Poltronissima II edizione

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Poltronissima II edizione - Produzione di Catona Teatro

Transcript of Poltronissima II edizione

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5 Il Direttore Roberto Idà7 L'eterna giovinezza del servo Arlecchino

di Francesca Neri12 Ferruccio Soleri, 50 anni di capriole

di Teresa Timpano14 L'attore e la maschera

di Giorgio Strehler, 196216 La prima volta con Giorgio Strehler

di Walter Manfrè18 Un programma degno di una Metropoli

di Sergio Dragone20 “Misura per Misura”

L'applicazione della legge secondo coscienzadi Gabriella Gangemi

22 Gabriele Lavia: Il Teatro la mia maledizionedi Teresa Timpano

26 William Shakespeare drammaturgo della contemporaneitàdi Salvatore Di Fazio

27 Giulietta e Romeo - La nuova opera popolare di Cocciantedi Guido Fraietta

29 Sulle rive del Danubiodi Lucia Federico

34 Patrimonio dell'operistica italianaCoro Lirico e Orchestra del “Francesco Cilea”di Claudia Bova

36 Ladies and Gentlemen… Ennio Morriconedi Giuseppe Tumino

38 Giovanni Allevi: il nuovo Mozart?di Paola Abenavoli

40 Patrimonio Librario - Musicale della CalabriaLunga ricerca nella memoriadi Nicola Sgro

42 L'ombra dei Templari sul cielo dello Strettodi Francesco Arillotta

48 Pirandello - L'esaltazione delle contraddizionidi Paolo Puppa

54 Vittorio De Seta, poeta del realedi Luciano Pensabene

57 Rassegna Arti Meridianedi Antonietta Petrelli

58 La comunicazione teatraledi Nicola Petrolino

61 La cocente attualità di Alessandro ManzoniCriminalità organizzata: braveria, mafia e 'ndranghetadi Pasquino Crupi

64 Vizi privati e pubbliche virtù di una grande Divadi Roberto Idà

67 Maria Callasdi Bruno Tosi

68 L'identità di Rabaramadi Daniela Masucci

74 “Ora basta … attacco frontale!”Quando Falcomatà dichiarò guerra alle Ferroviedi Pino Toscano

75 Un Set al Sud - Il cinema scopre panorami mozzafiatodi Maria Cavallo

76 Musical, che passione!Una scuola di musical per sognare Broadwaydi Lucia Federico

78 Seminario Pirandello - Diario di Bordodi Alberto Brandi

79 Un lettore scrive a Walter Manfrè Direttore Artisticodel Festival Catonateatro

DirettoreRoberto Idà

Vice DirettoreLucia Federico

Hanno collaboratoPaola Abenavoli, Francesco Arillotta,Claudia Bova, Alberto Brandi, Maria Cavallo,Pasquino Crupi, Salvatore Di Fazio, SergioDragone, Guido Fraietta, Gabriella Gangemi,Walter Manfrè, Daniela Masucci, FrancescaNeri, Luciano Pensabene, Antonietta Petrelli,Nicola Petrolino, Paolo Puppa, Nicola Sgro,Teresa Timpano, Pino Toscano, Bruno Tosi,Giuseppe Tumino

Segreteria di redazioneMaria Grazia Verduci

Servizi FotograficiAntonio Sollazzo, Raffaele Pellicanò,M. Sabatini

Art DirectorMassimo Monorchio

Progetto Grafico e Impaginazione Studio Onatas Communication

Direzione e RedazioneVia Marina snc 89135 Catona - Reggio Calabriatel. 0965.301092 - 0965.304054 - [email protected]

EditoreCooperativa Polis Cultura arllegale rappresentante Lillo Chilà

Autorizzazione Tribunale di Reggio Calabrian°12/06 del 18/10/2006

StampaTipografia Iiriti – Reggio Calabria

Gli articoli, e ogni altro materiale pervenutoalla redazione, non saranno retribuiti.Manoscritti e foto originali, anche se non pub-blicati, non saranno restituiti.Tutti i diritti sono riservati. La riproduzione,totale o parziale, di qualsiasi parte della rivi-sta è assolutamente vietata.

SOMMARIO dicembre 2007 n. 2

Misura per misura con Gabriele LaviaTeatro Francesco Cilea - Reggio Calabria

Foto copertina A. SollazzoFoto retro copertina R. Pellicanò

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uando la politica, stravolgendo ogni logica, intende delegare ai mana-ger persino la gestione dei beni archeologici, mettendo da parte i

sovrintendenti che a quella specializzazione hanno dedicato decenni distudi, diventa un obbligo morale rivedere il rapporto tra politica e cultura.Quando ancora la politica schiaccia quelle realtà costruite con amore ecompetenza che la città ha mostrato di volere e che ormai le appartengo-no, diventa un dovere assoluto ridiscutere il rapporto tra politica locale egestione delle iniziative culturali.Crediamo che ogni politico che abbia a cuore le sorti del proprio territoriodovrebbe proteggere e tutelare le realtà positive che lo stesso riesce adesprimere, soprattutto se il terreno in cui crescono non è dei più fertili.Quei frutti sono anche suoi, anche se lui non c'era quando sono nati e forseci saranno ancora quando egli non ci sarà più.In quel momento egli è il contadino preposto a non fare marcire i frutti.Per danneggiare il proprio raccolto a volte non è necessario usare una ron-cola per distruggere le piante, basta lasciarle soffocare dalle erbacce.Ci si sente così meno colpevoli, ma il danno è uguale.Crediamo che ogni politico abbia il dovere di aiutare gli imprenditori e nonessere necessariamente imprenditore, di aiutare gli artisti e non di essereegli stesso artista, di affidarsi a professionisti del settore che è chiamato adirigere e non essere necessariamente un professionista di quel settore.L'errore madornale perpetrato fino ad oggi è stato quello di non aiutare iprofessionisti ideologicamente impegnati per sostituirsi ad essi.Sarà per narcisismo o accentramento di poteri, comunque un errore.Questo è il nostro pensiero critico, che sappiamo condiviso da tanti, sulmomento in cui versa il settore culturale nel suo complesso.Non intendiamo per questo fare la morale a nessuno, ma in considerazioneche da decenni seguiamo costantemente le vicende relative a tali questio-ni, ci permettiamo qualche suggerimento: fate lavorare, cari politici, i pro-fessionisti. State loro accanto, senza esercitare coercizione, fidatevi dellaloro competenza e soprattutto affidatevi a chi mostra di avere una vocazio-ne di respiro internazionale, lontano dalle piccole lotte circoscritte all'orti-cello. Proiettandovi verso il futuro e confrontandovi, farete crescere lavostra città. Ciò valga per l'urbanistica, il turismo, la pubblica istruzione, lacultura.Nella cultura risiede il futuro del nostro Sud. Il Teatro prima che spettacolo è cultura.

Roberto Idà

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l 27 luglio 1947, per la regia di Giorgio Strehler, venivarappresentato per la prima volta quell'Arlecchino servi-tore di due padroni che sarebbe diventato lo spettaco-

lo teatrale italiano più longevo e più visto al mondo: non acaso lo stesso regista lo avrebbe definito “un fatto straor-dinario nella storia del teatro mondiale”.L'Arlecchino testimonia la fecondità del rapportoStrehler/Goldoni, autore che il regista, in occasione delbicentenario della morte, identificava come “un nostro

Maestro che noi abbiamo tanto amato e tanto rappresenta-to”, sottolineandone altresì il fondamentale contributo alteatro italiano e mondiale.Di Goldoni, Strehler apprezzava inoltre la profonda umani-tà: proprio perché “terribilmente umano”, il grande com-

mediografo gli appariva “disarmato di fronte al male, albuio, alla miseria interiore che tanto spesso, ieri e oggi, ilteatro trascina con sé, come una condanna.”Lo spettacolo messo in scena nel 1947 recuperava la tea-tralità pura e si connotava per un aspetto “giocoso”, dimo-strandosi consono alle esigenze di una nazione appenauscita dal secondo conflitto mondiale. Suo punto di parten-za era Il servitore di due padroni, già rilanciato nel 1924 daMax Reinhardt, di cui Goldoni aveva dato due versioni. La

prima, un canovaccio scritto a Pisa nel 1745 e inserito nel-l'edizione Bettinelli del 1750, derivava da un'idea diAntonio Sacchi, un attore che già interpretava i ruoli diTruffaldino e di Arlecchino. Egli aveva inviato al Goldoniuno “scenario” francese, Arlequin valet maitre de deux

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'Arlecchino servitore di due padroni, di GiorgioStrehler, classico per eccellenza del Piccolo Teatrodi Milano, può essere considerato lo spettacolo

evento del 2007.Sessanta anni di vita ininterrotti, oltre 2.500 rappresenta-zioni in 40 paesi del mondo, più di due milioni di spettato-ri, un Ferruccio Soleri da 45 anni interprete straordinario,ed il primo spettacolo di prosa ad essere rappresentato allaScala, in una serata speciale, il 25 settembre scorso.Un evento straordinario, che ha visto la collaborazione tradue grandi istituzioni culturali milanesi, per celebrare ildecennale della scomparsa di Giorgio Strehler, che allaScala diresse straordinari allestimenti di Verdi e Mozart, i

sessant'anni del Piccolo, il trecentesimo anniversario dellanascita di Carlo Goldoni. Con la rappresentazione dell'Arlecchino alla Scala lo spet-tacolo goldoniano registra il record di 2.558 repliche inItalia e nel mondo.Per ritrovare la prosa alla Scala bisogna andare al 1918,alle recite straordinarie della compagnia di Ermete Zacconie a pochissime altre occasioni, comunque sempre produ-zioni in cui era forte l'intreccio con la musica.

Il Piccoloe la Scalainsieme percelebrareGiorgioStrehler

L'eterna giovinezzadel servo Arlecchino

di Francesca Neri

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valets di Jean Pierre des Ours de Mandajors, rappresenta-to a Parigi nel 1718 dalla compagnia di Luigi Riccoboni epubblicato nel 1729.Goldoni lo riscrisse, conservando la struttura del canovac-cio. Interpretato dallo stesso Sacchi, ebbe grande succes-so e una sua traduzione fu rappresentata per diciannovesere di seguito a Weimar, per opera di Goethe.Di Sacchi, Goldoni ebbe grandissima stima, al punto diricordarlo nei Mémoires come uno dei tre grandi attori delsecolo, insieme con il francese Préville e l'inglese Garrick,peraltro interpreti del teatro “regolare”. La seconda stesura dell'opera (1753) derivò, secondo quan-to afferma l'autore, dalla necessità di evitare scurrilità e“lazzi sporchi” e rappresenta una sorta di omaggio allaCommedia dell'Arte prima del suo definitivo superamentoda parte del Goldoni. Si segnalava per il ritmo molto soste-

nuto, che lo indusse a scrivere didascalie particolarmentedettagliate, vere e proprie “note di regia” che nella com-media “distesa” servivano a bilanciare il venir meno del-l'abilità scenica di un attore come Sacchi. La velocità del-l'azione scenica risaltava in modo particolare nella scena incui Truffaldino serve contemporaneamente a tavola i suoidue padroni, senza che nessuno dei due si accorga di niente.

E' proprio a questa seconda stesura che Strehler ispirò lasua messa in scena, con pochi cambiamenti rispetto altesto e una forte attenzione al ritmo scenico. Gli scenaridisegnati da Gianni Ratto e i costumi di Ebe Colciaghi risul-tavano molto stilizzati, mentre Marcello Moretti assumevail ruolo centrale, quello di Arlecchino, con qualche difficol-tà relativamente alla maschera, tanto da dipingersela sulvolto. Avrebbe mantenuto questo ruolo fino al 1961, dandoal suo personaggio connotati malinconici e poco “atletici”.Nelle successive edizioni Strehler apportò graduali modifi-che. In quella del 1952 (la seconda) è evidente il primotentativo di dare un'impronta realistica, con le maschere dicuoio di Amleto Sartori e una maggiore attenzione filologi-ca nelle scene e nei costumi. Seguirono numerose altreedizioni, fino a quella cosiddetta dell'Addio, rappresentataal Piccolo di Milano nel 1987 a quarant'anni dalla prima

messa in scena. Strehler allestì una scena spoglia, illumi-nata solo dal lume di candele, in un'atmosfera malinconi-ca: ma l'eterna giovinezza dello spettacolo si rivelò nel-l'edizione “del Buongiorno” del 1990.Ferruccio Soleri, che nel periodo 1961-63 prima sostituìMoretti e poi ne ereditò il ruolo, ricorda quello del“Buongiorno” come il più faticoso allestimento dello spet-

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tacolo, caratterizzatodalla presenza di treo quattro giovaniattori che si alterna-vano nello stessoruolo. Per il 1997, cin-quantesimo anniver-sario dello spettacoloe anche del PiccoloTeatro, venne ripro-posto sostanzialmen-te quello dell'Addio,arricchito da cinquan-t'anni di esperienza.Parlare dì questo spettacolo significa parlare non solo delsuo regista, ma anche del suo interprete, che chi scrivericorda in una rappresentazione dell'Arlecchino nel teatrodi Segesta. Difficile dimenticare Ferruccio Soleri (classe1929) in azione. Capace come pochi (sono parole di

Strehler) “di portare impressi sul proprio corpo itratti inconfondibili di un personaggio”, egliimpersona un Arlecchino allegro, talvolta ginnastae talvolta ballerino. Straordinariamente capace difar presa sul pubblico, instancabilmente in movi-mento da un punto all'altro della scena, Soleriseppe partire dalla lezione di Moretti per dare ori-ginale fisionomia al proprio Arlecchino.Anche lui ebbe inizialmente un rapporto conflit-tuale con la maschera, prima di rendersi contoche essa gli offriva la possibilità di “poter guar-dare il mondo dal buco della serratura”. Il suolavoro sulla maschera risultò importantissimo:dopo aver portato per quattro anni quella di

Moretti, le apportò personali modifiche, accentuando iltaglio degli occhi e rendendolo più “da gatto”. Ciò gli con-feriva un'aria sorniona, in piena sintonia col suo personag-gio più giovane, più abile e più dinamico rispetto a quellodel suo predecessore.

All'estero

QUILLOTA, Cile: 20 gennaio 2008

SANTIAGO DEL CILE, Cile: 5-7 gennaio 2008

SANTIAGO LAS CONDES, Cile: 27 gennaio 2008

PECHINO, Cina - Olimpiadi 2008: 7-9 Marzo 2008

MOSCA, Russia: 26 e 27 Marzo 2008

MONTREAL, Canada: 7/11 maggio 2008

TORONTO,Canada: 14/17 maggio 2008

In Italia- Rimini, Teatro Novelli: 14/16 marzo 2008- Catanzaro, Teatro Politeama: 29 e 30 marzo 2008- Messina, Teatro Vittorio Emanuele: 2/6 aprile 2008 - Treviso, Teatro Comunale: 8/10 aprile 2008 - Vicenza, Teatro di Vicenza: 12 e 13 aprile 2008- Correggio, Teatro Asioli: 15 e 16 aprile 2008- Modena, Teatro Storchi: 17/20 aprile 200

TOUR 2008Fo

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Con gli anni, l'Arlecchino strehleriano ha finito con l'identificarsi pro-prio col suo interprete, con la sua sostanziale adesione alla vitalità delgioco scenico e con la sua capacità di mantenersi fedele a se stesso purcon i cambiamenti gradualmente intervenuti in tanti decenni di messain scena.Decenni che, peraltro, non ne hanno intaccato la sostanziale “giovinez-za”, ponendo allo spettatore e allo studioso il problema di capire finoin fondo - se mai fosse possibile - quella che Jack Lang definisce “l'al-chimia di questo capolavoro”. Ossia quella che misteriosamente attraelo spettatore verso di esso e lo induce a considerarlo come qualcosa digià noto e nello stesso tempo come qualcosa di nuovo. Si può profetizzare una ulteriore longevità dell' Arlecchino? Sul pianodella rappresentazione, certamente: ma esso può senz'altro contare suun altro tipo di longevità, se è vero che “un atto teatrale d'arte, vita-le, compiuto” rimane, come voleva Strehler, “dentro al pubblico comeuna memoria sepolta e non perduta”.

È la maschera più nota dellaCommedia dell'Arte. Di probabileorigine francese (Herlequin oHallequin era il personaggio deldemone nella tradizione dellefavole francesi medievali), nelCinque-Seicento divenne masche-ra dei Comici dell'Arte, con ilruolo del "secondo Zani" (in berga-masco è il diminutivo di Giovanni)il servo furbo e sciocco, ladro,bugiardo e imbroglione, in peren-ne conflitto col padrone e costan-temente preoccupato di racimola-re il denaro per placare il suoinsaziabile appetito.Col passare del tempo il caratteredel personaggio andò raffinando-si: l'aspro dialetto bergamascolasciò il posto al dolce veneziano,l'originaria calzamaglia rattoppa-ta divenne un abito multicolore,ingentilirono gli originari linea-menti demoniaci della maschera

nera, così come la mimica e la gestualità.Nel corso del Settecento Arlecchino divenne oggetto di svariateinterpretazioni ad opera di diversi autori, fra cui Carlo Goldoni,che rivestì il personaggio di un carattere sempre più realistico. Gli interpreti che vestirono l'abito multicolore, furono TristanoMartinelli (m. 1630), Domenico Biancolelli (1646-1688), AngeloCostantini (1654-1729), Evaristo Gherardi (1663-1700) e ai nostrigiorni gli indimenticabili Marcello Moretti (1910-1962) eFerruccio Soleri.

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Foto R. Pellicanò - Catonateatro 1999

spettatore provi delle emozioni. Solo così è possibile otte-nere dei successi. In secondo luogo perché il mestiere del-l'attore è precario, se non hai una scrittura non guadagni.Ed allora il teatro bisogna amarlo veramente. Ci sono infat-ti tanti esempi di bravi attori che lavorano poco perché isoldi per il teatro sono pochi.Quali sono i suoi prossimi appuntamenti?Siamo appena tornati dalla bellissima esperienza ad HongKong con l'Arlecchino servitore dei due padroni, saremo aMilano fino a Natale e poi andremo in Cile, a Mosca, poi aPechino, e in Canada nel 2008.Farò anche degli stage sulla commedia dell'arte all'estero el'anno prossimo anche in Italia.Cosa, secondo lei, è cambiato nel teatro italiano dagliinizi della sua carriera, quindi negli anni '50 e '60?Il cambiamento del teatro, iniziato con Luchino Visconti econtinuato con Giorgio Strehler, ha influenzato tutto il tea-tro Europeo e non solo. Dopo Strehler si è un pò fermatoperché il pubblico è stato molto attratto dalle novità dellatecnica e della scienza, tanto che oggi si è più proiettativerso il cinema e la televisione. Di conseguenza il teatro èmeno prodotto e quindi più problematico. Raramente siriesce ad attirare i giovani: il Piccolo Teatro lo fa, ma ingenerale non è così. Un tempo la televisione mandava inonda due commedie a settimana, adesso ogni tanto una,ma di notte, quando nessuno può vederla. Invece il teatro è una cosa straordinaria. Perché centinaiadi persone vanno allo stadio per vedere e ascoltare i can-tanti, anche se soltanto da lontano, nella confusione,quando potrebbero sentirli a casa propria, con il propriostereo? Perché lì c'è la possibilità del contatto umano, ilcontatto fisico. E' questa l'importanza del teatro: il contat-to tra l'attore, cioè il palcoscenico, ed il pubblico.Ha ricevuto numerosi premi tra i quali l'Ambrogino d'oro(Milano), l'Arlecchino d'oro 2001 (Mantova), Mascherad'oro 2001 (Mosca), Medaglia d'oro 2005 (Roma), comebenemerito della Scuola, della Cultura e dell'Arte, Leoned'oro alla carriera alla Biennale Internazionale diVenezia 2006. La notorietà l'ha portata a delle rinunce?No, francamente no. Ho avuto la fortuna di essere noto con

la maschera e questo è un vantaggio. Non sempre con ilmio viso vengo riconosciuto. Adesso ci sono in giro tantefoto della mia persona... ma mantengo comunque la mialibertà.Fuori dal teatro ha degli hobby? Riesce a trovare deltempo per se stesso pur viaggiando tanto? Si! Ho l'Hobby del fai da te, anche se adesso non ho piùmolto tempo per questo. Leggo, colleziono navettine avela. Da poco mi sono appassionato al sudoku (risata...),facevo già da tanto le parole crociate. Riesco a riservarmidel tempo perché lavoro solo la sera, quindi circa quattroore al giorno.C'é un luogo in Italia che ama di più e dove vorrebbevivere?Mi piacerebbe vivere in Toscana, sul mare. Per esempio aSan Vincenzo, nella zona della Maremma che è bella e puli-ta...Conosce la Calabria ed in particolare Catonateatro?Catonateatro ha ospitato una rappresentazionedell'Arlecchino di Strehler nel 1999. Ricordo che tornavamoda Barcellona, dopo una tournée in Spagna.In Calabria ci sono stato tante volte, anche in vacanza, emi è piaciuta molto. L'unico problema è che è tanto lonta-na, in treno sono tantissime ore...

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vederlo saltare e fare le capriole sul palcoscenicopensi che deve esserci un segreto.Di solito, alla sua età, come minimo si combatte con

l'artrosi. Ed invece per Ferruccio Soleri, 78 anni a novem-bre, il tempo sembra sia scivolato leggero. Tanto stret-ching e un fisioterapista che ha studiato medicina cinese,dice lui. Intanto continua a portare in scena la mascheradi Arlecchino con lo stesso entusiasmo della prima volta:quel 1963 quando Strehler lo scelse per interpretarel'Arlecchino servitore di due padroni proprio per le suecapacità acrobatiche. Da 45 anni Soleri è l'Arlecchino piùfamoso del mondo, quasi da guinnes dei primati. Animastorica della maschera della Commedia dell'Arte piùamata e rappresentata, protagonista indiscusso dello spet-tacolo simbolo del Piccolo Teatro di Milano.

Una vita in maschera. Per portare il sorriso in tutto ilmondo. Forse è questo il segreto…Come nasce il suo amore per la maschera? Grazie all'in-contro con il Maestro Strehler?Nasce prima di tutto dall'amore per il teatro. Il mio incon-tro con la maschera di Arlecchino è avvenuto inAccademia, la “Silvio D'Amico” di Roma, dove studiavorecitazione, prima ancora di cono-scere Strehler. Un giorno il mio Maestro, OrazioCosta mi disse: “Soleri, tu sei unArlecchino!”, ed io risposi: “madottore, io sono fiorentino, nonsono mai stato a Venezia…”, anchese sapevo cos'era la maschera. Alsecondo anno, Costa mi fece inter-pretare l'Arlecchino in un'altradelle commedie di Goldoni: unruolo piccolo, non da protagonista.Mi aveva assicurato che sarebbevenuto Moretti a insegnarmi “comemuovermi”, mentre per la linguami aiutarono i miei compagni d'ac-cademia veneti. Moretti purtropponon è mai venuto perché era sem-pre impegnato con il Piccolo Teatroe allora “lo facemmo da noi”. Venne però alla prova gene-rale e ne rimase impressionato. Ne parlò a Strehler chepensò a me come sostituto di Moretti nella tournée ameri-cana del 1959-1960.Che ricordi ha degli anni trascorsi assieme a GiorgioStrehler? Devo tutto a lui, il mio Arlecchino l'ha costruito lui. Entrainella compagnia come sostituto di Moretti. C'era pocotempo per le prove ed io avevo delle difficoltà, ma Strehler

mi disse: “non si preoccupi, faccia come me”, così io cer-cai di copiare lui.All'inizio era molto difficile recitare con la maschera ed inun dialetto che non conoscevo bene. I primi due, tre annidi lavoro sono stati di formazione del personaggio. MaArlecchino ha una psicologia talmente semplice e infantileche non è stato necessario fare particolari ricerche. Dopoil primo periodo, dopo aver imparato ad usare la giustagestualità e la voce, era tutto fatto.Il personaggio Arlecchino è cambiato negli anni?L'impronta di Strehler è ancora viva?Non sono cambiate molte cose del personaggio, soltantodei particolari. Strehler continuava a stuzzicarmi dicendo:“Tu qui cosa faresti? Cosa faresti?”. Allora io improvvisavoe lui mi diceva “si o no”. Ormai saranno una ventina d'an-

ni che il personaggio non cambia: è così semplice e chiaroche non bisogna continuare a fare ricerca.Il personaggio di Arlecchino, nell'Arlecchino servitoredei due padroni, è ancora attuale? E' universale?No, se fosse ancora attuale morirebbe. E' un personaggiotalmente ingenuo! Anche se poi ha una grande capacitàintellettuale. E' furbo, astuto, ma solo nel momento del

bisogno. Riesce a fare tutto solo con lesue forze e oggi con le proprie forze èdifficile fare qualsiasi cosa, se non haidelle “spinte”... Oggi quindi nonpotrebbe sopravvivere.Credo che il segreto del suo fascino siaproprio questo: la sua semplicità.Arlecchino è sicuramente un personag-gio universale, la sua mimica è com-prensibile in tutto il mondo. Del restoabbiamo girato quasi tutto il globo,dall'America all' Africa, al Giappone, eovunque ha suscitato risate…Ha un sogno professionale che vorreb-be realizzare?Si, quello di continuare a farel'Arlecchino.Tiene in tutto il mondo stage sullaCommedia dell'Arte e sul Teatro,

punta quindi sulla formazione dei giovani artisti. Qualemessaggio vuole trasmettere ai giovani?Ai giovani dico attenzione! Per due motivi: in primo luogoperché il teatro è molto difficile e duro. C'è un grandeequivoco sul senso del personaggio che si riscontra tra gliattori: molti di loro credono di dover essere il personaggio,mentre invece è il pubblico che deve credere che tu lo sia.Si tenta spesso di comunicare i propri sentimenti mentreinvece bisogna costruire il personaggio in modo tale che lo

Ferruccio Soleri nasce a Firenze nel 1929. Studia recitazioneall'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica Silvio d'Amico diRoma. Fa il suo debutto teatrale da professionista nel 1957, alPiccolo Teatro di Milano, ne La favola del figlio cambiato di LuigiPirandello.Recita in opere di Lorca, Babel, Ibsen, Brecht, Schnitzler,Shakespeare, Goldoni, Molière, Marivaux, Gogol, Neruda, diret-to da importanti registi tra i quali Menegatti, Strehler, Chéreau,Huston, Squarzina, Guicciardini, Puggelli, Vitez, Langhoff.Nel 1963 debutta nel ruolo di protagonista in Arlecchino servito-re di due padroni di Goldoni, per la regia di Giorgio Strehler.

Prima di lui il ruolo era stato di Marcello Moretti, dal 1947 al 1961. Artista poliedrico, autore di testi, ha preso parte a film televisivi, firmato la regia di opere liriche e prosain Italia e Europa, insegnato in numerose scuole di teatro in varie parti del mondo.L'11 maggio di quest'anno, Ferruccio Soleri è nominato “Goodwill Ambassador” dal presidente dell'UNICEFItalia, Antonio Sclavi, “per sensibilizzare e coinvolgere l'opinione pubblica sui problemi dell'infanzia e del-l'adolescenza, testimoniando e promuovendo con il suo impegno nel mondo della cultura e dello spettacolo lasolidarietà e il sostegno alle iniziative dell'UNICEF”.

Un giorno il mio Maestro,Orazio Costa mi disse:“Soleri, tu sei unArlecchino!”, ed io rispo-si: “ma dottore, io sonofiorentino, non sono maistato a Venezia…”, anchese sapevo cos'era lamaschera.

Intervista esclusiva

Ferruccio Soleri, 50 anni di caprioledi Teresa Timpano

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le sue prime maschere in cuoio, dopo innumerevoli tenta-tivi. Erano maschere ancora pesanti e notevolmente rigide,ma erano costruite da una materia fondamentale: il cuoio.Pur non incorporandosi ancora con la pelle umana tuttaviaaderivano più dolcemente, erano consistenti ed abbastan-za lievi. La ga da esser come un guanto! diceva Amleto, mail guanto era ancora lontano da venire. La visione dellemaschere nello spazio cominciò a con-vincere gli attori e Marcello. La teoria,poi, di Sartori, circa l'Arlecchino chepuò avere la maschera tipo gatto, tipovolpe, tipo toro, interessò, infantilmen-te, Marcello che la volle da gato perchéel xe più agile!Come non intenerirsi nel ricordare que-sto gioco, sul filo del grande teatro, sulfilo della grande vita!Così Marcello si coprì per la prima voltacon la maschera bruna tipo gato per poipassare al tipo volpe, e per finire (con-quista!) ad un tipo fondamentale origi-nale, di zanni primitivo, addolcito natu-ralmente dalla cadenza stilistica delServitore di due padroni di Goldoni. E fu lui il primo per tutti a scoprire lamobilità della maschera. Scoprì che labocca, con la maschera, diventava assaipiù importante che a faccia nuda.Appena sottolineata da una riga bianca, la bocca che usci-va dalla parte inferiore del viso mascherato, mobile e viva,acquistava un valore espressivo incredibile. Scoprì da soloalcune inclinazioni espressive della maschera che io cata-logai e che segnarono un punto di partenza per un lavoroche poi indicai agli attori, con pazienza, nel tempo. Ormaila maschera l'aveva posseduto. Una sera Marcello, uomo

pudico, segreto e solitario, mi disse chegli pareva ormai di sentirsi nudo senzamaschera. Fu in quel momento cheMarcello conquistato dalla maschera siliberò da ogni impiccio e protetto da essa,si lasciò andare al personaggio. Dietro lamaschera di Marcello timido poté farrifluire tutta una vitalità, una fantasianon realistica ma ancorata tuttavia aduna sua interiore natura popolare, eseguire quel processo di riscoperta earricchimento che io stesso dal mio cantostavo facendo, sul problema della com-media dell'arte, rinata in mezzo a noi,quasi per miracolo. Sono convinto ancora oggi che Marcello sisentì finalmente libero da tanti impacci(complessi, vogliamo dire, oggi?) che lo

legavano anche nel suo lavoro di commediante soltantodietro al suo personaggio mascherato. Trovò la libertà nellacostrizione, la fantasia nello scherma più rigido e rappre-sentò così la parte più viva di sé. Lo ricordano i suoi com-pagni e il pubblico quel suo viso vero che emergeva, allafine dello spettacolo, dalla maschera? Era un viso estatico,pieno veramente di luce, un poco smarrito, appena appe-

na sorridente con un sorriso enigmatico. Lo si ritrova iden-tico, spaventosamente identico, in certe immagini di anti-chi comici dell'arte. E' un viso pulito, disponibile, un visotutto da fare.Il viso dell'attore....

