Platone 3 - Storia della Slavia Friulana · piacere del momento presente, ma anche del vantaggio...

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1 Platone 3 Fedro, Alcibiade maggiore, Alcibiade minore, Ipparco, Amanti, Teagete, Carmide, Lachete, Liside, Eutidemo 12- Fedro Sulla Bellezza. “La Bellezza splendeva fra le realtà di lassù come Essere. E noi, venuti quaggiù, l'abbiamo colta con la più chiara delle nostre sensazioni, in quanto risplende in modo luminosissimo;... solamente la Bellezza ricevette questa sorte di essere ciò che è più manifesto e più amabile” (250 D). “Il motivo per cui le anime mettono tanto impegno per poter vedere la Pianura della Verità è questo: il nutrimento adatto alla parte migliore dell'anima proviene dal prato che è là e la natura dell'ala con cui l'anima può volare si nutre proprio di questo” (348 B-C). Presentazione, traduzione e note di Giovanni Reale. L'unico personaggio diretto del dialogo, oltre Socrate, è Fedro. Il retore Lisia è un personaggio che non agisce direttamente, ma opera con il suo scritto che Fedro legge e su cui s'impernia la discussione del dialogo. L'incontro si svolge sulle rive dell'Ilisso, in un posto ombroso. I- Prologo (227A - 230E). 1- Incontro di Socrate con Fedro. “O Socrate, ciò che ascolterai s'addice proprio a te, perché il discorso su cui ci siamo intrattenuti, non so in quale modo, era sull'amore. Lisia ha scritto di un bel giovane, il quale viene tentato, ma non da un amante... Egli infatti dice che bisogna essere compiacenti con chi non è innamorato, piuttosto che con chi è innamorato... Che generoso! osservò Socrate. Avesse scritto che bisogna essere compiacenti più con un povero che con un ricco, e più con un vecchio che con un giovane e tutte le altre cose che vanno bene a me e alla maggior parte di noi! Allora sì che sarebbero veramente garbati e di pubblica utilità questi suoi discorsi!... Lisia, rispose Fedro, è il più bravo scrittore dei nostri giorni”. Dunque non un oratore e su questa dialettica tra scrittura e oralità s'impernierà il dialogo. 2- Fedro ha ascoltato un discorso di Lisia sull'amore e porta con sé il testo.“Fedro si stava avviando fuori le mura... Ed ecco che si è imbattuto in uno che è malato della passione di ascoltare discorsi”. Socrate-Platone, a differenza dei comuni retori, è amante dei discorsi “veri” nella misura in cui portano al vero e quindi è colui che li sa fare ed in modo adeguato. “In realtà, o Socrate, non ho imparato a memoria il discorso parola per parola. Però, il significato di quasi tutti gli argomenti con i quali Lisia sostenne che c'è differenza fra la condizione di uno che è innamorato, te lo presenterò per sommi capi... Suppongo che tu o Fedro, abbia proprio quel discorso... Su, dunque, fammi vedere!”. 3- Socrate e Fedro si recano sulle rive dell'Ilisso per la lettura del discorso di Lisia. “Allora, fa' da guida e, ad un tempo, guarda dove dovremo metterci a sedere”. 4- Il mito di Borea e di Orizia e certe interpretazioni razionalistiche dei miti. “Facendo il sapiente, potrei sostenere che un colpo di vento di Borea gettò Orizia giù dalle rupi lì vicino, mentre stava giocando con Farmacea (ninfa)... Ma per queste cose non ho molto tempo libero a mia disposizione... Io non sono in grado di conoscere me stesso... e mi sembra ridicolo... indagare cose che mi sono estranee”. 5- Descrizione del paesaggio che fa da cornice al dialogo. “Senti come è gradevole e molto dolce il venticello del luogo... Un dolce mormorio risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più piacevole è quest'erba... Io sono uno che ama imparare. La compagnia degli alberi non mi vogliono insegnare niente; gli uomini della città invece sì... Ma ora che siamo giunti qui, intendo sdraiarmi... e poi leggi”. Lisia è presente, appunto, con uno scritto, che Fedro ha addirittura imparato a memoria. È quindi espressione di quella comunicazione mediante la “scrittura” e di quel tipo di assimilazione di tale comunicazione che Platone intende criticare in modo radicale nel corso del dialogo. II- Parte prima. Discorso di Lisia sull'amore (230E - 237A). 1- Lettura del discorso. Questo discorso non va inteso come una pura riproduzione di un discorso di Lisia, bensì come una imitazione fatta con arte. “Io non ritengo giusto che per questo non possa ottenere le cose che ti chiedo, ossia per il motivo che io non mi trovo ad essere un tuo innamorato. Infatti gli

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Platone 3

Fedro, Alcibiade maggiore, Alcibiade minore, Ipparco, Amanti, Teagete, Carmide, Lachete, Liside, Eutidemo

12- Fedro ♣ Sulla Bellezza. “La Bellezza splendeva fra le realtà di lassù come Essere. E

noi, venuti quaggiù, l'abbiamo colta con la più chiara delle nostre sensazioni, in quanto risplende in modo luminosissimo;... solamente la Bellezza ricevette questa sorte di essere ciò che è più manifesto e più amabile” (250 D). “Il motivo per cui le anime mettono tanto impegno per poter vedere la Pianura della Verità è questo: il nutrimento adatto alla parte migliore dell'anima proviene dal prato che è là e la natura dell'ala con cui l'anima può volare si nutre proprio di questo” (348 B-C). Presentazione, traduzione e note di Giovanni Reale. L'unico personaggio diretto del dialogo, oltre Socrate, è Fedro. Il retore Lisia è un personaggio che non agisce direttamente, ma opera con il suo scritto che Fedro legge e su cui s'impernia la discussione del dialogo. L'incontro si svolge sulle rive dell'Ilisso, in un posto ombroso.

I- Prologo (227A - 230E). 1- Incontro di Socrate con Fedro. “O Socrate, ciò che ascolterai

s'addice proprio a te, perché il discorso su cui ci siamo intrattenuti, non so in quale modo, era sull'amore. Lisia ha scritto di un bel giovane, il quale viene tentato, ma non da un amante... Egli infatti dice che bisogna essere compiacenti con chi non è innamorato, piuttosto che con chi è innamorato... Che generoso! osservò Socrate. Avesse scritto che bisogna essere compiacenti più con un povero che con un ricco, e più con un vecchio che con un giovane e tutte le altre cose che vanno bene a me e alla maggior parte di noi! Allora sì che sarebbero veramente garbati e di pubblica utilità questi suoi discorsi!... Lisia, rispose Fedro, è il più bravo scrittore dei nostri giorni”. Dunque non un oratore e su questa dialettica tra scrittura e oralità s'impernierà il dialogo. 2- Fedro ha ascoltato un discorso di Lisia sull'amore e porta con sé il testo.“Fedro si stava avviando fuori le mura... Ed ecco che si è imbattuto in uno che è malato della passione di ascoltare discorsi”. Socrate-Platone, a differenza dei comuni retori, è amante dei discorsi “veri” nella misura in cui portano al vero e quindi è colui che li sa fare ed in modo adeguato. “In realtà, o Socrate, non ho imparato a memoria il discorso parola per parola. Però, il significato di quasi tutti gli argomenti con i quali Lisia sostenne che c'è differenza fra la condizione di uno che è innamorato, te lo presenterò per sommi capi... Suppongo che tu o Fedro, abbia proprio quel discorso... Su, dunque, fammi vedere!”. 3- Socrate e Fedro si recano sulle rive dell'Ilisso per la lettura del discorso di Lisia. “Allora, fa' da guida e, ad un tempo, guarda dove dovremo metterci a sedere”. 4- Il mito di Borea e di Orizia e certe interpretazioni razionalistiche dei miti. “Facendo il sapiente, potrei sostenere che un colpo di vento di Borea gettò Orizia giù dalle rupi lì vicino, mentre stava giocando con Farmacea (ninfa)... Ma per queste cose non ho molto tempo libero a mia disposizione... Io non sono in grado di conoscere me stesso... e mi sembra ridicolo... indagare cose che mi sono estranee”. 5- Descrizione del paesaggio che fa da cornice al dialogo. “Senti come è gradevole e molto dolce il venticello del luogo... Un dolce mormorio risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più piacevole è quest'erba... Io sono uno che ama imparare. La compagnia degli alberi non mi vogliono insegnare niente; gli uomini della città invece sì... Ma ora che siamo giunti qui, intendo sdraiarmi... e poi leggi”. Lisia è presente, appunto, con uno scritto, che Fedro ha addirittura imparato a memoria. È quindi espressione di quella comunicazione mediante la “scrittura” e di quel tipo di assimilazione di tale comunicazione che Platone intende criticare in modo radicale nel corso del dialogo.

II- Parte prima. Discorso di Lisia sull'amore (230E - 237A). 1- Lettura del discorso. Questo

discorso non va inteso come una pura riproduzione di un discorso di Lisia, bensì come una imitazione fatta con arte. “Io non ritengo giusto che per questo non possa ottenere le cose che ti chiedo, ossia per il motivo che io non mi trovo ad essere un tuo innamorato. Infatti gli

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innamorati provano dispiacere per quei benefici che hanno fatto, non appena si siano liberati della loro passione; invece, per i non innamorati non verrà mai un tempo in cui bisogna cambiare parere... I non innamorati non possono presentare come scusa di non essersi presa cura delle proprie faccende a causa dell'amore... Gli innamorati... di quelli di cui si innamoreranno in seguito, avranno considerazione maggiore che non dei primi... Gli innamorati stessi ammettono di essere malati ben più che in senno... Se tu volessi scegliere, fra coloro che non sono innamorati, quello che è più adatto a te, avresti la possibilità di scegliere fra molti... I non innamorati, dal momento che hanno perfetto dominio di sé medesimi, scelgono meglio ciò che è meglio... È giocoforza che molti vengano a conoscenza di coloro che sono innamorati e che li vedano mentre accompagnano i loro amati e mentre si danno da fare per questi... Allora pensano che stiano insieme o perché hanno già soddisfatto o perché si accingono a soddisfare il loro desiderio morboso. Invece, non si cerca affatto di accusare quelli che non sono innamorati, per il fatto che stanno sempre insieme, perché si sa che è necessario parlare con qualcuno o per amicizia o per qualche altra cosa che dà piacere... Quelli che si trovano nella condizione di non essere innamorati ed hanno ottenuto per abilità loro quello di cui hanno bisogno, non sarebbero gelosi di quelli che stanno in tua compagnia... Perciò c'è molta più speranza che, da questo, fra tutti loro nasca amicizia invece che inimicizia... Coloro poi che non sono innamorati e che erano fra loro amici anche prima di fare questo, non è verosimile che, dopo che abbiano ricevuto soddisfazione in queste cose, la loro amicizia risulti diminuita. Inoltre ti sarà possibile diventare migliore, se ti lascerai convincere da me, invece che da un innamorato... Perciò per gli innamorati conviene avere compassione molto più che ammirazione... Starò insieme a te non solo prendendomi cura del piacere del momento presente, ma anche del vantaggio che ne verrà in seguito e non vinto d'amore... Se invece tu ti sei messo in mente che non possa nascere una forte amicizia se uno non si trovi ad essere innamorato, allora... non potremmo apprezzare molto i figli, né i padri, né le madri... Infatti tali vincoli sono sorti non certo da una passione di questo tipo, ma da ben altri rapporti... Inoltre si deve concedere i propri favori soprattutto... ai più bisognosi... Invitare alle feste in caso... coloro... che hanno bisogno di venire sfamati e.. saranno riconoscenti e augureranno molti beni ai loro benefattori... Conviene concedere i favori... non solo a coloro che chiedono, ma a coloro che sono degni della cosa... a coloro che, sentendo pudore, manterranno il silenzio con tutti... a coloro che ti saranno amici per tutta la vita... a coloro che, quando il fiore della tua giovinezza sarà appassito, proprio allora ti daranno la prova della loro virtù... Gli amici muovono rimproveri a quelli che sono innamorati... invece a quelli che non sono innamorati nessuno dei familiari ha mai mosso un rimprovero... Tu mi domanderai se io ti esorti a concedere i tuoi favori a tutti coloro che non sono innamorati... Invece bisogna che da questo non provenga alcun danno, ma che provenga un vantaggio per tutti e due”. Queste puntualizzazioni verranno riprese e commentate nel seguito del dialogo. *La prassi del mondo greco risulta incomprensibile nell'etica cristiana e la portata del capovolgimento è difficilmente valutabile, se non nelle sue ambigue sopravvivenze come le giustificazioni “mistiche” così tipiche dei pedofili*.

2- Osservazioni critiche di Socrate sul discorso di Lisia. “Io ho posto attenzione solo alla forma retorica del discorso; mentre pensavo che neppure Lisia ritenesse sufficiente l'altro punto... Infatti... egli ha ripetuto due o tre volte le medesime cose... ora in una maniera ora in un'altra e di dirle in un caso e nell'altro nel modo migliore”. 3- Alcuni sapienti del passato contraddicono le concezioni di Lisia sull'amore. “In qualche modo... sento di avere in un certo senso pieno il petto... e so bene che io... non ho pensato nessuna di queste cose, perché conosco bene la mia ignoranza. Resta dunque... che da altre fonti ne sia stato riempito, mediante l'udito, al modo di un vaso... Tanto per incominciare, per quanto riguarda l'argomento del discorso... non si deve elogiare l'invenzione, bensì la loro disposizione. Fedro: Ti concedo di porre alla base, come principio, che chi è innamorato è più ammalato di chi non è innamorato”. 4- Fedro convince Socrate a fare un discorso sull'amore. “Devi smettere di fare il riottoso con me... Io non ti mostrerò e non ti farò mai più ascoltare nessun

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altro discorso di nessuno”. III- Parte seconda. Primo discorso di Socrate sull'amore (237A - 242B). 1- Socrate ripresenta

la tesi di Lisia secondo una differente prospettiva. “In che cosa noi potremmo distinguere che è innamorato da chi non lo è?... In ciascuno di noi sono presenti due forme di tendenze che ci dominano e ci guidano:... l'una, innata, è desiderio dei piaceri; l'altra è un'opinione acquisita che tende al bene più grande... Queste due tendenze in noi talora sono in accordo, tal altra sono invece in contrasto... Quando l'opinione porta col ragionamento al bene maggiore e predomina, tale predominio prende il nome di temperanza; quando il desiderio trascina in modo irrazionale ai piaceri e predomina in noi, gli viene dato il nome di dissolutezza... Il desiderio irrazionale che ha il predominio sull'opinione che conduce a ciò che è retto, portato verso il piacere della bellezza, corroborato vigorosamente dai desideri ad esso congeneri della bellezza dei corpi, una volta raggiunta la vittoria per il comando, prendendo il nome da questa vigoria, viene chiamato eros o amore”. 2- Breve interruzione: Socrate si sente in stato di ispirazione. “Ascoltami in silenzio; infatti il luogo mi sembra proprio divino;... se procedendo nel discorso io sarò spesso invasato dalle Ninfe, non ti meravigliare... e di questo sei tu la causa”.

3- Prosecuzione del discorso di Socrate. “Dobbiamo dire... quale vantaggio o quale danno con verosimiglianza verrà da uno che è innamorato e da uno che non è innamorato a chi conceda i propri favori... Un innamorato non sopporterà volentieri un amato che sia superiore o uguale a lui... e inferiore è l'ignorante rispetto al sapiente... Di tanti mali... che si generano nell'animo dell'amato... è necessario che chi è innamorato provi piacere e che ne procuri altri... perché è necessario che sia geloso; e col tenerlo lontano da molte altre compagnie anche da quelle giovevoli... è necessario che egli sia causa di grande danno; e anzi del più grande danno, quando lo tenga lontano da quella compagnia dalla quale potrebbe essere aiutato a diventare saggissimo... per la paura che ha di venire da lui disprezzato... Ridotto in tale modo, l'amato sarebbe fonte di grandissimo piacere per l'innamorato. Per quanto riguarda l'intelligenza l'uomo che è innamorato, come guida e come compagno, non è di nessun giovamento... Consideriamo ora la condizione e la cura del corpo;... lo si vedrà dedito ad una maniera di vivere delicata ed effeminata... Per un corpo di questo tipo, in guerra... i nemici si imbaldanziscono, mentre... gli innamorati hanno timori... Quale vantaggio o quale danno ai beni che possediamo procurerà la... protezione di chi è innamorato... è certamente chiaro... che si augurerebbe che il suo amato restasse privo... di padre, di madre, di parenti e di amici... Se l'amato possiede ricchezze in oro... ne consegue che l'innamorato debba provare invidia... e si augurerebbe che l'amato rimanesse il più a lungo possibile senza moglie, senza figli, senza casa... L'adulatore è una terribile bestia e un grande male... Per l'amato un innamorato, oltre ad essere rovinoso, è anche la cosa più spiacevole stare insieme con lui tutti i giorni... Lo stare insieme di costoro comporta sazietà... Infatti quando uno più vecchio ha una relazione con uno più giovane... si mette strettamente al suo servizio con piacere... Ma... quali piaceri sarà in grado di dare all'amato, per evitare, stando con lui per tutto il tempo, che non giunga all'estremo della nausea?... E questi gli chiede che gli vengano resi favori per le cose di allora, ricordandogli le cose che gli sono state fatte e dette, credendo di discorrere con il medesimo uomo... Dal momento che ormai ha riacquistato l'intelligenza e la temperanza... per questo, invertite le parti, cambiata direzione, si dà alla fuga. L'altro invece, si trova costretto a rincorrerlo in quanto non ha capito tutto fin da principio, ossia che non avrebbe dovuto mai concedere i suoi favori a chi è innamorato, perché costui è per forza senza senno, ma avrebbe dovuto concederli ben di più a chi non è innamorato ed ha senno... Dunque, ragazzo, bisogna capire bene... ossia che l'amicizia di chi è innamorato non nasce mai insieme alla benevolenza, ma nasce allo stesso modo del desiderio del cibo, ossia al fine di saziarsi. Come i lupi amano gli agnelli, così gli innamorati hanno cari un ragazzo”. 4- Fedro convince Socrate a fare un ulteriore discorso. “Invece io ero convinto che tu fossi a metà del discorso e dovessi dire cose simili a queste su chi non è

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innamorato, ossia come si debba piuttosto concedere i propri favori a lui, dicendo quanti beni egli abbia... Socrate: Ti dico in poche parole che quanti siano i mali per cui abbiamo biasimato l'uno, altrettanti sono i beni contrari ad essi che si trovano nell'altro... Sull'uno e sull'altro si è detto abbastanza”.

IV- Interludio. Necessità di una palinodia-ritrattazione (242B - 243E). 1- La voce divina

sentita da Socrate. “In verità, o amico, ha una capacità divinatoria anche l'anima... Terribile è il discorso che tu hai portato, così pure quello che mi hai costretto a fare”. 2- Socrate vuole purificarsi con una palinodia. “Se Eros è, come in realtà lo è, un dio o alcunché di divino, non è possibile che sia un male. E invece i due discorsi che ora sono stati fatti su di lui ne parlavano come se fosse appunto un male... Dunque caro amico bisogna che io mi purifichi... Prima che mi capiti qualcosa per la ragione che ho diffamato Eros, cercherò di offrirgli la mia palinodia con il capo scoperto e non come ho fatto prima con il capo coperto per la vergogna”. 3- Entusiasmo di Fedro per la palinodia annunciata da Socrate. “O Socrate, non potevi davvero dirmi nulla di più gradevole... Suggerisco, o Fedro, pure a Lisia di scrivere al più presto che, a pari condizioni, si devono concedere i favori ad un amante, piuttosto che a chi non è innamorato”.

V- Parte terza. Grande discorso di Socrate sull'amore su fondamenti filosofici (243E - 257B).

Questo discorso di Socrate è diventato celeberrimo e contiene alcune delle pagine più belle che Platone abbia scritto. 1- I quattro tipi di “mania” e l'amore. “I beni più grandi ci provengono mediante una mania che ci viene data per concessione divina... Anche fra gli antichi, coloro che hanno coniato i nomi, non hanno considerato la mania come cosa né brutta né vergognosa... La mania, che proviene da un dio, è migliore dell'assennatezza che proviene dagli uomini... Ma anche dalle malattie e dalle pene più grandi, che, provenendo per antiche colpe da qualche parte, si abbattono su alcune delle stirpi, la mania, sorgendo e profetando in quelli in cui doveva operare, trovò una via di scampo, rifugiandosi nella preghiera e nella venerazione degli dèi, e quindi, procurando purificazioni e iniziazioni, rese libero che ne fosse in possesso... La mania che proviene dalle Muse, che, impossessatasi di un'anima tenera e pura, la desta e la trae fuori di sé nella ispirazione bacchica in canti e in altre poesie e rendendo onore ad innumerevoli opere degli antichi, istruisce i posteri... Pertanto non dobbiamo aver paura della cosa... Ma questo discorso potrà riportare vittoria solo se avrà provato che l'amore non viene inviato dagli dèi a chi ama e a chi è amato al fine di giovare agli dèi medesimi. Noi dobbiamo invece dimostrare proprio il contrario, ossia che per nostra grandissima fortuna una mania di questo tipo ci viene data dagli dèi. La nostra dimostrazione sarà persuasiva... per i sapienti”. 2- Dimostrazione dell'immortalità dell'anima. “Prima di tutto bisogna conoscere la verità intorno alla natura dell'anima divina e umana... Ogni anima è immortale. Infatti tutto ciò che sempre si muove (da sé) è immortale, mentre ciò che muove altro ed è mosso da altro, quando ha cessazione di movimento, ha cessazione anche di vita. Dunque, solamente ciò che muove se stesso non cessa mai di muoversi, in quanto non lascia mai se stesso, anzi è fonte e principio di movimento anche per le altre cose che si muovono... Il principio è necessario che non sia generato da nulla, perché se se il principio si generasse da qualcosa, non sarebbe più principio. E poiché non è generato, è necessario di sia anche incorruttibile... Dunque è principio di movimento ciò che muove se stesso... Se ciò che muove se stesso non può essere altro se non l'anima, allora di necessità, l'anima dovrà essere ingenerata e altresì immortale... Questa è l'essenza e la definizione dell'anima”. Qui Platone si concentra sul punto del movimento, perché è quello che si connette essenzialmente con Eros, la cui natura implica strutturalmente dinamicità. *Aristotele parlerà di Motore Immobile attribuendo il Motore ab extra, l'Immobilità ab intra, con un ossimoro dialettico che sta alla base delle inestricabili antinomie del nostro sistema metafisico. Per Platone l'automovimento cosmico corrisponde a ingenerato, incorruttibile, immortale, con la riserva di distinguere tra essere delimitato e “sopra l'essere” dell'Uno. I

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termini principio, immortale, eterno, generazione, corruzione non risultano ancora “perfettamente” tarati, a modo nostro*.

