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DOSSIER: IL TESTO FILOSOFICO Platone e le scuole socratiche Il testo filosofico La filosofia come decadenza della sophia La filosofia, nel senso etimologico di «amore della sapienza», nasce con Platone e si lega a un’epressione scritta, cioè alla forma letteraria del dialogo. È sentita come fenomeno di decadenza della sophia – la saggezza dei «sapienti» dell’età arcaica – in quanto l’amore della sapienza è meno della sapienza. Il terreno su cui si innesta la filosofia è dunque quello della sophia arcaica, ma anche della più remota tradizione della poesia e religione greche. Giorgio Colli ha contribuito a sfatare lo stereotipo secondo il quale l’«età dei sapienti» sarebbe un modesto antefatto della filosofia propriamente detta, quale inizia con Platone. In realtà «quanto precede la filosofia, il tronco per cui la tra- dizione usa il nome di sapienza … è per noi, remotissimi discendenti, più vitale della filosofia stessa» 1 . I «sapienti» erano figure leggendarie (Orfeo, Epimenide, Abaris), dotate di poteri sciamanici (capacità di divinazione, di cadere in trance, di mettersi in contatto col mondo dei morti, di guarire in modo miracoloso). Alcuni di essi, realmente esistiti anche se mitizzati dalla tradizione, fanno pensa- re a contatti con culture anelleniche. È il caso di Pitagora ed Empedocle, nelle cui dottrine si colgono elementi estranei al mondo greco, forse di origine orientale. Si tratta in particolare di credenze relative all’origine del mondo e al destino dell’anima, ad esempio la metempsicosi pitagorica, trasmigrazione dell’anima Dossier 1. G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1992, p. 16.

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Platone e le scuole socratiche

Il testo fi losofi coLa fi losofi a come decadenza della sophiaLa filosofia, nel senso etimologico di «amore della sapienza», nasce con Platone e si lega a un’epressione scritta, cioè alla forma letteraria del dialogo. È sentita come fenomeno di decadenza della sophia – la saggezza dei «sapienti» dell’età arcaica – in quanto l’amore della sapienza è meno della sapienza. Il terreno su cui si innesta la filosofia è dunque quello della sophia arcaica, ma anche della più remota tradizione della poesia e religione greche. Giorgio Colli ha contribuito a sfatare lo stereotipo secondo il quale l’«età dei sapienti» sarebbe un modesto antefatto della filosofia propriamente detta, quale inizia con Platone. In realtà «quanto precede la filosofia, il tronco per cui la tra-dizione usa il nome di sapienza … è per noi, remotissimi discendenti, più vitale della filosofia stessa»1. I «sapienti» erano figure leggendarie (Orfeo, Epimenide, Abaris), dotate di poteri sciamanici (capacità di divinazione, di cadere in trance, di mettersi in contatto col mondo dei morti, di guarire in modo miracoloso). Alcuni di essi, realmente esistiti anche se mitizzati dalla tradizione, fanno pensa-re a contatti con culture anelleniche. È il caso di Pitagora ed Empedocle, nelle cui dottrine si colgono elementi estranei al mondo greco, forse di origine orientale. Si tratta in particolare di credenze relative all’origine del mondo e al destino dell’anima, ad esempio la metempsicosi pitagorica, trasmigrazione dell’anima

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1. G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1992, p. 16.

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che dopo la morte si reincarna in altri organismi, fino alla completa liberazione dalla materia. Queste credenze probabilmente fornirono ai Greci lo spunto per una prima riflessione «filosofica» sul senso della vita individuale e universale.

Apollo e Dioniso

Centrale in rapporto alla sapienza è la figura di Apollo, che Giorgio Colli con-sidera in una prospettiva più ampia rispetto a Nietzsche. Il filosofo tedesco nell’opera giovanile La nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872) aveva teorizzato la presenza, nello spirito greco, di un elemento dionisiaco, che rappresenta l’intuizione del dolore e della caoticità dell’essere e si esprime nella musica, e di un elemento apollineo, che produce forme limpide e razionali e si esprime nella scultura. La grande tragedia greca avrebbe contemperato in una sintesi armonica questi due opposti impulsi dell’anima greca.

Correzione della prospettiva nietzschiana

Oggi la critica amplia e corregge la prospettiva nietzschiana, sostenendo che:

• la sfera della conoscenza si connette meglio al luminoso Apollo (dio degli ora-coli e della divinazione, che è un modo di cercare la verità, una forma di cono-scenza) che a Dioniso, notturno dio dei misteri e delle orge;

• le due divinità non sono antitetiche come voleva Nietzsche, ma hanno un’affi-nità sul terreno della manìa, cioè la follia, che non pertiene al solo Dioniso, ma anche ad Apollo in quanto dio della mantica;

• la follia connessa alla divinazione (prerogativa di Apollo) è intrinseca alla sa-pienza greca.

Rispetto a quanto ipotizzava Nietzsche, gli attributi di Apollo appaiono più nu-merosi, complessi, contraddittori. Nel culto del dio si colgono, oltre alla con-nessione con la sfera della divinazione e della follia mantica, l’ambiguità degli oracoli e la fondamentale doppiezza.

Complessità e contraddittorietà della figura di Apollo

La doppiezza di Apollo (elemento rassere-nante e violenza differita, simboleggiati da li-ra e arco) è segno della frattura metafisica fra mondo umano e mondo divino. In particolare

Apollo.

Bacco come venne rappresentato nel 1593-94 dal Caravaggio (Michelangelo Merisi, 1571-1610). Firenze, Museo degli Uffizi.

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Apollo esprime la sua natura contraddittoria attraverso:

• la parola oracolare, tramite fra dei e uomini, ostile perché criptica;• l’arte, gioconda e benigna.

Attraverso l’oracolo, la natura del dio si rivela sia insondabile, folle, arbitraria, sia incline alla moderazione, al controllo, alla ragionevolezza. La divinazione apollinea è una ricerca della verità, nella quale coesistono il momento irrazionale e quello riflessivo. In essa Platone distingue il divinatore, invasato dal dio e suo tramite inconsapevole, e il profeta che interpreta, riflette su ciò che dice, scioglie gli enigmi.

Centralità di Apollo in rapporto alla sapienza e ricorrenza della sim-bologia apollinea nei sapienti

Nell’epoca della sapienza – che arriva fino ad includere anche la cosiddetta età presocratica, ossia il VI e il V secolo – è ricorrente la simbologia apollinea nei sapienti.

Eraclito:

«… armonia contrastante come quella dell’arco e della lira».

(fr. D.K. B51)

Empedocle:

«Nelle sue membra non è provvisto di una testa simile all’uomo, né dal suo dorso si spiccano due rami, non ha piedi né veloci ginocchia … ma soltanto un cuore sacro e indicibile, che con veloci pensieri frecciando si lancia attraverso il mondo intero».

(fr. D.K. B65)

Dall’enigma alla dialettica, alla fi losofi a L’enigmaAlla doppiezza di Apollo si lega l’enigma, che si caratterizza per l’aspetto ostile e la formulazione contraddittoria, adombrando l’ineffabilità del divino. L’enigma si caratterizza per i seguenti tratti:

• carattere di ostilità nei confronti del destinatario;• contrasto tra la banalità della forma e del contenuto e l’esito tragico;• assurdità. L’enigma esprime a parole l’ineffabilità della condizione dell’uomo,

introducendo nell’ambito umano qualcosa di irrazionale e assurdo;• contraddittorietà (secondo Aristotele «l’enigma è dire cose reali collegando

cose impossibili»);

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• connessione con un contesto religioso e solenne. È il caso ad esempio della richiesta di Socrate morente, riferita da Platone nel Fedone (118 a): «… disse – e fu l’ultima volta che udimmo la sua voce – noi siamo debitori di un gallo ad Asclepio: dateglielo e non ve ne dimenticate», dove l’ambigua richiesta di un’offerta al dio della medicina va probabilmente interpretata come ringrazia-mento per la liberazione dalla malattia della vita.

In origine l’enigma è una sfida crudele del dio all’uomo: la sua oscurità allude al divario fra mondo divino e umano. In seguito si stacca dalla sfera della divina-zione e dallo sfondo religioso (mito della Sfinge2). Pur conservando il carattere agonistico, va progressivamente umanizzandosi e diventa una lotta fra uomini per la sapienza. Esiodo narra di Calcante che, avendo incontrato un divinatore a lui superiore, Mopso, gli pose tale enigma: «Sono stupefatto nel mio cuore del gran numero di frutti che porta quel fico selvatico, pur essendo così piccolo; vuoi dirmi il numero dei fichi?». E Mopso rispose: «Sono diecimila di numero, la loro misura è un medimno, ma uno di questi fichi è di troppo e non rientra nella misu-ra». Secondo Strabone, che pure riferisce l’episodio, Calcante sarebbe morto per il dolore della sconfitta. Qui l’enigma è portato su un terreno umano, è una gara per stabilire chi è più sapiente.

La nascita della dialettica

Dall’evoluzione in senso laico e umano dell’enigma nasce la dialettica, arte del discutere, che rappresenta la dimensione razionalistica del mondo greco. Essa successivamente si evolve in senso distruttivo e quasi nichilistico, in quanto l’impianto stesso della discussione implica che la tesi venga sempre confutata dall’interrogante. Al perfetto dialettico è indifferente la tesi posta dal risponden-te, dunque, ogni affermazione risulta confutabile.Con l’estensione della dialettica alla sfera pubblica, nasce la retorica, la quale conserva l’aspetto agonistico, aggiungendo l’elemento della persuasione e valo-rizzando la scrittura e la dimensione letteraria, che inaugura la filosofia. Con Gorgia, che segna la fine dell’età dei sapienti, si assiste a un cambiamento nel pensiero greco:

• il linguaggio dialettico, prima limitato ad un ambito privato, entra in un ambito pubblico;

• nasce la retorica come volgarizzazione del linguaggio dialettico.

Dialettica e retorica

Anche la retorica è un fenomeno (parzialmente) orale e agonistico (anche se in-

2. La Sfinge è, nel mito greco, un mostro con testa di donna e corpo di leone. Nella leggenda, essa propone a Edipo il seguente enigma: «Chi è che cammina con quattro gambe al mattino, con due nel meriggio, con tre la sera?». La risposta era «l’uomo», che da bambino cammina sulle gambe e le braccia e da vecchio si appoggia al bastone.

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direttamente: l’oratore lotta per soggiogare gli ascoltatori e questi assegnano la vittoria al retore più efficace).A differenza della dialettica si aggiunge l’elemento emozionale: la mozione de-gli affetti degli uditori. Inoltre, mentre nella dialettica si lottava per la sapienza, nella retorica si lotta per una sapienza rivolta al potere politico.

Retorica e scrittura

La retorica si accompagna alla scrittura: gli oratori scrivevano i discorsi, poi li imparavano a memoria, ma era necessaria la scrittura per la rifinitura dello stile. Quando la dialettica diventa retorica, la scrittura da strumento mnemonico acqui-sta autonomia incidendo sulla nascente filosofia.

Filosofia e letteratura

Platone inventa il dialogo, nuovo genere scritto che egli chiama filosofia. Dopo Platone la filosofia rimarrà l’esposizione scritta di temi astratti e razionali, morali o politici. Platone contrappone la propria letteratura (filosofia) alla precedente sophia che egli non possiede più.

Conclusioni

La filosofia greca prende origine:

• dalla retorica;• dalla dialettica; • dallo spirito agonistico retaggio della dialettica;• dall’interesse teoretico e letterario di Platone, «inventore» del genere filosofi-

co-letterario del dialogo.