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a conquista della maschera fu, per tutti e perMarcello, un cammino progressivo che si urtò controun numero impreciso di fatti: dalla mancanza di una

tradizione viva, quindi di una abitudine mentale e fisica,alla mancanza di tecnica, vera e propria, di strumenti ido-nei. Gli attori della prima edizione dell'Arlecchino, recita-rono con povere maschere di cartone e garza, a stratisovrapposti. Le costruimmo si può dire, con le nostre mani,giorno per giorno. Erano maschere infernali, scomode,dolorose. Le parti in rilievo penetravano ben presto nellacarne, la visibilità era relativa e distorta.Applicate com'erano strettamente al viso, con un sistemadi elastici primitivo, prive di flessibilità, le maschere nonpermettevano alle palpebre di muoversi. Le ciglia dell'at-tore urtavano contro i bordi e facevano lacrimare gli occhi,in un pianto perenne e segreto. Gli attori, ognuno perconto proprio, incominciarono allora ad imbottirle con

strani guanciali di ovatta, fissata all'interno con del cerot-to. Così la parte interna delle maschere assunse un aspet-to affatto poetico. Durante l'uso, poi, il sudore degli atto-ri penetrava nel cartone a poco a poco e scioglieva la com-pattezza della maschera. Alla fine dello spettacolo, tene-vamo tra le mani alcuni straccetti neri gocciolanti, che soloall'indomani riprendevano una certa forma e consistenza.Esisteva anche il dramma personale degli attori che con lamaschera non si sentivano. Per un fenomeno psichico l'at-tore con il viso coperto sentiva meno se stesso ed i compa-

gni. Inoltre gli sembrava di essere inespressivo; gli erastata tolta un'arma potente: il gioco facciale. L'attoredoveva ancora conquistare la mobilità della maschera.Doveva reinventare anche in questo una tradizione sepoltae che nessuno poteva più insegnarci. Marcello, in questaprima edizione dell'Arlecchino, finì per recitare la suaparte senza maschera. Aveva brutalmente risolto il proble-ma dipingendosi la maschera di nero sul viso. Era più como-do, soprattutto per lui, in eterno movimento, ma eraanche il sintomo più segreto della resistenza dell'attorealla maschera. La maschera è uno strumento misterioso,terribile. A me ha sempre dato e continua a dare un sensodi sgomento. Con la maschera, siamo alle soglie di unmistero teatrale, riaffiorano i demoni, i visi immutabili,immobili, estatici, che stanno alle radici del teatro. Ci siaccorse, ad esempio, ben presto, che l'attore, sulla scena,non può toccare la maschera, con un gesto consunto (mano

sulla fronte, dito sugli occhi, coprirsi il viso con le mani).Il gesto diventa assurdo, inumano, sbagliato. Per ritrovarela sua espressione l'attore deve indicare il gesto con lamano, non compierlo realisticamente sulla maschera. Lamaschera insomma non sopporta la concretezza del gestoreale.La maschera è rituale. ...Solo a poco a poco la maschera fu accetta.Grazie soprattutto ad Amleto Sartori ... Egli scolpì e costruì

di Giorgio Strehler, 1962

L'attore e la maschera

... Egli scolpì e costruì le sue prime mascherein cuoio, dopo innumerevoli tentativi. Eranomaschere ancora pesanti e notevolmente rigi-de, ma erano costruite da una materia fonda-mentale: il cuoio. Pur non incorporandosiancora con la pelle umana tuttaviaaderivano più dolcemente, erano con-sistenti ed abbastanza lievi.“La ga da esser come un guanto!”diceva Amleto

L

Marcello Moretti

Ferruccio Soleri

di Walter Manfrè

LA PRIMA VOLTACON GIORGIO STREHLER

ncontrai per la prima volta GiorgioStrehler nel 1994.Si era sparsa la voce che il mio

spettacolo “La Confessione” era statoun vero evento al debutto diTaormina e il Maestro, che sembravanon interessarsi al teatro degli altriconcentrato com'era sul proprio,aveva voluto che un suo amico-colla-boratore glielo raccontasse nei parti-colari. E così, alla fine del racconto, pareche egli pronunciasse la celebre frase“Eh, non è mica un coglione questoqui!”.“Questo qui”, naturalmente, ero io.Con tali parole di elogio Strelherdecise di ospitare “La Confessione”nella Stagione ufficiale del PiccoloTeatro di Milano, nell'ottobre 1994.Ora voglio dirvi che se è emozionanteper un Teatro ospitare ancora oggiuno spettacolo di Strelher, pensatequanto potesse esserlo per un registacome ero io allora, relativamentegiovane, che riusciva ad entrare nellacelebre Sala milanese di Via Rovello.Ospite di Strelher!Non so per quante notti non chiusiocchio.Fui costretto adandare a Milanonella prima-vera ante-c e d e n t e

al debutto per firmare il contratto ementre mi trovavo negli uffici del-l'amministrazione la segretaria orga-nizzativa del Piccolo mi disse che ilMaestro voleva vedermi.L'avrei trovato al Teatro Studioimmerso nelle prove de “I gigantidella montagna” e mi condusse lì.Tremavo per l'emozione.La Sala era buia ed i mostri sacri delnostro Teatro di quegli anni, TinoCarraro, Andrea Jonasson, FrancoGraziosi e gli altri stavano provando.Anzi no. Ci provavano.Dicevano le prime parole di una bat-tuta e subito una voce, dal fondodella sala, una voce possente, quasiroca, arrabbiata ma persuasiva, noninterrotta, stroncava quelle sillabe einiziava un commento lunghissimo.Pratico ma illuminante, quasi rozzoma poetico.“Pirandello, anche lui scriveva avolte, quel genio, le sue stronzate!”Così urlò ad un tratto.Rimasi paralizzato.Mi ricordai che qualche volta nel miopiccolo l'avevo pensato anch'io ma mi

ero subito vergognato di quelpensiero mai comunicato ad

alcuno.Mi inorgoglii per que-

sto.La sua chioma era

d'argento.Pa s s e g g i a v aurlando per laplatea ma il suourlo non impau-

riva nessuno.Era, capii,

il suomodo di

parlare etutti i “suoi”

erano abitua-ti ad ascol-tarlo.

Andava sue giù come

un leone in

gabbia e ad un tratto me lo trovaidavanti.Un sorriso gli si dipinse sul viso, unsorriso da bimbo affettuoso. Mi sorrise e mi strinse la mano conenergia ma senza smettere di urlareai suoi attori.Rimasi seduto nella poltrona di unadelle ultime file del teatro dove miero quasi nascosto per non disturba-re, con la vibrazione di quella stret-ta che non abbandonava il mio brac-cio.Continuò a lavorare senza fermarsiper ore.Spesso mi capitava vicinissimo, misorrideva aperto, tanto che ad untratto ebbi l'impressione che mi chie-desse “E' giusto quello che dico?”Avevo il pendolino che mi riportava aRoma, quella sera: era l'ultimo trenoe non potevo perderlo.Lui continuava a provare e la suaprova era ormai uno spettacolo, unafantastica esibizione.Non potevo interromperlo e così finì ilmio incontro con lui.Non riuscii a parlargli.Ad un tratto, mentre non mi guarda-va, mi alzai pian piano e mi defilai.Gli scrissi una lettera di scuse e lalasciai al portiere del teatro.Mi fece chiamare dalla segretaria laquale mi disse che il Maestro si scusa-va: aveva capito che io mi sarei fer-mato, quella sera, e che avrei assisti-to a tutta la prova.Quando “La Confessione” debuttò aMilano lui era a Parigi a provare“L'isola degli schiavi” e non potèessere con noi.Mi scrisse una lettera sulla nobiltà delmio teatro e sul coraggio che avevo afare “quel” teatro.Ne andai fiero per molto tempo fino aquando non scoprii che scriveva atutti. Credo che chiunque l'abbia conosciu-to anche per un solo istante abbiauna sua lettera, un suo pensiero scrit-to.Era il suo modo consueto di comuni-care.La fierezza si sgonfiò, un poco, perquesta assenza di esclusiva.Ma non il ricordo di quel sorriso,nel buio delle sue prove, al TeatroStudio.

I

19

Sovrintendente è il regista e giornalista televisivo Mario

Foglietti, mentre alla direzione generale c'è stato l'avvi-

cendamento tra Aldo Costa (che resta nella Fondazione

come consulente speciale per la formazione) e Marcello

Furriolo.

“Una squadra affiatata”, ha detto il sindaco Olivo, che

vuole rafforzare il ruolo del Politeama, lanciando nuove

sfide nel delicato settore della produzione artistica”.

Ma vediamo quali saranno gli spettacoli di punta del cartel-

lone nelle prime settimane del 2008.

Il 3-4 gennaio, di scena Tango su Historia: Miguel Angel

Zotto, considerato il miglior ballerino di tango del XX seco-

lo, presenta un grande musical che ripercorre 18 anni della

compagnia “Tango x 2” e la storia del tango.

Il 12 gennaio è previsto un altro appuntamento con la gran-

de danza: Laurent Hilaire e Manuel Legris: ovvero l'eccel-

lenza della danza al maschile. Questo in effetti incarnano

i due fuoriclasse parigini, 'pupilli' ed eredi di Rudolf

Nureyev, che, nel suo ruolo di

direttore artistico del Balletto

dell'Opéra di Parigi li scelse giova-

nissimi (nominando entrambi

etoìles, a soli ventidue anni)

come punte di diamante della

grande Maison e li lanciò nell'em-

pireo del balletto mondiale, tra-

mandando in loro il senso del

rigore e della consapevolezza di

ciò che significa essere un balleri-

no classico del nostro tempo e

facendo allo stesso tempo fiorire

in ciascuno di loro una personali-

tà inconfondibile, unica, da veri

fuoriclasse.

Il 19 gennaio toccherà al soprano americano Barbara

Hendricks, considerata una delle più grandi cantanti d'ope-

ra al mondo. La sua nuova produzione è un concerto dedi-

cato alla mitica “signora del blues” Billie Holiday.

Gennaio si chiude, nei giorni 26 e 27, con Masaniello di Tato

Russo, la storia del capo-popolo in un musical imponente.

Uno spettacolo ricco di immagini e di emozioni. Una pop-

opera che vede in scena oltre 50 persone tra attori e figu-

ranti. Un genere aperto, contemporaneo, orientabile.

Un occhio alla tradizione partenopea e un occhio a Lloyd

Webber senza dimenticare la cantabilità dei grandi temi

pucciniani, l'operetta, il café chantant, le contaminazioni

tra musica napoletana e jazz, i colori scurissimi del gospel.

Il 2 febbraio il meglio dell'opera di Cole Porter: brani rac-

colti in medley (nello stile delle parafrasi di Liszt), canta-

ti da Lorna Windsor e Mark Milhofer, accompagnati al pia-

noforte da Alessandro Lucchetti e sostenuti da un'orchestra

mozartiana diretta da Antonio Ballista.

Il programma si compone di ventisei capolavori suddivisi in

sei fantasie, tre delle quali dedicate ad altrettanti celebri

musicals: Anything Goes, Can Can e Kiss Me Kate. Le altre,

invece, concepite in modo da raccogliere tre tipologie di

riflessione sull'amore: l'amore ideale (sognato, vagheggiato

o dichiarato); l'amore tormentato (ossessivo, rievocato,

ostacolato o mercenario) e l'amore trasgressivo, in cui

ascoltiamo musichette scanzonate e brillanti accompagna-

re testi zeppi di allusioni ad una sessualità eccentrica e

sfrenata. Al centro della serata,

come conclusione della prima

parte, un brano unico nella pro-

duzione di Cole Porter: I happen

to like New York.

L'8 e 9 febbraio è la volta di uno

dei più interessanti comici ita-

liani, Vincenzo Salemme, impe-

gnato nel triplice ruolo di auto-

re, regista e interprete di una

commedia di straordinaria effi-

cacia.

E si continua, addirittura fino a

giugno, con altri appassionanti

spettacoli. Il cartellone è con-

sultabile on line sul sito ufficiale

della Fondazione Politeama, all'indirizzo www.politeama-

catanzaro.net, dove è anche possibile iscriversi alla mai-

ling per ricevere informazioni e notizie sull'attività del tea-

tro.

18

corgendo il cartellone del Politeama di

Catanzaro, il più giovane e forse il più ambizioso

teatro della Calabria, il titolo scelto dal

Sovrintendente Mario Foglietti per caratterizzare la sta-

gione appare tutt'altro che presuntuoso.

L'Oscar è quello consegnato lo scorso anno a Los Angeles

al più grande compositore italiano, Ennio Morricone,

che ha aperto il 21 ottobre la stagione del Politeama con

un concerto memorabile.

Le stelle sono i tanti

grandi artisti internazio-

nali che hanno accettato

di esibirsi in questo tea-

tro all'italiana, progetta-

to da Paolo Portoghesi,

capace di mille posti e

dotato di un palcoscenico

tra i più grandi d'Italia.

L'elenco delle star è signi-

ficativo: grandi voci come

Barbara Hendricks, Lorna

Windsor, Max Raabe,

Vincenzo La Scola, pianisti

come Kristian Zimermann

e Giovanni Allevi, virtuosi

del violino come Uto Ughi

e Salvatore Accardo, bal-

lerini come Miguel Angel

Zotto, Emanuel Legris e

Laurent Hilaire.

E, ancora, eventi internazionali come “Nebbia”, l'ultimo

lavoro dei canadesi del Cirque Eloize. E grandi firme

della prosa italiana, da Gabriele Lavia a Luca De Filippo,

da Vincenzo Salemme a Ferruccio Soleri.

Un grande sforzo organizzativo e finanziario per assicu-

rare al teatro del Capoluogo di Regione un cartellone

“degno di una metropoli”, come ha sottolineato Ennio

Morricone in apertura del suo concerto.

Il Politeama è retto da una Fondazione, costituita dal

Comune di Catanzaro (che è il proprietario del teatro),

dalla Regione Calabria e dalla Provincia di Catanzaro.

Il consiglio d'amministrazione è presieduto dal sindaco,

l'on. Rosario Olivo. Altri componenti sono il vicepresi-

dente Antonio Argirò, che è anche assessore alla cultu-

ra, il presidente della Provincia Michele Traversa, la rap-

presentante del Comune Giusy Mardente.

al Teatro Politeama di Catanzaro

S

Un programma degno di una

Metropoli

Masaniello - Il Musical

di Sergio Dragone

isura per misura, falsità per falsità,ragione per ragione o pazzia contropazzia?

E' una commedia dai grandi interrogativi,inconsueta e amara, di prepotente attuali-tà, tra egoismi e falsi pudori, eccessi e con-traddizioni, misura e dismisura, male divivere. Eppure, ieri come oggi, è possibileattribuire un senso nuovo a parole come giu-stizia, potere, dignità, morale. “Col giudizio con cui giudicate sarete giudi-cati e con la misura con la quale misuratesarete misurati”: è questo un imperativocategorico di obiettività e severa imposizio-ne etica, oltre che morale, come si leggenel passo del Vangelo secondo Matteo da cuil'espressione può essere stata ricavata.La commedia rappresenta la metafora delpotere, la sua degenerazione in corruzionee il ruolo, marginale e insignificante, attri-buito alla giustizia.Protagonista della vicenda è il Duca diVienna che, preoccupato della condottaimmorale dei suoi sudditi, affida tempora-neamente il governo della città all'irrepren-sibile Angelo, suo vicario, per vedere se saràin grado di far rispettare le leggi. Fingequindi di assentarsi e si traveste da frateminore per spiarne l'operato. “Il tuo fine èil mio stesso: applicare o mitigare le leggisempre secondo coscienza” aveva detto il

Duca, ma Angelo si rivela incapace di governare con equi-tà e giustizia, attaccato solo al dettato imperioso dellalegge, la Ragion di Stato, e travolto in seguito dalla stessapassione che dovrebbe punire. Condanna a morte Claudio,colpevole di aver reso gravida Giulietta, che lo ama, riama-ta, e con cui deve sposarsi; allora l'amico Lucio chiedeaiuto alla sorella di lui, la bella e virtuosa novizia Isabella,per ottenere da Angelo la grazia della vita per il fratello.La vista di Isabella suscita nel vicario desideri peccaminosi

nei suoi confronti e le promette la grazia implorata a pattoche lei gli si conceda. Interviene il Duca travestito dafrate, quasi deus ex machina della vicenda, che manovra lediverse situazioni e finisce per ristabilire l'ordine e la giu-stizia. Ma quale ordine? Quale giustizia? Angelo è lo strenuodifensore della legge, una legge crudele e ingiusta, ma pursempre una legge, che lui non ha scritto, deve solo farapplicare; eppure proprio lui infrange quella legge, violan-

L'applicazionedella legge secondocoscienza

“MIS

UR

A P

ER M

ISU

RA

”di Gabriella Gangemi

M dola con leggerezza ed evidenziando notevole ipocrisia.Angelo sfida Isabella dicendole che nessuno le crederebbese lei un giorno lo accusasse dell'ignominiosa proposta, per-ché il potere sa inquinare la verità, dipingendola in mododa farla sembrare diffamazione, calunnia, menzogna. Sfidae trionfo dell'ipocrisia! Il potente usa, in nome della giusti-zia, linguaggi e sistemi diversi nell'applicazione dellalegge, pur avendo già affermato, per la condanna diClaudio “se io, che ho condannato costui, compio poi lostesso reato, questa condanna a morte che ora pronunzio,resterà come base della mia e senza protezione a mio favo-re”. Ma così non accade perché proprio lui, assertore“integerrimo” dell'applicazione della legge, alla fine sitrova imputato della stessa colpa che aveva così duramen-te condannato e gli sarà reso tutto “misura per misura”.Chi dovrebbe garantire il rispetto delle norme morali sicomporta come un volgare peccatore, l'amore tra fratelloe sorella, inoltre, è inficiato da reciproci egoismi, il Ducastesso pare, a volte, incapace di esercitare il suo potere.Nessun personaggio è limpido, neppure la dolce Isabella;ogni identità, come ogni situazione, è dominata dall'incer-tezza. Il motivo dominante dell'Amleto, essere o apparire,fa eco alla trama di Misura per misura, proponendo il temadell'irrealtà della realtà, cioè della realtà come specchio,sogno e finzione, in cui tutto è altro da ciò che è. Tra falseidentità, simulazioni, dissimulazioni e travestimenti,Shakespeare evidenzia l'eterna propensione del potere amutarsi in violenza e sopraffazione. E' l'ipocrisia del pote-re. “Così potremo vedere se i buoni propositi li cambia ilpotere e quale sia l'essenza che si nasconde sotto l'appa-renza” afferma il Duca rivelando il motivo della sua repen-

tina partenza, perché non vuol sembrare quello che crededi non essere e di non essere quello che crede di sembra-re. In realtà egli vuole riappropriarsi di se stesso, conosce-re la propria interiorità, conoscersi a fondo e non soloattraverso il giudizio degli altri. Muovendosi tra prigione,vicoli e piazze, immerso in una variegata “fauna umana”,il Duca-frate, temporaneamente libero dal “giogo” delregno, può trovare la giusta risposta al senso della vita.“Che c'è dunque alla fine in questa cosa che noi chiamia-mo vita? Le mille morti che nasconde in sé e tuttavia noitemiamo quell'una che risolve tutte queste fratture”: cosìaveva detto a Claudio per indurlo ad accettare la “giustacondanna”, ma alla fine il Duca stesso è consapevole chela vita è l'unica possibilità concessa all'uomo di essere, purnelle molteplici contraddizioni della vita che costituisconoil suo essere uomo. E dunque il lieto fine. Al bene si risponde con il bene. Questa dovrebbe essere lamisura che regola tutte le cose. Ma non è così. Il concettodi giustizia, ieri come oggi, è molto relativo; reale è l'am-biguità della vita, evidenti l'apparenza e la verità di cose esituazioni.

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A.

Solla

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A.

Solla

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Foto A. Sollazzo

sa e gli attori ancora meno. A volte tu vedi l'attore che sispecchia nel pubblico, specula, invece il teatro deve riflet-tere il pubblico. Noi non pensiamo mai al significato delleparole come “riflettere”. Speculare è l'azione dell'uomo,della scimmia davanti allo specchio. Allora se noi siamo inscena e speculiamo facciamo una specie di esibizione, seinvece riflettiamo facciamo il teatro.Il teatro riflette, se no facciamo la rivista. Perché si chia-mava rivista? Infatti, si diceva “Eh, vieni avanti cretino!Ancora non è venuto!”.Il comico, l'imitatore, fanno la rivista, speculano. Il teatrono, riflette.Quando lavora all'allestimento dei suoi spettacoli, chemetodo usa per la costruzione dei personaggi?Tutti hanno un metodo, anche se molti non sanno di aver-lo. Metodo, come dice la parola stessa, è un cammino perandare verso la meta. Ma non c'è un metodo unico.In ogni attore c'è un metodo diverso perché ognuno è diver-so dall'altro. Ritengo che il mio metodo sia quello di cer-care di far comprendere ad ogni attore, che attore sia luistesso, e portarlo a conoscersi, a trovarsi, a penetrarsi.Questa è la cosa più difficile, perché il mestiere dell' atto-re è fatto di trascendenza...Noi, quando incarniamo un'altra persona, Amleto,Macbeth, Re Lear, in quel momento torniamo indietro etroviamo noi stessi. Se abbiamo difficoltà, se siamo tesi,contratti, vuol dire che c'è qualcosa che non funziona, che

non siamo noi, che non ci siamo trovati in quello che stia-mo facendo. E' sempre un salto in avanti, che torna indie-tro. In genere si dice entro nel personaggio, a parte che ilpersonaggio non significa nulla. Gli antichi chiamavanopersona quella che oggi i teatranti chiamano personaggio,per cui il personaggio è interprete della persona. Sono ilpersonaggio che mette addosso una maschera. Questosarebbe già qualcosa. Tornare al significato delle parolesarebbe già un passo avanti per il teatro di questo paese,ma purtroppo non c'è speranza perché il teatro è per ipercolti, ma viene praticato da persone che non hanno termi-nato la scuola dell'obbligo. Si fa tutto per sentito dire, equesta è una grave lacuna del teatro italiano, anche ad altilivelli. Dovrebbe esserci la conoscenza profonda di quelloche è il senso unico del teatro. Comunque ormai siamo quae dobbiamo fare il teatro.Come è nata la sua passione per il teatro?Una maledizione! Credo, si. Non lo so. Certi momentipenso che sarebbe stato meglio se non fosse nata. A que-st'ora stavo a Roma, mi sarei fatto una minestrina e sareiandato a letto a guardare la televisione.Avrebbe preferito essere qualcun altro? Diverso da lei?A volte si! Fare il teatro non è comodo, quindi, essendoscomodo, è come vivere sempre con un paio di pantalonitroppo stretti, con un golf che ti punge, un vestito che tida fastidio e che ti rovina la serata.

22

he cos'è il teatro per lei in questo momento?Per me è molto semplice: il teatro è la mia vita, lamia esistenza. Quindi, tutto quello che io sono lo

devo al teatro. E' il mio luogo, io sono nel teatro. Fuori dalteatro non sarei da nessuna parte, quindi, è il senso di mestesso. Soggiorno nel teatro. Il mio esseresoggiorna lì. E nello stesso tempo ci sta comea casa, ma spaesato, come se non lo ricono-scesse... angosciato...Non è un soggiorno tranquillo quello che unoha nel teatro. E' un soggiorno angosciato,perché è una geografia difficile. Uno starcidifficile. Il teatro è molto difficile. E lo èancora di più di quando ho cominciato o diquando ho cominciato a frequentarlo inmaniera assidua pensando che volevo fareteatro.Ci sono sempre due momenti: quello in cuiuno va a teatro perché gli piace andarci congli amici, gli piace la serata, guardare gliattori. Poi, c'è un secondo momento: è quan-do hai deciso che vuoi fare teatro, e allora civai in modo differente.E' come un pittore che va al museo a vederei quadri ma sa che anche lui appartiene allo stesso sinda-cato di Leonardo, di Michelangelo, di Raffaello, è iscrittoallo stesso ufficio di collocamento. Quando tu decidi difare teatro, in fondo ci sei già dentro ed allora è un andar-ci angoscioso, non più con l'occhio limpido. Ma c'è anche unterzo momento: quando ormai fai teatro e devi farlo per-ché è la tua vita, che ti travolge, ti trascina. Questo èancora peggio, perché è un andare al teatro con tutti queisentimenti tipici di chi fa teatro. Mi è capitato di andarcida poco, non erano spettacoli italiani e mi dicevo: “acci-denti guarda che bravi!. Che bella idea, perché non è venu-ta in mente a me?”. Quindi, a volte ci vai con invidia, avolte con rabbia, a volte con insofferenza. E' come per uncuoco che assaggia una pietanza: hai perso il gusto. Restasolo questa spaesatezza... di fare il teatro.Come nasce la scelta di un testo su cui creare un allesti-mento teatrale? Da un'ispirazione, da un desiderio?Ci sono tanti modi. A volte è nata anche girando su mestesso ad occhi chiusi, fermandomi con il dito puntato daqualche parte e seguendo l'indicazione del dito.

Le cose migliori sono venute così. Altre volte, quando cipenso troppo, mi viene male. Io so qual è la cosa giusta,ma ne faccio sempre una diversa. Per esempio: rispettoallo spettacolo che farò l'anno prossimo - che però non diròqual è - anche se ho già chiara quale potrebbe essere lascelta giusta, so anche che deciderò per quella sbagliata.Va così. Ci sono persone che si fanno del male ed io sono uno diquelle.Lei ha diretto decine di spettacoli, lirici, di prosa, ma c'ène qualcuno che ha amato di più, che le è rimasto nelcuore?Sono affezionato a tutti gli spettacoli, anche ai più brutti.Certo quelli che sono riusciti meglio li amo di più. Ancheperché non lo avverti alla fine che ti è venuto male, lo saiall'inizio, già dalle prime prove. Quando metti in piedi unascena, lo capisci subito dove stai andando, non è una sor-presa. Certo, ho fatto tanti spettacoli in cui mi sono resoconto che stavo coinvolgendo il pubblico in maniera molto

particolare, ma sono pochi: saranno sei, cinque… Non lo so,sette, otto... otto, ecco! Ma no, otto sono troppi! Ma ne hofatti ottanta, forse cento, tantissimi… Non lo so quanti neho fatti... Però gli altri magari erano belli. Hanno avutosuccesso, ma non hanno avuto quella cosa che... Qualcunoè stato pure recente come l'Avaro o Memorie dal sottosuo-lo, che ho fatto l'anno scorso e che riprenderò. Questihanno avuto successo al di là del successo. Ti accorgevi cheandavi a toccare cose che il pubblico aveva dentro e chenon aveva risolto.A volte agguanti un momento che ha a che vedere con lastoria del mondo, lo agguanti, ma quasi sempre ti sfugge... Possiamo fare una rappresentazione autentica o non auten-tica, ma in qualunque caso, lassù, sul palco, arriva sempre,comunque, un'immagine del mondo. Noi non lo sappiamo,ma diamo un'immagine del mondo distorta, assurda, sba-gliata. Anche se non lo si vuole è così. Il teatro è questo, èlo specchio del mondo. Shakespeare era un filosofo quan-do diceva “Il teatro è lo specchio della vita” ed intendevalo specchio del mondo. E' così anche se il pubblico non lo

Chi esce di scena e dice diessere stato bravo, sicuramen-te è un cane! Non si sa quanto,ma sicuramente cane.Non può esistere un attore,un teatrante che dice “Stasera l'ho fatta veramente bene!.No, no. E' un pezzente. Se c'è, è negato, non sa di checosa parla. Però ne conoscomolti. Beato te che non capisci niente!

Intervista esclusiva

Gabriele Lavia:Il Teatro, la miamaledizionedi Teresa Timpano

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A.

Solla

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Gabriele Lavia e Teresa Timpano

Quindi è costantemente un incontro-scontro ?Lo è sempre, perché il teatro è più forte di te! Pigli sem-pre le botte. Non c'è mai una sera in cui, dopo aver finito,

ti dici di essere stato bravo.Chi esce di scena e dice di essere stato bravo, sicuramen-te è un cane! Non si sa quanto, ma sicuramente cane.Non può esistere un attore, un teatrante che dice “Staseral'ho fatta veramente bene!No, no. E' un pezzente. Se c'è, è negato, non sa di che cosaparla. Però ne conosco molti. Beato te che non capisciniente!Com'è arrivato a Misura per Misura?Lo volevo fare da molto tempo, da diversi anni.Inizialmente avrei dovuto produrlo con Glauco Mauri, lui

avrebbe fatto il duca e ioLucio o un altro perso-naggio.Però è uno spettacolooneroso, dal punto divista della produzione,scenografia e gestione.Tanti attori e Glauco,alla fine, non se l'è senti-ta di affrontare unaspesa, giustamente, cosìelevata.Ho lavorato sulla riduzio-ne della riduzione del

testo e comunque ne è venuta fuori una struttura compli-cata. É stata una grossa impresa, molto dura, che forsesarebbe stato meglio non fare, anzi, certamente. Non per

l'esito, perché lo spettacolo va benissimo, ma per la gestio-ne. Spettacoli come questo non ce ne saranno mai più. Nonvoglio dire bello o brutto. In questo paese non si possonofare simili imprese produttive perché sono in perdita. Lagente non capisce.A Siracusa ancora però sono permesse le grandi imprese.Lei che ha curato la regia di Edipo Re, ha trovato l'espe-rienza interessante?E' stata una bella esperienza anche se il rumore della cittàè troppo forte e tutte le compagnie ormai recitano con ilmicrofono. Io lì ho fatto senza e strillavo come un'aquila.