3- Il carro alato come metafora dell'essenza dell'anima. “Sull'idea dell'anima... spiegare quale sia, sarebbe compito di una esposizione divina in tutti i sensi e lunga, ma dire a che cosa assomiglia è un'esposizione umana e piuttosto breve”. Sulla natura dell'anima Platone ritornerà, ma senza pervenire alle conclusioni ultimative, riservate all'oralità. “Si pensi, dunque, l'anima simile ad una forza per sua natura composta di un carro a due cavalli e di un auriga”. L'interpretazione esatta di questa immagine non è facile. Se è chiaro che l'auriga è l'intelligenza, i due cavalli sono dagli studiosi identificati per lo più con l'anima concupiscibile ed irascibile. Ma sicuramente la cosa è più complessa e probabilmente cela una allusione dalla struttura diadica delle Dottrine non scritte. “I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e derivati da buoni, invece quelli degli altri sono misti”. Si noti che questa analogia dell'anima degli uomini e degli dèi (sia pure con le dovute differenze) mette in crisi l'interpretazione che vede nei due cavalli del mito della biga alata l'anima concupiscibile e irascibile (che negli dèi avrebbero poco senso). “In noi... dei due cavalli, uno è bello e buono e derivante da belli e buoni; l'altro, invece, deriva da opposti ed è opposto. Difficile e disagevole, di necessità... è la guida del carro... L'anima perfetta ed alata, vola in alto e governa tutto questo mondo. Ma una volta che abbia perduto le ali, viene trascinata giù... e preso un corpo terroso, per la potenza di essa, questo sembra muoversi da sé. L'insieme... fu chiamato 'vivente'... e 'mortale'. Col termine 'immortale'... noi ci figuriamo un dio, che ha un'anima e un corpo eternamente connaturati... Cerchiamo per ora di comprendere la causa della caduta delle ali, per cui esse si staccano dall'anima”. 4- Le schiere degli dèi, dei dèmoni e delle anime umane al loro seguito. “Il divino è ciò che è bello, sapiente e buono... Appunto da queste cose le ali dell'anima vengono nutrite e accresciute in grado supremo; invece dalla bruttezza, dalla malvagità e da tutti i contrari negativi esse vengono guastate e mandate in rovina. Zeus... conducendo il carro alato, è il primo a procedere, ordina tutte quante le cose e si prende cura di esse. A lui tiene dietro un esercito di dèi e di dèmoni... L'invidia rimane fuori dal coro divino... Gli altri veicoli invece, procedono con fatica. Il cavallo che è partecipe del male, infatti, cala, piegando verso terra opprimendo quell'auriga che non abbia saputo allevarlo bene”. *Come si vede, più che una dimostrazione della causa della perdita delle ali, si tratta di una constatazione. Per gli antichi la causa non è motivata, ma constata, non è coinvolta, ma tenuta presente, perché non si tende a scovare il “fondamento” per una metafisica dualistica, quanto a constatare il fatto oggettivo da rilevarsi in medias res secondo giusta misura. La causa c'è ma non va “dialettizzata”, perché trascende ogni nostra decifrazione coinvolgente. La pretesa di quadrare il cerchio, compromettendo esaustivamente causa ed effetto, non ha risolto niente, anzi ha complicato tutto. I penetralia dei stanno oltre la nostra portata “razionale”, fino a quando almeno la nostra “fede razionale” non pretenderà di fondarsi sul Motore Immobile Assoluto Attuale Infinito ecc... ed allora il problema... energetico sarebbe risolto*.

5- L'Iperuranio e le realtà che stanno al di sopra del cielo e la vita degli dèi. “Allorché le anime che sono dette immortali pervengono alla sommità del cielo, procedendo al di fuori, si posano sulla volta del cielo e la rotazione del cielo le trasporta così posate ed esse contemplano le cose che stanno al di fuori del cielo, l'iperuranio, il luogo sopraceleste”. Col cielo termina il luogo fisico e “sopra il cielo” è luogo al di là del luogo, non-luogo, la dimensione metafisica dell'intelligibile. *E su questo punto si gioca la cosiddetta “metafisica” platonica che, come cerchiamo di dire, ammettendo il “sopra essere” non ne deriva il fondamento dell'operatività razionale, riconoscendo all'intelligibile la comprensione perfettiva dell'essere delimitato e della tensione al “sopra essere”. Il ricorso al mito e alle varie somiglianze è la conferma di questo approccio*. “L'essere che realmente è, senza colore, privo di figura e non visibile e che può essere contemplato solo dalla guida dell'anima, ossia dall'intelletto e intorno a cui verte la conoscenza vera, occupa tale luogo... Ogni anima cui prema di conoscere ciò che le conviene, quando vede dopo un certo tempo l'essere, si allieta

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e, contemplando la verità, se ne nutre e ne gode, finché la rotazione del cielo non l'abbia riportata allo stesso punto”. Al termine del ciclo dell'anno cosmico. *L'uso di termini così “decisivi” per il pensiero umano legati al movimento circolare del cosmo significa vedervi appunto lo status immortale del suo essere*. “Nel giro che essa compie vede la Giustizia stessa, vede la Temperanza, vede la Scienza, non quella connessa col divenire, né quella che è differente in quanto si fonda su quelle cose alle quali noi ora diamo il nome di esseri, ma quella che è veramente scienza in ciò che è veramente essere. E dopo che ha contemplato tutti gli esseri che veramente sono e se ne è saziata, di nuovo penetra all'interno del cielo e se ne torna alla sua dimora... Questa è la vita degli dèi”. *Gli dèi vivono in un mondo intermedio tra il sopra del cielo e l'interno dello stesso. Il loro andare e venire è determinato dal ciclo cosmico e più che un'intelligenza diversa, è indice di una dinamis comprensiva e contemplativa che si riflette pure sull'intelligenza umana*. 6- Come le anime umane cercano di raggiungere la “Pianura della Verità” e la loro caduta. “Quanto alle altre anime, invece, una seguendo il dio nel modo migliore possibile e rendendosi simile a lui, solleva il capo dell'auriga verso il luogo che sta al di fuori del cielo e viene trasportata nel moto di rotazione, ma a stento contempla gli esseri, perché turbata dai cavalli. Un'altra anima, invece, ora solleva il capo, ora lo abbassa; ma poiché i cavalli le fanno violenza, vede alcuni esseri, mentre altri no. Seguono le altre anime, che... vengono sommerse e trascinate nel moto di rotazione... Nasce un tumulto e una lotta... molte anime rimangono storpiate... e le penne spezzate. Tutte... se ne allontanano senza aver frutto della contemplazione dell'essere... e si nutrono del cibo dell'opinione... Il motivo per cui esse mettono tanto impegno per vedere la Pianura della Verità è questo: il nutrimento adatto alla parte migliore dell'anima proviene dal prato che è là e la natura dell'ala con cui l'anima può volare, si nutre proprio di questo”. Questa descrizione dei vari comportamenti dell'anima umana è più una constatazione che una deduzione e dimostrazione. L'immagine della Pianura della Verità esprime il cuore del platonismo in antitesi a quella della Pianura della Dimenticanza. *Il mondo greco non si è mai chiesto perché mai un'anima si comporta bene ed un'altra male; si descrive il fatto, ma non ci si sofferma sulla libertà che si dà per scontata. La Genesi fa più o meno altrettanto, dando per scontato l'uso della libertà distorta da parte di Adamo ed Eva, pur trattandosi di esseri perfetti. Il cristianesimo invece fonderà proprio sulla libertà problematica, o intenzione, retta o meno che sia, l'origine del bene e del male e ciò a seguito non solo della predicazione dell'essere a Dio, creatore ex nihilo e l'inghippo della “sua” coinvolgenza in un'opera “mal riuscita”, ma pure dell'urgenza di essere peccatori “originari” per poter partecipare ai benefici della redenzione del Cristo, concepita entro lo schema del capro espiatorio. Che poi si sia permesso il lusso di lasciare l'uomo libero di comportarsi bene o male, con tanto di premi e di supplizi eterni, è solo una situazione “interessante”, questa sì di fatto, che non fa però che rendere inestricabile ogni presunta giustificazione logica e religiosa. Insomma questa metafisica è il busillis della nostra civiltà cristiana con tanto di “radici” inestirpabili*.

7- I destini escatologici delle anime dopo la caduta e la metempsicosi. “Ogni anima che, diventata seguace di un dio, abbia potuto contemplare qualcuna delle verità, rimane illesa fino al giro successivo; e se è capace di fare questo, rimane immune per sempre. Qualora invece non essendo in grado di seguire il dio, non abbia visto e, per qualche avventura subita, riempitasi di dimenticanza e di malvagità, si sia appesantita e appesantitasi, abbia perso le ali e sia caduta per terra, allora è legge che quest'anima non si trapianti in alcuna natura animale nella prima generazione. Invece quella che ha visto il maggior numero di esseri è legge che si trapianti in un seme di un uomo che dovrà diventare amico del sapere e amico del bello... Quella che viene seconda è legge che si trapianti in un re... o in un uomo di guerra... La terza in un uomo politico... La quarta in un uomo che ama le fatiche... La quinta... in un indovino... La sesta... in un poeta. La settima... artigiano... La ottava... sofista... La nona... tiranno... Chi ha condotto la vita in modo giusto, riceve sorte migliore... chi... in modo ingiusto... sorte peggiore. Infatti ogni anima non torna là donde è venuta per un periodo di diecimila anni, perché le ali prima di questo periodo di tempo non rispuntano,

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tranne che nell'anima che ha esercitato la filosofia in modo sincero o ha amato i ragazzi in modo conforme a filosofia. Queste anime, al terzo giro di mille anni, se hanno scelto per tre volte consecutive tale tipo di vita, rimesse in questo modo le ali, al termine del terzo millennio se ne vanno via. Le altre... subiranno un giudizio... andando in luoghi di espiazione... Altre invece essendo elevate dalla Giustizia in un qualche luogo del cielo, conducono una vita in modo corrispondente al tipo di vita che hanno condotto in forma di uomo... Un'anima umana può passare anche in una vita di bestia... L'anima che non ha mai contemplato la verità non potrà mai giungere alla forma di uomo”. *La mitologia del giudizio sulla condotta umana ed il suo destino si corrispondono sotto tutti i climi. È un meccanismo che sollecita l'impegno umano nella vita presente e in modo efficace*.

8- La reminiscenza e i suoi nessi con la “mania” dell'amore. “Bisogna, infatti, che l'uomo comprenda in funzione di quella che viene chiamata Idea, procedendo da una molteplicità di sensazioni ad una unità colta con il pensiero, e questa è una reminiscenza di quelle cose che un tempo la nostra anima ha visto, quando procedeva al seguito di un dio e guardava dall'alto le cose che diciamo che sono essere, alzando la testa verso quello che è veramente essere. Perciò solo l'anima del filosofo mette le ali”. *Il ricordo assume le funzioni del concetto, di quello che si dirà poi astrazione dal contingente per addivenire all'essenza, “quello che veramente è”. Che si attinga alle esperienze di “un'altra vita” è solo un espediente, sia pure considerato reale, ma che supplisce bene a quello che poi si dirà intelletto agente, che alla fin fine non è altro che un “aldilà” ed un “oltre” la percezione sensibile che permette la comprensione. Abbiamo richiamato quello che oggi è il Dna, corrispondente in qualche modo alla metempsicosi nella dimensione bio-psichica del soggetto umano e di ogni vivente. Prima o poi tutto quello che gli antichi hanno “immaginato” trova corrispondenza in qualcosa che la scienza attuale ha o va rendendo credibile*. “È questa la conclusione cui perviene tutto il discorso sulla quarta forma di mania, ossia quella mania per la quale, quando uno veda la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera Bellezza, mette le ali... e non prendendosi cura delle cose di quaggiù riceve l'accusa di trovarsi in uno stato di mania... Ciascun'anima di uomo, per sua natura, ha contemplato gli esseri, altrimenti non sarebbe venuta in questo vivente... Restano poche le anime nelle quali è presente il ricordo in maniera sufficiente. Queste, quando vedono qualcosa che sia un'immagine della realtà di lassù, restano colpite e non rimangono più in sé. Però non sanno che cosa sia quello che provano, perché non lo percepiscono perfettamente”. 9- L'amore deriva dalla bellezza che è un tralucere dell'intelligibile nel sensibile. “Ora, della giustizia, della temperanza e di tutte quante le altre cose che hanno valore per le anime, nessun fulgore è presente nelle immagini di quaggiù. Ma solo pochi, mediante gli organi oscuri, avvicinandosi alle copie, a mala pena vedono l'originario modello che è riprodotto in quelle copie. Invece, allora, la Bellezza si vedeva nel suo splendore, in un coro felice avevamo una beata visione e contemplazione... essendo anche noi puri e non tumulati in questo sepolcro che ora ci portiamo appresso che chiamiamo corpo, imprigionati in esso come l'ostrica... La Bellezza... splendeva fra le realtà di lassù come Essere. E noi, venuti quaggiù, l'abbiamo colta con la più chiara delle nostre sensazioni, in quanto risplende in modo luminosissimo. Infatti, la vista, per noi, è la più acuta delle sensazioni... Ma con essa non si vede la Saggezza, perché, giungendo alla vista susciterebbe terribili amori... Ora invece solo la Bellezza ricevette questa sorte di essere ciò che è più manifesto e più amabile”. La funzione della vista per i greci corrisponde a quella dell'udito per la cultura biblica. Ogni Idea suprema susciterebbe amore se noi la vedessimo. Ora l'amore è legato al Bello appunto perché l'Idea del Bello ha il privilegio di essere visibile; le altre no. *Tutto questo mondo “trascendente” non è che il mondo delle Idee, dell'essere perfetto, cioè completo nella sua delimitazione e configurazione, non l'essere assoluto*.

10- Il modo in cui la bellezza mediante l'amore fa rinascere le ali dell'anima. “Colui che è di recente iniziato e che ha molto contemplato le realtà di allora, quando vede un volto di forma divina che imita bene la bellezza... dapprima sente i brividi... poi, guardandolo, lo venera come un dio... Ricevendo attraverso gli occhi l'effluvio della bellezza, si scalda nel

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punto in cui la natura dell'ala si alimenta... Lo stato dell'ala si gonfia e comincia a crescere... per tutta quanta la forma dell'anima. Infatti un tempo l'anima era tutta alata... In conseguenza... essa si trova in uno stato di grande turbamento per la stranezza di ciò che sente... e corre là dove pensa di poter vedere colui che possiede la bellezza... E allora gode, nel momento presente, di un piacere dolcissimo... Oltre che onorare colui che ha la bellezza, ha trovato in lui l'unico medico dei suoi grandissimi mali”. *Questa bellissima descrizione ha per la nostra sensibilità un solo limite: “la bellezza di un ragazzo”, dove l'uomo e la donna sono considerati espediente riproduttivo. Quando il cristianesimo esalterà in modo estremo il celibato, non farà che confermare tale concezione strumentale del rapporto eterosessuale, riservando alla Bellezza-Dio quello che per i greci era l'oggetto-soggetto d'amore*. 11- Ognuno si sforza di imitare il dio di cui è seguace nell'aldilà e nell'amore cerca l'anima corrispondente. “Ciascuno vive secondo il dio del cui coro era seguace, cercando di onorarlo e imitarlo... e sceglie il suo Eros fra i belli secondo la sua maniera... come se fosse un dio... E dal momento che hanno contatto con il dio, mediante il ricordo, essendo da lui invasati, assumono i suoi caratteri e le sue attività, nella misura in cui all'uomo è possibile essere partecipe del divino e poiché considerano l'amato causa di queste cose, lo amano ancora di più... e lo rendono nella misura del possibile somigliantissimo al loro dio”. Si tenga presente che proprio in questo Platone attua il rovesciamento radicale del modo in cui ai suoi tempi si intendeva l'omofilia. Si noti il piano totalmente diverso in cui il discorso è qui fatto, rispetto al piano in cui si muovono Lisia e gli altri. Eros deve cercare una assimilazione al divino sempre più elevata, in base alla temperanza, al pudore e alla retta opinione fondata sul Bene. *Tutto ben detto, ma, ripetiamo, Platone parte dall'omofilia come un dato di fatto così come parte dal corpo, parlandone pure come carcere, ma guardandosi bene dal suggerire un qualsiasi “suicidio”. Inoltre l'amore omofiliaco è pur sempre una realtà “sconvolgente” grazie al richiamo della sua bellezza*. “Lo portano ad assumere l'attività e la forma di quello in base alla loro possibilità... Cercano di renderlo simile... a se stessi e al dio che onorano”. *Noi oggi diremmo che l'amore sceglie in funzione della garanzia genetica che certamente si accompagna a tutti gli altri aspetti “spirituali” di cui si parla in rapporto al cosiddetto dio o genius naturae. Ma ai greci interessavano ben poco in questo contesto le finalità riproduttive, lasciando “scoperto” per noi il loro modo d'intendere l'amore come forza decisiva per accedere ai livelli più alti della speculazione filosofica. Osserviamo tutto questo per permetterci, se del caso, di rintracciare elementi superstiti di simili concezioni anche in epoca cristiana*.

12- Ripresa del mito dell'anima come “carro alato” per spiegare le passioni connesse all'amore. “Quello dei due cavalli che si trova nella posizione migliore... non richiede la frusta e lo si guida soltanto... con la parola. L'altro... mal formato... a stento ubbidisce ad una frusta fornita di pungoli. Ora, quando l'auriga... è riempito... del desiderio, quello dei due cavalli che è ubbidiente all'auriga... si trattiene dal balzare addosso all'amato. Invece, l'altro cavallo, che non è sensibile né ai pungoli dell'auriga né alla frusta, si lancia con balzi violenti e, procurando molti inconvenienti al compagno e all'auriga, li costringe a procedere verso l'amato e a fargli memoria dei piaceri di Afrodite... Ma alla fine, quando non vi è più possibilità di porre limite al male, cedono e concedono di fare quello che viene imposto... Quando l'auriga lo vede, la sua memoria viene riportata alla natura del Bello, e di nuovo la vede collocata insieme alla Temperanza su un piedistallo immacolato”. Si tenga presente questo accostamento che si impone come emblematico: il Bello e la Temperanza, collocati insieme sul piedistallo immacolato, significano il nesso strutturale che Eros deve rispettare per raggiungere il suo vero obiettivo. Si ricordi, inoltre, che il concetto di temperanza (perfetto dominio di sé, moderazione e giusto equilibrio secondo ragione), predomina da un capo all'altro del Fedro. “E quando il cavallo malvagio, subendo il freno dell'auriga più volte, fa cessare la sua protervia, umiliato si lascia ormai guidare dalla previdenza dell'auriga e, quando vede il bello, si sente venir meno per la paura... Infatti non si verifica mai che un malvagio sia amico di un malvagio, né che un buono non sia amico di un buono”. 13- Il

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flusso dell'amore e i suoi effetti. “Il flusso d'amore, scorrendo abbondante verso l'amante, dapprima penetra in lui, e dopo che lo ha completamente riempito, trabocca. E come un colpo di vento e una eco, rimbalzando da corpi levigati e solidi, ritornano proprio là da dove sono pervenuti, così procede il flusso della bellezza, ritornando per rimbalzo, attraverso gli occhi, al bello amato. E attraverso gli occhi può per sua natura arrivare all'anima e dopo esservi giunto e averla sollecitata, irriga i condotti delle penne e le fa rinascere e riempie d'amore anche l'anima dell'amato... L'innamorato pertanto ama, ma non sa dire che cosa... Vede se medesimo nell'innamorato come in uno specchio, ma non lo sa... Ha un desiderio che è simile a quello che ha l'altro, ma più debole... E quando giacciono insieme non è ormai più in grado di opporre difficoltà, da parte sua, per concedere all'innamorato i propri favori se viene pregato di farlo. Ma il cavallo compagno di giogo, insieme all'auriga, si oppone unitamente al pudore e alla ragione”. Splendido concetto che nell'età cristiana verrà chiamato tentazione e superamento di essa. L'intera pagina ha una straordinaria profondità psicologica.

14- Quando l'amore ridà le ali all'anima e quando no. “Dunque se vincono le parti più elevate dell'anima e conducono ad una vita ordinata e alla filosofia, costoro trascorrono la vita di quaggiù in modo felice e in armonia, perché hanno il dominio di sé e sono moderati, avendo sottomesso ciò da cui deriva nell'anima il male e liberato ciò da cui deriva la virtù. E giunti al termine della vita, ridivenuti alati e leggeri, hanno vinto una delle tre gare che sono veramente olimpiche che costituisce un bene rispetto al quale né l'umana temperanza né la divina mania ne possono offrire uno maggiore. Invece, se essi hanno seguito un tipo di vita piuttosto grossolana, e di chi non è filosofo, ma è in cerca dell'onore... può accadere che essi operino quella scelta che secondo i più è quella più felice e che la mandino ad effetto... Al termine della vita escono dal corpo senza ali, ma con il desiderio di rimetterle. Di conseguenza, riportano un premio non piccolo dalla loro mania d'amore. Infatti non è legge che scendano nelle tenebre per il cammino sottoterra quelli che hanno già una volta incominciato il viaggio sotto la volta del cielo, bensì che, trascorrendo una vita luminosa, siano felici mentre compiono insieme il viaggio, e che, quando rimettono le ali, in grazie dell'amore le rimettano insieme”. *Insomma per Socrate l'“amore grossolano” costituisce una fase da superare per una “scelta più felice”, perché la partecipazione alla sua “mania” garantisca la condivisione del bello-bene*. 15- Conclusione della palinodia di Socrate. “Queste cose così grandi e così divine, ragazzo mio, ti porterà in dono l'amicizia di chi è innamorato. Invece, la compagnia di uno che non sia innamorato, mescolata con temperanza mortale, capace di amministrare cose mortali e povere, dopo aver infuso nell'anima amata una grettezza, che dalla moltitudine viene elogiata come virtù, la farà girare priva di intendimento intorno alla terra e sotto la terra per novemila anni”. *L'innamoramento omofiliaco non solo è positivo, ma indispensabile, anche se in una prospettiva “spirituale”*.

