Poltronissima V edizione

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S O M M A R I O

5 Il Direttore Roberto Idà

6 Due grandi opere aprono la stagionelirica in CalabriaIl barbiere di Siviglia e Turandotdi Giuseppe Tumino

14 Teatri a confrontodi Luisa Bellissimo

17 Incontro con Serenella Fraschinidi Paola Abenavoli

18 Arturo Brachettiovvero la fantasia al poteredi Matteo Pappalardo

22 Giorgio Albertazziacrobata della leggerezzadi Gabriella Gangemi

25 Studenti a lezione dai “grandi” del teatrodi Paola Suraci

28 Filumena Marturanoeroina senza tempodi Roberta Nunnari

30 Nozze di sanguedal seminario alla rappresentazionedi Francesca Neri

34 La difficile arte del far ridereda Angelo Musco ad Enrico Guarneria Tuccio Musumecidi Salvatore Di Fazio

38 La “chanson” di Artemisia SanchezUn romanzo storico divenuto best sellere fiction di successoDal racconto dell’autore ...di Santo Gioffrè

46 Artemisia “scrutata”con gli occhi di un artistadi Walter Manfrè

48 Il volto e la mascheraorigini teatrali del personaggioCharlotdi Nicola Petrolino

56 Le Marionette dei Colla... Favole appese a un filodi Ida Fedele

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60 Il teatro di Caravaggioe il mistero delle Conversionidi Giovanni Bonanno

64 Villa Genoese Zerbi, scrigno d’arte,cultura e creatività mediterranea- Reggio Art- Magici frammenti di lucedi Daniela Masucci

71 Euainetos e le moneteLa quadriga di Apollo di Daniele Castrizio

75 Auguri di cartaI biglietti di Natalealla corte della Regina Vittoriadi Lucia Federico

80 Alba tragicaDagli archivi storici delle Ferrovie dello Statodi Francesco Arillotta

Dagli archivi storici di Poste Italianedi Mauro De Palma

90 Il cilicio e lo scrittoredi Pasquino Crupi

92 La porta strettae l’inquietudine del Dio ignotodi Giovanni Cogliandro

96 Paradossi e speranze della Menzognadi Glauco Morabito

98 La promessa di Barack ObamaGioacchino da Fiore mi ha ispiratodi Luisa Nucera

101 V For vendetta: striscia di un capolavorodi Sabrina Cuzzocrea

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Il teatro, si dice, per la sua peculiarità è in grado di dimostrare meglio di altre formeartistiche la legge morale dell'uomo. Questa affermazione è condivisibile a condizio-ne che l'arte teatrale, da sempre espressione poetica integrata alla vita sociale, siinterroghi sul proprio ruolo in rapporto alla comunità, partecipi con i suoi strumentia smuovere coscienze, e non smetta mai di chiedersi quali funzioni può svolgere in undeterminato momento storico.In questa accezione, ha ancora senso discutere sui rapporti tra etica e teatro, tramorale e cultura dello spettacolo, tra spirito e denaro, tra imprenditorialità e politi-ca nell'organizzazione degli eventi.Questa riflessione dovrebbe coinvolgere tutti gli operatori del settore, ma soprattut-to quelli che la ricerca del consenso a tutti i costi l'hanno elevato a sistema, propo-nendo frequentemente eventi più marcatamente commerciali che artistici, contri-buendo così alla costruzione di un gioco che inevitabilmente si spinge al ribasso, conl'aggravante di un mancato ricambio generazionale, l'incompatibilità e l'accentramen-to degli incarichi, (con la conseguente tendenza al baratto) e la blindatura dei finan-ziamenti pubblici.Se è vero che oggi la mano pubblica rappresenta il nuovo mecenate per l'arte, a qualicriteri un amministratore di pubblico danaro, che non abbia la supponenza di fare ildirettore artistico, può appellarsi alla scelta dei progetti, oltre a quello di norma piùutilizzato, del facile consenso e non della logica dei numeri e della qualità?Il politico generalmente tende a chiedere: “… quanti spettatori c'erano?” e non “… èstato bello lo spettacolo?”La qualità si riconoscerebbe ancor meglio, se intorno al teatro ci fosse una sincera cir-colazione di idee, un dibattito, un interesse reale rivolto alla crescita ed al futuro.Purtroppo non è sempre così. L'assenza di obiettivi, di programmi a più lungo termi-ne, di un'adeguata promozione degli eventi, o peggio l'approssimazione o il dilettan-tismo organizzativo, non più concepibili sono, se protratti nel tempo, causa di ingen-ti danni economici e d'immagine.Siamo tutti consapevoli che non c'è più spazio per gli sprechi. Se esiste una questio-ne morale, ognuno nel proprio ambito, deve farsene carico.Crediamo insomma che occorra ridare respiro etico al teatro, rimettendo al centrodelle riflessioni l'altezza delle intelligenze, il rispetto delle competenze, troppo spes-so svilite e umiliate, ma soprattutto progettare il coinvolgimento delle nuove genera-zioni oltre che valorizzare quelle strutture dalle grandi potenzialità produttive, farlevivere di luce propria, evitando che le stesse siano ridotte a mero palcoscenico.

Roberto Idà

i l d i r e t t o r e

Direttore ResponsabileRoberto Idà

Vice DirettoreLucia Federico

Hanno collaboratoPaola Abenavoli, Francesco Arillotta,Luisa Bellissimo, Giovanni Bonanno, DanieleCastrizio, Giovanni Cogliandro, PasquinoCrupi, Sabrina Cuzzocrea, Mauro De Palma,Salvatore Di Fazio, Ida Fedele, LuciaFederico, Gabriella Gangemi, Santo Gioffrè,Walter Manfrè, Daniela Masucci, GlaucoMorabito, Francesca Neri, Luisa Nucera,Roberta Nunnari, Matteo Pappalardo, NicolaPetrolino, Paola Suraci, Giuseppe Tumino

Servizi FotograficiAntonio Agostino, Cristina Di Paoloantonio,Enrico Grieco, Pascalito, Antonio Sollazzo

Segretaria di redazioneMaria Grazia Verduci

Art DirectorMassimo Monorchio

Progetto Grafico e Impaginazione Studio Onatas Communication

Direzione e RedazioneVia Marina snc 89135 Catona - Reggio Calabriatel. 0965.301092 - 0965.304054 - [email protected]

EditorePolis Cultura arlPresidente Lillo Chilà

Autorizzazione Tribunale di Reggio Calabrian°12/06 del 18/10/2006

StampaAzienda Grafica Biroccio SilvioReggio Calabria

Gli articoli, e ogni altro materiale pervenutoalla redazione, non saranno retribuiti.Manoscritti e foto originali, anche se non pub-blicati, non saranno restituiti.Tutti i diritti sono riservati. La riproduzione,totale o parziale, di qualsiasi parte della rivistaè assolutamente vietata.

In copertinaArtemisia Sanchez - FictionFoto Cristina Di Paoloantonio

Retro copertinaParticolare della Conversione di Saulodel Caravaggio

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“Barbiere” e ne ha fatto un film “in progress”, in tutto eper tutto simile a un reality show. Al Politeama diCatanzaro, e poi al Cilea di Reggio Calabria e al Rendano diCosenza, l'allestimento imponente e audace ha riscossoconsensi ma anche critiche. In verità, queste ultime,

parecchio giustificate.Si tratta di uno spettacolo coraggioso, talora fan-tasioso, anche se solo moderatamente innovativo.Ma l'idea registica che ne sta alla base, ammessoche esista, francamente ci è sfuggita. Come pur-troppo totalmente è sfuggito da questo "Barbiere"il sorriso, che Calopresti sembra aver voluto deli-beratamente sopprimere. E questa in un operaaggettivata “buffa” in generale, e nel teatro comi-co di Rossini in particolare, è qualcosa in più di unapecca mortale: è una vera e propria impresa.Il regista dichiara scopertamente l'approccio filmi-co, rivelato fin dall'ouverture con il passaggio suschermo dei titoli di testa, col cast al completo. E quiperò, quanto ad approccio filmico, si ferma, salvo che perl'onnipresenza di due cameramen in frac che si aggirano trai personaggi riprendendo e proiettando in diretta sulla teladi proscenio evoluzioni e gorgheggi. Come dire: dalla cel-

luloide al Grande Fratello, o al Festival di Sanremo, che poiè quasi lo stesso.Le scenografie (di Alessandro Marrazzo) lasciano il palco-scenico seminudo, attraversato da due piccole pedane abinario sulle quali si alternano solisti e comparse (tre note-

voli veline, che ricordano le "ragazze coccodè" di Arbore equalche volta persino la “guest star” Nino Frassica, neipanni del servo muto Ambrogio), e sormontato da impo-nenti luminarie da festa patronale. Entro tutto questo,idee in libertà o ... nessuna idea.

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Il Barbiere di Sivigliasecondo Mimmo Calopresti

l Barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini andò in scenaper la prima volta il 20 febbraio 1816. Fu un fiasco cla-moroso, uno dei massimi della storia del melodramma.

C'è un perché: si trattava di un remake, come si direbbeoggi. Il pubblico, ma anche una bella fetta di claque prez-zolata, era affezionato al caro vecchio "Barbiere" diPaisiello e non tollerava che la frittata fosse rigirata da uncompositore giovane e sfacciato. La cilecca durò esatta-mente 24 ore: alla seconda recita il pubblico del TeatroArgentina, a Roma, capì che quel ragazzino faceva unamusica nuova, assai più bella dell'originale. All'istante,mise in soffitta Paisiello e decretò il trionfo. Il composito-re, mandato a chiamare in camera sua per precipitarsi ateatro, non volle saperne di alzarsi dal letto. “Al diavolo ilpubblico”, pare abbia commentato. Difficile dargli torto.In realtà Rossini un po' “ci faceva”. Simulava distacco daogni vicenda umana, ma era un genio venale e consapevo-le. Lavorava come un matto per guadagnare e viveremeglio, e solo l'ironia lo salvava dal mal di fegato tipicodegli incompresi. Abbandonò le scene a trentasette anniappena, giusto in tempo prima che la temperie romantica,cui per formazione e indole era invincibilmente estraneo,travolgesse tutto e in Italia il ciclone Verdi condannasse lesue opere all'oblìo. Si ritirò a Parigi, dove visse altri qua-rant'anni lontano dalle scene, conservatore ostinato masolo in apparenza indifferente e disilluso, circondato daammirazione e ossequio universali.Il suo ruolo nella storia della musica fu di importanza capi-tale. Contribuì a riformare l'opera seria, ma lo fece con unapproccio del tutto reazionario, partendo da canoni rigida-mente settecenteschi in direzione di un'assoluta perfezio-ne formale, introducendovi con stupefacente maestriaatmosfere e contrasti già scopertamente romantici. Soloapparente paradosso, la sua forza fu anche la sua condan-na: dopo il sublime “Guglielmo Tell” (1829), impossibilita-

to a proseguire su quella strada, mentre il mondo intornoa lui mutava rapidamente, non potè far altro che ridursi alsilenzio.Nell'opera buffa, poi, quella di Rossini fu praticamente l'ul-tima parola. Fu l'unico a comprendere perfettamente lagigantesca lezione mozartiana, cui aggiunse il disincantospietato dell'uomo moderno. I suoi crescendo travolgenti,gli irresistibili non-sense, le acrobazie vocali, celano sottola levità dell'apparenza una straordinaria introspezionedelle passioni e delle miserie dell'uomo, analizzate peròcon il distacco pessimista del cinico assai più che con larazionale fiducia dell'illuminista. Con lui il melodrammagiocoso finì di essere farsa e si tramutò in commedia, verae vitale: proprio per questo, al contrario di quelle serie, lesue opere buffe conservano ancora, a quasi due secoli didistanza, una freschezza che le rende accessibili e popola-ri in tutto il mondo, a scapito di ogni barriera culturale olinguistica.La più celebre tra tutte è “Il Barbiere di Siviglia”. Qui lacommedia borghese trova la sua forza irresistibile proprionell'irrisione dell'aristocrazia moribonda, attraverso lamessa in scena di vizi e virtù semplici e profondamenteumani. Ma, come quasi sempre in Rossini, è un'irrisionesenza speranza: e Figaro, motore su cui ruota la vicenda edesemplificazione dell'uomo moderno, al di là della strari-pante simpatia altro non è che un ruffiano, cinico e oppor-tunista.Mimmo Calopresti, polistenese, regista cinematograficoalla sua prima incursione nel melodramma, ha preso il

di Giuseppe Tumino

Innovativa rilettura del melodrammabuffo di Gioacchino Rossini. Con gli stru-menti in suo possesso, il regista calabre-se mette in piedi uno spettacolo rivolu-zionario, sollevando le critiche dei puristirossiniani.

Il Barbiere di Sivigliadi Gioacchino Rossiniregia Mimmo CaloprestiMaestro concertatore e Direttore d'orchestra Marcello RotaOrchestra Provincia di Catanzaro La GreciaCoro Lirico Francesco Cileaproduzione Fondazione Politeama Catanzaroin collaborazione con Impresa Lirica Gitto Gioacchino

Due grandi opere aprono la stagione lirica in Calabria

Angelo Veccia (baritono) interpreta Il barbiere di Siviglia - foto Antonio Sollazzo

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’opera finisce qui perché a questo punto il MaestroPuccini è morto”. Arturo Toscanini pronunciò questafrase celebre, o qualcuna simile, il 26 aprile 1926, al

Teatro alla Scala, una volta spenta l’ultima nota del gran-de diminuendo che segue la morte di Liù, e l’uscita discena del corteo funebre. Le versioni tramandate da storiae mito cambiano, resta il gesto, quello del grande diretto-re che depone la bacchetta, nel silenzio assoluto dellasala. Un gesto di valenza stori-ca: il giorno della prima mon-diale di “Turandot” la grandetradizione del teatro d’operaitaliano scriveva la sua ultima

parola.In una Cina senza tempo la vergine Turandot, figlia dell’im-peratore Altoum, sposerà solo colui che, di sangue regio,affronti a rischio della testa e risolva tre enigmi che ellastessa proporrà. Accetta la sfida Calaf, figlio di Timur, spo-destato re dei Tartari, cieco, che egli per caso incontra ericonosce, ormai mendicante, quasi travolto dalla follamentre il boia decapita l’ennesimo pretendente sconfitto.

Rosina (Francesca Provvisionato, brava) esegue la sua cava-tina in body intimo e generose autoreggenti, per poi passa-re all'abito da sera e, nel rondò dell'Inutil precauzione, simetamorfosa addirittura nella Carmen di Bizet, e al postodella torrida Habanera canta "cara immagine ridente /dolce idea d'un lieto amor" accennando ... passi di tango.Imbarazzante.Figaro paga dazio pesante, trasformato - proprio lui, unodei personaggi più simpatici dell'intero repertorio - in unsottoclone del Borat di Baron Cohen con maglietta auto-griffata, parrucca viola e deambulazione danzante, a metàtra il punk e il paninaro degli anni Ottanta: lo si immaginacon i-pod infilato alle orecchie e, forse, una spina di cor-rente chissà dove. E quel che è peggio il baritono (AngeloVeccia) canta tutto in un perenne mezzoforte (volutamente?)metallico, conforme allook da alienato, inte-ressante giusto all'inizio,nel Largo al factotum,ma dopo tre minutipraticamente insoppor-tabile, perché somma-mente inespressivo. Gli altri personaggi,quasi per compensazio-ne, soffrono di mancan-za di idee.Don Bartolo (RomanoFranceschetto) e DonBasilio (Maurizio Muraro)sono un medico e unmusicista e difatti vesti-vano rispettivamentegiacca e cravatta e fracda orchestrale; Berta(Marianna Monterosso) èuna serva e sfoggiava lasua brava crestina, men-tre Fiorello (AlessandroCosentino) era tutto innero e i soldati propriovestiti da soldati, deiprimi dell'Ottocento pergiunta. Resta il Conted'Almaviva, che ha avutoil canto corretto diBlagoj Nacoski e neanchelui è stato beneficiatoda trovate sensazionali, tale non essendo certo quella percui, travestito da Don Alonso, invece che canto insegna aRosina passi di tango.Sul podio dell'Orchestra della Provincia di Catanzaro "LaGrecìa", il maestro Marcello Rota ha dipanato, neanche adirlo, una lettura che più tradizionale non si può. Citazioni

d'obbligo per gli uomini del Coro lirico "Cilea" di Reggio, peril videoscenografo Sergio Gazzo, cui si devono, oltre alle"prese dirette", cartoons e immagini più o meno allegorico-allusive proiettate sul fondale e altre trovate assortite, peril light designer Salvatore Manganaro e per VincenzoCicala, Maestro puparo di Palmi che ha fornito i due "gigan-ti" - come dire? a libera interpretazione - che appaiono neifinali d'atto.Una finta levità, insomma, quella ostentata da Calopresti,che pascola nei battutissimi campi del troppo prendersi sulserio, ben esemplificata dal velo di proscenio oltre il qualesi svolge l'azione, che si intravede pallida pur nella suasgargianza, allo stesso tempo rutilante e manierata, insipi-da e confusionaria. Occasione mancata questo “Barbiere”,certo, ma anche un'utile lezione sulla vitalità del nostro

teatro d'opera e sul delicato meccanismo che ne sta allabase, sempre in bilico tra modernità e tradizione, sempregiustamente oggetto di sperimentazione e tuttavia ancoraintegro, prodigo di stimoli, intollerante alle parodie epronto a rivoltarsi contro mercificazioni e banalità.

Turandot al Teatro Cilea

Il canto del cigno della grande tra-dizione dell’opera italiana: ilcapolavoro di Puccini racconta unafiaba affascinante miscelando inmodo perfetto eroismo, esotismo,grottesco e sentimentale, in unlinguaggio musicale che parla giàdelle inquietudini e delle disillu-sioni del Novecento. A ReggioCalabria una solida regia, uneccellente direttore d’orchestra edue grandi voci: Giovanna Casollae Nicola Martinucci

Angelo Veccia (baritono) e Francesca Provvisionato (mezzosoprano) interpretano rispettivamenteFigaro e Rosina - foto Antonio Sollazzo

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Con il vecchio padre, Calaf ritrova Liù, piccola schiavainnamorata di lui, in memoria di un suo sorriso. Calaf, prin-cipe sconosciuto, non solo risolve gli enigmi, ma alla rilut-tante Turandot addirittura rilancia la sfida: “Dimmi il mionome / prima dell’alba / e all’alba io morirò”. E mentre intutta Pechino si cerca il nome che salverà la purezza dellaprincipessa, Liù, che quel nome conosce, per non rivelarlosi uccide. L’opera è un capolavoro, tra i massimi del Novecento musi-cale. In essa Puccini prende l’esotismo orientaleggiante diuna fiaba di Carlo Gozzi allora di gran moda e lo trasformain un rutilante delirio. Da un punto di vista psicologicotanto il principe ignoto quanto la principessa di gelo - epersino Ping, Pang e Pong, le maschere grottesche cui è

affidato un terzetto di straordinario fascino e modernità -sono tutte marionette senza umanità. In mezzo a loro Liù,la povera schiava che ama e muore, è l’unico personaggioche dall’inizio alla fine rimane coerente con se stesso. Maè significativo che Puccini, che si definiva cantore di“grandi dolori in piccole anime”, ormai stanco e malato,non abbia saputo andar oltre il sacrificio della sua eroinaminore: il duetto finale, quello del disgelo tra Calaf eTurandot, agnizione impossibile di due cuori di pietra, eraoltre le sue capacità, e fu scritto da altri, il compositoreFranco Alfano, dopo la sua morte. Perfetto canto del cigno di una tradizione gloriosa, inarri-vabile epitaffio di un’epoca in un mondo che aveva varca-to la soglia della modernità, “Turandot” miscela in modo

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perfetto eroico, esotico, grottesco e sentimentale: è ilmelodramma più deliberatamente in stile grandioso maicomposto in lingua italiana, e in egual misura intriga ilmusicologo e affascina il profano. La Città Proibita in cui l’azione si svolge è un luogo-mito disfarzo e inaccessibilità, di millenarie tradizioni di tiranni-de che in Turandot s’incarnano in inappagata bramosia disangue, che si scontrano con l’anelito alla libera-zione rappresentato da Calaf, a sua volta peròsospinto da null’altro che bramosia carnale.Questo perverso duello tra titani, manichei quantospietati, si traduce in musica in una stentorea alti-sonanza che è forse l’unica, pallida aderenza di“Turandot” alla temperie verista che allora brucia-va gli ultimi fuochi. C’è semmai, nelle vocalitàquasi wagneriana post litteram di Turandot eCalaf, in quel loro scagliarsi con acuti “scoperti”contro la massa dell’intera orchestra, un’interaciviltà musicale al punto perfetto di congiunzio-ne/distacco da un’altra. Puccini come RichardStrauss, insomma, l’uno e l’altro gli ultimi geni delteatro lirico, congedava per sempre l’Ottocento, il suoromanticismo e le sue speranze per adeguarsi a incarnarelo sgomento cinico e opportunista perché profondamentedisilluso dell’uomo in un Novecento ormai avviato a unaalienante, scomoda, incomprensibile modernità.Voci d’acciaio pertanto, quelle richieste ai due protagoni-sti. A Reggio abbiamo ascoltato due veterani gloriosi, deirispettivi ruoli e dei palcoscenici di tutto il mondo. Fenomenale Turandot è ancora Giovanna Casolla. Altre

interpreti hanno forse – in disco, più che altro – scavato benpiù a fondo la psicologia di un personaggio che si presta,scomodando da Freud in giù, ad ogni sorta di disquisizionied esegesi. Ma sul palcoscenico, sotto le maschere d’oro,contro il ruggito di orchestra e coro veramente Si e Dosovracuti devono schiantarsi come sciabolate, a difesa diuna verginità che gronda sangue e di un passato, metafori-

camente e non solo, sull’orlo della capitolazione. Ruolo davoce torrenziale, gesti essenziali e (poche) primedonneall’altezza: a legger bene nella storia dell’interpretazione,nel dopoguerra la leggendaria Brigit Nillson da un lato,lassù, dall’altro lato l’antidiva Casolla, e in mezzo tantefigure sopravalutate e meno, molto meno di quanto sicreda. Classe 1941, il tenore Nicola Martinucci, poi, ha trascorsouna carriera ultraquarantennale all’ombra di gente che si

Turandotdi Giacomo Pucciniregia Mario De CarloMaestro concertatore e Direttore d'orchestra Carlo PalleschiOrchestra del Teatro Francesco CileaCoro Lirico Francesco CileaCoro voci bianche Millenoteproduzione Comune Reggio Calabriain collaborazione con Impresa Lirica Gitto Gioacchino

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(Sopra) Ping, Pang e Pong rispettivamente Leonardo Galeazzi, Costantino D’Aniello, Alessandro Cosentino.(pagina a sinistra) in scena Giovanna Casolla (Turandot), Nicola Martinucci (Calaf), coro lirico Francesco Cilea - foto Antonio Sollazzo

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chiamava Domingo, Carreras e Pavarotti, e lo stesso hacantato facendosi rispettare in tutti i massimi teatri delmondo. Mai stato, certo, un prodigio d’espressività,Martinucci, nondimeno il suo Calaf è inciso nel bronzo, e seacuti e passaggi di registro attaccati con ovvia prudenza glihanno raccolto al Cilea i fischi di qualche idiota, pazienzae rassegnazione.Del tutto secondo tradizione la messa in scena scelta daMario De Carlo, reggino purosangue da gran tempo rinoma-to specialista in allestimenti d’opera. Da regista comeanche da scenografo e costumista, ha quadrato il cerchioriducendo gli spazi e squarciando con luci e colori lacupezza tirannica della Pekino popolata dagli incubi diTurandot. Ancor più convincente la parte musicale. Sul

podio di un’Orchestra Filarmonica del Cilea ammirevol-mente oltre i propri limiti, il Maestro Andrea Palleschi haimpresso alla caleidoscopica partitura un taglio barbarico,ruvido, implacabile. Fatalmente in secondo piano le tantemezze tinte e le infinite sottigliezze che contiene, la musi-ca ne è scaturita greve, ridondante, grezza e abbacinantecome i riflessi di un diamante tagliato con l’accetta.Ugualmente di gran livello il resto del cast, dominato dallaLiù soavissima di Mitzuko Mori (sostituita nella replica reg-gina da Gabriella Stimola) e dagli irresistibili Ping, Pang ePong di Leonardo Galeazzi, Costantino D’Aniello eAlessandro Cosentino. Per ultimo il coro lirico FrancescoCilea, protagonista in quest’opera non meno dei singoli equanto loro degno di lode.

Enzo Capuano (Timuz, Re tartaro spodestato) e Gabriella Stimola (Liù giovane schiava) - foto Antonio Sollazzo

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Reggio Calabria, Catanzaro e Cosenza e le loro program-

mazioni. Una visione da largo raggio per giocare in

ensamble con tre stagioni artistiche del panorama regio-

nale. Osservazioni in un contesto in cui lo spettatore

punta l'occhio vigile su proposte a volte di ottimo livel-

lo, altre alquanto discutibili. Tre realtà che rispecchia-

no politiche programmatiche e scelte d'insieme diffe-

renti che oltre a fare i conti con la crisi globale risulta-

no condizionate da meri interessi di “bottega”.

empi duri per il teatro. I compositori italiani rivolgono appellial Ministro per i Beni Culturali per chiedere il cambiamentodelle regole delle fondazioni, considerate improduttive.

Polemiche, richieste e valutazioni di vario genere rivolgono l'attenzio-ne ad un'area che denuncia difficoltà. L'ottanta per cento dei fondi, aquanto pare, è destinato agli stipendi dei dipendenti e il Fondo Unicodello spettacolo è stato drasticamente ridimensionato. L'eco chequalche mese fa si era sollevata da voci autorevoli quali Nicola Piovanio Marco Tutino, ha richiamato l'attenzione sull'importanza di nuoveregolamentazioni all'interno delle fondazioni.Ma al di là di questioni di tal genere che riflettono un disagio nazio-nale, rimanendo in Calabria le valutazioni si spostano su altri presup-posti. La situazione nella regione, per quanto concerne i teatri, nonconosce questo tipo di polemiche, ma comunque non è scevra daaltre. Sta di fatto che a prescindere da posizioni interne al sistemateatro, l'occhio attento dello spettatore che apre i suoi orizzonti sulpiano regionale, non può che portare alla consapevolezza di un'offer-ta artistica ben diversa.Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria in questa stagione si rivolgonoal proprio pubblico proponendo stagioni artistiche alquanto differen-ti. In realtà la valutazione posta all'attento discernimento di un pub-blico esigente, porta necessariamente alla considerazione che le scel-te del Teatro Politeama del capoluogo di regione non deludono.Ventotto gli eventi che spaziano dalla lirica al jazz, dalla prosa alladanza, senza dimenticare commedie musicali e concerti. Tutt'altroche discutibile la volontà di iniziare con un artista calabrese comeMimmo Calopresti, alle prese con un “Barbiere di Siviglia” innovativo.Uno scambio culturale che è stato uno dei collanti migliori per dimo-strare che una produzione e un regista calabrese, possono unire gliintenti delle tre città che lo hanno ospitato, appunto Catanzaro, poiReggio Calabria e infine Cosenza.La scelta del capoluogo, il primo a presentare il proprio programma,in un periodo di crisi è stata quella di bloccare i prezzi e aumentare

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il numero degli spettacoli rispetto allo scorso anno, coin-volgendo l'Accademia di Belle Arti, i conservatori musicali,le scuole di danza e le orchestre. Una sorta di ricompensaagli spettatori aumentati del venticinque per cento.Tanto spazio anche alla prosa e alle commedie musicali,con “Il giorno della tartaruga” di Garinei e Giovannini, incui reciteranno Chiara Noschese e Christian Ginepro, con il“Faust” di Goethe, e con “Madre Coraggio” di Brecht, chevedrà nel cast anche Isa Danieli, spettacolo peraltro che ègià passato dal palcoscenico del teatro “Francesco Cilea”,nella precedente stagione. E poi “Poveri ma belli” conBianca Guaccero, “Due dozzine di rose scarlatte” conLeopoldo Mastelloni e Katia Terlizzi, “Portami tante rose”,con Valeria Valeri, e “La strada” con Massimo Venturiello eTosca. Nella sezione danza, i “Momix” ultimo capolavoro diMoses Pendleton. E poi “Lo schiaccianoci” di Tchaikovsky,interpretato dal corpo di ballo di Sofia e con il tango argen-tino di Miguel Angel Zotto.