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Non è giusto, non si può fare così. Continueranno a farlo,ma non fanno il teatro, fanno un'altra cosa.Il teatro è una produzione, se diventa una riproduzione nonva bene. Il suono va prodotto non riprodotto. Purtroppo vacosì.Se vogliono fare il teatro come si deve devono bloccare lavita di Siracusa. Se fossimo in un paese normale la blocche-rebbero, ma siccome non siamo in un paese normale, que-sto non accade. Noi viviamo ormai nell'anormalità che è lanostra norma. Francamente andare lì e mettersi un micro-fono come nei musical mi sembra assurdo. Io appena vedoun attore con un microfonino mi viene da vomitare!E' un luogo incredibile, se però non ci fosse il rombo dellemacchine, dei motorini.Anche lì del resto c'è il grande talento dell' amministrato-re pubblico che ci mette del suo.E' la prima volta che viene a Reggio Calabria anche se la

sua compagnia era stata a Catonateatro con la BisbeticaDomata. Come ha trovato la città?Qui a Reggio Calabria il teatro è bellissimo e poi la gente èaffabile. Ieri stavo sul Lungomare, leggevo i graffiti dei gio-vani e ho pensato che questa città è piena d'amore.Bisognerebbe dare il potere agli imbrattatori dei muri “tiamo da morire, non posso stare senza di te, sei il mio unicogrande amore”. Queste scritte sono milioni... quantoamore in Calabria…Perché poi, invece, c'è tanto odio, tanta violenza, anchequi. Forse bisognerebbe togliere il potere a chi ce l'ha e

darlo agli imbrattatori dei muri… Hanno più talento poetico...Si sente un uomo libero? Riesce ad avere una vita al difuori del teatro?No, purtroppo no, non sono libero. Il teatro è una prigione.E' un'angoscia, nel senso etimologico della parola. Stretta.Angoscia vuol dire angustia. E' un luogo angusto. E' troppodifficile. E' inutile, non è utilizzabile, non serve. Non è maiun oggetto, è solo un soggetto. Cos'è il teatro? Se il teatrofosse solo quando diventa spettacolo, allora sarebbe forsequalcosa. Si deve stare vicino al teatro. E' grandissimo, pic-colissimo, angusto.I ragazzi, gli attori giovani, vivono senza capirlo. Chissà selo capiranno mai. Ancora sono giovani, sono pieni. Vivonoproblemi non autentici, perché giustamente vogliono fare“le parti”.Un grande maestro che si chiamava Gianni Santucci midiceva sempre: “fratello la battaglia è un'altra”. Allora non

lo capivo. Adesso si. Abbiamo una grande fortuna però: lagente non capisce nulla. Sono stati tutti rovinati dalla tele-visione. Quindi siamo a cavallo. Oggi ci sono attori peggio-ri di un tempo perché la televisione ha tolto la capacità didistinguere un attore da non so bene cosa. Si vedono ormaidi frequente questi che fanno le fiction.'Sti poveri disgraziati, che non si sa bene che siano…

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Qui a Reggio Calabria il teatro è bellissimo e poila gente è affabile. Ieri stavo sul Lungomare,leggevo i graffiti dei giovani e ho pensato chequesta città è piena d'amore. Bisognerebbe dareil potere agli imbrattatori dei muri “ti amo damorire, non posso stare senza di te, sei il miounico grande amore”. Queste scritte sono milio-ni... quanto amore in Calabria…

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crittore dal genio sconfinato e sconvolgente,William Shakespeare è uno dei massimi inter-preti dei nostri dubbi, delle nostre angosce, dei

nostri tormenti, delle nostre lacerazioni esistenziali.Amleto è il personaggio più emblematico di quellache, in un illuminante convegno internazionale tenu-tosi a Taormina, è stata definita “la nostalgiadell'essere”. Il celebre Principe diDanimarca è infatti la figura artisticapiù attuale, più universale e piùmoderna della letteratura mon-diale. In questo personaggio,più che in qualsiasi altro, sirispecchiano e si identifi-cano il secolo presente equello appena trascorso,perché Amleto è da unaparte un eroe negati-vo, un eroe del pensie-ro più che dell'azione,un navigante nel gur-gite vasto, direbbeVirgilio, delle incer-tezze, del le tem-peste dell'animo edell'umana solitudine;dall'altra è un lucido eossessionato ragionato-re, un dantesco Ulisseche cerca la verità, unessere condannato arimettere utopisticamentein sesto un mondo dissestato.La sua solitudine, chiusa den-tro una parvenza di follia, la sua“anormalità” di uomo morale afronte della “normalità” di uominiimmorali, è la più vicina a quella dei per-sonaggi di Pirandello. Il suo ragionare in antitesicon il suo agire, il mettere in discussione ogni pre-sunta verità tradizionale è la riprova del capovolgi-mento delle gerarchie etiche, della frattura di quelcerchio perfetto che era il nostro mondo prima cheGalilei vanificasse la scienza tolemaica.Per questo Amleto è personaggio affascinante, inde-finibile, conflittuale, non meno ambiguo dellaGioconda di Leonardo il cui misterioso sorriso si pre-

sta a mille interpretazioni. In Amleto, così come intutto il teatro shakespeariano, ci sono tutte le incon-sce illusioni, le accese passioni della storia; ci sonole discrasie, le aporie e i rimandi riscontrabili nellealtre tragedie: coesistenza di maschere e di volti,doppie verità, spiazzamenti di ruoli, scissioni etiche,

grovigli di inestricabili sentimenti, realtà dellafinzione e finzione della realtà, sdoppia-

menti e dissoluzioni, metafore esimbolizzazioni della precarietà

della fortuna. Sono questi imiti e le controfigure dei

miti che si muovono all'in-terno di questo e deglialtri drammi, dove spessoalcuni sono condannati arecitare la parte di re,altri quella di servi,altri ancora quella diguerrieri.Leggere una trage-dia di Shakespeare,o vederla recitare -secondo TerenceHawkes (UniversityCollege di Cardiff) -significa ripercorre inse stessi il processo

originale della creazio-ne, ripetere l'atto men-

tale dello scrittore, rivi-vere il percorso genetico.

In Amleto, secondo lo psica-nalista Fornari, il dramma

deriverebbe dal conflitto tra lascena manifesta della coscienza e

la scena occulta dell'inconscio e delsogno. La meta teatralità dell'opera,

infatti, consiste nella messinscena di eventi este-riori e delle loro risonanze interiori. Amleto, peresempio, si propone ora come personaggio, ora comeattore, ora come regista, ora come critico di vicen-de che fanno da spie, rivelatrici della sua e dell'al-trui psiche.

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opo il grande successo di “Notre Dame de Paris”,Riccardo Cocciante regala un nuovo grande progettonella rielaborazione musicale della tragedia di

Giulietta e Romeo, la cui storia originale, ispirata dalla let-teratura italiana, è stata portata alla fama da WilliamShakespeare.“Un'opera popolare più che rock - la definisce il composi-tore - con tutta la migliore musicalità lirica italiana”. Eproprio per questo, anche nelle rappresentazioni che siterranno in giro per il mondo, resterà sempre cantata initaliano, quale omaggio alla nostra cultura. La tragedia del grande drammaturgo inglese è rivisitata inmodo spettacolare, ma non spingendosi fino al punto dafarla diventare un musical, genere fin troppo alla moda diquesti tempi.Gli attori, infatti, fanno di più che ballare e cantare,durante l'evoluzione della storia. Potremmo dire, più pro-priamente, che recitano secondo le melodie e i passi dei

loro personaggi, in accordo con le musiche composte daCocciante, e i versi scritti dall'altro autore dello spettaco-lo, Pasquale Panella.La direzione musicale è di Rick Wentworth, che nella suacarriera ha collaborato, tra gli altri, con i Pink Floyd, PaulMcCartney e Roger Wtares.“Ho voluto fondere la tradizione classica della grandeorchestra e della vocalità impostata e non microfonata - haspiegato Cocciante - alle potenzialità espressive della tec-nologia”.Il risultato è un coinvolgimento totale dello spettatorenella trama dell'opera, con attori che interrogano diretta-mente e più volte il pubblico denunciando il “non-senso”dell'odio, tanto profondo quanto irragionevole, tra le duefamiglie dei Montecchi e dei Capuleti di Verona.Lo spettatore viene colpito sin dai primi istanti dall'etàdegli attori protagonisti, tutti molto giovani ma assoluta-mente virtuosi. Il cast dell'opera è stato infatti scelto tra oltre 1.250 gio-

vani provenienti sia dall'Italia che dall'estero. La ricerca,iniziata nei primi mesi del 2006, aveva come obiettivoquello di riuscire a rappresentare l'opera con artisti dellastessa età tramandata dalla tradizione legata alla vicendadi Giulietta e Romeo. Ci troviamo così di fronte ad unaGiulietta, a un Romeo, a un Benvolio, ad un Mercuzio pocopiù che quindicenni, e questo alle prime battute può diso-rientare. Quando però l'opera entra nel vivo, ci si appassio-na ancora di più perché ci si rende conto che davvero,nelle vicende raccontate della tragedia, i sentimenti e glistruggimenti che vengono rappresentati sono stati vissutida ragazzi così giovani.Si soffre, insomma, partecipando alle avventure e disav-venture dei protagonisti, lungo le linee della narrazionedel classico shakespeariano, ma allo stesso tempo si è feli-ci di poter vedere sul palco un cast fresco e di così grandetalento. Non si può non riflettere sul fatto che questa èl'Italia che vorremmo che emergesse sempre di più, fattadi opportunità per chi ha coraggio e capacità di mettersi ingioco, come questi ragazzi selezionati da Cocciante. Hannolavorato sodo per lunghi mesi, ed insieme si sono prepara-ti con serietà fino a raggiungere quell'affiatamento neces-sario a calcare una scena così impegnativa; adesso costitui-scono una compagnia sicura e, di sera in sera, si alternanosul palcoscenico in cast assolutamente equilibrati ed inter-cambiabili.La naturalezza e la vivacità degli attori, la bellezza dellescenografie virtuali, realizzate mediante grafica compute-rizzata e quindi capaci di mutare completamente al varia-re delle scene, la forza delle musiche, appassionanti comeormai Cocciante ci ha abituati da tempo: tutto concorre arendere questo spettacolo un'esperienza da non perdere euna buona notizia nel panorama artistico nazionale. Il finale dell'opera, pur restando fedele nella sostanza allatragedia originale, ha una piccola variante nella sorte diGiulietta… Vedere per credere…

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Drammaturgo dellaContemporaneitàdi Salvatore Di Fazio

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... “Tu, disperato pilota, frangi orafra gli scogli la mia barca già stancae squassata per tante tempeste!A te accanto, mio amore...... con questo bacioio muoio!” William Shakespeare

GIULIETTA E ROMEOLa nuova Operapopolaredi Cocciante

Giulietta e Romeo si avvale di un importante gruppo di produzio-ne artistica, impegnato fin dalla primavera del 2006. La regia èdi Sergio Carrubba, umbro ma francese d'adozione, già nellamusica in produzioni per Zucchero, Proietti ed Avion Travel. Haanche coordinato la regia visiva delle immagini, la cui direzioneartistica è di Paola Ciucci. Pasquale Mari, napoletano, con espe-rienza tra cinema e teatro, portando la sua innovazione applica-ta alla luce per cercare di creare atmosfere suggestive, gestiscemacchine d'illuminazione ed un parco luci all'avanguardia. Lascenografia è affidata al talento di Daniele Spisa, emiliano d'ori-gine ma toscano d'adozione, che in questa opera ha realizzato unintarsio di complessi sipari in movimento. Narciso Medina Favier, coreografo cubano conosciuto a livellointernazionale, ha lavorato ad una coreografia d'insieme facendointeragire nei movimenti ballerini e cantanti. I costumi sonoopera di Gabriella Pescucci, Premio Oscar con “L'Etàdell'Innocenza” di Martin Scorsese nel 1992. L’imponente produzione prevede 215 persone tra artisti e perso-nale tecnico alla produzione, 15 TIR, 40x16 metri le dimensionidel palco, 140 proiettori luci motorizzati, 120 mq. di ponti mobi-li, 90 costumi diversi, 80 paia di scarpe. Il cast dell'opera è stato scelto tra oltre 1250 artisti provenientisia dall'Italia che dall'estero

di Guido Fraietta

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el 2008 si celebra il cento-cinquantesimo anniversa-rio della nascita di

Giacomo Puccini. Tutta l'Italia sitrasformerà in un grande palco-scenico per ospitare appunta-menti musicali e culturali dedi-cati al celebre musicista.Attività coordinate dall'opera delComitato Nazionale CelebrazioniPucciniane, nato nel 2004 perdecreto del Ministero per i Beni ele Attività Culturali.

Nato a Lucca nel 1858 da una famiglia dimusicisti, Giacomo Puccini frequentò ilconservatorio di Milano dal 1880 al 1883sotto la guida d'Amilcare Ponchielli.Nella città lombarda ottenne la fama di "sinfonista" perl'ispirazione wagneriana delle proprie composizioni, secon-do la moda diffusa tra i giovani dell'epoca, ed ebbe modo,grazie all'attività del Teatro alla Scala e delle edizioni

musicali Ricordi, d'intraprendere la carriera di operista. Leprime due opere, "Le Willis" (1884) e "Edgar" (1889), sulibretto di Franco Fontana, non ebbero particolare fortuna."Le Willis", rivista dopo una prima rappresentazione al tea-tro Dal Verme di Milano, fu acquistata da Ricordi e messain scena alla Scala nel 1885 in due atti con il titolo "LeVilli"; "Edgar", invece, venne ritirata. Il capolavoro arrivò alla terza opera, "Manon Lescaut"(1893), in cui i caratteri essenziali della composizione diPuccini, che fondeva intensità lirica ed emotiva con unaricca orchestrazione, erano già chiari. In questi anni, ilcompositore spostò la propria residenza a Torre del Lago ediniziò a collaborare con Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, ilibrettisti che interpretarono con maggior finezza la suasensibilità. Nel 1896 "La Bohème", opera di taglio verista,con personaggi tratti dalla realtà quotidiana, lontani dal-l'eroismo, fu presentata al Teatro Regio di Torino con ladirezione d'Arturo Toscanini ed aprì a Puccini la strada perla notorietà in Europa. Nel 1900, con "Tosca", il composito-re sperimentò il dramma verista a tinte fosche, con sceneviolente e ritmo sostenuto, mentre nel 1904 con "MadamaButterfly" - ancora su libretto di Giuseppe Giacosa - tornòal personaggio della fanciulla innamorata ed infelice,destinata ad una triste sorte per la propria ingenuità, nel-l'ambientazione esotica del Giappone. La prima scaligera

fu fischiata, ma la successiva rappresen-tazione a Brescia segnò il trionfo delcompositore. Con "La fanciulla delWest", rappresentata a New York nel1910, la cui ambientazione americanadeterminò la scelta di ritmi sperimenta-li, Puccini raggiunse l'apice della propriafama internazionale. Seguirono l'operet-ta "La rondine" e gli atti unici "Il tabar-ro", "Suor Angelica", "Gianni Schicchi",raccolti sotto il titolo di "Trittico" nel1918. Negli ultimi anni di vita, il compo-sitore si dedicò alla "Turandot", rimastaincompiuta per la morte sopraggiuntanel 1924 a causa di un tumore alla gola,e, in seguito, terminata da FrancoAlfano sulla base degli appunti diPuccini. La prima rappresentazione del-

l'opera d'ambientazione cinese tratta dall'omonima fiaba diCarlo Gozzi, che segnava il rinnovamento del linguaggiopucciniano, ebbe luogo a Milano nel 1926.

GIACOMO PUCCINIUn verista a tinte fosche

N Sulle rive delDanubio

di Lucia FedericoMario De Carlo, regista, sce-nografo e costumista, fa partedi quella vasta schiera di reg-gini, come tanti meridionali ingenere, che un giorno, più omeno lontano, hanno lasciatola propria casa, la propriacittà, per cercare altrovemigliori opportunità per ilfuturo. Una città del nord ol'estero le mete prescelte perrealizzare un progetto di vita.A volte anche per provare aconquistare un sogno.

L’Europadell’Est accogliei progetti artistici diMario De Carlo“nemo prophetain patria”

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periodo, secondo solo alla triade Pavarotti-Domingo-Carreras. Ha fatto parte di alcune fra le più memorabiliproduzioni operistiche dell'epoca, calcando i palcoscenicipiù prestigiosi, dal Covent Garden al Liceu allo Staadtoper.

Per anni è stato il primo solista dell'Opera di Vienna e haavuto come partners femminili le più grandi voci delmomento.Anche io ho assistito da spettatore a una sua Fanciulla delWest, negli anni '80, a Roma dove allora frequentavol'Università.Da quando si è insediato, il maestro Murgu si è impegnatoa risollevare le sorti della scena lirica della sua città, nontanto ampliandone il tradizionale repertorio, quanto ripro-ponendo i grandi titoli in allestimenti nuovi, in modo darinnovare l'interesse del pubblico. Anche ospitando grandinomi, ad esempio Leo Nucci, che lì ha cantato Rigoletto.Verso la fine del 2005, sul tavolo del General Manager èarrivato un portfolio contenente il mio curriculum e alcu-ne foto di miei precedenti spettacoli, recapitato quasi percaso da una signora rumena amica mia, che si occupa aMilano di problematiche legate al sociale, quindi totalmen-te estranea al mondo dello spettacolo. Il Maestro ha dimo-strato immediato interesse per il mio lavoro e mi ha con-tattato. Aveva in animo una nuova produzione de “LaBohème” di Puccini per l'aprile del 2007 e così… mi ha com-missionato l'intero progetto. Lo spettacolo è stato un gran-de successo, tanto che mi è stato affidato anche l'allesti-mento della Madama Butterfly, andata in scena a fineottobre.Come è andata? Il tempo a disposizione non era molto.

ario De Carlo, impegnato soprattutto nel teatro d'ope-ra, lo troviamo nella sua casa di Milano, di ritorno daun impegno e in partenza verso un altro.

La ringraziamo per questa intervista…Al contrario, sono io che ringrazio voi. Pur vivendo a Milano da piùdi vent'anni sono e resto un reggino. Le mie radici sono lì, sulloStretto.Eppure viaggia e ha successo per il mondo!Si è vero. Torno adesso da Timisoara, in Romania, città che ricordia-mo soprattutto perché lì è nata la prima scintilla che ha portato alcrollo del regime di Ceausescu. Una città molto bella, sotto l'ImperoAustro-Ungarico la chiamavano “la piccola Vienna”. Tuttora conser-va edifici splendidi, molti dei quali, purtroppo, bisognosi di recupe-ro. Devo dire che, da quando vi sono stato la prima volta, un annoe mezzo fa, noto un progressivo fermento di rinascita sia nei lavoripubblici che nell'iniziativa privata.Ci racconti la sua esperienza artistica in Romania.So che suona strano, in un mondo del teatro come il nostro, viziatoda logiche di agenzia e interessi “di altra natura”, non artistica, maquel che dico è la pura verità. Premetto che a Timisoara c'è un tea-tro molto bello e ricco di tradizioni, l'Opera Nazionale, probabil-mente il più importante della Romania dopo quello della capitaleBucarest. L'istituzione è analoga ai nostri Enti Lirici Italiani, cioè hala possibilità di produrre autonomamente nuovi allestimenti, dispo-nendo al suo interno di tutti le strutture e gli atelier necessari: fale-gnameria, meccanica, pittura, sartorie, calzoleria e quanto occorrealla realizzazione di uno spettacolo. Al vertice di questa strutturac'è una sola figura, il general manager. Da qualche anno è CorneliuMurgu a ricoprire questa carica. Chi seguiva l'opera negli anni '80 e'90 lo ricorderà quale tenore di rilievo nel panorama lirico di quel

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Madame ButterflyTragedia giapponese in tre atti, libretto di Luigi Illica eGiuseppe Giacosa tratto dal racconto Madame Butterfly(1898) di John Luther Long e dalla tragedia giapponeseomonima (1900) dello stesso Long e di David Belasco.

Prima rappresentazione:Milano, Teatro alla Scala, 17 febbraio 1904

PERSONAGGICio-Cio-San (soprano), detta Madama ButterflySuzuki (mezzosoprano), sua camerieraPinkerton (tenore), tenente della Marina degli Stati UnitiKate (mezzosoprano), moglie di PinkertonSharpless (baritono), console degli Stati Uniti a NagasakiGoro (tenore), sensaleIl principe Yamadori (tenore)Lo Zio Bonzo (basso)Yakusidé (baritono)

Bozzetto costume scenico Goro

Bozzetto scenico Mario De Carlo

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Si, ho dovuto procedere “a marce forzate”. Stendere l'in-tero progetto, volare a Bucarest per scegliere le sete per icostumi. Le ho trovate da uno straordinario importatore ditessuti dall'Oriente, che ha materiali da mille e una notte.Poi ho trascorso alcune settimane a Timi_oara, a interval-li, per seguire i lavori dei vari laboratori impegnati nellarealizzazione dei miei bozzetti,per le scenografie e i costumi.Alla fine, la Prima, il 27 ottobrescorso.Il pubblico ha risposto in modoentusiasta. Un nuovo successo gra-zie anche, va detto, alla bravura dellacompagnia di canto: tutti professionistidi prim'ordine e artisti sensibili, chemeriterebbero più spazio e più attenzionepresso i teatri occidentali. Subito dopo, aconferma del gradimento del lavoro svol-to, è arrivata l'offerta del Teatro dicurare l'allestimento del Barbieredi Siviglia di Rossini, cheandrà in scena adaprile del 2008.Inoltre, a maggio,in occasione del-l'anniversariodei 150 annidella nascita diG i a c o m oP u c c i n i ,l ' O p e r aNazionale diT i m i s o a r aorganizza unfestival dedi-cato al nostro

genio lucchese: in cartellone sono previste anche le ripre-se delle mie Bohème e Butterfly.Un calendario denso di impegni. E in Italia?A fine novembre, al Teatro Verdi di Terni, ho messo inscena “La Traviata”, nell'ambito della rassegnaAnfiteatrolirico. Anche qui ho firmato la regia, le scene e i

costumi, con un progetto nuovo e originale. A Terni èstato un ritorno, dopo i consensi con Tosca nel

2005 e con Carmen nel 2006. Sono molto con-tento, perché l'essere riconfermati da unadirezione artistica per un impegno successivo

è la migliore prova del successo ottenuto.E a Reggio?

NullaProprio nulla?

Fra le tante soddisfazioni dellamia carriera c'è un unico

cruccio: essere tenuto lon-tano dal palcoscenicode l Teatro Comunale

Francesco Cilea, il luogo incui ho mosso i primi passi nello spettacolo

operistico, come comparsa in un Trovatoredi tanti anni fa. Mi dispiacerebbe doverammettere che, forse, il motto “Nemo pro-pheta in patria” è proprio vero. Spero, inve-ce, di riuscire a smentirlo in un futuro pros-simo, tornando a operare nella città cheporto nel cuore. A proposito, che ne direb-be di far irrompere la lirica nei prossimi car-telloni di Catonateatro? Perché non arricchi-re ulteriormente un festival, già così brillan-te, con un fiore prezioso come l'opera?

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Bozzetto Kate Pinkerton

Bozzetto Yamadori

BozzettoButterfly sposa

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Babilonia, L'Ebreo di Apolloni, Torvaldo e Dorliska diRossini, Crispino e la comare, Ecuba di Manfroce, Caterinadi Guisa, e l'Arlesiana di Cilea, frutto della collaborazionecon il Teatro Rendano. Recentemente ha partecipato alFestival di Leoncavallo - Montalto Uffugo con I Pagliacci alBarbiere di Siviglia andato in scena al Teatro VittorioEmanuele di Messina, diretto da Vito Clemente, con laregia di Giorgio Pressburger. E sempre al Vittorio Emanueleprenderà parte, a giugno 2008, al Ballo in Maschera diGiuseppe Verdi. L'Orchestra del Teatro Comunale è composta in massimaparte da musicisti reggini e calabresi che hanno maturatoesperienze in prestigiose orchestre nazionali, effettuandoattività concertistica nel campo sinfonico e operistico inimportanti teatri d'opera e sale da concerto, sotto la dire-zione di maestri di fama internazionale. Un esempio è il

primo violino, il reggino Pasquale Faucitano, che di recen-te è stato impegnato con l'orchestra del Teatro di Parmanel Requiem diretto da Riccardo Muti.Costituita nel 2003, da poco tempo trasformata in coope-rativa, l'Orchestra opera con l'obiettivo di portare fuori dalterritorio reggino quel tassello importante di cultura cheviene costituito e sviluppato nel Teatro, contribuendo inmaniera efficace alla formazione di quel fermento cultura-le che si respira nell'Area dello Stretto e nell'intera RegioneCalabria.Energia, volontà, professionalità, attento studio e profon-do impegno sono gli ingredienti per la produzione di even-

ti musicali di elevata qualità.In questi anni l'Orchestra è diventata una delle istituzionimusicali più promettenti del Sud d'Italia, e sono tante lerichieste di partecipazione ad eventi e concerti lirico-sin-fonici in giro per l'Italia.Nicola Luisotti, Julian Kovatchev, Daniel Oren, RiccardoFrizza, Carlo Palleschi, Carlo Montanaro, Bradshaw, iMaestri che l'hanno diretta, e tra i solisti spiccano i nomidi Leo Nucci, Giuseppe Filianoti, Nino Surguladze, SimonTrpceski, Sergej Krilov, Josè Curà.Ha preso parte all'allestimento di opere liriche comeFedora, La Traviata, Il Barbiere di Siviglia, Nabucco, Aida,Un ballo in Maschera, Fedora, l'Arlesiana, Tosca diretta dalM° Daniel Oren.Sono inoltre da ricordare i balletti in prima rappresentazio-ne assoluta Nozze di sangue e La Primavera Romana della

Signora Stone, con Carla Fracci.Da menzionare anche l'esibizione, del 10 agosto 2007 con ilcantante Lucio Dalla, nella magica atmosfera della Valledei Templi di Agrigento, in occasione dell'evento “Nottedelle Stelle”.L'Orchestra è protagonista quest'anno della stagione lirico-sinfonica del Teatro Comunale “Francesco Cilea” edaccompagnerà i prestigiosi spettacoli di danza in program-ma nella stagione 2007/2008 come l’apertura che è stataaffidata al corpo di ballo del Bolshoi e Kirov di Mosca.

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a riapertura del Teatro Cilea ha offerto a tanti vir-tuosi musicisti reggini l'opportunità di manifestarela propria formazione e capacità professionale

anche in città.Un posto importante nella vita e nell'attività del Teatro èoccupato dal Coro Lirico e dall'Orchestra Filarmonica che,

in questa stagione, accompagnerà gli spettacoli di danza inprogramma.Il Coro Lirico “Francesco Cilea” è composto in massimaparte da giovani diplomati nei Conservatori della Calabriae di Messina. Già diretto dal Maestro Renato Palombo, dal1984 è affidato alla direzione del M° Bruno Tirotta - docen-te di Direzione di Coro nel corso di Didattica della Musica -presso il Conservatorio di Reggio Calabria.Il coro, sorto nel 1981, si è costituito in cooperativa nel1983. Fin dagli esordi ha rivolto la sua attenzione e prepa-razione al repertorio operistico, con particolare riferimen-to ai grandi lavori dell'800 italiano.Dopo la partecipazione ad importanti stagioni liriche, comequelle di Taormina, Carrara, Enna, Trapani, San Gimignano,Taranto, Matera, dal 1987 ha siglato una solida collabora-zione con il Teatro dell'Opera Giocosa di Savona, con ilquale ha partecipato all'allestimento ed alla diffusione in

diretta radiofonica per la RAI, nonché all'incisione disco-grafica in prima assoluta, di opere poco eseguite del patri-monio operistico italiano.Collabora attualmente con cantanti, registi, direttori difama internazionale; soltanto per citarne qualcuno, ricor-diamo Maurizio Arena, Daniel Oren, Fabio Luisi, CarloRizzi, Massimo De Bernart, Maurizio Benini, AntonGuadagno, Renato Palumbo, Paolo Carignani, NicolaLuisotti, R. Giovanninetti, Ottavio Ziino, Giuseppe DiStefano, Virgilio Puecher, Carlo Maestrini, Filippo Crivelli,Katia Ricciarelli, Fiorenza Cossotto, Nicola Martinucci,Piero Cappuccilli, Renato Bruson, Ghena Dimitrova, LeoNucci, Giuseppe Filianoti.Ha partecipato a diversi allestimenti di opere liriche:Bohème, Traviata e Rigoletto al Deutsches Theater diMonaco di Baviera, Nabucco ad Amburgo, ancora Traviata aBruxelles, Bohème e Trovatore in Spagna e Francia. Dal 1995 collabora con l'Ente Autonomo Regionale Teatro diMessina nella produzione di tutte le opere liriche e, dal

2001, con Taormina Arte per gli spettacoli estivi.Dalla Cattedrale di Monreale, con l'Orchestra SinfonicaSiciliana, ha eseguito nel 2000 in mondovisione brani ver-diani.Nel 2003 ha eseguito in prima mondiale e inciso musichedel Maestro Rosario Lazzaro, e ha avviato una collaborazio-ne per le produzioni liriche dei tre maggiori TeatriCalabresi (Cilea, Politeama di Catanzaro e Rendano diCosenza).Diverse anche le partecipazioni radiofoniche e televisive: ilconcerto di Natale tenutosi nel 2005 alla Camera deiDeputati e trasmesso su RAI TRE; l'esecuzione di musicheda film con la Banda della Polizia di Stato, nel concertotrasmesso su RAI UNO e RAI International. Notevole è anche la produzione discografica del Coro: da IlFurioso all'isola di San Domingo di Donizetti, a Nina o siapazza per amore di Paisiello, La Gazzetta di Rossini, Ciro in

Patrimoniodell’operisticaitalianadi Claudia Bova

Coro Lirico e Orchestra del“Francesco Cilea”

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anche in quello strano portar via gli spartiti dal podio, theend, signori, si spengano gli applausi, titoli di coda, lafesta è finita. Quello che davvero impressiona in questo musicista ammi-revole, è la capacità non di scrivere per il cinema ma diriuscire ad essere (divenuto) egli stesso, con la sua arte,quintessenza di cinema. Nessuno come lui azzardiamo, conpochi timori di essere smentiti - è mai riuscito di assorbirela potenza evocativa delle immagini in note e accordicapaci di farsi a loro volta immagine. Un esempio? Proprio quel film incredibile, “Il buono, ilbrutto, il cattivo”. La scena finale è stata variamente com-mentata come paradosso, metafora, allegoria, financhesberleffo goliardico. Si vedono tre loschi figuri Eastwood,

van Cleef ed Eli Wallach - impalati nell'attesa di un duello,triangolo presago di morte in un deserto allucinato e pol-veroso. Prima che una delle sei mani scatti sulla pistola eparta il colpo, passano minuti lunghissimi, interminabili,inverosimili. Il gioco è elementare nella sua banalità, ealtrettanto raggelante: vedi le immagini da sole e nondicono assolutamente nulla, ascolti la musica da sola e ti sispalanca un mondo. Ma da dove è partita la musica? Proprioda dentro il film, dall'orologio di Clint Eastwood, pensa unpo': lui lo apre, parte la musichetta, lui prende posizione edice: “Quando finisce la musica spara. Se ci riesci”. Non èsolo la pietra tombale di due o tre decenni di westernall'americana: è un mito.Il regista, Sergio Leone, lo si può amare o odiare.Morricone mette d'accordo tutti: senza la sua musica quelfilm non reggerebbe. O meglio, esisterebbe ma sarebbe unaltro film, del tutto dissimile. Nell'eterno dilemma tra chi

sia nato prima tra l'uovo e la gallina, è una delle pocheoccasioni in cui si arriva a parteggiare apertamente perl'uovo. E' vero che senza il film non sarebbe nata la musi-ca, ma la sensazione che la musica possa sopravvivere allasua ragion d'essere è netta. Discorso vano, fumo senzaarrosto, certo. Ma ha un buon odore, ammettiamolo.Quasi ottuagenario, allievo di Petrassi, navigatore di millestili e persino frequentatore di avanguardie, Morricone èoggi il più famoso al mondo tra coloro che danno musicaalle (o fanno musica con la scusa delle) immagini. Lui,come Rota e Piovani, altri italiani celebri, profeta dellasettima arte, quella che, a differenza delle sei consorelle,porta sulla fronte il diadema endemico della modernità. Ecco, questo è il punto: sarà gloria duratura? Difficile dire

oggi se sarà proprio il cinemail vettore in grado di giungerelà dove, in musica, l'accademi-smo sterile delle avanguardieha già fallito: congiungereclassicità e modernismo per ilgrande pubblico, consegnarenuovi “classici” alla libertàdell'interpretazione, che è poil'unica forma possibile diimmortalità. Passeranno decen-ni, forse, e dovranno sciogliersile catene del copyright. Infondo, il cinema è oggi quelloche fu l'opera fino a un secolofa: l'equivalente del romanzopopolare consegnato alla frui-zione collettiva. Forse, chissà,anche le colonne sonore imboc-cheranno una propria strada,pronta a sfidare i secoli. Proprio a Catanzaro il maestroha confessato di tenere mol-tissimo agli arrangiamenti ori-ginali delle sue musiche, e diarrabbiarsi se qualcuno le ese-

gue di testa sua, aggiungendovi licenze o infedeltà. Il chesignifica che diventare un autore “classico” è la sua aspi-razione, sogno di coronamento di una carriera lunghissimae gloriosa, il passaporto col quale egli spera di accreditar-si presso coloro “che questo tempo chiameranno antico”.Ne ha i titoli, crediamo. La sua musica parla a tutti, alsemplice come al colto. E non appartiene ad alcun genere,perché è maledettamente vicina a racchiudere tutti i gene-ri. Senza bisogno di farneticare di posteri e di sentenza,teniamoci stretto questo grande vecchio, auguriamogli diaggiungere un altro centinaio di colonne sonore a quellegià composte, e dichiariamoci felici e onorati di averloapplaudito. Se c'è qualcuno che può ancora insegnare aigiovani che la musica, e l'arte in generale, è un orizzontesenza barriere, è proprio lui.