VI- Interludio teoretico. Esplicitazione del tema cardine del dialogo: come deve essere

fatto un discorso (257B - 258E). “Allora questo è chiaro ad ognuno, ossia che per sé non è cosa brutta lo scrivere discorsi... Questo invece io ritengo che sia brutto: il parlare e lo scrivere in maniera... brutta e cattiva... Su tali cose dobbiamo esaminare Lisia o chiunque altro abbia qualche volta scritto e che scriverà uno scritto sia politico sia privato”.

VII- Intermezzo poetico. Il mito delle cicale (258E - 259B). “Si dice che le cicale un tempo

fossero uomini... Da loro nacque... la stirpe delle cicale... Sono queste che, più di tutte le Muse, avendo cura del cielo e dei discorsi divini e umani, mandano un bellissimo suono di voce”.

VIII- Parte quarta. Quali sono i corretti criteri metodologici di fare discorsi (259E - 274B). 1-

Il discorso deve fondarsi sul vero e non sull'opinione. “I discorsi... è necessario che implichino che l'animo di chi parla conosca il vero intorno alle cose su cui si accinge a parlare... Bisogna esaminare se essi dicano qualcosa di valido... Una vera arte del dire che

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non tocchi la verità... non c'è e non ci sarà mai”. 2- Non c'è vera arte di fare discorsi senza vera filosofia. “Dunque, o nobili esseri, venite avanti e convincete Fedro... che, se non filosofa in maniera adeguata, non sarà mai capace di parlare di nulla... Se ignora la verità di ciascuna cosa, non sarà capace di distinguere la somiglianza della cosa che ignora, piccola o grande che sia, rispetto alle altre cose... Dunque in coloro che hanno opinioni contrarie agli esseri e si ingannano, è evidente che questo inganno che subiscono viene ad insinuarsi mediante certe somiglianze... E allora è possibile che qualcuno possegga l'arte di condurre in direzione diversa a poco a poco, mediante somiglianze, portando di volta in volta dall'essere al suo contrario... Dunque, o amico, ci procurerà un'arte dei discorsi ridicola e priva di arte colui che non è a conoscenza della verità, ma è andato a caccia di opinioni”. 3- Esame critico del discorso di Lisia. “Per un caso di fortuna, come sembra, sono stati pronunciati i due discorsi che costituiscono ciascuno un certo esempio di come chi conosce il vero, facendo delle parole un gioco, porti gli ascoltatori fuori strada... Dobbiamo dire in che cosa Lisia sbaglia... Quando dice 'giusto' o 'bene' siamo portati uno da una parte e uno dall'altra... mentre colui che intende mettere in pratica l'arte oratoria, in primo luogo deve aver distinto con metodo queste due cose ed aver colto i caratteri propri di ciascuna delle due forme... In riferimento poi a ciascun oggetto... deve cogliere con acutezza a quale dei due tipi di cose appartenga ciò di cui si accinge a parlare... Ma anche Lisia al principio del suo discorso d'amore ci costringeva a concepire l'amore come una certa realtà che lui aveva in mente e organizzando in relazione a questo tutto ciò che segue, ha condotto a termine il discorso... Pare che sia ben lungi dal fare quello che noi cerchiamo, prendendo le mosse non dal principio, ma dalla fine... e le parti del discorso sono buttate lì senza alcun ordine... Mi è sembrato che lo scrittore dicesse in una maniera rozza quello che gli veniva in mente... Ogni discorso deve essere composto come un essere vivente che abbia un suo corpo, sicché non risulti senza testa e senza piedi, ma abbia le parti di mezzo e quelle estreme scritte in maniera conveniente l'una rispetto all'altra e rispetto al tutto”. È questa una bellissima definizione dello scritto come un tutto organico e che Platone stesso ha seguito nel comporre i suoi scritti.

4- Esame critico dei due discorsi di Socrate. “Questi discorsi erano in qualche modo contrari: uno diceva che bisogna concedere i propri favori a chi è innamorato, l'altro invece a chi non è innamorato...'con mania', visto che l'amore è una certa mania... Ci sono due forme di mania: una derivante da malattie umane, l'altra invece derivante da un divino mutamento radicale delle comuni consuetudini... Della divina mania abbiamo distinto quattro parti... e abbiamo detto che la mania amorosa è la migliore”. 5- Il metodo dialettico usato nei discorsi socratici: analisi diairetica e unificazione sinottica. “Ci sono due forme di procedimento:... la prima... consiste nel ricondurre ad un'unica Idea, cogliendo con uno sguardo d'insieme le cose disperse in molteplici modi... Ad esempio... su Eros, dopo aver definito ciò che è, sia che sia detto bene sia che sia detto male, è proprio da questa definizione medesima che il discorso ha tratto chiarezza e coerenza con se medesimo... L'altra forma... consiste nel saper dividere, secondo le Idee, in base alle articolazioni che hanno per natura e cercare di non spezzare nessuna parte... E di queste forme di procedimento, proprio io sono un amante, o Fedro, ossia delle divisioni e delle unificazioni al fine di essere capace di parlare e di pensare. E se ritengo che qualcun altro sia capace di guardare verso l'Uno e anche sui molti, io gli vado dietro seguendo le sue orme come quelle di un dio. E questi... io finora li chiamo 'dialettici'”. *Come si vede Platone non ha alcuna riserva nel richiamare i primi principi dell'Uno e della Diade, ben sapendo che da quegli “estremi” deriva la giustificazione e la praticabilità della sua ricerca sulle Idee che “veramente sono”. L'al-di-sopra e l'al-di-sotto garantiscono la dialettica dell'essere definito, protetto da quell'infinitesimo che avrebbe intrappolato il pensiero umano. Dal “lassù” e dal “laggiù” si aspetta l'opera della dialettica che si esplica nell'ambito della giusta misura come esito dell'analisi diairetica e dell'unificazione sinottica. Quello che rende efficace in senso pratico questo processo è la proporzione che, mentre imbriglia adeguatamente l'infinitesimo, non ne prescinde come indicato dalla sua determinazione numerica irrazionale. Questa, se da una parte permette

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l'approssimazione al vero oggettivo, dall'altra mantiene aperta la prospettiva della Verità. Non so se quello che dico sia condivisibile o risulti del tutto incongruo, ma se mi sono convinto io solo ad un certo punto e con mia grande sorpresa che esistesse un “espediente” capace di rendere praticabile la mente umana prescindendo da motori immobili, vista l'identica trafila culturale condivisa con gli esperti, non capisco perché non possa essere condivisa da qualcun altro. Il vero problema di Platone era l'impegno dialettico, riservato al più bravo, ma tale perché rispondeva meglio alle acquisizioni cui lui stesso era pervenuto*.

6- I criteri seguiti dagli oratori nel fare i loro discorsi. “Per primo viene il proemio... Al secondo posto viene la narrazione e, in terzo luogo, vengono le testimonianze. In quarto luogo viene la verosimiglianza. In fine vengono conferma e riconferma... E poi ci sono confutazione e contro confutazione... le insinuazioni e gli elogi indiretti... e biasimi indiretti in versi, per aiutare la memoria... L'arte ha bisogno di discorsi non lunghi né brevi, ma di giusta misura... Citiamo anche... la ripetizione di parole, il procedimento sentenzioso, l'uso delle immagini... una certa correttezza del linguaggio e molte altre cose... Per quanto riguarda la conclusione dei discorsi... alcuni le danno il nome di ricapitolazione, altri, invece, un altro nome”. Ha ripreso il tutto dagli autori e dalla letteratura del tempo. 7- Inconsistenza di questo tipo di arte di fare discorsi. “Fedro: ma allora l'arte di colui che è veramente oratore e persuasivo, come e da dove la si potrebbe acquistare?”. 8- La vera arte dei discorsi si fonda sulla conoscenza dell'essenza. “O Fedro, se hai per natura la dote di essere oratore, potrai diventare un oratore rinomato, se aggiungerai ad essa scienza ed esercizio... Si dà il caso che Pericle sia stato il più perfetto di tutti nell'oratoria... Tutte le grandi arti hanno bisogno di discussione e di indagini celesti sulla natura... e Pericle è pervenuto alla natura dell'intelletto e della ragione... e di qui ricavò quello che era utile per l'arte dei discorsi... Il modo di procedere dell'arte medica è lo stesso di quello dell'arte oratoria... In tutte e due si deve dividere una natura: nell'una quella del corpo, nell'altra quella dell'anima... Ma non è possibile conoscere la natura dell'anima, senza conoscere la natura dell'intero... Prima di tutto bisogna vedere se è semplice o se include più forme... Poi, qualora sia semplice, bisogna pensare alla sua potenza d'agire e su che cosa e quale sia la potenza di patire e da che cosa. Se invece ha molteplici forme... bisogna vedere per ciascuna di esse quello che si vede quando è un'unità, ossia per che cosa possa per natura agire essa stessa o per quale patire e da che cosa”. Richiamo allusivo alla complessa struttura del mondo ideale, che si articola come unità-e-molteplicità con scansione numerica (Idee-numeri). Le molteplici forme vanno enumerate per giungere ad esaminare ciascuna nella dimensione dell'unità. *In questi numeri predomina la proporzione in funzione della giusta misura*.

9- L'oratore deve conoscere anche la natura dell'anima a cui si rivolge. “Dimostrare con precisione l'essenza della natura di ciò a cui rivolgerà il discorso... ed appunto a questo tende tutto il nostro sforzo... Prima di tutto e con tutta precisione descrivere e far vedere l'anima se per natura è una e uguale o se invece... è multiforme... In secondo luogo quale capacità ha per natura di agire... e di patire... In terzo luogo, dopo aver messo in ordine i generi dei discorsi e quelli dell'anima e le loro caratteristiche, dovrà passare in rassegna tutte le cause, connettendo ciascun genere di discorsi con ciascun genere di anime”. 10- L'oratore deve fare i discorsi corrispondenti ai tipi diversi di anime a cui si rivolge. “Poiché la potenza del discorso consiste nella guida delle anime, chi vuole essere oratore è necessario che sappia quante forme ha l'anima... Di conseguenza alcuni uomini sono di un certo tipo, altri di un altro tipo... Poi deve essere capace di tener dietro ad esse con acuta sensibilità... e dire a se medesimo: 'questo è quell'uomo e questa è la natura intorno alla quale a suo tempo si riferivano i discorsi e poiché ora è di fatto qui presente, ad essa bisogna fare questi discorsi in questo modo per convincerla di queste determinate cose'... Allora l'arte è realizzata in modo bello e compiuto”. *Le indicazioni, ancora strategiche, forse le afferra un demagogo, mentre dovrebbero servire al filosofo che arricchisce i discepoli*. 11- La verità, il verosimile e il persuasivo e i loro nessi con i discorsi. “È possibile procedere per una via più corta e più liscia... Nei tribunali, della verità intorno a queste cose non importa proprio niente a nessuno,

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ma importa ciò che è persuasivo; e questo risulta essere il verosimile... e sono proprio queste cose che... affermano quelli che professano di possedere l'arte dei discorsi”. 12- Conclusioni: la vera arte di fare discorsi deve piacere soprattutto agli dèi più che agli uomini. “Se uno non saprà enumerare le nature di coloro che ascolteranno e finché non sarà capace di dividere gli esseri secondo le forme e di raccoglierli in un'Idea, ciascuno secondo un'unità, non sarà mai in possesso dell'arte dei discorsi nella misura in cui è possibile a un uomo. Ma queste cose non si potrà mai acquistarle senza molte applicazioni... al fine di poter dire cose che siano gradite agli dèi e di fare tutto in modo ad essi gradito, per quanto è possibile... Se la strada da percorrere è lunga, non ti meravigliare... Ma per chi intraprende cose belle, è bello anche soffrire, qualsiasi cosa gli tocchi”. *L'obiettivo di Platone non è la studioso diligente capace d'impossessarsi delle nozioni, ma piuttosto l'esito di una ricerca incessante motivata da qualche obiettivo avvincente fino a pervenirvi, trovandosi così in una situazione di limpidezza e chiarezza mai prima raggiunta e capace di mettere ordine perfino nell'esaustività dell'acquisito*.

IX- Parte quinta. Superiorità dell'oralità rispetto alla scrittura (274B - 278E). Ricordiamo che

questa parte nei più recenti studi è diventata centrale, perché contiene una delle più cospicue “autotestimonianze” di Platone come scrittore e come filosofo. Essa, infatti, contiene la giustificazione teoretica della necessità delle Dottrine non scritte e della insufficienza dello scritto, in quanto strutturalmente esso ha sempre bisogno di un soccorso. 1- La scrittura non accresce né la sapienza né la memoria degli uomini. “Resta ora da parlare della convenienza dello scritto, quando esso vada bene e quando sia invece non conveniente”. Lo scritto non è conveniente qualora si debbano esprimere cose di maggior valore, che il filosofo comunica nella dimensione dell'oralità. “Io posso narrarti, o Fedro, una storia tramandataci dagli antichi... Dicono che il dio egizio Theuth per primo abbia scoperto i numeri, il calcolo, la geometria e l'astronomia e poi il gioco del tavoliere e dei dadi e, infine, anche la scrittura... E il re domandò quale sia l'utilità di ciascuna... Ma quando giunse alla scrittura Theuth disse: 'Questa conoscenza renderà gli Egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è ritrovato il farmaco della memoria e della sapienza'. E il re rispose: 'Tu essendo padre della scrittura, per affetto hai detto proprio il contrario di quello che essa vale. Infatti, la scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei e non dal di dentro e da se medesimi... Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità... perché sono diventati portatori di opinioni invece che sapienti”. *Ogni conquista non è puro e semplice progresso, ma anche semplificazione e in quanto tale il suo primo impatto socio-culturale mette in discussione l'apparato esistente. Internet oggi è “mezzo” di cultura universale, ma richiede criteri di selezione maturati nella formazione, di cui la scuola deve farsi carico se non vuole rendersi responsabile dello spappolamento dell'unità nella molteplicità. Sarà compito del “sapiente” correre ai ripari per garantire alle capacità intellettuali di nuova formazione quel protagonismo finora praticato da quelle tradizionali, ma ormai desuete se non destinate al museo della cultura. Per chi ha peregrinato per librerie, musei ed archivi alla ricerca dei materiali culturali per i suoi studi, ringrazia con inesausta riconoscenza tecnologia e tecnologi attuali che gli offrono l'universo ad un semplice clic. Si rammarica di una cosa sola: che non gli sia offerta, honoris causa, un'altra trentina d'anni*.

2- Lo scritto non sa aiutarsi e ha bisogno del soccorso del suo autore. “Una volta che un discorso sia scritto, rotola da per tutto, nelle mani di coloro che se ne intendono e così pure nelle mani di coloro ai quali non importa nulla... e ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, perché non è capace di difendersi e di aiutarsi da solo”. 3- Le ragioni della superiorità dell'oralità sulla scrittura. “È il discorso che viene scritto, mediante la scienza, nell'anima di chi impara, e che è capace d difendersi da sé e sa con chi deve parlare e con chi deve tacere”. 4- Lo scritto come forma di gioco e la serietà dell'oralità. “L'agricoltore che ha senno

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non farà sul serio seminando d'estate nei 'giardini di Adone' i semi che gli stanno a cuore e dai quali vuole che nascano i frutti e non si rallegrerà nel vederli crescere belli in otto giorni, se non per gioco, se pur lo farà. Invece, i semi dei quali si preoccupa sul serio li seminerà in luogo adatto, seguendo tutte le regole dell'arte dell'agricoltura, contento che quanti ne ha seminati giungano al loro termine in otto mesi... Chi ha scienza del giusto, del bello e del buono... se vorrà fare sul serio, non le scriverà nell'acqua nera, seminandole mediante la cannuccia dello scrivere, facendo discorsi che non sono capaci di difendersi da soli col ragionamento e che non sono nemmeno capaci di insegnare la verità in modo adeguato... Ma molto più bello diventa l'impegno su queste cose, quando si faccia uso dell'arte dialettica e con essa, prendendo un'anima adatta, si piantino e si semino discorsi con conoscenza, che siano capaci di venire in soccorso a sé e a chi li ha piantati, che non restino privi di frutto, ma portino seme, dal quale nascano anche in altri uomini altri discorsi, che siano capaci di rendere questo seme immortale e che facciano felice chi lo possiede, nella misura più grande che all'uomo sia possibile”. Questa è l'idea centrale da cui oggi si deve partire per rileggere Platone.

5- Chiarezza e compiutezza sono proprie dell'oralità. “Circa lo scrivere discorsi... a regola d'arte... prima di tutto bisogna che uno sappia il vero su ciascuna delle cose sulle quali parla o scrive e sia in grado di definire ogni cosa in se stessa e... sappia dividerla nelle sue specie fino ad arrivare a ciò che non è più ulteriormente divisibile e, dopo essere penetrato nella natura dell'anima, ritrovando allo stesso modo la specie adatta per ciascuna natura, bisogna che costruisca e ordini il suo discorso in modo corrispondente... Infatti, il non distinguere la veglia dal sonno per quanto concerne il giusto e l'ingiusto, il male e il bene, la cosa non può non essere per davvero, vergognosissima, quand'anche la moltitudine lo lodi... I migliori discorsi non sono altro che mezzi per aiutare la memoria di coloro che già sanno;... e solo nei discorsi scritti realmente nell'anima intorno al giusto e al bello e al bene c'è chiarezza e compiutezza e serietà”. Si ricordi che le lezioni orali di Platone si chiamavano appunto Intorno al Bene. Il messaggio platonico nella dimensione della realtà dialettica è ciò che egli ha scritto nelle anime nei dovuti modi. 6- Il filosofo non affida le cose di maggior valore alla scrittura, ma all'oralità. “Chiunque ha composto opere scritte... sapendo come sta il vero ed è in grado di soccorrerle quando viene a difendere le cose che ha scritto... è giusto chiamarlo filosofo, ossia amante di sapienza”. Il filosofo è filosofo se e nella misura in cui ha un plus rispetto a ciò che scrive. Se tutto quello che ha da dire è solo ciò che sa scrivere, allora non è filosofo.

X- Messaggio a Lisia e a Isocrate (278E - 279B). “Non ci sarebbe da meravigliarsi se

Isocrate, con l'avanzare della sua età, per quanto riguarda quegli stessi discorsi dei quali ora si occupa, superasse più che se fossero dei ragazzi quanti si sono occupati dei discorsi, e inoltre se, non bastandogli queste cose, un impulso divino lo portasse a cose ancora più grandi. Infatti, o caro, c'è una certa filosofia nel pensiero di quell'uomo. Tali cose, dunque, faccio sapere, da parte degli dèi di questo luogo, al mio amato Isocrate”. Platone vuole dire questo: Isocrate rimane non altro che una bella promessa; è certamente in possesso di eccellenti doti (divino impulso e una certa filosofia), ma non le matura e non le attua. Quelle grandi doti di Isocrate non bastano: si può essere potenzialmente un grande retore, ma restare tale.

XI- Epilogo. La preghiera del filosofo a Pan (279B - C). “Concedetemi di diventare bello di

dentro e che tutte le cose che ho di fuori siano in accordo con quello che ho dentro. Che io possa considerare ricco il sapiente e che io possa avere una quantità di oro quale nessun altro potrebbe né prendersi né porta via, se non il temperante”. Oro sta per “sapienza”, e il filosofo chiede di ottenere tanta sapienza quanto il “temperante” (ossia colui che sa che solo dio ha la totalità della sapienza, ma sa anche di essere decisamente superiore ai sofisti e alla loro apparente sapienza) possa guadagnare. *Da sottolineare in questo dialogo è la dottrina

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delle Idee, il vero essere che sta sopra il cielo o iperuranio, contemplato solo dall'intelletto ed intorno a cui verte la conoscenza vera, e la dottrina dei Principi primi Uno e Diade indefinita di grande e piccolo, cui si accompagna la sottolineatura della superiorità dell'oralità sulla scrittura, in ragione di un rapporto interpersonale della verità più che dogmatico. Tuttavia ci si rende conto che il compito più gravoso ed efficace, nell'ambito del possibile, è l'analisi e la distinzione degli argomenti fino a raggiungere la natura o Idea di ogni cosa tramite l'intelletto, per cui tutto si basa sopra una tale analisi diairetica ed unificazione sinottica fatta in autonomia intellettuale. I principi costituiscono i limiti metafisici del definito, non la spiegazione dell'esistente che si eleva dalla sua condizione di particolare grazie alla bellezza o giusta misura che rileva nella forma il riflesso dell'Idea corrispondente, cioè, nell'incessante divenire, l'istante della forma. Il pensiero platonico è autonomo, ma non ripiegato e la dottrina delle Idee non configura un qualsiasi dualismo della metafisica classica come si continua a ritenere, ma rappresenta l'essere “perfetto” nel senso di completo nell'ambito cioè dell'essere definito*.

13- Alcibiade Maggiore ♣ Sulla natura dell'uomo. “L'anima, dunque, ci ordina di

conoscere colui che comanda di conoscere se stessi” (130 E). “Socrate: Ma è forse facile conoscere se stessi ed era un buono a nulla colui che ha posto quell'iscrizione sul tempio di Delfi, oppure si tratta di una cosa difficile e non alla portata di tutti? Alcibiade: Molte volte, Socrate, mi è sembrata una cosa alla portata di tutti, molte volte, invece, assai difficile. Socrate: Tuttavia, Alcibiade, che sia facile oppure no, per noi la questione si pone così: conoscendo noi stessi potremo sapere come dobbiamo prenderci cura di noi, mentre, se lo ignoriamo, non lo potremo proprio sapere” (129 A). Presentazione, traduzione e note di Maria Luisa Gatti. I personaggi sono due, Socrate e Alcibiade. Varie le tesi sulla sua più o meno sicura autenticità.

