PIZZO E PIZZINI ORGANIZZAZIONE E CULTURA NELL’ANALISI DELLA MAFIA

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 171 RAIMONDO CATANZARO E MARCO SANTORO PIZZO E PIZZINI. ORGANIZZAZIONE E CULTURA NELL’ANALISI DELLA MAFIA 1. Aspetti del recente dibattito sulla ma fia Negli ultimi quarant’anni, cioè da quando ha preso avvio in Italia l’analisi empirica e sistematica delle organizzazioni mafiose 1 , si è cercato in più modi di cogliere la complessità della mafia come for- ma di criminalità organizzata e ancor prima come sistema sociale e/o culturale: dall’idea di mafia e mafiosi come mediatori culturali violenti che colmano gap di comunicazione tra stato e classi subal- terne (Blok 1974; Boissevain 1974; Schneider e Schneider 1976), al- la concezione dei mafiosi come imprenditori innovatori nel senso schumpeteriano del termine (Arlacchi 1983), ovvero come impren- ditori della protezione/estorsione violenta (Catanzaro 1988a; 1988b), o ancora come garanti della fiducia nelle transazioni economiche (Gambetta 1992). In poco più di vent’anni si è realizzato un com- pleto rovesciamento dell’immagine della mafia promossa e accettata dagli studiosi; si è passati dall’idea che la mafia fosse il prodotto cul- turale di una società caratterizzata da arretratezza a una visione della mafia come effetto e anzi agente di modernità – per quanto secondo modalità devianti o atipiche, e soprattutto violente e disfunzionali per la collettività. In quello stesso periodo non sono mancate altre, anche parzial- mente diverse, interpretazioni o analisi della mafia, analisi che nel loro insieme hanno contribuito a evidenziarne la complessità e mul- tiformità. I vari tentativi di cogliere gli aspetti di volta in volta di gruppo o istituzione politica (Sabetti 1984; Santino 1994; Santoro 1995; 1998; Armao 2000) o di razionale organizzazione d’impresa capace di interferire con il funzionamento del mercato e di incidere pesantemente sullo sviluppo locale (Santino e La Fiura 1990; Zama-  1  Peraltro tale analisi aveva ampiamente caratterizzato tutta la prima fase di dibattito sulla criminalità mafiosa, a partire dall’emergere stesso della questione all’indomani del processo di unificazione nazionale e fino al primo decennio del Novecento. Si noti la coincidenza con la stagione del positivismo, di cui le scienze sociali – e la sociologia tra queste – sono in gran parte figlie, anche nella cultura italiana (Barbano e Sola 1985).

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Published in La fatica di cambiare, Catanzaro and Sciortino eds, Bologna 2009

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RAIMONDO CATANZARO E MARCO SANTORO 

PIZZO E PIZZINI. ORGANIZZAZIONE E CULTURANELL’ANALISI DELLA MAFIA

1.  Aspetti del recente dibattito sulla mafia

Negli ultimi quarant’anni, cioè da quando ha preso avvio in Italial’analisi empirica e sistematica delle organizzazioni mafiose1, si ècercato in più modi di cogliere la complessità della mafia come for-ma di criminalità organizzata e ancor prima come sistema socialee/o culturale: dall’idea di mafia e mafiosi come mediatori culturaliviolenti che colmano gap di comunicazione tra stato e classi subal-terne (Blok 1974; Boissevain 1974; Schneider e Schneider 1976), al-la concezione dei mafiosi come imprenditori innovatori nel sensoschumpeteriano del termine (Arlacchi 1983), ovvero come impren-ditori della protezione/estorsione violenta (Catanzaro 1988a; 1988b),o ancora come garanti della fiducia nelle transazioni economiche(Gambetta 1992). In poco più di vent’anni si è realizzato un com-pleto rovesciamento dell’immagine della mafia promossa e accettatadagli studiosi; si è passati dall’idea che la mafia fosse il prodotto cul-turale di una società caratterizzata da arretratezza a una visione dellamafia come effetto e anzi agente di modernità – per quanto secondomodalità devianti o atipiche, e soprattutto violente e disfunzionaliper la collettività.

In quello stesso periodo non sono mancate altre, anche parzial-mente diverse, interpretazioni o analisi della mafia, analisi che nelloro insieme hanno contribuito a evidenziarne la complessità e mul-tiformità. I vari tentativi di cogliere gli aspetti di volta in volta digruppo o istituzione politica (Sabetti 1984; Santino 1994; Santoro1995; 1998; Armao 2000) o di razionale organizzazione d’impresacapace di interferire con il funzionamento del mercato e di incidere

pesantemente sullo sviluppo locale (Santino e La Fiura 1990; Zama- 1 Peraltro tale analisi aveva ampiamente caratterizzato tutta la prima fase di

dibattito sulla criminalità mafiosa, a partire dall’emergere stesso della questioneall’indomani del processo di unificazione nazionale e fino al primo decennio delNovecento. Si noti la coincidenza con la stagione del positivismo, di cui lescienze sociali – e la sociologia tra queste – sono in gran parte figlie, anche nellacultura italiana (Barbano e Sola 1985).