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'immagine più bella, forse, è quella del cinema nelcinema. Dove la potenza evocativa del suono inchio-da nella memoria due immagini sovrapposte. Uno

schermo lontano, in bianco e nero, sbiadito come uno stra-no trompe-l'oeil fatto di luce. E gli occhi del bambino, inprimo piano, neri come la notte, pieni di uno stupore cheè gioia assoluta: e accanto a lui il vecchio sorride, suo mal-grado. Quello è il momento. Se non nel film, almeno nellamemoria, il corto circuito genera la scintilla dell'incantesi-mo. Così, parte la musica.La suggestione di “Nuovo Cinema Paradiso” di Tornatoreincanta e seduce: non è il Morricone più celebre ma inqualche modo è il più vicino a noi. Perché la storia del vec-chio e di un bambino che un giorno sarà un vecchio, è la

storia di tutti noi, il bianco e nero dal sapore di dopoguer-ra che si scioglie nei colori amari del rimpianto e della soli-tudine, dall'Italia della speranza all'Italietta dei consumi edella disillusione. Le musiche del Maestro lungo mezzosecolo ne hanno raccontati, di volti e storie, perché lo scri-gno di Ennio Morricone è senza fondo, come il vaso diPandora. C'è la faccia di Clint Eastwood, quella con duesole espressioni, col sigaro e senza, e se lo diceva SergioLeone doveva essere proprio vero. Come impossibile èdimenticare quella voce di soprano trattata come uno stru-mento, a fissare per sempre - la pellicola era “Il buono, ilbrutto, il cattivo” - l'estasi dell'oro ritrovato. In quel film,ha scritto di recente Stephen King, “Clint Eastwood sem-brava alto sei metri, e ogni singolo pelo della barba grossocome una sequoia”. E, di fronte a lui, una smisurata pisto-la in mano, stava Lee van Cleef e “i solchi intorno alla suabocca erano profondi come un canyon”. Epico, a dir poco.Un'altra faccia targata Leone è quella di Robert De Niro. In“C'era una volta in America” era un boss della mafia, madolente e umanissimo, una metastasi di Werther: lui loevoca con un Adagio, inesorabile come il rimorso. E anco-ra De Niro, con Jeremy Irons, altro viso intagliato nellaquercia, in “Mission”, bene e male, sfruttatori e vinti, inuna guerra senza tempo scandita da quella che per molti èla più bella colonna sonora della storia del cinema, vampi-rizzata dai jingles, irrisa dalle suonerie dei telefonini, maaverla ascoltata dal vivo, credete, è un'altra cosa.Abbiamo ascoltato Ennio Morricone dirigere le sue musicheper due estati di seguito a Taormina, lo scorso anno addi-rittura con l'Orchestra della Scala di Milano, e lo si è ascol-tato poche settimane orsono al Politeama di Catanzaro. Trala prima e le altre sue esibizioni, è avvenuto che finalmen-te Hollywood gli abbia reso giustizia, consegnandogli infi-ne, alla carriera, quel premio Oscar cinque volte sfiorato eincomprensibilmente mai raggiunto prima. Gesto quasi metronomico, il suo, sul podio. Sobrio finoall'essenziale, sembra accompagnare l'orchestra, più chedirigerla. Brusco e ruvido, persino negli inchini: al termine,

OSCAR ALLA CARRIERAKodak Theatre,sull'Hollywood Boulevard

di Giuseppe Tumino

Ladies and Gentlemen…Ennio Morricone

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a creatività, l'estro, la sensibilità. L'arte che si espri-me attraverso il pianoforte e che, magicamente uni-sce tradizione a modernità, classico a contempora-

neo, echi romantici al jazz, e coinvolge, come in un viag-gio entusiasmante, anche chi non si è mai accostato primaalla musica per pianoforte. E' la magia di Giovanni Allevi, persona prima che personag-gio; artista prima ancora che evento mediatico; creativoprima che trascinatore di giovani e meno giovani. E’ l'arte di Giovanni Allevi, il pianista che, nel giro di pochianni, ha autenticamente sconvolto il mondo della musicamoderna, ha scalato le classifiche italiane e non solo, hariempito platee, come l'arena “Neri” di Catonateatro, chelo scorso agosto ha ospitato una sua straordinaria perfor-mance. Allevi un genio, un piccolo grande folletto della musica.Quasi timido, schivo, ma che al piano si trasforma inun artista capace di emozionare. La sua forza, in un mondo in cui anche la musica,a volte, è omologata, costretta in schemi edefinizioni, è proprio questa: l'autenti-cità,la freschezza, la semplicitàdelle emozioni che riesce atrasmettere, conquistan-do anche il pubblicopiù giovane. Una musica chedà “Joy”. Gioia.Come il titolodel suo quar-to album dip i ano -

forte solo, che ha raggiunto le vette delle classifiche.Quella gioia che coinvolge, trascina, incanta, tanti giovanicome lui. Un pubblico nuovo per questo genere musicaleche Allevi avvicina, e non solo con le sue note. Il pianista,infatti, dopo aver ammaliato con la sua musica e la suatecnica straordinaria, quasi in simbiosi con lo strumentoche suona, alla fine di ogni concerto si ferma per ore a par-lare con i fan, a firmare autografi, siglati da una simpaticaed originale autocaricatura. Una sincerità, una voglia di mostrarsi nelle sue fragilitàche, come lui stesso dice, sono la sua forza, parte del suosuccesso.Un personaggio che ha catturato i media per la sua origina-lità, per la sua estrosità. Ma che va oltre il personaggio.Che non è solo un'immagine.

E' personalità. Sensibilità. Quella stessa sen-sibilità che sta portando in giro per il

mondo, passando dai concerticome solista a quelli accanto

ad orchestre famosissime,dalla composizione all'ese-cuzione di classici. Quellasensibilità che traspareogni volta che le suemani si uniscono allatastiera. Ed è Joy.

GIOVANNI ALLEVI:il nuovoMozart?di Poala Abenavoli

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eseguita nelle stagioni liriche radiofoniche ma di non fre-quente allestimento sui palcoscenici dei Teatri italiani oeuropei.Nel Museo Cilea di Palmi, oggi sezione della Casa dellaCultura, si conservano testimonianze preziose dell'attivitàcreativa di Cilea oltre a parte delle biblioteca, musicale emusicologica, del Maestro.Negli stessi locali della Casa della Cultura si conservanotestimonianze e cimeli di un altro grande musicista cala-brese, nato anch'egli a Palmi: Nicola Antonio Manfroce vis-suto dal 1791 al 1813.Tornando a Cilea, notiamo che non esistono edizioni criti-che delle sue opere ed anche se la ricerca musicologica sista interessando ai suoi lavori “non teatrali” (ricordiamogli studi di Roman Vlad e di Cesare Orselli pubblicati daqualche anno a questa parte) molte sono ancora le zoned'ombra che attendono di venire chiarite dagli studi edesegetici sulla attività creativa del grande Maestro.Su Cilea non esiste una biografia critica; oggetto di scoper-ta sono ancora oggi le sue musiche sinfoniche e da camera.La ricognizione di questo materiale effettuata dal sottoscrit-to all'inizio degli anni '60 e pubblicata su Cronache Calabresi,ha aggiornato e completato il catalogo del De Renzis.Oltre alle musiche di Cilea, per rimanere nel territori dellacittà di Palmi, vi è da considerare la necessità di acquisireanche le musiche di Nicola Antonio Manfroce, vissuto sol-tanto 21 anni, le cui due opere: Alzira ed Ecuba, e variecomposizioni sinfoniche e da camera attendono di veniredivulgate attraverso la stampa esistendo di queste musichesoltanto le pagine manoscritte.Fermandoci ancora alla provincia di Reggio ricordiamo le operedi Giorgo Miceli (Reggio Calabria 1836-Napoli 1901): Zoè, Ilconte di Rossiglione, Il convito di Baldassarre, melodrammi rap-presentati con successo e i cui manoscritti sono custoditi nel-l'archivio del Conservatorio di Napoli insieme a numerose com-posizioni vocali e strumentali del Maestro reggino.Altri musicisti di Reggio dei quali si dovrebbero acquisire leopere sono: Paolo Savoia (Gerace 1820-Napoli 1880) autore diUn maestro e un poeta rappresentata a Napoli (Teatro SanCarlo) nel 1856; Annunziato Vitrioli (Reggio Calabria 1830-18930) autore di un melodramma in 4 atti intitolato Palmira.Tra i primi lavori di Storia della Musica che interessano latradizione calabrese vi è da citare la monumentale Storiadella Scuola Musicale di Napoli e dei suoi Conservatoriscritta dal musicista e musicologo Francesco Florido, natoa San Giorgio Morgeto nel 1800 e morto a Napoli nel 1888.Una copia dell'edizione del 1887 (in quattro volumi) dellavoro di Florido si trova tra i libri appartenuti a FrancescoCilea e custoditi nei Musei di Palmi.Una vera scoperta per la cultura musicale calabrese sonostate le Sei danze antiche di Leonardo Vinci (Strangoli1690-Napoli 1730) eseguite dall'Orchestra da Camera diCatania sotto la direzione del sottoscritto.Nel corso di una tournée che il complesso siciliano ha effet-tuato in Calabria le musiche di Vinci sono state ascoltate congrande interesse ed hanno riscosso un lusinghiero successo.Altri lavori di musica strumentale e vocale di Vinci e più di40 melodrammi, la maggior parte su libretto di Metastasio,attendono di venire rivalutati.Rimanendo nella zona centrale della regione parliamo di

Paolo Serrao (Filadelfia 1830-Napoli 1907) autore di opereliriche e sinfoniche, composizioni per pianoforte, lavoriche a suo tempo furono universalmente apprezzati. Ariguardo si pensi soltanto che Serrao è stato uno dei pochis-simi compositori a godere della stima di quel severissimogiudice dei suoi colleghi che era Giuseppe Verdi.Ricordiamo qualche titolo delle opere di Serrao: GiovanBattista Pergolesi, rappresentata nel 1857, Gli Ortonesi inScio, e soprattutto La duchessa di Guisa su libretto diFrancesco Maria Piave, il librettista che ha collaborato piùa lungo con Verdi, composta nel 1865.Una biblioteca specializzata nella conservazione dei beniculturali-musicali della nostra regione non potrebbe fare ameno di avere la disponibilità dell'opera Consuelo diAlfonso Rendano, compositore fra i più celebrati del suotempo, amico di Liszt, grande concertista e didatta delpianoforte, nato a Carolei di Cosenza nel 1853 e morto aRoma nel 1931.Le composizioni pianistiche di Rendano sono state pubbli-cate qualche anno addietro dalla Casa Editrice Curci, nellarevisione di Rodolfo Caporali, pianista che è stato tra i piùprestigiosi allievi del Maestro cosentino.La cultura musicale calabrese dovrebbe disporre anchedelle musiche di Alessandro Longo (Amantea 1879-Napoli1946), autore di apprezzate composizioni pianistiche masoprattutto grande didatta del pianoforte cui si devonofondamentali pubblicazioni utilizzate proficuamente ancheoggi nei Conservatori di tutto il mondo.Altro operista cosentino del quale è in corso la rivalutazio-ne è Stanislao Giacomantonio (Cosenza 1879-1923) autorede Il fiore delle Alpi, La leggenda del Ponte, La vergine diScauro. Anche le pubblicazioni di questi lavori dovrebberofar parte del nostro patrimonio di beni librari-musicali.Venendo a tempi vicini a noi ricordiamo le composizioni delMaestro Pasquale Benintende (Reggio Calabria 1874-1964)la cui opera Mara è stata rappresentata per la prima voltaal Teatro Ponchielli di Cremona e qualche anno dopo (1961)al Teatro Comunale di Reggio Calabria.Accanto a Benintende e vicino a lui per motivi generazio-nali vi sono il reggino Francesco Mantica (Reggio Calabria1875-Roma 1970), compositore, musicologo, revisore dellemusiche sacre di Bellini ed editore (in fac-simile) dellaMessa da Requiem di Verdi.Altro importante compositore cosentino appartenente aquesta generazione è il Maestro Maurizio Quintieri la cuiopera Liliadeh è stata allestita dal Teatro Rendano diCosenza nel 1968.Risulta quindi chiaro che vi è del materiale prezioso daconservare e valorizzare perché la tradizione musicalecalabrese diventi viva ed operante nel contesto socio-cul-turale di una regione che dovrà utilizzare queste testimo-nianze artistiche, accanto ai tesori naturali, e farne stru-mento di elevazione e di progresso.

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l patrimonio dei beni librari dalla Calabria è arricchitodalle testimonianze della nostra tradizione musicale:lavori teatrali, composizioni di musica sinfonica e da

camera che si conservano in manoscritti o in pubblicazionia stampa la cui importanza è riconosciuta da tutto ilmondo della cultura.E non ci riferiamo soltanto all'Adriana Lecouvreur diFrancesco Cilea, opera universalmente apprezzata insiemeall'Arlesiana ed a Gloria, e alle altre opere del grande com-positore di Palmi, sebbene meno note al grande pubblico(parliamo di Gina e Tilda), che sono oggetto di ricerchetendenti alla pubblicazione in edizioni critiche; ma inten-diamo ricordare anche le composizioni di musica vocale estrumentale da concerto chearricchiscono e completanol'immagine del più grandemusicista che rappresenta laCalabria nel contesto del cor-pus universale della musica.Mentre il nome e l'opera diCilea sono presenti allacoscienza artistica contempo-ranea, non altrettanto si puòdire dei lavori di musicisticalabresi altrettanto rappre-sentativi di varie epoche edaltrettanto importanti per lamemoria della nostra tradizio-ne musicale le cui composizio-ni meritano di venire divulga-te e rivalutate.Tenere viva la tradizione musi-cale della Calabria non signifi-ca soltanto allestire un museonel quale conservare material-mente i manoscritti, le pubbli-cazioni e magari scene, costu-mi, bozzetti, manifesti e programmi di sala degli allesti-menti delle più significative composizioni dei nostri grandimusicisti.Di questo patrimonio dovrebbero far parte anche le recen-sioni ed i commenti critici apparsi sulla stampa, le incisio-ni discografiche e le registrazioni in video delle più signifi-cative interpretazioni delle composizioni musicali e degliallestimenti teatrali delle opere liriche non solo di Cileama Leonardo Vinci, Alfronso Rendano, Paolo Serrao, NicolaAntonio Manfroce, oltre alle pubblicazioni delle composi-

zioni di Alessandro Longo, Francesco Milano, Paolo Savoia,Annunziato Vitrioli, Pasquale Benintende, FrancescoMantica e di tanti altri compositori meno noti ma non menoimportanti per la rivalutazione storica dei beni culturali-musicali della nostra regione.Altro materiale prezioso da custodire con orgoglio è rap-presentato dalle pubblicazioni degli studi storici che hannocome oggetto la produzione artistica dei nostri musicisti.Tutto questo potrebbe costituire il primo passo per la costi-tuzione di uno o più centri di conservazione e valorizzazio-ne delle nostre risorse culturali della musica e dello spet-tacolo allo scopo di rendere attuale e significante il mes-saggio di bellezza racchiuso nelle composizioni, ancoraignorate, dei musicisti calabresi.Se fosse stato compiuto questo primo passo, se in Calabriaesistessero delle biblioteche musicali specializzate o vifosse un archivio teatrale dove reperire le testimonianze diun glorioso passato vissuto all'insegna della creatività e diun fecondo lavoro di realizzazione e di esecuzione di lavo-ri teatrali dei nostri compositori, potremmo dire di esseregià abbastanza avanti sul percorso della valorizzazione delnostro patrimonio musicale.Non mi risulta che esista in Calabria una sola bibliotecamusicale dove sia possibile reperire le composizioni deinostri musicisti e non credo vi sia nei tre Conservatori diMusica della regione una sezione bibliografica specia-

lizzata dove figurino le operedi Milano, Cilea, Serrao,Manfroce, Rendano, Vinci,Longo, Pasquale Benintende,Giacomantonio, Quintieri, perparlare delle personalità piùsignificative.Che dire, poi, dei manoscrittidi questi e di altri autorimeno noti ma non menoimportanti per la storia dellamusica, manoscritti e testi-monianze custodite in colle-zioni private o negli archividelle parrocchie e delle dio-cesi, che attendono di venirerecuperati, catalogati, emessi a disposizione degli stu-diosi.Dal semplice e scarno elencodi nomi cui si è fatto cenno èfacile comprendere qualelavoro intenso e di lungadurata attende gli ordinatori

e conservatori del patrimonio musicale della Calabria.Per rendersi conto, nelle linee generali, della entità diquesta attività di recupero e valorizzazione accenniamobrevemente alla tradizione musicale della Calabria attra-verso appunti bio-bibliografici riferentisi alle personalitàche abbiamo nominato.Cominciamo da Francesco Cilea (Palmi 1866 - Varazze1950) le cui opere universalmente note sono AdrianaLecouvreur e L'Arlesiana, più volte rappresentate anche inCalabria; meno presente nella realtà culturale è Gloria

PATRIMONIOLIBRARIO-MUSICALEDELLA CALABRIALunga ricerca nella memoriadi Nicola Sgro

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P. Benintende F. Cilea

S. Giacomantonio A. Rendano

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la sinistra dell'abito e del mantello bianco.Mentre la loro era rossa, la croce che distingueva iCavalieri Teutonici era nera, quella dei CavalieriOspedalieri bianca e quella dei Cavalieri di San Lazzaroverde. I Templari, a conferma della loro umiltà, adottano il motto“Non nobis Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam”.Secondo le regole dell'Ordine, i Templari, pur essendo laici,facevano voto di castità, obbedienza e povertà; eranocomandati da un Gran Maestro e da un Capitolo Generale,avevano completa autonomia da ogni autorità civile e reli-giosa, perchè dipendevano direttamente ed esclusivamen-te dal Papa; i loro possedimenti erano esenti da qualsiasitassa. L'Ordine del Tempio fu espressione tipica della società feu-dale, anzi, si può dire che la classe feudale si identificò inessi; la sua organizzazione era nettamente gerarchica, iCavalieri dovevano provenire obbligatoriamente dallanobiltà. Eppure non era una struttura totalitaria: il GranMaestro e gli altri dignitari venivano sempre eletti dal

Capitolo Generale.Si articolava in: Cavalieri (i nobili), equipaggiati comecavalleria pesante, Cappellani (cavalieri che erano ordina-ti sacerdoti e curavano le esigenze spirituali dell'Ordine),Sergenti (non nobili ma uomini liberi), equipaggiati comecavalleria leggera, Fratelli Serventi (che non erano monacie si occupavano di tutto quanto potesse servire per ilmiglior funzionamento della struttura).Ciascun Cavaliere aveva sempre con sé due o tre Sergenti,che lo accompagnavano in battaglia, e un gruppo di sei osette scudieri, che lo assistevano sia in pace che in guerra. L'addestramento era rigorosissimo e durissimo. I Templari,in battaglia, si distinguevano per coraggio e sprezzo delpericolo. Nel giro di pochi anni divennero il contingenteCrociato più temuto dal nemico. I Saraceni, quando riusci-

vano a catturarli, non li lasciavano vivi. All'Ordine aderirono subito moltissimi nobili crociati, edesso divenne ben presto una grossa potenza militare. Ma anche una potenza economica. Tutta l'Europa occiden-tale, dall'Inghilterra alla Sicilia, era disseminata di posse-dimenti e case dell'Ordine. La fama di abilità e onestà chelo circondava e la sicurezza dei suoi insediamenti militari,lo caratterizzarono anche come eccellente banca. Ai magi-strati templari è addirittura attribuita la creazione delleprime “carte di credito”, che consentivano ai pellegriniche si muovevano lungo tormentati e perigliosi percorsiverso i Luoghi Santi, di spostarsi da una Commenda all'al-tra senza dover portare seco 'appetitose' somme di danaro.Però, per le enormi ricchezze che avevano accumulate, iCavalieri del Tempio furono ben presto visti come unastruttura troppo potente e troppo ricca, e quindi un peri-colo per i sovrani del tempo. Ciò valse in particolare perFilippo IV, detto “il Bello”, che fu re di Francia dal 1285 al1314.L'Ordine dei Templari, in Francia, era diventato pratica-

mente uno Stato nello Stato, per le vastis-sime proprietà, le famose 'commanderie',che possedeva, ma anche per il ruolo civi-co che esercitava, arrivando a costruirestrade e ponti, e soprattutto 'ospitali' perl'assistenza ai poveri pellegrini, in partico-lare sul tracciato che portava a Santiago deCompostela.La politica di Filippo IV era stata fin dall'ini-zio molto chiara e decisa: ridurre tutti ipoteri che potessero limitare il suo, acominciare da quello della Chiesa.E' storico il suo scontro con papa BonifacioVIII, nel corso del quale egli fu anche sco-municato, e che culminò con il famoso'oltraggio di Anagni', allorquando SciarraColonna, sostenuto da Guglielmo diNogaret, emissario appunto di Filippo,prese a schiaffi il Papa e lo fece prigionie-ro. Bonifacio, dopo qualche mese, ne mori-rà; al suo posto fu eletto papa BenedettoXI, che però resse la 'Cattedra di Pietro'solo dall'ottobre 1303 al luglio 1304, quan-do morì, si disse per veleno. Il suo succes-sore fu il francese arcivescovo di Bordeaux,Bertrand de Goth, col nome di Clemente V. Il nuovo papa si dimostrò totalmente pro-clive alla volontà di Filippo, disponibilità

che si tradusse addirittura con il trasferimento della sedepapale da Roma ad Avignone!Quanto ai Templari, Filippo aveva ricevuto un rifiuto all'in-gresso di suo figlio nell'Ordine, ma soprattutto era forte-mente indebitato nei loro riguardi, e le loro ricchezze glifacevano gola, avendo grande bisogno di capitali, per lasua guerra contro l'Inghilterra. Egli, inoltre, aveva comesuo confidente il citato Guglielmo di Nogaret, che aveva unmotivo in più per agire contro i Templari: i Cavalieri aveva-no denunciato all'Inquisizione come Cataro un suo nonno,che era stato così bruciato sul rogo, all'epoca del massacrodi quella setta. Filippo vuole qualcosa che gli consenta di colpire l'Ordine;e le denunzie di due personaggi che gravitano nel mondodei Templari: Squin de Florian, un borghese, ex priore della

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ue eventi particolarmente importanti perla Storia Medievale europea si sono avutiin questi giorni: la ricorrenza del sette-

centesimo anniversario dell'imprigionamentodei Cavalieri Templari da parte del re franceseFilippo IV, e la pubblicazione, da parte delVaticano, di “Processus contra Templarios”,l'edizione integrale degli atti del processo inten-tato, nel 1308, in Poitiers, dal papa Clemente Va carico di quei Cavalieri. La persecuzione dei membri dell'Ordine delTempio, scatenatasi nei primi decenni del 1300,il dissolvimento di quel glorioso e misteriosoordine cavalleresco, lo sterminio dei suoi com-ponenti, fu un evento religioso-militare cheall'epoca sconvolse l'Europa, e che ancora oggi èargomento di convegni, dibattiti e pubblicazioni- ultimo in ordine di tempo il discutibilissimoromanzo di Dan Brown intitolato Il codice daVinci (The Da Vinci Code) -.Perché ne parlo: perché ci sono interessantisegnali di importanti presenze di questi soldati-monaci anche in Calabria, nella provincia diReggio e addirittura nella stessa nostra Città.Ma facciamo un lungo passo indietro nel tempo,per ricordare, ai pochi che non lo sapessero, cosa eral'Ordine del Tempio e chi erano i Cavalieri Templari.Con la premessa, che non presumo assolutamente di farela storia dell'Ordine; molti ci hanno provato ed ancora ciprovano, con grandi difficoltà, considerati i tempi presi inesame, l'incertezza delle fonti e la commistione fra fattireali e leggende. Io mi terrò tangente alle versioni chegodono di più larga accettazione.

Tutto comincia negli anni che seguirono la Prima Crociata(1096-1099). Malgrado la presa di Gerusalemme da parte dei Crociati (15luglio1099), la sicurezza dei pellegrini che si recavano inTerrasanta non era affatto garantita. Fra briganti locali equalche banda di ex crociati non molto 'cristiani', i pelle-grinaggi divenivano talvolta tragici.Secondo i testi più accreditati, nel 1118, i cavalieri crocia-ti Hugues de Payens, un nobile della regione francese dellaChampagne (anche se da più parti si sostiene, forse non atorto, che egli era un Italiano, di nome Ugo dei Pagani), eGoffredo di Saint-Omer, un nobile delle Fiandre, chiedonoal re di Gerusalemme Baldovino II, ed ottengono, di assicu-rare la guardia di Athlit, un approdo posto sulla strada con-siderata la più pericolosa per i pellegrini, tra quelle che dalmare portavano a Gerusalemme. L'intento è di proteggere le carovane e di curare i pellegri-ni ammalati o invalidi.Si racconta che Ugo e Goffredo erano talmente poveri daavere un solo cavallo in due. Da qui deriverebbe il Sigillo

dei Templari, che presenta due cavalieri su uncavallo.Ben presto, a loro si uniscono altri sette nobilicavalieri francesi; tutti assieme professano divoler vivere secondo le norme canoniche,osservando la castità, la povertà e l'obbedien-za. Nasce così la figura del monaco-soldato.Il nome con cui essi sono noti si riporta al fattoche questi primi nove Cavalieri furono alloggia-ti, a Gerusalemme, dapprima in un porticato incima al Monte Moriah, uno spiazzo sul qualesorge la Moschea di Omar detta anche Cupoladella Roccia - Qubbat al- Sakhra, costruita nelVII secolo d.C. Adiacente alla 'Cupola dellaRoccia' vi è la Moschea di Al-Aqsa. E nel 1119,Baldovino II concede ad Ugo de Payens unasede per lui e per i suoi otto compagni, proprioin questa moschea.I Cavalieri Templari vi posero il loro quartiergenerale, e credendo che la 'Cupola dellaRoccia' fosse stata costruita su quanto restavadell'antico Tempio di Salomone, cambiarono ilnome alla moschea in “Templum Domini” -Tempio del Signore -.La 'Cupola nella Roccia' è raffigurata sul retro

del Sigillo templare.Così, l'Ordine prende forma. La sua prima denominazionefu “Pauperes Commilitones Christi Templique Salomonis”(“Poveri compagni di Cristo e del Tempio di Salomone”);nel tempo avrà nomi diversi: 'Milizia dei Poveri Cavalieri diCristo', 'Cavalieri della Santa Città', 'Cavalieri del Tempio diSalomone a Gerusalemme', 'Santa Milizia Gerosolimitanadel Tempio di Salomone'.

Comunque, la denominazione con la quale è passato allastoria è quella di 'Ordine dei Cavalieri Templari'.I nove cavalieri fondatori furono: Hugues de Payns,Geoffroy de Saint-Omer, André de Montbard, Payen deMontdidier, Godefroy, Geoffroy Bisol, il cavaliere-abbèRossal, Arcimboldo di Saint Aignan, il cavaliere-abbèGundmar.Nel Concilio di Troyes, tenutosi nel gennaio del 1128, suproposta di San Bernardo da Chiaravalle, che è la maggio-re autorità ecclesiastica dell'epoca, e che - essendo anchenipote di André de Montbard - quasi certamente fu l'ispi-ratore e il sostenitore di tutta la vicenda, l'Ordine vieneufficialmente riconosciuto dalla Chiesa. Sarà lo stesso SanBernardo a scriverne la Regola, molto simile a quelladell'Ordine Cistercense, di cui Bernardo era il massimoesponente.Nel 1139, con la bolla “Omne datum optimum”, PapaInnocenzo II riconosce l'Ordine dei Cavalieri Templari e nel1141 concede l'adozione della croce rossa 'pattée' (cioè coni quattro bracci che vanno ad allargarsi), cucita sulla spal-

L’ombra dei Templarisul cielo dello Stretto

D

di Francesco Arillotta

viene considerata - secondo il fondatore dell'AccademiaAraldica Italiana, Giovan Battista Crollalanza e secondo lostorico Gian Paolo Candido - nobile, con Difigio, e presen-te in Napoli, Lucera, Salerno e Messina, nonché a Reggio,con un ramo che aveva come stemma un'arme di rosso e trefasce d'azzurro. Difigio è il fratello di Ugone dei Pagani, quel nobile lucanoche, come già detto, molti sostengono essere il vero fon-datore dell'Ordine dei Templari.Questi Pagana sarebbero, quindi, i diretti discendenti diUgone; e sarebbero rimasti a lungo a Reggio; cosa, que-st'ultima, confermata dal fatto che, ancora nel XVII secolo,quel cognome era presente nella nostra Città.- E non posso fare a meno di rilevare una curiosità: ilPrefetto dell'Archivio Segreto Vaticano, che il 26 ottobre hapresentato alla stampa il “Processus contra Templarios”, èil vescovo Sergio Pagano…!- Dalle ricerche della Capone si ricavano altre notizie, chepotrebbero rivelarsi molto importanti per la storia medie-vale di Reggio.Dice l'autrice: “Nelle grandi città, le mansioni templarierano due: una situata fuori le mura urbiche, l'altra addos-sata ad esse, dentro il recinto”. Ed a proposito delle inti-tolazioni di queste case di ricetto dei pellegrini e dei vian-danti, scrive che le dediche ad una Santa sono rare, fattaeccezione per Santa Margherita, che aveva il “monopolio”,quanto a numero di mansiones intestatele.“Per quanto riguarda i nomi maschili, la maggior partedelle mansioni sono dedicate a santi molto antichi, per lopiù apostoli ed evangelisti. San Pietro e San Marco ricorro-no con una certa frequenza”. E poco più oltre: “Le commende...erano molto spessodedicate al loro patrono Giovanni Battista” e cita anche

una Casa Commendatizia, in Cavallermaggiore, chiamata“San Giovanni della Motta”.Indicazione che potrebbe servire per dare nuova, interes-sante spiegazione all'etimo ed all'origine del vicino Comunedi Motta San Giovanni. Tornando alle denominazioni più usate per le Case deiTemplari, la studiosa sostiene, dunque, che quelle costrui-te all'interno delle città, erano dedicate molto spesso a S.Margherita - la Santa di Antiochia, città teatro delle piùepiche gesta dei Templari in Terrasanta -, e quelle esterne,invece, all'evangelista Marco. Ebbene: a Reggio, in età medievale, al centro dell'areaurbana, a ridosso della misteriosa “Mezza Porta”, è docu-mentata la presenza di una struttura ospedaliera, dedica-ta... a Santa Margherita...!Ricorda il De Lorenzo: “Dell'ospedale di S. Margherita pocoo forse nulla è oggi nella conoscenza dei nostri. Sappiamosì che esisteva in epoca anteriore alla fine del secolo XVI,ma non c'è dato di assegnare con precisione l'epoca in cuiera stato fondato”. E, trattando dello Statutodell'Ospedale, dice che in esso era stabilito che “anche aipellegrini si aprisse la porta, ma per una, sola notte, l'in-domani partissero, se il cattivo tempo o altro incidente nonl'impedisse”.L'Ospedale reggino di S. Margherita, la cui fondazione eradi gran lunga anteriore al 1500, aveva, quindi, anche fun-zioni ricettizie.Inoltre, fuori le mura cittadine, verso Nord, lungo l'anticaconsolare Popilia che portava a Capua e a Roma, è segna-lata un'altra significativa istituzione: la chiesa di SanMarco...! Una chiesa che doveva aver avuto un ruolo benparticolare nella vita di Reggio, se, nel 1426, su richiestadei Sindaci della città, l'aragonese Alfonso I concedeva che

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commanderia di Montfaucon, presso Tolosa, e un certoNoffodei, fiorentino, apostata Templare, detenuti nellecarceri francesi per aver ucciso il Maestro della Provinciatemplare di Monte Carmelo, arrivano a proposito.Prendendo volentieri per oro colato le loro 'rivelazioni', il14 settembre 1307, Filippo invia, tramite l'Inquisitore diFrancia, Guglielmo Imbert, messaggi sigillati ai Balivi delRegno, con l'ordine di non aprire ilplico prima del successivo 12 ottobre.In essi, si ordina l'arresto in contem-poranea di tutti i Cavalieri Templarifrancesi e la confisca dei loro beni;ordine che viene eseguito il 13 otto-bre 1307, un venerdì. - Da qui, la ricorrenza cui facevocenno all'inizio -.La retata riuscì, in quanto venne astu-tamente avviata in contemporaneacontro tutte le sedi templari; benquindicimila Cavalieri, convocati conla scusa di accertamenti fiscali, ven-nero arrestati. A catturare il Gran Maestro, Jacquesde Molay, nel Tempio di Parigi, dove si trovava, accompa-gnato da molti suoi Cavalieri, per assistere alla cerimoniadel funerale di una Principessa di Casa Reale, provvidel'Imbert in persona.Sottoposti a feroci torture, i prigionieri non resistettero, ecominciarono a parlare di riti eretici, di comportamentiimmorali, che si sarebbero praticati nelle Case dell'Ordine;riconobbero tutti i peccati loro imputati nei ben 127 capi-toli d'accusa!Messo di fronte a queste 'confessioni',Clemente V, nel 1312, convoca unConcilio a Vienne, a conclusione delquale, con la bolla Vox in Excelso del 3aprile, decide che “con l'approvazionedel Santo Concilio, sopprimiamol'Ordine dei Templari, la sua Regola, ilsuo Abito e il suo Nome, con decretoassoluto, perenne, proibendolo persempre, e vietando severamente chequalcuno, in seguito, entri in esso, neassuma l'abito, lo porti, e intenda com-portarsi da Templare”; e confisca l'intero patrimoniodell'Ordine, in qualunque nazione esso si trovi, compresal'Italia. Italia nella quale si tennero parecchi processi contro iTemplari, finiti tutti con la loro condanna. Eccezione fecel'arcivescovo di Ravenna, il Beato Rinaldo da Concorezzo,responsabile del processo per l'Italia settentrionale, ilquale, nel 1311, assolse i Cavalieri, e arrivò a condannarel'uso della tortura per estorcere confessioni.Clemente V, come prova il “Processus contra Templarios”,sapeva dell'effettiva innocenza degli imputati, soprattuttodall'accusa di eresia, tanto che quel processo si era conclu-so con il loro reintegro nella Comunione e nei Sacramentidella Chiesa; ma non poteva opporsi al volere del re. Riesce solo ad ottenere che le proprietà dei Templari ven-gano affidate agli Ospedalieri di San Giovanni, i futuriCavalieri di Malta. Secondo alcuni, il successivo rogo diParigi fu il colpo di coda di Filippo, che aveva dovutoaccettare la non confisca dei beni Templari.