I- Prologo (103A - 106C). “Socrate: In questo tempo, osservando come ti comportavi con i

tuoi amanti, ho fatto le seguenti considerazioni: benché fossero molti e alteri, sono fuggiti tutti via da te, sopraffatti dalla tua superbia... Tu sostieni di non aver bisogno di nessuno... Pensi di essere di essere il più bello e il più grande... di appartenere alla stirpe più potente della Città... di avere... amici e parenti molto numerosi e nobili... sopratutto Pericle che tuo padre lasciò come tutore a te e a tuo fratello... Aggiungerò poi anche che sei da annoverare fra i più ricchi... Insuperbito da tutte queste doti, hai preso il sopravvento sui tuoi amanti e quelli, essendoti inferiori, si sono lasciati dominare da te... Perciò, so bene che ti chiedi stupito che cosa abbia in mente io, che non rinuncio al tuo amore... Si deve avere ugualmente il coraggio di dire quello che si pensa... Pensi... di diventare il più potente della Città... che devi comandare in Europa... passare in Asia... Non mi sembra che tu voglia vivere nemmeno accontentandoti di questo, senza poter riempire tutto, per così dire, del tuo nome e della tua potenza... Che la tua speranza sia riposta in quanto detto è per me una certezza, non una congettura... Ebbene è impossibile che tu porti a compimento tutti questi tuoi intenti senza di me... Così anch'io spero di acquistare presso di te il massimo potere, dopo averti dimostrato di essere del tutto degno della tua stima”. *Lo stile non sembra convenire al Socrate-Platone che conosciamo. Sarà una variazione sul tema, ma il dubbio rimane*.

II- Discussione su ciò che è meglio per la Città (106C - 109D). 1- Impreparazione di

Alcibiade come consigliere dell'Assemblea. “Tu se intenzionato a presentarti fra poco agli Ateniesi, per dar loro consigli... Penso, infatti, che il consigliare spetti a chi conosce e non a chi è ricco... Ma che il consigliere sia povero o ricco non interesserà per nulla agli Ateniesi... Pertanto di che cosa si dovranno occupare, perché tu ti levi a dare consiglio con cognizione di causa?... Quali sono gli affari sui quali essi deliberano, cui tu fai riferimento?... Si tratta della guerra, o Socrate, o della pace o qualche altra questione pubblica”. 2- Il meglio come oggetto della deliberazione dell'Assemblea. “Ebbene poiché hai attribuito il termine 'meglio'

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sia all'accordare la cetra... sia al fare la lotta... cerca almeno di imitarmi. Io infatti ho risposto che il meglio è ciò che è del tutto corretto ed è tale ciò che viene prodotto secondo l'arte... Allora fa' attenzione e cerca di dirmi a che cosa miri il meglio nel fare la pace e nel combattere con quelli con cui si deve... Ci accusiamo a vicenda... di essere ingannati o di subire violenza o di essere defraudati... In modo giusto o ingiusto?... Questa è la differenza in tutto e per tutto... Allora il meglio sul... combattere o no... sarà quello più giusto”.

III- Discussione sulla giustizia (109D - 113C). 1- Ignoranza di Alcibiade e del popolo

riguardo alla giustizia. “Se lo hai imparato da un maestro che ti ha insegnato a distinguere quello che è più giusto da quello che è più ingiusto... dillo anche a me, perché anch'io diventi suo discepolo”. *Non insistiamo su questo punto, perché questo è un dialogo “vezzo” che conferma più che a sufficienza la sua dubbia attribuzione*. 2- Osservazioni sul metodo dialogico. “Riguardo al giusto e all'ingiusto si è detto che il bell'Alcibiade non sapeva nulla, benché credesse di conoscerlo ed intendesse presentarsi all'assemblea per consigliare gli Ateniesi su ciò che ignorava”.

IV- Discussione sull'utile (113D - 118B). 1- Ignoranza di Alcibiade sull'utile. “Penso, o

Socrate, che gli Ateniesi e gli altri Greci deliberino raramente su ciò che è più giusto o più ingiusto... ma considerano che cosa sia più utile fare. Non credo davvero che l'utile e il giusto siano la stessa cosa... Ma io, soggiunge Socrate, messi da parte i tuoi tentativi di discussione, nondimeno ti chiederò di nuovo donde abbia imparato a conoscere l'utile... e non giungerai a dimostrare di conoscere l'utile”. 2- Identità di giusto e utile sulla base dell'identità di giusto, bello, buono e utile. “Fra le cose ottime annoveri il coraggio, fra le pessime la morte... Allora prestare aiuto in guerra agli amici, per il fatto che è bello, in quanto è un'azione di bene, ossia di coraggio, lo hai definito bello... ma invece è cattivo in quanto è un atto di male, ossia produce la morte... Dunque in quanto buona è bella, mentre in quanto cattiva è brutta... Nessuna dunque delle due azioni belle, in quanto bella, è cattiva, mentre nessuna di quelle brutte, in quanto tale, è buona... Chi compie un'azione bella vive anche bene... e coloro che vivono bene sono felici... Allora il vivere bene è buono... e una buona vita è bella... Di nuovo dunque bello e buono ci appaiono identici... e ciò che è buono è utile... Riguardo al giusto... avevamo convenuto che chi compie delle azioni giuste realizza necessariamente delle azioni belle... e chi compie azioni belle, fa anche azioni buone... e che le azioni buone sono utili... Le azioni giuste quindi sono utili... Se dunque uno si alzerà per dar consigli... e dichiarerà che ciò che è giusto talvolta è male, che cos'altro potrai fare se non ridere di lui, dato che anche tu affermi l'identità di giusto e utile?”. 3- La peggiore ignoranza è credere di sapere quello che non si conosce, soprattutto se si tratta della giustizia. “Su quello che non conosci, ma sai di non sapere... in tal caso pretendi di avere una tua opinione... e gli errori nell'agire dipendono... dal fatto che, non sapendo, si crede di sapere... Pertanto, tra coloro che non sanno, solo questi vivono senza commettere errori, dato che si affidano ad altri su ciò che ignorano... Quelli che sbagliano non sono sicuramente quelli che sanno... Allora poiché non sono né quelli che sanno né, tra gli ignoranti, quelli che sanno di non sapere, altri non saranno che coloro che non sanno, ma credono di sapere... Pertanto non puoi presentare qualcosa più grande del giusto, del bello e dell'utile”. *La categoria di “quelli che sanno di non sapere” collocati “tra gli ignoranti” risulta estranea all'impostazione etica socratico-platonica, perché di per sé dovrebbe corrispondere ai veri sapienti che come lui “sanno di non sapere”. L'ignoranza poi non è un tratto esclusivo di chi presume di sapere pur non sapendo, ma in particolare di chi irride ogni etica, dimostrando il tipico tratto dell'ignorante malvagio*.

V- Intermezzo. Necessità della “cura di se stessi” per essere veri uomini politici (118B -

124B). 1- Ignoranza di Pericle. “Alcibiade... tu vivi nella massima ignoranza... e per questo ti getti nella politica prima di esserti preparato ad essa... In questa condizione non ti trovi solo tu, ma anche la maggior parte di coloro che si occupano della Città, tranne pochi, fra cui il

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tuo tutore Pericle... Una bella prova della effettiva conoscenza di qualcosa è l'essere in grado di farla imparare ad un altro... I figli di Percile sono due sciocchi”. 2- Errore di Alcibiade, che crede di avere come rivali degli Ateniesi. “Ora invece, poiché anche questi sono entrati nella vita politica senza nessuna preparazione che bisogno c'è di esercizio e formazione? So bene che li supererò di gran lunga con le mie doti naturali”. 3- I veri rivali di Alcibiade sono i re degli Spartani e dei Persiani. “La nostra città è sempre in guerra sia con gli Spartani, sia con il Gran re... e tu pensi di doverti misurare con il re degli Spartani e dei Persiani?... E ritieni che ti prenderesti maggiormente cura di te stesso se li temessi pensando che siano terribili... In questa tua opinione vi è un grave difetto... Le nature buone, se vengono anche educate bene, diventeranno perfette anche quanto a virtù”. 4- Nobiltà ed educazione, doti e ricchezze dei re Spartani e dei Persiani. *Continuano i “vezzi” di Socrate, ma non la sostanza*.

VI- Indagine sui compiti dell'uomo politico (124B - 127D). 1- Ricerca di ciò che rende

migliori e più capaci di comandare nella Città. “Dobbiamo cercare insieme il modo in cui si diventa migliori il più possibile... Abbiamo bisogno di studio, o meglio, ne hanno bisogno tutti gli uomini, ma noi due in modo speciale... Non bisogna desistere né cedere alla debolezza... Sosteniamo di voler diventare migliori... nella virtù degli uomini di valore... i saggi... quelli che sono in grado di comandare nella Città... quelli che hanno una vita comune nello Stato... a governare meglio la Città e assicurare la salvezza”. 2- La Città viene governata e salvata dall'amicizia e dalla concordia, che si basano su giustizia e conoscenza. “In una Città deve essere presente... un'amicizia reciproca e siano assenti l'odio e la contesa... Deve essere d'accordo... con se stesso... e anche con i singoli e la Città”.

VII- L'uomo è la sua anima (127D - 135E). 1- Chiarificazione del significato del “prendersi

cura di sé”. “Rispondere alle domande!... Quando uno lo rende migliore... se ne prende cura in modo corretto... Non è la stessa arte quella con cui ci si prende cura di sé e quella con cui ci si occupa di ciò che è proprio”. 2- La “cura di sé” è la conoscenza di se stessi. “Non potremo mai sapere quale arte renda migliore se stessi, mentre ignoriamo chi siamo noi stessi... Si tratta di una cosa difficile e non alla portata di tutti... Tuttavia conoscendo noi stessi potremo sapere come dobbiamo prenderci cura di noi, mentre, se lo ignoriamo, non lo potremo proprio sapere”. 3- L'essenza dell'uomo è l'anima, il corpo è solo il suo strumento. “L'uomo si serve di tutto il corpo... e l'uomo è chi si serve del corpo... e dell'anima... Se ne serve comandandogli... L'uomo è almeno una di queste tre cose: o anima, o corpo o entrambi insieme come un tutto unico... Se allora non è uomo né il corpo, né l'insieme di corpo e anima, resta, credo, da concludere o che l'uomo sia nulla, o che, se è qualcosa, non sia altro che anima... L'anima è l'uomo... Avremo una conoscenza rigorosa quando troveremo... che cosa sia questo se stesso... Pertanto... quando Socrate dialoga con Alcibiade... si rivolge... alla sua anima”. 4- Modi errati di “curarsi di se stessi”. “Chi si prende cura del corpo si cura di ciò che gli è proprio ma non di se stesso”. 5- Amare un uomo è amare la sua anima, non il suo corpo. “Se uno ama il corpo di Alcibiade, non ama Alcibiade, bensì una delle cose che appartengono... Ti ama solo chi ama la tua anima... Cerca allora di essere bello, quanto è possibile... Ma ciò che è tuo comincia a perdere la floridezza giovanile, mentre tu cominci a fiorire... Esercitati e impara ciò che si deve conoscere per entrare nella vita politica... Ci si deve curare dell'anima e mirare a questo”. 6- Per conoscere noi stessi dobbiamo guardare al divino che è in noi. “L'anima, se vuole conoscere se stessa, deve guardare nell'anima e soprattutto in quella parte in cui sorge la virtù dell'anima, la sapienza... Ebbene questa parte è simile al dio e chi la contempla conosce tutto ciò che è divino, dio ed il pensiero, giunge a conoscere anche se stesso il più possibile”. 7- Solo chi conosce se stesso è giusto e temperante e può governare la Città. “Conoscere se stessi è temperanza... Non conoscere noi stessi non sa che cosa vi sia in noi sia di cattivo, sia di buono... Se non conosce ciò che gli è proprio, ignorerà anche ciò che appartiene agli altri... e ciò che è proprio della Città... Non

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potrebbe essere un uomo politico... non saprà nemmeno che cosa fa... Sbaglierà... e si troverà male sia nella vita privata sia in quella pubblica... e non sarà felice... Pertanto non è possibile, se non si è temperanti e buoni, essere felici... Se hai intenzione di occuparti della Città in modo retto e bene, devi rendere partecipi i cittadini della virtù... Perciò tu devi innanzi tutto, acquistare la virtù... Devi procurare a te stesso e alla Città... giustizia e temperanza... e agirete in modo gradito al dio... Nell'agire guarderete a ciò che è divino e luminoso... e agirete secondo rettitudine e bene... Se invece vi comporterete ingiustamente... agirete in modo simile, ignorando voi stessi... In una Città e in tutti i tipi di governo di potere, privi di virtù, si avranno come conseguenza delle disgrazie”.

VIII- Conclusioni (135B - E). “Devi cercare per te e per la Città... la virtù... Ciò che è

migliore è anche più bello... e ciò che è più bello è più conveniente... La virtù è una condizione dei liberi... Bisogna fuggire lo stato servile... se il dio lo vuole... Vorrei che tu perseverassi, ma ho paura... nel vedere la forza della Città, che essa prenda il sopravvento su di me e su di te”. *Pur nel rispetto per la tradizionale attribuzione a Platone di simile dialogo, non ci si può sottrarre alla sensazione di un compitino saccente per nulla all'altezza di tanto maestro e che fa il verso alle metodologie platoniche senza altrettanta fruttuosità*.

14- Alcibiade minore ♣ Sulla preghiera. “Capita che presso gli dèi e presso gli uomini

assennati, siano onorate soprattutto la giustizia e la saggezza. Assennati e giusti non sono altri, se non quelli che sanno che cosa si deve fare e dire agli dèi e agli uomini assennati” (150 A-B). Presentazione, traduzione e note di Maria Luisa Gatti. Di dubbia attribuzione quanto il precedente dialogo; opera attribuibile piuttosto ad un socratico o ad un platonico d'epoca posteriore.

I- Prologo (138A - C). “O Alcibiade stai andando a pregare un dio... Non ti pare necessaria

una gran prudenza, perché non ti capiti di chiedere, senza saperlo, grandi mali, credendo che siano beni?”. *Sarà la stessa tematica di S. Agostino sulla preghiera fatta male, mali, malo, malum, mala ecc.*.

II- Discussione su assennatezza, conoscenza e preghiera (138C - 139D). 1- Tentativo di

identificazione di assennatezza e follia. “Abbiamo convenuto che alcuni sono dissennati, altri assennati, altri ancora pazzi... La follia è il contrario della assennatezza... Ma non potrebbero essere contrari ad uno stesso oggetto... Perciò dissennatezza e follia rischiano di essere identiche... e siccome nella Città sono pochi gli uomini assennati, mentre quelli più numerosi sono quelli privi di senno... saremmo stati percossi, battuti... Bada perciò se la questione non stia in altro modo”. 2- Vera soluzione del problema: distinzione in gradi della dissennatezza. “Gli artigiani esercitano parti distinte dell'arte... e proprio in tale modo è stata divisa anche la dissennatezza. Noi chiamiamo pazzi quelli che ne possiedono la parte maggiore e, invece, sciocchi e stupidi quelli che ne possiedono di meno... Si possono chiamare esaltati, o sempliciotti, o ingenui, inesperti e stolidi... Sono tutti tipi di dissennatezza, ma differiscono come un'arte ci sembra diversa da un'altra”. 3- Rapporti fra assennatezza e conoscenza e fra assennatezza e ignoranza. “Se ti apparisse il dio da cui ti stai recando... e ti promettesse anche questo... che oggi stesso tutti venissero a sapere che Alcibiade... è tiranno; ebbene penso che tu te ne andresti via contentissimo... Anche in cambio della tua vita?... Vedi, allora, come non è sicuro né accettare ciò che viene donato, senza riflettere, né chiedere che si realizzi, se può succedere di subire danni per questo o, perfino, di perdere la vita... Troverai inoltre che anche riguardo ai figli accade lo stesso... Dopo aver pregato per averne e averlo ottenuto, si sono travati nelle peggiori sventure e sofferenze... Un saggio poeta... compose una preghiera... all'incirca così: 'Zeus re, dacci i beni, sia che li chiediamo, sia che non li chiediamo, ma allontana i mali anche se li chiediamo'”. *Preghiera perfetta!*

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III- Discussione su scienza del Bene e preghiera (143A - 150B). 1- È meglio non sapere piuttosto che credere di sapere essendo ignoranti. “Non parliamo correttamente biasimando l'ignoranza così alla leggera, a meno che non aggiungiamo che l'ignoranza, riguardo a certe cose, per alcune persone e in particolari circostanze, è un bene, come per altre è un male... Se, all'improvviso, ti venisse in mente, credendo che questo sia meglio, di recarti, dopo aver preso un pugnale, da Pericle tuo tutore e amico... volendo uccidere proprio lui... se dopo essere entrato e averlo visto, non lo riconoscessi, scambiandolo con un altro, oseresti ancora ucciderlo? No per Zeus... Allora... è meglio non sapere per coloro che si trovano in questa condizione ed hanno tali intenti. Dunque, vedi che vi è un'ignoranza... per cui non sapere è un bene e non un male”. *La logica socratica non supporta gran che una tale prudenza, perché l'ignoranza è già effettiva nell'incongruenza dell'azione intrapresa come giusta*. 2- Opinione, scienza del Bene e politica. “È... inevitabile che, quando si sta per fare o dire qualcosa, si debba innanzi tutto... conoscere davvero quello che si sta per dire o per fare con prontezza... Ebbene, lo sarà chi... possiede nello stesso tempo la scienza di ciò che è meglio, che è poi proprio quella dell'utile... Pertanto ripetiamo di nuovo che la maggior parte delle persone erra riguardo al meglio, perché, per lo più, a quanto pare, si fida senza riflettere dell'opinione... Il possesso di altre scienze, senza quella di ciò che è meglio, raramente è utile, mentre per lo più danneggia chi ne gode... Bisogna perciò che una Città e un'anima che intendano vivere in modo giusto, siano attaccati a questa scienza”. *Si insiste a parlare di “questa scienza” anche se non se ne definisce le modalità di acquisizione, specie dopo averla insidiata con l'ignoranza e la presunzione di sapere*.

3- Vera e falsa preghiera. “Il poeta che abbiamo ricordato all'inizio della discussione chiedeva che i mali venissero tenuti lontano anche da coloro che li chiedevano... Gli Spartani... chiedono agli dèi di donare loro, oltre a ciò che è bene, ciò che è conveniente; nessuno li potrebbe sentir chiedere qualcosa di più... Spetta agli dèi, credo, di donare quello che viene chiesto nella preghiera, oppure il fare il contrario... Non credo, difatti, che gli dèi siano tali da lasciarsi corrompere da doni come un perfido usurario... Gli dèi badano all'anima per vedere se uno sia pio e giusto... Presso gli dèi e presso gli uomini sono onorate soprattutto la giustizia e la saggezza. Assennati e giusti sono quelli che sanno che cosa si deve fare e dire riguardo agli dèi e agli uomini”. *Ottimi auspici*.

IV- Conclusioni (150B - 151C). “Perciò, mi pare che la cosa migliore sia che tu te ne stia

calmo... attenda, finché qualcuno non ti insegni come ci si debba comportare con gli dèi e con gli uomini... Togliere innanzi tutto dall'anima la nube che ora vi si trova, per poi introdurvi ciò grazie a cui potrai conoscere il male ed il bene”. *Se nelle conclusione dell'Alcibiade Maggiore Socrate esprimeva il proprio scetticismo sull'educazione del suo alunno, in questo si dimostra più ottimista*.

15- Ipparco ♣ Sull'avidità di guadagno. “Socrate: Allora, secondo il tuo ragionamento,

tutti gli uomini sarebbero avidi di guadagno, sia quelli buoni, sia quelli cattivi. Amico: Sembra. Socrate: Dunque, chi accusa qualcuno di essere avido di guadagno, non si comporta rettamente. Anche chi muove questo rimprovero, infatti, si trova nella medesima condizione” (232 C). Presentazione, traduzione e note di Maria Luisa Gatti. Dialogo di dubbia attribuzione. Personaggi: Socrate ed un amico. Ipparco non partecipa alla discussione.

I- Definizioni della cupidigia (225A - 228A). 1- Prima definizione. La cupidigia come trarre

profitto da cose senza valore. “L'uomo avido di guadagno è consapevole del valore di ciò da cui fa conto di trarre vantaggio... Gli uomini avidi di guadagno sono coloro i quali, pur sapendo che si tratta di cose di nessun valore, ritengono tuttavia di dover trarre profitto da esse. Ma così... non vi è tra gli uomini nessuno che possa essere detto avido di guadagno”. 2- Seconda definizione. La cupidigia come brama smodata di oggetti di per sé senza valore. “Sono avidi di guadagno quelli che, per la loro insaziabilità, ogni volta bramano

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smodatamente oggetti insignificanti... Certamente senza sapere, carissimo, che sono oggetti di nessun valore... Gli uomini vengono danneggiati dalla perdita... e la perdita è un male... Ma il guadagno è il contrario della perdita... e dunque il guadagno è un bene... perciò tu chiami avidi di guadagno quelli che amano il bene... e non sono pazzi quelli che tu dici avidi di guadagno... Il guadagno è un bene... Quale dei due ragionamenti allora si dovrà seguire per non commettere errori?”. 3- Terza definizione. La cupidigia come trarre vantaggio da ciò che onesti rifiutano. “È esatto considerare avido chi cerca e pensa di trarre vantaggio da cose da cui gli uomini buoni non oserebbero farlo... Poco fa abbiamo convenuto che guadagnare equivale a ricevere giovamento... e abbiamo anche ammesso che tutti desiderano ciò che è bene e per sempre... Perciò anche i buoni desiderano ottenere ogni tipo di guadagno... non quei guadagni da cui finiranno con l'essere danneggiati... e subire una perdita... Ma il guadagno è il contrario della perdita la quale è un male... e il contrario del male sarà un bene”.

II- Intermezzo. Elogio di Ipparco (228A - 229D). “Ipparco... oltre a fornire molte altre belle

prove della sua sapienza... faceva tutto quanto con l'intento di educare i cittadini in modo da comandare su uomini che fossero i migliori; pensava che non si dovesse negare a nessuno la sapienza... Ordinò questo perché i suoi cittadini non restassero ammirati di quelle iscrizioni di Delfi come 'conosci te stesso', 'nulla di troppo', bensì considerassero più sagge le massime di Ipparco... 'procedi secondo giustizia', 'non ingannare il tuo amico'”.

