essere capace, in linea teorica, di dedurre il risultato, purché ovviamente dispon-ga di una teoria che leghi gli stati cerebrali all’esperienza, una teoria che le consenta di spostarsi da un livello all’altro.

Che genere di teoria dovrebbe essere? Come ha scritto il filosofo Dan Lloyd: «Quello che ci serve, invece, è una teoria trasparente. Una teoria che, una volta compresa, ci permetta di asserire che qualsiasi cosa costruita in un certo modo avrà una

11 Su questo punto mi trovo in disaccordo con il filosofo a cui sono altrimenti più vicino, Daniel Dennett, il quale ha sostenuto che ciò che definisce eterofenome-nologia – il metodo che consiste nel prendere in considerazione tutto quello che emerge dal comportamento – dovrebbe essere sufficiente a rivelare tutto ciò che c’è da sapere. Si veda Daniel C. Dennett, Coscienza, che cosa è, Editori Laterza, Roma-Bari 2009 (ed. orig. Consciousness Explained, 2008).

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1 certa esperienza cosciente»12. Possiamo ricavare un’analogia quando spieghiamo le proprietà dell’acqua. Gli scienziati sono in grado di dedurre che un secchio di molecole, la cui compo-sizione è H2O, a temperatura ambiente avrà le proprietà fisiche della sostanza che conosciamo come acqua (fluidità, umidità e via dicendo) perché, grazie alla loro comprensione delle leggi della chimica fisica, dispongono di una teoria sul perché l’acqua, sotto la sua descrizione chimica, deve equivalere all’acqua sotto la sua descrizione fisica.

Dunque, allo stesso modo, possiamo ragionevolmente spe-rare che se e quando gli scienziati avranno un’analoga com-prensione delle leggi di quella che potremmo definire neuro-fenomenologia, così da poter disporre di una teoria sul perché l’attività cerebrale sotto la sua descrizione neuroscientifica deb-ba equivalere all’attività mentale sotto la sua descrizione em-pirica, saranno in grado di dedurre che, per esempio, un uomo il cui cervello è in uno stato particolare è un uomo che sta ri-muginando determinati pensieri13. È già abbastanza condiviso, tra quanti studiano le relazioni mente-cervello, che è il modello del flusso di informazioni nel cervello a determinare gli stati mentali. Direi dunque che potremmo ipotizzare che le leggi neu-rofenomenologiche saranno essenzialmente leggi riguardanti il modo in cui viene computata l’esperienza. Va detto che, a parte questa intuizione, i nostri scienziati qui sulla Terra non sono af-fatto vicini a scoprire in cosa consistano realmente queste leggi;

12 Dan Lloyd, Radiant Cool: lo strano caso della mente umana, Sironi, Milano 2006, p. 39 (ed. orig. Radiant Cool: A Novel theory of Consciousness, 2003).

13 Mike Beaton propone un’analisi sofisticata sui problemi logici relativi alla spiegazione dei qualia. In particolar modo sottolinea come, spostando le proprie argomentazioni da un livello concettuale all’altro, la spiegazione scientifica pro-ceda esclusivamente a senso unico. Così, mentre possiamo dedurre le proprietà dell’acqua dalla sua composizione chimica, non possiamo dedurne la composizio-ne chimica a partire dalle proprietà. Lo stesso è presumibile sia vero per i qualia e il cervello: dagli stati cerebrali ai qualia, sì; dai qualia agli stati cerebrali, no. Ne consegue che nessuno dovrebbe aspettarsi di essere in grado di dedurre cosa succede al livello del suo cervello partendo dalla semplice introspezione. Si veda Mike Beaton, Qualia and Introspection, in “Journal of Consciousness Studies”, 16, 2009, pp. 88-110.

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otuttavia, non dobbiamo dubitare della loro esistenza e del fatto che alla fine verranno trovate. Così, volendo proseguire con la storia della extraterrestre, immaginiamo che le teoriche di An-dromeda siano molto più avanti dei nostri scienziati e che – in previsione della missione della loro collega (o forse per il gusto di farlo) – abbiano elaborato in anticipo le leggi fondamentali che regolano i cervelli alieni.

Quindi, supponiamo che la scienziata di Andromeda sia giunta in mezzo a noi armata degli strumenti teorici necessari a interpretare l’attività cerebrale dei terrestri in termini speri-mentali. Dove la porterà tutto questo? Dato per certo quanto abbiamo appena descritto potremmo ipotizzare che, sulla base delle semplici osservazioni del comportamento, concluderà che in alcune delle creature terrestri sotto esame (in particolare gli esseri umani) esista un particolare stato interiore che influenza il loro atteggiamento nei confronti dell’esistenza (il contenu-to dettagliato di tale stato, tuttavia, rimane ancora un mistero per lei). Ma, ora che la sua ricerca sul cervello è ben avviata, con l’aiuto della teoria la scienziata sarà in grado di dedurre che questi particolari soggetti hanno esperienze dotate di quel fantastico e misterioso contenuto che voi e io conosciamo di persona.