Alcune parole chiave della fi losofi a greca Ripercorriamo il tema delle origini della filosofia greca attraverso alcuni concetti fondamentali. Filosofia Nella prospettiva di Giorgio Colli, s’innesta sulla precedente sophia, di cui costituisce un deterioramento. La filosofia è legata all’espressione scritta e alla forma letteraria del dialogo platonico, cui poi si sostituirà il trattato. Sofia È la sapienza che caratterizza l’età arcaica della cultura greca. Si lega all’oralità, alla struttura filosofica dell’enigma prima e alla dialettica poi.Apollo Figura più ricca e complessa di quanto non intendesse Nietzsche, Apollo si presenta come divinità ambigua e contraddittoria, capace di turbare e rasserenare, come indicano gli attributi dell’arco e della lira. In quanto dio della divinazione, è connesso alla follia mantica e all’enigma, cui si lega il suo carattere di ostilità differita desumibile anche dagli epiteti omerici («che colpisce da lontano»).

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TTTTTESTI A CONFRONTOESTI A CONFRONTOESTI A CONFRONTOESTI A CONFRONTOESTI A CONFRONTO Un esempio di impiego filosofico dell’enigma

Il passo che proponiamo è tratto dalla Disciplina clericalis, exemplum XXVIII, di Petrus Alfonsi (XI sec. d.C.).

È divenuto quasi proverbiale quel che si dice di Socrate: che evitava la folla e amava la vita dei campi, e abitava in un bosco e viveva in una botte tagliata a metà, come se fosse la sua capanna: si difendeva dal vento e dalla pioggia opponendo loro la parte chiusa, e quando il sole brillava la girava da quella aperta. I cacciatori del re lo scovarono gettando un’occhiata nella botte, e incominciarono a prenderlo in giro perché se ne stava lì fermo a schiacciare i pidocchi; ma così facendo gli impedivano di godere della luce del sole. Tranquillo, con il sorriso sulle labbra, Socrate disse «Non crederete di togliermi quello che non mi date!». Irritati con lui, i soldati decisero di mandarlo via da quel luogo in cui passava la vita buttandolo lontano dalla strada, perché la vista di un uomo così miserabile non offendesse il loro signore se per caso fosse passato da lì. Non ci riuscirono, e allora lo minacciarono gridando: «Bada bene a non cacciarti in qualche guaio per la tua inclinazio-ne all’insolenza, dal momento che il nostro re e signore sta per passare da queste parti in compagnia dei suoi domestici e degli uomini più eminenti della corte».Il filosofo, immobile, li guardava diritto negli occhi mentre quelli gli abbaiavano contro. Poi disse: «Il vostro signore non è il mio signore: al contrario, è il servo del mio servo». A queste parole alcuni dei soldati, con volto minaccioso, proposero di tagliargli la testa; i meno feroci, invece, decisero di perdonarlo e di aspettare la decisione del re. Proprio mentre stavano discutendo così aspramente sopraggiunse il re. Pretese di conoscere im-mediatamente le ragioni del contrasto, e i suoi servi gli raccontarono tutta la storia, soprattutto le parole di Socrate. Il re volle chiarire se le infamie che gli riferivano fossero vere o false e si avvicinò al filosofo, chiedendogli che cosa avesse detto sul suo conto: e quello, ripetendo per filo e per segno quanto avevano appena detto i messi, ribadì che il re era solo il servo del suo servo. Con calma, in tono affabile e ben disposto, Alessandro gli chiese di sciogliere il nodo di quella frase sibillina; senza scomporsi, pacatamente e con un’espressione di grande dignità il filosofo replicò: «Vedi: la mia volontà mi è sotto-messa, e non sono io che “servo” lei, ma lei che “mi serve”. Nel tuo caso, invece, sei tu a essere sottomesso alla tua volontà, “le servi”, non è lei che “serve” te. Ecco perché dico che tu sei servo di colei che “mi serve”».Per un attimo il re lo guardò fisso. Poi riprese a parlare: «Dalle tue parole risulta chiaro che del mio potere, della mia fama tu non hai alcun rispetto». Il filosofo, dopo essersi raccolto nella stanza angusta della sua mente, rispose: «Tu stesso sai che fin troppo ti ha dominato l’ambizione legata alle cose terrene e che hai scelto di occuparti di cose di tale importanza che, come tu stesso dici, il tuo valore e la tua fama non perdessero vigore, lungo il tempo, nel silenzio. Ma questo tu l’hai fatto (a voler dire proprio tutta la verità) per la tua bramosia di conquistare la gloria. Rifletti un poco, allora, sulla fragilità e sulla vuotezza assoluta di questa gloria, che non ha alcun peso: il potere della tua gloria pas-sata è ormai del tutto inesistente, e quindi non dev’essere temuto; ma neppure si potrà temere il potere futuro, la cui manifestazione è ancora incerta, sottoposta all’impreve-dibilità; quanto poi al presente, questo potere è in modo palese così poca cosa, che può esser cancellata all’istante, quasi in un batter d’occhio. Per questo non si deve aver paura del potere, in nessuno dei suoi aspetti». Udito questo discorso del filosofo, il re concluse dicendo ai suoi compagni: «Davvero costui è un servo di Dio! Vi ordino di non fargli nulla di spiacevole o disonorevole».PL

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Enigma Espressione linguistica caratterizzata da elevato grado di ambiguità semantica e da una formulazione contraddittoria. In un primo tempo simboleggia una sfida del dio all’uomo; in seguito, svincolandosi dallo sfondo religioso origi-nario, diviene una lotta fra uomini per la sapienza. Dialettica Qui è intesa nel senso più ampio di «discussione». Secondo Colli, è un’evoluzione dell’enigma, di cui conserva la componente agonistica senza per-petuarne la valenza religiosa. Retorica È una volgarizzazione della dialettica, legata alla scrittura e all’im-piego dell’arte della discussione in ambito politico. Rispetto alla dialettica, si aggiunge nella retorica, oltre alla valenza letteraria, l’elemento emozionale della persuasione e di fatto viene meno la discussione.

Il filosofo antico come figura del saggio nei secoli successiviAlessandro Magno, l’uomo più potente del mondo, è vinto in una gara retorico-dialettica dall’uomo più povero, Socrate, qui confuso col filosofo cinico Diogene. Il quale fin dall’antichità era stato il modello del saggio ascetico, pienamente autonomo, nemico del potere e delle ricchezze, amante di ciò che è semplice e naturale, come la luce del sole che è un bene inalienabile. «I Padri della Chiesa ripensarono la figura dell’anacoreta antico poverissimo, ma ricchissimo di sag-gezza, quale prefigurazione del santo eremita cristiano» (C. Bologna). Nel rac-contino, il grande Alessandro, che esce perdente dalla tenzone, è una figura (cioè una prefigurazione, un emblema) della debolezza umana, secondo la prospettiva cristiana che esalta gli umili e deprime i potenti della terra e vede in Dio l’unico dispensatore di ogni dono terreno.

Il duplice enigma posto da Socrate

Il particolare dei pidocchi richiama l’enigma presocratico posto a Omero da al-cuni pescatori, che si stavano spidocchiando sulla spiaggia: «Quanto abbiamo preso lo abbiamo lasciato, quanto non abbiamo preso lo portiamo», alludendo ai pidocchi presi (dei quali si erano liberati) e a quelli non presi (che continuava-no a portarsi addosso)3. Il duplice enigma posto da Socrate («Non crederete di togliermi quello che non mi date!» e «Il vostro signore non è il mio signore: al contrario, è il servo del mio servo»), che Alessandro non sa sciogliere, «mette in scena, invece del modello del filosofo che dà lezione di acutezza logica al potente, il modello del falso sapiente incapace di risolvere un semplice enigma. Lo schema è lo stesso: il vero sapiente sa decifrare ciò che è nascosto e legge la verità smascherando l’inganno; chi si lascia avvolgere dalle spire dell’enigma, invece, per quanto saggio o potente sia (o si creda), resta irretito nell’errore del punto di vista» (C. Bologna).

3. G. Colli, La sapienza greca I, Milano 1977, p. 349, fr. 7.

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Le forme della comunicazione fi losofi caIl testo fi losofi co in versiLa filosofia espressa in poesia

In età greco-arcaica i contenuti che in seguito verranno considerati «filosofi-ci» furono espressi in poesia. Così Senòfane (VI-V sec. a.C.), forse fondatore della scuola «eleatica» (da Elea, città italiota, oggi Velia), scrisse in versi il suo poema Perì physeos («intorno alla natura»). Anche il suo discepolo e prin-cipale esponente della scuola eleatica, Parmenide (VI-V sec. a.C.), espose la sua filosofia in un’opera, sempre intitolata Perì physeos, scritta in versi esa-metrici e in un liguaggio oracolare che ne sottolineava il carattere ispirato. La solennità del metro, proprio dell’epica, riflette la convinzione dell’autore di rivelare la verità. La scelta della poesia in luogo della prosa – che in seguito, per secoli, sarà la forma più consueta della comunicazione filosofica – si spiega principalmente in rapporto alla sublimità della materia: il viaggio dell’autore che, su un cocchio trainato da splendide cavalle, si dirige in compagnia delle figlie del Sole (Eliadi) verso il regno della Verità dell’Essere, che è uno, eter-no, immutabile, al di fuori del quale nulla può esistere (giacché il non-Essere è di per sé assurdo). Ecco i primi versi del Proemio di questo viaggio, nel quale Parmenide apprenderà, dalla parola divina, la verità (alétheia), un viaggio ol-tremondano «prototipo di un genere letterario che avrà la sua epressione più alta nella Commedia dantesca» (Casertano):

Le cavalle che mi trascinavano, tanto lungi, quanto il mio animo lo poteva desideraremi fecero arrivare, dopo che le dee mi portarono sulla via molto celebratache per ogni regione guida l’uomo che sa. Là fui condotto: là infatti mi portarono i molti saggi cavalliche trascinano il carro, e le fanciulle mostrarono il cammino.

[Tr. di P. Albertelli]

«Parmenide, figlio di Pirete, fisico di Elea»: l’iscrizione, ritrovata nella stessa Elea, colonia greca in Lucania, riporta l’appellativo con cui si designavano i filosofi, «indagatori della natura», physis, e quindi fisici.

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Una simile ispirazione, sublime e misticheggiante, è in Empedocle (V sec. a.C.) di Agrigento, pensatore naturalistico autore di un Perì physeos in esame-tri, del quale il poeta latino Lucrezio ammirava l’entusiamo, fonte di immagini grandiose e parole alate, l’eloquio omerico, l’empito profetico di chi sa di rive-lare agli uomini erranti la verità. In quanto si assumeva il compito di diffondere ai contemporanei il verbo salvifico di Epicuro, anche Lucrezio scrisse il suo De rerum natura (traduzione latina di Perì physeos) in esametri. La scrittura poetica infatti, meglio della prosa, si prestava a veicolare un messaggio di ve-rità, per sua natura solenne e grandioso. Inoltre la comunicazione poetica era certamente più ricca di attrattive estetiche e, nell’ambito di culture che come quella greca arcaica erano basate sull’oralità, agevolava la memorizzazione dei contenuti.

Il modello esiodeo

Il paradigma di questi trattati filosofici in poesia esametrica è rappresenta-to dall’epica didascalica e cosmologico-mitologica di Esiodo (VIII-VII sec. a.C.). Nel poema in esametri Le opere e i giorni, dopo l’invocazione alle Muse costruita secondo il modello omerico, il poeta si rivolge al fratello Perse esor-tandolo alla giustizia e ammonendolo intorno alla dura necessità del lavoro, cui Perse vorrebbe sottrarsi. Il monito è rafforzato dalla narrazione di tre miti: quello di Prometeo, che ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini; quello di Pandora, di cui Zeus si serve per diffondere la fatica, le malattie, la morte tra gli uomini che prima ne erano esenti; quello delle cinque età (dell’oro, dell’ar-gento, del bronzo, degli eroi e del ferro) indicanti la progressiva decadenza del genere umano. Segue la parte più propriamente didascalica e tecnica, contenente consigli sui lavori dei campi, precetti sulla navigazione, prescrizioni di carattere rituale, indicazione di giorni fausti e infausti. La novità rispetto all’epica eroica di Omero è nell’attenzione ai contenuti morali. Nel primo dei passi seguenti il poeta ammonisce il fratello Perse sul valore della giustizia, nel secondo capo-volge l’etica omerica dell’eroe in una visione «borghese» fondata sull’eccel-lenza della capacità di procurarsi il benessere e la buona reputazione attraverso il lavoro:

Questa è la norma che ha imposto agli uomini il figlio di Kronos: ai pe-sci, alle fiere selvagge, agli alati uccelli di azzannarsi l’un l’altro, perché tra loro non c’è giustizia; ma agli uomini fece dono della giustizia, che è cosa molto migliore.