III- Ripresa della discussione e conclusioni (229D - 232C). 1- Quarta definizione. La

cupidigia come acquistare cercando di non pagare nulla o di spendere poco. “Tutti gli uomini desiderano i beni... e la perdita è un male... Il guadagno è contrario della perdita... Il guadagnare, essendo il contrario del male, a volte è buono, a volte cattivo... Però il guadagno buono non è affatto più guadagno di quello cattivo... ma per il fatto che uno è buono e l'altro è cattivo... E questo vale anche per l'uomo, che può essere buono o malvagio... Chi realizza dunque un guadagno buono non guadagna affatto di più di chi ottiene uno cattivo. Nessuno dei due mi sembra più guadagno dell'altro... perché a nessuno dei due si può applicare il più o il meno... Forse definisci guadagno ogni acquisto che si riesca a fare, sia senza spendere nulla, sia spendendo di meno rispetto a ciò che si riceve... Non è un guadagno fare qualsiasi acquisto... Non lo sarà se si tratta di un male... e nemmeno se si facesse un buon acquisto... se è buono... Se invece è cattivo subirà una perdita... Si deve allora aggiungere al guadagno il valore... Dunque ciò che ha valore, piccolo o grande che sia, è vantaggioso, mentre ciò che non ha valore non procura guadagno... Ciò che merita di essere posseduto è l'utile... e l'utile è un bene... Dunque ciò che è vantaggioso è un bene... Tu sostenevi contro di me che i buoni non vogliono ottenere tutti i tipi di guadagno, ma soltanto quelli buoni... Allora il ragionamento ci ha costretti ad ammettere che tutti i guadagni, piccoli e grandi, sono un bene?”. 2- Conclusioni. “Tutti gli uomini buoni desiderano tutti i beni... gli uomini cattivi... amano i guadagni, piccoli o grandi che siano... Allora... tutti gli uomini sarebbero avidi di guadagno, sia quelli buoni, sia quelli cattivi... Dunque chi accusa qualcuno di essere avido di guadagno non si comporta correttamente... infatti si trova nella medesima condizione”. *Si tratta di un dialogo con tratti più sofistici che socratici*.

16- Gli amanti ♣ Sulla filosofia. “Per noi, dunque, carissimo amico, il filosofare è ben

lungi dal consistere nell'erudizione e nell'occuparsi delle arti” (139 A). Presentazione, traduzione e note di Maria Luisa Gatti. Dialogo di dubbia attribuzione. Socrate narra la discussione da lui iniziata con gli amanti di due giovanetti, che al suo arrivo stavano parlando di geometria. Socrate definisce la filosofia conoscenza di sé e “cura dell'anima”.

I- Prologo (132A - 133C). “Dei due amanti, questo aveva sempre coltivato la musica, mentre

l'altro... la ginnastica... Ti faccio la stessa domanda che ho rivolto anche a lui, ossia se ti

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sembra che il filosofare sia bello oppure no... Se un giorno, o Socrate, disse, dovessi pensare che il filosofare sia una cosa spregevole, non mi considererei nemmeno un uomo... e intanto indicava il rivale e alzava la voce, affinché il suo amato l'udisse... Sai dunque che cos'è filosofare?”.

II- Prima definizione. Identificazione di filosofia ed erudizione (133C - 135A). “La filosofia

è bella... e buona... Anche la ginnastica... è bella e buona... dove né i molti, né i pochi esercizi fanno star bene il corpo, bensì quelli secondo misura... sono a produrre vigore negli uomini e non invece quelli in eccesso o in difetto... A proposito dell'anima fra gli alimenti che le vengono somministrati sono quelli secondo misura... e tra di essi vi sono anche le scienze; tra queste l'utilità dipende dalla misura e non dalla quantità... Ma chi sarebbe giusto interrogare riguardo al piantare e seminare nell'anima le scienze, per sapere quante e quali di esse siano secondo la giusta misura?”. *Sottolineiamo il richiamo al criterio gnoseologico della giusta misura con il sottinteso metodo matematico per la sua definizione*.

III- Seconda definizione. Identificazione di filosofia e cultura generale (135A - 137A). “Le

scienze che il filosofo deve imparare non sono né tutte, né molte... I filosofi sono inferiori a coloro che primeggiano quanto a competenza nelle arti, ma, stando al secondo posto, superano gli altri... e si occupano di tutto secondo misura... Gli uomini buoni sono utili e i cattivi inutili... e i filosofi sono utili, anzi... utilissimi... Vi sono sempre degli specialisti... Abbiamo convenuto che la filosofia è bella, come lo sono i filosofi, poi che i filosofi sono buoni, e che quelli buoni sono utili, mentre quelli cattivi sono inutili. Abbiamo ammesso che i filosofi, fino a quando vi siano uomini competenti nelle arti, sono inutili e che di specialisti ve ne sono sempre”.

IV- Terza definizione. La filosofia come “conoscenza di sé” (137A - 138D). “Filosofare non

consiste nell'occuparsi delle arti e nel vivere a testa bassa ed affaccendati, nel tentativo di sapere tutto... ma nel rendere migliori gli uomini con l'arte che li castiga in modo corretto e che distingue i buoni ed i cattivi... Questa è l'arte giudiziaria... Se un uomo non riesce a distinguere gli uomini buoni dai cattivi, non sarà nemmeno in grado di sapere, riguardo a se stesso, se è buono o cattivo... Conoscere se stessi è essere temperanti. L'iscrizione di Delfi... invita a praticare temperanza e giustizia... Dunque, ciò grazie a cui sappiamo castigare in modo corretto è la giustizia; ciò grazie a cui siamo in grado di conoscere noi stessi e gli altri è la temperanza... Pertanto giustizia e temperanza sono identiche”.

V- Conclusioni (138D - 139A). “Sosterremo, dunque... che il filosofo... non deve cedere ad

altri il governo della propria casa, né accontentarsi di tenervi il secondo posto, ma castigare e giudicare in modo retto, se la sua casa deve essere bene amministrata... Poi... se la Città gli ordinasse di decidere o di giudicare sarebbe disonorevole, amico, apparire al secondo posto, invece che al comando... Per noi, dunque, il filosofare è ben lungi dal consistere nell'erudizione e nell'occuparsi delle arti”.

17- Teagete ♣ Sulla filosofia. “O Demodoco, si dice che il consiglio sia cosa sacra e, se

mai ne esiste uno così, questo è quello che tu mi stai chiedendo; infatti non c'è nulla di più divino, su cui consigliarsi, dell'educazione propria e dei propri famigliari” (122 B). Presentazione, traduzione di Maria Luisa Gatti. Di discussa autenticità. Tre personaggi: Socrate, Demodoco, padre di Teagete e Taegete stesso.

I- Incontro dei personaggi e tema della discussione (121A - 122B). “Demodoco: questo mio

figlio... aspira a diventare sapiente”. Il termine, per il momento è generico nel suo significato; man mano che il dialogo procede, esso si precisa, prima come processo di una conoscenza tecnica (l'arte di governare), poi nel senso socratico di conoscenza di se stessi e

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del proprio io più profondo (l'anima), sia perché Socrate dichiara di non conoscere nulla tranne “una piccola cosa riguardo all'amore” e quindi di possedere la sapienza nel suo grado più elevato, sia perché tale possibilità di conoscenza sarà messa in intima relazione con la benevolenza del “daimon”. “Vorrei consigliarmi al proposito ora che sto per prendere una decisione”.

II- Dialogo tra Socrate e Teagete. Natura delle aspirazioni Teagete (122B - 124B). 1- Teagete

desidera la sapienza. “Il consiglio è una cosa sacra... Infatti non c'è nulla di più divino, su cui consigliarsi dell'educazione propria e dei propri famigliari. Dunque tu ed io dovremo accordarci su che cosa esattamente prendere una decisione... Mi pare che il modo più giusto di procedere sia cominciare da lui, chiedendogli ciò che veramente vuole... Tu sostieni di voler diventare sapiente e chiami sapienti quelli che posseggono conoscenza in ciò in cui sono ritenuti sapienti”. 2- Obiezione di Socrate: sapienza è termine troppo generico. “Prendi me come garante e, in mia presenza, ripeti qual è questa sapienza che tu desideri... L'arte che tu desideri apprendere è quella grazie (alla quale) sappiamo... governare gli uomini”. 3- Teagete vuole apprendere l'arte di governare i cittadini. “Questa tua arte permette di dare ordini ai cittadini”.

III- Secondo momento della discussione. In che cosa consiste l'arte di governare i cittadini

(124B - 127D). 1- Teagete vuole forse diventare tiranno? “Disgraziato, è perché desideri esercitare la tirannide su di noi, che da tempo vai rimproverando tuo padre, perché ti affidi ad un maestro che ti insegni l'arte del tiranno... Ma, ora... poiché ti ha accusato in mia presenza, valutiamo insieme alla scuola di chi inviarlo e grazie all'insegnamento di chi potrebbe diventare tiranno sapiente”. 2- Teagete aspira a diventare un politico. “Euripide a un certo punto afferma: 'Sapienti sono i tiranni che frequentano uomini sapienti'... Dicevi di aspirare al governo della città”. 3- Socrate invita Teagete a frequentare un buon politico. “Poiché vuoi diventare sapiente nella politica, ti trasformerai in esperto frequentando quei politici che sono competenti negli affari di stato e sanno servirsene in ogni occasione... e sanno trattare tanto con gli stati greci che con quelli barbari... O Socrate, tu appartieni agli uomini eccellenti. Se infatti volessi prendermi presso di te, io sarei soddisfatto e non cercherei nessun altro”. 4- Teagete chiede di diventare discepolo di Socrate. “Non devi più aver paura per me, o padre, se riesci a persuadere Socrate ad accettarmi tra i suoi amici”.

IV- Terzo momento della discussione. Socrate declina l'invito (127D - 128C). 1- Socrate

invita Teagete a frequentare i Sofisti. “O Demodoco,.. non so... da dove ti sia venuta questa idea, che io sia in grado di aiutare tuo figlio a diventare un buon politico, più di quanto possa fare tu... Sei più anziano di me ed hai già ricoperto numerose... cariche in Atene... Ci sono poi molti altri tanto abili da convincere nelle città”. 2- Socrate adduce a giustificazione del rifiuto la propria ignoranza. “Io non posseggo nessuna delle loro beate e belle conoscenze... ma mi ritrovo sempre a ripetere di non sapere nulla al di fuori di una certa piccola scienza, quella dell'amore”. Affermando di non conoscere altro che l'amore, Socrate è come se affermasse di conoscere tutto o l'essenziale per giungere al culmine della sapienza, il Bello-Bene che è poi l'Uno. *Evidentemente non lo potrà possedere come le “cose”, cioè con una conoscenza razionale, in quanto l'Uno è “al di sopra dell'essere” e perciò attingibile solo come ascesa mistica, contemplativa, illuminante, intuitiva ecc., l'evidenza accecante del sole contemplato senza filtri*.

V- Monologo di Socrate (128C - 130E). 1- Il dèmone e l'efficacia dell'insegnamento. “Fin da

bambino, per volontà divina, mi segue un non so che di demonico. Si tratta di una voce che, quando c'è, si manifesta come un'indicazione che io rinunci a fare ciò che sto per fare, ma non mi esorta mai... essa sconsiglia e non permette di realizzarlo”. Ci sono riscontri nella tradizione letteraria della pretesa socratica di essere oggetto di un segno divino, collegabile

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all'accusa a lui mossa di voler introdurre nuovi dèi ad Atene. Tuttavia Platone non si sofferma particolarmente su tale capacità nelle sue opere sicuramente autentiche. 2- Influssi positivi e negativi del dèmone. “Ho raccontato questi fatti perché sempre la potenza di questo dèmone è determinante, anche nei rapporti con coloro che mi frequentano... Quelli invece che la potenza del dèmone assiste, perché godano della mia compagnia, sono coloro dei quali tu ti sei accorto; infatti ne ricevono un profitto immediato”.

VI- Conclusione. Socrate mette in guardia Teagete, ma questi accetta di correre il rischio e

frequentare il filosofo (130E - 131A). “O Teagete... sta' attento che non sia più sicuro per te farti educare da qualcuno di quelli che sono in grado di controllare l'utilità che offrono agli uomini, piuttosto che rischiare, venendo con me, di affidarti al caso... Mi pare che si debba fare così, o Socrate: mettere alla prova questo segno demonico frequentandoci... Facciamolo”. *Ci pare eccessivo questo ritrarsi di Socrate, oltre ogni sua prassi abituale. Sono dialoghi relativamente fruttuosi e sembrano piuttosto esercitazioni di imitatori, quasi diligenti*.

18- Carmide ♣ Sulla temperanza. “L'anima, o caro, si cura con certi incantesimi e questi

incantesimi sono i bei discorsi, da cui nell'anima, si genera la temperanza” (157 A). Personaggi: Cherefonte amico e discepolo, Crizia parente del filosofo letterato e poeta, Carmide principale interlocutore. Presentazione, traduzione e note di Maria Teresa Liminta.

I- Prologo (153A - 159A). 1- Socrate entra nella palestra di Taurea. “Mentre prendevo posto,

salutavo Crizia e gli altri e davo loro notizia del campo (di Potidea), rispondendo a ciò che ciascuno mi chiedeva... Poi cominciai io a fare domande sulle vicende di qui, la filosofia, i giovani, se tra loro qualcuno eccellesse per sapienza, bellezza o entrambe... E mentre parlava, Carmide entrò”. 2- L'entrata di Carmide ed il suo mal di testa. “Lo contemplavano tutti come se fosse una statua... Non dovrebbe temere confronti, se solo possedesse... un'anima bella... Spogliamo allora la sua anima ed esaminiamola prima del suo aspetto. Alla sua età accetterà certamente di dialogare... perché è amante della sapienza... Facciamolo venire... e digli che voglio presentarlo ad un medico per quel mal di testa di cui poco fa si lamentava con me... Prese posto tra me e Crizia... Allora, mio nobile amico, intravidi ciò che la sua tunica nascondeva e mi sentii avvampare... Alla sua richiesta, se conoscessi una medicina per il mal di testa... risposi di sì”. *Nonostante tutte le sublimazioni filosofiche anche Socrate è considerato figlio del suo tempo*. 3- Socrate finge di possedere un rimedio. “Si trattava di un'erba, a cui si doveva accompagnare un incantesimo e se qualcuno lo pronunciava, mentre si serviva di essa, allora il farmaco risultava efficace, in caso contrario, l'erba non arrecava alcun giovamento”. Dovrebbe corrispondere alla parola magica dei “bei discorsi” che generano nell'anima la saggezza, grazie alla quale ne beneficia pure il corpo. “Sulla base di questa convinzione, mettendo a regime tutto il corpo, cercano di curare e guarire la parte, sempre però con lo sguardo rivolto alla totalità dell'organismo”. 4- Il corpo si può curare solo unitamente all'anima. “Ad essa (l'anima) innanzi e soprattutto bisogna rivolgere la cura, se si desidera ottenere la salute sia per la testa che per il resto del corpo. E l'anima si cura con certi incantesimi e questi incantesimi sono i bei discorsi da cui nell'anima si genera la temperanza... Di fatto, oggi, questo è l'errore che fanno gli uomini, ossia che alcuni cercano di essere medici della temperanza e della salute, ma separatamente l'una dall'altra... E con decisione mi ordinò che nessuno, per quanto ricco, nobile e bello, mi convincesse ad agire diversamente”. Questo di Socrate è un impegno esplicito e serio alla riservatezza e ad un uso oculato e motivato di alcune conoscenze che, metaforicamente, sono rappresentate dall'incantesimo, ma nascondono in realtà dottrine platoniche non comprensibili né accettabili da parte di un vasto pubblico. Era d'altra parte abitudine delle cerchie scientifiche e non solo filosofiche, una tutela del sapere che veniva distinto in esoterico (interno-segreto) ed essoterico (esterno-pubblico). *Oserei dire che i cosiddetti esoterismi, quando sono seri,

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corrispondono più ad un difficile, se non inutile, processo di convinzione di alcuni aspetti culturali “evidenti”, piuttosto che a segreti di Pulcinella su tematiche “difficili”. Il difficile, e spesso in forme indecifrabili, è l'evidente che risulta offensivo per gli esperti. Nel nostro caso si tratta solo di togliere dalla testa una “pietra” che, per la sua presunta funzione fondante, risulta inamovibile in linea di “principio”. “Confiteor tibi Pater, Domine caeli et terrae, quod abscondisti haec a sapientibus, et prudentibus, et revelasti ea parvulis” (Lc 10,21). 5- Posizione sul problema: la virtù della temperanza. “Se sei dotato per natura anche della temperanza e di tutte le altre virtù, tua madre ha messo al mondo proprio un uomo veramente felice... Credo che dobbiamo verificare insieme se possiedi ciò che io desidero sapere... Se tu possiedi la temperanza, è chiaro che ne hai un'opinione”.

II- Definizioni della temperanza da parte di Carmide (159A - 162D). 1- Prima definizione: la

temperanza è agire in modo ordinato e calmo. “Gli pareva che la temperanza consistesse nel fare ogni cosa in modo ordinato e tranquillo... una sorta di calma... Verifichiamo:... scrivere... suonare la cetra... nel pugilato... nel correre e saltare ed in tutte le attività fisiche il muoversi agilmente e velocemente rivela l'atleta valente... Allora, per quanto concerne il corpo, non la calma, ma la velocità sarebbe più temperante dal momento che la temperanza è bella... La facilità ad apprendere... l'insegnare ad un altro in modo veloce... mantenere vivi i ricordi e richiamarli alla memoria... con prontezza e puntualità... la perspicacia... come acutezza dell'anima... a trovare soluzioni... la rapidità e la prontezza ci paiono più belle che la lentezza e la calma... Dunque, o Carmide, da capo... dimmi con chiarezza e coraggio che cosa ti sembri che la temperanza sia”. 2- Seconda definizione: la temperanza è una sorta di pudore. “Mi rispose: 'Mi pare che la temperanza susciti sentimenti di vergogna, che spinga l'uomo a provarli e che quindi si identifichi col pudore'. Bene, dicevamo tutti e due poco fa che la temperanza è una cosa non solo bella, ma anche buona... Omero parla bene quando diceva: 'Non è buona cosa il pudore per l'uomo che ha bisogno'... Allora il pudore è sia buono che non buono... e non è pudore, poiché il pudore non è più buono che cattivo... Ma la temperanza è buona, se rende buoni e non cattivi coloro che la posseggono”. 3- Terza definizione: la temperanza consiste nell'occuparsi delle proprie cose. “Ho sentito dire da un altro, che la temperanza consisterebbe nel fare le cose che sono proprie... A noi deve interessare non chi l'ha detto, ma se è vero... Allora, conclusi, la temperanza non può consistere nel fare tali cose e nel condurre così le proprie... e chi disse che la temperanza consiste nel fare le cose che sono proprie, forse non lo sapeva neanche lui”.

III- Intermezzo (162D - 164D). 1- Intervento di Crizia in difesa della terza definizione. “Gli

artigiani fanno le proprie cose e anche quelle degli altri... ed esercitano la temperanza anche quando non fanno solo le proprie cose... Tu, o Crizia, non dai, allora, lo stesso significato al termine fare ed occuparsi di...? Certamente no - rispose -, e neppure lavorare e fare”. Si usano qui tre sinonimi sulla cui sottile differenza Crizia si sofferma in base al suo punto di vista. Il ποιεîν è un fare nel senso più materiale del termine ed un produrre oggetti, puro e semplice, senza bellezza. Il πράττειν è propriamente un occuparsi, un interessarsi di qualcosa ed è accompagnato da un vivo senza di bellezza; l'εργάζεσθαι indica il lavorare nel senso di produrre oggetti che devono essere belli. Si tratta di una distinzione molto sottile, da aristocratici e colti. “Esiodo disse che nessun lavoro è fonte di vergogna... Penso piuttosto che egli ritenesse il fare diverso dall'occuparsi e dal lavorare e che, talvolta, il fare possa essere fonte di vergogna, quando non è accompagnato dalla bellezza; ma un lavoro non è mai turpe; infatti definiva lavori quelli fatti in modo bello e con uno scopo utile e chiamava tali azioni lavori e occupazioni. Bisogna dedurre che egli ritenesse proprie solamente quelle fatte in tal modo, altrui invece tutte quelle dannose”. 2- Critica di Socrate. “Definisci da capo più chiaramente se ciò che chiami essere temperante, consiste nell'occuparsi di cose buone e nel farle o qualunque altro vocabolo tu voglia usare... È temperante chi si occupa di cose buone... e definisco la temperanza come l'occuparsi delle cose buone... Chi fa il suo dovere è

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temperante... A quanto pare, talora, il medico, quando opera in modo utile, agisce con temperanza ed è temperante, ma non sa di esserlo?... Se pensi, o Socrate, che siano state le mie precedenti parole a costringerci a questa conclusione, allora preferirei ammettere di essermi sbagliato”.

IV- Crizia definisce la temperanza (164D - 169A). 1- Prima definizione di Crizia. “Infatti io

dico che la temperanza è proprio questo: conoscere se stessi... Infatti conosci te stesso e sii temperante sono la stessa cosa... Lascio perdere quello che prima ho detto... ora però è di questo che voglio discutere con te, se sei d'accordo che la temperanza sia conoscere se stessi... Ma, Crizia, dissi... io vado cercando, con la tua collaborazione, la soluzione, perché la ignoro... Abbi pazienza fin tanto che io abbia terminata la ricerca... Bisogna dunque che tu, interrogato, sia in grado di rispondere sulla temperanza, dal momento che dici che essa è conoscenza di sé”. 2- Precisazione di Crizia sull'oggetto della temperanza. “Questa scienza, per sua natura, non è uguale alle altre né le altre lo sono fra di loro... Io gli risposi che diceva la verità ed aggiunsi: 'Sono in grado di indicarti qual è l'oggetto di ciascuna delle scienze che è diverso dalla scienza stessa: ad esempio l'aritmetica è scienza del pari e del dispari relativamente alla qualità numerica loro propria e al loro rapporto reciproco... e la statica è la scienza del più pensante e del più leggero, ma il pesante e il leggero sono diversi dalla statica'... Crizia: 'La temperanza differisce dalle altre scienze... perché... sono scienze di altro, ma non di se stesse, mentre essa sola lo è delle altre scienze e di se stessa”.