“Che mi venga un colpo!” potrebbe esclamare, “Chi l’avreb-be mai detto?”; perché in realtà avrà dedotto l’esistenza dei qua-lia. Sarà in pratica giunta alla descrizione completa della battuta segreta che si cela dietro la risata pubblica.

Siete ancora lì? Oppure pensate che io abbia cercato di gio-carvi un brutto tiro (in realtà, non ho cercato di giocarvelo qualche pagina fa)? Può essere vero che la scienziata di Andro-meda – che, è bene ricordarlo, di per sé non è cosciente – abbia scoperto cosa sia veramente la coscienza? O non è forse la sua pallida ombra quella che ha scoperto?

La questione importante, potreste insistere, è se la scienzia-ta, nel momento in cui esamina il cervello di un soggetto che sta provando una sensazione cosciente, possa desumere cosa sia

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1 realmente l’esperienza di quel soggetto e non semplicemente ot-tenere una descrizione di cosa sia quell’esperienza (e definirla una descrizione fenomenologica non fa che rendere inevitabile la domanda).

Comunque no, non vi ho giocato un brutto tiro. Piuttosto, se ponete quest’obiezione, direi che ve lo siete giocato da soli: vi siete fatti ingannare dall’idea seducente che l’esperienza coscien-te sia un qualcosa di realmente separato da ciò che il soggetto pensa che essa sia, ovvero dalla rappresentazione mentale che ne fa. Ma le cose non stanno così. Se non lo capite adesso, spero di convincervi a mano a mano che andremo avanti. Per darvi un assaggio di ciò che vi aspetta, nel prossimo capitolo cercherò di dimostrare che quella che all’inizio di questo libro ho definito una frase inadeguata, «è come qualcosa», dopo tutto non è poi così male; d’altronde, avere un’esperienza sensoriale che è come qualcosa significa davvero rappresentare l’oggetto dell’esperien-za come un certo qualcosa dalle caratteristiche molto peculia-ri. In parole povere, avere un’esperienza sensoriale che è come qualcosa significa sperimentarla per com’è.

Il filosofo John Searle (con il quale, sulla questione della co-scienza, siamo d’accordo su poche cose) punta il dito proprio contro questo argomento quando scrive: «Se a me sembra di avere esattamente delle esperienze coscienti, allora sto avendo delle esperienze coscienti»14. Proprio così. “A Searle sembra esattamente come se” può significare soltanto “è mentalmente rappresentato da Searle esattamente come”.

Cosa ne consegue? Dal momento che le rappresentazioni mentali possono, in linea di principio, essere sempre descritte o ri-rappresentate pubblicamente – altrimenti non conterebbero come rappresentazioni – ne consegue che, nonostante quanto detto poco sopra sull’incomunicabilità de facto dell’esperienza privata, deve essere in teoria possibile descrivere cosa significhi essere coscienti.

14 John Searle, The Mistery of Consciousness, Parte II, in “New York Review of Books”, 16 novembre 1995.

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oNon è possibile negare che, allo stato attuale delle cose, noi umani non ci riusciamo in maniera soddisfacente. Per assolvere questo compito ci mancano sia la teoria sia il linguaggio; ma queste, bisogna ammetterlo, sono limitazioni contingenti, già superate su Andromeda e destinate ad esserlo presto anche qui sulla Terra.

Sono dell’idea che dovremmo riconoscere che le descrizioni fenomenologiche dell’esperienza cosciente che compariranno nella teoria definitiva avranno bisogno, con tutta probabilità, di un vocabolario nuovo, se non di una nuova grammatica15.

Ma non dovremmo essere troppo allarmati da tutto questo, e ancor meno considerarlo un valido motivo per arrenderci. È già accaduto nella storia del progresso scientifico che gli scienziati richiedessero un nuovo linguaggio concettuale prima di poter proseguire; e che poi, dopo un primo imbarazzo e una prima incredulità, tutti vi si siano abituati senza problemi. Pensate, per esempio, a come i matematici hanno dovuto farsi una ragione dei “numeri complessi” comprendenti la radice quadrata di -1, o dei “numeri transfiniti” che sono, cioè, maggiori di infinito; pen-sate a come i fisici abbiano dovuto fare i conti con la relatività.

Le descrizioni future dell’esperienza cosciente richiederan-no quasi certamente concetti che suonano strani se accostati al nostro modo di pensare. Ho già sottolineato all’inizio del ca-pitolo che il problema con la frase per cui essere cosciente «è come qualcosa» sta nel fatto che quel qualcosa non ci sembra – meglio, non è – simile a nient’altro nel mondo materiale. L’e-sperienza fenomenica del «presente soggettivo» che si vive nel «momento denso», come ho cercato di descriverla altrove16 e come cercherò di rivisitare in sintesi, è un concetto essenziale quanto, forse, privo di senso.