(Opere, 276 ss.)

Il lavoro non è vergognoso, l’ozio è vergognoso: se tu lavori, sarai presto invidiato dall’ozioso, quando sarai divenuto ricco: prestigio e fama se-guono la ricchezza.

(Opere, 311 ss.)

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Altra novità rispetto a Omero è, in conformità col titolo del poema, la frequenza di passi di precettistica tecnica, come il seguente, dove è descritta l’attrezzatura dell’agricoltore:

Taglia un mortaio di tre piedi, un pestello di tre cubiti e un’asse di sette piedi: questa è la giusta misura. Se lo fai di otto piedi, otterrai un maz-zuolo.

(Opere, 423 ss.)

Il trattato in versi, in quanto privilegia i contenuti morali e tecnici, tende a sostituire alla terza persona, tipica della narrazione, la prima e la seconda persona proprie dell’esortazione morale. La polarità io/tu omologa al rapporto autore/destinatario (come nella coppia Esiodo/Perse) introduce un elemento di soggettività che oppone decisamente l’epica didascalica a quella eroica e omerica, rigorosamente oggettiva e impersonale. Anche nelle parti propriamente tecniche non c’è narrazione, ma espo-sizione. A questa epica morale ed espositiva si riallaccia il poema didascalico e fi-losofico d’età alessandrina, ma anche il De rerum natura del poeta latino Lucrezio.

Il modello empedocleo in Lucrezio

Al modello del poema scientifico-didascalico esiodeo si riallacciano i poemi in esametri Sulla natura, le Purificazioni, i Fenomeni del poeta, filosofo e scienzia-to Empedocle di Agrigento (V sec. a.C.). Come già s’è accennato sopra, l’ope-ra filosofica in versi di Empedocle influenzò la poesia del De rerum natura di Lucrezio per lo stile sublime e l’espressione fantastica, ma anche per la teoria filosofica dei quattro elementi (aria, acqua, terra, fuoco) che perennemente si aggregano e disgregano nelle infinite forme di realtà sotto l’azione di Amore e Odio. A Empedocle Lucrezio dedica questo elogio commosso:

Questa terra [la Magna Grecia] nulla ebbe/ in sé che fosse più venerando mai,/ né più prezioso di questo savio,/ i cui canti, anzi i canti di un sovru-mano intelletto,/ svelano e spiegano tali meravigliose scoperte/ che a stento sembra egli sia nato d’umana progenie.

(I 722 ss.)

Il modello esiodeo in età ellenistica e imperiale

In età ellenistica furono scritti I fenomeni di Arato di Soli (III sec. a.C.), poema di-dascalico in esametri di contenuto astronomico. L’opera, che fa un parco uso della mitologia astrale per ravvivare la materia scientifica, ebbe notevole successo a Roma, dove fu tradotta da Cicerone che ne curò una versione poetica (gli Aratea) e fu presa come modello da Lucrezio e Virgilio. In età imperiale l’attualità dell’opera di Arato permane, anche per il crescente interesse della cultura romana riguardo all’astrologia, un interesse dovuto in parte all’influsso delle civiltà orientali, in parte all’impiego politico e propagandistico che gli imperatori fanno delle teorie astrali. Sul modello del poema di Arato, in età giulio-claudia Manilio compone gli Astronomica, un po-

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ema didascalico d’ispirazione stoica. Nello stesso periodo Germanico, figlio adot-tivo dell’imperatore Tiberio e designato come suo successore, scrive un poemetto in esametri, gli Aratea, cioè una traduzione dei Fenomeni di Arato. L’opera del poeta-scienziato di Soli sarà di nuovo tradotta in età tardo-antica da Avieno (IV sec. d.C.). Oltre ad Arato, degno di menzione per l’influsso sulla poesia didascalica latina è anche Nicandro di Colofone (II sec. a.C.), di cui restano due poemetti, I rimedi e Gli antidoti, trattati per la terapia dei morsi di animali velenosi. Nicandro scrisse anche altri due poemi perduti: le Georgiche, che secondo Quintiliano (Inst. orat. X 1, 56) furono una delle fonti principali delle Georgiche virgiliane, e le Metamorfosi, la cui materia era affine a quella dell’omonimo poema di Ovidio, come si ricava dai riassunti dei miti trattati, contenuti nell’opera di Partenio di Nicea.

Il testo fi losofi co in prosaLa prosa dei «fisici» della Ionia

Fin dai tempi più antichi il testo in prosa venne usato come mezzo per la comu-nicazione filosofica. Agli esordi della filosofia greca Talète (VII-VI sec. a.C.), Anassimandro, Anassìmene (VI sec.) – sono questi i «fisici» o «naturalisti» della «scuola» di Mileto, impegnati nella ricerca dell’arché, primordiale origine delle cose – scrissero opere perdute in prosa. Dal poema Sulla natura (Perì physeos) di Anassimandro riportiamo questo fram-mento, in cui viene enunciata la teoria in base alla quale gli uomini – generati dall’àpeiron, principio indifferenziato di tutte le cose al quale sono destinati a ritornare ciclicamente – scontano con la morte l’ingiustizia che, vivendo, arreca-no ad altri uomini:

Anassimandro … ha detto … che principio degli esseri è l’infinito (àpei-ron) … da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la di-struzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo.

[Tr. di R. Laurenti]

Ed ecco un frammento di Anassìmene, che identifica l’arché nell’aria, dalla qua-le tutte le cose si producono per condensazione e rarefazione:

… come l’anima nostra – egli dice – che è aria, ci tiene insieme, così il soffio e l’aria abbracciano tutto il mondo.

[Tr. di R. Laurenti]

L’aforisma

Anche Eraclito di Efeso (VI-V sec. a.C.) scrisse un Perì physeos in prosa di cui restano frammenti. Lo stile, volutamente ambiguo come nei responsi oracolari, gli valse il soprannome di skoteinòs («oscuro», «ermetico»). La

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materia era presentata in forma non sistematica, ma frammentaria, mediante una successione di gnomai o aforismi, cioè sentenze dense, pregnanti, allusi-ve. L’adozione dell’aforisma era certamente funzionale alla memorizzazione dei contenuti da parte degli uditori – nell’ambito di una cultura orale che tramanda la sapienza con proverbi, formule, sentenze – ma si legava anche a un modello sapienziale legato ai responsi degli oracoli. In questo aforisma l’autore stesso attribuisce al proprio stile l’oscurità della Sibilla, la mitica profetessa di Apollo:

La Sibilla con folle bocca dicendo cose prive di riso e di ornamento e di unguento penetra mille anni con la sua voce attraverso il dio.

(22 B92 D.K.)

In queste gnomai è esposta la teoria del divenire, risultato della trasformazio-ne e compenetrazione dei contrari (ogni cosa si converte nel suo opposto e gli opposti rappresentano un’unità a due facce, armoniosamente contraddittoria). Celeberrimi sono il secondo e il terzo aforisma, che contengono l’analogia tra il perenne fluire di tutte le cose (pànta rèi) e l’acqua di un fiume:

La stessa cosa sono il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il gio-vane e il vecchio: questi infatti mutando sono quelli e quelli di nuovo mutando sono questi.

(fr. 22 D.K.)

Nello stesso fiume non è possibile scendere due volte.

(B91)

Acque sempre diverse scorrono per coloro che s’immergono negli stessi fiumi.

(B12)

«Arcaico eppure inquietantemente aª16ttuale, lo stile di Eraclito costituisce un unicum in tutta la prosa greca: maestro dell’enigma e del paradosso, dell’ironia più tagliente e della più ieratica gravità, il solitario sapiente di Efeso influen-zò non pochi pensatori moderni, fra cui soprattutto Nietzsche, che ne riprese il linguaggio aforistico ed allusivo» (Nuzzo-Casertano). Inoltre fecero un uso filosofico dell’aforisma Marco Aurelio, Pascal e anche Seneca ebbe la tenden-za ad esporre il proprio pensiero in una forma aforistica, nervosamente franta, giudicata spregiativamente come un’harena sine calce, cioè un insieme di parti giustapposte senza vera coesione. In prosa scrissero anche i filosofi e scienziati del V secolo, come Anassagora e Democrito. Del primo (che visse ad Atene a partire dal 500 a.C.) resta una ventina di frammenti di un’opera a cui la tradizione assegnò il consueto titolo di Perì physeos. Del secondo, nato ad Abdera nella Ionia intorno al 460 a.C. e fondatore dell’ato-

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mismo, restano frammenti di una produzione immensa che spaziava dalla fisica alla musica, dalla matematica all’etica. Di natura etica sono gli aforismi: alcu-ni, come il primo che riportiamo, riecheggianti i motivi tipici del «pessimismo ionico», altri rivolti a definire come sia conseguibile la serenità dell’animo (un tema cui Democrito dedicò un’intera opera in seguito ripresa da Seneca nel De tranquillitate animi):

Non mi sembra conveniente mettere al mondo figli; nell’averne vedo infatti molti e grandi pericoli e molti dolori, mentre i benefici sono pochi e per di più deboli e leggeri.

(fr. 34)

Disperdi per mezzo della ragione l’incoercibile sofferenza dell’anima, che si irrigidisce nel dolore.

(fr. 25)

La paura genera servilismo, non benevolenza.

(fr. 82)

Assennato è colui che non si rammarica per ciò che non ha, ma gode di ciò che possiede.

(fr. 44)

TTTTTESTI A CONFRONTOESTI A CONFRONTOESTI A CONFRONTOESTI A CONFRONTOESTI A CONFRONTO Analisi di un frammento di Anassimandro

Riprendiamo il testo del frammento di Anassimandro già citato:

…da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo ne-cessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo.

(fr.12 A9 D.K.)

Il frammento risale al VI secolo a.C. La lingua è il greco ionico. Forse appartiene ad un trattato Sulla natura oggi perduto, citato da Simplicio nel Commentario alla fisica di Aristotele. L’ambito problematico di riferimento è il problema dell’arché, cioè del principio di tutte le cose. L’intento dell’autore è di esporre le sue riflessioni sulla ricerca dell’arché e la propria visione del cosmo.La scrittura in prosa rinvia al genere trattatistico. Lo stile è enigmatico e allusivo, ma probabilmente risulta ancora più oscuro per il fatto che si tratta di un esiguo frammento.

Struttura del testoIl frammento si divide in due parti:

• enunciazione della tesi: «da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità …»;

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• argomento o prova: «… poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’in-giustizia secondo l’ordine del tempo»;

Dunque:

• nascita e distruzione hanno la stessa fonte; • la morte è la riparazione di un’ingiustizia.Due sono i nuclei tematici: tema dell’origine; tema dell’espiazione dell’ingiustizia.

Parole ed espressioni chiaveEsseri (ta ònta): tutto ciò che esiste, partecipa dell’essere, gli enti.

Origine (génesis): indica l’origine degli enti, il loro venire all’essere, il passaggio dal non-essere all’essere.

Distruzione (phthorà): indica il perire di ciò che è nato, il ritorno all’origine, ed è più ener-gico di thànatos, perché riguarda il venir meno di tutti gli esseri e non solo di quelli viventi.