3- Seconda definizione di Crizia: la temperanza è scienza di se stessa e delle altre scienze. “Dimmi allora, o Crizia, che cosa pensi della temperanza. Penso che la temperanza sia l'unica tra le scienze ad essere scienza sia di se stessa che delle altre scienze... anche dell'ignoranza... L'essere temperanti e la temperanza consistono nel conoscere se stessi e nel sapere che cosa si sa e che cosa non si sa... Ti pare, allora, che ci sia un desiderio che non sia desiderio di alcun piacere, ma sia desiderio di se stesso e degli altri desideri?... Noi parliamo di una scienza che non è scienza di nessun oggetto di apprendimento, ma di se stessa e di altre scienze... Per ora... ci limitiamo ad indagare se c'è... Noi diciamo che ciò che è maggiore ha in sé una possibilità che gli permette di essere maggiore di qualcosa... L'udito ad esempio non è udito di altro se non del suono... Quindi se esso ascolterà se stesso ascolterà il proprio suono... Quanto all'udito che oda se stesso... alcuni assolutamente ne dubitano, altri forse no e soltanto un grand'uomo sarà in grado di distinguere in modo sicuro, riguardo a queste cose, se nessuna delle realtà esistenti è, per natura, tale da possedere una propria possibilità nei confronti di se stessa (fatta eccezione per la scienza), ma la possegga piuttosto nei confronti di altro o se alcune l'abbiano ed altre no”. Sul fatto che questo “grand'uomo” altri non sia che Socrate ed un Socrate portatore di una dialettica chiaramente platonica, non possono sussistere dei dubbi. Sul modo di porre domande fa supporre che egli abbia presente l'articolazione del tema nella sua globalità, ma anche il punto d'arrivo cui essa dovrebbe condurre. Qui Socrate mantiene volutamente delle reticenze e non vuole esprimere, se non in minima parte, la verità di cui è a conoscenza. In questo “sapere di non sapere” è presente sia l'elemento socratico del mettere alla prova il sapere proprio e altrui sia la concezione nuova di un sapere dominante che attribuisce alle altre forme del sapere il loro posto e che è in grado, così, di rendere felice la Polis.

V- Presa di posizione di Socrate (169A -175A). 1- Intuizione di Socrate: la temperanza è

buona ed utile? “Ho quasi un'intuizione profetica che la temperanza sia qualcosa di utile e di buono... Sta a te, o Crizia... dimostrare... che quello che dicevo poco fa è possibile e poi che è anche utile... Supponiamo per il momento che sia possibile che esista una scienza della scienza... Dato per scontato che ci sia, vediamo in che cosa questo fatto ci mette maggiormente in grado di sapere ciò che uno sa e ciò che uno non sa”. 2- Che cosa permette di conoscere la temperanza? “Non riesco a capire come sia la stessa cosa il conoscere ciò che si sa e ciò che non si sa... Una scienza, in quanto scienza di scienza, non sarà in grado di

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distinguere qualche cosa in più del fatto che una cosa è scienza e l'altra non lo è... L'essere temperanti e la temperanza consisterebbero nel sapere non ciò che si sa e ciò che non si sa, ma, a quanto risulta, solo che si sa e che non si sa... Il temperante conoscerà soltanto che egli possiede una certa scienza, ma di che cosa precisamente essa lo sia, la temperanza non potrà mai suggerirglielo... (Il medico) della scienza, in quanto tale, non sa nulla; noi, infatti, abbiamo attribuito questa prerogativa alla sola temperanza”. Il medico, pertanto, avrebbe una conoscenza dell'uso pratico della medicina, ma non della scienza medica in quanto tale. 3- Chi possiede la temperanza può essere felice? “Ogni scienza è definita non soltanto dall'essere scienza, ma dalla sua specificità, cioè dall'avere un certo oggetto... Se la temperanza è scienza solo della scienza e dell'ignoranza, colui che la possiede non potrà distinguere né il medico competente nella propria arte da quello che invece non lo è, finge o si illude di esserlo, né alcun altro che sia esperto in una qualsivoglia arte, a meno che, a sua volta, non ne possegga una specifica conoscenza... Se il temperante sapesse ciò che sa e ciò che non sa, cioè che possiede alcune conoscenze, ma altre no, e fosse in grado di valutare un altro che si trovasse nella medesima condizione, allora sarebbe veramente vantaggioso per noi essere temperanti; vivremmo infatti, noi temperanti e chi fosse guidato da noi, senza commettere errori... Infatti, eliminato l'errore e, sotto la guida della correttezza... sarebbero anche felici... Era questo... che dicevamo a proposito della temperanza, quando affermavamo che gran bene sarebbe sapere ciò che uno sa e che uno non sa... Ora tu vedi come a noi risulti che non esista alcuna scienza simile, da nessuna parte”.

4- La temperanza in quanto scienza, rende facile l'apprendimento. “La temperanza... ha forse questo di buono che chi la possiede qualunque cosa impari, l'imparerà con maggiore facilità e tutto gli apparirà più chiaro... Forse, invece, non siamo approdati a nessun risultato valido... Proseguiamo, se vuoi, dopo aver ammesso che possa esistere una scienza della scienza, senza rifiutare quanto abbiamo stabilito all'inizio sulla temperanza, che essa cioè consista nel sapere ciò che si sa e ciò che non si sa... Verifichiamo se potrà procurarci qualche giovamento... Abbiamo dato per scontato con leggerezza che sia un gran bene, sia nell'amministrazione della casa che della Città... A dir la verità, se la temperanza è proprio così, io non vedo quale bene essa ci possa portare... Ho paura di sragionare”. 5- Riproposta dell'interrogativo se la temperanza possa dare la felicità. “Se sei d'accordo, ammettiamo pure che la mantica sia la scienza del futuro e che la temperanza, divenendone la guida, allontani i ciarlatani e ci dia i profeti del futuro che siano veri indovini... Infatti la temperanza, di guardia, non permetterebbe che l'ignoranza s'insinuasse di sorpresa nel nostro agire... Saremmo felici?... Quale tra le scienze ci può rendere felici... al massimo grado?”. 6- La temperanza potrebbe dare la felicità se coincidesse con la scienza del bene e del male. “Permette di agire bene e di essere felici, non tanto il vivere secondo tutte le altre scienze, ma secondo una soltanto, quella del bene e del male... Se questa venisse meno, sparirebbe per noi la possibilità che ciascuna delle azioni venga condotta bene ed utilmente... Non si tratta della temperanza allora, ma... della scienza del bene e del male”.

V- Conclusione: sospensione della discussione e rimando ad un preciso impegno futuro

(175A - 176D). “Da tempo... mi accusavo di non approdare a nessun risultato valido nella mia ricerca sulla temperanza... Dobbiamo dichiararci sconfitti su tutta la linea e non siamo in grado di individuare a quale tra le realtà esistenti il legislatore abbia assegnato tale nome di temperanza”. L'importanza dei nomi ed il linguaggio nel suo complesso stabilito per legge divina confermano come ad ogni cosa corrisponda un significato rivelatore della natura della cosa stessa: *un oggettivo sacro su cui poggiare le fondamenta dell'intelligenza umana per l'ascensio mentis in Unum*. “Eppure abbiamo avanzato molte ipotesi... senza riflettere che è impossibile che un uomo conosca in un qualsiasi modo ciò che assolutamente non sa... Sono io a non essere un buon ricercatore”. *Da questi brevi dialoghi si ricava lo stile della ricerca insistito, aperto, quasi che l'indagine sia più importante dell'esito positivo della stessa. Questa impostazione dovrebbe far ricredere, chi si accosta a questi dialoghi, dall'approdare ad una

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soluzione metafisica, quasi che quello fosse l'obiettivo di Platone. L'Uno e la Diade e, in senso subordinato, le stesse Idee e numeri ideali, sono i presupposti, ma non il criterio della ricerca che è costretta ad insistere in una faticosa analisi per definire l'oggetto scientifico su cui operare con la proporzione nel modo più efficace per definire la giusta misura, quella forma che rimanda all'idea e ai numeri ideali sotto l'orizzonte del Principio primo, l'Uno, riferimento e meta di un pensiero intuitivo ed ispirato.

19- Lachete ♣ Sul coraggio. “O amici, io dico, e nessuno lo divulghi, che bisogna che noi

insieme ricerchiamo, innanzi tutto per noi che ne abbiamo bisogno, poi per i ragazzi, il maestro migliore possibile, senza risparmiare né denaro né altro mezzo” (201 A). Presentazione. traduzione e note di Maria Teresa Liminta. Personaggi: Lisimaco stratega, Melesia del partito aristocratico, Lachete militare, Micia personaggio politico.

I- Proemio. Incontro dei personaggi (178A - 181C). “Lisimaco: o Nicia e Lachete... abbiamo

questi due figli, uno di Melesia... Tucidide e il mio... Aristide... Sapendo che anche voi avete dei figli, abbiamo pensato che vi siate dati pena come nessun altro, perché diventassero eccellenti... Ciascuno di noi due ha da raccontare ai ragazzi sui propri genitori, molte belle imprese, sia di pace che di guerra, compiute allorché si occupavano degli affari degli alleati e della città, ma né lui né io siamo in grado di vantare azioni nostre... Ci lasciavano condurre una vita spensierata... Indichiamo tutto ciò ai ragazzi... ed essi dicono di voler seguire i nostri consigli... per diventare eccellenti... Un tale ci ha indicato... che sarebbe bello per un giovane esercitarsi nell'arte delle armi... Ci aspettiamo un parere da voi... A questo proposito hai ragione, o Lisimaco, ma mi meraviglio che mentre inviti noi a darti consigli sull'educazione dei giovani, non fai altrettanto con Socrate che è qui... e passa praticamente il suo tempo... in quel tipo di apprendimento che conviene ad un giovane”.

II- Tema della discussione. Il valore dell'esercizio delle armi (181C - 184D). “Per quanto sta

in me, o Lisimaco, cercherò di consigliarti a questo proposito e di fare tutto ciò che mi chiedi”. 1- Opinione di Nicia. “È bene che non perdano il tempo libero... e si dedichino piuttosto a questo esercizio (delle armi)... da cui è inevitabile che traggano un beneficio fisico... Poi proverebbe interesse per... la tattica... e per sapere tutto ciò che riguarda la strategia”. Strategia e tattica sono tra loro strettamente connesse e, di fatto, costituiscono due momenti essenziali dell'azione di guerra: di essi il primo è la premessa, il secondo il logico completamento. “Quest'arte in guerra renderebbe chiunque molto coraggioso e molto più sicuro... e gli darebbe anche un maggior senso di decoro”. 2- Opinione di Lachete. “Se tale esercizio delle armi... non è una scienza... a che fine apprenderlo?... Mai nessuno di questi maestri d'arme ha ottenuto la gloria in guerra... Costoro sembrano essere perseguitati da una implacabile sfortuna... A meno che non eccella sugli altri per qualche impresa straordinaria, non c'è scampo al ridicolo per chi dichiara di essere in possesso di questa conoscenza... Ma ora... non bisogna permettere che Socrate, che è qui, se ne vada, ma piuttosto pregarlo di darci il suo parere sulla discussione”.

III- Intervento di Socrate. Chi è il vero esperto di educazione e che cosa è il coraggio (184D

- 190E). “Se si trattasse di prendere una decisione... non ti rimetteresti all'opinione della maggioranza di noi ma piuttosto a quella di colui che fosse stato educato... sotto la guida di un buon maestro... Infatti io credo che sia sulla base della scienza che bisogna decidere... di colui che l'avesse studiata con la maggior profondità e si fosse esercitato in essa sotto la guida di buoni maestri... Prima però dovremmo conoscere in che cosa consista questa disciplina di cui noi cerchiamo i maestri... quale sia l'oggetto preciso della discussione... che riguarda il fine e non il mezzo per raggiungerlo... Bisogna allora cercare un consigliere che sia esperto... Noi stiamo indagando su una disciplina che ha per fine la cura dell'anima nei giovani... e voi ci avete sollecitato ad esprimere un consiglio circa l'educazione... preoccupati

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di rendere le loro anime il più nobili possibile... Se qualcuno di noi nega di aver mai avuto un maestro, allora bisogna che egli sia in grado di mostrare le proprie opere e di indicare quali tra gli Ateniesi o fra gli stranieri schiavi o liberi, siano diventati per opera sua e a detta di tutti, uomini eccellenti... Io... vi dico che non ho avuto maestri di quest'arte... Non ho mezzi per pagare i Sofisti... D'altra parte io da solo non sono in grado di impadronirmi di quest'arte... Certo che il contrasto delle loro opinioni mi ha sorpreso... Lisimaco: parlate e iniziate con Socrate questa comune ricerca scambiandovi e dandovi l'un l'altro conto delle opinioni... Si tratta di decidere del più prezioso dei nostri beni”. 1- Apprezzamenti di Nicia e Lachete su Socrate. “Quanto a me, questo esame di Socrate non mi risulta né inusuale, né sgradevole... Da parte mia non c'è obiezione alcuna a che Socrate si intrattenga con noi... O Nicia... egli mi pare un vero e proprio musico, che produce una splendida armonia, non attraverso una lira né altri strumento di piacere, ma con la realtà della propria vita, realizzando in essa un perfetto accordo tra parole e opere, semplicemente, secondo il modello dorico, non ionico, credo, né frigio né lidio, poiché il dorico in quanto grave ed austero, costituisce l'unica vera armonia greca... Ti invito dunque o Socrate, a istruirmi e a chiedermi ciò che vuoi e ad apprendere a tua volta ciò che io so”. I modelli o modi della musica sono riconducibili a quattro: lo ionico, il dorico, il lidio ed il frigio; il primo era considerato voluttuoso ed effeminato, il dorico austero e grave, il lidio piuttosto grazioso, il frigio appassionato. La musica aveva un grande spazio nella educazione dei giovani. 2- Il coraggio come parte della virtù. “Ora ci esortano ambedue a dar loro consigli su come possa una virtù, resasi presente nei loro figli, far diventare più nobili le loro anime... ed è necessario che noi conosciamo che cos'è la virtù... Esaminiamo innanzi tutto una parte della virtù per vedere se ne abbiamo una sufficiente conoscenza... Senza dubbio questa alla quale pare tenda l'esercizio delle armi i più credono che si tratti del coraggio”.

IV- Definizioni della virtù da parte di Lachete (190E - 193D). 1- Prima definizione:

coraggioso è l'uomo che non cede al nemico. “Chi durante la battaglia, mantenendo la propria posizione, si difende dai nemici e non si dà alla fuga, questo è un uomo dotato di coraggio”. Questa prima definizione del coraggio che Lachete propone non coglie l'essenza del coraggio che contraddistingue e permane identica in tutto ciò che è coraggioso (persone, azioni, situazioni), ma offre semplicemente un esempio di comportamento ispirato al coraggio. Essa è contraddittoria, perché quello che è coraggio nella situazione portata ad esempio da Lachete, in altre si rivelerebbe come stupidità ed incoscienza, e riduttiva perché attinente alla vita militare e completamente estranea alla maggior parte delle esperienze della vita (passioni, piaceri, malattie, ecc.). Su questi tre punti si basa la confutazione di Socrate. Il coraggio è presente come valore nell'antica Grecia, con connotazioni sopratutto militari: in Omero come resistenza contro la sfortuna e contro le passioni, in Erodoto e Tucidide come abilità, in Pericle è l'eccellenza della tecnica a produrre audacia, fiducia in sé, padronanza. Tutte queste concezioni sono presenti in questo dialogo di Platone. “Sono d'accordo... ma (è coraggioso) anche quello che, al contrario, non resta a piè fermo al proprio posto, ma combatte contro il nemico indietreggiando... E non mi riferivo solamente a chi lo fosse in guerra, ma anche nell'affrontare i pericoli per mare e le malattie e la povertà ed i problemi politici... davanti al dolore e alla paura... alle passioni, ai piaceri, sia restando fermo che volgendosi in fuga... Dunque tutti sono dei coraggiosi... E proprio questo volevo sapere, che cosa fossero il coraggio e la viltà... Prova a dirmi che cos'è di identico in tutte queste circostanze”. 2- Seconda definizione di Lachete: il coraggio è una forza d'animo. “Mi pare che, se vogliamo parlare in generale della natura del coraggio... esso sia una sorta di forza d'animo”. Questa seconda definizione di Lachete risulta corretta da un punto di vista metodologico, ma, ugualmente, si rivela inadeguata e viene confutata in base ai seguenti rilievi: a) il coraggio, afferma Socrate, deve essere bello e buono; b) per essere bello e buono deve essere accompagnato da senno; c) esistono però parecchi casi in cui il comportamento accompagnato da senno è tutt'altro che coraggioso, anzi avviene il contrario; d) la presenza

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del senno non è di per sé quindi garanzia di azione coraggiosa. Resta evidente che quello che Socrate vuole confutare non è tanto la presenza del senno in una data azione, quanto la convinzione che essa debba essere legata alla conoscenza tecnica di una specifica arte (militare, medica ecc.). “Tu, o Lachete, annoveri il coraggio tra le realtà molto belle... accompagnata dal senno... al contrario, sarebbe malvagia e dannosa... In base a quanto hai detto, il coraggio sarebbe una forza illuminata dall'intelligenza”.

V- Breve intermezzo: imbarazzo di Lachete (193D - 194C). “Se vuoi anche noi potremo dare

prova di resistenza e di forza nella nostra ricerca... Di' a noi che cosa pensi sia il coraggio, liberaci da questa confusione e sostieni con argomentazioni il tuo pensiero”.

VI- Intervento di Nicia (194C - 197E). 1- Il coraggio è scienza. “Ti ho sentito più volte, o

Socrate, ripetere che ciascuno di noi è buono in ciò in cui è sapiente e che è malvagio in ciò che non conosce”. *Questa equivalenza tra conoscenza-essere-bene, e ignoranza-presunzione di sapere-non essere-male è lo specifico dell'etica greca che va assolutamente ripreso per rimediare all'opportunismo della morale cattolica, quello, per intenderci, della retta intenzione. L'aver insistito, senza alcun ritegno, sullo status di peccatore dell'uomo fin dalla nascita e così di seguito lungo tutto l'arco della sua vita, con uno scialo di “bacia pile” e di “condoni” misericordiosi, ha finito per confondere buono e cattivo, testimonianza e conformismo, facendo sì che spesso il più fruttuoso per la tenuta, se non per il successo, dell'intero sistema, risultasse proprio il malvagio come comprova d'altronde lo stesso esempio di Giuda, almeno secondo certe interpretazioni. La concezione della redenzione come sacrificio del Cristo, Agnello di Dio, sta alla base di questa insistenza, quasi che se non avesse trovato tutti peccatori impotenti il suo sacrificio divino sarebbe parso eccessivo. La rilettura di questa concezione del capro espiatorio deve spingere a ricuperare la concezione greca per restituire al ruolo della testimonianza cristiana quella serietà morale ed efficacia storica intesa dalla Buona Novella. “Nicia: dunque, se il coraggioso è buono è evidente che possiede la scienza del coraggio”. Questa identificazione del coraggio con la scienza del sapere è risolutiva per la comprensione della natura dello stesso. 2- Il coraggio è scienza delle cose da temere e di quelle da osare. “Di quella, o Lachete, che è in grado di distinguere le cose temibili da quelle che si possono osare, sia in guerra che in tutte le altre circostanze”. Questa prima definizione di Nicia riprende la premessa iniziale che il coraggio è una parte della virtù, quella che permette di conoscere le cose da temere e quelle da osare, cioè i beni ed i mali futuri. In questa affermazione del generale sono presenti, oltre alla correttezza metodologica acquisita e non più abbandonata, l'elemento proprio della seconda definizione di Lachete: il senno del comportamento coraggioso, ma anche un'estrema indeterminatezza. Nicia sarà costretto ad una ulteriore precisazione per distinguere il coraggio dalla temerarietà, propria dei bambini e dei folli, confermando ancora una volta la natura conoscitiva del coraggio. 3- Il coraggio non è temerità. “Dimmi allora, o Nicia:... affermi che il coraggio è scienza delle cose da temere e di quelle da osare?”. È a questo punto che comincia la confutazione vera e propria di Socrate. In sintesi essa si svolge secondo la seguente linea: a) si è stabilito che il coraggio è una parte della virtù; b) Nicia afferma che esso è precisamente quella parte della virtù che è conoscenza dei beni e dei mali futuri; c) non esiste una scienza per il futuro, una per il presente, ed una per il passato, ma un'unica scienza dei beni e dei mali di ogni tempo; d) una scienza che permetta di conoscere i beni e i mali di ogni tempo, coincide con la virtù intera, non più con una parte della virtù. Poiché la premessa posta all'inizio si è rivelata infondata, Socrate abbandona la ricerca. “E questa scienza non è di tutti... a meno che non aggiungano al loro sapere specifico questa scienza (del coraggio)... Nicia: io credo che mancanza di paura e coraggio non sia la stessa cosa: che il coraggio e la previdenza siano di pochissimi, l'audacia, invece, la temerarietà, la mancanza di timore, uniti all'imprudenza, siano di parecchi uomini, donne, bambini e fiere... Socrate: chi deve decidere delle questioni più importanti è bene che sia provvisto del più alto grado di saggezza e mi pare che Nicia

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meriti ulteriore attenzione, per vedere che cosa ha in mente, quando usa in questo modo la parola coraggio”.