Senza dimenticare la perla che a marzo si esibirà alPoliteama con il suo Guarnieri del Gesù “ex-Huberman”: lagiapponese Hirano Midori accompagnata dal pianoforte diCharles Abramovic. Una bella occasione per il pubblicocatanzarese e non, che si godrà l'interprete ascoltata nel1982 da Zubin Mehta e da lui scelta come ospite a sorpre-sa del concerto di fine anno della New York Philarmonic. Inoccasione della stagione 2008-2009, poi, la Fondazione

Politeama, d'intesa con la cooperativa culturale NuovaIpotesi, ha voluto al Teatro Masciari, nomi come FrancescaReggiani, Paolo Migone, Cinzia Leone, Alessandro Siani,Gene Gnocchi, Teresa Mannino e Federico Basso. Per i piùgiovani al Politeama ci sarà l'appuntamento con l'HighSchool Musical e l'iniziativa “Teatri aperti di domenica”. Ilgran finale per la stagione è previsto per il 4 maggio delprossimo anno con l'esibizione di Armando Trovaioli e le suecolonne sonore realizzate per registi come De Sica,Monicelli, Scola e Risi, ripercorrendo la carriera da jazzi-sta, che lo ha visto collaborare con talenti quali DukeAllington, Louis Armstrong, Miles Davis e Chet Baker.Una carrellata di artisti, dunque, che offre un panoramaeterogeneo agli spettatori, forse sacrificando un po' il pro-gramma operistico.Spostandosi a Cosenza, sono due i teatri che da quest'annoripartiscono, per scelte precise, spettacoli di vario genere.Il teatro comunale Rendano e il Morelli. Una stagione tea-

trale che annovera prosa e concerti. Una bipartizione cheha avuto un'anteprima con la verve di Sabina Guzzanti,protagonista indiscussa lo scorso 11 novembre. Più di trenta gli appuntamenti per le due realtà artisticheche snocciolano leit motiv quali “Miles Gloriosus” conEdoardo Siravo in scena al teatro Morelli. In una stagioneche dedica molto, numericamente parlando alla prosa. AlRendano a gennaio il Teatro Stabile della Sardegna con

di Luisa Bellissimo

Il giorno della tartaruga di Garinei e Giovannini con Chiara Noschese e Christian Ginepro regia Saverio Marconi - foto Antonio Agostini

Fondazione Politeama (CZ)

Teatro A. Rendano (CS)

Teatro F. Cilea (RC)

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“Pensaci Giacomino” di Luigi Pirandello, la Compagnia GliIpocriti con Isa Danieli in “Madre Coraggio” di BertoldBrecht. E poi “L'altro lato del letto” con VittoriaBelvedere, “Vestire gli ignudi” con Vanessa Gravina, “Ognianno punto e a capo” con Tosca D'Aquino. La ratio dellaprogrammazione vuoleavvicinare i giovani ecosì si spiega l'aper-tura del Morelli, neiprimi di novembrenonché le offerte diprosa quali “Proveaperte” di LiberoTeatro con la regiadi Max Mazzotta. E iconcerti di MarleneKuntz, Baustelle, LaCrus, Casino Royalee Meg.Una nuova dimensio-ne dunque, nellarealtà cosentina cheha scelto la prospet-tiva di un solo pro-gramma, reso ufficia-le alla fine di otto-bre, che si disloca indue sedi.In merito alla program-mazione del teatro“Francesco Cilea”

una nota di attenzione va certamen-te alla stagione di danza, corposaed eterogenea. Nove gli spettacolidi prosa, sette dedicati alla danza,cinque gli appuntamenti con lamusica sinfonica e quattro conl'opera lirica.Il Gran galà di tango internazionale,ha di fatto aperto la stagione arti-stica del teatro, rimandando poiallo “Schiaccianoci” del RussianState Ballet di Mosca diretto daViatcheslav Gordeev, e poi allaCompagnia Opera Italia con RossellaBrescia in “Carmen … Una storiamediterranea”. A marzo il ritorno diCarla Fracci con Alma Manera per“Les Parentes Terribles” dalla trage-dia di Jean Cocteau e poi ad aprileda Londra “Double Bill” con laCandoco Dance Company.Quattro quindi, gli appuntamenti inprogramma per la stagione liricache oltre al “Barbiere di Siviglia”

avrà sulla scena del teatro “Cilea” anche la “Turandot” diGiacomo Puccini, “Il Pipistrello” di Johann Strauss jr,“Werther” di Jules Massenet.Una programmazione che non dimentica la prosa, anche sesi sarebbe potuto fare certamente di meglio visti i cartel-

loni dei teatri vicini. “Lezioni americane” il primo spet-tacolo con il ritorno di Giorgio Albertazzi, nel mese didicembre la divagazione con il musical “Hair” per laregia di Giampiero Solari, per poi riprendere a gennaiocon il Teatro Stabile del Veneto “Peccato sia una sgual-drina” e “Miseria e nobiltà” con Francesco Paoloantoni eNando Paone. Gianfranco Iannuzzo e Daniela Poggisaranno i protagonisti de “Il Divo Garry” a febbraio,rimandando poi a Remo Girone ed Eleonora Giorgi conl'altra commedia “Fiore di cactus”. Un altro ritorno diTato Russo che curerà la regia del musical “Masaniello”e poi “Quaranta ma non li dimostra” è la commedia diPeppino e Titina De Filippo con Luigi De Filippo, in scenaanche al teatro Grandinetti di Lamezia Terme il 14 e il15 marzo. Sarà il Teatro Stabile di Calabria a chiudere ilsipario della stagione di prosa con “Ditegli sempre di sì”di Eduardo De Filippo.Una veloce carrellata dunque, sulle scelte che riguarda-no tre realtà ben diverse per molteplici aspetti. Unfermo immagine per tre dimensioni artistiche che sulterritorio calabrese, guardano al pubblico con offerte eproposte, tempisticamente differenti, creando a volteun compromesso tra qualità e quantità.

l primo obiettivo che mi sono posta per questa stagione – affer-ma il soprano – è stato aumentare e variare l’offerta di appun-tamenti dedicati alla lirica. La gente lo richiedeva. Già c’era in

programma – aggiunge - il “Barbiere di Siviglia”. Poi – prosegueSerenella Fraschini – ci tenevo che ci fosse “Turandot”, e dicembreera l’ultimo mese utile per celebrare l’anno pucciniano. E qualemigliore opera per farlo, se non l’ultima, che meglio rappresentail compositore? Ad interpretarla, voci importanti come NicolaMartinucci e Giovanna Casolla e direttore Carlo Palleschi. Abbiamoavuto l’opportunità di proporre l’operetta di Strauss “IlPipistrello”, appena realizzata in Romania, a Timisoara, dal teatrodi Stato. E in queste, come nell’ultima opera prevista in cartello-ne, ovvero il “Werther”, si evidenzia il secondo obiettivo: “utiliz-zare il più possibile i protagonisti reggini, ormai famosi, che lavo-rano in tutto il mondo, ma che la città non ha avuto la possibilitàdi apprezzare”. Partendo da Mario De Carlo, straordinario registaaffermato soprattutto all’estero che dirigerà la “Turandot” e “IlPipistrello”, che peraltro è un suo allestimento. La stessa operettavedrà in scena anche l’attore Giacomo Battaglia, “poiché all’inter-no della rappresentazione c’è un ruolo, anche abbastanza impor-tante, proprio attoriale. Sempre restando in tema, della messa inscena rumena abbiamo utilizzato solo l’allestimento, ovvero scenee costumi, per il resto il cast è stato fatto da noi, tranne per duecantanti rumeni. Lo proporremo nella settimana di carnevale, cheè quella in cui è ambientata la storia”.Il soprano, che sarà tra i protagonisti dell’operetta, si sofferma suc-cessivamente sull’appuntamento che costituisce forse il clou dellastagione e che si inserisce sempre nell’obiettivo della valorizzazio-ne dei talenti nati nella nostra città. E che talenti: parliamo infat-ti di Giuseppe Filianoti, artista reggino riconosciuto oramai comeuno dei tenori più famosi e più richiesti del momento.“Altri ce ne sono ancora in giro per il mondo che stanno facendoun bel percorso e che spero di poter far venire al “Cilea”. Ho pro-posto infatti al Comune un progetto, che prevede la rappresenta-zione de “Il Trovatore” al Castello Aragonese, coinvolgendo unaltro talento reggino, il tenore Francesco Anile”.E per il futuro qual’ è il percorso che intende seguire? “Proseguiresu questa linea – risponde – far diventare una consuetudine la sta-gione lirica. Ho anche l’idea di realizzare, ormai per il prossimoanno, un’opera mettendola a concorso, dedicata interamente aigiovani”.Un accenno alla stagione teatrale nel suo complesso: “mi sembradi alta qualità – afferma – possiamo vantarci di avere un cartello-ne da Ente, anche se viviamo delle nostre risorse”.

Incontro con Serenella Fraschini

Aumentare la produzione operistica e coinvolgere i talenti reggi-ni ormai affermati in tutto il mondo, questi i progetti che ilsoprano, da alcuni mesi consulente artistico per la sezione lirica,intende raggiungere per il futuro del Teatro Francesco Cilea.

di Paola Abenavoli

Madre Coraggio di Bertold Brecht con Isa Danieli - foto Antonio Sollazzo

Vestire gli ignudi di Luigi Pirandello con Vanessa Gravina e Luigi Di Berti, regia Walter Manfrèfoto Antonio Sollazzo

Masaniello di Tato Russo - foto Antonio Sollazzo

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a c'è ancora spazio, a teatro,per l'immaginazione e per ilsogno? Per la fantasia, che

tutto (dal nulla) inventa e fa appari-re come reale, e per la sana meravi-glia? Certo che c'è! Se di scena c'è ArturoBrachetti ed il suo “Gran Varietà”,applaudito nella prima decade didicembre al “Vittorio Emanuele” diMessina, nell'ambito della stagione diProsa dell'Ente Teatro peloritano,diretta per il secondo anno consecu-tivo da Maurizio Marchetti. Istrionico, trasformista, ironico, pre-stigiatore, illusionista: è tutto quantoe molto di più, questo straordinario“Fregoli” dei nostri giorni, capace difar divertire grandi e bambini ricor-rendo ad arti antiche (quelle circensie persino le ombre cinesi) eppureancora efficaci, in grado di entusia-smare il pubblico. Uno spettacolo composito (e, forse -ma lo diciamo sottovoce, perché nonvogliamo essere fraintesi - un po'troppo lungo), diviso in due parti, straordinario nella suasemplicità: un omaggio a quel varietà al quale molti - e datempo, ormai - hanno già fatto il funerale.Simpatica ed inconsueta la cornice immaginata dall'artistatorinese (che di Gran Varietà firma regia, scene e costumi),che nell'occasione - diversamente da altri spettacoli prece-denti - si esibisce con una ventina di artisti di vario gene-

re, provenienti da tutto il mondo: un gruppo di turisti vienefatto prigioniero dal fantasma del vecchio teatro, prossimoalla demolizione (per far posto - altro che fantasia: questa,purtroppo, spesso è le triste realtà, anche dalle nostreparti… - ad un centro commerciale), che stanno visitando.Per recuperare la libertà, dovranno mettere in scena unoshow che diverta questo dispettoso spiritello: ed ecco, per-ciò, quelli che si sforzano, riuscendovi, di sembrare imbra-nati turisti trasformarsi in provetti ballerini (le coreografiesono di Mary-Laure Philippon e Philippe Boisserie), splendi-di acrobati, magnifici trapezisti, e quant'altro; con l'ausi-lio, quanto mai opportuno, di effetti speciali d'altri tempi.Con un finale, che non riveliamo, che lascia la porta aper-ta a varie interpretazioni. Gli esiti, neanche a dirlo, sono di innegabile fascino, con lagente - a proposito: a Messina si è registrato il tutto esau-rito, anche per le due repliche fuori abbonamento - che silascia coinvolgere, tributando a Brachetti e ai suoi artistiapplausi convinti e scroscianti. Merito, senza dubbio, della bravura delle attrazioni inter-

nazionali impegnate (Otto Wessely & Christa, comedymagic, dall'Austria; Ann Stephanie's Hot Toes, Tap Dance,dalla Gran Bretagna; Andrzej Piechota & Tomasz Wlezien,hand to hand, dalla Polonia; Viola Ferraris, trapezista,dalla Francia; e Johan Bichot, acrobazie al volo, dallaFrancia); della simpatia della signorina Vera Tarocco(Valentina Virando, che ci fa ricordare altre attrici brillan-ti d'annata, come le indimenticabili Bice Valori e Franca

ovverola fantasia al potere

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di Matteo Pappalardo

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Gran Varietà è uno spettacolo tutto nuovo,ideato, diretto e interpretato da ArturoBrachetti, una delle poche star internazionalidel nostro teatro leggero.Uno spettacolo dove l'estro e la fantasia si fon-dono con le diverse tradizioni del music hall edel varietà. Una straordinaria combinazione dihumor, poesia, magia e musica in un unico col-lage di racconto.Sul palcoscenico del Teatro Vittorio Emanuele diMessina si sono alternati trapezzisti, acrobati,illusionisti, atleti, comici, cantanti ed altri per-sonaggi in un contesto narrativo pieno di sor-prese.“L'uomo dai 1000 volti” ancora una volta dimo-stra di essere il più grande attore-trasformistadel mondo, capace di interpretare più di ottan-ta personaggi nello stesso spettacolo.

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Valeri); delle musiche, non solamente funzionali, compo-ste da Germano Mazzocchetti; ma soprattutto della insu-perabile verve di Arturo, artista completo e dalle millerisorse, capace di farci dimenticare per due ore e mezza larealtà e di trasportarci, sulle ali della fantasia, in unmondo immaginario, favolistico e gioioso insieme, doveniente è vero eppure tutto è possibile.Altro che reality, sembra dirci questo simpatico Peter Pandel terzo millennio (non a caso Brachetti ha curato la regiadel musical, con le celebri musiche di Edoardo Bennato);basta con lo squallore di certa (forse tanta, troppa… ) tv-verità, dalle confessioni e dalle lacrime facili; finiamola diguardare dal buco della serratura (il riferimento è al diffu-so voyerismo, imperante in questi ultimi anni, privo di ognirispetto e di ogni privacy) ma, piuttosto, apriamo la menteed il cuore alla fantasia, alla meraviglia (degna del fanciul-lino di pascoliana memoria) di chi è ancora capace di stu-pirsi, di sognare ad occhi aperti. Lo spettacolo, che ha debuttato il 7 ottobre 2008 al TeatroAlfieri di Torino, nel 2009 sarà prima a Bologna, all'EuropaAuditorium (dal 6 gennaio), e poi ad Assisi, al Lyrick (dal13 gennaio), per proseguire poi nei maggiori teatri dellapenisola. Nella primavera del 2009, poi, l'artista torinese debutteràa Londra con una versione del suo celebre - ed assai fortu-nato - spettacolo “L'uomo dai mille volti”.

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Giorgio Albertazziacrobata della Leggerezza

di Gabriella Gangemi

Albertazzi, il grande Maestro, siede incattedra e la Leggerezza di Calvino pren-de forma teatrale attraverso la sua inter-pretazione. Sulla scena appaiono, insiemeagli appunti del Calvino-Conferenziere, leproiezioni di frammenti della memoriateatrale di Albertazzi “cantore delle epi-che gesta del pensiero che si fa scrittura”,e si comprendono la grandezza e la vitali-tà dell'artista che, innamorato della poe-sia e della scrittura come del teatro,mette in scena, contemporaneamente,quattro spettacoli e ben dodici nel corsodell'anno.

orrei dedicare le mie conferenze a certi valori, acerte qualità, certe specificità della letteratura chemi sono particolarmente care, cercando di inserirle

nella prospettiva del prossimo millennio - dichiarava ItaloCalvino nella sua introduzione alle conferenze suLeggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità,Consistenza, i sei valori che affondano le loro radici nellaletteratura di tutti i tempi e di tutti i paesi, i valori che loscrittore ama e pone al di sopra di ogni altro perché infondo sono elementi del nostro vivere quotidiano.La prima di queste conferenze, la Leggerezza, prendeforma teatrale attraverso l'interpretazione di GiorgioAlbertazzi. E' lui il conferenziere, colui che ci guida con leparole di Italo Calvino in un vertiginoso viaggio nella lette-ratura mondiale “alla ricerca delle motivazioni che stannodietro ognuno di quei valori”. L'attore immagina di dialo-gare con un'allieva, una giornalista, che cerca di compren-dere il senso della scrittura spiegandole l'arcano e inse-guendone i molteplici segreti, rafforzati dall'occhio-teleca-

mera che insegue il Conferenziere: la difficoltà deiconcetti richiede spesso la precisazione esplicativa

del professore e proprio i chiarimenti conferisco-no agilità alla narrazione. Un violoncello, par-

ticolarmente suggestivo, si conquista il suospazio sulla scena: è essenziale, e per que-sto particolarmente coinvolgente.L'atto unico rivela che la scrittura puòindicare all'uomo tecnologico la via perallentare la “morsa di pietra” che loimmobilizza. Calvino si pone questointerrogativo: la scienza e la filosofia,

espressioni della razionalità, possono perdere gravità epeso per non schiacciare l'individuo? Due poeti della clas-sicità, Ovidio e Lucrezio, hanno conquistato la leggerezzacon i mezzi linguistici propri della poesia, “la poesia del-l'invisibile, la poesia delle infinite potenzialità imprevedi-bili così come la poesia del nulla nascono da un poeta chenon ha dubbi sulla fisicità del mondo”. In particolareLucrezio, che rappresenta il mondo conoscibile, disconti-nuo e scomposto in elementi unici, corpuscolari e micro-scopici, si contrappone ad Ovidio che coglie nell'universo lacostante proliferazione di forme concrete ma variabili, incontinua e variata metamorfosi. Significativo e affascinan-te insieme è il confronto fra Cavalcanti e Dante: il primoesprime la leggerezza degli Stilnovisti fatta di sospiri,immagini luminose, movimenti eterei, figure evanescenti,capacità di conferire leggerezza ad ogni immagine; ilsecondo realizza la concretezza della materia e delle sen-sazioni a cui dà corpo, anche attraverso la pesantezza nelverso, per rendere la compattezza del cosmo. Tutto ciò cheè definito è pesante. La leggerezza si associa alla determi-nazione, bisogna essere leggeri come l'uccello e non comeuna piuma, perché la sensazione è più significativa dell'og-getto stesso. Il grande Maestro crea emozioni fortissime recitando ilbrano dantesco di Paolo e Francesca: l'idea corpo-animaper Dante non è Beatrice, ma Francesca da Rimini, certo lavera donna del poeta; il suo corpo vola leggero nel V cantodell'Inferno. Il corpo della passione è pesante, Francesca èleggera; leggeri sono i due amanti, leggere escono le paro-le dalla bocca del Maestro … e la pietà avvolge gli astantiche riescono facilmente a percepire come l'alleggerimentodel linguaggio possa dare alla passione la forza di un senti-mento comune e universale. E' la volta di Shakespeare: Romeo e Giulietta, i due inna-morati resi universali dal legame amoroso che non ha età evince ogni spazio vitale e ogni tempo; Amleto, il cui cele-bre monologo è arricchito dalla leggerezza artistica inter-pretativa dell'attore Albertazzi; Sogno di una notte dimezza estate risognato da Puck il malizioso che, comeabbiamo gustato di recente sul palcoscenico diCatonateatro, volteggia leggero su una specie di altalenache rappresenta la luna, sospesa fra un cielo popolato diparole scritte che vanno e vengono come su una lavagnaluminosa. La luna, sì, la luna: Calvino ci confessa che ini-zialmente aveva pensato di dedicare all'astro l'intera con-

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Lezioni americane di Italo Calvino - foto Antonio Sollazzo

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ferenza, alla stella che incanta i sognatori e i poeti, mapreferisce lasciare questo compito a Giacomo Leopardi. Ilgrande recanatese, pur appassionato di astronomia, hatolto peso alla luna fino a farla diventare soltanto un fasciodi luce. E Albertazzi, declamando i versi di Alla luna, evi-denzia le espressioni in cui la scrittura è metafora dellasostanza pulviscolare del mondo e fa percepire delle sen-sazioni uniche e mirabili, personali e nello stesso tempouniversali. “E' difficile per un romanziere rappresentare la sua idea dileggerezza esemplificata sui casi della vita contemporanea,se non facendone l'oggetto irraggiungibile di una ricercasenza fine”, afferma Calvino aggiungendo che il romanzo diMilan Kundera, L'insostenibile Leggerezza dell'Essere, inrealtà è un'amara constatazione dell'Ineluttabile Pesantezzadel Vivere. Filosofia, scienza, poesia, letteratura, permet-tono di esplorare nuove vie, di realizzare nuove tecniche ingrado di cambiare la nostra immagine del mondo; daLucrezio a Kundera e poi all'informatica e al software deicomputer si evidenzia che la leggerezza è una caratteristi-ca della seconda rivoluzione industriale e dunque dell'epo-ca post-moderna.

Il grande Maestro siede in cattedra; ma poi, inossidabilepadrone del palcoscenico, si alza, si muove, recita, decla-ma, sussurra, convince, trascina, affascina. Sulla scenaappaiono, insieme agli appunti del Calvino-Conferenziere,le proiezioni di frammenti della memoria teatrale diAlbertazzi “cantore delle epiche gesta del pensiero che sifa scrittura”, e si comprendono la grandezza e la vitalitàdell'artista che allestisce, contemporaneamente, quattrospettacoli teatrali e ben dodici nel corso dell'anno. Più cheun attore, egli è uno scrittore che sta sul palcoscenico e ilsuo amore per la poesia e la scrittura ben si coniugano conla rappresentazione teatrale e l'arte di ogni tempo. La parola e il silenzio, il pieno e il vuoto, il finito e l'infini-to, il ritmo e la musica, il teatro … Il teatro per lui è come un incontro erotico, è un luogo dilibertà in cui gli attori si liberano, ricreano, ripropongono,inventano, interpretano ruoli diversi, come ha voluto farelo stesso Maestro nel Sogno di una notte di mezza estate. Il teatro, per Giorgio Albertazzi, è come l'amore secondoSocrate: qualcosa che sta tra l'istinto, il sogno e un demo-ne mediatore. E il sogno è la celebrazione del teatro.

di Paola Suraci

“ritorno volentieri a scuola,per abbattere la cultura dell'ignoranza”

Giorgio Albertazzi

“i giovani devono uscire dagli schemiimposti ed amare la cultura, sono trop-po distratti dalle stupidaggini delmondo e appiattiti sugli stereotipi pro-posti dalla televisione”

Gabriele Lavia

Studenti a lezionedai “grandi” del teatro

Lezioni americane di Italo Calvino - foto Antonio Sollazzo

Giorgio Albertazzi incontra gli studenti del Liceo Scientifico “Leonardo Da Vinci”foto Antonio Sollazzo

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ssapora la vita, ha ancora la curiosità e la voglia diconoscere e con gli occhi scruta, guarda, ammalia. E'Giorgio Albertazzi, il Maestro, giunto a Reggio per le

“Lezioni americane” di Italo Calvino, incontra gli studentidel liceo scientifico “Leonardo da Vinci” per parlare di tea-tro e di vita.Il teatro è l'attore, e quando fa il suo ingresso GiorgioAlbertazzi nell'aula magna l'applauso dei ragazzi lo acco-glie e lui, con il cappello viola in testa, sorride. Non è soloAlbertazzi, con lui ci sono Roberta Baronia, attrice, eRossella Zampiron, violoncellista, che lo accompagnanoanche in scena. Parla Albertazzi e la magia della parolaincanta. Non è stanco di interpretare, di raccontare e spie-ga: i personaggi non esistono, dietro le maschere c'è l'es-sere e il testo va stravolto, violentato, perché la libertà,l'azione, sono l'arte, sono la vita. Il testo teatrale non puòessere una trappola al quale restare inchiodati, occorreosare, andare oltre e solo attraverso la voglia di capire, siarriva. Ecco la voglia di capire, la voglia di conoscere, diporre domande sono il sale della vita ed il teatro è vitaspiega il Maestro. Negli ultimi quattro mesi - racconta - hoportato in giro per l'Italia e l'Europa, sette spettacolidiversi e l'altra sera ad Agrigento dovevo recitare “Dantelegge Albertazzi” e mi veniva in mente altro. Ma una cosaè certa, lo spettacolo non è mai lo stesso, ogni sera, cam-bio, stravolgo, parlo con il pubblico. La conferma di quan-to dice arriva proprio dalla bella Roberta Baronia, occhiscuri, siciliana di Palermo. Quando sto in scena con ilMaestro lo ascolto, davvero, seguo le sue battute non per-ché lo impone il copione ma perché ogni volta è una sor-presa, una rappresentazione un pò diversa. E' bellissimolavorare con il Maestro, anche se per me che arrivavo dalteatro tradizionale è stato uno stravolgimento, un rompe-re gli schemi e non avere punti di riferimento, ma poicapisci che essere se stessi, essere liberi è più bello.Delle “Lezioni americane” scritte da Calvino sui valori,quella scelta dall'attore per questa messa in scena ha per

tema la leggerezza e spiega: Calvino fa un volo acrobaticoda Lucrezio a Dante passando da Kafka. Tutto questo perporre domande, per incuriosire e svegliare il popolo. Qualche giorno dopo, nell'aula magna del liceo classico“Campanella” c'è Gabriele Lavia, insieme al Maestro JulianKovatchev, per parlare delle fiabe e della vita. E' infattigiunto a Reggio per rappresentare la fiaba musicale“Pierino ed il lupo” di Sergej Prokofiev. Prokofiev racconta in modo ironico e leggero, la manieraper sconfiggere il lupo e non aver più paura - spiega l'atto-re - e il nonno incarna il buon senso. Nella fiaba ogni per-sonaggio è rappresentato da un tema musicale, affidato adiversi strumenti che accompagnano il narratore, descri-vendo ogni situazione, attraverso le note di Schubert.Ma cos'è il teatro? Il teatro, - spiega Lavia - è un niente maallo stesso tempo, è l'essere e mentre lo spettacolo è unacosa, il teatro è una non cosa. Poi aggiunge: Il teatro è ilfondamento della cultura occidentale ma in questo paesenon è giustamente considerato, qui in Italia c'è un bassolivello intellettuale e poi, diciamolo, è difficile fare beneteatro e soprattutto farlo capire, perché è una cosa trop-po seria. Se a tutto ciò si aggiungono poi i pochi investi-menti nell'arte, nel teatro ecco che si può parlare di crisi.Aggiunge: sulla cultura, sul teatro non si dovrebbe faralcun taglio alla spesa ma invece, assistiamo sempre piùalla riduzione di fondi. La verità è che nei vari settori,abbiamo il triplo, il quadruplo o anche il quintuplo degliimpiegati che servono. Lì si dovrebbero fare effettivamen-te i tagli non negli spettacoli - aggiunge stizzito Lavia.E' difficile andare a teatro perché è il luogo dove si pren-de coscienza di sé - conclude Lavia - ma è importante chei giovani si avvicinino ad esso. I recenti fatti politici hannoazzerato il pensiero dei nostri ragazzi che dovrebberoessere invece, allenati a questo. Ma in fondo, è più facilegovernare chi non pensa e a malincuore dico, che il nostropaese ha prodotto esseri non pensanti.

Gabriele Lavia incontra gli studenti del Liceo Classico “Tommaso Campanella” - foto Antonio Sollazzo

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el finale del terzo atto, Filumena Marturano, che nonha mai versato una lacrima in vita sua, scoppia in unlungo pianto liberatorio e la grande, bellissima e tor-

mentata storia d'amore, scritta da Eduardo De Filippo, giun-ge al culmine. Lina Sastri e Luca De Filippo raccolgono i moltiapplausi, ripetuti ed emozionati del pubblico, incurante dellacritica tiepida riservata alla commedia in questa stagioneteatrale.Viene rappresentata prima al Teatro Argentina di Roma, poial Teatro Strehler di Milano, al Verdi di Firenze per prosegui-re in altre piazze italiane.Filumena, ancora oggi, resta una delle opere teatrali di mag-giore successo, la più amata e più rappresentata, soprattut-to all'estero.Gli applausi calorosi, vanno ai protagonisti, ma nel cuore diogni spettatore c'è la memoria del grande autore.Con Filumena Marturano, Eduardo affronta il tema, scottan-te negli anni in cui fu scritta, dei diritti dei figli illegittimi.Nel 1947, infatti, l'anno dopo la prima rappresentazione dellospettacolo, l'Assemblea Costituente sancì il diritto-doveredei genitori di mantenere, istruire ed educare anche i figlinati fuori dal matrimonio.Donna del popolo, ex prostituta, Filumena, nelle pièce tea-trale, vive da venticinque anni come moglie, senza esserlo,nella casa di Domenico Soriano, napoletano borghese e bene-stante. Ha cresciuto in segreto tre figli, avuti da tre uominidiversi; di uno solo è certa la paternità, quella del figlio diSoriano. Per farsi sposare Filumena rivela a don Mimì di esse-re padre senza indicare quale è il figlio, perché “i figli sonofigli” e devono essere tutti uguali.

Filumena Marturano è un’opera teatrale intre atti, portata sulla scena per la primavolta nel 1946. Fu scritta da Eduardo per lasorella Titina, che lamentava come il verosuccesso della ribalta fosse sempre riserva-to al protagonista maschile. Con un mono-logo altamente drammatico Filumena, rac-conta della sua infanzia nel Vico SanLiborio di Napoli e rivive quella notte in cuivolle amare don Mimì di un vero amore, malui questo non lo capì, infatti la pagò comedi consueto. Di quella notte d'amore l'exprostituta ne ha conservato la banconotasulla quale ha annotato la data del conce-pimento del figlio di don Mimì. Una banco-nota che restituisce a distanza di anni, condisprezzo: «Perché i figli non si pagano».

di Roberta Nunnari

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Lo spettacolo, che può contare sulla creativi-tà di Francesco Rosi, uno dei grandi protago-nisti del nostro cinema, una sua linea ce l'ha.A Filumena Marturano, Rosi approda dopoaltre prove eduardiane con l'idea di vederlo inuna ipotesi di continuità, come un ulterioretassello di un suo personale itinerario dentroil teatro di Eduardo. La sua regia cerca di andare oltre il realismodell'epoca dell'autore, spogliando lo spazioscenico da riferimenti immediatamente rico-noscibili. Un effetto che le scenografie diEnrico Job (scomparso di recente) suggerisco-no, attraverso una grande vetrata che rifletteun'immagine di Napoli lontana ed astratta.A riproporre questo testo così carico di umorie di legami con una realtà assai lontana da noi(la commedia è del 1946), legato ai tentatividi una maggiore giustizia sociale che toglievadal cono d'ombra del rifiuto la dignità fino adallora negata ai figli illegittimi, Rosi, consciodel rischio, ha abilmente lavorato su unaforte linea interpretativa, evitando che l'ope-razione diventasse calligrafica. Luca DeFilippo e Lina Sastri si fanno strumenti di unapartitura che spesso rasenta la perfezione.

Dummì, sto chiagnenno….

Quant 'è bel lo a chiàgnere.

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di Francesca Neri

Nozze di sanguedal seminarioalla rappresentazione

onta certamente sottolineare la validità della meto-dologia seminariale, per definizione riservata ad unnumero ristretto di partecipanti e in grado di offrire

l'opportunità della concretizzazione delle acquisizioni teo-riche e della valorizzazione degli apporti individuali in uncontesto di lavoro fondato sull'interazione e sulla messa incomune delle esperienze. In questo senso l'opera scelta,per taluni suoi aspetti di coralità che non ostacolano,

peraltro, l'emergenza di figure individuali di rilievo, e lecaratteristiche specifiche della messinscena hanno offertoal regista e agli attori la possibilità di rispettare lo spiritodel testo, pur nella sottolineatura di alcuni elementi parti-colari che ne hanno caratterizzato la rilettura.Lo spettacolo, che si è avvalso delle musiche originali diCarlo Muratori, delle scene e dei costumi di AlessandraBenaduce, delle luci di Renzo De Chio, si è infatti configu-rato, a parere di chi scrive, come qualcosa di più della rap-presentazione conclusiva di un seminario. Si vuol dire cheesso è apparso provvisto di una sua significatività scenicaintrinseca, che trascende i limiti (e i meriti) di una sia purnobile esercitazione. In sostanza, oltre a costituire ilmomento finale del laboratorio, si è qualificato come unaprova di alto livello, che dalla sua genesi seminariale haricavato non un elemento limitativo, bensì un valoreaggiunto.Del dramma lorchiano, scritto nel 1932 e rappresentato perla prima volta nel marzo 1933, Manfré ha colto con grandeperizia la dialettica interna amore/morte, passione/ragio-ne, sottolineando accortamente la visione della vita sotte-sa all'opera e che secondo Luis Rosales coincide con lavisione dell'antica tragedia greca.Parola chiave del testo è appunto sangue, con tutta la suavalenza simbolica e antropologica. Simbolo del calore vita-

Un momento del seminario al quale hanno partecipato venti attori, dieci calabresi e altrettanti provenienti daaltre regioni, a testimonianza dell'opera di promozione svolta dalla Polis Cultura a favore dell'emergenza dinuovi talenti e a sostegno dell'interesse nei confronti dell'attività teatrale da parte delle giovani generazioni. Foto: Enrico Grieco

A conclusione della programmazione estiva2008, Catonateatro ha presentato la mes-sinscena di Nozze di sangue di FedericoGarcìa Lorca, con la regia di Walter Manfré.Come già lo scorso anno con Pirandello, ilregista si è cimentato con uno dei più signi-ficativi drammaturghi del Novecento, la cuipalese vocazione al tragico si lega alla con-siderazione dell'antico “senso della trage-dia” che egli riteneva ancora presentenella cultura popolare spagnola e in parti-colare in quella andalusa.