Si susseguirono le esecuzioni di migliaia di Cavalieri, moltospesso bruciati vivi. Come accade a de Molay e al Precettore di Normandia,Goffredo de Charnay, i quali ritrattano le confessioni inquanto estorte sotto tortura, e dichiarano la propria inno-cenza. Filippo IV, dopo un processo farsa, li condanna alrogo.

La sentenza viene eseguita il 18marzo 1314; su una pira, predispo-sta su un'isoletta che sta nel mezzodella Senna, a Parigi, davanti allaCattedrale di Notre Dame, l'ultimoGran Maestro e il suo sfortunatocompagno trovano orribile morte.Ma proprio in quel momento laStoria comincerà a confondersi conil Mito. Che dura ancora oggi.La leggenda narra che de Molay, trale fiamme, dopo essersi tolto dallespalle il mantello di Gran Maestrocon la rossa croce, per gettarlo con-tro i suoi accusatori che assistevanoall'esecuzione, lanciò un anatema:

“Clemente, giudice iniquo e crudele, io ti auguro, entroquaranta giorni, di comparire davanti al tribunale di Dio! Etu Filippo sei maledetto fino alla tredicesima generazio-ne!”. Clemente V cesserà di vivere dopo trentotto giorni, e cioèil 25 aprile, per un attacco di dissenteria; Filippo il Bello,il 29 novembre successivo, morirà per le conseguenze diuna caduta da cavallo.

Dante Alighieri bollerà Clemente V,ponendolo nell'Inferno fra i simoniaci, einchioderà Filippo IV alle sue responsa-bilità nel Canto XX del Purgatorio.L'Ordine, pur decapitato e svuotato,tuttavia continuò ad esistere in qualcheNazione, come la Scozia, la Spagna,dove si denominò “Ordine di Montesa”,o il Portogallo, dove il suo titolo fucambiato in “Ordine di Cristo”.E a quest'ultimo proposito, va rilevatauna cosa piuttosto strana: le tre cara-velle di Cristoforo Colombo, che salpa-

rono verso le Americhe nel 1492, portavano ben evidentesulle vele la Croce Templare. Un fatto assolutamenteincomprensibile, se si tiene presente che quell'insegna nonfa parte dello stemma né della Casa d'Aragona né di quel-la di Castiglia, che pure sostenevano l'iniziativa. Si vuole che il tutto vada collegato al fatto che Colombo,durante la sua permanenza in Portogallo, nel 1479, sposòdonna Felipa Moñiz de Parestrello, figlia di BartolomeoParestrello, noto cosmografo e Governatore dell'isola diPorto Santo, dove egli risiedette per qualche anno.E Parestrello era Maestro del ramo portoghese dell'Ordine!Concluso questo necessario excursus, torniamo a Reggio.Secondo uno studio di Bianca Capone, nel 1390 il giovanis-simo re di Napoli Ladislao di Durazzo concede, a RenzoPagana, la Perpetua Capitanìa della città di Reggio;Capitanìa confermata nel 1396 dal suo avversario, LudovicoII d'Angiò, a Galeotto Pagana, fratello di Renzo. La famiglia 'Pagana', d'origine normanna, e che traeva ilcognome dal possesso del feudo di Pagani, nella Basilicata,

“Clemente, giudice ini-quo e crudele, io ti augu-ro, entro quaranta gior-ni, di comparire davantial tribunale di Dio! E tuFilippo sei maledettofino alla tredicesimagenerazione!”

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completamente, e i suoi abitanti si dovettero trasferire inuna zona contermine. Dell'antica struttura urbana restanoinsigni ruderi e qualche approssimata descrizione.Da poche e scarse notizie si ricava che, nella cinta mura-ria, ovaleggiante, si aprivano tre porte: la Porta del Borgoa nord, Porta della Montagna a sud, Porta Rosèa a ovest; lastrada principale collegava le Porte nord e sud, mentre dalsuo centro si partiva l'allaccio alla Porta Rosèa. Il che signi-fica che l'impianto urbano, ad un osservatore posto sullecolline antistanti il paese lungo le quali si snoda la stradad'accesso, appariva scandito da una grande T. E il segno del'Tau', è documentato essere il marchio… delle iniziativeurbanistiche Templari.L'area fortificata comprendeva il borgo, nellaparte bassa, e il castello, con le strutture edi-lizie più importanti, nella parte alta. Qui erasituato anche un ospedale, di cui, purtroppo,non si conosce l'intitolazione. C'era una chie-setta dedicata a San Marco, e oltre la PortaRosèa c'era anche un ponte, struttura rarissi-ma per quei tempi, che scavalcava il TorrenteRaci.Questi elementi consentono di ipotizzare unapresenza dei Cavalieri del Tempio anche aSeminara?La prima emersione di Seminara dal buio deisecoli avviene durante le lotte fra Manfredi eRuffo di Calabria, per la successione diFederico di Svevia. La ritroviamo poi coinvoltanegli scontri fra Angioini e Aragonesi, e, anco-ra, in due battaglie combattute sotto le suemura, nel giugno 1495 e il 14 aprile 1503 fraFrancesi e Spagnoli. Ciò ne testimonia l'impor-tanza strategica. Il 3 novembre 1535, Carlo V,sulla via del ritorno dall'Africa, vi fa un ami-chevole ingresso trionfale.Nessun dubbio, quindi, che Seminara fosse unpunto cardine lungo quella via Popilia che eral'unica strada di grande collegamento esisten-te in quei tempi - non dimentichiamo che aCatona, terminale della via consolare e postodi traghettamento per la Sicilia, erano iCavalieri Gerosolimitani ad avere un grandeospedale-lazzaretto -.Proprio per Seminara, da altra fonte, si cono-sce un ulteriore atto, con il quale sempreCarlo I d'Angiò impone ai cittadini di quel cen-tro il versamento di 136 once d'oro, per risar-cire i danni subiti da un suo uomo d'arme nellaprecedente occupazione di parte sveva.Può supporsi, allora che non proprio alla Grande Casamaterialmente intesa, ma ai suoi beni, alle proprietà evi-dentemente possedute in Seminara, fosse stato arrecatodanno, e che, per evitarne di ulteriori, fosse stato deciso,da Adymaro, il gesto di magnanimità che il notaio comuni-ca ai Seminaroti.- Recentissime ricerche hanno fatto nascere l'ipotesi diuna connessione fra i Cavalieri Templari e il culto allecosiddette 'madonne nere'. Ebbene: com'è noto, laMadonna dei Poveri di Seminara è una 'Madonna Nera'…! - A questo punto comincia a delinearsi un'interessantissimatraccia, per ritrovare i segni dei Templari nell'area delloStretto: Messina, Reggio, Seminara.

Senza dimenticare, risalendo lungo l'asse viario che porta-va a Roma, le Commende dell'Ordine di San Giovanni diGerusalemme, presenti più avanti, a Drosi di Rizziconi e aMelicuccà.Questo è quanto si può, allo stato attuale delle conoscen-ze storiche, dire sui rapporti fra Reggio e i medievaliCavalieri dell'Ordine del Tempio. Ci sono dunque molte probabilità che Reggio abbia avutorapporti intensi, e forse privilegiati, con i rosso-crociatiTemplari. Il che aumenta per noi il fascino che in tutto ilmondo occidentale essi suscitano. Un fascino indubbiamen-te accresciuto dai risvolti misteriosi della loro storia e dalle

leggende che li hanno sempre avvolti.E chiudo proprio con una di queste intriganti leggende: ilboia parigino Charles Henri Sanson, prima di calare la ghi-gliottina sulla testa di Luigi XVI, il 21 gennaio 1793, nellaPlace de la Revolution - oggi Place de la Concorde - , gliavrebbe mormorato: “Io sono un Templare, e sono qui perportare a compimento la vendetta di Jacques de Molay”…

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nella sua piazza si tenesse una Fiera, che durava quindicigiorni: dal 24 aprile al 10 maggio. Su di essa, nel '600, saràedificata la chiesa di 'San Paolo fuori le mura'.E' semplice coincidenza, la presenza dei due toponimitanto cari ai Cavalieri dei Templari, collegati a due parti-colari istituzioni, nella nostra città?Fra il 1100 ed il 1300 - periodo di splendore dell'Ordine -Reggio e Messina costituiscono la chiave di volta di tutto ilmovimento d'uomini e merci del Mediterraneo. Addirittura, si parla di Messina quale primo insediamentoTemplare in Italia, nel 1131, con una forte presenza nel-l'area del porto e con un Priorato, dedicato...a San Marco!La storia di Reggio in quei due secoli fu caratterizzata danotevoli turbamenti, ma anche da grande prosperità. Qui siinsediano grosse colonie di Amalfitani e Genovesi, richia-mate dagli intensi traffici sviluppabili da e verso l'Orientemediterraneo - e ce n'è rimasta testimonianza nella 'PortaAmalfitana', che si apriva sul lato del mare -.Un episodio riguardante direttamente le due città dirim-pettaie ed i Templari, accade nel 1190. In quell'anno, arrivano a Messina gli eserciti inpartenza per la Terza Crociata, guidati daRiccardo I d'Inghilterra e da Filippo II diFrancia. Presto sorgono contrasti fraRiccardo e Tancredi, il re dellaSicilia, perché costui trattiene, aPalermo, Giovanna, vedova delprecedente re, Guglielmo II, esorella del sovrano inglese; equesti ne vuole - e, alla fine, neotterrà - la liberazione. Ciòfatto, Riccardo, il famoso Cuor diLeone, passa lo Stretto, perlasciare, sotto buona scorta, nonsolo Giovanna, ma anche suamadre, Eleonora, e la sua giovanefidanzata, Berengaria di Navarra, chelo avevano seguito nel viaggio verso laTerrasanta.Nel frattempo, però, Inglesi e Messinesi sonovenuti alle mani, e Riccardo, tornato fra i suoi, invadeMessina, che viene messa al sacco; anzi, vi costruisceanche un forte in legno, il famoso Forte di Matagrifone. Ilre di Francia, sollecitato da Tancredi, interviene per resti-tuire la libertà alla città. L'accordo è raggiunto - diceSpanò Bolani - con l'affidare “la custodia delle fortezze aiCavalieri Templari ed Ospedalieri, loro comuni confederatied amici”.E' noto che, fedeli al loro voto, i Templari costruironoPrecettorie e Magioni lungo tutte le grandi arterie consola-ri romane, allora ancora in uso, che erano gli itinerari piùfrequentati dai pellegrini medievali e dalle armate crocia-te, che attraversavano l'Italia per raggiungere gli imbarchiper la Terrasanta.E non è pensabile che il loro frenetico, beneficante attivi-smo si sia limitato alla sola città di Messina, e non si siainvece esteso adeguatamente a questa parte dello Stretto,là dove le esigenze di proteggere il viandante e di curarel'ammalato erano forse ancora più pressanti, e certamentepiù funzionali.L'Ospedale di S. Margherita, dentro la Città, e la chiesaesterna intitolata a S. Marco possono essere la concretadimostrazione della presenza di quei nobili guerrieri che,

avvolti nei bianchi mantelli segnati dalla croce vermiglia,impugnavano la spada per far trionfare la Fede, e la ripo-nevano solleciti nel fodero, quando sopraggiungeva laCarità.Questa, tuttavia, allo stato attuale delle conoscenze delMedioevo reggino, è soltanto un'ipotesi, un tentativo, col-legando elementi di diversa provenienza, di gettare luce làdove il buio è terribilmente fitto.Qualcosa di più potrebbero dirci gli archivi dell'OrdineGerosolimitano. Ordine nel quale, come già detto, conflui-rono buona parte dei beni dei Templari, quando essi furo-no brutalmente cancellati dalla Storia militare e religiosaeuropea.I cabrei cinquecenteschi e secenteschi dell'Ordine, forse,contengono la risposta a questo quesito. Proseguendo, poi, nelle ricerche, ho potuto mettere assie-me un fascetto di altri documenti che riguardano il rappor-to fra i Cavalieri del Tempio e Reggio, e che mi sembranofin qui sconosciuti. Trattasi di due atti contenuti nel

Sillabus Membranarum Ad Siclae ArchiviumPertinentium, conservato nell'Archivio di Stato

di Napoli. Sono datati rispettivamente 1273e 1277.

L'atto del 26 aprile 1277 è steso dalnotaio Nicola del Thomassino, moltoprobabilmente reggino perché rogain questa città, in esecuzione di unmandato di Ludovico de Montibus,Strategoto di Messina. - Da altrafonte, è documentato cheLudovico de Montibus, milite,teneva l'alta carica di Strategotodi Messina già nel 1273. -

Nell'atto, si ordina ad alcuni uomi-ni, sempre di Reggio, che, al venti-

cinquesimo giorno dopo la citazione,si rechino davanti al re - che è Carlo I

d'Angiò - per udire la sentenza sulla litecorrente fra essi e il Precettore della Grande

Casa della Milizia del Tempio di Sicilia, che a quel-l'epoca, secondo un'annotazione posta nel fascicolo checonserva l'atto, era un tale 'Roberto'. Purtroppo il transun-to non contiene né i nomi dei Reggini interessati alla lite,né l'oggetto della lite stessa.Molto interessante è l'atto del marzo 1273, stilato aSeminara per mano del notaio Roberto, figlio del notaioNicola, di Seminara. In esso è detto che Adymaro - gliAdimari erano un'antichissima famiglia patrizia di Firenze -Precettore delle Case della Milizia del Tempio diGerusalemme e Luogotenente del Maestro della GrandeCasa nel Regno di Sicilia, rimette ad alcuni uomini diSeminara i danni da essi arrecati alla Grande Casa, purchéin futuro si astengano dall'arrecarle ulteriori offese.Come va interpretato questo documento? Gli uomini perdo-nati sono certamente di Seminara, ma quale Grande Casaera stata offesa? Seminara è un grosso centro nella provin-cia di Reggio Calabria posto su di un vasto altopiano, tral'acrocoro del monte Sant'Elia e i contraffortidell'Aspromonte. Era a cavallo della via Popilia, ed era cinto di mura. Nel1420, la regina Giovanna II vi istituì una fiera, che si tene-va per dieci giorni nel mese di luglio. Purtroppo, il terremoto del 5 febbraio 1783 lo distrusse

uigi nasce nel 1867, nei dintorni dell'attuale Agrigento, in una località chia-mata Caos. Il nome verrà assunto dallo scrittore come emblema profetico.Non esiste un sistema teorico coerente per spiegare la vita. Ogni pretesa

di interpretarla, dallo storicismo al positivismo e all'idealismo, è tentativovile. Inutili religione e scienza, in quanto confortano la solitudine dell'uomo.In tal senso euforia e panico si mescolano in questa esaltazione del flusso,che deve molto a Bergson e a Séailles, alla rivolta contro tecnica e razio-nalità nel mondo, a fine 0ttocento. La madre, Caterina Ricci-Granata apparteneva ad un ceppo di tradizio-ni patriote e garibaldine. Questo spiega il successivo disincanto delloscrittore entro un Meridione deluso dal nascente Stato Italiano postri-sorgimentale. Qui, il presupposto che lo spinge nel 1924, all'indoma-ni del delitto Matteotti, a iscriversi al partito fascista, disgustandogli amici liberali. Nel fascismo, per il momento non ancora regime,vede l'esaltazione delle contraddizioni, contro i vecchi partiti par-lamentari. Si mescola qui la formula, che dal '24 aiuta a definirloin qualche modo, suggerita dal critico Adriano Tilgher, ovvero ladialettica tra molteplicità della vita e unità della forma, cui ade-risce per un po' lo stesso Pirandello. Sposa una giovane e introversa ragazza, Antonietta Portulano.Costei, figlia di un socio in affari del padre di Pirandello, Stefano,abituato a investire capitali nell'industria e nel commercio dellozolfo, gli porta una ricca dote, investita dal suocero in una minie-ra, poi travolta da un allagamento. Antonietta, stanca per le tre

L’esaltazionedelle contraddizioni

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I Giganti della Montagna con Mariano Rigillo - Catonateatro 2001

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Capuana, oltre ai 241 racconti, pre-testi per lo sviluppodei plays, 7 romanzi. Qui, bozzetti provinciali o la Romadei recenti inurbati. Ma si tratta di una Roma mostratanella corruzione parlamentare, nella modernità cinemato-grafica e nella ridda di riviste letterarie, e soprattuttonella piccola borghesia impiegatizia alle prese colla crisieconomica di fine secolo. Così, L'esclusa nel 1901, storia diuna sposa fedele, accusata di adulterio e poi reintegrataquando è davvero colpevole; Il turno nel 1902, farsa ses-suale che vede giovani e vecchi contendersi e sposarsi l'unodopo l'altro la ragazza desiderata; I vecchi e i giovani nel1909, romanzo storico e generazionale sulla scia di DeRoberto a denunciare il disincanto dell'autore; Suo maritonel 1911, apologo sulla carriera di una scrittrice-madre (laDeledda sullo sfondo) in difficoltà nel conciliare gravidan-ze naturali e creazioni letterarie. La trilogia dei romanzi inprima persona, da Il fu Mattia Pascal nel 1904 a Quadernidi Serafino Gubbio operatore nel 1915 a Uno, nessuno ecentomila tra il '25 e il '26, sviluppa la figura dell'Io narran-te, che lascia mondo, appetiti e ambizioni, nella rinunciatotale al sé, per poi rituffarsi alla fine sulle cose, in unapura immedesimazione. Come fa appunto l'occhio diVitangelo Moscarda, il terzo tra questi asceti, rifugiatosivolontariamente in un ospizio, dopo aver donato i propribeni, tra ironiche digressioni nello stile del TristramShandy. Insomma, il passaggio dalla terza persona narrati-va dei primi romanzi alla prima persona della trilogia vedel'Io dissolversi tra momenti luttuosi ed euforici. Si pensisempre al finale della vicenda di Vitangelo Moscarda, chedichiara enfaticamente di morire e di rinascere ogni gior-no, divenendo cosa, acqua, aria e cielo, omaggio esplicitoal dannunziano Meriggio. Ma un simile percorso è paralle-lo all'evoluzione dalla scena naturalistica alla centrifuga-zione del palcoscenico operata nei copioni più importanti.Eppure, le frequenti messinscene del suo teatro, ieri comeoggi, incorrono proprio nella valorizzazione dell'unità delpersonaggio, favorita dal contributo di grandi interpreti, ilcui carisma risulta rassicurante, garantendo il ripristinodella figura umana. E invece questo stesso personaggio,proprio nella sua appartenenza al Novecento più moderno,è una forma decentrata. Si tratta, infatti, di un personag-gio disgregato dallo sguardo umoristico del suo autore. Sipensi solo al repertorio dialettico, al salotto filosoficodiviso tra il raisonneur, personaggio testa, e il personaggio-corpo, legato ai desideri umani, alla coerenza dell'Io, aibeni materiali, all'onore. Questa la ferita simbolica chemina dalle fondamenta l'unità dell'Io, un soggetto vicever-sa proiettato in parti separate, e dimentiche dell'originecomune. In più, il personaggio teatrale, se punta ad eter-narsi, ha bisogno del corpo dell'attore per incarnarsi senzaesserne soddisfatto. Un vento gotico, però, soffia sul suopalcoscenico. In effetti, il solo personaggio verso cui siorienta un'esplicita simpatia da parte del suo autore è ineffetti colui che si mostra contiguo alla morte, o ad unagrave malattia, più grazia che disgrazia a questo punto. Avolte, magari è già defunto, come il filosofo al centro delMistero profano, intitolato All'uscita del '16 e in scena nel'22. Perché spesso è la malattia, il cancro ne L'uomo dalfiore in bocca del '23, o la tubercolosi ne L'imbecille del'22, che dona alle proprie vittime l'opportunità di unosguardo ironico sulle umane ambizioni. La sua drammaturgia si articola via via tra la produzionedialettale degli anni 1910-1915 e il salotto dialettico del1916-1920, quindi tra la trilogia metateatrale del 1921-

1930 e l'esito finale dedicato ai miti. Intorno stanno, da unlato, le soirées futuriste e gli spaesamenti surrealisti e dal-l'altro il circuito commerciale, con codici ancora naturali-stici e la well made comedy. Non manca una forte compo-nente espressionista, con deformazioni alla Georg Grosz,evidente nella sconciatura fisica riservata al corpo del per-sonaggio, sia ai simulacri del potere che alle creature logo-rate dalle tensioni interne, come ne La sagra del Signoredella nave del '25. Ora, questa scrittura, lacerata tra spin-te differenziate, sollecitate anche dalla nascita del cine-ma, appare tutta sospesa tra due poli, la necessità diimporsi sul gusto della platea e quella di andare oltre.Quello che i futuristi avevano fatto, ma solo per episodimolto brevi, Pirandello realizza dentro circuiti professiona-li, spostando consuetudini di recitazione e tipologie diascolto.

Il fatto che, all'inizio, i suoi personaggi a volte parlino indialetto, è dovuto alle committenze di compagnie sicilia-ne, specie quelle catanesi, dal sanguigno Giovanni Grassoall'animalesco Angelo Musco, su patrocinio dell'amicoMartoglio, per cui nel 1915 progetta Il continentale, daquest'ultimo poi completato da solo, e Cappiddazzu pagatuttu, in scena, postumo, solo nel '58. Ma l'idioma regiona-le non è certo amato dall'autore, orientato verso una con-cezione della lingua vicino a Graziadio Isaia Ascoli, nellasintesi tra tradizione locale e dignità letteraria, tesa versouna lingua italiana parlata comunemente, che arrotondi ladilettalità di partenza. Nello stesso Enrico IV, l'aperturapare un omaggio a Petrolini, perché in un contesto allaD'Annunziano e alla Benelli due valletti medievali parlanoun indubbio romanesco, abbassando immediatamente ilregistro aulico della scena. Lui, dottorato a Bonn con unatesi sulla parlata agrigentina, si affretta a tradurre in ita-liano l'eventuale prima versione sicula. Ad ogni modo, fin

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gravidanze ravvicinate (tra il 1895 e il 1899), diviene predadi ossessioni paranoiche almeno a partire dal 1903, e sifissa nell'accusa rivolta al marito di incesto colla figlia, sinoad essere internata nel 1919. Ma un altro trauma incidenella sua opera. Da adolescente, s'è trovato infatti ad assi-stere ad una turbevole scena di adulterio in una sorta dimorgue. Da qui, forse, l'insistenza del motivo del guarda-re, presente nei suoi testi. Gli anni della guerra concentra-no dolori e tensioni per lui: oltre alla perdita di fatto dellamoglie, gli muore la madre, il figlio Stefano è prigionieroal fronte, e Fausto si ammala ai polmoni durante il serviziomilitare. E la guerra, nonostante un nazionalismo di faccia-ta, viene sentita come tragedia storica, e contrappostaall'indifferenza della natura. Ma la crisi muta pure il suodestino professionale, perché da poeta e intellettuale ren-tier si farà scrittore, anche di teatro, per mantenere sé ela famiglia. Oggi, però, sappiamo che la vocazione alla scena di Luigi

data dalla sua prima giovinezza, con copioni scomparsi,abbozzati anche per la Duse, alcuni dal titolo allusivo alplay within play, come Provando la commedia. Eppure, inapparenza, il palcoscenico si mostra nella sua carrierasenza dubbio periferico. Pare orientato ufficialmente versoil ruolo di poeta, traduttore di Goethe, di cui cura Elegieromane nel 1896, magari nella mediazione di tardi roman-tici, come Prati e Aleardi, e di un classicismo pagano allaCarducci con asprezze stilistiche da Scapigliatura.Notevole infatti per quantità, all'inizio, la produzione poe-tica, da Mal giocondo nel 1889 (dal titolo emblematico,circa le fratture che caratterizzano l'universo pirandellia-no), a Pasqua di Gea nel 1891, da Elegie renane nel 1895,a Zampogne nel 1901. Impegnato pure nel versante teori-

co. Da La menzogna del sentimento nell'arte del 1890, aL'azione parlata del 1899, da Arte e scienza del 1908 aIllustratori, attori e traduttori del 1908 e a Teatro e let-teratura del 1918, lo scrittore siciliano manifesta un'espli-cita allergia contro il passaggio sulla scena, dove la tradu-zione dell'interprete è solo tradimento, sempre infedelealla produzione originale del poeta. Ideale sarebbe se ipersonaggi potessero uscire dalla pagina, come da un qua-dro, e mostrarsi da soli sul palcoscenico! In compenso, sot-tolinea in queste riflessioni l'avversione contro ogni formadi manierismo letterario. Sta infatti dalla parte di Vergacontro D'Annunzio, come ribadirà nel 1920. Nel 1908, pub-blica L'umorismo, inventario delle modalità del comiconella letteratura e nell'estetica, maturato nel soggiornotedesco in cui ha letto romantici e filosofi passati e coevi,da Heine a Jean Paul, da Tieck a Schopenhauer a TheodorLipps. Modelli per il suo riso grottesco sono Socrate eManzoni, l'Orlando furioso e Don Chisciotte, Dosteovskij e

Federico Schlegel. Il saggio gli procura polemiche conBenedetto Croce, cui risponde polemicamente nellaristampa del 1920. Ma la teoria umoristica del personaggionon aiuta questo stesso personaggio a farsi organico e uni-tario, secondo dettami che rimandano a De Sanctis.Ognuno di noi vede e viene visto dall'altro in una babele disguardi incrociati e umoralmente mobili. Simpatia e anti-patia, ovvero il sentimento del contario, si fondono neiriguardi del medesimo oggetto. Significativa la parabolaospitata ne Il fu Mattia Pascal, col teatrino di marionetteche ospita Oreste. Lo strappo in alto, che buca il cielo dicarta, muta Oreste in Amleto mentre la tragedia antica simuta nel grottesco moderno. Tra i testi narrativi, cui si volge su sollecitazione di Luigi

Paolo Puppa è ordinario di sto-ria del teatro e dello spettaco-lo alla Facoltà di Lingue e diLetterature dell'Università diVenezia e direttore delDipartimento delle Arti e delloSpettacolo. Ha insegnato ediretto laboratori teatrali inuniversità straniere comeLondra, Los Angeles, NewYork, Princeton, Toronto,Middlebury, Budapest, Parigi eLilles. Collabora in qualità dicritico a «Hystrio», «Sipario»,«Ariel». Dirige la collana di

drammaturgia “Il Metauro”. Oltre a numerosi volumi distoria dello spettacolo e monografie e saggi vari, tra cuistudi su Pirandello, Ibsen, Fo, D'Annunzio, Svevo, Rolland,Goldoni, ha al suo attivo molti copioni, pubblicati, tradot-ti e rappresentati anche all'estero, tra cui La collina diEuridice (premio Pirandello '96) e Zio mio (premio Bignami-Riccione '99). Si ricordano in particolare: Famiglie di notte,Sellerio, 2000, e Venire, a Venezia, Bompiani, 2004.Sempre nel 2006 ha ottenuto il premio come autoredall'Associazione critici di teatro”.