VII- Intervento di Socrate (197E - 200C). 1- Coraggio sarebbe conoscenza dei mali e dei beni

futuri. “All'inizio della discussione abbiamo individuato il coraggio come una parte della virtù... Io chiamo virtù, oltre il coraggio, anche la saggezza, la giustizia ed altre simili... Noi definiamo cose temibili i mali futuri, cose sicure quelle che, in futuro, non saranno mali o saranno beni... e chiami coraggio la scienza di queste cose”. 2- Coraggio sarebbe conoscenza dei mali e dei beni di ogni tempo e quindi sarebbe la virtù vera. “A me... pare che, delle cose di cui esiste scienza... essa è unica... E tu, o Nicia, sei d'accordo, a tua volta, che delle medesime cose medesima è la scienza, siano esse future, presenti e passate... Il coraggio è scienza delle cose da temere e di quelle da osare... Ma, di comune accordo, si è stabilito che le cose da temere sono i mali futuri e quelle da osare i futuri beni... e che identica è la scienza delle identiche cose, siano esse future o di ogni altro tempo... Allora il coraggio non è solo scienza delle cose da temere e da osare... O Nicia, ci hai dato una risposta a una parte del coraggio... sebbene noi ti chiedessimo che cosa fosse il coraggio tutto intero... ma lo sarebbe più o meno di tutti i beni ed i mali di ogni tempo... Non mancherebbe di una qualche parte della virtù chi conoscesse interamente tutti i beni per come sono, saranno e sono stati ed i mali allo stesso modo. Non mancherebbe di saggezza o giustizia o pietà... Dunque Nicia non di una parte della virtù parlavi, ma della virtù intera”. Il tema della totalità e dell'unità della virtù appare centrale nei dialoghi platonici *e costituisce quella dimensione onnicomprensiva dell'idea intesa come realtà autentica in sé, ma “convenzionale” per quanto riguarda noi, in quanto fondamento dell'essere de-finito, de-limitato, misto, della cosiddetta giusta misura ecc., esattamente come lo è l'Uno-unità non decimabile, il due molteplicità illimitata, il punto non esteso, l'istante senza durata, l'atomo indivisibile ecc., tutte entità “al di là” della rispettiva dimensione, per neutralizzare l'aporia dell'infinitesimo, limite intrinseco del pensiero attore in atto. In questo senso il “conosci te stesso” è un auspicio permanente. Ne deriva la tipica dimensione gnoseologica e non metafisica del logos platonico sia riguardo a se stesso, alle cose e più che mai all'Uno, pur rimanendo sempre proiettato all'“oltre limite” in quella dimensione di cui la successiva ontologia metafisica, a seguito della predicazione dell'essere all'Uno, si approprierà irresponsabilmente nella pretesa di “farselo” fondamento o meglio giustificazione del ragionare umano e della sua presunzione di “verità” con il seguito di antinomie teoricamente inestricabili, ma più ancora di violenze le più cieche scatenate dall'“amore del prossimo” in nome di una coerenza ideologica allucinante*. “Dicevamo che coraggio è una parte della virtù... però quanto è stato ora detto non lo conferma... Allora, Nicia, non siamo riusciti a scoprire che cosa è il coraggio”. In realtà la definizione del coraggio è stata data nelle sue componenti fondamentali: esso è una parte della virtù come forza d'animo che implica la conoscenza dei mali e dei beni da affrontare e che non si confonde con la temerarietà. Non richiede una preparazione specifica, ma si adegua alle varie situazioni.

VIII- Conclusione (200C - 201C). “Allora, Socrate... ci ascolterai e ti impegnerai con noi a

rendere questi giovani quanto migliori possibile. Sarebbe terribile... rifiutarsi di darsi da fare per migliorare qualcuno... Bisogna che noi insieme ricerchiamo... il maestro migliore possibile... Quindi, senza curarci di eventuali commenti, prendiamoci cura insieme di noi stessi e dei ragazzi”. *Socrate fa dipendere l'efficacia della propria azione educativa non da se stesso, ma dalla misteriosa volontà del dèmone che lo guida; dunque grande spazio concesso al mito, al sentimento, alla forza mantica, considerati momento fecondo dell'intelligenza umana. La strategia poi della tematica incompiuta, è indice dell'impegno necessario per giungere alla comprensione del reale nella sua dimensione effettiva, cioè nell'individuazione del riflesso ideale come partecipazione alla verità. L'esito dunque non è frutto di rivelazione, di contributi extra-umani, e neppure di una facoltà razionale fondata sulla gestione

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dell'infinito, piuttosto di quell'aspetto demonico che si manifesta come profonda suggestione, illuminazione, evidenza anche se faticosamente comunicabili agli altri senza un percorso equivalente*.

20- Liside ♣ Sull'amicizia. “Non è allora necessario... che giungiamo ad un principio che

non rimandi più ad un'altra cosa amica, ma sia esso stesso il Primo amico, in vista del quale noi diciamo che sono amiche anche tutte le altre cose?” (219 D). Presentazione, traduzione e note di Maria Teresa Liminta. Si tratta di personaggi ipotetici: Liside, Ippotale, Menesseno, Ctesippo, Micco ecc. di cui non si sa molto se non della profonda amicizia che li lega.

I- Prologo. Incontro di Socrate con Ippotale e Ctesippo e amore di Ippotale per Liside (203A

- 206E). “È una palestra costruita da poco e ci intratteniamo in discorsi ai quali ci piacerebbe che tu Socrate prendessi parte... Per quel che mi (Socrate) riguarda, in tutto il resto sarò anche ignorante ed inesperto, ma il dio mi ha dato la capacità di capire al volo chi ama e chi è amato”. L'affermazione di Socrate circa la propria ignoranza ed inesperienza è frequente nei dialoghi, come pure la successiva precisazione che egli però possiede, per volontà divina, una sicura intuizione delle cose d'amore. “O Ippotale... fa anche a me (a Socrate), come a loro, le sue (di Liside) lodi, perché io veda se tu sai che cosa l'amante deve dire dell'amato sia a lui direttamente che in presenza di altri... per vedere come ti comporti verso il tuo amore... I bei ragazzi, quando si vedono oggetto di lode e di ammirazione, diventano superbi e presuntuosi... difficili da conquistare... Se tu riuscissi a farlo parlare con me, forse potrei mostrarti che cosa è opportuno suggerirgli... Va bene, facciamo così”.

II- Incontro di Socrate con Liside. Impostazione del tema (206E - 210E). 1- È amato colui

che è sapiente e quindi utile. “O Liside, tuo padre e tua madre ti amano intensamente... e vorrebbero che tu fossi il più felice possibile... È chiaro che fanno di tutto perché tu lo sia... e ti impediscono di fare quello che vuoi... e ti guida questo pedagogo che è qui... che ti accompagna a scuola... e qui sono i maestri a governarti... Certo che tuo padre e tua madre ti impongono parecchi di maestri e di guide... e, per dirla in breve, non ti lasciano fare pressoché nulla di ciò che vorresti... Solo quando vogliono farsi leggere o scrivere qualche cosa, è a te innanzi tutto che si rivolgono fra quanti sono in casa ed in tal caso tocca a te decidere quale delle lettere vuoi scrivere per prima e lo stesso per leggere”. 2- La fiducia di una persona si fonda sulle competenze. “Certo non è l'età che tuo padre aspetta per affidarti tutto, ma il giorno in cui deciderà che tu sia divenuto più sapiente di lui, ti affiderà se stesso e tutti i suoi beni”. Tutte le espressioni, ricorrenti, che indicano l'essere competenti in qualche cosa come arte medica, agricoltura, nautica, musica, architettura, carpenteria, tessitura, l'avere padronanza di un certo ambito del sapere, costituiscono la premessa necessaria del risultare utili, del produrre vantaggio, del diventare oggetto d'amore. 3- Si è amici di chi è sapiente, perché questi, in quanto buono, è in grado di essere utile. “Tutti si fideranno di noi per tutte quelle cose, in cui saremo più sapienti... e potremo trarne un vantaggio... Ed allora saremo cari a qualcuno e da lui amati se gli potremo essere utili... Se tu diventerai sapiente, o ragazzo, tutti ti ameranno e ti saranno amici, perché sarai utile e buono”.

III- Intermezzo (211A - 214B). 1- Menesseno ritorna e Ctesippo si unisce al gruppo. “Mentre

ci scambiavamo queste battute tra di noi, intervenne Ctesippo: non riservate questo banchetto di parole a voi soli e fateci partecipi”. 2- Dialogo tra Socrate e Menesseno: amico è chi ama o chi è amato? “In base a quanto abbiamo detto, amico è colui che è amato, non l'amante... Molti, quindi, sono amati dai nemici, o odiati dagli amici, se amico è l'amato e non l'amante... Spesso si è amici di chi non ci ama o addirittura dei nemici, quando si ama chi non o contraccambia o persino ci odia e, sovente, ad essere nemici di chi non ci è nemico o anche ci ama, qualora si odi chi non ci odia o anzi ci ama”. 3- Breve interruzione e reimpostazione della discussione. “Riprendiamo invece la ricerca che avevamo imboccato al principio,

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seguendo le orme dei poeti... Le loro parole, se non sbaglio, sono più o meno queste: Sempre il dio conduce il simile verso il simile e glielo fa conoscere... In modo analogo, sempre, di necessità, il simile stringe amicizia col simile”.

IV- Dialogo tra Socrate e Liside (214B - 222D). 1- Il simile non è amico del simile. “La metà

del detto non sarebbe veritiera, se i malvagi fossero fra loro simili... Mi pare che i buoni sono simili ai buoni ed amici tra di loro, mentre i malvagi... non sono mai simili fra di loro né sempre uguali a se stessi, ma mutevoli ed instabili... È a questo che alludono, quando affermano che il simile è amico del simile... mentre il malvagio non può essere amico né di un buono, né di un altro malvagio... Allora finalmente sappiamo chi sono gli amici:.. i buoni... e gli è anche utile... Ciò che non è amato non può essere amico... sicché il simile non è amico del simile... Ma almeno il buono potrebbe essere amico del buono e non in quanto simile a lui ma in quanto buono?... Ma il buono in quanto tale potrebbe bastare a se stesso, non ha bisogno di nulla, non prova affetto per nulla... e chi non prova affetto non può amare... e chi non ama non può essere amico... Guarda un po', Liside, dove siamo giunti”. 2- Anche gli opposti non possono essere amici fra di loro. “Le cose tra loro più simili sono quelle piene, le une verso le altre, di invidia, di inimicizia, di odio e, al contrario, quelle estremamente dissimili, di amicizia... cioè gli opposti sono sommamente amici fra di loro... Non è strano? Allora... l'odio è il contrario estremo dell'amicizia... il nemico è amico dell'amico o l'amico del nemico... il giusto dell'ingiusto, il moderato dell'intemperante, il buono del cattivo... Se dall'opposizione nasce l'amicizia, queste cose devono essere amiche... Dunque non è amico il simile del simile, né il contrario del contrario”.

3- Ciò che non è né buono né cattivo è amico del buono e del bello a causa di un male ed in vista di un bene. “Ma l'amicizia non è nessuna delle cose finora esaminate, ma l'amico del buono non è né il buono né il cattivo... Per Zeus - esclamai - comincio ad avere le vertigini per la spinosità del discorso... Propongo, allora, quasi per divina ispirazione, che del bello e del buono sia amico ciò che non né bello né buono... Mi sembra che esistano tre generi di cose: il buono, il bello e ciò che non né buono né cattivo”. La teoria del “né buono né cattivo” sembra essere, più che originale di Platone, di matrice sofistica, sia per quanto riguarda l'esposizione che la precisa confutazione che ne verrà data. “E che né il buono sia amico del buono, né il cattivo sia amico del cattivo... Se l'amicizia esiste, non resta che un'unica possibilità, che cioè ciò che non è né buono né cattivo sia amico del buono o di qualche cosa che sia tale quale esso è... Quindi soltanto ciò che non è né buono né cattivo può diventare amico solo del buono... Il corpo sano non ha bisogno della scienza medica né di aiuto; basta a se stesso, così che nessuno, che goda di buona salute, è amico del medico a causa della sua salute... Ma l'ammalato, credo, lo è a causa della sua malattia... Dunque ciò che non è né buono né cattivo diventa amico del buono a causa della presenza di un male, ma, evidentemente, prima di diventare esso stesso cattivo per effetto del male che ha in sé... E qualora, nonostante la presenza del male, a volte non è ancora cattivo, altre volte, lo è già diventato... Questa presenza gli fa desiderare il bene o lo ha già reso cattivo, lo priva del desiderio dell'amore verso ciò che è buono... Perciò... anche i sapienti... non sono più amici della sapienza né lo sono quelli tanto ignoranti da essere malvagi, poiché non c'è malvagio o ignorante che ami la sapienza. Restano quelli che... ammettono di non sapere ciò che non conoscono. È per questo che amanti della sapienza, cioè i filosofi, sono quelli che non sono ancora né buoni né cattivi”. Il filosofo, secondo Platone, è chi non è né sapiente né ignorante, non possiede la sapienza (è amore del sapere), ma aspira a possederla; *dunque è un processo in costante progresso, conforme all'irrazionalità del numero aureo 1,618..., criterio ideale per la giusta misura. Dall'inizio del secolo scorso gli scienziati hanno ricuperato questo carattere tipico proprio della ricerca scientifica, con grande sorpresa di Platone e seguaci. Si sono attribuiti parecchi premi Nobel a questa “dotta ignoranza”*. “Poi, non so come, fui preso dallo stranissimo sospetto che ciò che avevamo scoperto non fosse vero... Temo che i nostri discorsi sull'amicizia non siano dissimili da quelli dei ciarlatani... Esaminiamo:... quando si è

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amici... lo si è per uno scopo e con un motivo... Il malato, il corpo che non è né buono né cattivo, è amico del medico e della medicina a causa della malattia ed in vista della salute... Quindi ciò che non è né buono né cattivo (il corpo), a causa del male e del nemico, diventa amico del bene in vista del buono e dell'amico... Perciò in vista dell'amico, l'amico è amico dell'amico, a causa del nemico”. *Platone deve procedere oltre le singole cose nelle rispettive relazioni per appoggiarsi all'idea, che nella sua immutabilità ed immobilità di essere perfetto permette di esaurire la trafila delle relazioni e contrapposizioni che altrimenti si perderebbero nell'infinitesimo*.

4- Tutte le cose sono amiche in vista di un “Primo Amico”. “Lascio stare le ipotesi secondo cui l'amico possa essere amico dell'amico ed il simile del simile e che abbiamo dimostrato essere impossibili... È necessario che, o noi abbandoniamo questa strada o giungiamo a un principio che non rimandi più ad un'altra cosa amica, ma sia esso stesso Primo amico, in vista del quale diciamo che sono amiche tutte le altre cose”. A questo punto si entra nel vero e proprio nucleo dottrinale del dialogo: l'unico vero amico verrà identificato con l'idea del bene e del bello, col suo carattere protologico. *Ripetiamo: per gli antichi l'infinitesimo è un dato di fatto che va in ogni modo disinnescato se si vuole giungere ad una qualsiasi praticabilità razionale e come l'Uno è inteso intero, così il punto inesteso, l'istante atemporale, l'atomo indivisibile. Ma è evidente che questi punti “fermi” sono razionalmente convenzionali. Ma verranno “dimostrati” con lo pseudo argomento che, non potendo risalire all'infinito (che invece è la condizione irreversibile), ci si deve imbattere in un Motore Immobile, ciò che permetterebbe al barcaiolo di non naufragare, nonostante il leopardiano: “e 'l naufragar m'è dolce in questo mar”, presumendo di poter camminare sulle acque dell'aldilà*. “Riflettiamo un momento:... sovente diciamo di tenere in gran conto l'oro e l'argento, ma non è esatto; quello che noi teniamo in gran conto è ciò che appare come lo scopo in vista del quale cerchiamo l'oro ed ogni altro strumento. E la stessa cosa è per l'amicizia... In verità va a finire che l'unico vero amico è colui nel quale hanno termine tutte quelle che sono definite amicizie... Un punto dunque è acquisito: l'amico non è tale in vista di un'altra cosa amica; ma il bene è amico”. *Ci si riferisce all'Idea del bene come essere perfetto, riflesso dell'Uno “sopra l'essere” che bisogna contemplare, non strattonare*. 5- Se venisse meno il male (nemico), non ci sarebbe più ragione dell'amicizia. “Il bene però è amato a causa del male”. Questo male o qualcosa di negativo che assume la funzione causale nel nascere dell'amicizia è da intendersi non come un male specifico, ma come un limite, una carenza che si desidera colmare. È l'origine dell'Eros, immaginato figlio di Poros, il dio ingegnoso, e di Penia, la povertà. “Se il male fosse tolto di mezzo e non si attaccasse al corpo né all'anima né ad alcun'altra cosa che abbiamo detto non essere di per sé né buona né cattiva, il bene non ci sarebbe di utilità alcuna... e così risulterebbe evidente che eravamo amici ed amavamo il bene a causa del male, perché il bene è rimedio del male... della malattia... Però quella cosa amica... il vero amico ha una natura del tutto contraria... Se il male sparirà non ci saranno più la fame e la sete e nessun'altra calamità... Per ora siamo certi di questo, che il soffrire la fame è dannoso, ma talvolta anche giovevole... Se i mali svanissero, quelle cose che mali non sono, non è necessario che scompaiano con essi... Quei desideri che non sono né buoni né cattivi continueranno ad esistere anche se i mali scompariranno... Ed è impossibile che colui che desidera ed ama non sia amico di ciò che desidera ed ama... compresa l'amicizia. Ora, a quanto pare, sembra che la causa dell'amare e dell'essere amato è diversa”.

6- La ragione dell'amicizia consiste nell'affinità. “La precedente definizione dell'amicizia era una sorta di vana chiacchierata... una favola... Ciò che prova desiderio, lo prova per qualcosa di cui manca... e ciò che è mancante, è amico di ciò di cui manca... e si è mancanti di qualche cosa quando ne siamo privati... L'amore, l'amicizia ed il desiderio si manifestano sempre nei confronti di qualche cosa che ci è affine... e se voi siete amici fra di voi, è perché avete qualcosa in comune”. 7- Ciò che è affine è anche simile? “Se ciò che è affine differisce da ciò che è simile, allora... abbiamo veramente appurato qualche cosa su che cosa sia

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l'amicizia... Ma se simile ed affine sono la stessa cosa, non è facile confutare... che il simile risulta inutile nei confronti del simile proprio per la sua somiglianza. Per di più è assurdo che si ami ciò che è inutile... Ammettiamo... che ciò che è affine sia diverso da ciò che è simile... Allora ciò che è buono è affine ad ogni cosa e ciò che è male è estraneo a tutto, oppure il cattivo è affine al cattivo, il buono al buono e ciò che non è buono né cattivo a ciò che non è né buono né cattivo... Siamo ricaduti nuovamente in quei discorsi sull'amicizia che precedentemente avevamo respinto”.

V- Conclusione (222D - 223B). “A che scopo allora continuare a discutere? È chiaro che

non si approda a nulla”. Risulta comunque confermata a questo punto l'intima famigliarità dell'uomo con il vero Bene, come precedentemente la presenza del male non è stata solo contrapposta alla ricerca del Bene, ma recuperata in funzione di quest'ultima. *L'importante è, nonostante la maiuscola, che questo Bene non venga in qualsivoglia modo configurato mitologicamente, antropologicamente e tanto meno teologicamente, come succederà poi con il neoplatonismo ed il cristianesimo; basta assumerlo nella sua convenzionalità “strategica” di intermedio “intero” e quindi di Uno “sopra l'essere”. Platone non ha mai inteso fondare una teologia al riguardo, ma solo una filosofia, l'esercizio della razionalità*. “Se infatti né gli amanti né gli amati, né i simili né i dissimili, né i buoni né gli affini, né tutti gli altri... insomma nessuno di essi è amico... Crediamo di essere amici gli uni degli altri, ma non siamo stati in grado di dire che cosa è l'amicizia”. Per comprendere l'esatta portata di questa affermazione socratica occorre tenere presente che si tratta di una conclusione ironica, ma anche propria del dialettico che ha deciso di non scrivere quanto conosce sul tema dell'amicizia. Il suo contenuto vero e proprio è stato tenuto fuori dal discorso con ben precisa intenzione ed è stato riservato per un'altra occasione. *Ci sembra tuttavia più pertinente l'intenzione di sottolineare che la “scoperta” della verità non è poi una cosa da poco e, appunto, solo di pochi nel senso del conoscere-essere. Di fronte a questo compito dell'intelletto umano la “sufficienza” metafisica appare evidente*.

21- Eutidemo ♣ Sull'eristica (ragionamento specioso). “La vostra arte è tale ed è stata

escogitata con tanta abilità, che in brevissimo tempo chiunque la può apprendere. Senz'altro, il sapere di cui vi occupate è bello, perché si trasmette rapidamente, ma non è adatto alla discussione pubblica, anzi, se mi darete retta, vi guarderete dal parlare davanti a molti, perché non succeda che, dopo aver imparato in fretta da voi, non vi siano nemmeno riconoscenti. Anzi, discutete fra voi due soli: altrimenti, qualora lo facciate davanti a qualcun altro, che sia soltanto con uno che vi dia del denaro. Se siete saggi, darete questi stessi consigli anche ai vostri discepoli: che non discutano mai con nessuno, tranne che con voi e tra di loro, perché ciò che è raro è prezioso” (303 E - 304 B). Presentazione, traduzione e note di Maria Luisa Gatti. Personaggi: Clinia giovane aristocratico, Ctesippo amante di Clinia, Socrate, Critone, Eutidemo, Dionisodoro.

I- Prologo. Dialogo preliminare tra Socrate e Critone sulla vita e la sapienza di Eutidemo e Dionisodoro (271A - 272D). “Riguardo alla loro sapienza... essa è straordinaria... entrambi sono assolutamente onniscienti”. L'elogio dei due sofisti ha dell'ironico. “Sono molto esperti nell'uso delle armi... fortissimi nelle contese giudiziarie... hanno raggiunto la perfezione nell'arte del pancrazio (lotta e pugilato)... Pertanto, o Critone, ho intenzione di affidarmi a questi due uomini... Essi stessi hanno cominciato da vecchi ad occuparsi di questa sapienza a cui aspiro: l'eristica”, arte del contendere a parole, in modo, da sopraffare l'avversario con qualunque mezzo. Se per l'arte dialettica occorre un lunghissimo tirocinio educativo, l'eristica può essere imparata in uno o due anni.

II- Antefatto del dialogo narrato. Incontro tra i personaggi ed esposizione dello scopo della

discussione (272D - 275C). 1- Ingresso di Eutidemo e Dionisodoro nel Liceo. “Per

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un'ispirazione del dio... il consueto segno divino... tornai a sedermi... e li salutai calorosamente”. 2- Eutidemo e Dionisodoro si proclamano maestri di virtù. “La virtù, o Socrate, crediamo di essere capaci di insegnarla meglio e più in fretta di tutti... e siamo qui per presentarla ed insegnarla”. 3- Invito a Eutidemo e Dionisodoro affinché persuadano Clinia all'esercizio della filosofia. “Solo chi è già convinto di dover venire a lezione da voi potrebbe essere reso buono... perché voi due siete maestri di essa... ed è effetto della stessa arte riuscire a persuaderlo del fatto che la virtù è insegnabile... Perciò voi... sareste, tra i contemporanei, i più capaci di esortare alla filosofia e alla cura della virtù... Allora... convincete tale giovanetto (Clinia) che si deve amare la sapienza e curarsi della virtù e farete un piacere a me e a tutti costoro”.