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le e corporeo, esso appare peraltro come “veicolo dellepassioni” (Grison,1986) ed ha un ovvio legame col tema delsacrificio. Quello che nel dramma coincide con la morte diLeonardo e dello Sposo, quasi a richiamare la concezioneeuripidea secondo la quale è il maschio a morire, mentrele donne sopravvivono per piangerne la morte, esattamen-te come faranno la Madre e la Sposa, destinate ad unasorta di legame di sofferenza e di solitudine.Ma tutto il testo è percorso da richiami simbolici di forteimpatto, anche nelle parti in cui sembra prevalere unaconnotazione realistica. Persino gli oggetti comuni, come ilcoltello, acquistano infatti specifiche valenze simboliche.Strumento di morte e di vendetta, il coltello è associato daalcune culture orientali alla Luna, di cui costituirebbel'emblema.Quella stessa Luna che ha nel dramma un ruolo preminen-te e che costituisce un motivo lorchiano per eccellenza,come il cavallo; entrambi, peraltro, collegati al tema dellamorte.“Cavalla nera, luna grande”, recita una delle più celebriliriche del poeta andaluso. E grande dev'essere la luna cheattira Leonardo nel “bosco lunare” per il tramite dellamendicante che rappresenta la Morte. Una Luna che influi-sce peraltro sulla dinamica interiore dei personaggi e si inse-risce con effetti devastanti nella dialettica passione/ragio-ne. E' la seconda a soccombere in un impari conflitto conla veemenza incoercibile della prima. Ne è pienamenteconsapevole la Sposa quando dice alla Madre: “Tuo figlioera il mio scopo e io non l'ho tradito”. Questo perché “ilbraccio dell'altro mi ha trascinato come un colpo di mare,come la testata di un mulo”, sicché non ha potuto resiste-re. E non avrebbe potuto resistere neanche se fosse statavecchia e madre di molti figli.Una passione, dunque, che sembra frutto di forze occultee che apre spiragli inquietanti sull'emergere di pulsioniincontrollate - e incontrollabili - che hanno forse la lororadice nella zona “lunare”, inconscia, della personalità, alivello individuale, ma che popolano anche il sentire collet-tivo di quella cultura popolare andalusa da cui Lorca tras-se fecondi spunti di ispirazione.La rilettura di Manfré sfugge al rischio dell'accentuazionedel dato folklorico, pur caratterizzando la messinscena,soprattutto nella parte iniziale della rappresentazione, conelementi che rimandano specificamente al contesto geo-grafico. Proprio la capacità di evitare la subordinazionedella resa scenica del testo allo stereotipo regionalistico fasì che lo spettatore, pur comprendendo quanto di “andalu-so” vi sia in un'opera siffatta, riesca a cogliere il carattereper dir così universalizzante della vicenda. Per le sue fortivalenze simboliche, evidenti specialmente nelle parti con-clusive, essa si palesa infatti come la vicenda umana del-l'amore e della morte e nel contempo, in quanto ambien-tata nello specifico regionale andaluso, rende ragione dellaprofonda consonanza tra il mondo drammaturgico di Lorcae la sapienza antropologica della sua cultura nativa. Di questo spessore tematico la resa scenica del testo è

apparsa pienamente consapevole, così come valida èapparsa la prova degli attori tutti, quantunque alcuni diessi, per la rilevanza del ruolo loro assegnato, abbianopotuto esprimere maggiore presenza scenica. Va datomerito al regista di aver saputo amalgamare con pigliosicuro la diversità delle esperienze e delle personalità finoa fonderle in una dimensione comune che, senza nullatogliere alle specificità individuali, si è tradotta in unaazione scenica organica e convincente. Una messinscenacoinvolgente, dunque, equidistante dalla sottolineaturaenfatica dei tratti salienti della vicenda come da una esan-gue presa di distanza dalla sua corposità.

Nozze di sangue - o in lingua originale Bodas deSangre - si ispira ad un vera storia di omicidio avvenu-ta a Nijar e apparsa sui giornali per circa una settima-na intorno al 22 giugno 1928. È la storia di una giova-ne donna la Novia (la fidanzata) costretta a sposarsicon un uomo che non ama, il Novio (il fidanzato) poi-ché già innamorata di un altro giovane, Leonardo, conil quale in passato ha avuto una storia di cui si vienea conoscenza solo attraverso le discussioni di altripersonaggi quali ad esempio la Madre, la madre delNovio e la Vecina. Subito dopo le nozze in un crescen-do di immagini che ci preparano all'evento c'è la fugadella Novia con Leonardo della quale si ha notiziaattraverso la Mujer (moglie) di quest'ultimo, già inprecedenza insospettitasi di una possibile relazioneamorosa fra i due personaggi.Al fatale tragico epilogo si giunge nella scena finaletra la Novia e la Madre, in cui si esaltano tutti i carat-teri della forza e della poesia di Lorca.

La morte e la luna, emblemi significativi dell’opera lorchianaFoto: Antonio Sollazzo

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LA DIFFICILEARTEDEL FAR RIDERE

Da Angelo Musco ad Enrico Guarneria Tuccio Musumeci

di Salvatore Di Fazio

La grande avventura del teatro italiano ed europeo,moderno e contemporaneo, ebbe origine nell'Ottocento aCatania, dove il grande demiurgo di quest'arte, AngeloMusco, fondò nel 1903 la prima Compagnia DrammaticaDialettale Siciliana, diretta da Martoglio, riunendo intor-no a sé un manipolo di bravissimi attori autodidatti, dicui facevano parte, oltre allo stesso Musco, GiovanniGrasso, Rosa Balistreri, Mimì Aguglia, Turi Pandolfini,Rocco Spadaro, Tommaso Marcellini ed altri ancora. Iquali, per primi, misero in scena le opere di Verga,Martoglio, Pirandello, D'Annunzio, Rosso di San Secondo,Giusti Sinopoli, Domenico Macrì e di altri autori minori,riscuotendo ovunque un impareggiabile e inatteso suc-cesso. La Compagnia, ricostituita nel 1907 e nel 1914,girò il mondo intero, dall'Europa agli Stati Uniti,all'America Latina, diffondendo ovunque un genere dispettacolo che si ispirava alla vita, che rappresentavavicende umane realistiche, ora comiche ora drammaticheora tragiche, ma tuttavia libere dagli schemi convenzio-nali e artificiosi del teatro letterario.

un attore che il pubblicoaspetta col sorriso sulle lab-bra e la giocondità in cuore.

Spontaneo, mobilissimo nella fisio-nomia e negli atteggiamenti, riccodi umore e di imprevedibili istanta-nee trovate; si è creato un pubblicotutto suo, un pubblico eccezional-mente personale, che lo circonda diviva simpatia. La sua comicità,infatti, è tutta fondata sul risoabbondante e sulle mosse agilissi-me. Angelo Musco è di una purissi-ma comicità che irrompe, comelimpida vena, dal suo temperamento di attore siciliano”.Con queste parole ha inizio una recensione di GiovanniMaria Comandé, pubblicata nel settembre del 1915 nelgiornale Ore di svago. Di articoli apologetici come questo,di autentiche apoteosi, in verità, è straripante in primoluogo la stampa italiana e straniera di quegli anni, poi laletteratura teatrale, in cui il re della risata occupa uno deiposti di prim'ordine. Le sue battute, infatti, i suoi aneddo-ti, le storielle che lo riguardano, le sue trovate, il suo lin-guaggio mimico, le sue esibizioni, e persino i suoi litigi conscrittori della grandezza di Pirandello, fanno parte ormaidella leggenda: della leggenda di un uomo che possedevala genialità dell'attore a tutto tondo, dell'attore che non silimitava a interpretare, ma debordava, sconfinava, oltre-passava i testi che gli venivano affidati e ne rimodulava, nereinventava i contenuti e i personaggi a cui, volta pervolta, dava una vita nuova, una mobilità, anzi una conno-tazione “altra”. Tant'è vero che la sua imprevedibilità edestrosità - e soprattutto il mancato rispetto delle didasca-lie, o note di regia - qualche voltafacevano saltare i nervi a un geniocome Luigi Pirandello con il quale irapporti non furono sempre cordia-li. I due fondatori e padri del teatroeuropeo passavano spesso dall'am-mirazione reciproca più incondizio-nata alla rabbia e al rancore piùferoce. Ed ecco qualche prova. Inuna lettera del 14 gennaio 1917,indirizzata all'amico Nino Martogliodopo uno dei tanti voltafaccia del-l'attore catanese, Pirandello scrive:<<La mia unica volontà è quella dinon avere più nulla a che fare colsignor Angelo Musco e la sua com-pagnia>>. E il 12 novembre dellostesso anno, mentre la rabbia glidivorava il fegato, scrisse allo stes-so Martoglio: <<Il cadavere l'avràdentro di sé il Musco, ed è il cada-vere dell'Arte; e te ne avrà comuni-cato il freddo anche a te; non può

essere altrimenti!>>. Ciò nonostan-te, Pirandello si lasciava sedurredalla ineguagliabile bravura diAngelo Musco. Lo attesta la seguen-te lettera dell'11 marzo 1916, invia-ta al figlio Stefano: <<Carissimo,debbo darti una notizia che ti faràpiacere: <<Ieri sera Musco ha rap-presentato al “Nazionale” la miacommedia Pensaci, Giacomino! conesito trionfale: alla fine del terzoatto il pubblico è saltato compattoin piedi acclamandomi per sei voltealla ribalta...; Musco è stato gran-

de...>>. Interessante un'altra lettera - questa volta diAngelo Musco a un amico - in cui si legge: <<La sera, quan-do Liolà ebbe un successo magnifico, ecco Pirandello inpalcoscenico, che mi abbraccia, mi bacia commosso, con loslancio, l'affezione e la sincerità del suo schietto animo digalantuomo>>. Insomma, nonostante i dissapori con personaggi dello spes-sore umano e culturale di Luigi Pirandello, di NinoMartoglio, di Giovanni Grasso, Angelo Musco fu l'arteficedei successi ottenuti da drammaturghi grandi e meno gran-di, vissuti in quella felice stagione del teatro italiano chedalla Sicilia avrebbe raggiunto e conquistato tutta l'Italia,gran parte dell'Europa e il vasto continente delle Americhe.Per merito suo, e degli scrittori che ne condivisero la fedee l'amore per l'avventura, il dialetto siciliano poté assurge-re a lingua d'arte, oltrepassare lo stretto di Messina edesprimere ovunque i grovigli spirituali e morali non solodella giolittiana “Italietta” post-risorgimentale, ma anchee principalmente dell'uomo in universale.

Al teatro arcadico, lacrimoso e sve-nevolmente tardo romantico, comeanche alle Pasquinate e Vastasatesicule, Angelo Musco sostituì un tea-tro tragico e comico di altissimolivello contribuendo alla sua rina-scita in termini nazionali e creandole premesse della drammaturgiamoderna e contemporanea. Fu pro-prio la prima Compagnia DrammaticaDialettale Siciliana, diretta da NinoMartoglio, a far dire al giornalistaStanislao Manca su “La Tribuna”:<<Questi comici siciliani, chi sono?Da dove sono venuti? Come si sonorivelati artisti tanto valorosi e ori-ginali?>>. I valenti attori che contribuironoalle trionfalistiche fortune di Muscoe dei suoi compagni fanno parteoggi dell'albo d'oro del nostro teatroe portano i nomi di Rosina Anselmi,Marinella Bragaglia, Turi Pandolfini,

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Mimì Aguglia e Giovanni Grasso

Marinella Bragaglia

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cono e comunicano nel linguaggio dei gesti, delle mosse,degli sguardi.Guarneri raccoglie quegli sguardi, quelle mosse e quei gestie, rielaborandoli, ridisegnandone le curvature, le sinuosi-tà, gli scatti, i tempi di effettuazione, li ripropone nei suoispettacoli e nelle sue performance enfatizzandone leambiguità, gli equivoci che essi generano,i paradossi. Parallelamente a questo, Guarneri simuove lungo un altro binario: quello dellalingua, anzi del dialetto accentuatamentecatanese, che lui rende rocambolesco,spericolato e precipitoso. Non solo. Ma cheegli riempie anche di alterazioni, di gorgo-glii, di lapsus, fino a farlo diventare india-volato, espressionistico, gorgogliante. L'estro attoriale di Enrico Guarneri, tutta-via, non si esaurisce qui. Da tempo,Guarneri mette in scena i classici del gran-de teatro europeo, meridionale e siciliano,da Molière a Goldoni, da Eduardo DeFilippo a Nino Martoglio, a DomenicoMacrì, a Russo Giusti.Recentemente ha dichiarato: <<Io desiderodiventare un paladino strenuo della nostralingua: e lo dico oggi, dopo un percorso nelmondo del teatro iniziato trent'anni fa. Évero. Difficilmente un attore riesce adessere qualcosa prima dei quarant'anni; almassimo sarà un laboratorio delle propriepossibilità future>>.

Chi è oggi Tuccio Musumeci? Non è facile dirlo.Apparentemente è uno come tanti: un signore che fa l'at-tore. Per caso. Nessuno di noi, infatti, può stabilire da pic-colo che cosa farà da grande. <<Da ragazzino - ha dichia-rato in una intervista - ma anche quand'ero al liceo, tuttosognavo tranne che fare l'attore. Dovevo fare il medico.Nella famiglia di mia madre sono tutti medici. E io dove-vo continuare questa tradizione! Se non che mi trovavo inEmilia e lì ho conosciuto una compagnia di passaggio - lacompagnia Parenti-Fo-Durano - che mi ha fatto venire ildesiderio di fare teatro>>. Tornato da Modena a Catania, Musumeci incontra PippoBaudo, con cui inizia a fare cabaret, che non era quellodelle barzellette piccanti, degli aneddoti satirici o dellescenette sollazzevoli. <<Il nostro - confessa l'attore - eraun cabaret vero, in cui si affrontavano argomenti socialiscottanti>>. Grazie al crescente successo, i due girano laSicilia da un punto cardinale all'altro, fino a quando i loro

destini si dividono: Pippo Baudo entra nell'universo dellatelevisione, Tuccio Musumeci continua la strada dello spet-tacolo.Nel 1958 entra a far parte del Teatro Stabile di Catania,diretto da un uomo illuminato che si chiamava Mario Giustie reso prestigioso dalla presenza di Turi Ferro, di Michele

Abruzzo, di Umberto Spadaro e diRosina Anselmi. Dal 1967 in poiMusumeci ha ricoperto importantiruoli da protagonista e da primo atto-re. Oggi lavora al Teatro “Biondo” diPalermo non solo come personaggio di

spicco nel genere comico, ma anche come interprete diprimo livello nel settore drammatico. Ha partecipato, inol-tre, a una quindicina di film in cui ha rivelato eccellenticapacità interpretative. Tuccio Musumeci è un altro deigrandi eredi di Angelo Musco. La sua comicità è tipicamen-te siciliana, fatta cioè di arguzia, di ironia, di simpatia, dibattute colorite e frizzanti. La sua mimica non è maieccessiva, mai scomposta. La sua comicità è innata, spon-tanea, istintiva. É sufficiente che si affacci sulla scena, insilenzio, perché il pubblico rida. Il suo talento lo esprimenella connotazione e nella particolare tonalità che sa dareal dialetto catanese; ma anche in quella padronanza, inquelle ridondanze, in quelle sfumature, in quella musicali-tà da “opera buffa” che gli imprime e che lo rende scanzo-nato, smagliante, civettuolo, ammiccante. É proprio que-sta sua comicità - forbita, burlesca e a volte sfuggente -che fa di Musumeci un altro originale felice interpretedella sicilianità più pura e incomparabile.

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Virginia e Rosa Balistreri,Mimì Aguglia, TommasoMarcellini, Rocco Spadaroe numerosi altri che vor-remmo ricordare peravere portato sulla scenale opere non solo diPirandello, ma anche diGiovanni Verga, di NinoMartoglio, di Giusti Sinopoli,diLuigiCapuana,di FedericoDe Roberto, di Rosso diSan Secondo.Nel 1914 nacque la ComicaCompagnia Siciliana delCavaliere Angelo Muscoche ulteriormente certi-

ficò e consacrò la celebrità di questo poliedrico, multifor-me istrione dell'arte teatrale al quale l'Italia deve tan-tissimo. Gran signore della risata, interprete umorista di ecceziona-le vigore, mattatore della scena, ma anche versatile ecolorito affabulatore, Angelo Musco deve essere collocatosulla strada maestra dello spettacolo macchiettistico in cuisi sarebbero in seguito distinti Totò, Eduardo De Filippo,Nino Taranto e alcuni altri siciliani illustri come TuccioMusumeci, Enrico Guarneri, Leo Gullotta, Pippo Pattavina.Presente per oltre mezzo secolo sulla scena teatrale,amato dal pubblico fino al delirio, corteggiato dagli autorifino alla devozione, adulato dal potere politico fino all'af-fettazione, sapeva passare con estrema duttilità dal sorri-so bonario allo scatto comico, dalla dimensione grottescaall'irruenza drammatica, all'intensità tragica. Musco fu unamaschera teatrale che non conobbe ombre di crisi. Le suepreferenze oscillavano fra gli stereotipi antropologici e leeccentriche tipologie del personaggio siciliano, fra leimmagini dell'uomo velleitario e i modelli del popolanoingenuo, fragile o perseguitato dalle sue paure. Affondanoqui le radici della sua comicità.

Musco non è stato solo un caposcuola, un paradigma e unmaestro, ma è stato anche l'inventore di una tecnica difare teatro. Il grande attore, infatti, è colui che s'immettenel personaggio che recita, gli trasmette credibilità e vigo-re, fino a quando l'unione dell'uno e dell'altra arrivano acostituire una unità sostanziale, talvolta archetipica.Musco fu tutto questo. Pertanto, oggi non mancano attoriche si possano ritenere eredi e continuatori di quella tec-nica e di quell'arte.Uno di questi risponde al nome di Enrico Guarneri, sicilia-no di San Giovanni La Punta (Catania), dove ha esorditocome personaggio comico e cabarettista nel 1976, rivelan-

do quelle innate risorse satiriche e caricaturali che loavrebbero portato a creare la maschera di Litterio Scalisi,grazie alla quale gli venne assegnato il “Polifemo d'argen-to”, un premio prestigioso, che era un ufficiale riconosci-mento della sua originalità interpretativa, del suo innega-bile talento.Dopo avere fondato la “Compagnia Enrico Guarneri”, l'at-tore ha sposato la causa del potenziamento e della strenuadifesa della sicilianità, cioè di quella singolare identitàetnica e culturale che solo il dialetto - e quello catanese inparticolare - può esaltare e veicolare. Le vicende esilaran-ti di “Casa Litterio” sono la riprova di una teatralità che èimmersione nel variopinto e caleidoscopico universo deiquartieri popolari della Sicilia di periferia. Ed é proprio in quelle stradine, in quelle piazzuole, in quel-l'affollato formicolio di comari, di donnicciole linguacciutee pettegole, sempre pronte ad allungare le mani e la voce,in quel groviglio di uomini e di cose, di mariti, di innamo-rati e di ragazze desiderose di accasarsi, che Guarneri-Litterio trova il suo humus più fecondo per parodiare lavita, per capovolgerla e mostrarne gli aspetti più giocosi erisibili, le buffonerie tragicomiche, i risvolti incredibilmen-te paradossali. I personaggi che di conseguenza egli disegna sono schizzi e

macchiette umane che la sua lente di ingrandimento inter-pretativa mette in vetrina per il godimento del pubblico,per lo spasso di quanti amano vedersi riflessi in quellospecchio deformante che è l'ironia.Guarneri non riproduce i fantocci delle commedie plauti-ne, né i lazzi e gli sberleffi delle pasquinate. I suoi idolisono tutti quei siciliani che non hanno mai il senso dellamisura, né quando soffrono né quando gioiscono. Perchétrasferiscono sul piano della pura esteriorità corporea isentimenti, le emozioni, i sogni, i timori, le repulsioni chela quotidianità stimola continuamente in loro, e che tradu-

LA RICCA EREDITA'DI ANGELO MUSCO

Un altro degno pronipote artistico di Musco è TuccioMusumeci, la cui comicità è meno dirompente, meno invasiva,meno loquace, ma non meno efficace, non meno divertente enon meno intelligente.

Turi Pandolfini

Tuccio Musumeci

a destraEnrico Guarneri

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i guardò, stupito, Antonio Piromalli quell'ottobretriste del 1999.Ci eravamo conosciuti quel giorno, seduti nello

stesso tavolo, nel piano seminterrato di una libreria diReggio Calabria dove una tenue discussione, su non soquale argomento, ci aveva portato a dire di cose che tuttee due tanto amavamo. Mi parlava di Lorenzo Calogero e della sua solitudine.Mi parlava di Domenico Grimaldi e di quanto siamo statiingrati, noi Seminaresi, a non avergli intitolato nemmenouna strada.E' tipico del nostro Paese dimenticarsi facilmente dei suoifigli migliori!Neanche di Barlaam il grande teologo e letterato, maledet-to per l'eternità, nessuna famiglia tiene nella propria casaun ritratto del Maestro del sillogismo dialettico, figlio illu-stre.Nessuno che sappia chi sia Leonzio Pilato, il capostipitedell'Umanesimo Italiano.Di Francescantonio Grimaldi, comandante rivoluzionario,martire della Repubblica Partenopea, solo AlexandreDumas ci lasciò pagine memorabili sull'eroismo di questostraordinario uomo, nato a Seminara nel 1759.Di Domenico Grimaldi, poi, padre di Francescantonio, agro-nomo per passione e che traghettò l'economia olearia meri-

dionale dal medioevo all'età moderna, è meglio non parlar-ne. Il suo genio rese tutti ricchi, ma lui morì, dimenticato,scacciato e poverissimo, lontano da quel paese.Quanti studi ho condotto su Seminara, fin da bambinoquando mio padre mi portava a trascorrere il tempo dellamia infanzia con sé, a vederlo zappare una terra dura, chegenerava una polvere che ostruiva la gola e lo portava apiegarsi sulle gambe, fiaccato dal sudore e dalla fatica, incerca d'acqua per dare passaggio al suo respiro.A volte, la parte tagliente della zappa si rompeva.Là, terra di glorie passate e di monasteri scomunicati, là,il segno della miseria umana, la zappa, a volte incontravala storia e sulla storia si frantumava.La disperazione di mio padre per la zappa rotta non venivanemmeno appagata dal vedere che la stessa era andata asbattere contro spade o marchingegni usati in passate bat-taglie o stemmi marmorei di antiche famiglie che riemer-gevano dopo secoli di oblio.Così, fin d'allora, meravigliato a guardare strani oggettiche dicevano di tempi lontani, incontrai, per la primavolta, la famiglia che io ho detto di Artemisia Sanchez.Ah, le potenti famiglie nobili di Seminara! Ce n'erano circa22, tutte ricchissime e potentissime.Chi di discendenza normanna, come i D'Alessandro e iMezzatesta, i Filippone, i Cavallo, chi angioina, come i

La “chanson” diArtemisia Sanchez

Un romanzo storico divenuto best seller e fiction di successo.Dal racconto dell'autore ...

Nel '700 calabrese, Artemisia Sanchez lotta al fianco dellementi illuminate per provare a spezzare l'immobilismo dellasocietà in cui vive. Attenta alle nuove correnti illuministi-che, si impegna per la modernizzazione del suo paese ed ècostretta a confrontarsi con la corruzione dei grandi latifon-disti, più preoccupati per i loro privilegi che per il benedella Calabria.Dalla penna di Santo Gioffre' al piccolo schermo.“E' la storia che diventa racconto”, scrive AntonioPiromalli, storico della letteratura del '900, che ha curatola nota critica.Una vicenda che nasce nella primavera del 1785, dopo il granterremoto, nel paese di Seminara.Sacrilegio e redenzione per amore sono sullo sfondo. Lavicenda è intrigante, piena di passioni e sentimento.Suggestive le ambientazioni tra i paesaggi della nostra pro-vincia come le Cascate del Marmarico, lo scoglio dell'Ulivo,foreste e ulivi di Feroleto”. C'è insomma la bella Reggioinsieme ad una storia d'amore nel libro scritto da Gioffrè epubblicato dalla Mondadori”.La Rai, ne ha tratto uno sceneggiato in quattro puntate conla regia di Ambrogio Lo Guidice, la sceneggiatura diSalvatore Basile e le musiche di Lucio Dalla.

di Santo Gioffrè

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Michelle Bonev interprete di Artemisia Sanchez - Foto Cristina Di Paoloantonio

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suo favoloso tempio, esempio di corretta proporzione trale parti che lo componevano, tanto da dare fondamentoontologico al concetto di bellezza.Artemidia, grande e terribile Madre, la Dea dei cento seniche tutti allattava, ma che tutti uccideva per vendetta.A Lei ho pensato quando ho deciso di dare un nome al miopersonaggio.Dolce, bellissimo, pieno di rancore e di vendetta.Mentre cercavo documenti sulle nobili famiglie e testimo-nianze autentiche sull'epoca di Angelo Falvetti, Artemisial'incontrai dentro una polverosa e consunta lettera degliinizi dell'800Un discendente di un casa-to Nobile di Seminara, lacui famiglia era andata viadal paese nei primi annidell'800, e trapiantato inuna Città del Nord-Italia,dopo varie insistenze econ promesse di farli donodi documenti inediti sullasua famiglia, mi fece leg-gere, solo leggere, unalettera datata 1862, in cuiuna sua antenata, richia-mando un antico docu-mento di famiglia, maledi-ceva, per l'ennesima voltae per l'eternità una suaava.Di quale peccato la donnasi era macchiata per subi-re una così tremenda abiu-ra? Perché tanto astioverso quella giovane ante-nata, all'epoca dei fattigià vedova?La lettera, scritta da per-sona di elevata culturaclassica, rinnovava unadamnatio memoriae versoquella donna che si eramacchiata di un crimineinfame: aver amato!Aver amato, contro ognilegge, un uomo, un uomodi Chiesa, un Prete.L'epoca era il 1787. Ildocumento riferiva che lafamiglia lavò l'onta.Uscii da quella casa scon-volto. Persi il sonno e la tranquillità. Volevo scrivere di Artemisia e lo feci per non restare soloin mezzo al deserto dei miei dubbi.Passai le notti dell'agosto del 1999 scrivendo una storia cheda sempre avevo in testa, fin da quando mi era capitato,

tra le mani, un polveroso manoscritto che portava la datadel 24 novembre del 1787.Mi dilettavo a cercare cose antiche.Mi sentivo, in una terra che sta morendo per mancanza dimemoria, vivo nell'andare a rimescolare polvere dentrouna cassa che una mia trisavola, quando si sposò, avevaavuto in dono dalla sua nobile padrona, alla fine dell'800,per averle dedicato tutta la sua giovane vita.Fogli, corrosi dal tempo e dai tarli, mi indirizzarono a unastoria d'amore bellissima.Un manoscritto, redatto da elegante mano, mi parlava di

un prete e della sua vio-lenta morte e di tantealtre cose ancora.Raccontava a me, sedutoin una comoda scrivania,delle tremende pene chesolo chi era sopravvissutoal più catastrofico dei ter-remoti avvenuti sullanostra terra, quello del 5febbraio 1783, era statocostretto a patire.Come si fa a non immer-gersi nel racconto fino anon percepire più i limitidel tempo?In dieci notti scrissi ilromanzo, senza distingue-re la luce dal buio.Così è nato “ArtemisiaSanchez”.Quando Piromalli lesse ilmanoscritto non trovòpace, come lui stesso miconfessò due giorni primadi morire, poiché non capi-va come io fossi riuscito acreare quel romanzo e adescrivere quell'atmosfera.Mi ricordo che tre giornidopo della sua partenzaper Roma, di sera, mi tele-fonò e mi disse che gli erapiaciuto moltissimo e michiedeva l'autorizzazione apubblicarlo.Nulla ad Antonio io pote-vo negare, anche perchétanto lontano ero dall'ideadi pubblicare qualsiasi mio

scritto e il modo dell'editoria mi era completamente sco-nosciuto.La prima edizione di Artemisia Sanchez uscì, con i tipo diGangemi editore, a Roma nel 2000.L'edizione andò a ruba e subito esaurita. Mi ricordo che

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Grimaldi e i Franco, chi spagnola come gli Spinelli, feuda-tari di Seminara, i Coscinà ed, appunto, i Sanchez.Per centinaia d'anni, le famiglie nobili dominarono total-mente la vita e la morte di quel Paese.Il fatto strano è che essi non lasciarono alcuna traccia delloro passaggio.Né grandi istituzioni che portassero il nome, né opere chene tramandassero la memoria.Col popolo vissero un distacco totale e un conflitto perma-nente, tanto da essere spesso trascinati davanti ai tribuna-li penali e alla Camera della Sommaria o al Tribunale diSanta Chiara.Quando incontrai don Angelo Falvetti, ne colsi, subito, ildolore.Questo giovane prete morì per troppo amore.La sera del 12 maggio 1785, mentre tornava verso la barac-ca che ospitava la Statua della SS Madonna Nera deiPoveri, dopo il tremendo terremoto del 1783, qualcuno,logicamente gente del posto, gli sparò due colpi di scopet-ta, come fedelmente riportarono le cronache del tempo, e

dopo due giorni di agonia, morì.Don Angelo morì per aver amato infinitamente la suaGente.Per evitare rappresaglie verso la popolazione di Seminarache impediva manu militari, all'esercito borbonico di tra-fugare gli ingenti ori che possedeva la Statua dellaMadonna Nera, il sacerdote, nottetempo, aprì ai soldati leporte della baracca in cui era custodita la sacra Effige.Dopo venti giorni dal fatto, invece di prendersela con iBorboni, potenti, qualcuno pensò di lavarsi la coscienza,ammazzano la persona, indifesa, che li aveva salvati, ilPrete.Ma Don Angelo Falvetti era un uomo. Un uomo pieno diamore.Artemisia la incontrai ad Efeso. Passando per i ruderi del-l'immensa città greca dell'Asia Minore, il concetto diKòsmos, dell'ordine del bello, scaturisce tutto dal meravi-glioso accordarsi delle pietre, dalla geometria perfettadelle piazze, dall'eleganza degli edifici e di palazzi.Per questo Artemide aveva deciso di abitare lì, dentro il

Santo Gioffrè e Michelle Bonev sul set della fiction Artemisia Sanchez - Foto Cristina Di Paoloantonio

Libro: Dal romanzo alla fiction

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che subito dopo glielo riconsegnas-si tra le sue mani.Mentre leggevo, nubi tempestosevolteggiavano nella mia mente.Ero lì a 1100 chilometri di distan-za, ma ero, contemporaneamente,a Seminara, quel 12 maggio 1785all'imbrunire, in mezzo al secolarealbero di more, piantato daiMonaci Brasiliani, dove don AngeloFalvetti cadde, colpito da duepalle di scopetta.Avevo trovavo, forse, soluzione adun mistero durato più di 215 anni.La lettera diceva cose terribili cheresteranno per sempre dentro dime e che mi danno di Artemisia ladolce e tragica immagine di un'im-placabile vendicatrice per amore,vittima di una violenza barbarache non si era fermata nemmenodi fronte ai consanguinei.Verso la fine del 2001, una sera acena, Piromalli raccontò, infastidi-to come sempre faceva quandoqualcosa non gli quadrava, un epi-sodio da poco accadutogli. Al tavolo eravamo in cinque eraccontava la cosa a Giuseppe Petronio, il grande critico estorico marxista della letteratura italiana, già novantenne.Gli parlava di me e del bellissimo romanzo che avevo scrit-to, e diceva a Petronio che Artemisia meritava di esseretramutato in un film in cui l'affresco di una Calabria illumi-nista e pre-rivoluzionaria emergesse tutta, e che per que-sto si era rivolto ad un suo vecchio amico, produttore difilm di chiara fama degli anni '50, '60, '70, Turi Vasile.Vasile, ormai ottantenne, gli aveva risposto che si, il libromeritava la trasposizione, ma che lui era ormai fuori dalgiro perché si era ritirato dalle produzioni cinematografi-che da tempo visto la vecchiaia incombente.Prese male la risposta Piromalli e quella sera borbottò pertutta la durata della cena contro l'uso dell'alibi della seni-lità come motivo di rinuncia alle ambizioni future, citandoed elevando continuo elogio alla critica che in tutta la let-teratura mondiale si trovava sull'argomento.Fu così che io, per la prima volta, sentii parlare della pos-sibilità di trasposizione cinematografica del romanzo.So che non è cosa usuale che un autore abbia l'opportunitàdi vedere un proprio libro tramutato in un'opera cinemato-grafica.So che è difficilissimo, per un Calabrese in particolare.Solo Mario La Cava ebbe il grande privilegio di vedere rap-presentato in un film una sua opera, il Matrimonio diCaterina, di Comencini.Certo, ero in trepidante attesa per l'effetto che avrebberoavuto su di me le prime immagini della fiction e la canzo-ne di Dalla, che apriva ogni puntata.

Non sapevo quale epoca della miavita avrei rivissuto con la mente.Forse avrei rivisto mio padre zap-pare e mia madre, bella e dagliocchi neri, ad attendermi davantialla casupola dove abitavamo, pre-occupata della mia stanchezza.Forse mi sarebbe bastato questoper essere appagato. Forse …Da Roma, un produttore televisivo,riempiendomi di complimenti, michiedeva se potevamo incontrarciperché, essendogli capitato tra lemani il mio romanzo, ArtemisiaSanchez, voleva propormi di ven-dergli i diritti per la trasposizionecinematografica e televisiva dellostesso.Stilammo il contratto di vendita edArtemisia riprese vita.Non fu facile la scrittura della sce-neggiatura. Adattare un romanzoper la televisione è sempre un pro-blema. Io fornii informazioni stori-che e libri, loro le tecniche dellasceneggiatura.