Secondo necessità (katà tò chreòn): espressione che sarà del lessico filosofico da Anassimandro in poi; indica una legge che preesiste agli enti, immodificabile, ineluttabile.

Ingiustizia (adikìa): esiste a due livelli: quella, orizzontale, che gli enti commettono gli uni verso gli altri (tòis allélois), sopraffacendosi a vicenda, ciascuno assolutizzandosi con conseguente eliminazione dell’altro; quella, verticale, che ogni ente commette nei con-fronti dell’origine, nel momento in cui sorge dal caos indifferenziato (àpeiron) afferman-do un kòsmos.

Pena (tìsis): si distinguono due pene in relazione ai due tipi di ingiustizia: l’ammenda al primo tipo consiste nell’alternarsi di dominii di segno opposto (all’egemonia di un ente deve succedere, per compensazione, l’egemonia di un ente contrario); l’ammenda al secondo tipo di infrazione consiste nel ritorno al luogo di origine.

Ordine del tempo (tàxis tou chrònou). Il tempo, regolando con azione immanente l’avvi-cendarsi dei contrari, conserva l’equilibrio e la giustizia del mondo, impedendo l’ingiu-stizia. Infatti, come dice Talete, il tempo è di tutte le cose la più saggia, «perché tutto svela».

Definizione delle parole chiave su un dizionario filosoficoEsseri, v. ente L’essere nel senso più generale del termine, con la minor determinazione possibile, senza qualificazioni (J.J. Rolbiecki).

Genesi Venire all’essere, in particolare il venire all’essere di una sostanza con l’assunzio-ne di una forma da parte della materia (Aristotele). La narrazione biblica della creazione (Libro della Genesi) (G.R. Morrow).

Necessità Si dice che uno stato di cose è necessario quando non può essere diverso da quello che è. Poiché i fondamenti di un’asserzione di questa specie possono essere in generale di tre specie ben distinte, si usa ed è utile distinguere tre tipi di necessità: 1. necessità logica o matematica, 2. necessità fisica, 3. necessità morale (F.L. Will).

Tempo Il mezzo nel quale hanno luogo, o sembrano avere luogo, in successione, tutti gli avvenimenti. Tutti i periodi specifici e finiti di tempo, passati, presenti o futuri, costitui-scono semplicemente una parte dell’intero e unico tempo (R.B. Winn).

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Analisi di un aforisma di EraclitoConsideriamo il frammento D.K. B51 di Eraclito:

Bisogna però sapere che la guerra è comune (a tutte le cose), che la giustizia è contesa, e che tutto accade secondo contesa e necessità.

Forse appartiene a un trattato Sulla natura, di cui resta un centinaio di frammenti e che si colloca tra il VI e il V secolo a.C. La lingua è il greco ionico. L’ambito problema-tico di riferimento è quello della riflessione sui princìpi del cosmo e sulle leggi della natura.Lo stile è oscuro, enigmatico e allusivo, quasi di tono oracolare. La densità semantica qualifica il frammento come aforisma (detto conciso, che compendia in modo pregnante una massima, una verità, un concetto).

L’obiettivo dell’autoreÈ quello di esprimere la propria concezione della realtà, intesa come opposizione di con-trari ad un tempo convergenti e divergenti, in «un’armonia contrastante come quella dell’arco e della lira», nei quali l’effetto (lo scoccare della freccia e l’emissione del suono) risulta dall’opposizione dei bracci e delle corde.

Struttura del testoLa paratassi scandisce l’aforisma in tre segmenti concettuali. Bisogna sapere:

• che la guerra è comune (a tutte le cose); • che la giustizia è contesa; • che tutto accade secondo contesa e necessità.

Cioè, occorre conoscere:

• la natura conflittuale delle cose;• la natura della giustizia;• la legge del cosmo.

I nuclei tematici sono due: la guerra come necessaria legge del cosmo; il conflitto come armonia e giustizia.

Parole chiaveGuerra/contesa È principio universale e necessario che agisce in tutte le cose e in tutti gli eventi. Infatti, secondo Eraclito, la realtà è costituita da elementi contrari perennemente in lotta tra di loro. Cfr. anche il frammento seguente: «Pòlemos è padre di tutte le cose, di tutte è re …».

Giustizia Si identifica con la contesa, in quanto l’opposizione dei contrari esprime la pro-fonda armonia del cosmo.

Necessità Espressione del lessico filosofico, già impiegata da Anassimandro; indica una legge che preesiste agli enti, immodificabile, ineluttabile.

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Definizione delle parole chiave su un dizionario filosoficoGiustizia Termine che nella storia del pensiero ha indicato di volta in volta la conformità ad una norma (naturale, divina, positiva) o l’ideale cui la norma deve riferirsi per essere valida, l’ispirazione all’eguaglianza o l’ordine da stabilire o ristabilire. Nel pensiero gre-co, la giustizia è un attributo che non concerne solo l’uomo o la convivenza umana, ma l’universo in generale; la giustizia è l’ottemperanza a un ordine universale, in ragione del quale tutte le cose occupano un posto e hanno un compito determinato. La giustizia nella polis e nell’uomo è solo una parte della giustizia universale. Il contrario della giustizia è l’hybris, la prevaricazione (Enciclopedia Garzanti di Filosofia).

Necessità Cfr. definizione data per il frammento di Anassimandro.

Confronto tra il frammento di Anassimandro e l’aforisma di Eraclito Confrontiamo i due frammenti di Anassimandro e di Eraclito.Il carattere tipografico (colore, neretto, sottolineato, tondo o corsivo) evidenzia i punti di contatto:

Da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo ne-cessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione del secondo l’ordine del tempo.

[Anassimandro]

Bisogna però sapere che la guerra è comune (a tutte le cose), che è contesa, e che tutto accade secondo contesa e necessità.

[Eraclito]

Esseri / tutte le cose In entrambi casi si tratta di una riflessione che interessa la totalità degli enti. Secondo necessità … secondo l’ordine del tempo / Secondo necessità. Entrambi gli autori fanno riferimento al concetto di necessità, come legge ineluttabile che governa il divenire degli enti e preesiste ad essi. Si tratta di una specie di tyche, cui sottostanno uomini e dei. Cfr. anche il seguente frammento di Eraclito: «Quest’ordine universale, che è lo stesso per tutti, non lo fece alcuno tra gli dei o tra gli uomini, ma sempre era, è e sarà fuoco sempre vivente …». Solo Anassimandro accenna al tempo, il quale però, in quanto regola l’avvicendarsi dei contrari, garantendo con la sua presenza immanente un’armonia necessaria, viene di fatto a coincidere con la nozione di necessità. D’altra parte sia, forse, in filosofia, sia nel senso comune spesso si confondono le nozioni di successione e causalità: si veda ad esempio la frequente coincidenza, nelle varie lingue, di congiunzioni temporali esprimenti la successione e di congiunzioni causali (poiché, dacché, visto che, puisque, ecc.).

Ingiustizia/giustizia Si tratta della principale divergenza fra i due autori. Entrambi infatti affermano che il conflitto fra i contrari è la legge che presiede alla vita di tutte le cose, ma per Anassimandro tale opposizione genera ingiustizia, per Eraclito al contrario essa è segno della profonda armonia del cosmo.

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Pagano l’uno all’altro / la guerra è comune. Le due espressioni adombrano il concetto fondamentale della natura conflittuale della realtà. Ciò risulta con maggiore chiarezza da Eraclito, dove il concetto è rinforzato dalle nozioni di guerra e contesa, che sono i luoghi delle opposizioni per eccellenza.

Il dialogo platonicoDialogo, dialettica, filosofia

Il dialogo è un vero e proprio genere che dalla letteratura greca, dove trova in Platone il suo «inventore», passa agli autori latini, soprattutto a Cicerone, a quel-li cristiani e alle letterature moderne. È l’esposizione del pensiero in forma di dibattito, di discussione strutturata su domande e risposte che si snoda tra più interlocutori rivolti alla ricerca della verità, alla verifica di una tesi fondamen-tale. Fino ad Aristotele è il modo privilegiato e tipico del discorso filosofico. Assunto da Socrate come modello di critica dell’opinione, il dialogo diviene in Platone la via dialettica che porta all’intuizione della verità. Anzi, il dialogo è un tutt’uno con l’atteggiamento del vero filosofo e s’identifica con la dialettica (da dialéghesthai, che significa appunto «discutere», «ragionare assieme»). Questa è il procedimento in base al quale si assume un dato principio e si cerca di verifi-

carlo o confutarlo attraverso l’esame delle conse-guenze logiche che discendono dall’ammissione o negazione. La dialettica è dunque per Platone sinonimo di metodo filosofico e coincide con la filosofia stessa perché serve a distinguere il ve-ro sapere da quello apparente, contrapponendosi all’eristica dei sofisti, che è un modo capzioso e «retorico» di fare prevalere la propria tesi a pre-scindere dalla sua verità. Ecco allora che dialogo, dialettica e filosofia sono praticamente la mede-sima realtà. Quando poi il dialogo è interiore, è confronto con sé stessi, allora diviene la condi-zione necessaria della propria coerenza logica, della propria non contraddizione, e corrisponde a un’esigenza imprescindibile del filosofare.

Lo stile dei dialoghi platonici

Secondo Diogene Laerzio, Platone avrebbe in gio-ventù iniziato una promettente carriera di tragedio-grafo, interrotta in seguito al folgorante incontro con Socrate. Ma al di là dell’aneddotica, è indubbio che i Dialoghi platonici da un lato rivelano una co-noscenza delle tecniche compositive del dramma,

L’inizio del dialogo platonico della Repubblica, in un codice del X secolo. Parigi, Bibliothèque Nationale.

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dall’altro necessariamente riflettono lo spirito del contemporaneo dramma ateniese, condividendone l’intenzione pedagogica di fondo: «la forma dialogica mutuata dal teatro era considerata tramite per eccellenza per trasmettere un messaggio pedagogi-co e in genere culturale» (G. Arrighetti). Sul piano letterario sono da sottolineare nei dialoghi la particolare cura dello sfondo (paesaggistico, urbano, ecc.) in cui si svolge il dibattito, la complessità dei piani temporali e delle tecniche narrative. Talora il discorso è riferito da un personaggio, che l’ha udito da un altro non presente al dia-logo. Si dà anche il caso di una mediazione di secondo grado (qualcuno riporta un discorso che qualcun altro ha udito da un terzo personaggio). Inoltre – diversamente da quanto avverrà nel dialogo filosofico dei secoli successivi, dove gli interlocutori non hanno vera consistenza di personaggio, ma s’identificano con la tesi che difen-dono o l’idea di cui sono portatori – i partecipanti al dibattito platonico sono tutti ben caratterizzati psicologicamente e socialmente, disegnati a tutto tondo con rara peri-zia descrittiva. Ma l’abilità del narratore e del pittore di ambienti e caratteri si eleva a pura poesia nelle sezioni «mitiche». Si tratta di narrazioni fantastiche e metafore grandiose, funzionali alla dimostrazione di una tesi ma artisticamente autonome. È il caso ad esempio della raffigurazione, nel Fedro (246b), dell’anima degli uomini paragonata a un carro, dove un auriga guida due cavalli di temperamento opposto: uno virtuoso e docile, uno focoso, violento, irrefrenabile. Ecco la drammatizzazione di questa metafora nel contesto del comportamento amoroso:

Quando l’auriga vede la visione d’amore e questa sensazione riscalda tutta la sua anima, ed è tutto pieno di stimoli e di desideri, il cavallo obbediente, contenendosi sempre nei limiti del pudore, si frena nella vo-glia di saltare addosso all’amato, ma l’altro non dà più retta allo sprone e alla frusta, scalpita selvaggiamente e, mettendo in grande difficoltà il compagno e l’auriga, li costringe a dirigersi verso il ragazzo amato e a corteggiarlo, richiedendo l’amore. I due all’inizio resistono con sdegno, sentendosi forzati a fare un’azione indegna e contro la legge; ma alla fi-ne, quando la violenza supera ogni limite, cedono, si lasciano guidare ed accettano di eseguire gli ordini. E così si accostano all’amato e ne hanno la splendente visione.