III- Prima dimostrazione eristica di Eutidemo e Dionisodoro a Clinia. Esposizione di

alcune aporie dell'apprendimento (275C - 277C). “Clinia, quali sono, tra gli uomini, quelli che imparano, i sapienti o gli ignoranti?”. Il sofisma fa leva sulla duplicità di significato di σοφός (colui che sa; colui che apprende), di αµαθής (= ignorante; che non apprende) e di µανθάνειν (= comprendere e apprendere). Prima Clinia viene spinto da Eutidemo a negare la sua affermazione, poi viene costretto da Dionisodoro a negare anche questo. “Sono sapienti, rispose Clinia, quelli che apprendono... Ma voi, apprendendo quello che non sapevate, imparavate, essendo ignoranti... Pertanto imparano gli ignoranti... non i sapienti. Dionisodoro... incalzò:... quando il grammatico vi dettava... apprendevano i sapienti oppure gli ignoranti?'... 'I sapienti' rispose Clinia... Si misero a ridere... Eutidemo:... apprendono quello che sanno, oppure quello che non sanno?”. Torna il sofisma sull'apprendere e comprendere. “Tutte le nostre domande sono così, o Socrate, senza possibilità di sfuggirvi... Intanto Clinia aveva risposto che coloro che imparano apprendono ciò che non sapevano... Dionisodoro:... l'apprendere è l'acquisire la scienza di quello che si impara... Pertanto il sapere è l'avere scienza... e il non sapere è non avere scienza... Coloro poi che l'acquisiscono... sono coloro che non ce l'hanno... Perciò quelli che imparano sono tra coloro che acquisiscono, ma non tra quelli che possiedono... Allora apprendono quelli che non sanno, ma non coloro che sanno”.

IV- Primo discorso protrettico-esortativo di Socrate a Clinia. Per essere felici occorre

cercare di divenire sapienti e di filosofare (277D - 282E). 1- Tentativo di rassicurare Clinia sugli intenti scherzosi di Eutidemo e Dionisodoro. “Clinia non stupirti se questi discorsi ti sembrano insoliti... Per ora, pensa di udire la prima parte di una iniziazione sofistica... I due stranieri... denominano 'apprendere' il caso in cui uno, non avendo all'inizio nessuna scienza riguardo ad un oggetto, ne acquisisca in seguito la conoscenza; ma questo stesso termine viene usato anche quando uno, godendo di questa scienza, se ne serve per esaminare questo stesso oggetto, sia nell'agire sia nel parlare. Questo viene definito 'comprendere' piuttosto che apprendere... E somigliante a questo è la seconda domanda in cui ti è stato chiesto se gli uomini imparano quello che sanno oppure quello che non sanno... Parlo di gioco, perché se uno imparasse... tutte le nozioni di tale tipo, non per questo saprebbe meglio come stiano le cose, ma sarebbe solo capace di prendere in giro gli uomini per mezzo della differenza di significato dei nomi”. *Lo si potrebbe oggi identificare con lo specialismo esasperato, fenomeno che riduce spesso il conoscere a nozionismo*. 2- Socrate presenta a Clinia un esempio di esortazione alla filosofia che si incentra sulla coincidenza di felicità, scienza, sapienza e filosofia. “Tutti gli uomini desiderano stare bene... avere molti beni... essere ricchi... godere di una buona salute, essere belli e possedere... le altre doti fisiche... Ma anche... l'essere saggio, giusto e generoso, se li poniamo tra i beni, agiamo correttamente... Ma alla sapienza assegneremo nel coro il posto... tra i beni... il massimo dei beni... la buona sorte... La sapienza è senz'altro buona sorte: lo potrebbe capire anche un bambino... Si gode di una sorte migliore avendo a che fare con un sapiente... La sapienza dà agli uomini, in ogni campo, una buona riuscita, perché essa non può mai sbagliare in nulla ma, di necessità,

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agisce in modo conveniente e raggiunge lo scopo: altrimenti non sarebbe sapienza”. *Questa “sicumera” sull'infallibilità della sapienza va presa sul serio, se non altro per smascherare l'attuale concezione “democratica” della verità, abbandonata alla deriva del dubbio sistematico nella presunzione di rispettare la dignità di ogni cittadino, ponendo così sullo stesso piano il 'diritto' dell'ignoranza e quello della sapienza. Non si tratta di chiudere la bocca a nessuno, neppure per evitare schiamazzi notturni, ma di denunciare il plagio collettivo, supportato dell'occupazione “specialistico”-feudale della mente e della cultura del nostro tempo. Anche oggi all'ignorante spetta la sua specifica etichetta a differenza del sapiente*. “La questione sta in questi termini: quando vi è la sapienza, chi la possiede non ha proprio bisogno della buona riuscita... Abbiamo ammesso che se possedessimo molti beni saremmo felici... e saremmo felici se ci fossero utili... li potessimo usare... e quando se ne fa un uso corretto... Credo proprio che sia peggio servirsi di una cosa qualsiasi in modo non corretto, che trascurarla; nel primo caso si tratta di un male, mentre nel secondo né di un bene né di un male... Anche per l'uso dei beni: le ricchezze, la salute, la bellezza, servirsi rettamente di tutti è una scienza che guida e dirige in modo corretto l'azione... La scienza... procura agli uomini un buon esito ed anche un buon operare... In sintesi, o Clinia... se queste realtà sono dirette dall'ignoranza, si tratta di mali tanto peggiori dei contrari, quanto maggiori sono le capacità messe al servizio della cattiva guida; se invece vengono condotte da intelligenza e sapienza, si tratta di beni maggiori, ma in sé e per sé nessuna di esse è di nessun valore... Ne deriva allora per noi... che la sapienza è un bene e l'ignoranza è un male... e occorre che ogni uomo cerchi, in ogni modo, di essere sapiente, quanto più è possibile... Purché, o Clinia, la sapienza sia insegnabile e non sorga spontaneamente negli uomini: su questo problema non abbiamo ancora indagato... Ora poiché ti sembra che sia insegnabile e che sia l'unica capace di rendere l'uomo felice e fortunato... è necessario filosofare”. 3- Invito di Socrate ad Eutidemo e Dionisodoro, affinché presentino a Clinia un discorso protrettico-esortativo. “Infatti... per noi è molto importante che questo giovane diventi sapiente e buono”.

V- Seconda dimostrazione eristica di Eutidemo e Dionisodoro a Socrate e Ctesippo (283A -

288D). 1- Rientro in scena di Eutidemo e Dionisodoro. Aporie riguardanti il divenire ed il non-essere sapienti. “Desiderate che Clinia diventi sapiente... visto che non lo è ancora... per cui desiderate che diventi quello che non è, e che non sia più quello che è ora... Che altro desiderate, a quanto pare, se non che muoia?”. Questo sofisma fa leva sull'interpretazione di ός pronome relativo “il quale”, nel senso di οίος-“tale”, in esso anche il verbo είναι-“essere” viene usato sia per “essere tale”, sia per “esistere”. Il desiderio di mutamento di carattere qualitativo in Clinia viene identificato con il desiderio di un suo mutamento nell'esistenza, ossia della sua morte. 2- Discussione di Ctesippo con Eutidemo e Dionisodoro. Aporie riguardanti il mentire, l'ingannare ed il contraddire. “Eutidemo... ho udito che sostieni su di me una menzogna... ossia che vorrei che egli morisse... Ti sembra che sia possibile mentire... esprimendo l'oggetto di cui si parla?... Se lo si esprime, si tratta... degli esseri di cui si parla... una delle cose esistenti, separate dalle altre... Ma parlare di ciò che è e delle cose che sono è dire la verità”. L'equivoco fa leva su τό όν “ciò che è”; si identifica la realtà della parola con la realtà della cosa espressa, *un po' come il genesiaco “fiat lux et lux facta est”*. “Ma chi afferma questo, Eutidemo, non tratta di ciò che è... e ciò che 'non è' non è... in modo assoluto;... nessuno può fare ciò che non esiste in assoluto... I retori, quando parlano al popolo agiscono... e fanno anche... ed il parlare è anche agire e fare”. Insomma se non si può agire su ciò che non è, non lo si può nemmeno fare né dire; per cui non si può neppure mentire. Il sofisma consiste in questo: parlando, si produce l'espressione di una cosa, ma non la stessa cosa. “Vi sono alcuni che esprimono le cose come stanno... ossia gli uomini probi e che dicono la verità... Ciò che è bene è buono, mentre ciò che è cattivo è male... I buoni dicono male di ciò che è cattivo, se parlano di come sta... Non dire mai più di fronte a me in modo così rozzo che desidero la morte di quelli a cui maggiormente tengo... Per parte mia, dice Socrate, poiché sono vecchio, sono disposto a correre il rischio e a mettermi nelle mani

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di questo Dionisodoro... che mi uccida e, se vuole mi metta a cuocere e faccia di me tutto ciò che desidera, purché mi renda buono... Ma tu, Dionisodoro non denominare il contraddire un offendere; l'insultare, infatti, è qualcosa di diverso... Quando io parlo di un oggetto e tu invece di un altro non ci contraddiciamo o io parlo di un oggetto e tu di un altro o... non ne tratti affatto”. Se due persone pensano e parlano di una stessa cosa X, allora concordano; se invece uno dei due ha una nozione “falsa” di X, allora non parla di X, bensì di Y; se infine entrambi hanno una nozione “falsa” di X, allora uno pensa a Y, l'altro a Z, e nessuno a X, cosicché non si contraddicono.

3- Radici protagoree del ragionamento di Eutidemo e Dionisodoro. Aporie di chi sostiene che il dire il falso non esiste. “Parlando o si dice la verità, oppure non si parla affatto... Allora se non è possibile dire il falso, non è possibile neppure pensarlo... perciò non esiste l'opinione falsa... e nemmeno l'ignoranza, né uomini ignoranti... O Dionisodoro, tu parli per parlare... e non è possibile, secondo il tuo ragionamento, confutare, se nessuno s'inganna... Non si può invitare uno a ciò che non esiste... Non capisco un gran che di queste sottigliezze... Considera questo: se davvero non è possibile né mentire, né avere opinioni false, né essere ignoranti, forse non si può nemmeno sbagliare, quando si fa qualcosa. Difatti, dite che non è possibile che chi agisce erri in quello che fa... Se infatti non erriamo né agendo, né parlando, né ragionando, voi... che cosa venite ad insegnarci... mentre affermavate di sapere comunicare la virtù meglio di tutti a chi desideri approfondirla?”. 4- Discussione di Socrate e Ctesippo con Eutidime e Dionisodoro. Il ragionamento eristico, dopo aver abbattuto gli altri, cade. “Socrate, intervenne Dionisodoro,.. non sai come cavartela... Risposi... che cosa significa che non so cavarmela?... che non sono in grado di confutarlo?... Bisogna obbedire per forza... Gli esseri ragionevoli hanno senso perché hanno l'anima... né conosco qualche proposizione che abbia l'anima... perché poco fa mi hai chiesto che significato avesse la mia proposizione”. Il sofisma fa leva sul duplice significato di νοεîν, come “pensare” e “avere significato”. “Infatti se non ho sbagliato, non mi potrai confutare neppure tu anche se sei sapiente, né potrai trarti d'impaccio dalle mie parole... Cercherò come posso di esporne il seguito, per vedere se mi sia possibile provocarli e se, essendo pietosi e compassionevoli verso di me, che sono tutto intento e che mi impegno sul serio, anch'essi facciano seriamente”.

VI- Secondo discorso protrettico di Socrate a Clinia. Solo la scienza capace sia di produrre,

sia di utilizzare il proprio oggetto può rendere felici (288D - 290D). “Avevamo riconosciuto che bisogna filosofare... Ma la filosofia è acquisizione di scienza... quella che ci sia di giovamento... che sappia usare quello che fa... Nemmeno se vi fosse una scienza tale da rendere immortali, senza che si sappia a che cosa serva l'immortalità, neppure questa sembrerebbe essere di alcuna utilità... Ci occorre... una scienza tale che in essa vengano a coincidere il fare ed il saper usare quello che si produce... l'arte che rende capaci di fabbricare la lira e quella che rende capaci di suonare... L'arte produttrice di discorsi non è quella che occorre possedere per essere felici... Neppure l'arte della guerra è tale da renderci anche felici e se ne deve cercare un'altra, invece dell'arte militare”.

VII- Intermezzo. Ripresa della conversazione tra Socrate e Critone. Aporie nella ricerca

della scienza capace di rendere felici (290E - 293A). “A dire queste parole... è stata la voce di uno degli esseri superiori là presente... uno degli esseri superiori e di molto”. Platone, per sottolineare l'importanza della conoscenza del rapporto fra scienze matematiche e dialettica, interrompe il dialogo narrato e fa domandare da Critone se sia stato proprio Clinia a dire cose così intelligenti sull'arte della guerra. Per non spiegare chi abbia introdotto nel dialogo queste conoscenze ulteriori e fondative, Socrate, dissimulando ed esagerando nello stesso tempo, si riferisce all'ambito di ciò che è superiore, divino. “Giunti all'arte regale... risultò che ci trovammo di nuovo al punto di partenza... Ci sembrò infatti che l'arte politica e quella regale si identificassero... e che a quest'arte, sia quella militare, sia le altre affidino la guida dei

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prodotti di cui esse sono artefici, come alla sola che li sappia usare... Difatti ricominciammo l'indagine, all'incirca così: 'Ebbene l'arte regale, che comanda su tutto, realizza qualcosa di utile... L'arte regale che regge tutto quello su cui ha dominio... deve essere utile... e procurarci qualcosa di buono... Ma avevamo reciprocamente convenuto che bene non è altro che una certa scienza... che rendesse sapienti e comunicasse una scienza, se davvero essa deve essere quella che giova e rende felici... Essa non deve produrre, infatti, nessun effetto né cattivo né buono, non deve comunicare nessun'altra scienza che se stessa... ed è quella grazie a cui renderemo gli altri buoni... Siamo lontani... dal sapere che cosa mai sia quella scienza che ci renderà felici... Io stesso, accortomi di essere caduto in questa aporia, emisi tutta la mia voce... come se invocassi i Dioscuri”.

VIII- Terza dimostrazione eristica di Eutidemo e Dionisodoro a Socrate e Ctesippo (293A -

304C). 1- Aporie riguardanti scienza, sapienza ed ignoranza. “Eutidemo: Non è possibile che qualcuno degli esseri non sia proprio quello che è... e pertanto se sai sei sapiente”. Il sofisma consiste nel dare, ad un'espressione intesa in senso relativo (= sapere qualche cosa), un valore assoluto (= essere sapiente). “Se non sai qualcosa, non sei sapiente... e per questo sei ignorante... Così ti trovi ad essere ciò che sei e, all'opposto, a non esserlo in relazione alle stesse cose e nello stesso tempo... Allora, Socrate, hai scienza di qualche cosa... ed hai scienza con quello per cui sai. Socrate: Proprio con quello; credo infatti che tu ti riferisca all'anima... Se tu interroghi intendendo in un senso, mentre io comprendo in un altro e poi rispondo in riferimento a questo, per te è sufficiente, anche se la mia risposta non è per nulla a proposito?... Io non risponderò -dissi- prima di essere giunto a chiarezza... Compresi... che voleva catturarmi con una rete di parole... Se ti pare necessario Eutidemo procedere così, lo si deve fare... Riprendi dunque le tue domande dal principio... Risposi, grazie all'anima... e quando so, sempre con questa... sempre, dal momento che si deve eliminare il 'quando'... tutto con questa, almeno quello che so... Dal momento che le parole 'almeno quello che so' non hanno alcun valore, allora so tutto”. I sofismi si fondano sull'ambiguità di αεί che significa sia “sempre”, sia “in ogni occasione”, e sulle diverse accezioni di πάντα che significa sia “tutto quello che so”, sia “tutto quello che è possibile sapere”. 2- Aporie concernenti legami di parentela. “È evidente - risposi -. Infatti sono già inferiore ad uno di voi: figuriamoci, dunque, se non devo fuggire davanti a tutti e due. Diodoro, vedendo il fratello in pericolo, incomincia con un nuovo sofisma, che fa leva sul fatto che il termine πατήρ-padre, inteso non come un attributo riferibile a più soggetti, ma come la caratteristica di un individuo, che non si può trovare in altri. Nel caso sembra che Patrocle fosse figlio di Fenarete e Cheredemo e, perciò, fratellastro di Socrate, il quale aveva per genitori Sofronio e Fenarete. “Pertanto, essendo tuo, è padre, cosicché il cane diventa tuo padre e tu fratello di cagnolini”. Anche qui al termine σός (= tuo) viene dato un senso assoluto ed esso viene riferito sia a padre, sia a cane. La dimostrazione burlesca, che identifica il padre di Eutidemo e Dionisodoro con quello di Ctesippo e di tutti gli uomini, e non solo di questi, ma di tutti i viventi, fino ai ricci di mare ed ai cani, diventa comprensibile alla luce del fondamento della dottrina dell'anamnesi: la natura tutta quanta è congenere. 3- Aporie sul bene e la felicità. “Dimmi, Ctesippo, se ti sembra che sia un bene per un malato bere una medicina o no, quando ne abbia bisogno?”. L'espressione αγαθόν είναι (= essere un bene), può venire intesa sia in senso assoluto, sia in senso relativo. “Perciò ammetti che anche l'oro è un bene... e pertanto si deve averlo sempre e dappertutto e soprattutto su di sé”. Il gioco continua sull'espressione έχειν έν εαυτώ che può significare sia “avere in sé” che “avere su di sé” come un ornamento. 4- Aporie del vedere e del parlare. “Però, forse - disse Eutidemo -, gli Sciti e gli altri uomini, vedono le cose che possono essere viste”. Come soggetto τά δυνατά οράν può essere inteso sia in senso passivo, “ciò che si può vedere”, sia in senso attivo, “ciò che può vedere”. “Non è proprio possibile, chiese Dionisodoro - parlare tacendo?”. L'espressione ςιγώντα λέγειν significa sia “parlare tacendo”, sia “parlare di cose che tacciono”. Analogamente, anche λέγοντα σιγάν significa sia “tacere parlando” sia “tacere di cose che parlano”. *Questi sofisti erano davvero dei

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buontemponi*. 5- Idee, dialettica e anima. “Ma tu, Socrate - ribatté Dionisodoro -, hai mai visto una cosa

bella? Certo e molte, Dionisodoro -, risposi. Ma erano diverse dal Bello, oppure identiche ad esso?... Erano diverse dal Bello in sé, anche se in ciascuna di esse era presente una certa bellezza. Perciò - concluse -, se vicino a te vi è un bue, sei un bue e, dal momento che ti sono presente io, sei Dionisodoro?”. Va qui segnalata una chiara allusione alla teoria delle Idee. L'aporia di Socrate di fronte alla domanda sul rapporto fra le cose belle e Bello in sé e la sottolineatura della differenza fra cosa singola e Idee e della differenza del concetto di “presenza” mostrano che Socrate ha in mente, nella sua globalità, la problematica delle Idee, ma abbassa questa dottrina superiore ad eristica, affermando che, come le cose belle diventano tali grazie alla presenza della Bellezza, Socrate diverrebbe un bue grazie alla presenza del Bue, e così via. “Il bello è bello ed il brutto è brutto... e anche l'identico è identico ed il diverso diverso”. Socrate, imitando gli eristi, gioca sul senso del “Diverso”, per sottolineare che si tratta di una forma particolare. “Non avrei mai creduto che nemmeno un bambino potesse trovare difficoltà nel fatto che il diverso sia diverso”. Dionisodoro continua con i suoi sofismi piuttosto scoperti e Socrate a far finta di assecondarlo come uno scolaro. 6- Elogio degli eristi. “A questo punto non ci fu nessuno dei presenti che non lodasse in modo smisurato il discorso ed i due uomini; col loro ridere ed applaudire, manifestare contentezza, poco mancò che non scoppiassero... Ciò che vi è di civile e gradevole nei vostri discorsi è che quando affermate che nulla è bello, o buono, o bianco, o altro simile o, addirittura, che niente è diverso da nient'altro, sicuramente chiudete la bocca agli uomini... ma tappate anche la vostra; questo è assai gentile e toglie ogni odiosità ai vostri ragionamenti... Discutete soprattutto fra voi due soli: altrimenti, qualora lo facciate davanti a qualcun altro, che sia soltanto con uno che vi dia del denaro... Se siete saggi, darete questi stessi consigli anche ai vostri discepoli: che non discutano mai con nessuno, tranne che con voi e tra loro, perché ciò che è raro è prezioso”. Si tratta della beffa sulla segretezza, tema di fondo dell'Eutidemo.

IX- Conversazione conclusiva tra Socrate e Critone su retorica, filosofia ed educazione

(304C - 307C). 1- Le critiche di un logografo alla filosofia e la risposta di Socrate. “Uno di quelli capaci di comporre discorsi per tribunali... (dichiarò che) la filosofia è una cosa di nessun valore... Questa attività in sé e gli uomini che se ne occupano, sono insulsi e ridicoli... Tuttavia, a me, o Socrate, sembrava che questa attività non venisse biasimata correttamente né da lui né casomai da altri... Essi, rispose Socrate, credono di essere gli uomini più sapienti di tutti e, oltre a esserlo, di venire anche considerati tali dai più... Si occupano con misura di filosofia e di politica, senz'altro secondo un ragionamento verosimile... Si tratta di bell'aspetto, piuttosto che di verità... Perciò, se la filosofia è un bene e così pure l'attività politica, ciascuna rispetto ad un fine diverso e questi, partecipando di ambedue, sono nel mezzo, non dicono nulla di valido, perché sono inferiori ad entrambe. Se poi sono una buona e una cattiva, sono superiori all'una e inferiori all'altra; invece, se sono entrambe cattive, solo in questo caso direbbero qualcosa di vero e in nessun altro”. Non si possono prendere i termini nella loro ambiguità, ma seguendo il criterio del mezzo e del fine. “Bisogna amare ogni uomo, chiunque sia, qualsiasi cosa dica, che mostri intelligenza e si impegni coraggiosamente nell'attuarla”. *Socrate professa il rispetto di tutti, non prescindendo però dalla discriminante intellettuale-etica*. 2- Ricerca dell'educatore del figlio di Critone. “Caro Critone, non sai che in ogni attività gli uomini inetti e senza valore sono molti, mentre quelli seri e degni di stima sono pochi?... Allora Critone non fare ciò che non si deve fare... ma se la filosofia ti pare quale io penso che sia, allora seguila ed esercitala con coraggio... tu stesso ed i tuoi figli”. *La critica, tra umorismo e finto rispetto, demolisce la sofistica del tempo*.