Si avvicendarono diversi sceneggiatori e ben tre registi per-ché Artemisia potesse nascere bellissima come ella era.Intanto i mesi passavano e l'attesa diventava curiosa.Gli sceneggiatori mi inviavano, ogni tanto, le stesure prov-visorie delle scene chiedendomi di poter pubblicare laseconda edizione del romanzo, dopo che i diritti letterarierano ritornati a me.Con Mondadori stilammo un contratto ed il romanzo è usci-to il 24 novembre 2008 in tutte le librerie d'Italia.La sceneggiatura del romanzo ebbe lungaggini oltre i tempiconsentiti, tanto che io, a dire il vero, spesso ho pensatoche non se ne sarebbe fatto nulla.Il 17 ottobre del 2006, 10 grossi TIR arrivarono nella nostrazona, portando tutto il necessario per dare inizio alle ripre-se, Il 23 dello stesso mese, nella spiaggia di Palmi iniziaro-no a girare.Vidi gente in costume che si muoveva tra gli uliveti chesovrastavano lo scenario incantevole dello scogliodell'Ulivo. Vidi cavalli e cavalieri che ubbidivano agli ordi-ni del regista a trovare la posa giusta per rendere migliorela scena.Sentì recitare in tante lingue, italiano, francese, spagnolo,tante quante erano gli attori e le attrici che si alternavanosul set e che garantivano e testimoniavano la co-produzio-ne italo-franco-spagnola che finanziava l'operazione di rea-lizzazione televisiva.Vidi tecnici e maestranze affollarsi e gareggiare a cambia-re scena nello spazio di un tempo che nel mio manoscrittosi misurava in anni e lì in attimi.Vidi uomini, animali e cose che, prendendo spunto dal mio

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moltissime persone mi contattarono per avere notizie eragguagli sulla storia raccontata nel romanzo. Volevanosapere di Artemisia!Già, era mai esistita questa splendida creatura che pensòdi usare l'amore sacrilegio come unica possibile arma divendetta contro la violenza estrema che aveva subito daparte della sua stessa famiglia?Già, era mai esistita Artemisia Sanchez?Ancora adesso me lo chiedo, ora che il romanzo diArtemisia ha avuto una fortuna immensa, quanto inaspet-tata.Anni prima mi ero dilettato a scriver un libro “Gli Spinellie le Nobili Famiglie di Seminara” in cui la pura ricerca sto-

rica aveva trovato preminenza. Per poter realizzare illibro, consultai centinaia di manoscritti e lettere e parlaicon discendenti di famiglie nobili di Seminara, oramai dagenerazioni residenti in altre regioni d'Italia, tanto che

alcuni non sapevano nemmeno di provenire da quel Paese.Cercavo documenti e notizie per ricostruire le vicende el'economia di quel Paese attraverso la storia delle famiglienobili, perché solo loro possedevano testimonianze scrittee non perché, per cultura e formazione intellettuale, dalleloro vicende di casato mi sentivo attratto.E fu per caso che un giorno, in una bella città del nordItalia, incontrai Artemisia o la persona a cui io diedi ilnome di Artemisia.Il signorotto che mi fece accedere ai documenti della suanobile, blasonata ed ora decaduta Famiglia, mi permise divisionarne alcuni in cambio dell'impegno, che io onorai, difargli dono dell'albero genealogico del suo casato, casato

già censito a Seminara fin dal 1495.In una lettera, datata 1862, lessi un terribile segreto.Il Signorotto volle che io leggessi in sua presenza, senzaalcuna possibilità di copiare o fotocopiare il documento e

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romanzo, uscivano e riprendevano vita per rac-contare una storia che io, fin da ragazzo, raccon-tavo a me stesso mentre, per ordine di mio Padre,conducevo l'asino, carico fino all'inverosimile, disacchi d'ulivo verso l'antica pietraia e verso la miapovera casa.Non dichiarai chi ero e, osservatore curioso, mitenevo a distanza, rintanato tra le conche di unvecchio e stanco albero d'ulivo a provare sensazio-ni strane.Poi, qualcuno mi riconobbe e l'incanto finì.Bloccarono le scene e tutti vennero, col mio mas-simo disappunto, a salutarmi.Diventai uno di loro.Li seguii in tutta la lavorazione che fecero inCalabria. Diventai amico con tutti, attori, mae-stranze, regista, organizzatore generale.In una magnifica tenuta di uliveti di San GiorgioMorgeto, girarono le scene della raccolta delleolive.Non sapevo che in Calabria esistessero, ancora,trappeti alla genovese intatti.Un curioso signore ne aveva conservato uno,curandolo come un figlio, fin dal 1955, quando fuchiuso, sostituito da quelli moderni nella lavora-zione dell'olio.Lo aveva protetto dalla pioggia e dagli agentiatmosferici. Sostituiva i pezzi di legno o di ferrousurati o rotti, andando in giro per la Calabria allaricerca degli ultimi artigiani in grado di farlo.Il trappeto dopo tantissimi anni era perfettamen-te funzionante e quando i tecnici della RAI lomisero in funzione, facendo girare ad acqua lagrande ruota di legno, le ruote di pietra e le pres-se a spalla, in un angolo separato del trappeto, iovidi lo sconosciuto proprietario piangere.Con l'atto del trappeto che riprendeva vita, quan-te sensazioni provai!Vidi passarmi innanzi la mia infanzia.Mia madre che mi svegliava la mattina presto e mimandava a controllare se durante la notte vento-sa erano caduti ulive, le grida delle donne checorrevano per la strada polverosa a raggiungere ifondi ulivetati dei padroni ed iniziare il durissimolavoro della raccolta a mano degli ulivi.Li vedevo piegate e curve, la mattina mentreandavo a scuola, lontana 3 km da dove io abitavo,e li ritrovavo così, piegate, curve e sofferenti, ilpomeriggio, quando raggiungevo mio Padre e miaMadre nelle campagne.Cosa è rimasto di quel mondo? Nulla se non mise-ria culturale e sociale.Ora gli uliveti secolari, nel migliore dei casi, ven-gono estirpati per essere venduti ai ricchi proprie-tari che amano arredarsi, per moda, le loro belle

ville nel nord Italia.Nelle maestose cascate del Marmarico,a Bivongi, quando il freddo mattutinodi novembre portava il termometro atre gradi, si girarono scene idilliache.Lo sfondo delle cascate incorniciavauna natura bella, mai violentata damani umane e che, in televisione,danno il senso del tempo lontano e diun mondo scomparso.A Cerchiara di Calabria, in provinciadi Cosenza, uno straordinario casaledel XVII secolo ha dato vita al borgodei contadini. La ricostruzioneambientale perfetta, la creazione diun trappeto a sangue, i rumori, legesta, le case, danno pienezza allafiction, rendendola realistica.A dicembre del 2006 le riprese inCalabria finirono.Tutta la troupe si spostò a Matera, neisassi. La ricostruzione di Seminara fuperfetta.Nei castelli romani si girarono tutti gliinterni e nel Marzo 2007 le ripresefinirono.Ad Ariccia, nel grandioso castelloincontrai Lucio Dalla che si appresta-va a girare alcune scene.Mi volle conoscere e mi fece la stessadomanda di Piromalli.Non capiva come io fossi riuscito ascrivere un così bel romanzo e crearequelle ambientazioni, tanto che lui sene era innamorato.Dalla non solo ha scritto le dolcissimee struggenti musiche della colonnasonora, ma, talmente preso, ha scrit-to la canzone Come il vento, che faparte del suo album, pubblicato nelgiugno del 2007 dal titolo Il contrariodi me.Questa è la chanson della nobileArtemisia Sanchez e di don AngeloFalvetti, curato della chiesa della SSMadonna Nera dei Poveri di Seminara,sventurati amanti in una Calabria cheancora adesso fa paura.

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vi è una inettitudine generale eppure le possibilità di svi-luppo, arricchimento e progresso sono enormi …”Basta scorrere queste pagine per comprendere quantoattuale e illuminata sia l'analisi di Gioffrè nei confrontidella situazione storico-sociale della sua terra e quantointeressante, al di là della storia d'amore, diventi impor-tante il romanzo da cui è stata tratta la sceneggiatura.Ma la produzione televisiva ha, giustamente, bisogno diaggrapparsi alle emozioni ed alle passioni perpenetrare più facilmente nel gusto dello spet-tatore. E vi riesce.Al punto da far nascere in chi si occupa comun-que di spettacolo l'idea di concepire una stesu-ra teatrale che, figlia anch'essa del romanzo,possa dare luogo ad una messa in scena diprosa.Gli elementi ci sono tutti.La storia, innanzitutto, come si è detto ricca dispunti storici e di descrizioni corali popolarimolto colorite e addirittura folcloriche:“Ricordo come se fosse adesso l'estate del1759 con Seminara piena di gente. Fin daluglio numerosi forestieri si erano accampatialle porte della città e dopo aver vendutoquelle poche cose che avevano, si offrivanoper lavori d'ogni tipo ai magnifici ed ai nobilidelle città, per un tozzo di pane. Le lorodonne, con i piccoli in braccio, si accalcavanodavanti ai portici degli otto conventi e mona-steri e delle trentatre chiese della città,accettando tutto ciò che veniva dato loro percarità, compresi gli avanzi di parecchi giorniprima.Tutti aspettavano la festa del 15 agosto, quel-la della Madonna Nera dilli Poveri perchèquell'anno sarebbe stato portato in processio-ne il nuovo Carro Religioso della “Bruna” o“Vara”, dopo che quello precedente era anda-to distrutto dal fuoco.Ai primi d'agosto la città si riempì di vendito-ri che provenivano dalla Sicilia e da Napoli edi musici giramondo.Questi ultimi erano riuniti in compagnie for-mate da suonatori d'arpa portatile, di pipitesvasate a tromba, di zampogne a tre trombe eda altri che, con grande maestria, muovevanol'archetto della loro ribeca dall'alto in basso,cavandone un suono dolcissimo che imponevaa tutti di fermarsi ad ascoltare … Il Carro eratrainato con lunghe corde di canapa da ottan-ta uomini. Davanti stavano i figli dei nobilidella città seguiti dai magnifici, dai mastri einfine dai massari… In cima al carro un uomoraffigurante il Padreterno impartiva la bene-dizione mentre sotto di lui stavano i rappre-

sentanti dei fedeli venuti da ogni dove.”Basterebbe questa descrizione di partecipazione corale perfar comprendere quanto di teatrale c'è nel racconto che sidipana dentro il romanzo.Scene di massa e scenografie composte quasi solo esclusi-vamente da popolo.Suoni di piazza, musiche, folclore … ed ecco che la parolascritta diventata teatro.

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elle sue continue ricerche di conoscere sempre piùdel territorio di Seminara, Santo Gioffrè, storico eromanziere calabrese si trovò fra le mani alcune

carte riguardanti il ferimento di un sacerdote di nobili ori-gini che era stato ferito in un agguato: Angelo Falvetti.Chi lo aveva colpito e perché?Nasce da questa curiosità l'indagine cui Gioffrè dà vita riu-scendo a portare alla luce una tragedia di potere, amore emorte negli anni in cui anche la Calabria, sotto le spintedelle nuove idee illuministe, cercava di liberarsi faticosa-mente del proprio passato feudale.Don Angelo Falvetti era stato tra i primi, questo viene fuoridalla ricerca, ad appoggiare lo spirito liberatorio dei nuovitempi.L'agguato poteva essere dunque frutto di una vendettapolitica, volendo l'aggressore punire il sacerdote per avertradito la propria appartenenza aristocratica.Ma approfondendo l'indagine Gioffrè scopre anche cheAngelo Falvetti aveva amato una donna bellissima apparte-nente ad una nobile famiglia di Seminara.Si affaccia così l'ipotesi di una probabile vendetta d'amore.Ciò che è certo che ispirandosi a questa vicenda Gioffrè davita ad un affascinante romanzo dove si mescolano storiaed immaginazione, realtà e fantasia laddove, sull'arazzoraffigurante una società in fermento ed in cammino versola rivoluzione industriale, si stagliano le vicende di perso-naggi che lottano disperatamente fra sacrilegio e perdono,fra il Bene ed il Male.E fra questi personaggi, quello destinato ad assumere ilruolo protagonistico è lei, l'amata, Artemisia Sanchez.La RAI ha trasformato il romanzo in una fiction di bella fat-tura e caratterizzato dalla buona interpretazione di tutti

gli attori.Un evento qualificante per la cultura della regione calabre-se ed una cassa di risonanza assolutamente rilevante perl'attuale realtà del territorio, dove rimandi ed accostamen-ti diventano di vitale importanza per la comprensione dellastoria della Calabria contemporanea. Se però lo sceneggia-to televisivo si abbandona, nello spazio ampio delle quat-tro puntate alle descrizioni più facili degli amori diArtemisia ed Angelo, qui vale ritornare al romanzo diGioffrè sicuramente più interessato, crediamo, alla disami-na dei valori sociali e politici della Calabria del settecentoraffrontata a quella di oggi.“La Calabria è paese nemico delle novità, privo di indu-strie, spaventato dalla modernità … tuttavia non possocredere che i calabresi siano tutti complici nel manteni-mento di una eterna barbarie … Se la Calabria oggi nonpossiede un apparato produttivo moderno la colpa, inparte, è da imputare al governo borbonico, contrario afavorire l'introduzione di tecniche moderne nello sviluppodel territorio, tollerante col brigantaggio, fautore di unsistema doganale vessatorio quanto complicato e pernicio-so ai fini del libero commercio.Si perde più tempo in formalità per trasportare una merceda un paese all'altro che per produrla. Invano si farannoleggi, regolamenti per l'agricoltura, l'industria, il commer-cio se non si penserà seriamente a migliorare le stradecalabresi, a renderle praticabili in ogni stagione, a colle-gare adeguatamente i paesi che rimangono fuori percorsodella Strada della Posta. Ciò comporta anche una buonaregola nella spesa per la costruzione delle strade.Ma l'incapacità o la cattiva volontà del governo non sonosufficienti a spiegare lo stato delle cose. Nella nostra città

Artemisia“scrutata” con gliocchi di un artistadi Walter Manfrè

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la grandezza dell'uomo. Nelle commedie classiche - pensia-mo ad Aristofane - persone normalmente piene di dignità edi rispetto, come per esempio i filosofi, vengono sbeffeg-giate e messe in ridicolo.Dal teatro classico in poi le rappresentazioni saranno, quin-di, uno specchio della società e il comico costituirà il gene-re che riuscirà meglio a rappresentare la realtà con la suaconcretezza. E' proprio questo carattere di materialità, diattaccamento al reale che nel corso dei secoli finirà perinfluire profondamente sullo sviluppo dello spirito indivi-dualistico proprio della modernità.Secondo il critico Maurizio Grande un tratto fondamentaledella commedia moderna è che essa ha collocato nellasfera allargata del comico la crisi del soggetto moderno. Lospostamento progressivo dell'interesse drammatico verso ilpersonaggio del protagonista, non più eroe, viene a signifi-care una precisa presa di coscienza storica nei confrontidella contraddizione fondamentale della società borghesein formazione. Quest'ultima infatti, sorta sugli ideali rivo-luzionari della libertà individuale, nel progressivo consoli-damento di una nuova struttura economica, verifica larealtà avvilente di una nuova oppressione che contraddicei principi stessi per cui ha lottato. In questo senso - scriveancora Maurizio Grande - la commedia moderna si assumeil compito di un risarcimento simbolico del soggetto incom-piuto, ma anche il compito di far sopravvivere l'epos nelminuscolo mondo dei rapporti individuali attraverso l'esa-sperazione comica, che non è altro che il paradosso deltragico spostato di segno (Il cinema di Saturno).Da un punto di vista tematico l'eroe moderno diventa “unsoggetto senza destino”, “individuo senza pienezza diumanità”, “persona dalle innumerevoli maschere”. Da unpunto di vista stilistico, si afferma quella che Grande defi-nisce “il chiaroscuro dell'esistenza”, una “modulazione ditragico e comico, epos senza eroe, stupefacente dramma-ticità del quotidiano e tragedia ridicola dell'esistenza”.Questa interessante affermazione ne richiama un'altra,fatta proprio su Chaplin, da György Lukàcs. Il filosofoungherese sostiene infatti che Chaplin «è riuscito a dareun'espressione umoristica, ampia, totalmente valida alsenso di smarrimento dell'uomo medio di fronte all'ingra-naggio e all'apparato del capitalismo moderno» (Estetica).Se ora ritorniamo alle citazioni da cui siamo partiti, ci ren-diamo conto anche di un altro aspetto non meno importan-

te del precedente: Chaplin comprende il funzionamentodei meccanismi della comicità, in quanto proprio dal tea-tro muove i suoi primi passi che ben presto lo porterannoad essere il genio universale dell'arte cinematografica cheè poi diventato.Charlie Chaplin nasce, infatti, come attore di teatro, e conil teatro vive per parecchi anni, tra Gran Bretagna e USA.Il padre è un guitto del varietà con un debole per l'alcool,la madre una cantante. Il matrimonio finisce quandoHannah viene scoperta a tradire il marito con un altro can-tante del Music Hall. Queste vicende dell'infanzia nonimpediscono tuttavia al piccolo Chaplin di apprendere pro-prio dalla madre l'arte del canto e della recitazione.Nel 1896, durante una recita in un teatro di varietà,Hannah è sonoramente fischiata e costretta ad abbandona-re il palcoscenico, a sostituirla sarà mandato in scena il

piccolo Charlie che otterrà un discreto successo cantandouna canzone popolare dell'epoca: E Dunno Where E Are.Due anni dopo Chaplin si trasferisce a Manchester, nei pres-si di Belle Vue, dove, grazie alle conoscenze del padre,entra a far parte di una vera compagnia, gli EightLancashire Lads formata tutta da enfants prodige che siesibiscono in un ballo con gli zoccoli.Nel 1903 il quattordicenne Charlie ha una piccola partenello spettacolo Jim, the Romance of a Cockayne graziealla quale ottiene la sua prima recensione favorevole sulla

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Il volto e la mascheraorigini teatrali del personaggio

Charlot"Credo nel potere del riso e delle lacrimecome antidoto all'odio e al terrore (...) èparadossale che nell'elaborazione d'unacomica la tragedia stimoli il senso del ridico-lo; perché il ridicolo, immagino, è un atteg-giamento di sfida: dobbiamo ridere in facciaalla tragedia, alla sfortuna e alla nostraimpotenza contro le forze della natura, senon vogliamo impazzire".

uesta affermazione di Charlie Chaplin sottolinea l'in-sostituibile funzione che ha la comicità sull'umanità.Attraverso di essa, aggiunge il geniale regista, «vedia-

mo l'irrazionale in ciò che sembra razionale; il folle in ciòche è sensato; l'insignificante in ciò che sembra pieno d'im-portanza. Essa ci aiuta anche a sopravvivere preservando ilnostro equilibrio mentale. Grazie all'umorismo siamo menoschiacciati dalle vicissitudini della vita. Esso attiva il nostrosenso delle proporzioni e c'insegna che in un eccesso di serie-tà si annida sempre l'assurdo».L'irrazionale, il folle, l'umorismo, l'assurdo, sono tutti ele-menti che costituiscono, nei secoli, la linfa vitale del mondocomico teatrale che, fin dall'antichità, trova nella commediauna sorta di metafora della vita quotidiana, in cui sorrisi elacrime si mescolano in un inscindibile legame.Se la forma tragica incarna il conflitto tra libertà umana estrapotere del destino, profilando sulle scene l'individuo,l'eroe, in lotta contro un fato implacabile, il teatro comico hail merito di prendere di mira, attraverso l'ironia e il riso, figu-re che tradizionalmente rappresentano il potere, la serietà e

di Nicola Petrolino

Il silenzio è l'essenza del cinema. Nei miei film non parlo mai. Non credo chela voce possa aggiungere alcunché alle mie commedie. Al contrario, distrugge-rebbe l'illusione che voglio creare, quella di una piccola immagine simbolicabuffa, non un personaggio reale, ma un'idea umoristica, un'astrazione comica.

QL’interprete Charlie Chaplin ed il personaggio Charlot

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carta stampata; di lì a poco avrà il primo ruolo fisso in tea-tro: quello dello strillone Billy in Sherlock. L'anno succes-sivo è tra i protagonisti della fortunata rappresentazionedel Peter Pan di James Matthew Barrie.Fra il 1906 e il 1907 Chaplin lavora ne Il Circo di Casey,misto di varietà e numeri circensi. L'esperienza gli permet-te di familiarizzare con il mondo del circo e di entrarenella compagnia di Fred Karno, anche grazie al fratelloSidney che già vi lavora. Il debutto avviene con L'incontrodi calcio, in cui Charlie interpreta la parte di un individuosenza scrupoli che tenta di drogare il portiere avversarioprima dell'incontro. Il fratello maggiore idea le pantomimee Charlie le deve interpretare. Così Chaplin imparerà l'ar-te di esprimersi senza parole, diventando ben presto, insie-me a Stanley Jefferson (meglio conosciuto come StanLaurel), uno degli attori più apprezzati della compagnianel genere della pantomima che diventerà il suo strumen-to principale per comunicare e per far ridere.La pantomima è una rappresentazione scenica muta, affi-data esclusivamente all'azione gestuale, talvolta accompa-gnata da musica o da voci fuori campo. Originaria probabil-mente delle zone meridionali dell'Italia e introdotta a

Roma in età imperiale, questo arcaico genere teatralenasce dall'evoluzione delle forme più antiche di mimo, conl'affermarsi della supremazia del gesto sulla parola sinoalla sua progressiva eliminazione.Attraverso la pantomima, Chaplin, prima ancora di prende-re confidenza con lo strumento cinematografico, si rendeconto delle grandi possibilità che ha non solo di far ridere,ma anche di trasmettere emozioni forti al pubblico. A que-sto proposito, scriverà nella sua autobiografia «La pantomi-ma è stata il mio mezzo di comunicazione universale. Conessa, posso dire tutto; passare dalla farsa al pathos, dallacommedia alla tragedia con meno sforzi della parola».Fedele a questa forma teatrale, nei primi anni '30, Chaplinaffermerà: Il silenzio è l'essenza del cinema. Nei miei filmnon parlo mai. Non credo che la voce possa aggiungerealcunché alle mie commedie. Al contrario, distruggerebbel'illusione che voglio creare, quella di una piccola immagi-ne simbolica buffa, non un personaggio reale, ma un'ideaumoristica, un'astrazione comica. Quale pazzia buttared'un canto a cuor leggero l'arte della pantomima, la piùantica del mondo, e la più espressiva anche! Sono persua-so che, se parlassi davanti ad un microfono, farei la peg-

giore pazzia della mia vita. Il passaggio meccanico dalcinema muto a quello parlato è inammissibile: l'immaginecreata dalla rappresentazione di un film muto non è con-ciliabile con la parola. Per le parole bisogna creare un'im-magine diversa.Dalla pantomima teatrale Chaplin deriverà il rifiuto dellaparola, che verrà sempre considerata superflua per la suaarte, che da sola è più che sufficiente a trasmettere quel-le emozioni che servono a coinvolgere lo spettatore dalpunto di vista emotivo ed intellettuale.Nel 1909 la compagnia di Karno inizia le tournée all'estero:dapprima a Parigi e, due anni dopo, negli Stati Uniti.Chaplin è il primo comico in A Night in an English MusicHall, atto unico di pantomima e danza. L'esperienza ame-ricana non sarà particolarmente felice, ma la compagniaritornerà oltreoceano anche l'anno successivo e questavolta le cose andranno diversamente: il successo è grandegrazie anche al giovane Charles, entrato da poco ma giàelemento di punta della compagnia. Chaplin sarà notatodal produttore Mack Sennett, che nel novembre 1913 lomette sotto contratto per la casa cinematograficaKeystone. E' il primo contratto di Chaplin per una casacinematografica, la casa di produzione alla quale saràindissolubilmente legato il suo successo.Il personaggio di Charlot nasce nel 1914. Il suo costume,che nel corso di ventidue anni di carriera avrebbe subitoben poche modifiche, pare sia stato creato senza una pre-cisa premeditazione, proprio alla Keystone. Lo stesso Chaplin scrive nella sua autobiografia: «Non sape-vo a quale truccatura ricorrere (...) Mentre puntavo versoil guardaroba, pensai di mettermi un paio di calzoni sfor-mati, due scarpe troppo grandi, senza dimenticare ilbastone e la bombetta. Volevo che fosse tutto in contra-sto: i pantaloni larghi e cascanti, la giacca attillata, il cap-pello troppo piccolo e le scarpe troppo grandi. Ero incertose truccarmi da vecchio o da giovane, poi ricordai cheSennett mi aveva creduto un uomo assai più maturo e cosìaggiunsi i baffetti che, argomentai, mi avrebbero invec-chiato senza nascondere la mia espressione. Non avevo laminima idea del personaggio. Ma come fui vestito, ilcostume e la truccatura mi fecero capire che tipo era.Cominciai a conoscerlo, e quando m'incamminai versol'enorme pedana di legno, esso era già venuto al mondo.Invenzioni comiche e trovate spiritose mi turbinavanoincessantemente nel cervello. Quando mi trovai al cospet-to di Sennett, assunsi l'identità del nuovo personaggio ecominciai a passeggiare su e giù, impettito, dondolando ilbastoncino, passando e ripassando davanti a lui (...) Il mioera un personaggio originale e poco familiare agli ameri-cani; poco familiare persino a me. Ma, una volta nei suoipanni, io m'immedesimavo in esso, per me era una realtàe un essere vivente. Anzi, m'infiammava di idee folli ditutti i generi, che non avrei mai avuto se non mi fossimesso il costume e la sua truccatura».Nella sua monumentale monografia su Chaplin, DavidRobinson aggiunge che non è difficile, comunque, trovare

precedenti di questo costume nel music-hall britannico,dove vestiti inadatti, trucco esagerato e grandi circonvolu-zioni di bastoncini da passeggio facevano parte dell'ordina-ria attrezzatura di ogni comico che si rispettasse. Delresto, alcuni elementi del personaggio erano già statiaccennati e abbozzati nel corso della carriera teatraledello stesso Chaplin.Qualunque cosa si debba dire in merito alle origini, ilcostume e il trucco creati in quel giorno del febbraio del1914 sono un'invenzione a dir poco ispirata.Per quanto riguarda il trucco, capelli scuri, folti e ricci,occhi bistrati tendono a schiarire ancora di più il viso chesembra infarinato come quello di un nuovo Pierrot. Lo stes-so Chaplin afferma di aver pensato spesso al personaggio diCharlot come a una specie di Pierrot. I baffetti hanno inve-ce il compito di trasmettere maturità e sicurezza ad unvolto spesso dispettoso e irriverente. La bombetta divieneun mezzo per burlarsi del conformismo più ottuso e bigot-to, la sua irriverenza sembra smuovere e scardinare lamentalità borghese più incancrenita e conservatrice.A questo proposito Chaplin scrive: «Quel modo di vestiremi aiuta ad esprimere la mia concezione dell'uomo medio,dell'uomo comune, la mia concezione di quasi tutti gliuomini, di me stesso. La bombetta troppo piccola rappre-senta lo sforzo accanito per poter apparire dignitoso. Ibaffi esprimono vanità. La giacca abbottonata stretta, il

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bastoncino e tutto il comportamento del vagabondo rile-vano il desiderio di assumere un aria galante, ardita,disinvolta. Egli cerca di affrontare coraggiosamente ilmondo, di andare avanti a forza di bluff: e di questo è con-sapevole. E ne è così consapevole che riesce a ridere di sestesso e anche a commiserarsi un pò».Così Chaplin avvia la caratterizzazione del personaggioCharlot sia sul piano della recitazione mimica, sia su quel-lo della maschera. Il costume, che produce un'eleganzaparadossale, discordante con la povertà espressa dalla con-dizione degli abiti, ha un rapporto dialettico con il perso-naggio che interpreta. Charlot è un vagabondo, un disadat-tato che indossa abiti della borghesia, per cui la contrad-dizione tra il suo desiderio e la realtà è immediatamentecomunicato attraverso l'aspetto esteriore.Per quanto riguarda la mimica del personaggio, anche essaha il compito di enfatizzare il suo essere escluso, fuoriluogo, mai aggressivo e sempre remissivo ed in difficoltà.Questa maschera diventa un modo di essere, un simbolo,tanto da essere addirittura usato come travestimento dailadri dell'epoca.Sam Stourdzé afferma che il primo Charlot è caratterizza-to da una mimica particolare. «Virtuoso della pantomima,Chaplin riusciva a comunicare una vasta gamma di emozio-ni sfoggiando una perfetta padronanza dei muscoli faccia-li. In tutti i suoi primi film la bassezza del personaggioricorre come un marchio di fabbrica attraverso una smor-fia in particolare: enfatizzando il naturale corrugamentodella pelle che delimita la zona anteriore della bocca conquella mascellare, questa espressione rivela un controllototale dei muscoli zigomatici. Contraendosi, questi musco-li accentuano le rughe segnando profondamente il viso -invecchiato da un trucco ad hoc - effetto che, unito all'ag-grottarsi delle sopracciglia, spinge gli angoli della boccaverso il basso, solleva i lati del naso e conferisce al viso

un'aria cattiva e sprezzante. L'espressione del viso diCharlot contribuì alla definizione sociale del suo personag-gio». (Chaplin e l'immagine)Un'altra caratteristica di questa maschera è il modo dimuoversi. Per quanto riguarda le origini della tipica anda-tura chapliniana, lo stesso Chaplin, in un'intervista dichia-ra di essersi basato sul modo di camminare di un certo“Rummy” Binks, che di mestiere accudiva ai cavalli. «Lasua camminata era così buffa per me che decisi di imitar-la, e quando la mostrai a mia madre lei mi disse di smet-terla, era una cattiveria prendere in giro un povero disgra-ziato. Ma me lo disse coprendosi la bocca col grembiule, epoi continuò a ridacchiare nel retrocucina per una decinadi minuti. E io, giorno per giorno, coltivai quel modo dicamminare, che era diventato una vera ossessione, e, qua-lunque cosa facessi, una garanzia di risate sicure al centoper cento. Anche oggi, qualunque cosa faccia per far ride-re, non potrò mai abbandonare quell'andatura».Sam Stourdzé scrive a questo proposito: «Erede del teatropopolare e della Commedia dell'Arte, Chaplin si adattòalle regole imposte dal cinema inventando un linguaggiomoderno in cui il corpo, figura centrale dell'espressione,gioca abilmente tra metamorfosi e movimento».Ma l'omino dai baffetti vispi fa molto di più: fa esplodereprepotente la personalità anche dell'uomo Chaplin. Dietrola maschera di Charlot emerge, infatti, la storia di un uomogeniale, di un attore universale e di un grande regista, cheha saputo dare al comico la profondità della tragedia.Per quanto riguarda quest'arte il critico francese AndréBazin nota che, benché formato alla scuola del music-hall,Charlot ne ha purificato la comicità rifiutando ogni com-piacenza nei confronti del pubblico. «Chaplin aveva biso-gno dei mezzi del cinema per liberare al massimo la comi-cità dalle servitù dello spazio e del tempo imposte dal pal-coscenico o dalla pista del circo. Grazie alla macchina dapresa, potendo l'evoluzione dell'effetto comico essere pre-sentata in tutta la sua lunghezza con la più grande chia-rezza, non solo non c'è più bisogno di gonfiarlo perchétutta la sala lo capisca, ma si può anche al contrario affi-nare il gag all'estremo, limare e assottigliare gli ingranag-gi per farne un meccanismo di alta precisione» (Che cos'èil cinema?).In Chaplin esiste, quindi, una strettissima corrispondenzatra evoluzione tematica e formale, per cui, via via che siamplia l'una, anche l'altra si trasforma. La “tecnica delgag” costituisce appunto uno dei nodi e, insieme, dei sin-tomi più rilevanti di questa evoluzione complessiva dellaforma. Bazin stesso ne sembra consapevole, se avverte cheessa giunge in Chaplin «a una specie di perfezione limite,a una densità suprema dello stile».Ma quali sono le caratteristiche di questa costruzione, iprincipi a cui essa si attiene? Guido Oldrini, nel saggio Ilrealismo di Chaplin, afferma che, per quanto riguarda lacostruzione del comico, nei cortometraggi del periodo gio-vanile (1913-1917) il gag risulta spesso slegato da qualsiasiriferimento concreto al contenuto della comica cui appar-

tiene. Ogni incidente comico è frutto, per così dire, dellacasualità. In questi gag è inevitabile che la comicità si affi-di solo all'estro mimico di Chaplin, al suo geniale talento diimprovvisatore teatrale. I gag fanno leva sul puro e sempli-ce automatismo delle reazioni: il protagonista apparecome un meccanismo che, provocato, risponde d'istintoallo stimolo, senza alcuna scelta consapevole o motivazio-ne psicologica. Tuttavia bisogna precisare che Chaplin non silimita all'automatismo di certi clown, alla ripetizione delleloro mosse, dei loro trucchi scontati ecc., ma fa qualcosa didiverso. La comicità del primo Chaplin, deriva dall'automa-tismo del “tipo”, in quanto la “maschera” non si è ancorasviluppata in “personaggio”. Proprio in questa fase si trova-no al massimo grado i valori pantomimici con l'assoluto pre-dominio in Chaplin della “funzione gestuale”. In questi film,infatti, mimica, passo, gesti, atteggiamenti si adeguano alleesigenze ritmiche della forma del balletto che Chaplin deri-va dalla tradizione del music-hall britannico.