[Tr. di G. Paduano]

Ed ecco la celebre allegoria della caverna, con cui si apre il VII libro della Repubblica, sintesi di tutta la filosofia platonica. Prigionieri incatenati a una po-sizione fissa, che impedisce di contemplare il sole che splende alle loro spal-le, vedono ombre confuse proiettate sulle pareti della caverna in cui si trovano. L’allegoria illustra l’opposizione tra il mondo illusorio della sensazione e quello delle idee eterne e universali: i prigionieri sono gli uomini schiavi della sensa-zione, le ombre provengono dal mondo delle idee eterne e universali, il sole è il bene supremo.

«Adesso – dissi io – confronta la nostra natura, la sua educazione o mancanza di educazione con l’esperienza che segue: immagina che alcuni uomini abitino in una caverna sotterranea, con una lunga aper-

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tura verso la luce per tutta la sua larghezza, e che ci vivano fin da bambini, incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e poter guardare soltanto in avanti, perché le catene impediscono loro di girare la testa. Dietro di loro splende la luce di un fuoco alto e lon-tano, e tra i prigionieri e il fuoco c’è una strada in salita; lungo questa, un piccolo muro, come lo steccato che i burattinai collocano davanti agli spettatori e al disopra del quale mostrano le marionette».

Platone e la scrittura: il dialogo come mediazione tra oralità e scritturaIl demone letterario di Platone

Gli studiosi si sono soffermati sul problema del rapporto tra oralità e scrittura a proposito di Platone, la cui opera si situa nella fase di passaggio fra i due momen-ti della civiltà greca, e rappresenta bene questa svolta. Platone, che secondo Colli è «dominato dal demone letterario», si esprime tuttavia in termini assai critici riguardo alla scrittura, in almeno tre passi della sua opera.

I passi platonici contro la scrittura

Nel Fedro è narrato il mito di Tèuth, nel quale il faraone rappresenta la voce critica nei confronti del nuovo medium della scrittura, considerata portatrice di un sapere estrinseco, immobile perché non scaturito dialetticamente dall’interiorità dell’indi-viduo. Il secondo passo è nella VII lettera, dove Platone dichiara che «non c’è né vi sarà alcun mio scritto. Perché non è, questa mia, una scienza come le altre: essa non si può nello stesso modo comunicare, ma come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento …» (341c-d). Sempre nella VII lettera, Platone sostiene che «nes-sun uomo di senno oserà affidare i suoi pensieri filosofici … a discorsi immobili com’è il caso di quelli scritti con lettere». E ancora: «Perciò appunto ogni persona seria si guarda bene dallo scrivere di cose serie, per non esporle alla malevolenza e alla incomprensione degli uomini … Quando si vedono opere scritte da qualcu-no, siano le leggi di un legislatore o scritti di altro genere, si deve concludere che queste cose scritte non erano per l’autore la cosa più seria …». Resta il fatto che Platone s’è impegnato in una vasta produzione scritta e si stenta a credere che que-sta produzione riguardasse aspetti considerati da lui irrilevanti o marginali. Si può osservare che Platone scrive, ma scrive dialoghi, e la forma dialogica me-dia tra discorso orale e scritto, in quanto riproduce sia pure approssimativamente le movenze e i ritmi del parlato.

Una svolta epocale

Si può anche ipotizzare che la posizione ambigua rifletta le contraddizioni di un intellettuale che vive una svolta cruciale nella storia della civiltà, una svolta che

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è stata paragonata per importanza all’invenzione della stampa e, in epoca moder-na, alla diffusione del computer, che forse segna il ritorno a una forma di nuova oralità dopo la fase gutenberghiana. Infatti la logica del computer (ipertesto, rete) è una logica associativa, reticolare, basata sulle connessioni liberamente istituite dall’utente, secondo una disponibilità all’imprevisto e alla scoperta che un libro non può offrire, in quanto struttura più chiusa, percorribile solo sequenzialmente, per dirla con Platone, espressione di un sapere immobile, rigido, che dice sempre le stesse cose e non può rispondere a domande e obiezioni. Da questo punto di vi-sta, il disagio di Platone era opposto al disagio dell’intellettuale di oggi di fronte al dilagare dell’informatica. Ma come l’intellettuale di oggi avverte l’inevitabili-tà di questo passaggio – che secondo alcuni porterebbe addirittura alla morte del libro – e lo accetta sia pure con esitazioni, così Platone probabilmente si rende conto della necessità di piegarsi al nuovo medium della scrittura.

TTTTTESTI A CONFRONTOESTI A CONFRONTOESTI A CONFRONTOESTI A CONFRONTOESTI A CONFRONTO Lettura di un dialogo platonico: l’Apologia di Socrate

Per esemplificare la struttura, i contenuti filosofici, le procedure argomentative e lo stile di un intero dialogo platonico, abbiamo scelto in primo luogo l’Apologia di Socrate, perché ci consente tra l’altro di mettere a fuoco la personalità forse più importante e discussa della filosofia occidentale, e comunque la più emblematica e rilevante in rapporto al taglio di questa antologia, che del discorso filosofico privilegia la dimensione etica e «pratica».

Epoca e argomento dell’operaNon abbiamo notizie precise del tempo in cui fu composta l’Apologia. Fu probabilmente scritta subito dopo il 396 a.C., quando Platone rientrò in Atene al termine di una serie di viaggi compiuti dopo la morte del Maestro. L’opera, che si connota per l’efficacia argomen-tativa e gli spunti d’intenso lirismo, è la libera ricreazione in forma monologica del discorso di difesa tenuto da Socrate davanti ai giudici, nel processo più famoso dell’antichità.

Intenti dell’autorePochi anni dopo la morte di Socrate, Platone sente che egli è il solo che può riscattare la fama del Maestro ingiustamente condannato e rendere con fedeltà ai posteri la sua immagine vera, il suo autentico messaggio etico, al di sopra della dimensione meramente cronachistica. All’intento celebrativo del Maestro si somma un altro obiettivo: quello di affermare l’importanza della conoscenza per lo sviluppo della vita dell’uomo, in polemica con politici, artisti, tecnici, «che non sanno nulla e si danno l’aria di saper tutto». In altri termini, si tratta per Platone di affermare l’importanza della scienza agli effetti di un comportamento virtuoso.

Struttura e riassuntoConfutazione della prima accusaSocrate distingue tra accusatori recenti e accusatori antichi. L’accusa antica è che Socrate investiga le cose che sono sotto terra o in cielo e fa apparire migliore la ragione peggiore.

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La calunnia – Socrate infatti afferma di non sapere nulla della scienza della natura – nasce così: l’Oracolo di Delfi aveva proferito che nessuno era più sapiente di Socrate (ma solo nel senso che Socrate sapeva di non sapere e la massima sapienza per l’uomo consiste, appunto, nel sapere che non sa). Per questo Socrate s’impegna a convincere i concittadini della loro ignoranza, attirandosi l’odio di tutti.

Confutazione della seconda accusaL’accusa più recente è che Socrate corrompe i giovani, non riconosce gli dei della patria, introduce nuovi dei. Confutate queste accuse, Socrate ribadisce che continuerà la sua missione educatrice, anche a costo della morte.

Proposta della pena dopo il riconoscimento di colpevolezzaRiconosciuto colpevole, invece di proporre per sé una pena ragionevole – come era richie-sto al condannato nei processi in Grecia – chiede di essere mantenuto a spese pubbliche come benefattore della città.

Discorso dopo la condanna a morteCondannato a morte, prevede che molti seguiranno il suo esempio. Per liberarsi di chi predica di vivere rettamente non bisogna ucciderlo, ma vivere rettamente. Sente che il demone lo accompagna anche in questo momento, segno che la morte è un bene.

Parole e concetti chiave dell’ApologiaEducare Portare i concittadini alla consapevolezza della loro ignoranza, attraverso una conoscenza di loro stessi.

Verità Qui il termine è usato senza precisa connotazione filosofica, ma nel senso giuridico dell’affermazione verace (la propria, in contrapposizione a quella degli accusatori).

Sapienza (umana) Il sapere di non sapere.

Dio L’unico vero detentore della sapienza.

Ricerca Ciò in cui consiste l’attività del sapiente.

Esame L’attività maieutica volta a condurre i concittadini alla saggezza. La metafora del tafano esprime l’impegno, quasi l’accanimento, con cui Socrate svolge tale attività.

Corrompere i giovani È l’interpretazione che gli accusatori danno dell’attività di Socrate ed è uno dei capi d’imputazione, collegato all’accusa di empietà (graphé asebèias).

Demone È la voce che fin da bambino sempre dissuade Socrate dal fare qualche cosa per lui dannosa.

Morte È o un nulla o una migrazione dell’anima in un altro luogo. Poiché non se ne cono-sce la natura, essa non è da temere (temerla sarebbe credere di sapere ciò che non si sa).

La riflessione sulla mortePer Socrate la morte non è da temere. Infatti, temere la morte, di cui nessuno sa se sia un bene o un male, è come credere di sapere quello che non si sa. Sia che la morte comporti l’assenza d’ogni sensazione, sia che consista in una migrazione dell’anima verso un altro luogo, essa non è un male. Nel primo caso è come un sonno senza sogni, e quindi assai desiderabile. Se poi la morte è un trasferirsi nella sede in cui, come si narra, si trovano tutti i morti, qual bene maggiore del poter intrattenersi con Orfeo, Museo, Omero e gli

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eroi del passato, continuando anche in quella sede a ricercare chi è davvero sapiente e chi solo crede d’esserlo e non è?Le argomentazioni di Socrate sono ripetute quasi identiche da Epicuro, nella Lettera a Meneceo:

La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non ci sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive. Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, così non teme di non vivere più.

Lettura guidata di un passo di un dialogo platonico: il Fedro (capp. I-V)

Il Fedro svolge il tema dell’amore, inteso come via attraverso la quale l’anima può elevarsi a contemplare l’idea della bellezza. Grande cura è posta nell’ambientazione paesaggistica: il dialogo si svolge, nel culmine della canicola, in un «luogo ameno» sulle rive del fiume Ilisso al fresco riparo degli alberi, mentre dai campi assolati giunge il gradevole frinire delle cicale.

Dove sei diretto, mio caro Fedro e donde vieni?Dalla casa di Lisia1, figlio di Cefalo2, o Socrate, e mi reco a passeggio fuor delle mura, poiché a lungo mi sono indugiato laggiù seduto fin dalle prime ore del mattino. E, come vedi, attenen-domi ai precetti di Acumeno3, nostro comune amico, lungo le strade maestre compio le mie passeggiate; così esse riescono, come egli sostiene, più tonificanti di quelle fatte sotto i portici. Ha ben ragione, amico mio, di parlare così. Ma allora, come mi par chiaro, Lisia si trovava in città?Certamente, presso Epicrate4, in quella casa vicina al tempio di Zeus Olimpio: la casa che fu di Morico. E come avete passato il tempo? Evidentemente, proprio discorsi Lisia vi dava in pasto, non è vero?Lo saprai, se hai tempo di stare ad ascoltare, mentre prosegui il cammino. E perché no? Non mi credi forse capace di porre «al di sopra di ogni impegno», secondo il motto di Pindaro5, la cura di udire il trattenimento svoltosi tra te e Lisia?