15 Non sto rigettando per intero i valorosi tentativi dei filosofi e degli psicologi “fenomenologisti”, come Husserl e Merleau-Ponty, di fornire una descrizione esaustiva dell’esperienza sensoriale. È solo che non mi pare abbiano avuto troppo successo.

16 Nicholas Humphrey, Rosso. Uno studio sulla coscienza, Codice, Torino 2007 (ed. orig. Seeing Red: A Study in Consciousness, 2009).

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1 Ma continuiamo a seguire la nostra storia. Abbiamo dato per certo che le scienziate di Andromeda siano molto più avanti di noi nel riconoscere le leggi neurofenomenologiche. All’interno di questo assunto deve essere contenuto quello secondo cui esse abbiano già sviluppato un linguaggio appropriatamente esoteri-co per descrivere l’esperienza cosciente (anche se lo sviluppo di questo linguaggio deve essere stato, per così dire, “speculativo”, dato che gli abitanti di Andromeda, non avendo mai incontrato prima creature simili agli esseri umani, non possono aver anco-ra avuto occasione di utilizzarlo)17. Dunque stiamo ipotizzando che la nostra visitatrice abbia gli strumenti per descrivere com’è per noi umani l’esperienza della coscienza anche se, al presente, noi questi strumenti non li abbiamo.

Ad ogni modo, non voglio fare della nostra inadeguatezza un punto morto. Affermare – come numerosi filosofi farebbero – che la coscienza è essenzialmente ineffabile significa sottostima-re l’ingegnosità e la creatività degli esseri umani. Come vedremo in seguito, gli uomini hanno maggiori potenzialità di esprimere apertamente cosa significhi essere coscienti di quelle che scien-ziati e filosofi scettici sono propensi a farci credere; anche se, quando lo fanno, “barano” utilizzando il linguaggio dell’arte piuttosto che quello della scienza. Ma, come ho già detto, ce ne occuperemo più avanti18.

17 Considerate, quale esempio parallelo qui sulla Terra, come la teoria dei numeri complessi sia stata a lungo sviluppata come esercizio matematico prima di entra-re nell’uso della fisica applicata.

18 Il poeta e fisico David Sahner, in un saggio che mette a confronto le idee di questo libro con la filosofia di Wallace Stevens, si concentra sul modo in cui la poesia può catturare l’ineffabile: «Al loro nucleo, i qualia e, per estensione, le esperienze fenomeniche integrate in genere, sfidano la descrizione “verbatim”. Per fare un esempio, il nostro vocabolario è anemico riguardo al “rossore del rosso”. Ciò di cui si avvale il poeta nei suoi tentativi di duplicare le sfumature percepite dell’esperienza è la tecnica poetica, che consiste principalmente di tropi (per esempio simboli, similitudini e, come le ha definite Stevens in una poesia, metafore sfuggenti). Altri strumenti tecnici che consentono la prestidigitazione poetica, con il risultato di ampliare l’esperienza cosciente e renderla originale, includono l’antimeria (per esempio, l’uso di un nome in funzione di verbo), la sinestesia (ovvero la descrizione di un tipo di sensazione nel linguaggio relativo a

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oQuesto capitolo introduttivo, cominciato in maniera così di-sinvolta, si sta facendo pesante: è il momento di tirare le somme e alleggerirlo, se possibile. Volevo che la scienziata di Androme-da mi aiutasse a risolvere l’hard problem – comprendere la na-tura della coscienza – perché speravo che osservare il problema dalla sua prospettiva avrebbe fornito linee guida utili alla nostra indagine. Di qualsiasi tipo siano le differenze tra noi e lei, parto dall’assunto che la scienza è scienza, in qualunque punto dell’u-niverso venga praticata. Le prove e le conclusioni valide per queste ricercatrici di una galassia lontana dovrebbero esserlo allo stesso modo per noi sulla Terra. Questo è il motivo che mi ha spinto a chiedermi cosa avrebbe potuto scoprire la scienziata di Andromeda sulla coscienza, e cosa invece no; perché reputo che, ai limiti delle nostre capacità di umani, è quello che anche noi possiamo aspettarci di scoprire.

Qui sta il nocciolo della questione.Abbiamo stabilito che la scienziata di Andromeda sarà in

grado di scoprire al livello comportamentale degli indizi concre-ti del fatto che alcune creature siano dotate di coscienza. Come minimo, scoprirà che la coscienza determina certi effetti bene-fici, effetti su cui la selezione naturale ha agito (e continua ad agire) nel corso dell’evoluzione. Scoprirà che la coscienza esiste e – in un quadro più ampio – a cosa serve.