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gni 1993; Centorrino et al.  1999), o di ripensarne e rileggerne gliaspetti simbolico-culturali (Siebert 1994; Santoro 1998; 2007a; Dino2002) o l’azione strategica come effetto e ingrediente di struttureflessibili di reti sociali (Sciarrone 1998) ovvero di gruppi corporatimultifunzionali (Paoli 2000), hanno tuttavia avuto meno risonanzadi fronte alla crescente diffusione dell’immagine – offerta dalle in-dagini della magistratura e amplificata dai media – di un’unica or-ganizzazione più o meno centralizzata, comunque segreta, con pro-prie regole e rituali, e soprattutto una gerarchia di comando e deci-sione capace di funzionare come «metagoverno»  della criminalità

organizzata. Da visioni «culturaliste» alla Hess («esistono i mafiosi ela loro subcultura normativa ma non la mafia come organizzazionechiusa e segreta») ancora dominanti negli anni settanta (il libro diHess, pubblicato nel 1970, è stato tradotto nel 1973 e ripubblicatocon una nuova appendice nel 1984), si è così arrivati, tra la fine deglianni ottanta e i primi anni novanta, al prevalere dell’idea che la ma-fia fosse in effetti un’organizzazione unica («Cosa Nostra»), con unastruttura verticistica e piramidale di comando (secondo il cosiddetto«teorema Buscetta» elaborato attraverso le indagini giudiziarie delpool antimafia di Palermo: si vedano Galluzzo et al. 1986; Catanza-ro 1986). Dall’idea che esistono i mafiosi e i loro instabili raggrup-pamenti si è così passati in breve tempo all’idea che esiste effettiva-mente un’organizzazione mafiosa tendenzialmente unica, governataverticisticamente da una «cupola»  o «commissione», con strutturarigidamente piramidale, al cui interno si tenta di incorporare tutti iclan territoriali e tutte le famiglie.

Variamente elaborata, inserita in paradigmi concettuali anchemolto diversificati (da quello strutturale a quello razionalista, daquello economico a quello conflittuale – Catanzaro 1994; Santino1995), l’idea della mafia come organizzazione segreta e criminale ri-prendeva peraltro una linea interpretativa che come quella a essaconsiderata antitetica (la tradizione cosiddetta «culturalista», in par-ticolare su base psicologica-individuale, autorevolmente avanzata epromossa dall’etnologo siciliano Giuseppe Pitrè)2 ha attraversato da

2 La distinzione tra una tradizione di analisi culturale basata sulla nozione di«carattere regionale», sedimentato dalla storia e dall’ambiente geografico, che sipresume caratterizzi stabilmente e organicamente una certa popolazione – nelcaso specifico quella siciliana – trovando la sua massima espressione appuntonel tipo del mafioso, da una parte, e dall’altra un’interpretazione della mafiache muove dal concetto di cultura come rete di significati incarnati in simbolipubblicamente disponibili – distinzione cruciale ancorché quasi mai esplicitatanella letteratura sulla mafia – è chiaramente uno dei pilastri analitici di questo

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sempre il dibattito sulla criminalità organizzata siciliana fin dalla suagenesi con la formazione dello stato unitario. Si tratta di una lineainterpretativa che prende le mosse dalle grandi inchieste sulla mafiacondotte nella seconda metà dell’Ottocento («l’industria della vio-lenza» di Franchetti, i «tenebrosi sodalizi» delle varie relazioni pre-fettizie) e che si sarebbe tradotta in politica di contrasto durante ilregime fascista con l’operazione del prefetto Mori (Lupo 1996). Sipotrebbe dunque sostenere che non c’è nulla di nuovo se non fosseper alcuni elementi che caratterizzano in maniera specifica la nuovainterpretazione della mafia come fenomeno organizzativo che si af-

ferma alla fine del Novecento. Non soltanto la mafia viene configu-rata come un’organizzazione con procedure di affiliazione, rituali,simbolismi, ma si scoprono livelli meta-organizzativi di coordina-mento centralizzato fra i vari gruppi (le cosiddette «famiglie») a ba-se territoriale (chiamati mandamenti).

Questa analisi della mafia, resa possibile dalle molte e tenden-zialmente convergenti testimonianze dei cosiddetti «pentiti» (Paoli1998; Gruppo Abele 2005) ha costituito il fondamento per un’azio-ne di contrasto, basata su una ridefinizione giuridica della criminali-tà organizzata, che ha condotto a grandi successi e allo smantella-mento di buona parte di Cosa Nostra a partire dagli anni ottanta.Ma proprio questi successi, cioè lo smantellamento dell’organizza-zione tendenzialmente unica e verticisticamente organizzata, hannodeterminato una risposta da parte dei gruppi mafiosi che si sonoriorganizzati in modi differenti. Si tratta di processi dinamici chesono emersi con tutta evidenza quando, nel 2006, è stato catturatoBernardo Provenzano, il padrino latitante da parecchi decenni, e siè scoperto che la sua organizzazione era parecchio differente daquella che gli investigatori conoscevano, del cosiddetto gruppo cor-leonese di comando di cosa Nostra (esemplificato dai padrini Riinae Bagarella). E, elemento ancora più significativo, lo stesso Proven-zano aveva fatto parte in passato, e ancora faceva parte di quelgruppo storico di comando, anzi si era caratterizzato da giovane per