Nei mediometraggi, fino al Monello (1920) e al Pellegrino(1922), condizione essenziale del prodursi del gag è anzi-tutto l'ingresso o la presenza in campo della “maschera”che è sempre il centro incontrastato della situazione edella trovata comica. La sua centralità si impone anche dalpunto di vista spazio-figurale, nel senso che essa tende acollocarsi e mantenersi il più possibile al centro del qua-dro. Nello stesso tempo, man mano che avviene una con-cretizzazione storico-sociale della narrazione in rapportoalla dilatazione dei tempi del racconto, la “maschera”tende a trasformarsi in “personaggio”. A questo punto,strumento di risposta alle varie situazioni non può più esse-re l'automatismo, per cui il gag assume due nuovi compiti:da una parte smascherare le dissonanze essenza/apparen-za, verità/menzogna, imposte dalle ipocrisie sociali, dal-l'altra interrompere una situazione che, per eccesso diemotività, rischia di cadere nel pathos. Ne deriva una sortadi “punizione” comica inflitta al personaggio in quanto,non appena questi rischia di essere sopraffatto dal senti-mentalismo, ecco che un imprevisto o un incidente comicolo riporta di colpo alla realtà.Ma per esplicare tutte le sue potenzialità e le sue risorse,il gag esige che la “maschera” diventi completamente per-sonaggio, arricchendosi di determinazioni che la connota-

no socialmente e assumendo una sua particolare significa-zione in seno al contesto di riferimento. Questo meccani-smo si concretizzerà nei lungometraggi, in cui situazioni,azioni, effetti comici e tragicomici sorgono in Chaplin dalcontrasto con la realtà sociale storicamente determinata.La stessa comparsa del tragico entro la struttura comica eil processo della loro integrazione non avvengono a caso.Essi stanno in rapporto con la pressione che esercitanosulla forma filmica i mutamenti della realtà sociale deltempo (per esempio la rivoluzione industriale in Tempimoderni).Da La febbre dell'oro (1925) in poi, il gag tende sempre piùa identificarsi con la situazione concreta evocata, entra afar parte integrante dell'insieme, si inserisce organicamen-te nella struttura filmica.La febbre dell'oro (1925), Il circo (1928), Luci della città(1931) e Tempi moderni (1936) sono i quattro grandi filmche consacrano il personaggio di Charlot come il romanti-

co e sentimentale eroe che difende la propria anarchicalibertà ed individualità contro la massificazione di unasocietà moderna avida e disumanizzante, dominata dallacorsa all'arricchimento e dall'egoismo. Sono opere dallaforza narrativa unica, dove psicologia e spirito di osserva-zione si fondono con un pathos assoluto ma controllatissi-mo, privo di ogni banalità o convenzionalità.In questi film il meccanismo tramite il quale Charlot comu-nica con noi è ancora quello del gag che Chaplin però uma-nizza, legandolo, per la prima volta, a un discorso psicolo-gico-sociale. Si genera cosi il senso profondo dell'arte cha-pliniana, la sua forma strutturalmente originale, che vedecoesistere intrinsecamente comico e tragico.L'umorismo di Chaplin diventa provocazione, opposizionealla regola, ribaltamento dei valori borghesi costituiti, maanche, fondamentalmente l'unica via per poter adeguata-mente esprimere la tragicità effettiva del reale. Infatti difronte alla serietà del potere, della ragione, sta l'irrisionedel comico, l'inversione continua del personaggio Charlotche mostra anche l'altra faccia della realtà.È proprio questa comicità che condanna Charlot al suodestino di vagabondo. Egli non può abitare il mondo perchénon riesce a capire e ad accettare le leggi che ne produco-no il senso, mondo al quale tenta continuamente, proprio

Dietro la maschera di Charlot emerge, la storia di unuomo geniale, di un attore universale e di un granderegista, che ha saputo dare al comico la profonditàdella tragedia.

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attraverso la meccanica del comico, di imporre il suo con-trosenso che si rivela, agli occhi del mondo, e a noi spet-tatori, un semplice non senso. In Tempi moderni egli cal-pesta i tabù della nuova società industriale, infrange quel-li della religione delle macchine e del profitto, il che fa dilui un uomo fuori dalle regole, fuori dalla legge delCapitale. Con questo film assistiamo alla fine del personag-gio Charlot (che ha già qui alcuni connotati fisionomicidiversi: i capelli con la scriminatura sostituiscono ad esem-pio la precedente folta massa di ricci scuri). La sua finecoincide con la fine del suo silenzio. Per la prima voltaudiamo sullo schermo la sua voce, dopo avere udito i gor-goglii del suo stomaco (sequenza con la moglie del pastorein carcere). Canta una canzone, ma le parole che pronun-cia sono senza senso: è uno sberleffo al sonoro che nelcinema è una conquista del progresso tecnologico (le soleparole del film sono quelle pronunciate da una macchina).

Si tratta di una dichiarazione implicitamente “teorica”, incui Chaplin dimostra che il comico (e quindi il cinema, dicui il comico è la forma linguistica per lui specifica) stasoprattutto nell'immagine che è un linguaggio universaleperché si rivolge a tutti gli uomini, accomunandoli al di làdi ogni barriera sociale e nazionale, dissipando così il“sospetto e il timore che hanno invaso il mondo”.Chaplin capisce che la comicità, che il teatro ha per primomesso in scena e che il cinema ha ripreso per darle unanuova linfa, possiede una grande forza: quella di metterein risalto le debolezze umane e nello stesso tempo allevia-re le sofferenze altrui, perché è capace di far comprende-re che in questo mondo di travagli e di afflizioni, spessodovuti ai nostri difetti, al nostro cinismo e all'incapacità didare importanza alle cose vere e importanti, l'autoironiaed il “riderci sopra” possono essere un buon metodo periniziare a creare un mondo più a misura d'uomo.

“Ti criticheranno sempre, parleranno maledi te e sarà difficile che incontri qualcunoal quale tu possa andare bene come sei.Quindi: vivi come credi, fai cosa ti dice ilcuore... ciò che vuoi... una vita è un'operadi teatro che non ha prove iniziali. Quindi:canta, ridi, balla, ama... e vivi intensa-mente ogni momento della tua vita...prima che cali il sipario e l'opera finiscasenza applausi”.

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uando si parla di magia e di meraviglia dello spet-tacolo, bisogna rifarsi a questa strabiliante famigliadi marionette che con i suoi turbinii d'incantesimi,

di splendori, prodezze old style, continua a destare sorpre-sa anche in occhi come i nostri, assuefatti agli eccessi delleimmaginiLa “Carlo Colla e figli” è la più antica e prestigiosa compa-gnia italiana in attività di un genere teatrale molto specia-le: i marionettisti. Gli antenati dei Colla s'inventarono il mestiere quando gliaustriaci li cacciarono da Milano perché filofrancesi. Daallora fino a oggi c'è sempre stato qualcuno della loro fami-glia dietro a uno Shakespeare, un Molière o un Verdi, alle-stiti in miniatura.Un pittoresco mondo fatto di paladini, principesse, creatu-re fantastiche che ci riportano a quell'antico e tenerissimoteatro, non toccato dal tempo e dalle mode, in equilibrio

Le Marionette dei Col la

…Favole appese a un filoDissacrante e canzonatorio come lo erano leballate popolari ottocentesche, il Gatto con gliStivali, tratto dalla fiaba di Charles Perraul,nella compagnia marionettistica di Carlo Colla,convivono due mondi paralleli, quello degliuomini e quello degli animali, bizzarramenteantropomorfici, secondo le migliori tradizioniche da Esopo e Fedro arrivano fino ai bestiarimedievali.Ma dietro le quinte dello spettacolo si apreun mondo straordinario fatto di fantasia tec-nica e passione che i Colla portano avanti dagenerazioni.Il tutto esaurito fatto registrare anche aCatonateatro dalla compagnia milanese e ilgrande consenso del pubblico, confermano lasapienza di un'arte antichissima che con la ric-chezza delle scenografie, della costumistica,degli accorgimenti di scenotecnica, delle mac-chinerie teatrali, della illuminotecnica e diun'attenta drammaturgia che celebra la meta-fora dell'attore-marionetta, propone il giocodel teatro in tutta la sua completezza resti-tuendo, nel contempo, allo spettacolo mario-nettistico la dignità consacratagli dalla storiadel teatro.

di Ida Fedele

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perfetto tra la cura maniacale del dettaglio e il piacere delpittoresco, l'indulgenza ironica agli stereotipi e la poesia.O meglio, la grazia, come scriveva Von Kleist.Fiabe come Cenerentola, Mille e una notte, Il PifferaioMagico o Il gatto con gli stivali, hanno sempre lasciatosenza fiato gli spettatori di tutti i teatri del mondo davan-ti allo splendore di ognuna di qulle messe in scena.Pensate ad esempio alla meraviglia di una tempesta di

pioggia e vento provocata dal sbattere diduecentocinquantamila perline di vetroappese ai fili. La puntuale precisione dell'impianto sceni-co è a sostegno di una messa in scena doveironia, poesia, senso del meraviglioso s'in-trecciano in un irripetibile connubio. La suggestione dei Colla sta nella loro affa-scinante storia e in un patrimonio secolarecostituito da oltre trentamila pezzi tramarionette, manoscritti, scenografie, par-titure e accessori, oltre alla capacità auto-noma di restauro e di costruzione artigiana-le dei protagonisti, vecchi e nuovi, del tea-

tro animato. Poco più di una dozzina di persone coprono tutte le com-petenze della compagnia: dalla costruzione delle mario-nette, alla confezione dei costumi e delle nuove scenogra-fie e a quanto possa occorrere per mettere su uno spetta-colo. E' davvero affascinante seguire i movimenti perfetta-mente sincroni dei manovratori.

….C'era una volta un Re…, Un autentico divertissement, con una spiccata propensioneai colpi di scena, alternando parti recitate a momenti dicanto e sezioni musicali.Fiaba candida e ingenua, dotata d'infinito quanto autenti-co calore umano e fantasia: alternativa intelligente alvuoto d'idee della produzione natalizia di Harry Potter.La rappresentazione riprende fedelmente il mondo fastosoe magico della fiaba originale di Perrault amplificato ancorpiù dalle musiche appositamente composte da FeliceCarnesasca. Lo spettacolo che ha debuttato per la primavolta nel 1910 è realizzato come una féerie, in una riedi-zione con parti recitate, cantate e musicali. E' un'operinafiaba che risente del gusto dell'epoca versta dell'operetta,e ricalca con notevole perizia i temi della nostra tradizio-ne popolare.Allestimento articolato in sei quadri, nel quale confluisco-no e si rinnovano alchimie di generi: l'opera buffa, il melo-dramma, la prosa, la pantomima musicale.Gli scenari riccamente rifiniti e tridimensionali, alterano lospazio scenico, calando il giovane pubblico e non solo, inun mondo fiabesco. Il tutto coronato da un progetto di luciconsapevole e funzionale ai cambi di scena, frutto di annidi pratica e passione per l'arte teatrale. Sulla scena si rincorrono circa 200 marionette abbigliatecon una ricchezza pari a quella di attori in carne ed ossa,con tanto di camicie con pizzi d'epoca, guanti, parrucche ecappelli piumati. Il tema divertente e spiritoso, con unamorale sottile e un pò crudele, la ricchezza e il fasto dellamessa in scena contribuiscono a restituire il senso del “fia-besco” e il momento storico in cui il filone favolistica fiorì,mentre il celebre Gatto, insegna a grandi e piccini che avolte un po' di furbizia è più preziosa del potere di un re.

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Esposta a Milano, a Palazzo

Marino, dopo un restauro

scientifico, la Conversione di

Saulo, conosciuta come pala

Odescalchi. Caravaggio la

dipinge, all'inizio del '600, con

intelligenza di regista creando

un turbinio di forme attorno a

una luce misteriosa, protago-

nista dell'opera, il cui impian-

to barocco mostra il genio sce-

nico del pittore maledetto.

umultuosa pièce, nel trambusto di lampi e voci,spade e nitriti, è la Conversione di Saulo, firmata,nel 1601, da Caravaggio. Capolavoro, di recente

restaurato, che svela l'enigma di una luce che assumevalenza metafisica, ragione dell'esegesi del pittore male-detto, conquistato dalla storia di Paolo di Tarso, gettato aterra sulla via di Damasco. Da oltre mezzo secolo l'opera,di proprietà dei principiOdescalchi, non viene espo-sta al pubblico. L'urgenzadel restauro favorisce nonsolo il recupero dell'altaqualità della tavola, maanche la riscoperta di valoriantropologici e teologiciinsiti nel manufatto, che iltempo, inesorabilmente,aveva velato ossidando lasuperficie pittorica, mutan-do le cromie, inscurendo laluce e negandone la centra-lità, per cui la percezionevisiva era stravolta da ele-menti secondari. Per ilmondo della critica e dellacultura è un evento la rina-scita della prima Conversionedi Michelangelo Merisi, gra-zie a due anni di interventiche consentono di ristabilireil primigenio equilibrio trala forma iconologica e lastruttura materica, modu-lando un'immagine carica diemozioni e verità.La pala Odescalchi, destina-ta alla cappella Cerasi diSanta Maria del Popolo, aRoma, non viene collocatasull'altare forse per motivi religiosi. Il committente TiberioCerasi chiede al pittore una versione più pacata. Non siconosce la reazione di Caravaggio, il quale, però, sfida sestesso nell'ideazione di un'opera nuova, tessuta di silenzioe di un luminismo che interpella l'interiorità dell'uomo.L'azione è lenta, cadenzata dal passo tranquillo di uno stal-

lone, tappezzato di bianco, che domina la scena. Da quat-tro secoli questa Conversione, dipinta su tela, attrae,insieme al pendant della Crocifissione di San Pietro, milio-ni di spettatori dentro una chiesa che rivela la grandezzaspirituale del pittore assassino come lo definisce Stendhal.Nel 1647 la Conversione, prima maniera, è acquistata daJuan Alfonso Enriquez de Cabrera, vicerè di Sicilia eNapoli, che la porta a Madrid. Vi rimane esule tre secoli.Quindi torna a Genova in casa Balbi e, in seguito, a Romacome eredità degli Odescalchi. Nel 1943 Giulio Carlo Arganstudia e pubblica il dipinto. Nel 1951 Roberto Longhi loespone a Milano, nella mostra dedicata a Caravaggio,dichiarandolo autografo del Gran Lombardo. Molteplici isaggi su questa tavola di cipresso su cui intervengono diver-si esperti al fine di proteggerne i valori iconografici e pit-torici. Gli ultimi interventi ne rivelano l'ardimento formalegenerato da una luce chiara, che scolpisce il corpo diSaulo, persecutore di Cristo e della chiesa.

In occasione del bimillennario dell'apostolo delle genti, lacittà di Milano, con il patrocinio del Presidente dellaRepubblica, espone a Palazzo Marino, la tavola restaurata,che si offre allo sguardo dei visitatori con la drammaticitàdescritta dall'evangelista Luca negli Atti. Lo scrittore neo-testamentario rappresenta della vicenda di Damasco la

Il teatro di Caravaggioe il mistero delle Conversioni

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Tdi Giovanni Bonanno

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tensione umana e divina. Racconta con dovizia di partico-lari la caduta di Saulo, la voce che gli chiede il perché dellepersecuzioni, la luce che lo abbaglia, la cecità che lo col-pisce, l'invito a presentarsi al presbitero Anania. Concitataevocazione che il Merisi traduce direttamente in pitturaperché anche egli si sente ghermito da Cristo, chiamato auna rigenerazione che tarderà a venire.Nella vastità intrisa di grigi, scenograficamente esplosiva,Caravaggio inventa, con simultaneità di episodi, gesti eparole, uno spettacolo sacro, che attira empaticamentepiù che gli occhi l'intelletto per sconvolgerlo, di là da ogniragione, con violenza inaudita, che è insieme condanna eperdono. Non quadro devozionale è la Conversione, bensì

drammatico. Di un dramma che scuote carne e spirito con unasequenza di interrogativi riguardanti non più Paolo, ma chi sitrova ora dinanzi al teatro dipinto, che inquieta domandando aciascuno del male consumato e di una esistenza che si nega allagrazia. Turba Caravaggio con la sua opera gente comune e intellettuali,credenti e non. Un teatro esistenziale, maturato alla scuola lom-barda di Carlo e Federico Borromeo, il cui insegnamento è nelnome della rinascita e della carità. Sbalzato da cavallo sta, inprimo piano, Saulo, il giustiziere che un bagliore improvvisoacceca mettendo di lui in risalto il dorso nudo, appena sollevato.Le mani tremanti coprono volto e occhi fulminati. In secondopiano è il cavallo imbizzarrito, scalpitante tra fronde e rami. Sipone a schermo di un luminoso paesaggio lontano, la testa fre-mente e la bocca che spuma. Il suo colore è di ferroso bigio, checontrasta con la misteriosa luce. A sinistra è il vecchio scudierodel capitano Saulo. Fermo sulle gambe divaricate sguaina unospadone bituminoso, mentre si mette in difesa con lo scudo. Loadorna una lunga barba e un elmo luccicante, aggraziato da bian-che piume. Frastornato sente voci, ma non intende, mentreviene frustato da inspiegabili lampi. In alto, a destra, plananoimprovvisamente un angelo e Cristo. Il primo stringe il Kyrios,che si protende sul vinto di Damasco per rimuoverlo dalla sicu-mera che lo fa essere liberticida. Aperte le braccia in segno diaccoglienza tende la mano destra, inondata di luce, al fonda-mentalista come per infondergli nuova vita. Caravaggio dipinge la scena con diversi piani prospettici e conuno stile naturalista che preannunzia il realismo, che determinapresto il suo codice creativo. Perché repentina l'azione teatraleobbliga, con molteplicità semantica, l'occhio a indagare i punticardinali della tavola, il sommovimento corale, i protagonisti e laloro psicologia, la presenza di una luce che materializza il corpocrocifisso e risorto di Cristo. Ogni anfratto del dipinto ridestal'attenzione in una continua riscoperta di verità naturali esovrannaturali, che si assommano nella impetuosa cascata diluce, epicentro deflagrante, che stordisce l'anziano servitore esgomenta sino all'angoscia Saulo. Il quale vede quel Gesù da luiricercato e che ora lo interpella: Perché mi perseguiti? Sa di shock il teatro di Caravaggio. È travolgente, gravato diombre, teso a traumatizzare lo spettatore per trasformarlo dasoggetto passivo a soggetto attivo, in grado di percepire non soloil tormento di Paolo, ma la sua stessa inquietudine di uomo cheuna luce arcana, forse un buio arcano, inchioda di fronte alleresponsabilità.Anarchico è Caravaggio secondo Bellori, Van Mander e Susinno,suoi contemporanei. Persino omicida. Genio sregolato che sipente fuggendo, disperatamente, anche da sé sentendo il morsodel peccato. Perciò fissa sulle tele la sua esistenza come espia-zione. Di questo travaglio, che lo accompagna sino all'ultimo, lapala Odescalchi è incipit emblematico, non preoccupata di pia-cere, ma impegnata a testimoniare la catarsi. Un capolavoro inpresa diretta, di realtà vista e trasferita, con subitaneità tea-trale, sulla tavola scuotendo e ridestando le coscienze.

Turba Caravaggio con la sua opera gente

comune e intellettuali, credenti e non. Un

teatro esistenziale, maturato alla scuola

lombarda di Carlo e Federico Borromeo, il

cui insegnamento è nel nome della rinascita

e della carità.

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VILLA GENOESE ZERBI, SCRIGNO D'ARTE, CULTURAE CREATIVITÀ MEDITERRANEA

Suggestivi spazi espositivihanno fatto da cornicesilenziosa ad una ineditaed interessante collettivache ha aperto uno spacca-to sul mondo artisticodella città.Protagonisti cinquanta trai maggiori artisti del pano-rama reggino della secon-da metà del novecento.Duecento le opere.

Natino Chirico“Occhi d’Attore”

nstancabile polo d'arte, che assorbe e rilascia emozioni. Ancora una volta Villa Genoese Zerbi, è magnifica ospi-te di una delle esposizioni più significative ed interes-

santi per la nostra città. Questa è la “nostra” arte e questi sono i nostri artisti. VillaZerbi ne ha visti tanti, dalle frenesie moderniste alleimmagini consolidate, dal buon gusto alle denunce. Qui sianalizza, si studia, si dialoga con l'arte. Ma questa volta è“Reggio Art”. Filo conduttore è Reggio, caposaldo di un'esposizione, pro-duzione di talenti già conosciuti che ritornano per farsiriconoscere, per dimostrarci ciò che hanno saputo e volutofare nel mondo con la tenacia e l'eccellenza delle proprieradici, ma accanto anche a chi di questa strada ha solo ini-ziato il proprio percorso, con grande forza e talento. Ilrisultato è la passione che diventa arte. Un amore per la

propria terra che unisce generi e gradi. Perfette fusioni traestetica e contenuto, in cui l'armonia delle immagini rievo-ca emozioni passate, desideri in attesa, commozioni acco-rate.Tutto segue l'andamento di un elettrocardiogramma.Partendo da una tenda che si apre, ogni artista ci provocastati d'ansia, curiosità, quiete, pacata tristezza, dolciricordi, certezze sul futuro, domande sul domani. Sono cin-quanta che ci fanno palpitare. Sono duecento le opere chesi lasciano scrutare. Il passato fa da strada con VincenzoCaridi, Giuseppe Marino, Carlo Filosa, Leo Pellicanò. Lesuggestioni di Nik Spatari, i colori di Beniamino Minnella.Diamanti che brillano di luce propria e illuminano le affa-scinanti e misteriose sale della Villa, seguendo un percor-so guidato dalla nostra sensibilità, da un intimismo quasinaturale che ci creiamo attorno all'opera, con l'opera. Ogni

di Daniela Masucci

Tina Sgrò “Interno quotidiano”

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artista si racconta, ogni soggetto è una storia, ognuno colproprio tratto come Natino Chirico ognuno con il propriopennello come Stellario Baccillieri. Storie più mature, ostrade da solcare. Giovani intraprendenti con marcati segnidi futuro come Tina Sgrò. Un'interiore visione che dallamente si compone sulla tela. Accostamenti di colore,forme inaspettate, suggestioni materiche di mondi lontani,liberate con luci di colore con astratte vibrazioni. Momentibloccati, attimi scrutati e messi a fuoco con l'obiettivo acui, come all'occhio della lince non sfugge nulla. Occhi cheguardando la stasi e la catarsi di un mondo della terra diCalabria come Ninni De Salvo, e un mondo dei fondali diFrancesco Turano. Fotografi che raccontano attraverso unimmagine incollata alla carta la dinamicità e la metamor-

fosi della città: Paula Keyzar ed Antonio Pellicanò. Lo sporte la sacralità con Antonio Sollazzo, la passione per un'im-magine da scrutare con nuovi occhi di Loredana Guinicelli.Prospettive e orientamenti che cambiano come il sole, ilmare, la terra, il tempo. Tutto in una incantevole dichiara-zione d'amore per la nostra Calabria. Tutto per smuoveregli animi, le sensibilità, la coscienza di una realtà che sadare molto, che sa stimolare e spronare ad ogni età, che savivere profondamente ogni stato d'animo. Reggio Art èsicuramente molto di più di ciò che le nostre coscienze oggiriconoscono, perché il futuro del proprio Paese e la suaforza è basata sulle proprie forze, su quello che siamo equello che di buono e positivo facciamo e programmiamo.E questo è veramente un buon futuro.

Stellario Baccillieri “Il Caffé Greco”

Magici frammentidi luce

Stili, epoche, etnie e costumi del sud,raccontati attraverso l'oro, l'argento ele pietre preziose. La mostra a VillaZerbi ripercorre le tappe della storiaartistica di Gerardo Sacco. Alle formetradizionali si alternano soluzioni mul-timediali innovative. Occasione di conferenze e incontri sulpatrimonio artistico della Calabriamagnogreca, latina, bizantina e rina-scimentale.

di Da.Ma

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ttraverso bagliori di luce, partendo dalle origini, circondatidallo splendore d'altri tempi, viaggiamo in una brillante car-riera che racconta per frammenti sfavillanti la storia di un

uomo e della sua Terra.Gerardo Sacco non ha bisogno di presentazioni, neanche di pubblici-tà, con le proprie forze, con la testardaggine di un calabrese si èfatto conoscere col tempo e l'audacia. Ma le sue storie non parlanosolo di sè, o meglio parlano di un “crotoniate”, che vive in una terrapiena di ori della storia, e attraverso l'osservazione delle epochedella Calabria, attraverso le testimonianze di popoli antichi, di gran-di culture che la Terra ha ospitato, lui irradia luce.Prima di tutto un cantastorie, un maestro della sua Terra, per tuttiquelli che disconoscono.Ospitando Gerardo Sacco a Villa Genoese Zerbi, omaggiamo laCalabria, ascoltiamo attraverso le sale una voce antica, che parlatramite mani sapienti e ori brillanti.Spinto da una semplicità da bambino come nel primo gioiello realiz-zato all'età di otto anni, da un fervore calabrese per miti, leggendedell'Olimpo, mostri della terra che hanno combattuto in mare, chediventano essenze preziose, occhi che guardano il passato delle artipopolari per creare un presente più luminoso con una luce futura.Niente può esprimere meglio delle sue creazioni un percorso che sistaglia attraverso re, contadini, ciottoli di mare e pietre bagnate dalsangue della Medusa, senza parole leggiamo miti che cavalcano leonde del mare, comunità arberesch e dive famose, cinema-teatro-tve devozione religiosa. Sin da piccolo si guarda attorno e respira l'ariadi quella Calabria che gli dà ossigeno, da dove lui non è mai andatovia, non ha sradicato le proprie radici, nemmeno la notorietà lo indu-ce a lasciare la sua terra. E' da lì che prende stimoli, l'aria, il cielo,i colori di questa terra sono un vero e proprio cordone ombelicale, si

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allontana per farli conoscere, accetta diversi inviti perimparare ed insegnare, ma torna sempre a casa, comedovesse ricaricarsi. Nasce dall'interno della Calabria comenascono dal buio i metalli nobili (Saverio Strati). Nobilimetalli ma freddi, che solo attraverso le sue mani prendo-no vita. Gerardo Sacco come l'arte è come una pepita inminiera. Si sta per ore senza trovare nulla. Poi, improvvi-samente brilla! E ogni giorno è una vera scoperta di chiscava, lavora e poi favilla. Personalizza e rende unici e maivisti, storie e personaggi, testimonianza di una cultura e ditradizioni. Con tecniche sapienti dell'oreficeria antica econtemporanea, crea gioielli del passato da indossare nelpresente. Sembra di essere in una macchina del tempo,Villa Genoese Zerbi, e il motore, Gerardo Sacco, ci traspor-ta tra Paestum rinata in oggetti d'arredo e gioielli cheriproducono le antiche metope, e Satiro danzante diMazara del Vallo, che il tempo ha mutilato nella plasticitàdelle forme e con Lui è ritornato a danzare. I pupi sicilianisono diventati pendenti con brevetto internazionale,facendo rivivere i valori dei personaggi cavallereschi in un

mondo dallo spirito eroico e dal cuore nobile. Se una sto-ria millenaria arriva fino a noi, certamente racchiude in sél'elisir di lunga vita, e Gerardo Sacco ne coglie l'essenza ela fa rivivere in chiave moderna. Un autodidatta che attra-verso gioie, tristezze, glorie o fallimenti, di cui ciascuno dinoi affronta nella vita, si è formato, li ha filtrati e manipo-lati. Un lavorìo dell'esistenza che a volte fa paragonare lavita ad una di quelle fiabe dove le vicende s'intreccianospingendo il protagonista verso mete che mai avrebbesognato di raggiungere. Sacco, che fino a 18 anni non uscìda Crotone, ora proiettato nel mondo, è comunque fascia-to di quella immensa umiltà che caratterizza i grandi uomi-ni. Un amore verso le cose che lo circondano spinto quasidagli eventi, a volte positivi a volte grotteschi altri menopiacevoli. Ma grande significa cogliere la parte più bella ditutte le cose. E noi siamo convinti come calabresi, che chidimostra orgoglio verso le proprie radici e le rappresentaal meglio è Grande come la storia. Noi speriamo di averfatto questo, volendo rappresentare un grande uomo nellesue piccole e importanti gioie della vita.

Euainetos e le monete

La testimonianza più elo-quente dello splendore edella ricchezza delle polisnel V secolo a.C. è offertadalla coniazione delle mone-te d'argento e d'oro caratte-rizzate sul diritto e sulrovescio da raffigurazioni esimboli che esaltano le divi-nità protettrici, la forzamilitare e la ricchezza eco-nomica delle singole città.E' il momento dei gran-di “maestri firman-ti”: Eukleidas,Eua inetos ,Kimon.

La Quadrigadi Apollodi Daniele Castrizio

Foto Antonio Sollazzo

Foto Antonio Sollazzo

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l mio nome è Euainetos. Permantenere me e la mia fami-glia incido conii monetari ed

intaglio gemme. Se mi dateascolto, anche solo per pocotempo, vorrei narrarvi l'epoca dei“Maestri firmanti”, essendonestato testimone. Ne vale la pena:si è trattato del periodo miglioreper la produzione di moneta inSicilia ed in Magna Grecia, madevo avvertirvi che le vicende storiche che hanno accom-pagnato questa fioritura artistica assolutamente irripetibi-le sono state drammatiche e sanguinose. Ma cominciamo …Nell'anno che voi chiamate 424 a.C. la Sicilia e Reggioerano scosse da una guerra senza quartiere, frutto occi-dentale della lotta che aveva fatto scontrare in modoimplacabile Ateniesi e Spartani. Circa tre anni prima unaflotta ateniese era arrivata a Reggio, alleata degli Attici,per porre le basi della futura conquista della Sicilia e del-l'abbattimento della potenza di Siracusa, potente amicadei Lacedemoni. Reggini ed Ateniesi, di comune accordo,avevano effettuato delle operazioni militari con l'intentostrategico di conquistare alcuni punti chiave del territorio:si erano affannati all'isola di Lipara, cercando di farla capi-tolare, in modo da fare diventare l'isola una base navaleche avrebbe potuto molestare l'intera Sicilia; avevano ten-tato di conquistare i due porti di quello che oggi voi chia-mate Capo Spartivento, indispensabili per la navigazionedalla Grecia all'Italia. Lipara aveva, però, resistito, ed iLocresi non si erano lasciati sorprendere da uno sbarcoanfibio, mantenendo il controllo della cittadina diKaikinon, anche se avevano dovuto lasciare a Reggini eAteniesi una fortezza di confine. Dopo queste operazionimilitari, gli alleatiioni avevano cer-cato di consolida-re le loro posizionia Messana, maanche qui eranoandati incontro apiccoli rovesci, inparte dovuti allasfortuna, in partealla tenacia deiSiracusani.La guerra, quindi,nel 424 a.C. eraarrivata ad unpunto morto, con gli Ateniesi inattivi nel porto di Reggio.Era arrivato il tempo di aprire trattative diplomatiche, edil siracusano Ermocrate aveva imposto a Gela, in un incon-tro fra tutti i contendenti, una pace generale per tutta laSicilia: sapevamo tutti che si trattava solo di una treguaper riprendere il fiato, ma fummo contenti ugualmente.