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Ma non è una cosa seria con Pino Micol - Catonateatro 1998

dal primo repertorio dialettale, il taglio eccentrico di forteimpronta antropologica ridimensiona il retaggio in vernaco-lo. Così l'esplosione di vitalità campestre in Liolà del '16 (ilsolo testo di cui curi l'edizione dialettale l'anno dopo),sorta di fecondatore arcaico e irridente. Così, la querelleavvocatesca sulla brocca rotta, dove s'è rintanato il vec-chio acconciatore, nella 'A Giarra del 1917, così lo iettato-re che sull'emarginazione inflittagli dai maldicenti sicostruisce un nuovo statuto di negromante ne La patentedialettale nel 1918. E nondimeno nel '18 lavora alla versio-ne siciliana di Glauco di Ercole Luigi Morselli, mentre nel'19, va in scena la sua traduzione di 'U Ciclopu, da Euripide. Ben presto però, il sipario si alza non più su scenari natu-ralistici ma su di un salotto inquieto, quello del triangoloalla Marco Praga, di filiazione francese. All'inizio i soggettidi questo repertorio risultano immersi nell'aura ottocente-sca e perbenista in cui l'adultera, incalzata dai sospetti delmarito, paga la sua colpa suicidandosi come ne La morsa,

sviluppo di un primitivo abbozzo, in forma di atto unicoL'Epilogo, concepito fin dal 1892, al debutto nel 1910. Unadultero deve lasciarsi a sua volta morire come ne Il dove-re del medico, in scena nel 1913. Ma già in All'Uscita iltriangolo amoroso subisce una sorta di molteplicazioneastratta, perché l'amante non vuole che il marito della pro-pria donna muoia per non divenire, a sua volta, vittima deitradimenti della femmina con un altro partner. Allo stessomodo in Bellavita, in scena nel 1927, il rapporto tra i dueuomini si tinge di ambiguità omosessuale, con richiamiall'Eterno marito dostoevskijano, perché il vedovoBellavita si patenta teatralmente da cocu, incurante delloscandalo che suscita tra i benpensanti, e tormenta l'exrivale. Qui, si parodizzano onore e corna, ancor più radi-calmente che nella coeva tradizione grottesca, impegnata,negli anni a ridosso della Grande Guerra, a sdrammatizza-re il cocuage, ancora condizionante la società civile e icodici penali, e le forme melodrammatiche che lo correda-

vano. Adesso, la topica delle corna esce dall'alternanza trafarsa boulevardière e dramma verista della gelosia, perfondere tra loro i due registri. Al centro di questo saltotto sta la lunga serie dei raison-neurs, coloro cioè che non vivono in scena, ma si limitanoa guardare gli altri vivere, insomma i commentatori impla-cabili e trasgressivi che sabotano qualsiasi pretesa dicostruirsi una maschera perbenista, una coerenza salottie-ra, una sicurezza esistenziale. Qui, riesce a trasformare unruolo subalterno nell'800 come il brillante, nel protagoni-sta, in scena con la voce appunto di testa di RuggeroRuggeri, scalzando il primo attore, l'eroe-amoroso, il piùdelle volte umiliato e ridicolizzato dal plot. LambertoLaudisi nel Così è (se vi pare) del1917, il contemporaneoAngelo Baldovino ne Il piacere dell'onestà, Leone Gala neIl giuoco delle parti del 1918, colui che prende in giro l'ar-ditismo futurista con un distacco dandy, così Enrico IV del'22, chiuso nella sua simulata follia e in un Medioevo

posticcio, risultano tutti dotati di uno sguardo distaccatorispetto al mondo, eroi del teatro dialettico, argomentato-ri che lanciano in sala bombe (come notava Gramsci croni-sta), stanando le contraddizioni tra ideologie e pulsioninascoste. Problematico e relativistico, questo soggetto fadeflagrare l'istituto matrimoniale, scoprendo colpe magariretroattive, come in Tutto per bene del 1920, o creandoménages scandalosi come nel dialettale Pensaci,Giacomino! del 1916 o annichilendo tra sconciature anima-lesche i ruoli famigliari in L'uomo, la bestia e la virtù del1919.Ma questo raisonneur proietta la propria vocazione apoca-littica negli ingranaggi che reggono la comunicazione inter-personale del dramma e che assicurano la consistenza deiconflitti, facendola precipitare verso soluzioni metateatra-li. Già ne Il berretto a sonagli, dapprima in versione dia-lettale in scena nel 1917, assistiamo, in concomitanza collagenesi del filosofo, in questo caso Ciampa, l'umile scrittu-

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rale, ad allusive intrusioni della metascena. Grazie allostratagemma della follia imposto alla padrona, Ciampaevita il delitto d'onore e si erge a solitario "regista" dellesoluzioni finali. Autentico portavoce dell'autore per la suaconsapevolezza dell'alternanza delle "corde" Espressive,suggerisce agli altri personaggi i gesti e le battute non soloper zittire il coro dei pettegolezzi, ma anche per far cala-re il sipario. Il ghigno clownesco con cui Ciampa si conge-da dagli avversari e si defila dalla storia, relegando lamoglie gelosa (del padrone entro il testo, di se stesso nellavita!) in manicomio, è un po' la smorfia accidiosa di EnricoIV, perché in entrambi i plays si accede alla solitudine delcreatore. Se Enrico IV scopre l'impossibilità di penetrare ilmistero dell'altro da sè, se prima ancora Lamberto Laudisi,in Così è (se vi pare) dialoga davanti allo specchio con sestesso come se si trovasse di fronte ad un'altra persona, ènei Sei personaggi in cerca d'autore del '21 che il ragiona-mento sul teatro mina le possibilità del conflitto interper-sonale, mentre la scena, basata sulla conversazione pru-dente e pettegola, si frantuma tra immagini fascinose,fatte di orrori sognati e di deliranti confessioni. In Questasera si recita a soggetto del 1930, si afferma una disunio-ne sistematica, a mettere in crisi l'utopia simbolista ewagneriana dell'opera d'arte totale. Adesso, cinema, jazz,processione religiosa, cabaret vengono a frizionarsi traloro. Così, l'opera lirica viene consumata, all'interno dellapièce, attraverso uno sgangherato grammofono, mentresullo schermo passa l'immagine muta dell'opera stessa, trale chiacchiere dei personaggi e le furibonde proteste dellecomparse. In tal senso, il precedente Ciascuno a suo modo,inaugurato in scena nel 1924. Esalta l'espansione fuori dallospazio all'italiana, già sperimentata delle sintesi diMarinetti e sodali. Hinkfuss, il deforme regista in Questasera, funge inoltre da venditore di immagini mercificate edi sensazioni non più resistibili, rivolto a una platea abba-cinata dalle sorprese e dalle sue sensuose trovate. E' lui losciancato spartitraffico che regola l'incrocio di trancesimmedesimative e di risvegli tra palcoscenico e sala, ildeus ex machina dello spettacolo postmoderno da cui laforma teatro non può che venire espulsa. La partitura pirandelliana si rovescia, specie in questa stra-tegia metateatrale, del resto non confinata nella celebretrilogia, nella trascrizione di un decentramento non risoltotra le forze invitate a produrre l'evento, gli attori versus ipersonaggi, i registi versus il pubblico, la strada versusl'edificio teatrale, la storia raccontata al passato versus laripetizione nell'azione presente. Spesso, l'attore e il perso-naggio convivono in una relazione disturbata nel medesimocharacter, da Enrico IV, a Questa sera si recita a soggettoall'ultimo e incompleto I giganti della montagna, là dove gliinterpreti trascinano perplessi i propri ruoli, mescolandolia porzioni di sogni fatti in diretta. E la svolta metateatra-le libera altresì traumi ben più torbidi dei consueti triango-li adulterini. Ma intanto il teatro non è più al centro, nellacittà moderna, tra cultura di massa e regimi totalitari. Ildramma pare sprofondare nella babele caotica dellaMetropoli, dove la crisi dell'Io rivendica altre tecniche, piùrapide e nervose, per manifestarsi! Non rimane allora che ripercorrere antiche rotte, allaricerca di pubblici ignoti: è questa la grazia/disgraziadestinata alla troupe squinternata che si smarrisce nell'iso-la misteriosa al centro de I giganti della montagna. Il tea-tro adesso si fa mitico, e comprende, oltre ai Giganti, Lanuova colonia del 1928, e Lazzaro del 1929. Follie private,

magie arcaiche, fenomeni occultisti vanno così a stampar-si sui muri interni della strana dimora, come nei capricci-incubi del Sogno (ma forse no), scritto nel'28. Si vedanopure gli adulteri subliminali di Non si sa come, ricavato, inscena nel' 35. E intanto il cinema (il 1929 è pure l'anno incui pubblica sul <<Corriere della sera>> l'importante scrit-to Se il film parlante abolirà il teatro, in cui propone unaforma mista tra musica e immagine) trova qui una rispostaambigua. Perché Pirandello insegue ora barocchi colpi discena. Sparisce a poco a poco il raisonneur del teatro dia-lettico e si punta viceversa ad un turgore oratorio. Il padre-autore è definitivamente assente, condannato alla sterili-tà, all'irrigidimento come in Quando si è qualcuno del '33,o al suicidio, come fa il poeta nell'antefatto dei Giganti,idea che trova, del resto, una specie di consacrazione nellarichiesta nichilista contenuta nel testamento di Pirandellostesso, che voleva essere bruciato e disperso nel mare. La parola ora si fa poetica, nel significato arcaico di suonocreatore di realtà, e può ridonare le gambe alla bambinaparalizzata in Lazzaro o far sparire l'isola dei malvagi ne Lanuova colonia, sommersa dal maremoto espiatorio. Perchéa questo punto la scena corrisponde a una pratica religio-sa che richiede gesti rigorosi, una pronunzia miracolistica. Pirandello, nelle premesse idealistiche, non ama la vanitàdei suoi interpreti. Non si dimentichi il sabotaggio operatoa poco a poco dal commediografo entro le rigide gerarchiedei ruoli, presso le compagnie d'arte per cui lavora. A fardebuttare nel '21 i Sei personaggi è la più elegante compa-gnia del tempo, diretta dal commediografo DarioNiccodemi, in un clima quasi da telefoni bianchi e rosescarlatte in anticipo, una fragranza da Coward nostrano,ma dove il mistero dei personaggi introduce devianze sini-stre e miasmi cimiteriali. Ebbene, nell'ultima produzione èl'attrice femminile, Marta Abba, a svolgere il compito dimusa ispiratrice e protagonista. Per lei lo scrittore confe-ziona gli ultimi ruoli muliebri, la Tuda di Diana e la Tuda ela Marta de L'amica delle mogli nel 1927, la Sara inLazzaro, la sconosciuta in Come tu mi vuoi del 1930, laDonata in Trovarsi del 1932, la russa Veroccia in Quando siè qualcuno, e su di lei abbozza la Ilse nei Giganti. Certo,c'era già stato il personaggio dell'attrice nella produzionedi Pirandello, ma tutto costruito secondo lo stereotipodella vamp, basti pensare alla Nestoroff del Si gira… oalla Moreno di Ciascuno a suo modo. Ora, lo schema s'èriempito di motivazioni complesse e rinnovate: mobilità,impulsività, insofferenza per il decoro borghese e l'autori-tà maschile, dono di sé, sensualità fremente e sdegnosa,insoddisfazione fisica, ispirazione trepida, ricerca smanio-sa dell'oltre e disgusto per il corpo sono tutte ideazioni checonfluiscono nell'interprete mitizzata culturalmente. Seprostituta, come la Spera ne La nuova colonia, se adulteraribellistica come la Sara in Lazzaro, il processo di trasfor-mazione dalla materia allo spirito assurge ad un livelloancor più clamoroso. Forse la propaganda demografica, gliincentivi del fascismo per un teatro aperto alle masse pos-sono essere i referenti culturali per una simile ideologia damadre mediterranea. Nondimeno, grazie a Marta Abba,l'ultimo teatro pirandelliano pare rimotivarsi e fissarsi neilimiti di questa dedizione tormentata all'altro da sé chesolo una donna, e solo un'attrice, può incorporare. Unadisperata storia d'amore priva di uno sbocco fisico con lafiglia-musa Marta, questo è anche l'orizzonte metaforicodegli ultimi copioni.

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I sei personaggi in cerca d’autore con Sebastiano Lo MonacoCatonateatro 1997

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quasi immutate, prima di essere spazzate via da questamodernità, in maniera così veloce, che i suoi lavori sonoriusciti appena in tempo a lasciarne testimonianza.“De Seta, seguendo istintivamente il modello dei poetiantichi, togliendo ai suoi film il commento parlato edifi-cante […] strutturando secondo uno schema poetico ricor-rente (descrizione dell'uomo nel suo ambiente, tensione eminaccia, pacificazione e ritorno alla quiete) ha costruitoun unico grande film sul mondo “com'era”, che ha docu-mentato e cantato nella sua bellezza e nelle sue difficoltàsapendo istintivamente che esso era destinato a sparire…”(G.Fofi). Vediamole dunque da vicino “le opere e i giorni”di questo Maestro, cominciando dal primo: Lu tempu di lipisci spata, 1954, sulla pesca del pesce spada nello Stretto,

la lunga estenuante attesa dei pescatori di Scilla, diBagnara, di Ganzirri, il silenzio ritmato dall'infrangersi delmare sulle barche e tutto d'un tratto il grido della vedettae la frenesia della caccia in una lotta epica, fino all'ucci-sione della preda. Le feste sacre e gli antichi riti, il dram-ma della morte e della resurrezione di Gesù, sono al cen-tro di Pasqua in Sicilia, del 1955; Isole di fuoco, dello stes-so anno e miglior documentario al Festival di Cannes,ambientato nelle isole Eolie tra la calma e l'attesa che pre-cede l'eruzione del vulcano. Ancora del 55', Parabola d'oro,

sulla raccolta del grano eseguito con i sistemi primitivi eContadini del mare, che descrive la pesca con le tonnarenel canale di Sicilia, la furia della caccia, un'eterna lottafra uomo e natura degna di Melville e del suo Moby Dick.“Al largo delle coste siciliane gli uomini attendono i tonniche, da millenni, seguono una rotta sempre uguale.Quando nella rete affiora il tributo del mare, torna a ripe-tersi l'alterna vicenda della vita e della morte”, recita ladidascalia iniziale. Surfarara, sempre del 55', tra i minato-ri che rischiano ogni giorno la vita per estrarre lo zolfodalle cavità della terra, nella Sicilia centrale. Pescherecci,1958, una giornata di pesca fra vento e mare in tempesta;sulle imbarcazioni gli uomini dormono o giocano a carte, inattesa della calma, per tornare al lavoro.

I Dimenticati, 1959, ambien-tato ad Alessandria delCarretto, nell'isolamen-to per gran parte dell'annodel paesino calabrese, dovu-to alla sua altura e allamancanza di collegamenti:“Sembra un sortilegio, latecnica si è arresa alle allu-vioni, alle frane…”, ma chepare rinascere ogni anno inoccasione della Festa dellaPrimavera “…l'unica occa-sione per questi dimentica-ti per sentirsi vivi”. Dal sog-giorno in Sardegna, Un gior-no in Barbagia, 1958, lasolitudine necessaria deipastori in questa vastaregione sarda, costretti avivere la maggior parte del-l'anno lontano con le lorogreggi, mentre le donneaccudiscono i bambini, malavorano anche nei campi,tagliano la legna, prepara-no il pane. “Questo è il

Supramonte di Orgosolo, in Sardegna, un tempo rifugio dilatitanti e banditi”, apre il bellissimo Pastori di Orgosolo,1959, che gli ispirerà il primo lungometraggio. De Seta hainfatti realizzato film di altro genere, sebbene le sue opererimangono inclassificabili, per il sottile equilibrio che man-tengono fra la realtà e la sua rappresentazione (o messa inscena) e per quello sguardo poetico sulle cose che alla finelo ha sempre salvato da qualsiasi etichetta rassicurante.Come per il primo film, appunto, del 1961, Banditi aOrgosolo che gli valse il premio del miglior esordio al festi-

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egli ultimi tempi si rincorrono gli attestati distima per Vittorio De Seta.Nel 2005 il grande regista italo-americano Martin

Scorsese lo presenta in America definendolo “un antropo-logo che si esprime con la voce di un poeta”, in un omag-gio al Full Frame di Durham, in North Carolina, al qualesono poi seguite le retrospettive al MoMA, museo d'Artemoderna di New York, alla Fondazione Flaherty e al TribecaFilm Festival diretto da Robert De Niro.Anche l'Italia non è stata da meno. A parte la presenza alfestival di Venezia, che ha visto la sua ultima fatica Letteredal Sahara partecipare (solo) nella sezione Fuori Concorso,c'è stato l'omaggio di Roma, dell'associazione dei documen-taristi, quello della cineteca di Bologna, fino ai più recen-ti tributi riservatigli dalla sua Calabria in due importantieventi: il Pentadattilo Film Festival (Reggio Calabria) e ilCalabria Film Festival (Cosenza). De Seta, nato a Palermo da madre calabrese, si è trasferi-to definitivamente negli anni '80 a Sellia Marina, in provin-

cia di Catanzaro, dove attualmente risiede.L'ultima edizione del Pentidattilo Film Festival, realizzatocon la collaborazione del Circolo del Cinema “CesareZavattini” di Reggio Calabria e coordinato da VirgilioFantuzzi, ha avuto come ospite d'onore proprio il registapalermitano, che si è offerto ad un confronto con il pubbli-co del Festival oltre che con i giovani registi presenti(Pentedattilo è in prevalenza un festival di cortometraggi),giornalisti, studiosi.Ai piedi della grande rupe, scenografia ideale per De Seta,sempre attento al paesaggio, la serata si è conclusa con laproiezione del suo ultimo film Lettere dal Sahara, che erastata preceduta dalla visione dei suoi documentari (ma iltermine è restrittivo) degli anni 50', precisamente dal 1955al 1959. Questa produzione ha una importanza fondamen-tale per lo sviluppo dell'idea documentaria degli anni avenire e per tutto il cinema in generale. Ancora oggi,dovunque siano proiettati nel mondo, destano sempre fortiemozioni e fanno sensazione per la loro modernità. Registaappartato e solitario, Vittorio De Seta si è mantenuto, fie-ramente, sempre ai margini di un certo cinema commer-ciale, riuscendo a sperimentare cose che sin dall'iniziohanno trovato incomprensioni e disapprovazioni, anche daparte dei colleghi. Come l'uso del colore o il formato in

Cinemascope, usato in gran parte per i kolossal o per lescene di massa (fu infatti inaugurato nel film La Tunica) eche lui invece adoperava in spazi angusti come le miniere.Decisivo anche l'utilizzo del sonoro, che lasciava spazio avoci e suoni, facendo parlare le realtà locali “che da ogget-to diventano soggetto” dell'indagine, con l'abolizione deltradizionale speaker che per lui ha qualcosa di ideologicorappresentando il punto di vista dell'autore.De Seta predilige uno sguardo neutrale, un rispetto per lecose che gli stanno davanti, che ci ha sempre rivelato nellesue immagini una tensione di tipo religioso, etico, morale…I suoi racconti poetici hanno seguito le trasformazioni dellanostra società nell'arco degli ultimi 50 anni, di un Sud spes-so dimenticato “con le sue molteplici identità, le suecosiddette culture subalterne, sacrificate sull'altare di unprogresso che non ha mai portato ad uno sviluppo cultura-le” vero e proprio, per dirla con Pasolini. Fin dagli esordiha filmato i conflitti fra tradizione e nuovo, la scomparsadelle culture pre-industriali che per millenni sono rimaste

Vittorio De Seta,poeta del realedi Luciano Pensabene

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suo ennesimo “racconto morale”, portandoci “aragionare sul senso di questa nostra epoca e di que-sto nostro mondo […] a parlare di noi, del destinodell'uomo e delle nostre ultime chances”. (G.Fofi).Ancora una volta la sua capacità di interpretare larealtà per restituircela senza orpelli o alterazionivarie, fanno di questo film, unico a trattare il deli-cato tema dell'immigrazione dalla parte degli immi-grati stessi, un documento impietoso su quello chestiamo diventando e in ogni caso un'opera a futuramemoria, ricca di umanità.“Mi ha sempre colpito, nelle strade, nei mercatini,quella presenza silenziosa, dissimulata. Gli africanipoi sembrano ombre. Da prigioniero di guerra socos'è la non-presenza. Questo mi ha affascinato.Restituire dignità a chi non ce l'ha, ridimensionarela nostra presunzione “occidentale”, che ci fa sen-tire il centro del mondo. Far comprendere che esi-stono religioni, culture, realtà “diverse” (che nonsignifica “inferiori”). Insomma abbattere gli stecca-ti che non hanno più senso.” (V. De Seta). E' qualco-sa che va oltre il cinema in quanto tale, una sortadi nuovo umanesimo… In questo senso De Seta è lafigura più vicina a Roberto Rossellini che la nostracultura abbia mai espresso. A breve la Feltrinelli pubblicherà un cofanetto,Libro+Dvd, sull'opera del Maestro. Il libro ha pertitolo La fatica delle mani, il video Acqua AriaTerra Fuoco: una riedizione dei documentari anni'50 di Vittorio De Seta. Un modo per recuperarequesti film introvabili fino a oggi, per riflettere enon dimenticare il nostro passato, ma anche un pia-cere per gli occhi e per lo spirito. La presentazionerecita: “I cortometraggi di un grande maestro delcinema italiano, capolavori che hanno cambiato lastoria del cinema”.Ci crediamo.

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val di Venezia e di cui gli “enfants terribles” dei Cahiers duCinema in Francia dissero che era la sola rivelazione dellaMostra. Il film è un'attenta riflessione sul fenomeno delbanditismo in Sardegna, interpretato da veri pastori sardie dai quali il regista si è fatto dettare i tempi e i ritmi delracconto. Una continuità con certo neorealismo ma conuno sguardo nuovo, rivolto più all'esperienza, ad esempio,di un altro grande cineasta, pioniere del genere documen-taristico, Robert Flaherty, nelle cui opere (come L'uomo diAran, 1934) “era al centro l'interesse per la realtà dellepersone, dei loro modi di vivere, con una poetica dell'atte-sa in cui le cose hanno un ritmo naturale e non sono forza-

te” (G.Volpi, G.Fofi: Vittorio De Seta, il mondo perduto.Ed. Lindau). In Banditi a Orgosolo è presente una costantedi tutto il suo cinema, quella di farsi guidare dalle realtàche vuole raccontare, dalle persone del luogo che vivonoquelle esperienze, così fino all'ultima opera dove i giovanisenegalesi hanno in parte creato per lui la storia di Letteredal Sahara, giorno per giorno, o ancora i ragazzini delTiburtino III in Diario di un Maestro (1973). Le sue sceneg-giature infatti sono nate quasi sempre sul campo, lontanodalle idee di scrittori ed intellettuali che scrivevano inquegli anni delle stesse cose, ma con le quali non avevanomai avuto rapporti diretti. E per far questo De Seta avevacapito che l'unico modo era quello di lavorare in pienalibertà, senza obblighi produttivi o estetici a condizionar-lo. Il film fu girato con una troupe ridottissima, in praticail solo direttore della fotografia, il grande Luciano Tovoliallora agli inizi e Vera Gherarducci come assistente. Questosistema produttivo, indipendente, solitario, rimarrà inamo-vibile in quasi tutte le sue opere.Dopo un periodo esistenziale particolare, in cui entra incontatto tra gli altri con Ernst Bernhardt, medico ebreoscappato in Italia dalla persecuzione nazista e allievo diJung, De Seta spiazza tutti ritornando nel 1966 con Unuomo a metà, che scatena furibonde polemiche. Il film,interpretato da attori del calibro di Jacques Perrin, LeaPadovani e Ilaria Occhini, narra la crisi esistenziale di un

uomo che non riesce ad amare ed essere felice, allonta-nandosi così dal documentarismo che lo aveva contraddi-stinto. Il passaggio dagli spazi aperti a quelli di una clini-ca, “il salto irreversibile dall'altra parte, nello psicologi-smo, nel soggettivismo” (“Cinema Nuovo” di GuidoAristarco), a discapito del cosiddetto impegno, non gli erastato perdonato. Le uniche testimonianze a sua difesaerano state quelle di Pasolini e di Moravia, che amarono ilfilm e il Premio della rivista “Filmcritica” alla Mostra diVenezia del 1966. Poi è seguito un film fra tanti problemi(anche questa una costante dei suoi progetti) in Francia,L'invitata del 1966, sempre di argomentazione “borghese”sulla storia di una crisi coniugale, con una combinazioneproduttiva che lasciava a desiderare. Dopo aver tentatoper lungo tempo di girare un film sulla guerra di liberazio-ne in Guinea Bissau, nei primi anni 70' passa a collaborarecon la RAI. Arriva subito lo straordinario successo di Diariodi un maestro, nel 1973, che raccontava l'arrivo di un gio-vane maestro in una borgata romana e i suoi tentativi di unlavoro pedagogico nuovo sui ragazzini disadattati, basatosulle teorie della scuola d'avanguardia che in quegli anniandavano sperimentandosi fra gli altri da Albino Bernardini,l'insegnante dal cui libro, Un anno a Pietralata, è tratto ilfilm, con Bruno Cirino nelle vesti del protagonista. Giratocon una libertà di linguaggio insolita per la televisionediventa subito un caso, perché fa registrare punti d'ascoltomai più raggiunti da questo tipo di programma (oltre 15milioni di spettatori a sera per 4 puntate), accendendovivaci discussioni sul ruolo della scuola italiana e della TV.Ma nonostante questo non ebbe seguito. Arriva così unlungo periodo di silenzio, dettato da una crisi che era per-sonale e pubblica insieme. Si trasferisce in Calabria “alavorare la terra”, in campagna, a Sellia Marina vicinoCatanzaro, in una proprietà della madre. Torna a girare nel1998 con In Calabria, un bell'affresco, tra vecchio e nuovo,di questa regione spesso oggetto di ogni tipo di pregiudizi.Ritorna alle sue origini descrivendo il mondo contadino, deipastori, delle tessitrici, ma anche la nuova edilizia, lacostruzione dell'Università della Calabria… con lo sguardolucido e rigoroso che lo ha sempre contraddistinto e che loha condotto sino all'ultima avventura cominciata nel “lon-tano” 2000 e che ha visto la luce solo l'anno scorso, nel2006, a partire dall'omaggio del Festival di Venezia. InLettere dal Sahara ritrova gli argomenti a lui cari, i suoiarchetipi di sempre, come l'emarginazione. La storia di unimmigrato senegalese che percorre la sua odissea, dallosbarco, gettato in mare, a risalire la penisola per giungerea Torino, fra sfruttamenti e soprusi vari, fino a prendere lasofferta decisione, nonostante qualcuno lo voglia aiutare,di tornare in Senegal e spiegare ai suoi conterranei la lezio-ne che ha ricevuto dall'Occidente, serve a De Seta per il

Università

RASSEGNAARTIMERIDIANEdi Antonietta Petrelli

Dal mese di ottobre e fino a dicembrele tre università calabresi celebranol'arte audiovisiva, performativa emusicale. È partito, infatti, il progetto intito-lato Arti MeridianeLab, diretto edorganizzato, in totale sinergia, daitre atenei calabresi (Università degliStudi della Calabria di Cosenza,Magna Grecia di Catanzaro eMediterranea di Reggio Calabria).Il progetto esplora l'arte liminale delsud dell'Italia, vicinissima, e quelladel sud del mondo, lontanissima.Sonorità, espressioni vocali, movi-menti corporei inediti, pensieri edimmagini nuove sono le esperienze

che la rassegna interculturale promette di farci conoscere. Teatro,cinema, musica, danza, video, si mostreranno al pubblico studen-tesco, per fargli toccare con mano, non solo con gli spettacoli e lerassegne, ma soprattutto con i laboratori, cosa anima e muove ilpensiero meridiano.“Il progetto - commenta ValentinaValentini, coordinatrice del pro-getto - ci dà modo di agire per laprima volta sull'intero territorioregionale, di incominciare a spe-rimentare l'ipotesi che anima unintervento culturale elaborato dauna istituzione universitaria ediretto a studenti, basato sullareciprocità fra esperienze forma-tive e di spettacolo, da seguirecome spettatori ma anche da ana-lizzare, recensire, fotografare,riprendere in video, dialogandocon gli attori, i registi, i musicisti, gli scrittori”.Le diverse arti nel progetto mostrano la propria specificità e, tut-tavia, si intersecano e contaminano come nel mediometraggio cheha inaugurato la rassegna intitolato Chiòve di Pau Mirò, in cuil'ibridazione tra generi e tecnologie è così forte da rendere inde-cidibile il carattere proprio di una tale opera. Ancora la rassegnavideo, intitolata Sud Terrae Limen incentrata sul tema del pae-saggio, anche solo evocato, ci condurrà alla scoperta di nuoveimmagini. “Un percorso - commenta la docente Unical VincenzaCostantino, curatrice della rassegna - attraverso opere recenti einedite, che punta alla scoperta/riscoperta della condizione edella natura stessa dell'identità videografica”. E se il progetto havisto nelle scorse settimane protagonisti personalità di spicco,come Vincenzo Pirrotta con la teatralizzazione del cunto siciliano,Franco Scaldati con il suo teatro essenziale in dialetto palermita-no, Francesco Saponaro, Enrico Ianniello e tanti altri non solo nel-l'ambito del teatro, le prossime non saranno da meno, basti pen-sare al laboratorio che terranno Franco Maresco e Pippo Bisso o alconcerto che terrà Giovanna Marini, e tanti, tanti altri appunta-menti d'eccezione.