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1. Lisia: logografo (cioè oratore giudiziario su commissione) ateniese del V-VI secolo a.C., autore di oltre 200 orazioni di cui 34 sono giunte fino a noi. Per compostezza di stile e sem-plicità di linguaggio è un modello dell’indirizzo stilistico letterario dell’atticismo, cioè che dettava l’imitazione degli scrittori attici e uno stile limpido e logico.

2. Cefalo: ricco meteco proveniente da Siracusa, fabbricante di scudi; nella sua casa Platone ambienta il dialogo La Repubblica. In questo dialogo Platone fornisce di Cefalo un affettuoso ritratto (328b-e).

3. Acumeno: medico, padre del medico Eurissimaco, personaggio del Simposio.4. Epicrate: oratore ateniese di parte democratica.5. Pindaro: poeta lirico corale greco vissuto nel VI-V secolo a.C., di Cinocefale (Beozia). Famosi

i 4 libri (conservati) di epinici, cioè i canti in onore degli atleti vincitori delle gare olimpiche, pitiche, nemee, istmiche. Nella sua poesia sono frequenti i passaggi rapidi e allusivi da un tema all’altro, attraverso nessi non logici ma lirici (voli pindarici), ed è alta la coscienza del ruolo del poeta, che, con i suoi versi, compie un atto di sottrazione all’oblio (a-làtheia), cioè dona immortalità a ciò di cui canta. La citazione «al di sopra di ogni impegno» è tratta dalle Istmiche I 2: «Madre mia, Tebe dallo scudo d’oro, / io porrò al di sopra di ogni impegno / le opere tue».

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E allora prosegui.E tu parla.Invero, Socrate, consono alla tua natura è il tema svolto, poiché la discussione alla quale dedicavamo il nostro tempo si riferiva, non so in che modo, all’amore. Lisia ha effetti-vamente rappresentato per iscritto un bel giovinetto sedotto, ma non dall’amante. Anzi, proprio questo punto è stato ingegnosamente trattato: poiché sostiene che si deve essere condiscendenti verso chi non ama piuttosto che verso chi ama.Che bravo! Così scrivesse anche che bisogna esserlo verso il povero piuttosto che verso il ricco, verso il vecchio piuttosto che verso il giovane, e inoltre con tutte quante le tristezze che affliggono me e la maggior parte di noi. Garbate davvero sarebbero quelle proposte e di pubblica utilità! Io poi sono dominato da un così ardente desiderio di ascoltarti che, se anche tu, sempre procedendo spingessi la tua passeggiata fino a Megara6 e, secondo i precetti di Erodico7, giungessi fino alle mura per poi prendere subito la via del ritorno, puoi star certo che non mi staccherò dai tuoi passi.Che dici mai, o mio ottimo Socrate? Quelle parole che Lisia ha elaborate, dedicandovi lungo tempo e assidue cure, lui che è il più capace fra gli scrittori contemporanei, ti fi-guri forse che io potrò riprodurle a memoria in modo degno di lui, io, un incompetente? Son ben lungi. Eppure lo desidererei più che se mi toccasse un immenso tesoro.O Fedro, se io m’inganno sul conto di Fedro, vuol proprio dire che anche di me stesso non serbo più memoria. Ma né l’una né l’altra ipotesi è veritiera. Senza dubbio, dato che ascoltava un discorso di Lisia, Fedro non si è appagato di udirlo una volta sola; ma più volte, con reiterate richieste lo esortava a ripeterglielo, mentre l’altro era ben lieto di accontentarlo. Tuttavia, neppure questo gli bastava; ma alla fine, afferrato lo scritto, riguardava i passi che più avevano suscitato il suo desiderio, finché per la stanchezza di darsi a quest’esercizio, sempre seduto fin dall’alba, si mosse per passeggiare, non senza aver imparato il discorso a memoria: ne sono convinto, per il cane, purché non fosse veramente assai lungo. Così si avviava fuor delle mura per fare esperienza oratoria. Si imbatté allora nell’uomo afflitto dalla malattia di ascoltare discorsi, e appena vistolo, si rallegrò di aver trovato l’amico con il quale condividere la sua estasi coribantica8. Perciò lo invitò a procedere con lui. Ma, mentre l’appassionato dei discorsi voleva indurlo a parlare, egli si faceva pregare come se non fosse proprio questo il suo grande desiderio.

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6. Megara: città dell’Attica sul golfo di Egina; nell’antichità fu un’attiva colonizzatrice in Sicilia e Asia (VIII-VI sec. a.C.).

7. Erodico: medico e naturalista di Megara. Platone lo cita anche nel Protagora (316e) e nella Repubblica (406a). È un esponente della medicina ippocratica, concezione della medicina risalente a Ippocrate di Cos (V-IV sec. a.C.). Ippocrate per primo nel mondo greco considerò la medicina una scienza, sviluppando un metodo empirico, basato esclusivamente sull’osser-vazione e sul ragionamento. Prima di lui la malattia non era considerata un fenomeno natura-le, ma una sorta di castigo divino per una colpa commessa, ed era quindi strettamente legata ad una dimensione magico-sacrale, come attestano i culti e i santuari dedicati ad Asclepio, dio della medicina, il cui santuario più celebre si trovava ad Epidauro, in Argolide.

8. Estasi coribantica: i Coribanti erano accoliti della dea Cibele e sono spesso identificati con i Cureti, demoni cretesi, che eseguivano danze guerriere e rumorose per coprire i vagiti di Zeus bambino, che non dovevano essere uditi da Crono. Tali figure rinviano comunque ai culti miste-rici di Cibele o Rea, divinità ctonia, e più in generale alla dimensione della religiosità dionisiaca. Nel Fedro ci sono altri riferimenti alla dimensione dionisiaca: in 244a-c per esempio, Platone esalta la follia (manìa) come strumento per giungere alla verità in modo intuitivo e non mediato dalla ragione, ed individua una stretta connessione fra follia e arte della divinazione. In 265b, inoltre, si dice che anche l’ispirazione poetica nasce dalla follia, che è un dono degli dei.

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Eppure, se nessuno l’avesse ascoltato di buon grado, avrebbe recitato il suo discorso a viva forza. Perciò Fedro, domandagli tu di fare subito fin d’ora ciò che in ogni caso finirà col fare ben presto.Per me, veramente, la migliore soluzione è di parlare come posso, poiché ho l’impres-sione che tu non acconsentirai certo a ridarmi la libertà prima che io abbia in qualche modo preso la parola. Veramente non ti inganni davvero sul mio conto. E allora farò proprio così, poiché in realtà, o Socrate, le parole precise del discorso non le ho imparate a memoria nel modo più esatto; tuttavia, quanto al senso generale, ti riferirò per sommi capi, cominciando dall’inizio, ciascuna delle cose che Lisia diceva, per mostrare la differenza che c’è fra la condizione di chi ama e quella di chi non ama. Sì, ma non senza avermi prima mostrato, mio caro, che cosa mai stringi nella mano sinistra, nascosto sotto il mantello. Scommetto proprio che è il discorso originale! Ma se è così, considera sul mio conto che io ti voglio molto bene; ma dal momento che è presente anche Lisia, non acconsento a prestarmi quale oggetto delle tue esercitazioni. Avanti, dunque, fa’ vedere. Smetti! Mi hai deluso nella speranza che nutrivo di esercitarmi su di te. Ma dove vuoi che ci sediamo a leggere? Deviamo di qua, e proseguiamo lungo la corrente dell’Ilisso9; ci siederemo poi in un qualsiasi punto che ci sembri tranquillo.È proprio un caso fortunato che io sia scalzo. Tu, poi, lo sei abitualmente. Sarà dunque assai facile per noi proseguire lungo questo rivo d’acqua, immergendovi i piedi e sarà tutt’altro che sgradevole, particolarmente in questa stagione e a quest’ora. Procedi, dunque e, insieme, considera dove potremmo stare seduti. Vedi ora quel platano altissimo?Ebbene?C’è dell’ombra, laggiù, e una brezza sottile, ed erba per sederci, e anche per sdraiarci secondo il nostro desiderio.Prosegui pure.Dimmi, Socrate, non è esattamente da qualcuno di questi punti dell’Ilisso che, come viene tramandato, Borea10 rapì Orizia11.Così dice la tradizione, infatti.Forse di qui, allora. Come deliziosi e puri e trasparenti scintillano questi rivoli d’acqua, e come sono favorevoli a scherzi di fanciulle presso le loro sponde!No; il luogo è laggiù, circa due o tre stadi più avanti, dove si attraversa il corso d’acqua in direzione del tempio di Agra12: vi sorge anche un altare di Borea.

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9. Ilisso: fiume che scorre a sud di Atene.10. Borea: dio del vento del nord. Abita in Tracia, che è per la Grecia il paese freddo per antono-

masia. Lo si rappresenta come un demone alato, di grande forza fisica e barbuto. È figlio di Eos (l’Aurora) e di Astreo e fratello di Zefiro e Noto, personificazioni di altri due venti. Appartiene alla stirpe dei Titani, esseri che personificano le forze elementari della natura. Fra gli altri atti di violenza gli si attribuisce il rapimento di Orizia, dalla quale ebbe i due figli Calaide e Zete, gemelli alati, entrambi geni dei venti, i cui nomi erano collegati dagli antichi al verbo che signi-fica soffiare: Calaide era «colui che soffia dolcemente», mentre Zete «colui che soffia forte».

11. Orizia: è una delle figlie di Eretteo, mitico re di Atene.12. Agra: demo attico, in cui si trovava un tempio dedicato a Demetra o, secondo altri, ad

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Non vi ho mai badato. Ma, in nome di Zeus, Socrate, dimmi, tu credi proprio che que-sto mito sia veritiero?Quand’anche non vi prestassi fede come i sapienti13, non ci sarebbe nulla di straordi-nario; poi atteggiandomi a uomo di sottile sapienza, potrei affermare che il soffio di Borea la travolse giù dalle rupi lì presso; mentre giocava con Farmacia14, questa sua fine appunto diede origine alla leggenda che sia stata rapita da Borea. Oppure dall’Areo-pago15. Infatti si tramanda anche questa versione, che di là fu compiuto il ratto, e non da questo luogo. Per conto mio, o Fedro, considero in un certo senso seducenti tali interpretazioni; ma competono a un uomo di ingegno troppo penetrante, tenace e non certo felice, se non altro perché, dopo questo primo passo, sarà costretto a correggere le forme degli ippocentauri16, e poi quelle della Chimera17, finché gli si riverserà addos-so una turba di esseri simili, come le Gorgoni18 e i Pegasi19, e una moltitudine di altri esseri mostruosi e di natura veramente portentosa. Se qualcuno che non crede a questi racconti cercasse di ridurli a proporzioni normali in base a una sapienza grossolana, avrebbe certamente bisogno di molto tempo. Io, invece, del tempo libero da consacrare a tali indagini non ne ho davvero: e questo ne è la ragione, mio caro. Non sono ancora in grado di raggiungere secondo il precetto delfico20 la conoscenza di me stesso, ed

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13. sapienti: sono i sofisti, i quali danno un’interpretazione razionalistica del mito, secondo la quale esso sarebbe il rivestimento fantastico di un fatto reale prosaico e comune (la favo-la di Orizia rapita dal Dio Borea, riferita nelle righe seguenti, significa che una fanciulla cadde dalla rupe per un colpo di vento). Questa razionalizzazione antica del mito anticipa Evemero. Evemero (IV-III sec. a.C.) è autore dello Scritto sacro di cui ci sono giunti fram-menti. Secondo Diodoro Siculo raccontava di un viaggio nell’Oceano Indiano, all’Isola di Pancaia: nel tempio di Zeus di Pancaia un’iscrizione rivelava le imprese di Urano, Crono e Zeus, tre sovrani dell’isola; di qui Evemero derivava la sua spiegazione della mitologia: gli dei sarebbero antichi sovrani o eroi divinizzati in virtù delle loro imprese. I padri della Chiesa fecero riferimento a questa concezione per dimostrare la falsità della religione pagana.