Ciononostante, dal momento che ne rimane all’esterno, con tutta probabilità non sarà in grado di comprendere in profon-

un’altra modalità sensoriale), la paratassi (lo scarso utilizzo di termini connettivi, che veicola un effetto impetuoso), e le strategie che evocano emozioni religiose o ipnotiche attraverso il ricorso alla ripetizione (per esempio, l’anafora). E non è tutto. La configurazione del verso (che può essere parte di un enjambement, così da creare doppia significazione, tensione e perfino una sfumatura violenta) e il suo ritmo (che può restituire intensità, velocità, un tocco balsamico e un senso di goffaggine) vengono utilizzati con attenzione dai poeti. Questi strumenti spingo-no l’involucro della descrizione poetica verso un tentativo più accurato di imitare il modo in cui l’esperienza è realmente percepita, nella vampata di affettività e di intensità pregna di significato». David Sahner, Phenomenal Experience as a Basis for Selfhood in the Poetry of Wallace Stevens: Communion with a New Theory, manoscritto, 2010.

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1 dità i contenuti della coscienza: questo perché le caratteristiche fondamentali di come si presenta al soggetto probabilmente sa-ranno, in circostanze normali, nascoste alla pubblica vista; an-che se queste caratteristiche sono in definitiva all’origine di tali effetti benefici.

Per scendere nel dettaglio, la scienziata dovrà indagare gli aspetti interni; quando lo farà, utilizzando tutte le tecniche neu-roscientifiche a sua disposizione, dovrebbe essere capace di sco-prire tutto ciò che riguarda l’essere cosciente, a patto che sia do-tata di una teoria. Ma questa teoria neurofenomenologica dovrà essere nuova e rilevante; non una teoria che noi esseri umani non potremmo mai afferrare (come hanno suggerito diversi fi-losofi, in particolare Colin McGinn)19, bensì di certo una teoria che non saremmo in grado di capire senza prima lavorarci un altro po’.

Dunque, adesso lasciatemi stabilire le priorità del mio lavoro e di questo libro. Ciò che ho in animo di fare è emulare, a modo mio, l’indagine della scienziata di Andromeda. Tuttavia, in virtù del fatto che, primo, non sono sveglio come lei e, secondo, sono un esempio vivente del fenomeno sotto indagine, i miei obiettivi strategici saranno leggermente diversi.

Su Adromeda, come ho già suggerito, le scienziate hanno già sviluppato gli strumenti teorici per risolvere l’hard problem di come la materia possa, in linea di principio, dare origine alla co-scienza (e questo senza che si siano mai imbattute, di fatto, in un caso concreto); noi umani, al contrario, sappiamo di fatto che la coscienza esiste, ma al momento non possediamo alcuna teoria al riguardo. Il primo obiettivo di questo libro, quindi, dev’essere quello di tracciare almeno l’abbozzo di una teoria plausibile su cosa sia la coscienza, e su come si relazioni al cervello. A questo scopo, nei prossimi capitoli esporrò una descrizione radicalmen-te nuova di cosa intendiamo quando diciamo che sperimentare delle sensazioni “è come qualcosa”; avanzerò cioè una propo-

19 Colin McGinn, Can We Solve the Mind-Body Problem?, in “Mind”, 98, 1989, pp. 349-366.

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osta per spiegare cosa sia davvero quella cosa nel cervello che il soggetto rappresenta essere “come qualcosa”, indicando quali potrebbero essere state le sue origini biologiche negli animali non coscienti.

Ho ipotizzato che la scienziata di Andromeda, essendo del tutto nuova al mondo delle creature coscienti, all’inizio non avrà idea di quale differenza comporti la coscienza sul piano privato e su quello pubblico, per non dire di quali vantaggi, se ve ne sono, ne derivino. Al contrario, noi umani sappiamo abbastanza sulla differenza che la coscienza comporta nella no-stra vita privata, ma siamo comunque lontani dal comprendere come poi tutto questo si traduca in un vantaggio collettivo. Il secondo obiettivo del libro sarà dunque quello di scoprire – sa-pendo quello che già sappiamo – come l’essere coscienti modi-fichi la psicologia della gente (e forse anche quella di altri ani-mali) in modi che in definitiva incrementano le loro possibilità di sopravvivenza.

Dopo tutto quello che avete letto forse temerete che il teno-re del libro possa essere troppo scientifico; non preoccupatevi. Piuttosto, c’è da rimboccarsi le maniche: dobbiamo prendere la scienza per il verso giusto, se possiamo. Ma il titolo di questo libro è Polvere d’anima, e vi terrà fede. Proseguirà con una serie di analisi scientifiche un po’ ardue, ma terminerà con una fiaba – una fiaba basata su fondamenti scientifici – che ci racconta come la coscienza illumini il mondo.