La concertista Giovanna Marini

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sce notevolmente. Il contrasto fra il carattere reale e quel-lo illusorio forma quel campo di significati semiotici nelquale vive ogni testo artistico.-Sul palcoscenico si svolge una catena di avvenimenti chefanno parte di una vita autentica e non segnica: ogni atto-re crede infatti pienamente sulla scena alla realtà di sestesso, del partner, delle azioni nel loro insieme.- A chi siede in sala l'avvenimento appare invece segno dise stesso. Agli occhi dello spettatore la realtà si trasformain comunicazione sulla realtà.Smettendo di essere copia e diventando segnico, il discor-so scenico si riempie di significati complementari, che ven-gono attinti dalla memoria culturale della scena e dallasala. La natura semiotica dell'apparato scenico diventa più evi-dente se si instaura un confronto, come fa Andrè Bazin,con un'arte come il cinema, che sembra più vicina al tea-tro mentre ha in realtà caratteristiche opposte.Al teatro come al cinema lo spettatore (colui che guarda)si trova durante lo spettacolo nella stessa posizione fissa,ma il suo punto di vista è molto diverso.- Nel teatro lo spettatore conserva nei confronti dello spet-tacolo il punto di vista naturale, determinato dal rapporto

ottico tra il suo occhio e la scena. Durante tutto il tempodello spettacolo questa posizione non cambia.- Nel cinema, al contrario, fra l'occhio dello spettatore el'immagine sullo schermo si pone l'obiettivo guidato dal-l'operatore. E' come se lo spettatore cedesse a lui il suopunto di vista. Si tratta di un apparato mobile che puòavvicinarsi o allontanarsi moltissimo dall'oggetto, inqua-drare dall'alto o dal basso, guardare il protagonista dal difuori, ma anche vedere il mondo coi suoi occhi.Diversa nel cinema e nel teatro è anche la funzione dell'ap-parato scenico.- Nel teatro l'oggetto non ha mai un ruolo indipendente, maè sempre un attributo dell'interpretazione dell'attore. Ildettaglio è usato per creare un effetto.- Nel cinema l'oggetto può essere simbolo, metafora ogodere di tutti i diritti del personaggio. Ciò si deve allapossibilità di prenderlo in primo piano e di concentrare sudi esso l'attenzione, dedicandogli un certo numero diinquadrature. Il dettaglio ha quindi un ruolo attivo.E' diverso anche il rapporto tra pubblico e spazio artistico:- Nel teatro il pubblico si trova fuori dalla spazio artistico.- Nel cinema è come se lo spazio illusorio della raffigura-

zione si dilatasse fino ad attrarre lo spettatore al suointerno.Non meno importante è un'altra funzione della scenogra-fia: quella di demarcare, insieme alla ribalta, i confinidello spazio teatrale. Il senso del confine, della chiusuradello spazio artistico si esprime nel teatro in modo piùaccentuato di quanto avviene nel cinema.II - Il testoCome dice Aristotele nel III libro della Poetica, il drammaè mimetico: gli attori fingono dei gesti e pronunciano lebattute attribuite ai personaggi; invece nella forma narra-tiva è il discorso dello scrittore che realizza un'equivalen-te verbale dell'azione (diegesi) eventualmente riportando,in forma diretta o indiretta i discorsi dei personaggi. Nel caso della narrazione il soggetto dell'enunciazioneespone in terza persona le vicende dei personaggi; è all'in-terno di questa descrizione che appaiono i discorsi dei per-sonaggi. Sono invece questi ultimi a costituire il testo tea-trale, essendo occultato il soggetto dell'enunciazione, eli-minata la mediazione dello scrittore, assente l'esposizionediegetica gestita dallo scrittore. Il teatro è dunque un sistema modellizzante secondario deltutto diverso dal testo narrativo. E' un sistema che ricorre

alla fisicità degli attori, delle loro voci e gesti, dei lorocostumi; alla fisicità del palcoscenico, del suo apparato,dei suoi fondali; alla fisicità stessa della durata, perché ciòa cui il pubblico assiste si svolge nel tempo stesso deglienunciati che lo compongono, tempo non reversibile, ana-logo a quello vissuto. Si tratta però non della realtà ma diuna realtà indice, istituita di proposito: l'attore sta per ilpersonaggio, la scena sta per un interno o un esterno, ecc.III - La messa in scena“Il teatro non esiste unicamente come testo teatrale, mavive come realtà complessa e molteplice, copione più spet-tacolo più teoria della messinscena più molte altre cose”. Anche il testo drammatico più completo, descrittivo ericco di didascalie deve quindi essere sempre consideratoalla stregua di uno schema, di un'articolata ipotesi teatra-le e deve essere esaminato in questa prospettiva, anchequando l'indagine voglia restringersi alle sue strutture e aisuoi valori letterari. Come dice Bettettini, in ogni messa inscena il testo viene riscritto, perché l'interpretazione di untesto drammatico, anche la più rispettosa e fedele nei suoiconfronti, non consiste solo in una lettura critica ma in unaproduzione-progettazione di una “forma” scenica che in

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Il teatro è comunicazione, e tutte le attrezzature che usa(sale, anfiteatri, spazi), e che per lo stesso servizio si sonoguadagnate il titolo di “teatro”, svelano già dalla loro orga-nizzazione interna lo scopo comunicativo per il quale sonostate costituite. Il semiologo cecoslovacco Ivo Osolsobescrive che il teatro è una macchina per la comunicazioneallo stesso modo in cui lo sono gli organi della favella, conquesta sola differenza, che gli organi della favella servonoalla comunicazione verbale, mentre il teatro serve a quel-la ostensiva presentativa. In ogni ostentare c'è qualcosa diteatrale, un certo minimum teatrale: non c'è da meravi-gliarsi che, parlando talvolta dell'ostentazione, non deltutto ingiustamente diciamo “fare teatro”.Il teatro, come luogo, è allora un'istituzione adibita allacomunicazione ostensiva. Meglio che a mostrare cose (aquesto servono piuttosto le esposizioni e i musei), esso èadatto a mostrare (e al mostrarsi) delle persone nelle varieforme comunicative. In base a queste considerazioni preliminari si possono sta-bilire tre assiomi del teatro come comunicazione:1. Il teatro è comunicazione umana2. Il teatro si basa sulla comunicazione umana3. Il teatro modellizza la comunicazione umanamediante la comunicazione umana.Le azioni degli uomini, che vengono compiute in base ad unprogramma cosciente o subcosciente, costituiscono il com-

portamento. Esso può essere diretto, come quello che sitiene durante le ore di lavoro, e segnico, quando assumeforme complesse attraverso l'utilizzo di segni (gli abiti e imovimenti particolari, il modo diverso di parlare, la musi-ca, i canti, il rigoroso susseguirsi di gesti e azioni) chehanno caratteri particolari e che contribuiscono alla crea-zione di un rituale.Nella vita di tutti i popoli, anche dei più primitivi, esisteuna distinzione tra il comportamento pratico e il compor-tamento segnico. La sfera di quest'ultimo è quello dellefeste, del gioco, delle solennità sociali e religiose.Una sfera importante, all'interno della quale il comporta-mento pratico e quello rituale entrano in rapporto recipro-co, è costituita dal gioco. Il gioco presuppone, infatti, la

realizzazione simultanea di un comportamento pratico einsieme convenzionale: un bambino che gioca a fare il cac-ciatore di belve feroci non caccia realmente ma è come secacciasse, nello stesso tempo prova emozioni come sevivesse realmente la situazione immaginata.Il gioco crea attorno all'uomo un mondo di possibilità a piùpiani e lo stimola così ad aumentare la sua attività. Comeha già affermato Huzinga in un suo famosissimo saggio, ilgioco è uno dei meccanismi di elaborazione della creazio-ne artistica, che non segue passivamente un programmadato in precedenza, ma si orienta in un continuum di pos-sibilità complesse e a più piani.Tuttavia i comportamenti segnici e rituali di per se stessinon creano ancora il teatro; perché ciò avvenga deve inter-venire l'arte: cioè la creazione di forme le cui leggi nonsono da cercare fuori delle forme stesse, ma all'interno diesse .Quali sono dunque i meccanismi semiotici dell'arte teatra-le? I - Lo spazio della scenaL'arte teatrale ha il suo linguaggio specifico. Solo il posses-so di questo linguaggio garantisce al pubblico la possibilitàdi una comunicazione artistica con l'autore e gli attori. Unodegli elementi fondamentali di questo linguaggio è la spe-cificità del linguaggio artistico della scena.Lo spazio teatrale è diviso in due parti - il palcoscenico ela sala dove siedono gli spettatori - fra le quali si creanorapporti che formano alcune delle opposizioni fondamenta-li della semiotica teatrale.1 - Opposizione esistenza-inesistenza. La realtà di questedue parti del teatro si realizza in due dimensioni diverse.- Il palcoscenico: Dal punto di vista dello spettatore, dalmomento in cui si alza il sipario e comincia lo spettacolo,la sala in cui egli è seduto smette di esistere. Tutto quelloche si trova fuori dal palcoscenico sparisce. La sua auten-tica realtà diviene invisibile e cede il posto a quella illuso-ria dell'azione scenica.- La sala: Anche per chi sta sul palcoscenico la sala dovesiede il pubblico non esiste. E' come se gli spettatori fosse-ro invisibili a quelli che si trovano sul palco.2 - Opposizione significativo-non significativo. Lo spazioscenico si distingue da quello non-scenico per la sua gran-de ricchezza semantica.- Il palcoscenico: Lo spazio scenico si distingue per la gran-de ricchezza segnica. Tutto quello che entra a far partedella scena tende ad arricchirsi di significati supplementa-ri rispetto alla funzione diretta dell'oggetto. Il movimentodiventa gesto, l'oggetto dettaglio portatore di senso.- La sala: La pienezza del significato è legata alla differen-za sostanziale che esiste tra le azioni e le parole sullascena e quelle della vita reale. Lo spettatore, inoltre, purnon conoscendo come i personaggi lo svolgimento successi-vo degli avvenimenti, sa tutto ciò che è avvenuto. La suaconoscenza è sempre maggiore rispetto a quella dei perso-naggi. Certi particolari che possono sfuggire al personag-gio, appaiono quindi al pubblico carichi di significato. 3 - Opposizione reale-illusorio: Essendo segnico per natu-ra, il mondo scenico ha delle caratteristiche molto impor-tanti. Il segno è nella sua essenza contraddittorio: è sem-pre reale e insieme illusorio.- E' reale perché la natura del segno è materiale, - E' illusorio perché significa sempre qualcos'altro rispettoalla sua apparenza esteriore.Nella sfera dell'arte la polisignificanza del contenuto cre-

La comunicazione

teatraledi Nicola Petrolino

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quel testo trova alcune delle sue premesse, alcuni dei suoiprincipi costitutivi. L'azione scenica, come insieme unitario di attori che com-piono azioni, di testi verbali da loro pronunciati, scenari,accessori teatrali, luci, suoni, si presenta come un testo digrande complessità che utilizza segni di vario tipo dotati diun grado diverso di convenzionalità. In nessun altro genere di testo artistico i sottotesti parti-colari raggiungano un alto grado di indipendenza e nellostesso tempo di integrazione nell'insieme di cui fannoparte. La messa in scena dello spettacolo è una sua parteorganica, imprescindibile e nello stesso tempo si può con-siderare in molti casi un fatto d'arte a sé, che ha le carat-teristiche di un testo separato.In realtà il testo unitario dello spettacolo è formato alme-no da altri tre sottotesti che godono di un certo grado diindipendenza:1. Il testo verbale dell'opera2. Il testo scenico curato dal regista e dagli attori3. Il testo pittorico-musicaleAd un livello più alto questi sottotesti vengono a costituireun'unità, ma il processo di codificazione si attua in mododiverso per ognuno di essi. Questi testi, infine, al contrariodelle altre arti non si realizzano in una forma data unavolta per tutte, ma in una somma di varianti intorno adun'invariante che non è data direttamente. Lo spettacolonon è infatti la realizzazione di un programma unico giàdato ma si attua attraverso un conflitto i cui risultati nonsi possono prevedere in anticipo. E' questo a dare al testoscenico un enorme potenziale di senso.III - I codiciL'opera teatrale, in quanto destinata alla rappresentazio-ne, è costituita da varie componenti inerenti a codici dif-ferenziati: verbale, visivo, sonoro. A questi si aggiungaquell'elemento che sfugge a questa classificazione, inquanto si svolge insieme nel tempo e nello spazio, e cioèl'elemento della recitazione dell'attore. Una descrizione analitica vede perciò il teatro come un'ar-te composita che consta di diversi elementi artistici. Comeesempio di rassegna di codici teatrali, corrispondenti aquesti elementi, si può tracciare il seguente schema:

Se questo nuovo approccio sintetico viene definito dalpunto di vista della semiologia, esso rivela che la peculia-rità della lingua teatrale non sta nel fatto che vari segni sicombinano in un tutto, che in questo modo assume un par-ticolare significato teatrale, bensì nel fatto che lo specifi-co materiale artistico del teatro, cioè l'attore, l'uomo, riu-nisce in sé sia il segno sia l'emittente del segno, o, nell'am-bito del segno, sia il significante che il significato. Si rea-lizza così un tipo di significato peculiare del teatro, asso-lutamente sconosciuto alle altre arti. L'attore, cioè l'uomocome materiale artistico, è un fatto unico nel mondo del-l'arte, tuttavia la specificità dell'arte teatrale non sta tantoin lui quanto nel rapporto diretto tra lui e lo spettatore,rapporto che nessun'altra arte è in grado di stabilire.

Parola - Tono Testo recitato Attore Segni uditivi Tempo

Mimica - GestoMovimento Espressione corporea Attore Segni visivi Spazio e tempo

Trucco - Acconciature Costume Aspetto esterno dell'attore Attore Segni visivi Spazio

Scena - AccessoriLuci Aspetto del luogo scenico Al di fuori dell'attore Segni visivi Spazio e tempo

Musica - Rumori Effetti sonori non articolati Al di fuori dell'attore Segni uditivi Tempo

La cocente attualità di Alessandro ManzoniCriminalità organizzata:braveria, mafia e 'ndranghetadi Pasquino Crupi

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padron di casa può ridersene della giustizia. Prove, che loinchiodino come mandante del tentato rapimento, non cene sono, il console era già stato avvertito dal guardarsi di“non far deposizione dell'avvenuto”, e il podestà - comeconte Attilio rassicura don Rodrigo - “ha più bisogno luidella nostra protezione chevoi della sua condiscenden-za”.Don Rodrigo, potrà sempreavvalersi - e si avvarrà - del-l'aiuto del conte zio, che faparte del Consiglio Segreto delgoverno di Milano, non soloper mettere a tacere la que-stione, ma anche per vendi-carsi dei suoi oppositori aldisegno criminoso: fra Cristoforoe Renzo Tramaglino. Ciò cheemerge allora è il profilo nondi un generico reato di violen-za (il tentativo di sequestro),ma di uno specifico reato cri-minale: il reato mafioso, che ètal solo quando è compiuto o solo tentato con la conniven-za e la complicità dei pubblici poteri dei quali si compra ilsilenzio. Nella circostanza, che si sta esaminando, gli ele-menti del crimine mafioso ci sono tutti: i bravi e chi li diri-ge hanno dalla loro parte il console, il podestà, cioè ilpotere locale, e il conte zio, cioè il potere centrale. Percompletare il quadro, manca la complicità della Chiesa.Verrà anche questa. In questo seicento milanese la Chiesa come ministra di Dionon c'è. Ci sono soltanto gran-di ed eccezionali uomini dichiesa: fra Cristoforo e il car-dinale Borromeo. Per il resto,non si avverte che una proces-sione di teste tonsurate al ser-vizio dei grandi potentatieconomici e politici, come è ilcaso esemplare del padre pro-vinciale, che, su consiglio delconte zio, al lontana fraCristoforo dal convento, trasfe-rendolo a Rimini. Ogni paese un signorotto, ognisignorotto tanti bravi. Bravi omàlandrini, per come li voglia-no denominare, sono organiz-zati paese per paese, capillarmente, in una braveria omalandrineria. Ogni distretto ha un capo - braveria, chemantiene rapporti di reciproca solidarietà criminale, congli altri capi-braveria. Ciascuna di queste braverie è sovra-na nel proprio territorio. La più possente delle braverie èquella capeggiata dall'Innominato, e sembra costituire unpotere criminale la cui sovranità va oltre il proprio territo-rio.E' del tutto evidente che siamo ormai in presenza di un'as-sociazione criminale a sviluppo piramidale, che della crimi-nalità organizzata nel Mezzogiorno ha tutte le caratteristi-che: la segretezza, la commissione di omicidi, la collusio-ne con il potere economico e potere politico, persino l'ami-cizia per fini eversivi con stati stranieri.Che I’Innominato e i suoi bravi, i quali, dopo il bando,

rimasero uniti con lui in lega occulta di consigli atroci, e dicose funeste, prefigurino una vicinanza con la strutturadella mafia siciliana piuttosto che con quella della ndran-gheta calabrese, non è possibile stabilire con certezza. IIManzoni, che è sempre esemplarmente chiaro, non offre

possibilità di lettura univocasulla braveria, che per certiversi richiama la cupola sicilia-na e per altri l'orizzontalitàdella ndrangheta calabrese. Ma,a dir vero, l''Innominato rischiadi uscire dalla braveria comeapparato criminale contiguo ecolluso con il potere politicooltre con quello giudiziario. Perterribile che sia, la braveriadell'Innominato mantiene alcunitratti della sua mitica origine, edelle relazioni braveria-politica,braveria-feudalismo nessuna leappartiene. All'Innominato, per-ché sia alzato al tipo di mafiosomoderno, manca la complicità

con i poteri dello Stato. Anzi, da questi poteri è persegui-to, da questi poteri è messo al bando, contro questi pote-ri combatte. Insomma, “un aperto nemico della forza pub-blica”, come dichiara don Rodrigo (cap. XIX, pag. 417).Nulla viceversa manca a don Rodrigo e ai tiranni locali peressere qualificati come mafiosi. La relazione politica-bra-veria vive in loro, cammina con loro, prende forza in loro.Don Rodrigo non è un "aperto nemico della forza pubblica",ne è il suo sottile corruttore. E' amico del podestà e del

console, coltiva amicizie alte incittà, ha la protezione delconte zio e per ciò stesso hauna mano “sulle bilance dellagiustizia, per farle ad un biso-gno traboccare dalla sua parte,o per farle sparire, o per darleanche, in qualche occasione,sulla testa di qualcuno che inquel modo si potesse servir piùfacilmente che con le armidella violenza privata (cap.XIX, pag. 416). Niente affattometaforicamente, quelle bilan-ce sono sbattute in testa al fila-tore di seta Renzo Tramaglino.Sarà così fino a quando poteri

dello Stato e braveria marceranno insieme. Nel Ducato diMilano non andò più a quel modo. La specie dei bravi, cheun tempo era floridissima, ora è del tutto perduta, avvisail Manzoni (cap. 1, pag.12 ). Fu sterminata dalla peste,dalla carestia, dalla guerra dalle cui macerie nacque unostato ordinato e non connivente... E' questo il parlar chia-ro del Manzoni per noi. Ma sembra che l'abbiano inteso allaperfezione solo gli scrittori calabresi del Novecento, che,rompendo il silenzio narrativo della letteratura “alta”,hanno proseguito la sua lezione.

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A me pare, al di là delle tante definizioni appiccicate a I promessi sposi, che sia difficile negare questa evidenteverità: il Manzoni con la sua storia del XVII secolo, giocatadinamicamente tra un paesino di Lecco, Milano e Bergamo,mette al centro una società violenta la cui specificità è laviolenza della braveria, al soldo del potere economico epolitico. I promessi sposi, perciò, come romanzo della bra-veria le cui caratteristiche rimandano all'universo mafioso,come si vedrà. E, tanto per farsi intendere, il Manzonimostra subito il grugno violento della società seicentesca,raccontando fin dalla pagina iniziale del romanzo i bravi,che interrompono la passeggiata di don Abbondio, la seradel 7 novembre 1628, e gli impongono di non celebrare ilmatrimonio tra Renzo e Lucia né domani né mai. Poiché ibravi non sono un'accidentalità della storia milanese delsecolo XVII e un'accidentalità non lo sono neppure nelromanzo, il Manzoni li presenta senza indugio ai lettori,come spetta ai protagonisti effettivi di ogni narrazione. O,se vogliamo, ai coprotagonisti. Non capire questo significanon capire il romanzo manzoniano. Costante e continua è l'attenzione del Manzoni sui bravi e

il vasto potere che li copre e li protegge. Appaiono, conpersistente durata, nei capitoli I, VII, VIII, XX, XXIV de Ipromessi sposi. L'occhio del Manzoni trascorre dal bassoverso l'alto, dai governatori di Milano che vogliono distrug-gere la “specie criminosa” con un'alluvione, sempre piùcrescente e sempre più impotente, di “grida”, vale a diredi provvedimenti speciali di legge, ai bravi, che continua-no, sicuri e impuniti, il loro cammino di soprusi, soperche-rie e violenze, al soldo dei potentati economici, che, a lorovolta, si avvalgono del potere politico centrale. I tirannel-li di Lecco e dintorni nulla potrebbero senza il sostegno ela protezione del centro politico milanese. Il trinomioimperfetto è: politica-dominio economico-braveria. Il latopiù diseguale di questo trinomio è rappresentato dalla bra-veria, che si colloca in una posizione del tutto subalterna.La sua base composizione sociale è da “forestieri o delpaese”, che “non hanno esercizio alcuno, od avendolo, nonlo fanno… ma, senza salario, o pur con esso, s'appoggianoa qualche cavaliere o gentiluomo, officiale o mercante…

per fargli spalle e favore, o veramente, come si può presu-mere, per tendere insidie ad altri”. E non ci può esseredubbio che il sodalizio criminale, di cui discorre il Manzoni,ha il suo antecedente storico nella garduna, che era socie-tà segreta di malfattori, sorta a Toledo nel 1417, al servi-zio del potere e dei potenti cui prestava il suo braccioarmato per eseguire vendette. Ciò che in un certo qualsenso diversifica la garduna dalla braveria è che questarispetto a quella agisce alla luce del sole. Ma, poi, c'è daosservare subito che non può essere considerato come unafortuità che la braveria sia storicamente contestualizzatanel tempo del dominio spagnolo in Italia.Il Manzoni è di una lucidità straordinaria e di cogenteattualità non solo sulle radici della braveria, ma anchesulle ragioni della sua forza. La braveria è invincibile. Haprotezioni forti, è dentro lo Stato, e sconsiglia ogni denun-cia contro le sue violenze, esibendo l'impunità dei delitti edella violenze compiute. Infatti, “l'impunità era organizza-ta e aveva radici che le grida non toccavano, o non pote-vano smuovere. Tali erano gli asili, tali i privilegi di alcuneclassi, in parte riconosciuti dalla forza legale, in parte tol-

lerati con astioso silenzio, o impu-gnati con vane proteste, ma soste-nuti in fatto e difesi da quelle clas-si, con attività di interesse, e congelosia di puntiglio”. C'è di più: Diquegli stessi ch'eran deputati a farle[le gride] eseguire, alcuni apparte-nevano per nascita alla parte privi-legiata, alcuni ne dipendevano perclientela; gli uni e gli altri, per edu-cazione, per interesse, per consue-tudine, per imitazione, ne avevanoabbracciate le massime, e si sareb-bero ben guardati dall'offenderle,per amor d'un pezzo di carta attac-cato sulle cantonate. Gli uomini poiincaricati dell'esecuzione immedia-ta, quando fossero stati intrapren-denti come eroi, ubbidienti comemonaci, e pronti a sacrificarsi comemartiri, non avrebber però potutovenirne alla fine, inferiori com'erandi numero a quelli che si trattava disottomettere, e con una gran pro-

babilità d'essere abbandonati da chi, in astratto e, per cosìdire, in teoria, imponeva loro di operare […]. Era quindiben naturale che costoro, invece d'arrischiar, anzi di gettarla vita in un'impresa disperata, vendessero la loro inazione,o anche la loro connivenza ai potenti.Una corda di fango lega insieme feudatari, istituzioni,bravi. Si pensi al capitolo VII del romanzo, quello, appuntodel tentato e fallito sequestro di Lucia. E soprattutto sipensi al cap. VIII, che vede i bravi di Don Rodrigo intima-re a un umile servitore dello Stato, il povero console, che“guardasse bene di non far deposizione al podestà dell'ac-caduto, di non rispondere il vero, caso che ne venisseinterrogato, di non ciarlare, di non comentar le ciarle dèvillani per quanto aveva cara la speranza di morir di malat-tia”. Non ha bisogno di essere minacciato per impedire ilcammino della giustizia il podestà, che siede alla tavoladel prepotente signorotto, “quel medesimo a cui, in teoriasarebbe toccato a far giustizia a Renzo Tramaglino, e a farstare a dovere don Rodrigo”. E' per questo che il losco

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quant'anni della morte del compositore - nella Piazza diBusseto, città natale di Verdi. Cercava quindi una “LadyMacberth” che considerava giustamente la vera protagoni-sta dell'opera. Anche allora non era facile trovare un'arti-sta all'altezza del ruolo sia come cantante che come inter-prete. La giovane Maria fu segnalata al Maestro Toscaninidalla figlia Wally che seguiva da vicino l'attività della pri-madonna in ascesa: era anzi una sua grande ammiratrice egià amica. La Callas era naturalmente emozionantissima eaccompagnata dal leggendario Maestro al pianoforte cantòle due arie principali. Alla fine il Maestro si alzò in piedie l'abbracciò dicendo: “finalmente ho trovato la miaLady”. Quindi chiamò subito al telefono Ghiringhelli e glichiese di preparare il contratto e di scritturare MariaCallas trovando però una certa resistenza da parte delsovrintendente che prediligeva Renata Tebaldi. Il Maestrofu naturalmente irremovibi-le ma il progetto non andòin porto e l'impegno fu ono-rato con i Vespri Siciliani. La Mostra che vedremo aReggio Calabria presenta idocumenti che riassumono ipunti salienti della vita diMaria Callas, dal certificatodi nascita (a New York nel1923) al testamento.In effetti, tra gli oltre 600cimeli esposti ci sono abitidi scena e vestiti privati,disegnati dai più grandi stilisti, da Biki a Saint-Laurent. Ma anche gioielli,scarpe, cappellini, profumi,ventagli, dischi a 78 giri,grammofoni, programmi disala. C'è la penna di Cartierche usava per gli autografi e un centrotavola della casa diSirmione, in cui viveva con il marito, Giovanni BattistaMeneghini. E poi tante lettere, molto inedite che consen-tono di scoprire la complessa personalità di Maria, che erasaggia e ingenua insieme”.Ingenua?Proprio così. Pochi mesi prima che Aristotele Onassis l'ab-bandonasse, Maria gli aveva scritto un biglietto pieno ditenerezza, (che io ho reso pubblico solo ora e che saràesposto alla Mostra di Reggio Calabria) che concludeva:“Amore mio. Ho bisogno del tuo affetto e della tua tene-rezza. Sono Tua. Fa di me ciò che vuoi”. La Callas appresedalla TV delle nozze di Onassis con Jackie Kennedy. Reagìcenando nel suo più bel Valentino da Alexander, a Parigi,e intervistata disse: “Sono felice che la signora Kennedyabbia dato un nonno ai suoi bambini.”

Non lo rivide più?Quando rompeva un affetto, Maria non tornava indietro.Ma con Onassis andò diversamente: un mese dopo le nozzedi lui, si ritrovarono a cena in casa di una comune amica,la baronessa Rothschild. In realtà, la Divina non smise maid'amare il suo Aristo e lo assistette anche nel marzo del1975, quando fu ricoverato a Parigi. Naturalmente primadell'arrivo di Jackie, che prese il suo posto accanto almarito morente.Dove ha trovato questo biglietto inedito indirizzato adOnassis?Ad Atene durante la mostra che ho organizzato lì. Me lo haaffidato un ammiratore di Maria che, a sua volta, l'avevapagato 18 mila euro. Succede sempre più spesso che fan diMaria, in possesso di suoi cimeli, li affidino a me, contan-do di metterli al sicuro. Sanno che mi sto battendo per

aprire qui a Venezia un museodedicato alla Divina. Un'impresa ardua, lo so bene,ma in questi quindici anni hoassistito a tanti miracoli econto di realizzare anche que-sto progetto.Torniamo alle lettere dellaCallas….Nella mia collezione privataconservo, tra l'altro, il lungomessaggio inedito, scritto nelconsueto italiano disinvolto esimpaticamente sgrammatica-to, che Maria inviò negli Anni'70 alla sua segretaria Teresa,chiedendole consiglio sui librida leggere (ne ho ben pochi -ammette). E difendendo lacameriera Bruna che, secondoTeresa, la isolava dagli altri

collaboratori, la Divina scriveva: “Mi fai torto. Ricorda cheho sempre fatto di mia testa. Bene o male, pazienza. Etante volte a torto mio. Ma chi mi ama veramente, soppor-ta e ha fiducia in me”.Era uno spirito libero?Libero e ingenuo. Basta pensare al suo amore per PierPaolo Pasolini. Il loro sodalizio artistico rivelò Maria comela straordinaria attrice protagonista di Medea.Pasolini dedicò all'amica 12 poesie e alcuni splendidiritratti, e lei gli rispose con slanci appassionati. A un certopunto s'illuse di sposare il suo grande amico, senza capirefino in fondo che lui, pur essendole devoto, non avrebbemai potuto amarla come lei desiderava. Questo è un capi-tolo che la mostra affronta in varie testimonianze. Per esempio? C'è una lettera, del luglio 1971, in cui Maria cerca di con-

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Presidente Tosi, perché la mostra dedicata a Maria Callasa Reggio Calabria?Per ricordare il grande successo ottenuto al Teatro Cilea inuna lontana ma non dimenticata stagione lirica, nell'annoin cui ricorre il trentennale della morte della più grandecantante del nostro tempo (16 settembre 1977) e i sessan-t'anni dal suo debutto in Italia (Arena di Verona 1947),dove iniziò la vera carriera della Primadonna.Maria Callas ha cantato a Reggio Calabria una sola volta euna sola sera, il 28 febbraio 1951, quale protagonista diAida, diretta da Ferdinando Del Cupolo, accanto al tenoreJosè Soler, al mezzosoprano Miriam Pirazzini e al baritonoMancaserra.La Callas all'epoca era già la Callas. Nel mese di aprile del1950 aveva cantato Aida alla Scala sostituendo RenataTebaldi, indisposta, ma non era molto amata dall'allorasovrintendente del Teatro milanese Antonio Ghiringhelli.Il primo grande trionfo a Milano coincide in realtà conl'inaugurazione della nuova stagione, 7 dicembre 1951,con i Vespri Siciliani. Arriva a Reggio Calabria dopo la

memorabile affermazione con il Turco in Italia di Rossini,diretto da Gianandrea Gavazzeni all'Eliseo di Roma (otto-bre 1951), il debutto in Traviata sotto la guida di TullioSerafin a Firenze (gennaio 1951), Il Trovatore al San Carlodi Napoli con Giacomo Lauri Volpi, una Norma di grandesuccesso al Bellini di Catania per le celebrazioni del com-positore siciliano. Nello stesso 1951 avrebbe inaugurato ilMaggio Musicale con i Vespri Siciliani (poi portati allaScala) e in luglio avrebbe trionfato in Aida a Città delMessico concludendo il concertato del secondo atto con unmitico “Mi bemolle” che fece storia, sorprese tutti. Perfortuna esiste la registrazione di questa Aida che le valsein Messico il titolo dato dal più famoso critico locale di“Soprano assoluta di tutti i tempi”. Fu dunque sofferto l'esordio della Divina alla Scala?Molto. Certamente i più non sanno che l'ingresso nel mas-simo milanese fu dovuto al grande Arturo Toscanini chevoleva dirigere, nel 1951, il Macbeth verdiano - per i cin-

Vizi privati e pubblichevirtù di una grande DivaMario Tosi, amico fidato e presidente dellaFondazione dedicata alla Callas, racconta.di Roberto Idà

Il fascino raffinato e discreto della splendida Villa Zerbidi Reggio Calabria accoglie, in un allestimento presti-gioso, la grande mostra itinerante “Maria Callas” - UnaDonna, una Voce, un Mito”, che propone i più importan-ti cimeli del grande soprano: costumi, gioielli di scena,abiti da sera, i carteggi con i più illustri personaggi delsecolo, una completa cronologia con le immagini piùbelle della cantante. Un prezioso omaggio ad una delleicone della musica più rappresentative del nostrotempo.Dal 1993 l'esposizione è stata ospite nelle più importan-ti capitali del mondo, da Parigi a Tokyo, da Città delMessico a New York, e più recentemente a Montecarlo,Amburgo, a Roma per ben due volte in un anno, Atene,Salonicco e Venezia.La Mostra è parte del patrimonio artistico e culturaledell'Associazione Internazionale “Maria Callas”, fonda-ta nel 1992 da Bruno Tosi.