14. Farmacia: una delle Naiadi. Le Naiadi sono ninfe dell’elemento liquido, che incarnano la divinità del fiume o della fonte in cui abitano. La loro genealogia è variabile: Omero le de-finisce figlie di Zeus; altrove sono ricollegate alla stirpe di Oceano. Più spesso sono figlie del dio del fiume in cui risiedono. Le Naiadi passavano per avere facoltà guaritrici: i malati bevevano l’acqua delle loro fonti o vi si bagnavano. Talvolta il bagno era considerato invece un sacrilegio, che provocava la collera e la vendetta delle dee.

15. Areopago: colle a nord-ovest dell’Acropoli di Atene il cui nome (in greco = colle di Ares) passò ad indicare una antichissima assemblea politica, poi esautorata dalla Bulè dei cinque-cento voluta da Solone; rimase però come alta corte di giustizia per i delitti di sangue.

16. Ippocentauri: esseri mostruosi con il busto di uomo e la parte posteriore del corpo da cavalli. Vivono in montagna e nelle foreste e hanno costumi assai brutali. Il più celebre e saggio dei Centauri è Chirone, che allevò l’eroe Achille.

17. Chimera: animale leggendario che aveva della capra, del leone e del serpente. È il prodotto dell’unione fra Tifone e la Vipera Echidna. Fu uccisa da Bellerofonte e tale impresa è ricor-data da Glauco nell’Iliade di Omero (libro VI).

18. Gorgoni: erano tre (Steno, Euriale e Medusa), figlie di divinità marine. Solo Medusa era mortale e fu uccisa da Perseo. I tre mostri abitavano nell’estremo Occidente, non lontano dal regno dei morti. La loro testa era circondata da serpenti, avevano grosse zanne, mani di bronzo e ali d’oro; il loro sguardo tramutava in pietra chi le vedeva.

19. Pegaso: cavallo alato presente in vari miti ed in particolare in quelli di Perseo e di Bellerofonte. Si faceva derivare il suo nome dalla parola greca che significa sorgente (peghè) e si raccon-tava fosse nato alle fonti di Oceano, cioè nell’estremo Occidente.

20. Precetto delfico: il precetto dell’Oracolo a cui fa riferimento Socrate è quello di conoscere sé stessi. Altri precetti fondamentali sono l’invito a non eccedere in nulla e a mantenersi spiri-tualmente puri. Anche a prescindere dall’influenza dell’Oracolo, l’invito all’autocoscienza è un tratto specifico della filosofia socratica.

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evidentemente mi sembra ridicolo, finché su questo problema si è ancora all’oscuro, rivolgere le proprie ricerche verso qualcosa di estraneo. Perciò, dato un addio a queste speculazioni, mi attengo in questo campo alle credenze tradizionali e, come appunto stavo dicendo, non questo vado indagando; ma me stesso, se sono forse una fiera più complessa e più fumida di superbia di Tifone21, oppure una natura più mansueta e schietta spontaneamente partecipe di una singolare condizione divina, ed esente dai fumi dell’orgoglio. Ma consentimi l’interruzione, amico mio. Non è questo l’albero al quale ci conducevi?Eccolo, è proprio lui.Per Era! Bello davvero questo luogo ameno! Il platano infatti è ben ampio ed eretto; splendido poi è l’agnocasto col suo alto fusto denso di ombre. Raggiunta la piena fio-ritura potrebbe inondare tutto il luogo della più acuta fragranza. Deliziosa inoltre è la fonte che scorre sotto il platano con gelida acqua, almeno da quanto si può arguire sag-giando col piede. Alle Ninfe22 e all’Acheloo23 sembra consacrato. Come si deduce dalle figurine di vergini e dalle statuette votive. E ancora, se ti piace, senti come è deliziosa e soave la brezza del luogo; col suo soffio ardente e armonioso fa eco al coro delle cicale. Ma l’attrattiva più delicata è data dall’erba, che in tenue pendio offre spontaneamente, per chi vi stia sdraiato, un ben comodo appoggio per il capo. Perciò sei stato la miglior guida per il forestiero, caro Fedro. Ma sei tu, indubbiamente, o uomo straordinario, l’essere più singolare che possa appa-rire. Mi dai l’esatta impressione, proprio come dici tu, di essere uno straniero che viene portato in giro, non uno del luogo. Infatti non ti assenti mai dalla città per recarti al di là del confine, e neppure mi sembra che tu oltrepassi mai la cerchia delle mura. Cerca di capirmi, mio ottimo amico. Sai bene che io sono assetato di sapere: ora, le campagne e gli alberi si rifiutano di parteciparmi del loro insegnamento, come invece fanno gli uomini della città. Credo però che tu abbia trovato il rimedio magico per farmi uscire. Tu fai proprio come quelli che conducono le bestie affamate, agitando innanzi a loro qualche ramoscello o qualche frutto: allo stesso modo, evidentemente, tu mi indurrai a fare il giro di tutta quanta l’Attica, anzi mi trascinerai in qualunque altro luogo tu voglia, ponendomi innanzi discorsi scritti su fogli. Ma per ora, dal momento che sono giunto qui, ho desiderio di sdraiarmi: tu scegli la posizione che ti sembra più comoda per leggere, e leggi. E tu ascolta.

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21. Tifone: mostruoso gigante, figlio di Gea e Tartaro; si ribellò a Zeus e morì seppellito sotto l’Etna abbattuto da una pioggia di folgori.

22. Ninfe: personificazioni femminili di elementi o fenomeni della natura. Si distinguevano in immortali (Oceanine, delle acque correnti; Nereidi, del mare) e mortali (Naiadi, delle sorgen-ti e fiumi; Oreadi, dei monti; Driadi, delle piante).

23. Acheloo: fiume dell’Etolia, il più grande della Grecia e dio di questo fiume, figlio di Oceano e Teti, vale a dire di una delle coppie più antiche delle teogonie elleniche.

Il locus amoenus del Fedro

Socrate stesso definisce «ameno» il teatro del dialogo. C’è il platano frondoso e l’agno-casto profumato. C’è una fonte fresca che si divide in rivoli puri e scintillanti, spira tra i rami una brezza soave. Allo stormire delle foglie fa eco il coro delle cicale. L’erba

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molle offre a chi si sdraia un confortevole tappeto. Qui il paesaggio ha i tratti tipici del locus amoenus. Si tratta di una descrizione convenzionale i cui elementi caratterizzan-ti sono un boschetto che dà piacevole frescura, l’acqua limpida di una fonte, spesso una grotta che offre un comodo riparo. L’archetipo è la grotta di Calipso nell’Odissea, ma la descrizione si è andata via via fissando in maniera convenzionale negli Idilli di Teocrito e nelle Ecloghe di Virgilio. Questa rappresentazione del boschetto del Fedro fissa un modello di grande vitalità per tutta la letteratura europea, nel quale l’amoeni-tas è lo sfondo ideale della meditazione filosofica. Il locus amoenus non è più solo il riparo dalla calura, causa di benessere fisico, ma segno di un privilegio: è un recinto ideale al cui interno hanno luogo le nobili occupazioni del canto e della saggezza. Occupazioni non produttive, improntate a valori non pratici ma di godimento estetico, prive di frutti di immediata utilità: così gli amoena virecta, che come dice Servio dan-no solo piacere e non frutti (quae solum amorem praestant sine fructu), si oppongono alla concretezza agricola e diventano il luogo simbolico dell’otium.

Mito, poesia, anima irrazionale

Nel passo esaminato, Fedro chiede a Socrate se crede nel mito del ratto di Orizia da parte di Borea. Socrate risponde che la leggenda potrebbe essere la trasposizione fantastica di un evento comune realmente accaduto, come pensano i sofisti che nella razionalizzazione del mito anticipano Evemero (vedi sopra, nota 13). Ma poi prende le distanze anche da queste seducenti interpretazioni, sostenendo che non ha tempo per condurre simili indagini. Per lui la priorità assoluta riguarda la cono-scenza di sé stesso, che è ben lungi dall’avere conseguito. Sarebbe ridicolo rivol-gere le proprie ricerche verso qualcosa di estraneo, quando ancora non si conosce sé stessi. Tanto vale allora, riguardo al mito, attenersi alle credenze tradizionali. Platone, come Eraclito e Senofane, è critico anche nei confronti del mito, perché, come sostiene nella Repubblica, le rappresentazioni mitiche di dei che compiono atti riprove-voli contrasta con la natura del divino e funge da modello di comportamento negativo:

Omero, Esiodo e gli altri poeti hanno composto per gli uomini favole false, le hanno raccontate e le raccontano ancora … la falsità maggiore consiste nelle parole di chi ignobilmente racconta le colpe che Esiodo attribuisce a Urano e la vendetta di Crono.

(Rep., II 377d) Quindi, come Senofane, egli contrappone alla mitologia la filosofia intesa come studio dell’anima, in base al precetto delfico enunciato da Socrate:

O tu che sei … Ateniese … non ti vergogni tu a darti pensiero delle ricchezze … e invece dell’intelligenza e della verità e della tua anima … non ti dai né pensiero né cura?

(Apol., 29d-e)

Se voi avrete cura di voi stessi, farete cosa grata a me e ai miei …(Fed., 115b)

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Altre forme di sapere non lo interessano, così come non interessano Eraclito, che disprezza l’erudizione fine a sé stessa e ha già il senso della complessità dell’anima:

Il molto sapere non insegna ad evere intelletto. L’avrebbe infatti insegna-to a Esiodo, a Pitagora, a Senofane e a Ecateo.

(fr. 40 D.K.)

I confini dell’anima, per quanto tu vada non potrai trovare, dovessi pure percorrere tutte le strade.

(fr. 45)

Platone, a differenza dei presocratici e di Socrate (di cui non condivide il razio-nalismo integrale), non contrappone nettamente sapere filosofico e sapere miti-co. Infatti nell’uomo c’è «una fiera più complessa … di Tifone», come è detto nel passo del Fedro sopra riportato e come verrà anche chiarito nello stesso dialogo più avanti, con il mito della biga alata. L’immagine rappresenta la dimensione irrazionale dell’anima e il discorso mitico consente, con la bellezza della poesia, di ammansire quelle forze che non si lascerebbero vincere dall’astratto ragiona-mento. L’intuizione era anche in Eraclito:

È difficile combattere contro il desiderio (thymòs) più intimo; ciò che vuole infatti lo compra a prezzo dell’anima.

(fr. 85)

Il fatto è che per Platone l’anima non è più un ente semplice, ma composto di più parti. In particolare nella Repubblica viene teorizzata la tripartizione dell’anima. Questa si divide in tre parti (omologhe alle tre classi dello stato ideale): raziona-le, animosa e concupiscibile. L’animosa è intermedia tra le altre due:

Poiché l’anima di ciascun individuo è tripartita, così come uno stato risulta diviso in tre classi, questo permetterà anche una diversa dimo-strazione … Poiché tre sono le parti dell’anima, tre mi appaiono anche i tipi di piaceri, uno per ciascuna parte, e così dicasi per gli appetiti e governi … La prima parte era quella che all’uomo fa apprendere, la seconda quella che gli fa provare sentimenti animosi; alla terza, per la pluralità dei suoi aspetti non abbiamo potuto applicare un unico nome che la caratterizzasse, ma l’abbiamo denominata in base al suo carattere più importante e forte. L’abbiamo chiamata appetitiva, per la veemenza dei suoi appetiti in fatto di mangiare, bere, amare e ogni consimile passione, e amante del denaro perché tali appetiti si appa-gano specialmente col denaro … Non è per questo che diciamo che anche gli uomini si distinguono in tre classi: amanti del sapere, amanti della vittoria, amanti del guadagno? E che esistono quindi tre specie di piaceri costituenti rispettivamente il sostrato di ciascuna di queste classi umane?