Qui entrano in ballo le monete …Ermocrate, per celebrare il successo suo e di Siracusa,ordinò ai mastri zecchieri di creare dei nuovi tetradrammid'argento che celebrassero la “città che si mette in moto”.La quadriga di Apollo, che era lo stemma della città diSiracusa ed era stata effigiata sempre al passo, fu rappre-sentata in corsa. Il messaggio era chiaro: come in una garadi quadrighe vince chi va più veloce, così il carro deiSiracusani è mostrato mentre trionfa superando tutti gliavversari (fig. 1). La realizzazione del nuovo modello fuaffidato ad Eumenes, il più anziano degli incisori e forsel'artista più dotato della sua generazione. Dall'altro latodelle monete Eumenes realizzò una serie di profili femmi-nili di squisita fattura, donne da sogno che incarnavano laninfa Aretusa, la divinità della fonte di Ortigia, che garan-tiva a Siracusa un sicuro approvvigionamento di acquapotabile. Per la prima volta nella storia della moneta, l'in-cisore ebbe il diritto di apporre la sua firma, sia pure unpoco dissimulata nel campo monetale: era iniziata l'era dei“Maestri firmanti”. Tutto l'ecumene apprezzò le nuovemonete siracusane e la loro imitazione cominciò appenaesse furono messe in circolazione.La pace in Sicilia e Magna Grecia durò lo spazio di qualche

anno, perché già nel 415 a.C. una imponente spedizionemilitare ateniese si imbarcò sulla più grande flotta da guer-ra e da trasporto che il mondo avesse visto dopo la finedelle guerre persiane. Gli Ateniesi, sempre a corto digrano, avevano deciso di appoggiare la città di Segesta, inperpetua guerra contro Selinunte, nostra alleata, scate-

nandoci contro un esercito capace di conquistaretutta l'isola. Fu un assedio duro, con continue sorpre-se, ma, sotto l'egida di Atena, Siracusa vinse e gliinvasori furono disfatti nel 413 a.C.La divisione del bottino tra i nostri combattenti ed ilfinanziamento della prima spedizione navale sicelio-ta nell'Egeo per appoggiare gli alleati Spartani furonola causa della ripresa delle coniazioni. Stavolta, ilMaestro più titolato ero io, Euainetos, ed a me fuchiesto di realizzare una quadriga in corsa, ma sta-volta vista di scorcio. Si trattava di una ardita inno-vazione stilistica: fino a pochi decenni prima erava-mo ancora fermi allo stile degli Egiziani, con figurerigide e per niente naturalistiche. La mia quadriga suitetradrammi fu reputata tanto bella da meritarel'iscrizione del mio nome su un cartiglio retto dallaVittoria in volo (fig. 2). Giudicate voi: guardate comel'insieme è armonioso e realistico! In quel breveperiodo realizzai conii per battere in oro (fig. 3),argento e persino bronzo. I concittadini credono,comunque, che il mio capolavoro sia stato il deca-drammo d'argento, con la splendida testa di Aretusaal rovescio (fig. 4).Insieme a me coniavano altri splendidi artisti:Cimone, che ha prodotto una testa di scorcio diAretusa che resisterà all'oblio dei secoli (fig. 5);Eucleida, con la sua quadriga con le teste dei cavallinon simmetriche, ma tutte diverse e con la meravi-gliosa testa di Atena di scorcio (fig. 6). Accanto a noitanti altri maestri di talento, tutti autorizzati a fir-mare le loro produzioni.Fu un periodo intenso ma troppo breve: nel 409 a.C.arrivò la marea cartaginese, che rischiò di sommer-gerci, provocando la distruzione di Imera e Selinunte.Per contrapporci alla devastazione, dopo molti rivol-gimenti politici, il popolo siracusano decise di affi-darsi ad un tiranno, Dionisio il Vecchio, la cui politicaripugnava alla mia coscienza. Per questo motivo fug-gii esule dalla mia Patria, sempre inseguito dallaguerra. A Camarina realizzai la mia versione dellatesta di scorcio, forse più bella di quella di Cimone(fig. 7), ma la città fu quasi subito distrutta daiCartaginesi. Riparai, allora, a Catania, producendouna splendida coppia di conii, con una quadriga eduna deliziosa testa di Apollo (fig. 8), ma anche lì miraggiunse Dionisio, costringendo la città a capitolare. Eccomi qui, quindi, ancora ed una volta esule, che michiedo cosa devo fare. Tutti gli oppositori al tirannosi stanno dirigendo a Reggio, che è diventata il cen-tro della resistenza a tutte le dittature. Credo diandarci anche io, seguendo i miei amici Eloride eFitone, che, pur essendo siracusani per nascita, sonostati eletti strateghi dai Reggini e condurranno laguerra contro Dionisio. Chissà, forse anche a Reggiomi affideranno la realizzazione delle monete dellapolis …

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Auguridi carta

I biglietti di Natalealla corte della Regina Vittoria

Il tempo passa ma i gesti sono quelli di sem-pre: aggiungere una nuova decorazioneall'albero, recuperare i pastori del presepe

conservati in uno scatolone, fare la lista deiregali, inviare gli auguri a parenti e amici.Il Natale ritorna con le sue usanze e le sue tra-dizioni, le cui origini si perdono in un intrec-cio di storia e leggenda, in un sottile confinetra sacro e profano.E forse la magia del Natale sta proprio in que-sta fusione tra presente e passato, tra sogno erealtà che l'accompagna; in quel miscuglio disensazioni e ricordi che suscita e che ne fannola festa più amata e attesa dell'anno.Gesti di sempre, che aprono l'album dellamemoria … E ritornano le immagini dellanostra infanzia: la letterina scritta da bambi-ni, con bella calligrafia ai genitori, o le car-toline festose ricevute da un parente lonta-no, quando scrivere o ricevere un messaggiodi auguri era una piccola emozione… Edanche oggi, nell'era di internet, quando bastaun click per scegliere una cartolina elettroni-ca, un messaggio scritto conserva un fascinoimmutato …Ma da dove deriva la tradizione dei bigliettiaugurali di Natale?Per scoprirlo bisogna fare un salto indietro nel tempo,nell'Inghilterra dell'Epoca Vittoriana.E' il 1837 quando, alla morte dello zio Guglielmo IV, sale altrono d'Inghilterra la diciottenne Vittoria, principessa diKent. Durante il suo regno, che dura sessantaquatto anni,l'Inghilterra conosce un periodo di prosperità senza prece-denti, di cui beneficia soprattutto la classe media. Nel

1840 Vittoria sposa il cugino, il Principe Alberto diSassonia-Coburgo. Un matrimonio che dura felicementeventuno anni, fino alla morte improvvisa del principe, e dacui nascono nove figli.Il principe Alberto introduce alcune tradizioni dallaGermania: così nel 1841, nel castello di Windsor, fa la suaapparizione l'albero di Natale. La sera della vigilia alcuni

di Lucia Federico

Lo stile, l'eleganza, la raffinatezza dei biglietti augurali

dell'epoca vittoriana sono stati protagonisti della mostra

“Auguri nel tempo”, allestita nel foyer del Teatro

Comunale “Francesco Cilea” di Reggio Calabria, nel perio-

do delle festività natalizie.

Cento anni e più di auguri di carta che hanno raccontato,

in un itinerario non solo visivo, ma anche culturale e didat-

tico, l'evolversi della società e dei costumi, il fluire delle

correnti artistiche, gli avvenimenti grandi e piccoli della

storia. Oltre 1.500 documenti di fine '800 e inizio '900, dal

fascino immutato, hanno fatto rivivere ai visitatori le

atmosfere magiche di epoche lontane e riscoprire il valore

e il senso della comunicazione scritta.

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alberi vengono allestiti, su ordine di Sua Maestà, in diver-se stanze del castello e saranno rimossi il sei gennaio. Sene occupa Mr. Mawditt, appositamente incaricato dallaRegina. Un albero di Natale è dedicato ai figli dei sovrani.Posizionato su un tavolo ricoperto di damaschi, è circonda-to alla base da regali per i bambini: giocattoli, confetti,dolci di tutti i tipi. I rami sono decorati con candele illumi-nate, scatoline, bomboniere, piccoli oggetti tutti moltocostosi. Alla cima, un angelo dalle ali spiegate, che tienein mano delle ghirlande. Gli alberi di Natale sono un'attra-zione per tutti gli ospiti del castello che possono ammirar-li soltanto accompagnati da Sua Maestà. L'usanza ben pre-sto verrà adottata da tutto il paese.E' l'ottobre del 1843 quando Charles Dickens comincia ascrivere il suo “Canto di Natale”. Lo completa giusto intempo per pubblicarlo, a sue spese, per Natale.Un'edizione elegante, con copertina rigida, rossa e bordidorati, illustrato da John Leech, famoso vignettista dellarivista satirica Punch, e colorato a mano. Il libro viene ven-duto a cinque scellini, un prezzo molto basso per poteressere accessibile a tutti. In pochi giorni vende seimilacopie e la sua popolarità cresce sempre di più. In una favola a sfondo sociale, troviamo tutti gli elementiche saranno poi caratteristici del Natale: la solidarietà,l'amore per la famiglia, la generosità, i buoni sentimenti. Epoi i segni: i canti, l'agrifoglio, le ghirlande, il vischio. Dickens e i “Vittoriani” danno il via a quel tipo di Natale

che conosciamo, e che si diffonderà, prima nei paesi di lin-gua inglese e poi in tutti gli stati dell'Impero. Ed è sempre il Natale del 1843 quando fa la sua primaapparizione anche il biglietto di auguri la cui realizzazione,nonostante una forte influenza tedesca, è essenzialmenteinglese.Ci pensa Sir Henry Cole (1808- 1882), scrittore, giornalistaed editore, Assistente del Public Records Office, che chie-de a John Calcott Horsley (1817-1903), membro della RoyalAcademy, di disegnare un biglietto di auguri da inviare aparenti, amici e conoscenti. Sir Henry Cole, che diventerà più tardi il primo direttoredel Victoria e Albert Museum, è talmente impegnato invarie attività, da non avere abbastanza tempo per scriverepersonalmente i biglietti augurali. Dovrebbe infatti usarela carta da lettera decorata o applicare delle decorazioninatalizie su biglietti da visita, come era in uso all'epoca.I biglietti, colorati a mano color seppia scuro da un artistaprofessionista, William Mason, vengono stampati in litogra-fia (inventata nel 1798 da Aloys Senefelder) su cartoncinorigido, da “Jobbins” di Warwick Court, Holborn, London, epubblicati da “Felix Summerly's Home Treasury Office”, 12Old Bond Street, London. Del biglietto vengono realizzate 1.000 copie vendute alcosto di uno scellino ciascuna. Un prezzo molto alto perl'epoca che fa pensare anche al tentativo di Sir Cole dicreare una nuova opportunità commerciale e non soltantoun modo per risparmiare tempo nell'inviare gli auguri nata-lizi. Il biglietto rappresenta un trittico: tre immagini

affiancate che raffigurano una famiglia intorno ad unatavola imbandita e ai lati le opere di carità. L'illustrazioneè accompagnata dall'augurio, ormai diventato un classico,di “Buon Natale e felice anno nuovo”.Sembra che oggi esistano forse 12 copie originali di questobiglietto, conservate in importanti musei, di cui una nellafamosa “Hallmark Historical Collection” della HallmarkGreeting Card Company di Kansas City, USA.L'anno successivo appare un nuovo biglietto augurale chesimboleggia lo “Spirito del Natale”, prodotto da W.C.T.Dobs, che viene venduto in un quantitativosuperiore al primo biglietto.Nel 1848, W. M. Edgley produce un bigliettosimile a quello di Horsley, con l'immagine incor-niciata da edera e agrifoglio, che appare per laprima volta in un biglietto di Natale.Lo scambio degli auguri è però una tradizioneche affonda le sue origini alle attività legateall'arrivo dell'anno nuovo. Dalle “strenae” degliantichi romani, ai riti pagani dedicati al solsti-zio d'inverno, è il nuovo anno che viene cele-brato. C'era infatti un tempo in cui i ritmi dellavita dell'uomo erano strettamente collegati aquelli della natura, al cambio delle stagioni,all'avvicendarsi della luce e delle tenebre.Il solstizio d'inverno, il giorno più corto dell'an-no, che cadeva intorno al 20 dicembre, rappre-sentava per gli antichi popoli europei la chiusu-ra di un ciclo stagionale e l'inizio di quellonuovo. In questo periodo, feste e rituali veniva-no dedicati “all'attesa del nuovo sole” simbolodi rinnovamento e di rinascita.Germani e Celti celebravano le feste del solsti-zio con grandi fuochi, che dovevano aiutare ilsole nella lotta contro l'oscurità. Nell'anticaRoma, dal 17 al 24 dicembre, si celebravano iSaturnali in onore di Saturno, dio dell'agricoltu-ra. Il culto del Sole, come divinità creatrice sidiffonde sempre di più.Dall'Oriente arriva nell'Impero Romano il culto diMitra, divinità solare, tanto che nel 274 d.C.l'imperatore Aureliano stabilì che il 25 dicembresi celebrasse il “Dies Natalis Solis Invicti”, lanascita del sole invincibile.Ma per i Cristiani la luce è stata portata nelmondo da Gesù. E' per questo che nel 354 d.C.Papa Liberio scelse proprio il 25 dicembre comedata in cui celebrare la nascita del Salvatore, ilnuovo “sole”, la “Luce del mondo”. La tradizio-ne cristiana si intreccia così con quella popolare, ai suoisimboli e alle sue credenze. Le feste del solstizio di mezzoinverno si trasformano nel tempo con le festività delNatale.Nel Quindicesimo secolo appaiono in Germania degli omag-gi augurali chiamati “Andachtsbilder”, una sorta di biglietti

decorati con immagini religiose da esporre in casa, cheriportavano la scritta “Ein gut selig jar”, “Un buon e santoanno”.Per molto tempo ancora lo scambio degli auguri sarà lega-to all'arrivo del nuovo anno.Alla fine del '700 e agli inizi dell'ottocento sono i commer-cianti ad offrire carte augurali ai clienti in occasione delnuovo anno, per pubblicizzare i loro negozi e i prodotti invendita. Sempre nello stesso periodo, i ragazzi a scuolapreparano dei lavori per i genitori: lettere scritte su fogli

di carta dai bordi stampati con decori, per dimostrare iprogressi nella bella scrittura. Dal 1830 piccoli foglietti di carta intestata vengono messiin vendita nelle maggiori città, o nei luoghi di vacanza, perscrivere ad amici e parenti. Questi biglietti da visita, inoccasione delle feste, vengono decorati con “scraps” pic-

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I biglietti augurali per i Vittoriani sono come ventate di ariafresca, simboli colorati delle feste, espressione di gentilez-za e buoni sentimenti. Negli anni tra il 1860 e 1870, i sacchetti profumati a formadi biglietti augurali diventano i preferiti dalle signore del-l'epoca. Questi sacchetti, molto eleganti, sono realizzati incarta oro o argento, oppure in seta, con decorazioni florea-li applicate che, sollevandosi, rivelano il messaggio diauguri; a volte invece sono contenuti in piccole buste fine-mente decorate in oro o argeno. La più famosa casa di pro-duzione dei biglietti profumati è la Rimmel. Intorno al 1870appaiono i biglietti con fogli doppi, tenuti insieme da cor-doncini di seta, che riportano i versi dei poeti e degli scrit-tori più famosi del periodo.Tra il 1870 e il 1880 si affermano anche i calendari augura-li, inizialmente come una derivazione degli antichi alma-nacchi, poi come oggetto preferito da commercianti, ditte,giornali, da dare in omaggio ai propri clienti o lettori; piùtardi come decorazione da attaccare alla parete. La cro-molitografia consente adesso l'impiego di unavasta gamma di colori. La cura e l'attenzione concui sono realizzati, trasformano i calendari in pic-cole opere d'arte da collezione.Agli inizi del 1880 appaiono i biglietti, singoli odoppi, con frange di seta di vari colori. Sono moltocostosi, ma sicuramente molto attraenti. Fino aiprimi anni del 1900 troviamo anche biglietti dalleforme strane: circolari, a forma di tavolozza dapittore, di luna, stelle, scarpe, con caratteri escene giapponesi, ventagli. E sono i ventagli adessere usati dalle dame, in occasione di un ballo,come silenziosi messaggeri capaci di trasmetterediscreti inviti. I biglietti con doppio foglio diventano anche piccoli“libretti” con più pagine, dapprima tenuti insiemeda cordoncini di seta colorata, poi da nastri di seta. Intorno al 1899-1900 incominciano anche ad appari-re i temi religiosi: natività, angeli, Gesù Bambino.I primi biglietti riflettono i gusti dei ceti medi piùelevati, e scene di caccia o pesca sono moltopopolari. Altri invece guardano con nostalgia alpassato, al periodo medioevale o al settecento.Tra gli appassionati collezionisti di biglietti augurali trovia-mo la Regina Mary. I biglietti raccolti, tra cui quelli dellaRegina Vittoria, tutti sistemati in album, sono conservatinel British Museum di Londra.Mentre in Inghilterra fiorisce la produzione dei bigliettiaugurali, negli Stati Uniti bisogna aspettare il 1875, quan-do Luis Prang, un litografo tedesco emigrato a Boston, pro-pone i suoi primi biglietti che presenta all'Esposizione diVienna del 1873.Nel 1880 Prang istituisce una competizione annuale apremi, tra gli studenti d'arte, per scegliere i soggetti dariprodurre sui biglietti. In palio, quattro premi da 2.000dollari. L'anno successivo la competizione viene aperta atutti gli artisti e il premio in palio raddoppiato.

Anche in Inghilterra, una competizione simile viene propo-sta da Raphael Tuck & Sons.La produzione di Prang continua per circa venti anni. Ma l'arrivo dalla Germania delle più economiche cartolinelo costringono, come accade a molti altri editori, adabbandonare l'attività.Nonostante tutto, la popolarità dei biglietti augurali entre-rà nel ventesimo secolo come una delle tradizioni nataliziepreferite.La morte della Regina Vittoria, nel gennaio del 1901, portal'Inghilterra alla soglia di una nuova era. Sale al trono ilfiglio Edoardo che regna per soli nove anni.Raphael Tuck & Sons si confermano i leader degli editoridei biglietti di Natale che continuano ad essere un'impor-tante espressione anche del periodo Edoardiano.Oggi le più importanti collezioni di biglietti augurali sonoconservate a Londra, nel British Museum e nel Victoria eAlbert Museum. I biglietti augurali d'epoca rappresentano oggi un importan-

te documento di ricostruzione storica e fonte di cultura:hanno raccontato infatti i piccoli e grandi avvenimentidella storia, hanno seguito l'evoluzione della società, icambiamenti delle abitudini e della moda, il fluire dellecorrenti artistiche.Ma nella svagata leggerezza del mondo presente, dove lacomunicazione è affidata sempre più spesso al mondo vir-tuale, un biglietto o una cartolina rimangono, soprattut-to, testimoni tangibili di sentimenti, sogni, amori, spe-ranze, ed arrivano ai nostri giorni riportandoci frammen-ti di vita, emozioni, immagini di una realtà ormai scom-parsa, il fascino immutato di epoche lontane. Cento e piùanni di auguri che resistono al tempo e che, nel tempodureranno ancora.

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coli ritagli di carta: fiori, foglie, uccellini, cuori. E sonodecorati alla stessa maniera anche i “Reward of merit”:biglietti che vengono regalati ai ragazzi che frequentanoregolarmente la “Scuola domenicale” con buon profitto.Precursori dei biglietti di Natale vengono considerati anchequelli di San Valentino, molto popolari nel periodoVittoriano. Entrambi i biglietti sono infatti decorati con glistessi motivi, come piccoli cupidi e fiori, tanto da non sem-

brare molto differenti e poter essere utilizzati in varieoccasioni.Il 6 maggio 1840, segna una data importante nella storiapostale: viene introdotto il primo francobollo al mondo, ilfamoso Penny Black, che rivoluzionerà il sistema della cor-rispondenza, introducendo una riduzione delle tariffe.

Ma sarà anche l'utilizzo della “busta” a contribuire alla dif-fusione dei biglietti natalizi. Dopo il biglietto di Cole, del 1843, passano oltre venti anniprima che le carte augurali comincino a diffondersi inInghilterra e in Europa, e poi negli Stati Uniti. Questo perdue importanti motivi: fino all'introduzione del processo dicromolitografia, che avviene nel 1860, la produzione deibiglietti augurali è molto costosa; così come erano alte le

tariffe postali. Negli anni tra il 1850 e 1860 il numero deibiglietti di Natale inviato per posta è irrile-vante. E' dal 1870 che comincia ad aumenta-re, anno dopo anno, fino a raggiungere intor-no al 1880 i milioni di invii, tanto da renderenecessario stampare sulle buste l'avvertenzadi “spedire presto per Natale”.Sotto la regina Vittoria l'usanza di inviare ibiglietti di auguri diventa molto popolare. Laregina ama inviarli a parenti, amici e ai vici-ni di Windsor e Osborne. Raccoglierli diventaun hobby per tutte le famiglie. Nei salottidelle case fanno bella mostra gli album -scrapbook - in cui vengono conservati bigliet-ti, ritagli di giornali, poesie, decorazioni dicarta.Raphael Tuck & Sons è l'azienda più prolificanella produzione dei biglietti di Natale emantiene la sua attività fino oltre la finedella Seconda Guerra Mondiale. La compa-gnia inizia la propria attività nel 1871 rag-giungendo un livello di qualità molto alto,grazie anche all'introduzione di prestigiosecompetizioni destinate alla ricerca di nuoviillustratori. Basti pensare che la competizio-ne del 1880 richiama la partecipazione di 925concorrenti.Nel 1893 la Regina affida a Raphael Tuck, ilRoyal Warrant, l'incarico di disegnatore uffi-ciale della Casa Reale, e Tuck continuerà aprodurre i biglietti augurali per la casa realeanche dopo la loro morte.I biglietti dell'epoca Vittoriana sono realizza-ti in varie forme e con materiali diversi,anche in modo molto elaborato: cartoncino,inserti e frange di seta, velluto, nastri, cor-doncini, merletti di carta in oro e argento,effetto “neve ghiacciata”. Decorati con rita-gli di carta o con polvere brillante, apribili,a strati, in tre dimensioni, a pannelli, “mec-canici”, a forma di sacchetto profumato,

con effetti “luce”.Anche i soggetti riprodotti nei biglietti sono molto vari:fiori, paesaggi di campagna, bambini, donne, animalidomestici, uccelli, farfalle. Troviamo anche i biglietti umo-ristici. Sono invece pochi i biglietti di inizio d'epoca adessere illustrati con soggetti religiosi.

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’è una pagina, fra le tante che, nei cento anni tra-scorsi da quando, all'alba del 28 dicembre 1908,Reggio e Messina, insieme a tanti centri grandi e pic-

coli delle due province, furono aggredite dalla furia ciecadel terremoto, hanno avuto come argomento quel disastro,a tutt'oggi rimasta praticamente inedita, celata negliarchivi, ignota al pubblico, sconosciuta dagli studiosi. Ne devo la conoscenza a due persone, anch'esse appassio-nate della Storia di Reggio, e molto attente a tutto quelloche può servire per arricchire, completare, illuminare que-sta Storia: l'ing. Bruno Ferrucci e il sig. Francesco DeBenedetto. Quest'ultimo ha avuto il pregio di conservare ildocumento di cui sto per dire; il primo è stato tanto corte-se da darmene informazione. E li ringrazio fervidamenteentrambi, perché mi è stata, così, fornita l'occasione diconoscere un aspetto del tutto particolare della storia 'reg-gina' del terremoto del 1908.Il documento in questione riguarda il ruolo che le Ferroviedello Stato ebbero in quei terribili momenti.Nel 1933, il Ministero delle Comunicazioni, Ferrovie delloStato, pubblicò gli atti di una serie di conferenze tenutedai Capi Compartimento, sull'attività delle Ferrovie Statalinei primi venticinque anni di esercizio: 1905-1930. Una di queste conferenze fu tenuta dall'ing. RuggeroGuardabassi, Capo del Compartimento Ferroviario diReggio Calabria, e aveva per titolo: 'Servizio ferroviario inoccasione di pubbliche calamità'. Un titolo generico, che però offrì al relatore l'occasioneper parlare di quel che era avvenuto e di quel che aveva-no fatto le Ferrovie Statali in quegli indimenticabilimomenti di ventidue anni prima, sulle due sponde delloStretto, ma soprattutto sul suolo reggino.Infatti, l'ing. Guardabassi, nel relazionare, facendo riferi-mento a 'i più immani disastri che ci colpirono e ci funesta-rono', 'per mettere nel maggior rilievo possibile l'opera chein tali luttuose circostanze apprestò l'organizzazione ferro-viaria' afferma che 'la più terribile ebbe per teatro princi-pale la nostra regione, la Calabria, e di essa esistono tut-tora vestigia e tanti lutti!'.

Egli riconosce che 'lo squarcio di storia che dovrei rievoca-re è tutto l'insieme di sciagure che il flagello orrendo nellatragica alba del 28 dicembre 1908 avvolse nella mortenobilissime regioni, popolazioni buone e laboriose' ma pre-cisa che si sarebbe limitato 'ad una semplice cronistoriadegli avvenimenti in raffronto con l'operato dellaAmministrazione ferroviaria'.Cronistoria che egli poggia su un documento esistente agliatti della sua Amministrazione, e di cui nella circostanzalegge un ampio stralcio.Si tratta della relazione che, alcuni giorni dopo il disastro,fu presentata agli organi superiori da un dipendente pre-sente a Reggio: l'ing. Bosco Lucarelli, che egli definisce 'ungiovanissimo funzionario, allora all'inizio della sua carriera,oggi alto funzionario dell'Amministrazione'. Sul suo conto, Guardabassi informa che, in quell'anno 1908,'egli prestava servizio presso la Divisione Lavori di ReggioCalabria, e nell'infausta mattina del 28 dicembre se ne tor-nava in residenza, dopo aver trascorso le feste natalizie inseno alla propria famiglia, e viaggiava col treno Diretto109, proveniente da Napoli, che giunse regolarmente versole ore 6 a Gioia Tauro, stazione limite della zona danneg-giata'.Dopo tale precisazione, il Capo Compartimento preferiscefar parlare il funzionario, attingendo proprio a quella rela-zione 'redatta - egli sottolinea, con giustificato compiaci-mento, - modestamente in terza persona'.Ed io faccio altrettanto, lieto di poter restituire alla Storiadi Reggio un documento, la cui semplicità e immediatezzaconsente di rivivere appieno quello che il 28 dicembre 1908vissero tanti e tanti nostri concittadini.

* * *

“Il treno 109 nel momento della scossa principale trovava-si in una zona meno danneggiata e poté proseguire conprecauzione la sua corsa, quantunque il personale di mac-china, vinto dallo spavento, fosse titubante ad impegnarele principali opere d'arte.

Dagli archivi storici delle Ferrovie dello Stato

A l b a t r a g i c adi Francesco Arillotta

Con l'aiuto della lucida, essenziale, inedita testi-monianza di un coraggioso funzionario delle fer-rovie dello stato e dai riscontri documentali con-servati negli archivi storici dell'Ente, evi-denziamo un aspetto particolare dellagrande tragedia che sconvolse Reggioil 28 dicembre del 1908, rivivendole terribili sensazioni di chi,improvvisamente, si trovò davan-ti agli occhi una città distrutta.