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solare Pasolini dell'abbandono diNinetto Davoli, scrivendo tra l'altro:“Ma quando è che crescerai P.P.P.?Non è giunta l'ora di essere più riccoe maturo - anche se fanciulli si èsempre grazie a Dio! So che mi odie-rai per quel che ti scrivo. Ma ti hosempre detto la verità - e ti chiedoscusa che invece di coccolarti riceviqueste stupide parole - te le avevogia dette - e ti chiedo perdono”. In un'altra missiva, del 5 settembre1971, va oltre: “Sai caro amico, diveri amici - o veri e basta - pochi neho trovati - per non dire nessuno. Tupenso di si - sento di si. Ma il tempoci mostrerà. E ci tengo alla tua veri-tà e sincerità. Siamo assai legati psi-chicamente - oso dire come raro si fain vita. E' raro e bello. Però bisognache duri. E che cosa è che dura…”. Voleva davvero sposarlo?Si. Vede, Maria fece un viaggio in Africa con Pasolini,Moravia e la compagna di lui, la scrittrice Dacia Maraini.Ed è lei che ha confermato il sogno di Maria. Ovviamentenon se ne fece niente. La morte di Pier Paolo, nel novem-bre 1975, otto mesi dopo la morte di Onassis, fu un colpotremendo. Lei fa molto per tenere vivo il mito della Callas….Maria vive nel mito e non ha bisogno di me. Ma, certo, iomi batto per ricordarla e sono fiero dei risultati. Mi ralle-grano i 120 mila fan che visitano in media le mie mostre eil concerto organizzato alla Fenice il 16 settembre scorso,giorno della morte drammatica e misteriosa di Maria, conil soprano Dimitra Theodossiou, con il sostegno del Casinòdi Venezia. Sono orgoglioso del francobollo dedicato allaCallas, che ha avuto il primo giorno di emissione il 18 otto-bre scorso, con annullo speciale a Venezia . E delle 10 tes-sere telefoniche che entro l'anno saranno tutte emessedalla Telecom con uno speciale Folder che comprendemolte rare foto della giovane Callas. E mi fa piacere chedopo il ponte e la strada a lei dedicate a Venezia, ancheRoma voglia dedicarle una via. A proposito di giovane Callas è uscito di recente un suolibro con questo titolo….Esatto! E' la decima ristampa, con un ampio aggiornamen-to e molte immagini inedite. Poiché sono stati pubblicaticirca 300 volumi, dedicati in modo particolare agli annidella grande carriera e molti, quasi esclusivamente, algossip, ho voluto dedicare un libro ai giovani difficili anni

della carriera della cantante, acominciare dal debutto alla radioamericana quando aveva appenadodici anni, agli studi e alla carrieraad Atene, dal 1938 al 1944, finoall'esordio alla Scala dopo l'incontrocon Arturo Toscanini. Il libro è inte-ressante perché comprende ilmemoriale autobiografico di MariaCallas mai pubblicato prima. Negliultimi mesi è anche uscito, con latraduzione in sette lingue il miolibro “ La Divina in cucina” che com-prende le ricette autografe di MariaCallas.

ome artista Maria Callas è una delle grandi iconeculturali del nostro tempo; come persona è, allafine, una figura tragica che sacrificò la sua carriera

ed infine la sua vita ad un uomo che si avvalse di lei e poila respinse. Dopo essersi dedicata al canto come unicoobiettivo e aver raggiunto l'apice della sua professione,Maria Callas, improvvisamente, volle provare l'esperienzadi essere donna. Ma fece l'errore di lasciarsi adescare dal-l'uomo sbagliato, che di buon grado accettò il suo amorema poi preferì sposare Jacqueline Kennedy. Per la legionedei suoi ammiratori sparsi per tutto il mondo, Maria Callasrappresenta, in modo unico, la vetta dell'arte lirica.Eppure, c'è anche un lato più sensazionale della leggendaCallas. Milioni di persone che nulla sanno, ed ancor menosi curano dell'arte dei grandi cantanti conoscono il nome diMaria Callas.Aveva una personalità elettrizzante che catturava le testa-te della stampa internazionale e che era facile preda dellamalignità di gazzettieri e giornalisti. Questi trovavanomolto da riferire su questa fascinosa donna: la rapida asce-sa al rango di stella internazionale quando era ancora piùche ventenne; la sua trasformazione da robusta sopranowagneriana a diva snella eaffascinante, soprannomi-nata la Divina alla Scala; leriferite manifestazioni ditemperamento e le presunterivalità con altre soprano; lasua relazione con AristotileOnassis e la separazione daldevoto marito, Meneghini;l'innegabile e prematuro decli-no dei suoi mezzi vocali; il suosconsigliato ritorno al palco-scenico nella serie di concer-ti con Giuseppe Di Stefanoall'inizio degli anni '70 allor-ché la sua carismatica perso-nalità doveva compensare allafragilità dei mezzi vocali; edinfine la sua morte solitaria aParigi nel 1977.Non è una esagerazione direche la Callas cambiò la storiamusicale.Nel corso della sua carriera- relativamente breve maincomparabilmente brillan-te il suo genio vocale e tea-

trale portò nuova vita al repertorio operistico italiano,soprattutto alle eroine del bel canto di Bellini, Donizetti eRossini. La Callas non fu la prima donna che avrebbe bril-lato anche come attrice, ma la sua presenza dominante findagli anni '50 fece di lei il simbolo dell'opera come dram-ma del ventesimo secolo.Il grande direttore Tullio Serafin, disse che qualsiasi fossela parte, la Callas trovava sempre “la voce giusta”. Questavoce, che frequentemente fece oggetto di vivaci discussio-ni possedeva un timbro unico, una varietà di colori tonalied agilità eccezionale che le permettevano d'illuminaretutti i ruoli e di catturare ogni rumore nell'evoluzione delpersonaggio. Tramite le sue rare doti drammatiche e musi-cali, ella divenne il personaggio che interpretava sullascena e in conseguenza di ciò nacque il mito del suo tem-peramento impetuoso e della cosiddetta “difficile persona-lità”.Ma i colleghi della Callas tenacemente attestano la suaprofessionalità e la sua buona volontà a lasciarsi guidare dadirettori quali Serafin o Karajan o da registi quali Viscontio Zeffirelli. La semplice verità è che Maria Callas era fana-tica della perfezione e che, in teatro o nello studio disco-

grafico, era sempre più chepreparata, in ogni manierae che altrettanto si aspetta-va dagli altri.Sotto molti aspetti la vitastessa della Callas era comeuna grande opera romantica- una sorta di trionfo - dram-ma ed infine tragedia. Sullascena era acclamata frene-ticamente dai suoi arditiammiratori mentre fuoriscena faceva impazzire idirettori dei teatri con le sueesigenze. In pubblico erauna celebrità, ma negli affa-ri di cuore era una frana. Maè la sua arte che sopravvivefulgente. Fin quando l'operacontinuerà ad essere esegui-ta il suo nome rappresenteràl'apice della conquista. MariaCallas è la prima donna asso-luta, veramente La Divina,per il presente e per sempre.

MARIA CALLASdi Bruno Tosi

Bruno Tosi, critico musicale e scrittore, ha pub-blicato negli ultimi anni varie monografie musi-cali, fra cui due dedicate a Maria Callas: “CastaDiva e “Giovane Callas”, che hanno avuto pre-stigiosi riconoscimenti, come il PremioPedrocchi, Chianciano e Diego Fabbri.Tosi, in passato press-agent dei più famosi can-tanti lirici, da Renata Tebaldi a GiuliettaSimionato, da Joan Sutherland a RainaKabaivanska, da Mario del Monaco a FrancoCorelli, recentemente è stato nominato GrandeUfficiale al Merito della Repubblica da CarloAzeglio Ciampi. E' anche presidentedell'Associazione Culturale Arthur Rubinstein edel Premio “Una vita nella Musica”. Tale ricono-scimento, considerato dalla critica mondialecome l'equivalente del Nobel della Musica, èstato assegnato per la prima volta nel 1979 alleggendario Rubinstein e, negli ultimi anni, aIsaac Stern, Maurizio Pollini, Claudio Abbado,Luca Ronconi, Renzo Piano, Carla Fracci,Ruggero Raimondi, Pier Luigi Pizzi, Zubin Methae Alfred Brendel.

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L'Identitàdi Rabaramadi Daniela Masucci

ra il verde della via Marina, difronte alla bellissima VillaGenoese Zerbi, guardano verso il

mare tre grandi figure umane. Tre scul-ture. Affascinanti, misteriose, gigante-sche. Gli alberi secolari le accolgono frala maestosità dei loro tronchi, le sfiora-no quasi con le foglie. Un contesto chefonde bellezze di ogni genere. Le opere sono di Rabarama, una scultri-ce considerata uno degli astri nascentidel panorama artistico contemporaneo.Rabarama. E' un anagramma, all'internodella parola vi sono altri termini. È unvocabolo che si trasforma, che mutacome tutto il percorso dell'artista. Inrealtà Lei è Paola Epifani, nata nel 1969a Roma ma vive e lavora a Padova.

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Dentro la Villa altre figure di uomini. Ancora. Settanta intutto. Rannicchiati, pensierosi, in mutamento. Un percor-so interattivo tra l'osservatore e l'opera.In un'apparente staticità della scultura vi sono storie, vicis-situdini energie. Tracciano la natura primordiale e il lin-guaggio del suo destino futuro. Da un riposo, un'assenzanaturale, si passa in modo repentino alla partenza, alloscatto, alla dinamicità. Rabarama medita, si raccoglie,interroga e controbatte. Attraverso questa creatura mar-chiata da diversi destini cromatici, forze scritte sul corpo,codici espressivi-figurativi, dialoga col fruitore. Individui che si muovono, si dimenano, si contorcono den-tro una pelle creata come corazza dal mondo esterno.Difesa momentanea per concentrarsi sull'Io, sulla propriaIdentità. Un limite che aiuta a guardarsi dentro, a cono-scersi prima di qualsiasi contatto esterno. Ricerca delsegreto interno per vivere la vita, per migliorare se stessied il mondo. Creature che navigano per tempeste, soffe-renza, ma che giocano, si appassionano, danzano. Dove lospettacolo si traveste in rivoluzione di forme e di pensiero.Con un'energia comunicativa ed una potenza segreta che sipuò sentire nell'immediato. Non ci sono spiegazioni nelleopere, infatti. Tutto viene lasciato alle proprie sensazioniche possono dipendere da tanti fattori come la cultura,la propria sensibilità, il pathos di ognuno dinoi. Un'energia che muove tuttoe che fuoriesce dalle opere.Un'energia che pompa dentroquella pelle, incredibilmenteforte per tenerla chiusa den-tro. Una corazza, chetiene un fuoco interio-re, con una continuaespansione di calore. E'un viaggio dell'Identità eRabarama vive intensamente dentro le cose che fa, perchésolo un vero e grande atto d'amore può far nascere tutto ciò.

“Donati dall'artista alla città o acquistatidall'Amministrazione poco importa! Stannobenissimo dove stanno e sembrano fattiapposta per stare li, sul lungomare di Italo”

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in crescita l'interesse del cinema e della tele-visione nei confronti del Sud. Un fenomenoche, da alcuni anni, sta assumendo proporzio-

ni sempre più consistenti, portando così alla ribaltauna nuova immagine del meridione. E' quanto emer-ge nel volume “Un set a sud” (CittàCalabriaEdizioni),in cui l'autrice, Paola Abenavoli (giornalista de “IlQuotidiano della Calabria”), analizza ilfenomeno descrivendo eloquentementela situazione attuale. Una sorta di foto-grafia dai colori chiari, netti, ben defini-ti, che l'autrice scatta su una realtànuova dalla quale emerge un'immagineche vuole distaccarsi da vecchi clichè, daquegli stereotipi per troppo tempo nega-tivi. Un aspetto, questo, di grande rile-vanza che l'autrice rimarca nel suo lavo-ro, facendo notare come, che siano fic-tion o film, il sud viene adesso descrittonella sua verità, senza ometterne con-traddizioni ma neanche i punti di forza. Iset che sorgono in regioni quali Campania,Sicilia, Puglia, Calabria, Basilicata, met-tono in chiara luce l'interesse che nonsolo le case di produzione ma anche i sin-goli registi dimostrano nei confronti diqueste terre. La crescente nascita di setcinematografici o di fiction televisive nelle diverseregioni del Mezzogiorno d'Italia, viene descritta det-tagliatamente dall'autrice che analizza il fenomeno apartire dagli ultimi dieci anni. Un trend sicuramentepositivo, grazie al quale sfatare l'obsoleta immaginedel sud, erroneamente considerato per troppo temposolo terra legata a vicende di mafia, camorra, n'dran-gheta. Ma piuttosto un nuovo sud dove dalla cultura,evidenzia la giornalista, fare derivare sviluppo. Cosìnel volume si evince che il fenomeno non è una novi-tà per regioni quali la Campania, la Sicilia oggi scel-te non solo (come in passato) per raccontare unarealtà difficile, ma anche per la bellezza dei loropaesaggi. Bellezze paesaggistiche che calamitanol'attenzione anche in Calabria, Puglia, Basilicata dovesi registra un incremento della produzione di fictione film. Ne sono conferma i dati forniti dall'autrice checita importanti produzioni di fiction quali “Un postoal sole”, in onda su Raitre, soap opera nata a Napolie lì realizzata presso il Centro di produzione tv, e “LaSquadra”, altra fiction seguitissima. Mentre per laSicilia, una produzione su tutte (ma si rammentaanche “Brancaccio”, “Ama il tuo nemico”), quellache è diventato un vero e proprio caso televisivo disuccesso, vale a dire “Il Commissario Montalbano” (acui l'autrice dedica un intero capitolo con tanto diintervista da lei realizzata ad Andrea Camilleri). Untrend positivo, dunque, che si sta estendendo anchea regioni come la Calabria, per cui l'Abenavoli ricor-da la miniserie Rai con Terence Hill, “L'uomo che

sognava con le Aquile”, girata in Aspromonte, giun-gendo, tra gli altri lavori, a “Gente di mare” (andatain onda su Raiuno). Non ultima la Puglia con produ-zioni come “Il giudice Mastrangelo”. Luoghi suggesti-vi, panorami mozzafiato non passati inosservati nean-che al cinema. Con registi i quali hanno saputo ren-dere merito a queste regioni. Così per la Basilicata,

che Mel Gibson ha trasformato in unideale set cinematografico per il suofilm “The Passion”. Ma tante le produ-zioni cinematografiche che l'autricericorda citando registi e film di succes-so. Dalla Puglia dove hanno giratoCristina Comencini (“La bestia nelcuore”), Pupi Avati (“La seconda nottedi nozze”). Alla Calabria a cui si lega ilnome di Mimmo Calopresti (“Preferiscoil rumore del mare” e l'ultimo film“L'abbuffata”). Ma tanti altri i registied i loro film ambientati nei bellissimiscenari siciliani o campani. Altroaccento importante che l'autrice pone,riguarda il sud come centro produttivo,da cui fare derivare sviluppo culturale,turistico ed economico: ne sono esem-pio il Cptv di Napoli e il Centro di pro-duzione di fiction a Termini Imerese (in

Sicilia). A completare il dettagliato volume di PaolaAbenavoli, una serie di dichiarazioni ed interviste chela giornalista ha realizzato (rilasciatele, negli ultimi11 anni, e pubblicate su “Il Quotidiano della

Calabria”). A parlare sono addetti ai lavori e registi.Tra cui Giuliano Montaldo, Mimmo Calopresti, PupiAvati, Gianni Amelio. Ed ancora Agostino Saccà,Francesco Rosi, Francesco Zinnato, Giovanni Minoli,Antonio Capuano.

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Era una sera d'autunno del 1998. Pioveva. Italo arrivò in reda-zione tutto bagnato. Dietro di lui i ragazzi della scorta. Nonlo perdevano di vista un istante dopo l'avviso senza garanziainviatogli dalla 'ndrangheta che lui aveva cacciato dai “margi-ni del bilancio comunale” dov'era da anni attendata.Falcomatà era deciso a dichiarare guerra alle Ferrovie delloStato che avevano sfregiato il voto della Via Marina e, adistanza di decenni, non avevano ancora riparato i danni. Ilavori per la riqualificazione del Lungomare, già ad andamen-to lento, si erano arrestati di colpo qualche mese prima e l'im-presa aggiudicatrice era scappata di notte abbandonando ilcantiere. Una grande beffa, frutto del grande bluff di unagara d'appalto a base d'asta troppo bassa per essere vera. Manon era finita: nella gara successiva, anche questa congegna-ta dalle FS su un progetto-burla che tendeva esclusivamenteal risparmio, tutte le ditte partecipanti avevano fatto l'offer-ta al rialzo, determinando un nuovo stop. La misura eracolma.“Ora basta. Sono intenzionato ad andare all'attacco frontaledelle Ferrovie e anche a trascinarle in tribunale”. Il tono erapiano, come sempre, ma l'espressione non lasciava dubbi sullaeffettiva volontà del “francescano di ferro” di alzare il livel-lo del conflitto con la potenza occupante per difendere lacittà dall'invasione barbarica. Falcomatà tuttavia sapevabenissimo che se avesse lanciato una sfida solitaria il Padronedelle Ferrovie lo avrebbe schiacciato. Così aveva cercato etrovato una sponda istituzionale importante in Marco Minniti,allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel gover-no D'Alema. Ma non basta. Era necessario avere alle spalle unalleato in grado di accompagnare l'offensiva con un alto rul-lar di tamburi. Chi se non la Gazzetta del Sud? “Se mi dai unamano”, disse Italo, “cominciamo a menare fendenti anche dadomani mattina”. Gli risposi che io ero pronto, ma dovevoseguire le vie gerarchiche. Non fu difficile. Dopo l'appoggiodel capo della redazione reggina, giunse l'incoraggiamento eil totale sostegno del direttore Nino Calarco. Falcomatà anda-va all'attacco e il giornale lo sosteneva con intere pagine. Unainchiesta lunga undici puntate. Che forse ha avuto il suo peso.Il Sindaco, infatti, arrivava a Roma non più disarmato ma conla “Gazzetta” sotto braccio, facendo sentire il fiato di Reggiosul collo delle Ferrovie e lasciando intendere che non era piùil caso di scherzare.Gli eventi successivi determinarono una svolta profonda nel

rapporto con le FS, al cui vertice nel frattempo s'era insedia-to Claudio Demattè, un professore colto e sensibile che conFalcomatà avviò un dialogo fecondo. Messi alle spalle i giochidi prestigio dei suoi predecessori, Demattè dispose l'adegua-mento dei costi ai prezzi di mercato e i lavori ripresero dibuona lena fino alla completa realizzazione dell'opera. IlLungomare oggi è un luogo d'incanto, uno dei più belli delmondo. Anche grazie all'impegno del sindaco GiuseppeScopelliti, che si è inserito sulla scia di Falcomatà completan-done il disegno.Ho scritto questo libro perchè ritengo giusto che i reggini nondimentichino mai, quando passeggiano sul Lungomare nellesplendide notti d'estate, che sotto quelle piastrelle c'è ilsudore e l'amore infinito di Italo per la sua città.

“Con il suo mare, Reggio ha sempre avuto un rapportod'amore non consumato”, scrive Pino Toscano ad un certopunto di questa sua storia del Lungomare che ora portail nome di Italo Falcomatà. E in fondo le pagine cheseguono servono anche a questo, a indagare il motivo diun rapporto così particolare, oltre che a ripercorrere,ovviamente, i tortuosi meandri di una vicenda durataper troppo tempo, tra progetti mai andati in porto,finanziamenti mai arrivati, impegni presi e poi nonrispettati, interessi non sempre limpidi e trasparenti,per usare un eufemismo.Alla fine a districare quel groviglio apparentemente ine-stricabile fu proprio Italo Falcomatà che anche in questocaso seppe muoversi utilizzando quelle che erano le suequalità migliori: l'onestà e la trasparenza, certo, e insie-me la competenza, la perseveranza e la pazienza di chigoverna sapendo che certi nodi non basta tagliarli, biso-gna saperli sciogliere, con la stessa determinazione concui, al contrario, si debbono tagliare, troncare di netto,i rapporti opachi, non chiari e non sani. Quelli che per-mettono alla illegalità e alla criminalità organizzata, inuna parola alla 'ndrangheta, di consolidarsi e di prospe-rare.

Dalla prefazione di Walter Veltroni

Quando Falcomatàdichiarò guerraalle Ferrovie

di Pino Toscano

“Ora basta... attaccofrontale!”

Il cinema scoprepanorami mozzafiato

di Maria Cavallo

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prime rappresentazioni in Italia di alcuni fra i musical piùpopolari all'estero: primo fra tutti Cats, un successo cheapre la strada, e le porte dei teatri italiani, anche ad altrigrandi spettacoli stranieri (The Rocky Horror Show, JesusChrist Superstar), ma anche a traduzioni volute e create adhoc per il nostro paese da intraprendenti registi (La picco-la bottega degli orrori, Chicago), ad adattamenti di filmmusicali già famosi presso il grande pubblico (Grease, HelloDolly!, My Fair Lady, La febbre del sabato sera) a nuoveproduzioni originali (Pinocchio, Peter Pan, Sette spose persette fratelli, per arrivare agli straordinari allestimentimusicali di Riccardo Cocciante, Notre Dame de Paris eGiulietta e Romeo.La passione per il Musical è diventata anche un progettoartistico per un intraprendente gruppo reggino: TheSparkling Diamonds, nome che evoca il celebre film “Gliuomini preferiscono le bionde” interpretato da MarylinMonroe.Saverio Calafiore, regista e costumista, e le coreografeEugenia Chindemi e Katia Crucitti hanno dato vita al“Centro Studi Musicals Calabria”, una scuola per la forma-zione di tutti quei giovani talenti che intendono far carrie-ra nel mondo del musical.Corsi di dizione, recitazione teatrale e cinematografica,canto, danza Modern-Jazz, classica e contemporanea,seminari di trucco, ma anche Storia del musical e Storia egestione del costume, sono le “materie” trattate in unregolare anno di studi suddiviso per gli adulti in due livel-li, “intermedio e avanzato”, mentre un corso è riservatoanche ai bambini.A conclusione del primo anno di attività della scuola, gli“Sparkling Diamonds” hanno portato in scena all'Oasi diPentimele e poi all'Arena Neri di Catonateatro, “BroadwayShow”, un'antologia di brani tratti da famosi musical.Questa estate la realizzazione di un vero musical “La Bellae la Bestia”, la storia resa celebre dalla versione animatadella Disney.A Catonateatro, scenografia e pubblico da grande spetta-colo per l'esordio in scena dei giovani artisti formati dallascuola di musical. Tutto esaurito, come nelle migliori occa-sioni, con biglietto d'ingresso dal costo quasi simbolico.Eppure, prima di arrivare al palcoscenico di Catonateatro,sembrava quasi che il progetto stesse per sfumare.Promesse non mantenute, teatri non più disponibili. Per il

presidente della Polis Cultura,Lillo Chilà, una nuova scommes-sa. Dare spazio e opportunità agiovani artisti, e forse anchenuovi talenti, è il modo per farcrescere la cultura del teatro, lapassione per questa forma d'ar-te. Il modo giusto per premiareil coraggio e la determinazionedi un gruppo di ragazzi che cre-dono in un progetto artisticonuovo, nella propria città. La Bella e la Bestia è stato unsuccesso. Il Musical, grazie allasua inconfondibile miscela dimusica, magia, ingegnosa narra-zione, stupefacenti scenografiee i decoratissimi costumi deisuoi simpatici personaggi, haappassionato ed entusiasmato

adulti e bambini, lasciando ad ognuno il suo prezioso inse-gnamento:la vera bellezza splende dentro di noi….

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C'era una volta il Musical. Quello di Fred Aster e GingerRogers, Gene Kelly e Judy Garland, delle scenografie fasto-se, degli anni del mito di Hollywood e dei suo grandi pro-duttori. La musica, la danza, il canto e il fascino del sogno,protagonisti di un cinema che si era imposto come evasio-ne pura, fantasia liberatrice, favola. Hollywood come “lagrande fabbrica dei sogni”.“Singing' in the rain”, con Gene Kelly che danza sotto lapioggia, è la sequenza diventata ormai emblema di un'epo-ca che non tornerà più ed esprime il senso più profondo edautentico del musical stesso. Poi le trasformazioni, inevitabili col mutare dei tempi. Ilmusical classico, che aveva fatto cantare e ballare un'inte-ra generazione lentamente scompare. I dibattiti sul pianosociale, la necessità di sentirsi impegnati culturalmente epoliticamente, cambiano carattere ad un genere fino adallora facilmente riconoscibile. E' l'epoca di “Hair” e “JesusChrist Superstar” per arrivare alla fine degli anni '70 a“Grease”. E se per il cinema sembra ormai impossibileriportare il musical ai fasti di un tempo, i teatri di Broadwaycontinuano a rappresentarli con successo ed esportarli intutto il mondo: basti pensare a “Cats” o a Chorus Line.Ma il musical, nel suo intreccio di teatro e cinema, conta-minato sin dalle sue origini (fine '800) da generi teatralidiversi, fra cui la commedia musicale, l'operetta, il vaude-ville, la rivista, il teatro di varietà, il burlesque, continuaoggi a vivere e sembra aver trovato nuova linfa. Sarà perché c'è la musica, quella che ti entra dritta nel-l'anima, che ti rapisce e che è capace di suscitare imme-diatamente le emozioni più diverse. Sarà perché c'è ilballo, e perché quando le coreografie sono studiate ad arteè sempre affascinante vedere dei corpi che si muovonoseguendo la musica. Sarà perché gli effetti scenici e gliallestimenti grandiosi riescono a trasportarti dentro lascena e dentro la storia. “Il musical è più vero della realtà, perché gli attori quan-do cantano e ballano in una storia sono l'anima della vitareale” ha scritto un esperto.Anche il pubblico italiano sembra aver scoperto una nuovapassione per il Musical Theatre. O forse possiamo parlaredi riscoperta, se pensiamo ai successi delle commediemusicali di Garinei e Giovannini, nella metà degli anni '50.Non a caso l'inizio di questa rinnovata euforia si ha con le

Musical, che passione!Una scuola di musical per sognare Broadwaydi Lucia Federico

Gentile lettore,grazie per averci posto alcune domande alle quali anche noi vorremmo spessodare una risposta.La Polis-Cultura, nella sua manifestazione più significativa, il Festival estivo diCatonateatro, agisce sul territorio di Reggio Calabria da oltre venti anni.Il Festival non nacque perché un Amministratore pubblico o un privato avesse-ro deciso di consegnare alla Polis un teatro attrezzato e corredato di poltrone,luci, servizi, palcoscenico perché lo gestisse.Né perché qualcuno avesse deciso di dare alla nascente attività un contributodi ormai desuete ma allora apprezzate lire.O erano sesterzi? E' passato ormai tanto tempo.Nacque perché alcuni appassionati di teatro, notando, ohibò, un terrenoabbandonato in evidente stato di degrado, decisero, pietra su pietra, lira sulira, di costruire un palcoscenico e porvi davanti delle sedie.Che furono riempite tutte, miracolosamente, da un pubblico entusiasta edincredulo.Lì durante le magnifiche sere estive che Dio dona, chissà ancora per quantotempo (avete consultato Nostradamus?), alla Calabria ed al nostro Stretto diMessina, si diede vita al rito del Teatro.Al rito di Catonateatro.L'attività crebbe, sempre tra i sacrifici economici e psicologici degli organizza-tori fino ad esplodere e partorire quella che è oggi una delle manifestazionipiù importanti del Teatro nel meridione d'Italia.Nel tempo arrivarono anche dei soldini a volte sufficienti a volte no a far cre-scere l'attività.E per questo ringraziamo.Quello che sempre è mancata, però, è sempre stata la certezza della eroga-zione del “contributo” e la conoscenza della sua entità.Il che costituisce da un lato, per l'Amministrazione pubblica, uno strumentoper tenere in pugno chi lavora, dall'altro una precarietà che solo il coraggio dichi organizza con fierezza ormai consolidata il Festival riesce a rendere menotragica.Tutte le attività che Lei indica - e che sarebbero, unitamente ad altre, neces-sarie per la crescita culturale del territorio se affidate a chi il territorio lo amaveramente ed abbia mostrato capacità imprenditoriali e professionali di altolivello - dovrebbero essere sostenute da un interesse politico diverso, costantee consapevole, senza interessi privati e soprattutto senza la spada di Damocledel “se non sei bravo non te lo do.”Attività invernale, scuola di teatro, produzioni con professionisti del territorioaffiancati da grandi nomi del teatro italiano, farebbero salire Reggio e la suacultura ai primi gradini dei valori nazionali.Conosce Lei un politico che senza livori personali possa aiutarci a crescere? Se lo conosce ce lo presenti e noi saremo umili ed attivi, corretti e dirompenti.Non vediamo l'ora di trascinare il Teatro di Reggio fuori dai confini di Catona.Conosciamo, modestamente l'Italia, l'Europa ed il mondo.Grazie

Walter Manfrè

L'arrivo è “emozionato” come se sitrattasse del primo giorno di prove diun importante spettacolo teatrale.Ci guardiamo fra noi e guardiamo ilregista.Cosa ognuno penserà degli altri, ilregista di noi?E ciascuno di lui?Ma è lui che deve rompere il ghiaccio.Gli tocca!Ci scruta, ci studia.Ognuno vorrebbe già conoscere il lororuolo, quello che ci sarà assegnatonella commedia di Pirandello.Ma abbiamo giurato di essere interes-sati solo al seminario, non stare sulpalcoscenico.In realtà il loro essere attori ci“porta” a “volere” la parte.Ed è giusto così.Il primo giorno ci si presenta, ognunoparla di sé, recita il proprio curriculum.Si avviano i lavori.Poi si parla di Pirandello.Due ore di critica, nozioni, confronti,esperienze.Due ore di prove …Così è (se vi pare).Si avviano i tentativi: adesione fisicae psicologica ai personaggi.Si aspira ai protagonisti.

Si alza una voce:“Posso fare io il maggiordomo?”“Ma come, il ruolo più piccolo, quat-tro battute?”“Si, mi piace.”Enoch Marrella, giovane attore chestudia in Accademia, alla prestigiosa“Silvio D'Amico”.Il “suo” maggiordomo diventerà ungrande protagonista.Splendido esempio di contronarcisismo.Si naviga a vista.Entusiasmo, delusione.Chi non interpreta Laudisi o Ponza,(protagonisti) tende a deresponsabi-lizzarsi.Qualcuno, non più di uno, molla.Comunque, siamo intorno al quintogiorno effettivo di lavori, entro doma-ni si deciderà chi interpreterà chi.Si fa in fretta: bisogna anche organiz-zare il pellegrinaggio ai magazzini perscegliere i costumi.La sera, dopo le prove, splendidomare splendide lune, spaghettate,angurie, confidenze.Ci si ritrova, in un agosto mai turbatoda una nube (se non quelle dentroogni anima) puntuali, tutti, ognipomeriggio, per costruire una “cosa”

che il regista proibisce di chiamare“spettacolo”.Il testo è duro, difficile ma anche iro-nico, quindi, a tratti, divertente.Poi due giorni diversi.Gli incontri con Giuseppe Manfridi ePaolo Puppa.Ne sanno di Pirandello e ci trascinano.Poi, ne sanno di teatro e si sente:istrioni se vuoi, ma non dimenticabili.Scorrono i giorni.Corrono i giorni.Verso il debutto.Arrivano i costumi.Largo, stretto, mi cade male, sembraperfetto, posso portarmelo a casa?(Enoch)…Arrivano le scene: trionfo di rosso conmobili in stile.Arriva il debutto.Tanto pubblico e tanti consensi.Il lavoro si vede ed anche l'anima chedentro vibra.Applausi, applausi…Poi un lungo tavolo per cenare con lamalinconia ed un poco di vuoto cheresta.Finisce pure agosto.Sarà per questo?

SEMINARIO PIRANDELLO

DIARIO DI BORDO

Seguo da molto tempo la vostraattività e sono orgoglioso disapere che in Calabria esista unastruttura come la vostra che, suun territorio per molti aspettidisastrato come quello di Reggio,conduce un progetto culturalenel campo del teatro.Vorrei sapere perché, però, unavolta superato il periodo estivo,non si ha più traccia della vostraattività e come mai non vi occu-piate di produzioni.So che sul nostro territorio esi-stono molti giovani che vorrebbe-ro intraprendere una attivitàartistica nel campo dello spetta-colo o frequentare una scuola diteatro.Avete mai pensato di dare luogoad iniziative di questo genere?Non sarebbe giusto creare unacompagnia stabile che portiavanti un discorso professionaleanche sul territorio nazionale?Questo accade in molte altrecittà italiane.Forse a Reggio non siamo all'al-tezza di fare questo?

Cordiali salutiMichele Delfino

Un lettore scrive a

Walter ManfrèDirettore Artisticodel Festival Catonateatro

di Alberto Brandi

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