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La fortuna del dialogo fi losofi co nei secoliIl dialogo dopo Platone in Grecia

La forma dialogica è di solito scelta dall’autore per conferire evidenza e viva-cità alla sua tesi, presentata come risultante da una discussione o da un con-trasto tra uomini e tesi diverse. Divenuto con Platone il modello classico del dibattito filosofico, il dialogo talora varia rispetto al tipo canonico «socratico», che conserva il ricordo del procedimento «maieutico» del Maestro. In Aristotele (384-322 a.C.) e negli esponenti della scuola peripatetica (Teofrasto, Dicearco, Eraclìde Pòntico) assume una struttura probabilmente (i dialoghi di Aristotele non ci sono conservati) meno mossa e varia, con lunghi discorsi espositivi. Assai celebre nell’antichità e imitato dai filosofi successivi fu il Protrèptico, dialogo perduto che rappresentava un’esortazione alla filosofia e fu imitato da Cicerone nell’Hortensius, parimenti perduto. Luciano di Samosata (120-180 d.C.), esponente della «Seconda Sofistica» – mo-vimento che propugnava la ripresa degli aspetti più retoricamente appariscenti della sofistica – combina il dialogo socratico con gli influssi della Commedia Nuova e della satira-diatriba menippea (cioè coltivata dal filosofo cinico Menippo di Gadara). Scrive Dialoghi degli dèi, Dialoghi marini, Dialoghi delle cortigiane, Dialoghi dei morti. L’adozione della forma socratico-platonica mira a riprendere in forma di dibattito temi propri del cinismo (Luciano coltiva anche la diatriba) e dello scetticismo (nichilismo, critica alla religione, polemica contro i falsi filosofi e i valori mondani).Il dialogo si svolge in una cornice di mondana convivialità nei Sapienti a ban-chetto di Ateneo di Naucrati (II sec. d.C.). Attorno a una tavola riccamente im-bandita nella casa di un facoltoso letterato romano, vari «sapienti» intessono dotte conversazioni su argomenti di varia umanità.

Il dialogo in Cicerone

A Roma la forma del dialogo filosofico è ripresa da Cicerone, che segue il mo-dello platonico, nella correzione aristotelica. C’è un personaggio principale, di solito l’autore, che espone la propria tesi in lunghi interventi. Scarso spazio viene assegnato agli altri autorevoli interlocutori, che talora non possiedono una carat-terizzazione precisa ma quasi s’identificano con la tesi di cui sono portatori. Ad esempio nelle Tusculanae – che rappresentano un sensibile avvicinamento di Cicerone alle tesi stoiche – il dialogo si riduce al minimo, sopraffatto dall’espo-sizione continua delle varie tesi filosofiche, con intermezzi mitici sull’esempio platonico. Di solito il dialogo vero e proprio è preceduto da una lunga presenta-zione dei luoghi e dell’occasione dell’incontro. L’ambientazione è assai curata, come nei dialoghi platonici. Nel De oratore (55 a.C.) «il modello a cui s’ispira è sostanzialmente quello del dialogo platonico: con gesto “aristocratico”, alle strade e alle piazze di Atene viene tuttavia sostituito il giardino della villa di campagna di un nobile romano» (Conte). Il modello platonico ritorna nel De re publica (54-52 a.C.), che ovviamente tiene presente la Repubblica di Platone e si

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propone, al pari del modello, di definire la migliore forma di stato (individuata nella costituzione romana dell’epoca degli Scipioni). Alle Leggi di Platone si ispira anche il dialogo di egual titolo De legibus (iniziato nel 51 a.C. e pubbli-cato postumo). L’ambientazione, nella villa dell’autore ad Arpino, ripropone il modulo del locus amoenus inaugurato, nella letteratura filosofica, con il Fedro platonico.

Funzionalità del dialogo in rapporto all’eclettismo e all’ideologia della humanitas

Per Cicerone il dialogo è anche il genere più congeniale al suo eclettismo fi-losofico. Nelle Tusculanae (V 83) l’oratore chiarisce il metodo critico da lui prediletto: porre a confronto tesi diverse, per saggiarne la maggiore o minore probabilità e coerenza interna. In definitiva, si tratta di istituire, appunto, un dialogo tra posizioni filosofiche divergenti in piena serenità di giudizio, senza asprezze polemiche né prevenzioni di sorta. «La stessa ideologia dell’humanitas, alla cui elaborazione Cicerone dette un contributo notevolissimo, invitava a un atteggiamento intellettuale di aperta tolleranza. Ciò si riflette anche nella regia dei dialoghi filosofici ciceroniani … lo spuntarsi della vis polemica, la rinuncia a qualsiasi animosità nel contraddittorio, la tendenza a presentare le proprie tesi solo come opinioni personali, l’uso insistito di formule di cortesia, l’attenzione a non interrompere l’altrui ragionamento: sono tutti tratti rivelatori dei costumi di una cerchia sociale elitaria, preoccupata di elaborare un proprio codice di “buo-ne maniere”» (Conte). Questa componente, che potremmo definire di fair play, caratterizzerà il tono e l’atmosfera del dialogo filosofico nei secoli, anche per-ché Cicerone si affiancherà a Platone come modello di questo genere letterario. Il corrispettivo sul piano stilistico di questa cordialità improntata all’humanitas sarà l’eleganza e la fluidità dell’espressione (nelle Tusculanae, Cicerone si pro-pone appunto di scrivere copiose et ornate, I 7).

Il dialogo in Tacito e Seneca

Alla tradizione dei dialoghi ciceroniani su argomenti filosofici o retorici si ri-connette il Dialogus de oratoribus di Tacito (55-117 d.C.), che dibatte i temi dell’eloquenza e della poesia, e soprattutto indaga le cause della decadenza dell’oratoria. In età imperiale, il dialogo è un genere talmente connotato in senso filosofico che col nome di Dialogi sono designate complessivamente tutte le opere filosofiche di Seneca, che in realtà sono piuttosto dei trattati di argomento etico e psicolo-gico, dove la materia è esposta in forma continuata non dialogica. In realtà per Seneca l’espressione dialogi non rinvia al modello platonico o ciceroniano, ma ricalca il termine greco diatribài o dialèxeis. Alla diatriba infatti, che presenta-va solo un rudimento di dialogo (introdotto da formule come «qualcuno dice»), sembra rifarsi lo stile di questi scritti, anche per la vivacità espressiva e l’infor-malità di registro. In essi l’elemento dialogico si riduce ai frequenti interventi

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di un interlocutore fittizio, impersonale o implicito – il dedicatario dell’opera o un ipotetico alter ego dialettico riconducibile all’autore stesso – che, come nella diatriba, pone domande e solleva obiezioni. D’altronde può essere ricondotto alla matrice platonica anche il dialogo solipsistico e interiore, quello «fra sé e sé stes-so» che secondo Platone s’identifica col ragionamento (Protagora 339, Teeteto 189) e soddisfa all’esigenza logica della coerenza (ma il principio della coerenza del discorso interiore sarà ripreso anche da Aristotele nella formulazione del principio di non contraddizione). Parti dialogiche compaiono anche nelle Notti attiche di Gellio (II sec. d.C.), rac-colta erudita di appunti presi durante le notti di un inverno trascorso ad Atene. Al genere della conversazione simposiale sono riconducibili i Saturnali di Macrobio (IV sec. d.C.), contenenti le dotte conversazioni tenute nel dicembre del 384 da autorevoli esponenti dell’aristocrazia romana riuniti a convivio duran-te la festività dei Saturnali.

Nella letteratura cristiana

Come strumento apologetico il dialogo fu utilizzato dai Padri della Chiesa, dive-nendo il veicolo di contenuti teologici, morali, polemici nei confronti del super-stite paganesimo. D’impostazione apologetica è il dialogo Octavius dell’africano Minucio Felice (III sec. d.C.), conversazione che si svolge sul lido di Ostia tra un cristiano, un pagano e l’autore stesso chiamato a fungere da arbitro tra le tesi contrapposte dei due dialoganti. Girolamo (347-419 d.C.) compose un Dialogus contra Pelagianos, volto a confutare l’eresia di Pelagio. Agostino (354-430 d.C.) scrisse i Dialoghi di Cassiciàco, che raccolgono le discussioni di amici raccolti con lui in una villa presso Milano, nel periodo che precede la conversione, e i Soliloquia col dialogo tra Agostino e la Ragione. Anche l’opera più famosa di Agostino, le Confessioni, può ricondursi alla struttura del dialogo, nel senso che abbiamo precisato sopra per Seneca (cioè nel senso di un dialogo intimo con la propria interiorità). Boezio (V sec. d.C.) scrisse la Consolatio philosophiae in forma di dialogo tra il poeta incarcerato e la Filosofia, che viene a prestargli la sua opera consolatrice.

Nell’Umanesimo e Rinascimento

Con l’Umanesimo latino e il diffondersi del ciceronianesimo il dialogo figura tra i generi più coltivati. Quasi non c’è umanista che non abbia composto dialo-ghi. In particolare Petrarca (1304-1374) scrisse il Secretum – più esattamente Secretum meum, col sottotitolo De secreto conflictu curarum mearum – in cui in-trattiene un colloquio intimo con Agostino, che compare come interlocutore, alla presenza della Verità. L’opera, scritta in latino e ispirata a Seneca e Cicerone, è un’analisi della malattia morale che affligge il poeta e che consiste nella debo-lezza della volontà e nell’attaccamento ai beni terreni, in particolare all’amore per Laura e al desiderio di gloria, che sono i due «miti» dell’esistenza del poeta ai quali non sa rinunciare.

32 DOSSIER: IL TESTO FILOSOFICO

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Il fervore passa dall’Umanesimo latino a quello volgare e durante il Cinquecento parecchie tra le opere più significative hanno forma di dialogo: dalle Prose della volgar lingua ai Dialoghi degli Asolani di Bembo, dal Cortegiano di Castiglione ai Dialoghi dell’arte della guerra di Machiavelli, dagli innumerevoli dialoghi sull’amore e sulla donna ai Ragionamenti, che ne sono come il controcanto, di Pietro Aretino. Si viene così consolidando un vero e proprio genere, nel quale alla serietà degli argomenti dibattuti si accompagna l’eleganza dello stile e della lingua, modellata sull’esempio ciceroniano. Ciò spiega come Giordano Bruno componga in forma di dialogo alcune sue opere (Degli eroici furori) e come Galilei adotti la stessa forma letteraria per i suoi Dialoghi dei massimi sistemi e per quelli delle Nuove scienze.

Nel Sette- Ottocento

Il genere continua ancora lungo tutto il Settecento, ad opera di Algarotti, Gozzi, Fontenelle, Voltaire, Fénelon, Montesquieu, fino agli esiti artistici altissimi rappresentati dalle Operette morali di Leopardi.

Il dialogo nella filosofia moderna

Nella filosofia moderna il dialogo assume un significato particolare nella cosid-detta «filosofia del dialogo», dove non è solo un genere filosofico o un metodo euristico e critico, ma la condizione per cui si danno persone autoconsapevoli, capaci di conoscere sé e il mondo. Spunti in tal senso nella filosofia tedesca tra XVIII e XIX secolo (F.H. Jacobi, J.G. Fichte, W. von Humboldt, L. Feuerbach). «In senso stretto si dice “filosofia del dialogo” una corrente di pensiero afferma-tasi dopo la prima guerra mondiale e legata ai nomi di F. Ebner, F. Rosenzweig, M. Buber e G. Marcel, fra le cui vie largamente indipendenti si distinguono due posizioni. Secondo la prima, è solo nella relazione dialogica che l’individuo di-venta realmente un sé, una persona; secondo l’altra, più radicale, non si dà alcun io, alcun individuo, fuorché nella relazione. Solo nel rapporto dialogico emerge l’io» (S. Landucci).