CStazione marittima di Villa San GiovanniL’orologio è fermo all’ora della scossa

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Ma la presenza, nel treno, di un funzionario, che proce-dette alla visita sommaria di tali opere, valse a rincuorar-lo ed il treno, con qualche sosta, poté giungere senzainconvenienti fino alla stazione di Palmi.In detta stazione fu necessario arrestare il treno perché lasuccessiva stazione di Bagnara non rispondeva alle chiama-te telegrafiche.Fu allora disposto per l'invio di una locomotiva in ricogni-zione, che poté avanzarsi senza difficoltà fino allo sboccodella galleria San Sebastiano.Dopo di questa però alcuni massi staccatisi dalla sovra-stante costa montuosa e caduti sul binario impedivano ilpassaggio.Sopravvenuta la locomotiva di perlustrazione, si riuscì aribaltare i massi e dar modo alla locomotiva di raggiunge-re Bagnara.Qui fu constatato che, nonostante la scossa gravissima,che aveva prodotto la ruina generale del vicino centro abi-tato, il fabbricato della stazione era tuttora in piedi el'apparato telegrafico in condizioni di funzionare. Sicché ilpredetto ingegnere poté autorizzare la stazione di Palmi afare avanzare il treno 109, e contemporaneamente infor-mava che il treno stesso non avrebbe potuto procedereoltre Bagnara non permettendolo le condizioni della linea.Ed infatti, oltre la detta stazione, la palificazione telegra-fica era abbattuta sul binario e tutti gli scoscesi monti che

fiancheggiavano la linea fino a Favazzina, squassati dacontinue scosse, seguitavano a franare da ogni parte, egrandi massi, staccatisi dall'alto, precipitavano improvvi-samente in basso con repentino sinistro fragore, travol-gendo tutto ciò che incontravano sul loro cammino.Ogni comunicazione con Reggio era interrotta. Si tentò dicomunicare con Messina avvalendosi del cavo sottomarino,ma i diversi circuiti erano in comunicazione con la terra enon rispondevano.Unico mezzo per stabilire il contatto con Reggio era quel-lo di traversare a piedi la zona più danneggiata e prosegui-re fino a raggiungere una stazione che mantenesse lecomunicazioni telegrafiche.A questa ardua fatica si accinse l'ing. Bosco Lucarelli, chein tal modo riuscì ad essere il primo, tra gli accorsi, aporre piede sulle terre devastate.Proseguendo verso Reggio, di cui non si avevano notizie, siebbero a constatare i danni gravissimi subiti dalla linea,dovuta alla caduta di frane e massi, alla ruina dei fabbri-cati le cui macerie ingombravano i binari, a rilassamenti escoscendimenti di argini, a lesioni dei volti dei ponti inmuratura e cedimenti di pile in quelli in ferro, all'abbat-timento delle palificazioni telegrafiche sul binario, a stor-ture gravi dell'armamento.Danni insomma di tale entità e natura da non poter esse-re riparati senza molto personale, di cui sul posto non era

possibile disporre.Si giunse così a piedi a Reggio Succursale.Il treno 1932 di quel mattino, partito in leggero ritardo daReggio Centrale, era stato sorpreso dalle scosse nelmomento in cui si fermava nella stazione sopraindicata,ed investito di fianco dalle macerie del muro frontale delfabbricato viaggiatori, fu impossibilitato a proseguire lacorsa. Il capo stazione e qualche viaggiatore in partenza,che erano fermi sotto la pensilina, avevano ivi trovatomiseramente la morte.Si proseguì verso la Stazione Reggio Centrale, ove si con-statarono purtroppo così gravi dissesti all'armamento darendere del tutto impossibile il funzionamento di quellastazione e del relativo deposito locomotive.In quest'ultimo ebbe a rilevarsi la avvenuta morte di unfochista il quale, trovandosi sopra la sua locomotiva in unbinario all'aperto, prossimo al fabbricato uffici, tentò ditrovar ricovero insinuandosi carponi sotto il tender ma,colpito sul dorso dai materiali del muro di facciata delfabbricato suddetto, fu poi rinvenuto cadavere sotto lemacerie.Il centro abitato della città di Reggio era in gran parte rui-nato, le strade rese impraticabili dalle macerie, il funzio-namento di ogni ufficio o servizio pubblico completamen-te annullato.Dalle vaghe notizie che si avevano dalla linea ionica risul-tava peraltro che questa aveva dovuto subire guasti chepotevano essere più prontamente riparati e perciò siritenne necessario proseguire a piedi nella ricognizione didetta linea, per rendersi conto dell'accaduto e dare leprime disposizioni per ripristinare, almeno parzialmente,l'esercizio.E ciò fu ritenuto necessario essendosi subito constatatoche la stazione principale di Reggio Calabria e il depositolocomotive erano in condizioni tali da non poter provvede-re con i mezzi locali alla effettuazione di qualsiasi ripara-zione, anche sommaria.L'armamento di detta stazione presentava guasti impres-sionanti, dovuti ad impulso violentissimo impresso allerotaie, le quali avevano subito uno scorrimento longitudi-nale convergendo verso punti determinati, in corrispon-denza di cui le rotaie stesse, strette da opposte forze, sierano rialzate deformandosi come solidi caricati di punta,presentando una freccia di centimetri sessanta circa sumetri due e cinquanta di corda.Le rotaie di uno stesso binario avevano conservato il loroparallelismo e le traverse si erano spostate lateralmenterestando inchiodate alle rotaie.Su tutto il fascio di binario del deposito locomotive ledeformazioni dei binari erano caratteristicamente alli-neate seguendo con precisione la direzione delle ondesismiche.Il pozzo del rifornitore si era insabbiato e le condotte didistribuzione di acqua alle gru si erano rotte in più partisotto l'azione delle forze stesse che avevano deformato le

rotaie, ciò che fu confermato in seguito dal fatto che,messe allo scoperto le condotte, si trovarono sfilati e rottii tubi proprio in corrispondenza delle linee dove si era pro-dotto lo strappo delle stecche ed il taglio delle chiavardenei giunti delle rotaie.Il baraccone contenente gli attrezzi per il mantenimentocon le berte, battipali, ecc. era stato abbattuto dalleondate del maremoto le quali avevano tutto sepolto sottouno strato di sabbia trascinando al largo i grossi legnamiche si avevano di riserva per eventuali costruzioni di pas-serelle provvisorie.Nessun cenno di attività nel deposito locomotive dove,anzi, era stato, per opera di malevoli, aumentando ildanno con l'asportazione di molta parte degli accessori inbronzo montati sulle locomotive e dei relativi pezzi diricambio che si avevano di scorta nel magazzino, le cuiporte erano state forzate.Fuori dalla stazione, il binario di corsa della linea jonica sipresentava in condizioni meno gravi.Esso era stato però per lunghe estese ricoperto di sabbia,di rami ed anche di tronchi interi di alberi, da grosse cep-paie di agave, da legname ecc. trasportati dal mare che siera sollevato in ondate così alte e furiose da spingere lealghe sui fili del telegrafo e trascinare dalla non vicinaspiaggia sul binario una barca di sette metri di lunghezza.Procedendosi sempre a piedi lungo la linea, in compagniadel sorvegliante del tronco, venne in seguito constatato ilrilassamento di una pila del ponte Sant'Agata, l'asportazio-ne di una parte del riempimento a ridosso del muro didifesa dalle mareggiate presso San Gregorio, lesioni dipoca entità di alcuni ponticelli in muratura, la ruina com-pleta di quasi tutti i caselli e del fabbricato viaggiatori diPellaro, le cui macerie ingombravano il primo binario distazione lasciando però libero quello di incrocio, l'asporta-

La stazione Reggio Portodistrutta

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Palpitante! Ed impressionante.Palpitante di umana commozione il ricordo dei ferrovierimorti, o l'accenno discreto e comprensivo alla condizionepsichica di quelli rimasti vivi.Impressionante l'osservazione dei binari piegati nella dire-zione delle onde sismiche.Impressionante l'immagine della travata in ferro del pontesulla Fiumarella di Pellaro, sbalzata nel letto del torrente.Impressionante l'annotazione delle alghe appese ai fili deltelegrafo subito dopo il deposito locomotive di Calamizzi -il che ci dà conferma dell'altezza straordinaria che vennetoccata dalle onde di maremoto.Da questa relazione si ricava, poi, una novità, circa il sus-seguirsi degli eventi che caratterizzarono quel 28 dicembredi cento anni fa.Si è soliti sostenere che le prime notizie di quanto accadu-to sulle sponde dello Stretto giunsero a Roma nel tardopomeriggio di quel terribile giorno, solo allorquando laTorpediniera 'Spica', della Marina Militare italiana, uscitadal porto di Messina, poté raggiungere il posto telegraficodi Marina di Nicotera, il primo in grado di funzionare, e lan-ciare l'allarme. Un allarme, tra l'altro, del tutto parziale,perché parlava della tragedia che si era consumata aMessina, ma, per difetto d'informazione, non faceva alcuncenno a quanto accaduto anche a Reggio. La relazione dell'ing. Bosco Lucarelli [credo beneventano dinascita] consente di integrare questo dato: altra notizia suifatti accaduti arrivò a Roma, per l'iniziativa di quell'ottimofunzionario. Egli, infatti, dopo aver compiuto a piedi, fradifficoltà facilmente immaginabili, il tratto da Bagnara aReggio, sentì il dovere di continuare il suo cammino finoalla stazione ferroviaria di Lazzaro, da dove riuscì a tele-grafare alla sua Direzione Generale, nelle prime ore delpomeriggio del 28. E per quel che più ci interessa, egli riferì della situazionedi Reggio.Guardabassi, infatti, ricorda che, proprio grazie 'alla corag-giosa, fredda e saggia opera' di Lucarelli, 'la sera stessa deldisastro, la Direzione Generale delle Ferrovie fu in grado diprendere tutti i provvedimenti immediati che la gravità delcaso imponeva'. Nel testo della conferenza di Guardabassi segue una seriedi dati e cifre riguardanti l'impegno che le Ferrovie delloStato profusero nella circostanza. Cifre e dati veramente notevoli, come il rilievo che 'ben1000 vagoni vennero convertiti in uffici e magazzini ed inalloggi per gli agenti e per il pubblico' e che per 'il traspor-to dei primi soccorsi, si impiegarono nel primo momentofino a 4000 carri', oltre al movimento connesso 'al succe-dersi ininterrotto di treni dei Comitati esteri, della CroceRossa italiana, francese, germanica e svizzera, delle amba-sciate britanniche e degli Stati Uniti e da treni speciali peralti personaggi che, sebbene giunti per via di mare aReggio, subito vollero recarsi sui luoghi più fortementedanneggiati.'

Ma questo aspetto della vicenda che coinvolse le nostrezone, fino ad oggi - per la verità - del tutto ignorato, è piùgiusto che venga approfondito in maniera particolare. Va in ogni modo sottolineato il fatto che il documento dicui ho trattato apre un capitolo nuovissimo nel contestostorico di quei momenti: come agirono le strutture pubbli-che, ministeriali e non, negli specifici campi di competen-za, per affrontare la sconvolgente emergenza, per ripristi-nare i servizi, per ricostruire quanto il terremoto avevadistrutto. Aspetto piuttosto trascurato dagli studi e dalle ricerche finad oggi portati avanti a vario titolo. E che invece andrebbe affrontato in forze, attingendo agliarchivi locali e nazionali; nella consapevolezza che ancoramolto, ma veramente molto!, c'è da apprendere su quellapagina della nostra storia, temporalmente tanto lontana,ormai, eppure psicologicamente e sentimentalmente tantovicina.zione completa della travata in ferro sulla fiumarella di

Pellaro che, sollevata dalle onde del mare, era stata sbal-zata verso monte nel letto del torrente, dove giaceva conl'asse in direzione quasi perpendicolare alla linea ferrovia-ria.Il personale della linea, sotto la impressione del gran peri-colo subito, atterrito dalla subitanea ruina dei vicini cen-tri abitati di cui fin le macerie ed in parte anche il suoloera stato in pochi minuti inghiottitodal mare, accasciato per la perdita diparenti ed amici ed avendo innanziagli occhi lo spettacolo lacrimevoledei cadaveri rigettati dal mare innumero grandissimo sulla spiaggia efin sulla rete ferroviaria, era tuttoracosì depresso da non potersi fareassegnazione sull'opera di esso.Nella stazione di Lazzaro, ove final-mente si giunse verso le prime orepomeridiane, il fabbricato viaggiato-ri a solo piano terreno non avevasubito danni notevoli e l'apparatotelegrafico era tuttora in grado difunzionare. Il titolare della stazioneaveva però trovato la morte sotto lemacerie della sua abitazione fuoridell'ambito della ferrovia ed il com-messo, estratto, con la relativa fami-glia, fortunatamente incolume dallemacerie, non aveva la calma per tra-smettere lunghi dispacci. In ognimodo fu trasmesso primo di ogni altro un telegrammadando notizie sommarie dell'accaduto.Venne poi telegrafato ai sorveglianti dei tronchi fino aCatanzaro di recarsi subito a Lazzaro con squadre di can-tonieri.Visto che le comunicazioni telegrafiche della stazione diLazzaro riuscivano stentate, anche perché il relativo appa-

rato si trovava incluso unicamente in un limitato circuitolocale e perciò i telegrammi dovevano passare per moltitransiti, l'ingegnere predetto decise di spingersi con untreno di ricognizione più oltre, per raggiungere possibil-mente Roccella, contando di ritornare a Reggio con ilprimo treno dell'indomani.Eguale consiglio detto ingegnere diede ad un graduatodell'Arma dei Carabinieri che era nel frattempo giunto aLazzaro con un telegramma del Prefetto di Reggio e adaltri della Divisione movimento che, alla meglio, avevaintanto ripreso a funzionare.Nella stazione di Lazzaro erano giacenti i materiali ditutti i treni della giornata provenienti dal nord i qualierano stati ivi abbandonati dal personale, corso a Reggioper assicurarsi sulla sorte delle proprie famiglie colà resi-denti; riusciva pertanto difficile far partire qualsiasitreno verso il nord per mancanza di personale.Fortunatamente il successivo treno giunse con personaledel deposito di Taranto che non oppose difficoltà a ripar-tire subito. In tal modo fu possibile recarsi la sera stessadel 28 a Roccella e comunicare di là con la DirezioneGenerale e con gli altri uffici ferroviari.Da Roccella fu pertanto telegrafato alle Sezioni manteni-mento di Taranto e Paola, dando ad esse notizie dell'acca-duto ed invitandole ad assumere la sorveglianza dellelinee già costituenti la Sezione di Reggio, la quale per il

momento era nella impossibilità di funzionare.Fu telegrafato poi alla Divisione trazione di Napoli pregan-dola di sopperire ai bisogni dell'esercizio anche sulle lineedel Compartimento di Reggio, il quale ormai non aveva piùdeposito locomotive.” …

L’effetto del maremoto sulla linea ferroviarianei pressi della Stazione di Reggio

Effetto del maremoto sulla ferrovia a Reggio

I vagoni ferroviari ospitano i terremotati (Archivo storico privato F. Arillotta)

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a prima difficoltà per gliuffici postali risparmiati dalsisma o momentaneamente

allestiti è quella di trovarsi nel-l'impossibilità di provvedersi difrancobolli per affrancare le pro-prie corrispondenze e inviare oricevere comunicazioni via tele-grafo.Con telegramma circolare dell'8gennaio 1909 l'Amministrazionepostale dispone che sia omessa latassazione delle corrispondenzenon francate proveniente daipaesi colpiti dal terremoto. Ilprovvedimento, di tipo eccezio-nale, rimane in vigore fino al 21giugno 1909.Le reti telegrafiche versano incondizioni disastrose.L'Amministrazione postale tem-pestivamente interviene invian-do funzionari, agenti e materialinei luoghi devastati, allestisceuffici provvisori e temporanee stazioni telegrafiche neipunti prossimi alle città distrutte.A Messina si riallacciano le comunicazioni con Catania ePalermo impiantando due uffici telegrafici nei punti estre-mi della città, uno a nord, in località Fornaci, e uno a sud,

vicino alla stazione ferroviaria. A Reggio Calabria si instal-lano reti telegrafiche sia sul litorale jonico che sul Tirreno.Si lavora alacremente e si modifica opportunamente larete telegrafica per assorbire l'immensa mole di corrispon-denza che si affolla verso le città colpite.

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di Mauro De Palma

Dagli archivi storicidi Poste Italiane

Di fronte “all'immane disastro che nella notte del 28 dicembre 1908

devastava una delle più belle regioni dell'Italia nostra” gli uomini

non si risparmiarono, i mezzi impiegati furono straordinariamente

tempestivi, i provvedimenti di urgenza si susseguirono con ritmo

convulso, la solidarietà fu unanime.

Era l'alba di un nuovo anno, carico di speranza, si riaprivano la vie

delle comunicazioni con il mondo.

Pur nello sfinimento morale della tragedia provocata dalle forze

incontrollabili della natura, lentamente, ma con fiducia, si tornava

alla vita.

La catastrofe di MessinaUfficio Poste Centrali(Archivio storico di Poste Italiane)

MessinaUfficio Poste Centrali(Archivio storico di Poste Italiane)

L

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Completamente distrutte sono le linee Messina-Faro eReggio-Palmi, alcuni casotti di approdo dei cavi sottomari-ni sono stati inghiottiti dal maremoto susseguito al sisma, icavi sottomarini dello Stretto sono tutti danneggiati ed unoè andato perduto: la ditta Pirelli e la compagnia Eastern,che ne hanno la manutenzione, procedono con lodevolesollecitudine alla loro riparazione. E' difficile e rischiosolavorare. Sembra che la natura tutta si sia rivolta contro lezone sinistrate: fa freddo, tira un vento gelido, imperver-sa la pioggia.Nel tratto Bagnara-Favazzina gli operatori postali al lavoroper la riattivazione del servizio rischiano personalmente lapropria vita perché le scosse di assestamento provocanopericolose frane continue.Riferisce la Relazione Finanziaria del 1908-1909: <le difficoltà che si dovettero superare per ripristinaregradatamente le comunicazioni furono enormi, e bastaconsiderare la malagevole e pericolosa accessibilità deiluoghi … per farsi una pallida idea dei sacrifici sopportati

dai funzionari e dagli agenti, i quali tutti diedero prova dizelo e abnegazione superiori ad ogni encomio>.Anche per il servizio postale sono adottati provvedimenti dicarattere urgente.I pacchi contenenti materiale deperibile vengono o resti-tuiti al mittente o distrutti, al contrario viene favorito l'in-vio di quelli contenenti medicinali, indumenti e oggetti disoccorso che transitato mediante i Comitati Centrali di soc-corso di Roma e Napoli, che inviano un accorato appello atutti i colleghi della nazione perché si attivino per presta-re aiuti e ripristinare i servizi. Viene mantenuto il serviziodelle raccomandate per consentire l'invio di piccole sommedi danaro e tutte le corrispondenze private: la gente vuoleconoscere la sorte dei propri congiunti: se morti, dispersi,feriti o scampati all'immane catastrofe.Appena avute le prime notizie del disastro il Ministero

delle Poste, in diretto rapporto con il Ministero dellaMarina, il Ministero dell'Interno, la Navigazione GeneraleItaliana, si accorda per utilizzare le regie navi, le torpedi-niere e i piroscafi per ristabilire le comunicazioni postali etelegrafiche fra i luoghi devastati e portare soccorsi.Ci si rende subito conto che non è possibile utilizzare ipochi piroscafi illesi delle società siciliane in sosta al portodi Messina, in quanto gli uomini dell'equipaggio sono quasitutti deceduti a seguito del maremoto.Ma già a partire dalla notte tra il 28 ed il 29 dicembre,molte navi sono in viaggio verso i luoghi devastati dal sismada ogni parte d'Italia.Viene disposto che il piroscafo Josto sia immediatamenteinviato da Civitavecchia a Napoli la mattina successiva aldisastro, che l'Umberto I sia messo a disposizione per invia-re i primi soccorsi a Messina. A Napoli è approntato unaltro piroscafo straordinario - lo Jonio - che, partito perMessina, porta i primi soccorsi al personale dipendentedell'Amministrazione postale e telegrafica. Da Genova par-

tono i piroscafi Sardegna, Stura - con truppe di soccorso -,il Soluto e il Regina Margherita; da Napoli il piroscafoMafalda verso Reggio.Il 29 dicembre sono telegraficamente chiesti d'urgenzainterventi alle società di navigazione Lloyd Italiano,Veloce, Veneziana, Puglia, Napoletana, perché mettano adisposizione del governo i loro piroscafi. Le varie societàrispondono con immediato spirito di collaborazione: insie-me alla Navigazione Generale Italiana, che sta inviando isuoi piroscafi Duca di Genova, Lombardia e Campania, laSocietà Italiana mette a disposizione il Taormina alla voltadi Messina. In una vera e propria gara di solidarietà, il 29dicembre da Genova la Lloyd mette a disposizione il suoIndiana con 70.000 razioni di viveri, medicinali per 4.000persone, 5.000 coperte, 4.000 materassi ed ingenti quanti-tà di legname, la Puglia il Dauno e il Taranto con viveri,

dalla Napoletana viene inviato il piroscafo Napoli anche porta gene-ri alimentari di prima necessità, la Società Marittima Fluviale mettea disposizione il Quirinale.Le varie società di navigazione <corrisposero con ammirevole solle-citudine alle molteplici ed urgenti richieste loro rivolte, tanto chenel breve spazio di quattro giorni misero a disposizione nei luoghidel disastro ben 20 piroscafi …>.Altre navi, in viaggio verso l'estero, dirottano sulle zone sinistrate:arrivano sulle coste siciliane e calabresi il Washington che procede-va in rotta verso Levante, il Birmania proveniente da Tripoli, il Tebein viaggio verso l'Egitto. Dal 2 gennaio riprende il servizio dei vapori tra Milazzo e le IsoleEolie, dal 4 gennaio riprende, con orario pressoché regolare, il ser-vizio dei Vapori tra Napoli e Messina, che era stato momentanea-mente interrotto.Sul versante interno, nonostante le numerose difficoltà, sono ripri-stinati gli allacciamenti per via terra.Molte strade sono andate distrutte, come la Reggio-Palmi e laBianconovo-Brancaleone: si dispone allora, a partire dal 31 dicem-bre, dopo solo due giorni dalla terribile scossa tellurica, di avviarei dispacci postali per Messina su Palermo e per Reggio Calabria suCatanzaro.Il 5 gennaio, in collaborazione con la Direzione Generale delleFerrovie, si riorganizza il servizio del trasporto dei dispacci sullalinea Sant'Eufemia-Catanzaro Marina: i treni così possono arrivarefino a Lazzaro, stazione che dista solo 10 km da Reggio.Sulla stessa linea viene impiantato l'Ufficio postale ambulanteNapoli-Reggio, <col duplice obiettivo di fornire a Catanzaro un ser-vizio relativamente sollecito e di raggiungere il punto più prossimoa Reggio con le minori difficoltà>.Sulla linea tirrenica viene potenziato il sevizio dei messaggeripostali da Sant'Eufemia fino ai punti che mai si sarebbero potutiraggiungere con i treni. Sempre il 5 gennaio è attivato un serviziodi allacciamento per via mare tra Messina e Gioia Tauro e daLazzaro a Reggio. All'interno, altri uffici ambulanti tra Palermo-Messina e Siracusa-Messina garantiscono il regolare svolgimento deiservizi, seppure tra enormi difficoltà.Il terremoto aveva mietuto anche molte vittime tra i dipendentipostali. Si stabilì dunque che venissero <concessi aiuti ai procacci eagli agenti rurali superstiti, od alle loro vedove od orfani, proce-dendo in ciò d'accordo col Comitato di soccorso sorto fra il perso-nale postale e telegrafico del Regno, che elargì una parte delleoblazioni in pro degli agenti sunnominati> furono subito concessicento sussidi agli agenti rurali per una somma complessiva di lire12.140 (lire 120 a ciascuno) e di lire 6.380 ai procaccia e ai loroeredi (lire 100 a ciascuno).Con Regio Decreto del 14 febbraio 1909 nr 86 si autorizzava l'asse-gnazione di una somma di lire 752.000 al Ministero delle Poste <perprovvedere alle spese straordinarie pel ristabilimento e funziona-mento dei servizi postali telegrafici e telefonici, e per corrispon-dere sussidi a titoli di indennizzo ai funzionari danneggiati dal ter-remoto>.Sempre nel mese di febbraio, molte Direzioni generali delle Poste edei Telegrafici di paesi stranieri, solidali nella sventura che ha col-pito i colleghi italiani, inviano contributi in danaro a favore dellefamiglie degli impiegati postali colpiti dal terremoto.

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Messina - Regie Poste - Telegrafi e Via S. Martino(Archivio storico di Poste Italiane)

Reggio - Ufficio telegrafico

Messina - Ufficio telegrafico(Archivio storico di Poste Italiane)

Messina - Primi operatori telegrafici chetentano di attivare una comunicazione(Archivio storico di Poste Italiane)

Relazione statistica 1908 - 1909 (Archivio storico di Poste Italiane)

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er i calabresi dabbene non è ancora tempo di depor-re il cilicio, che si sono meritati, per avere fallito -a dir vero non perseguendolo accanitamente - lo

scopo etico dell'ingresso pieno di Mario La Cava, nato 100anni fa a Bovalino, esattamente l'11 settembre 1908, nelmondo letterario del ‘900.In tale direzione si erano mossi critici italiani, meridiona-li e calabresi: di grande calibro. Ma, poi, la questionemeridionale e la letteratura cominciarono a puzzare diformaggio e prosciutti, e l'impresa fu abbandonata. Neltempo, era venuta morendo la critica militante e nonpochi di quelli, che la avevano praticata. In più la Calabriaè una terra che offre le sue zolle quasi solo per seppelli-re e dimenticare. Mario La Cava non è stato estraneo aquesto destino, che si è tentato di capovolgere nel cente-nario della sua nascita anche a mezzo della pubblicazionedi un numero monografico dei <<Quaderni dellaFondazione Fortunato Seminara>> (gennaio-dicembre2008, Pellegrini editore, Cosenza 2008).Si potrebbe dire che sia stato lo stesso La Cava a parteci-pare alla costruzione del suo malo destino? Chissà! Ma stadi fatto che siamo in presenza di uno scrittore semprefuori dalle mode e dalle correnti. Non ha dato neanche

quello che per alcuni anni, nel ribollire sfarzoso del neo-realismo, dava la letteratura meridionale. La sua parolaad aghi, che serve più per penetrare e sapere che perlacerare e denunciare, non era affatto abilitata ad acco-gliere il fragore dei tumulti sociali. Come scrittore classi-co avvia la sua avventura letteraria, come scrittore clas-sico la conclude. Intendiamo dire un percorso narrativosingolare, anomalo, imprevedibile nel quale ogni libropubblicato non si imprime come un momento del succes-sivo svolgimento, ma come una frattura e una interruzio-ne di pubblico, di critica, di editori.I libri di Mario La Cava escono l'uno dopo l'altro a grandiintervalli di tempo: situazione estremamente comoda eopportuna per farsi dimenticare e sparire. La sfortuna diMario La Cava è di questa natura. Facciamo un pò di conti.I Caratteri escono nel 1939, vengono ristampati, accre-sciuti nel numero, nel 1953 (una terza edizione, sempreaccresciuta, si ha nel 1980), e Mario La Cava, con ironiadolorosa, commenta nel notissimo Presento me stesso:“Terminata la guerra, dovetti esordire di nuovo”. Del1954 sono i Colloqui con Antonuzza presso Sciascia diCaltanissetta (ora Donzelli, Roma 2000), ma occorronoquattro anni di attesa perché escano dai torchi einaudia-ni, nel 1958, Le memorie del vecchio maresciallo (oraRoma, Donzelli 2000). Il suo primo romanzo Mimì Cafiero,scritto nel 1948, riposò per undici anni nei cassetti primadi essere pubblicato nel 1959 dall'editore Parenti diFirenze. Nel 1962 sopraggiunge per l'editore Sciascia diCaltanissetta Vita di Stefano. Poi, ricomincia il purgato-rio, che dura 11 anni, interrotto nel 1973 con l'uscitapresso Einudi di Una storia d'amore e l'anno seguente coni Fatti di Casignana (Ivi 1978). Nel 1977, dopo 45 anni daquando era stato scritto e parzialmente pubblicato nel1936 dalla rivista Caratteri di Pannunzio e Delfini, fa lietasorpresa ai lettori di Mario La Cava l'impeccabile IlMatrimonio di Caterina presso Scheiwiller di Milano. Èl'anno pure della Ragazza del vicolo scuro per i tipi degliEditori Riuniti. Nel 1980 Einaudi ripubblica, in edizioneaccresciuta, Caratteri, ripubblicati nel 2000 da Donzelli.Da qui fino alla morte (1988), salva la lodevole riappari-zione di Scheiwiller, che gli pubblica nel 1986 Viaggio inEgitto e altre storie di emigranti, gli editori di pesocominciano a scomparire dall'orizzonte di Mario La Cava.E il purgatorio lacaviano viene chiuso nel 1988 dall'edito-re Managò di Bordighera, che pubblica il libro suo piùdolente e sconvolgente, Una stagione a Siena. Dove tuttoè stato detto, anche quello che nessuno aveva osato scri-vere: il fallimento del mestiere di scrivere quando questomestiere diventa una missione.

Il cilicio e lo scrittoreIn ricordo di Mario La Cava una delle voci piùrappresentative del panorama della letteratu-ra italiana del Novecento. Le origini della sua scrittura vanno ricercatenel clima di inquietudini speramentalisticheche caratterizza la prosa italiana nei primidecenni del secolo, quando autobiografia eframmentismo si ponevano come capisaldi irri-nunciabili della critica ai grandi modelli narra-tivi. Uomo e scrittore sorprendente La Cava, atorto trascurato dalla critica militante, haperò goduto della stima e dell'amicizia dei let-terati più influenti dell'epoca che gli riconob-bero grande autorevolezza e dai quali furispettosamente “ascoltato”.

di Pasquino Crupi

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La porta strettae l'inquietudinedel Dio ignoto

Padre Ferdinando Castelli, da vero maestro, legge in controluce

grandi pagine della letteratura internazioanale: Heinrich von

Kleist, Hans Christian Andersen, Nikolaj Gogol', Charles Baudelaire,

Anton Cechov, Sigrid Undset, Katherine Mansfield, Corrado Alvaro,

Clive Staples Lewis, Evelyn Waugh e Luigi Cantucci.

<< Se ci fosse un Dio, visiterebbe, credo, la mia solitudine, mi par-

lerebbe familiarmente nel mezzo della notte>> (P. Valere)

L'uomo tormentato da domande radicali - Chi sono? Ha un senso la

vita? Dov'è Dio? - invoca la risposta, attende una visita,chiede un

po' di luce.

<<Nell'incontro con undici noti scrittori Padre Castelli domanda

loro che cosa pensano della vita, dunque una risposta alle doman-

de radicali. Non tutti offriranno risposte convincenti, ma tutti ci

diranno che forzare le porte del mistero per essere illuminati sul

senso della vita non è opera da folli ma da pellegrini saggi e

coraggiosi>>

di Giovanni Cogliandro

adre Castelli è da diversi decenni uno dei critici let-terari di maggiore finezza e profondità nel panoramaitaliano: citiamo solo alcuni dei suoi volumi recenti:

«Risvegliò il mondo» San Francesco nella letteratura delNovecento (EMP 2006); Nel grembo dell'ignoto. La lettera-tura moderna come ricerca dell'assoluto (San PaoloEdizioni 2006 2. ed.); i tre volumi dei Volti di Gesù nellaletteratura moderna (San Paolo Edizioni 1990-5). Senzavezzi o compiacimento mette in opera in questo libro uninterrogare intenso ed esigente, in cui traspaiono fram-menti di vita di alcuni scrittori che vissero tra otto e nove-cento: alcuni sono ben noti al pubblico italiano, altri saran-no forse delle felici scoperte. La caratteristica che più li accomuna è il sentimento diessere simili a profeti, li definirebbe Maimonide guide deiperplessi, guide che come Mosèhanno intravisto la terra promes-sa, ma non hanno potuto o volu-to varcare il confine della fede.Questi frammenti di esistenzasono quasi degli esercizi diammirazione (direbbe Cioran):ammirazione per la consequen-zialità di chi ha voluto narrarenon solo un proprio vissuto inte-riore, ma mettere a nudo le pro-prie radicali contraddizioni, lapropria luce o le proprie tene-bre. Eccoci quindi a scoprire cosenuove e cose antiche tra questiundici scrittori che padre Castellici lascia rimirare. Lo scrittore di fiabe Andersen èun servo sofferente ma fedele,privato dell'amore dalle coinci-denze che gli permisero di dive-nire, lui poverissimo, il cantoredel sentimento popolare non solodanese ma occidentale.Kierkegaard non fa certo unabella figura quando apprendiamodalle sue carte che gli rimprove-rava l'assenza di una filosofia, masi sa che i filosofi a volte sonotardi alla comprensione.Von Kleist è un suicida che fapaura, come fa paura l'abbagliante gioia che nella morte siè illuso di provare: la sua immortalità vive tra gli uomininei suoi personaggi che per la troppa coerenza si dannano,epigoni mitologici delle dottrine luterane o del paganesimopiù disperato.Gogol' ci si mostra sotto le sue molteplici sfaccettature discrittore, ispirato non solo dalla sua attitudine di soggettosensibile, ma chiamato a conformarsi alla voce delloSpirito che lo spinge a scrivere le sue “Anime Morte” quali

parallelo al progetto dantesco, e a lasciarle incompiute. Aquanto con maestria ci illustra Castelli si potrebberoaggiungere due singolari parallelismi: il primo con SergejBulgakov, che non appena decise di riconciliarsi con lachiesa ortodossa e di diventare teologo fu escluso dagliintellettuali autoproclamatisi progressisti. Gogol' ha poiqualcosa in comune con Florenskij, l'altro grande filosofo-teologo della russa età d'argento: entrambi scelsero laforma epistolare per parlare della loro rinnovata assimila-zione a Cristo nella Sua chiesa, Gogol' nei Passi Scelti,Florenkij ne La Colonna e il Fondamento della verità (chepurtroppo ancora non si riesce a far ristampare in Italia,magari in edizione migliorata).Siamo quindi condotti all'incontro con Baudelaire, vittimadi quello che Castelli definisce un errore di angelismo:

“per lui il santo è solamente esempre un angelo, non anche unpeccatore che resiste al male, elo vince. A suo parere, o si èsanti, o si è satanici” (p 82). Lasua esperienza di dandy è ladeclinazione a lui contempora-nea di quella terribile emulazio-ne delle potenze dell'aria cheaffascinò Milton, Carducci,Hugo, Huysmans. Questi scritto-ri nelle esperienze tenebroseche scelsero vollero emulare ilprincipe dei superbi, il patronodegli arroganti: l'atteggiamentodi Baudelaire è però sempre sof-ferente, non come D'Annunzioche era “soddisfatto nella suagrascia” (p 76): era invece tre-mendamente cosciente che lasua scelta lo portava sin d'oraalla dannazione, che egli cantacome quasi nessuno fece, comedecomposizione, orrore, ribrez-zo per una natura che pretendedi elevarsi al rango del sopran-naturale, e per questa superbiafinisce come la prefigurazione diApollo e Marsia, scarnificata,resa mostruosa, satanica e pre-ternaturale. La donna malefica

che il poeta francese evoca è l'opposto e il contrappassodella donna angelicata: come quella spinge ad avanzareverso Dio, così la donna solo naturale tira in basso verso gliinferi. Come più volte affermava Reginald Garrigou-Lagrange (ormai anch'egli troppo poco citato) nella dinami-ca della vita interiore verso le cose divine o si avanza o siarretra, non si può mai fermarsi. L'abisso chiamò l'abisso inBaudelaire, poeta cristianamente ispirato con il terrifican-te realismo di chi ha scelto il lato oscuro.

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intellettuale viaggiatore (scrisse per i giornali più diversi eprestigiosi, in varie nazioni, nomade in un'Europa in fer-mento) ci illustra la radicalità dell'alternativa esistenziale,universalmente valida, di rassegnarsi o emigrare. Emigraredalla propria terra, dal proprio tesoro di ricordi, dalla pro-pria realtà. Intreccia il mito con il reale, cercando anchelui di liberare il reale dall'oppressione della sua bruttezza:celebre l'incipit “Non è bella la vita dei pastori inAspromonte …” egli vuole contemplare la favola della vita,ne scandaglia il senso, cerca di sfuggire al facile sensuali-smo che pure lo tenta, nella scrittura e nella vita.L'Aspromonte diventa metafora della dannazione comeoppressione, della privazione della possibilità di lottare.L'amicizia con il dotto don Giuseppe De Luca in questo svol-se un ruolo non da sottostimare: l'amicizia, spesso polemi-ca, con un uomo di Dio è un tratto tipico dei grandi uomi-ni meridionali. La sua religiosità è laica e naturale, alme-no a quanto ci ha voluto comunicare: una curiosità che cisegnala Castelli è che un recente volume è stato dedicatoad Alvaro dal mariologo De Fiores.Si è molto parlato in questi anni di C. S. Lewis, tanto cheanche un ateo da libreria di supermercato e volgare comeHitchens ne fa più volte menzione per criticarlo. Per singo-lare coincidenza uno dei suoi testi più noti viene pubblica-to in italiano per la prima volta nel 1947, con il titolo di Lelettere di Berlicche da un omonimo di Castelli. In questotesto impressionante è la lucidità con cui vengono descrit-te le istruzioni che un diavolo navigato fa per un suo allie-vo, istruzioni che così attuali si mostrano anche oggi, oltrea essere spesso ormai divenute prassi societarie. Originariodi Belfast, cresce in Inghilterra, e dopo varie privazioni diaffetto e sofferenze diviene ateo, si interessa all'occulti-smo per il tramite di Yeats, quindi avviene il fondamenta-le incontro con Chesterton. Credo non sia inutile ricordarela fondamentale importanza su così tanti uomini di que-st'ultimo: quando morì nel 1936, i giornali inglesi che det-tero l'annuncio non vollero pubblicare per esteso il tele-gramma di condoglianze del Santo Padre perché vi si attri-buiva a Chesterton un titolo, quello di Difensore dellaFede, che in Inghilterra spetta unicamente al re. Anche luiattraversò varie fasi, fino alla conversione e lo stessoTolkien fu ammirato dalla sua statura morale e spirituale.I sette romanzi delle Cronache di Narnia, popolari dopo latrasposizione dei primi al cinema. Vi si devono però quan-tomeno accostare per rilevanza i tre romanzi di fantateo-logia, che hanno ad oggetto la lotta tra il bene e il malema senza le caricature gnosticheggianti di Pulmann. “cer-cate Cristo e lo troverete, e troverete ogni altra cosa con

lui” è la conclusione di Mere Cristianity, altro testo da leg-gere bene, ripresa dall'Imitazione di Cristo della qualetutta l'opera di Lewis può essere letta come un commenta-rio. E. Waugh si convertì al cattolicesimo per il tramite delgesuita Martin d'Arcy. Anche lui osteggiato dagli intellet-tuali nei dieci anni del suo tempo bohemienne tra Oxforde Londra capisce che un mondo senza comunione con Dio èla terribile Waste Land da cui sono atterriti i suoi contem-poranei. Ci piace ricordare della sua densa prosa un passodal romanzo Corpi Vili una profezia di uno strano gesuitaebreo, padre Rothschild (nome emblematico): “ben prestotutti saremo di nuovo afferrati dagli ingranaggi delladistruzione e seguiteremo a parlare delle nostre intenzio-ni pacifiche” (cit. a p 189): certe cose è meglio scriverle informa romanzata. I suoi romanzi sono spesso infatti spie-tati, come Una manciata di polvere, in cui il cinismo è lacifra per comprendere i potenti di questo mondo, i princi-pati che non si vogliono fare strumento di Dio, seguaci del-l'antico “non serviam” della mano sinistra. Dedicò ancheuna trilogia alla guerra, e un affresco della vita di Elena,madre di Costantino che portò la Croce al cuoredell'Impero, e con essa la Speranza.Santucci che conclude la nostra rassegna è il più vicino anoi, per spazio e per tempo, essendo morto a Milano nel1999, esprime soprattutto l'umorismo ma anche l'universa-le sentimento del mito che travalica i confini geografici.Nelle sue molte stagioni, nei suoi periodi di diversa sensi-bilità si passa dalla saga borghese de Il velocifero allanevrosi di Orfeo in paradiso, ispirato dalla morte dellamadre, che tanto somiglia a quel film così strano che èMiracolo a Milano, in cui il soprannaturale irrompe sullagrigia capitale del nord industrializzato. Solo che in Orfeovi è un mediatore, don Pasqua, anch'egli strana figura(Castelli la definisce “dalla fede giullaresca” a p 209), chelo protegge da Mefistofele. Si dedica alla vita di Cristo, poiad ambientare ancora i novissimi a Milano, con il Paradisoinvaso dalla cerchia esterna dell'inferno con l'evocativoNon sparate sui narcisi, singolare mistura di ironia e favo-la. La sua opera fu una “festa di creatività”, paragonabileal ben noto aedo della cultura egemone Calvino, forseanche più interessante e inquietante.Le tensioni della vita siano lì scarne e dense a lasciarsi illu-minare anche (o soprattutto) negli spiriti più sensibili e sof-ferenti.Che alcuni di questi scrittori non siano riusciti a passareper la porta stretta non può che rattristarci.

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Anche il capitolo su Cechov, come altri in questo volume,inizia con la narrazione della sua morte. Antica saggezzavuole che il dies natalis sia un prisma che riflette tuttal'esistenza dell'uomo. L'indifferenza diffusa tra i parteci-panti al suo funerale è emblematica del distacco con cui siguarda al realismo in una Russia pronta al balzo nel vuotodella rivoluzione, accecata dagli ideali che la condurrannoalla miseria e all'abiezione della menzogna ideologica.Cechov, medico e positivista, seziona la quotidianità innarrazioni che, se pur non aggiungono le vette abissali deiKaramazov, sono il basso continuo dell'esistenza del popo-lo russo nella sua carne e nel suo sangue. Gli spiragli chenon riesce a giustificare nel suo ateismo, tante volte ripe-tuto quanto più imposto, li cristallizza in alcuni racconticome Il monaco nero, in cui lo squilibrio si armonizza perquanto possibile con l'anelito geniale.Sigrid Undset fu premio Nobel nel 1928. Donna cosciente enon abbagliata dalle ideologie, reclama per le donne ingenere e per sé la “possibilità di realizzarsi secondo il suocuore” (p 109). Anche il suo realismo è particolare: fu unrealismo di fedeltà alla storia, non di ricerca di una sem-pre più sfuggente oggettività. Nel 1925, durante un viaggioa Montecassino, annunciò ufficialmente di aver abbraccia-to la fede cattolica. Scoprela densità e la concretezzadel Corpo mistico di Cristo, e

se ne innamora.Con una certa arguzia scrisseanche un saggio intitolatoPropaganda cattolica, ma èl'enorme Kristin figlia diLavrans a segnare l'apice della sua fluviale produzione: inquesto testo descrive la parabola della vita di una donnaforte e senza scrupoli, emblema di quella vitalità naturale,a mezzo tra inferi e santità, che raggiunge nella testimo-nianza dopo i tormenti: sembra ricordare il cammino che siproponeva di descrivere Gogol' nel suo opus maius incom-piuto. Nel 1945 rientrò in patria, dopo le peripezie seguitealla sua opposizione al nazismo, e vi si dedicò soprattuttoalle biografie dei santi (tra i quali ci piace ricordare ilpostumo Caterina da Siena) fino al 1949, anno della suamorte. Il suo “tornare indietro verso l'avvenire” è lamiglior risposta a chi accusa di reazione chi cerca dilasciarsi sedurre dall'affascinante richiamo del Corpo misti-co, e a donarvisi con le proprie sofferenze.

K. Mansfield muore atrentacinque anni,anche questa autriceci viene presentata apartire dalla suamorte. Sembra quasiche Castelli si divertaa differenziarsi dal-l'esorcismo continuoche la narrazione con-temporanea dei media fa della morte, non solo come even-to ma come la più vera presenza (direbbe G. Steiner).Allieva di Wilde a Londra, vi era giunta dalla Nuova Zelandain fuga dal provincialismo degli antipodi, non riesce a sco-prire altra massima di più elevata sapienza che “il solomodo di liberarsi dalla tentazione è abbandonarvisi” (cit.a p 127). Sapienza mondana, troppo mondana da dimenti-care il mondo stesso, ebbra di questo paradosso faciloneche già tanto abbagliò facili profeti e finti messia di varimonoteismi. Dopo le delusioni ecco poi la voglia di uscire,fuggire dal mondo, l'anelito di accettazione della morteanziché della vita. Ebbe con Virginia Woolf e con i membridel circolo di Bloomsbury un rapporto alternante di rispet-

to, amore e repulsione provinciale, all'insegna diquella morbosità che compensava questi intellet-tuali così autocompiacentesi della propria freddez-

za schematica, come Keynes e Russell cercaronotra gli altri di far credere. “Per la prima voltapenso che desidererei convertirmi al cattolicesi-mo. Ho bisogno di qualche cosa” (cit. a p 141): èun degno epitaffio, una sapienza terminale che

vale come parallelo dell'omnia quae scripsit palea est diSan Tommaso, un estremo anelito al reale che tanto sfug-gevole è per l'intelletto nostro decaduto e ottenebrato: èun grido di dolore anche contro l'atteggiamento mentaledel cosiddetto postmoderno che cancella la cancellazionestessa del reale. Il ben noto Gurdjeff la accoglie nellacomune dei suoi allievi vicino Parigi per i suoi ultimi tremesi di vita, una fine accelerata dalle pratiche assurde diuna delirante religiosità naturale.Si arriva all'Italia, con un conterraneo di Castelli: CorradoAlvaro però non ci viene mostrato secondo la retorica delregionalismo, che tanto influenza oggi anche certa criticaletteraria provinciale: questo scrittore, compreso comeavrebbe voluto essere nella sua dimensione propria di

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ubulide di Mileto, filosofo greco, è noto per il sor-prendente paradosso del mentitore. La questione siarticola in questi termini: se qualcuno afferma di

mentire (io mento, sostiene il 'mentitore'), mente o dice laverità? Le possibilità sono due, o dice il vero e allora menteo dice il falso e allora dice la verità. Questo paradosso cheha impegnato per secoli filosofi e logici ci mostra quanto illinguaggio possa essere ambiguo e inevitabilmente con-traddittorio. Ma soprattutto ci induce a riflettere su cosasia la verità e in cosa consista la menzogna. Miguel deUnamuno osserva che “se le matematiche uccidono lematematiche mentono!”. Friedrich Nietzsche: “Una veritàche annulli la vita annulla di conseguenza se stessa”.Erasmo da Rotterdam nel suo Elogio della Follia esclama:“Nulla di più folle di una verità inopportuna!”. Cristo nondice semplicemente la verità, ma afferma di essere “laVia, la Verità e la Vita”. Egli si pone come colui che è laVerità e di conseguenza tutto ciò che dice e fa è la Verità,non può che essere la Verità. Cristo rappresenta in un certosenso un'alternativa al 'mentitore': se anche, per assurdo,dovesse dire una bugia lo farebbe per realizzare la Verità.

Questa possibilità ci fa pensare che, a volte, chi dice sem-plicemente la verità non è detto che realizzi la Verità, cioèqualcosa che contribuisca a compiere il senso della vita. Inaltre parole, un conto è descrivere esattamente un fattocosì com'è o informare qualcuno di un evento che in realtàè avvenuto e un altro è realizzare un valore o, più sempli-

cemente, fare ciò che è bene.Immaginiamo di dover scegliere trauna verità la cui diffusione abbia comeconseguenza la rovina di un uomoassolutamente buono e una menzognache al contrario determini la distruzio-ne di un criminale. Quale di questescelte avrebbe senso? Immaginiamoancora un altro caso: se dovessimosceglierci un amico lo vorremmo catti-vo e veritiero o buono e menzognero?Sembra quindi che la verità non sianecessariamente espressione del benee un uomo 'vero' non è detto chedebba sempre dire la verità. Molteverità sono spesso di cattivo gusto e,come si dice, 'fuori luogo' eppure moltiin nome della verità si trasformano inspietati guastafeste. Ci sono deimomenti difficili e degli stati d'animo

Paradossi e speranzedella Menzogna

che potrebbero risolversi positivamente se solo ci fosse ilbuon senso di non esasperare le cose strombazzando veri-tà a tutto spiano. Quante cattiverie si realizzano attraver-so la maschera dorata della verità? Dunque chi dice la veri-tà non è necessariamente buono e chi dice il falso non ènecessariamente malvagio.Passiamo adesso a un altro problema: il rapporto tra la spe-ranza, la verità e la menzogna. Ernst Bloch sostiene che “lavita non ha la speranza, ma è speranza”. La vita è incon-cepibile senza la speranza, ma la speranza è più simile allamenzogna o alla verità? Se un uomo avesse come unica pro-spettiva una visione disincantata delle cose,se si limitasse a prendere atto della realtà,o meglio della verità sulla realtà, quest'uo-mo sarebbe un disperato; non riuscirebbe aprogettare nulla, non sarebbe capace diconcepire nessuna alternativa, non sarebbeartefice di alcun cambiamento, non potreb-be fare altro che contemplare oggettiva-mente il mondo per quello che è, al di là delbene e del male. Per fortuna un caso delgenere non esiste se non nella testa di qual-che filosofo 'realista', dimentico del fattoche la realtà stessa non è poi così 'reale',dato che in fondo esiste soltanto perché gliuomini se la rappresentano e si convinconoche sia in un certo modo. In effetti la spe-ranza ha poco a che fare con la verità deifatti, la verità con la “v” minuscola, ma hamolto da spartire con la Verità, con la vita,per intenderci.Infine, parliamo un po' di una cosa che le persone pratichee concrete disprezzano: l'arte. Bene, anche in questo caso,si tratta di qualcosa che somiglia alla verità o alla menzo-gna? Bisogna distinguere in primo luogo l'arte mimetica el'arte creativa. La prima si sforza di essere fedele alla real-

tà e spesso sembra che ci riesca quando l'artistariproduce fotograficamente un oggetto, un paesag-gio, un volto. Chi non comprende l'arte apprezzamolto simili sforzi di realismo e, al contrario, spes-so denigra tutte quelle opere che trasfigurano e'deformano' la cosiddetta realtà oggettiva. Maanche l'opera più 'fotografica', se ci pensiamo, èpur sempre il frutto della scelta di un soggetto alposto di un altro, di un punto di vista, di un giudi-zio di valore. E poi, se pensiamo alla musica? Si puòparlare di musica realista? Certo esiste la cosiddet-ta musica descrittiva. Ma può la musica descrivereoggettivamente la realtà? L'arte creativa non sipone il problema di essere obiettiva, ma genera ilproprio oggetto, costruisce forme impossibili, faessere ciò che non è di questo mondo: la perfettaBellezza. Ma il mondo non sembra amare laBellezza e si accontenta della mediocre realtà. Igiornali, la televisione e perfino la telematica cibombardano con le loro orribili 'realtà' e decretano

il trionfo del mostruoso e dell'inaccettabile: tutto ciò innome della cosiddetta informazione. Oscar Wilde nel suosaggio La decadenza della menzogna ci fa notare chedovrebbe essere la realtà con tutte le sue 'verità' a insegui-re le creazioni dell'arte, a conformarsi ai suoi sogni e allesue utopie. Quando l'arte si sforza invece di rappresentarele cose così come sono tradisce il proprio compito e abban-dona la propria più autentica speranza. “Non abbandonatela vostra più alta speranza”, scrive il Nietzsche. Da questopunto di vista, la menzogna come le illusioni di Ugo Foscoloè il vero motore della civiltà, ciò che ci consente di tra-

scendere la banalità e il non senso del presente per imma-ginare e sperare un mondo diverso. Ci auguriamo infine chequesto discorso non venga scambiato per un volgare elogiodelle mediocri bugie che la stupidità e la cattiveria umanaproducono senza sosta ogni giorno.

Friedrich Nietzsche, Su Verità e menzogna, BompianiQuesto è uno scritto giovanile di Nietzsche: si tratta della primariflessione teoretica, autonoma e compiuta, del filosofo; egli stessolo designò nel 1884 come un promemoria in cui fosse già statoespresso, e in maniera più ardita che nelle opere edite, il propriomodo di pensare. Il testo espone una concezione metaforica dellarealtà, intesa prospettivisticamente come risultato, sempre in corsodi rielaborazione, dell'originaria facoltà metaforizzatrice dell'uomo,capace di creare immagini, suoni, parole, persino i concetti piùastratti e lontani dalla vita. Si preannuncia quella svolta radicale nelpensiero occidentale operata da Nietzsche nelle sue più note operesuccessive. Lo scritto viene affiancato da un altro a esso strettamen-te connesso e di pochi mesi precedente "Sul pathos della verità".

Oscar Wilde, La decadenza della menzogna ealtri saggi, RizzoliIn questo breve saggio, strutturato in forma didialogo e pubblicato per la prima volta da OscarWilde nel 1889, due esteti, Cyril e Vivian, dibat-tono sul significato dell'arte. Usando sapiente-mente ironia e paradosso, Vivian afferma il pri-mato dell'arte sulla Natura e sulla Vita e auspi-ca il rifiorire dell'immaginazione per contrasta-re l'opaco e dilagante realismo, fonte di svili-mento del potere creativo in ogni campo artisti-co, dalla letteratura alla pittura. Wilde, aliasVivian, conclude la sua arguta dissertazione conuna rivelazione fulminante: "E' la Menzogna, ilnarrare cose belle e mendaci, il fine ultimodell'Arte".

Ernst Bloch, Il principio speranza, GarzantiIl libro evoca ed esplora tutte le dimensioni dell'utopianella coscienza individuale e nella storia collettiva, daisogni infantili alle opere d'arte alle costruzioni della filo-sofia e della letteratura. Allievo di Simmel, amico diLukacs, Benjamin e Adorno, considerato tra i massimi pen-satori del secolo, Bloch organizzò in questo testo imponen-te una sintesi di vasto respiro, in cui messianesimo ebrai-co, rinascita kierkegaardiana, esperienza delle avanguar-die artistiche e marxismo critico si confrontano in una pro-spettiva che oggi, dopo la caduta delle ideologie, rivolgeal futuro una sfida attualissima.

di Glauco Morabito

Tutti sogniamo un mondo in cui ognuno è since-ro e fiducioso nei confronti dell'altro e viene asua volta ripagato con pari sincerità. Ma sareb-be migliore un mondo senza menzogna?Potremmo vivere senza mentire, senza inganna-re, senza "essere mentiti" ed ingannati? Se tuttidicessero sempre e comunque la verità, tutta laverità e nient'altro che la verità ci sarebbeancora una differenza, per esempio, tra buonaeducazione ed ipocrisia tra il fare di necessitàvirtù ed autoinganno, tra misericordia e bugiepietose, tra riserbo e dissimulazione?

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sacrato la vittoria di Barack Obama,figura nuova, sia come generazionesia, forse, come cultura. Accantoalla sorpresa ed alla gioia inizialescaturita dalla necessità di un cam-biamento radicale di cui gli Statesavevano bisogno da tempo, noicalabresi abbiamo inseguito unsogno, quello di riscoprire un pezzodella nostra storia nell'America,terra ospitale ed accogliente chetanti emigrati hanno scelto per ilriscatto della propria esistenza.Infatti, il futuro presidente ameri-cano, nel corso di una campagnaelettorale, ha citato più volte ilmonaco cistercense calabreseGioacchino da Fiore, considerandolo maestro della civiltàcontemporanea ed ispiratore di un mondo più giusto. Unfatto sensazionale per gli uditori che potrebbero avereindividuato un'affinità tra le due figure, distanti tra loroquasi mille anni, nella capacità oratoria, nella determina-zione e nella volontà, sebbene trasmessa al popolo, divoler cambiare la storia dell'umanità. E siccome BarackObama si presenta in un momento in cui la politica sembraperdersi in un minimalismo infinito fatto di corruzionementre il capitalismo internazionale appare immerso fracrolli e miserie, diventa più che naturale aspettarsi cheegli possa insistere su un radicale cambiamento rispettoalla precedente situazione provocata da Bush. Egli vuolepropugnare una svolta nella storia prevedendo e dunquesperando in un futuro di concordia.Otto secoli fa, Gioacchino da Fiore, nato a Celico, inCalabria nel 1132, diventato teologo cattolico, ascetaapprezzato, filosofo illuminato, fondatore dell'ordineFlorense, proponeva un rinnovamento storico di pace e diconsolazione dopo un'epoca travagliata segnata da gravicrisi. Il pensiero di Gioacchino fu tuttavia innovatore ma altempo stesso molto radicale. Egli diffidava della ragionepoiché sarebbe stata una pretesa di comprendere la poten-za dello Spirito Umano. Ciò che egli approvava era l'illumi-nazione dell'intelletto con la grazia di Dio, in uno spirito diobbedienza ai dogmi. Ma Gioacchino da Fiore è rimastofamoso per aver visto nella storia umana l'immagine dellaTrinità in base alla quale appunto la storia è una, è conti-nuità e perciò non é né lineare, né circolare. Essa tuttaviaconserva il suo carattere evolutivo ripetendo alcuni temiricorrenti. Il Liber Figurarum, rappresenta una delle operepiù importanti di Gioacchino da Fiore nella quale l'abatecalabrese spiega la dottrina cattolica per mezzo di figuresimboliche. Tutta la sua opera nasce da una profonda medi-tazione delle Sacre Scritture ed è volta alla dimostrazioneed all'annuncio profetico dell'avvento di una nuova eraall'insegna del totale trionfo dello spiritualismo. Nella suatrilogia storica, infatti, l'età dello Spirito Santo, precedutada un periodo di conflitti, guerre, corruzione e povertà,

annuncia un periodo di purezza,pace, giustizia e felicità. La citazio-ne del pensiero gioachimita da partedi Obama, a proposito dell'avventodello Spirito, risuona come speranzadi rinnovata giustizia e pace grazie alsuperamento delle lotte di poteretra popoli, culture e fedi differenti,tra la guida pastorale e spiritualedell'uomo ed il potere politico nelmondo. Gioacchino da Fiore, mae-stro dell'utopia medievale, sognato-re di una nuova civiltà cristiana, eraconsiderato il portabandiera di unasocietà più giusta. Straordinario edinteressante che sia stato evocato unpensatore utopico ed escatologico

per indicare la necessità di un cambiamento radicale nellastoria. Le idee di Gioacchino infatti, secondo studi recen-ti, conservano annunci profetici ancor'oggi non del tuttoesplorati. I suoi scritti contengono meditazioni profondesul mistero divino e la storia dell'uomo, indicano la via perla mediazione ed il dialogo, propendono per una spiritua-lizzazione della Chiesa attraverso una ripetuta ed inconfu-tabile fedeltà ad essa. Le sue riflessioni sulla storia ed iltempo, sui rapporti tra l'umano e il divino, sull'organizza-zione del mondo cattolico e della specie umana, gli fannoprefigurare un ordine nuovo, una nuova e sperata utopia.Cristoforo Colombo, collega le sue esplorazioni, nei suoiscritti, alle sue profezie. La speranza e l'utopia del fratecalabrese vengono ancora oggi studiate in America Latina,mentre non è da sottovalutare come schemi e simboli gioa-chimiti vengano riconosciuti nella Cappella Sistina diMichelangelo. Tematiche di grande attualità malgradodistanti secoli nel tempo. La modernità di Gioacchino daFiore sta anche in questo. Forse Obama menzionandolo,crede all'inizio di un'epoca straordinaria in cui lo Spiritoriuscirà a cambiare il cuore degli uomini. Ma sarebbe ridut-tivo pensare che la citazione sia solo un auspicio per unmondo più pacifico, un modo per rendere attuale l'utopiache lo Spirito possa prevalere in questo mondo dominatodalla ferrea legge dell'interesse, dell'economia e dellaguerra. Non siamo in grado di prevedere se e quanti bene-fici il governatore americano potrà ad esso apportare; sipresuppone un approccio multilaterale ai problemi inter-nazionali, una maggiore severità nei confronti dei governipiù corrotti, un aiuto più cospicuo nei confronti di popolisottosviluppati. Accanto ad un ottimismo iniziale rimango-no delle incognite che non impediscono tuttavia di festeg-giare la consacrazione di un nuovo simbolo di speranza e diriscatto per un futuro migliore. La trepidante attesa di unanuova era non deve essere vista però con gli occhi di unsognatore che vive nel suo mondo accogliente, al di fuoridi ogni contesto reale. La speranza è un dato concreto poi-ché nasce e si rinnova ogni giorno. Proprio come l'alba.

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“Gioacchino da Fiore mi ha ispirato”

LA PROMESSA DIBARACK OBAMA

Da un'autonoma scoperta culturale nascono i riferi-menti di Obama su Gioacchino da Fiore, l'abate cala-brese fondatore nel XII secolo dell'ordine Florense ècaro a Dante che, nella Divina Commedia, lo defini-sce “il calabrese di spirito profetico dotato”.<<maestro della civiltà contemporanea>> e <<ispira-tore di un mondo più giusto>>, sono le citazioni piùvolte ripetute nel corso della campagna elettoraleper la Casa Bianca, ma che inserite in un discorsoprogrammatico danno il senso di una promessa poli-tica destinata a cambiare la storia del mondo.

e l'amore è il motore della vita, la speranza rappresenta l'il-lusione che aiuta a vivere, ad affrontare e a superare ledelusioni, le amarezze e le situazioni drammatiche che non

mancano mai nella storia di ogni uomo. Quando un evento poli-tico o sociale chiude un'epoca o un avvenimento artistico-lette-rario di una certa rilevanza si impone per secoli influenzandoaspetti della quotidianità, si fa fatica ad accettare tutto ciò cheappare come nuovo poiché, se il passato è storia, il futuro èmistero e perciò arreca con sé molti dubbi e paure. Per fortunache la speranza, sentimento profondamente radicato nell'animoumano, esista come sinonimo di augurio e realizzazione di desi-deri, e che, col suo piccolo bagaglio di ottimismo, ci fa intrave-dere buone possibilità di riuscita attraverso una fede inconsape-vole, insomma come un ultima spiaggia da tentare perché si sa,la speranza è l'ultima a morire e poi non è detto che debba mori-re per forza.Non poco stupore nel mondo politico italiano hanno suscitato leelezioni presidenziali del 2008 per la Casa Bianca che hanno con-

di Luisa Nucera

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Barack Obama

Gioacchino Da Fiore

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for Vendetta, dei britannici Alan Moore e DavidLloyd, fa parte della categoria dei romanzi grafici:pubblicato serialmente per la prima volta tra il 1982

e il 1985 e, successivamente, raccolto in un volume, è frut-to di un abile lavoro di coppia del talentuoso sceneggiato-re Moore, autentico punto di riferimento per gli appassio-nati del genere, e del disegnatore Lloyd, che ha contribui-to in maniera significativa alla creazione, non solo visiva,dei personaggi, in particolar modo di V, il protagonistadella graphic novel.La storia si svolge in una Londra distopica, chiaramenteispirata alle atmosfere orwelliane di “1984”, in cui un regi-me totalitario ha preso potere in seguito ad una guerranucleare: il governo controlla ogni forma di comunicazio-

ne; i cittadini, costantemente monitorati da telecamere espiati dai servizi segreti, hanno perso la loro individualità,ormai assuefatti a questa forma di annullamento. L'unicoelemento “perturbante” è V, un anarchico le cui reali fat-tezze sono celate sotto la maschera e il cappello di GuyFawkes, colui che cospirò contro il Parlamento inglese il 5novembre 1605 nella congiura detta “Gunpowder plot”,terminata in un fallimento. Prigioniero scampato al campodi concentramento di Larkhill, V cerca costantemente, ser-vendosi di mezzi spesso non convenzionali, di sovvertire ilregime con atti violenti ma allo stesso tempo teatrali. Latrama si dipana attraverso il punto di vista di diversi per-sonaggi: la giovane orfana Evey Hammond, che diventeràseguace del protagonista; Rosa Almond, che, in seguito alla

di Sabrina Cuzzocrea

Il fumetto è una forma artistica che è stata a lungo sot-tovalutata: considerata mera fonte di intrattenimentoper le masse più giovani o, comunque, povera dello spes-sore psicologico di romanzi o cinema, ha raramenteavuto la considerazione che effettivamente merita. Da circa trent'anni a questa parte però anche questaespressione artistica è stata ampiamente rivalutata gra-zie ad opere che definire tout court fumetti sarebbeampiamente riduttivo. Graphic Novel è il termine esat-to: romanzi grafici.Opere che non solo si avvalgono di tavole disegnate, mala cui vera forza risiede in sceneggiature solide, com-plesse, in personaggi che non hanno nulla da invidiare aquelli letterari.

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For Vendetta:striscia di uncapolavoro

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morte del marito, politico di fama, conosce dapprimal'umiliazione e infine il riscatto uccidendo il Leader; daultimo, il poliziotto omosessuale Finch, che nell'epilogopugnala a morte V. Quest'ultimo, prima di morire, lascia a Evey il compito diguidare la folla verso un'anarchia consapevole.Il lieto fine non è tuttavia scontato: V rivela che l'anarchiaha due facce, quella della distruzione e quella della crea-zione: egli consegna a Evey un'Inghilterra in macerie, espetterà a lei edificare il mondo migliore che ha sempreauspicato. Se riuscirà, non ci è dato saperlo.I temi trattati sono complessi e spesso suscitano interroga-tivi che non hanno risposta: è lecito, in nome della veritàe della libertà dell'individuo, compiere atti violenti? Altritemi hanno una sfaccettatura particolare: l'anarchia volon-taria e consapevole non è il caos, ma rappresenta la puntapiù alta della libertà, perché significa “senza capi” e non“senza ordine”; al contrario un ordine “involontario” gene-ra disordine ed è progenitore della ghigliottina, per citarelo stesso V. Un lavoro corale, quindi quello di Moore eLloyd, con il primo a delineare la psiche dei personaggi condialoghi forti, prorompenti, spesso contraddittori e Lloyd afare da contraltare con le sue chine, rendendo le luci eombre delle loro personalità con un abile uso del chiaro-scuro. Non esistono eroi, è la lotta della vita umana cheviene rappresentata; lo stesso V non ha un vero volto:Evey, quando il suo mentore sta per morire, preferisce nontogliergli la maschera, per non sminuirne la personalità.

V, la cui identità non è volutamente rivelata, è ancheDavid Lloyd.Ho avuto la fortuna di conoscerlo nel settembre scorso:nonostante sia un grande personaggio del fumetto mondia-le, non ha disdegnato un incontro con gli appassionati reg-gini in una “fumetteria” locale. Anzi, come ha più volterivelato, il rapporto con il pubblico, spesso snobbato damolti suoi colleghi, oltre che una vera opportunità, rappre-senta per lui un'occasione fondamentale di crescita profes-sionale. Persona molto coerente, onesta, idealista ma con i piediper terra, Lloyd è nella vita ciò che cerca di interpretare etrasmettere con la sua arte. Non a caso si sente molto lega-to ai personaggi che disegna, poiché ogni volta infonde inloro qualcosa di personale.

Il protagonista di Kickback, la prima opera di cui l'arti-sta ha curato sia la sceneggiatura che i disegni, portacon sé molte delle esperienze vissute in prima personadall'autore. Idealista ma concreto si diceva: Lloyd è perfettamenteconvinto che un fumetto possa cambiare la gente, muove-re qualcosa, dare un sogno, una possibilità: questo è unodei motivi principali che lo spingono a creare storie. L'artista inglese è anche fermamente consapevole dell'ef-fettivo valore di cinema e fumetto, spesso considerati benal di sotto di espressioni artistiche come la letteratura o ilteatro: durante un'intervista, in maniera un po' dissacran-te, ha rivelato che, secondo lui, se Shakespeare fosse vis-suto ai giorni nostri, sarebbe stato un grande sceneggiato-

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