articolo. Mentre la prima presuppone stabilità e continua riproduzione (evo-cando quindi l’idea di «destino»), la seconda considera la cultura come un re-pertorio storicamente mutevole, a partire dal quale gli attori sociali costruisco-no le proprie interpretazioni di senso e le proprie strategie di azione in funzionedi un contesto in movimento, e mutamento (Swidler 1986; DiMaggio 1990;1997; Hannerz 1992; Santoro 2007c). Questo secondo concetto di cultura èquello su cui si basano non solo gran parte dell’antropologia contemporaneama anche quelle recenti specializzazioni disciplinari che sono la «sociologia cul-turale»  e la «storia culturale»: si vedano per tutti Spillman (2002) e Sewell(2005).

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la sua vocazione di killer spietato e senza scrupoli, perfettamente inlinea con quella del gruppo a cui apparteneva (Oliva e Palazzolo2006). Si può dunque ritenere plausibile l’ipotesi che le sue strategiedi governo e comando siano variate nel tempo proprio in relazioneal successo dell’azione di contrasto – oltre che, a quanto risulta datestimonianze di pentiti, di una personalità comunque più orientataalla mediazione che alla decisione3. E oggi sono in parecchi a ritene-re che proprio lo smantellamento di buona parte dell’organizzazionechiamata Cosa Nostra ha indotto i gruppi mafiosi a riorganizzarsi informe diverse, meno verticistiche e con modalità relazionali diffe-

renti da quelle rigidamente gerarchiche.Questi cambiamenti inducono a ritenere che esistano non una,

ma molteplici forme organizzative dei gruppi mafiosi, che sono ingrado di adeguarsi ai cambiamenti ambientali. Ma non è soltantoquesta la novità indotta dalla cattura di Provenzano (e successiva-mente da quella di altri boss, e non soltanto della mafia siciliana).Un altro elemento altrettanto rilevante è dato dalla scoperta di mo-dalità di comunicazione e flussi informativi veicolati attraverso lascrittura. I cosiddetti «pizzini»  (termine siciliano per «pezzettini»)scoperti dopo la cattura di Provenzano mettono in luce la moltepli-cità delle strategie adottate a seconda delle situazioni e dei contestied evidenziano l’esistenza di una cultura comunicativa e in partico-lare di una cultura scritta come terreno comune agli appartenenti auna stessa organizzazione, attraverso la quale metodi, procedure,strategie vengono concepite, comunicate, interpretate – e natural-mente legittimate. Queste recenti acquisizioni documentarie consen-tono di riprendere – impostandolo su nuove basi – un classico inter-rogativo mai compiutamente risolto nell’analisi della mafia, e cioèanalizzare e comprendere i gruppi mafiosi allo stesso tempo comeorganizzazioni e come sistemi culturali, possibilmente combinandoanalisi culturale e analisi organizzativa.

2.  Mafia e mafiosi. Gli individui, l’organizzazione e la cultura

Per procedere in questa direzione, dapprima sul piano dell’anali-si organizzativa, conviene riprendere le due immagini della mafia cui

3 Si veda, oltre alla biografia citata (a partire dal significativo sottotitolo), latestimonianza del pentito Giovanni Brusca, raccolta in Lodato (1999, 65), in cuisi definisce Provenzano, proprio contrapponendolo a Riina, come «filosofo, nelsenso che non prende mai posizione».

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si è fatto riferimento sopra: quella del mafioso come singolo indivi-duo e quella della mafia come organizzazione unica. Sotto il profiloanalitico e per meglio sviluppare il nostro ragionamento, proviamo aestremizzare le due concezioni e considerarle come i due poli di uncontinuum che va dal singolo individuo atomizzato (con la sua per-sonalità individuale) all’organizzazione verticalizzata (con il prevale-re della personalità organizzativa). In altri termini, contrapponiamorelazioni sociali atomistiche (per analogia quelle del mercato) a rela-zioni sociali organizzate (per analogia quelle della gerarchia). Se ap-plicata alla contrapposizione idealtipica tra «mafiosi» e « Cosa No-

stra» questa distinzione sconta un paradosso.Quando si pensa alle concezioni atomistiche dell’individuo l’idea

sottostante è quella di una natura umana non socialmente plasmata;viceversa quando si pensa all’organizzazione o alla cooperazionel’idea sottostante è quella di relazioni sociali e personalità fortemen-te plasmate dalla sociabilità. Se andiamo a vedere quali sono i pre-supposti delle due concezioni polari che abbiamo contrapposto, ciaccorgiamo che la linea culturalistica (quella per intenderci che vada Pitrè a Hess), secondo la quale esistono soltanto individui mafio-si e non la mafia, si caratterizza per una visione ipersocializzata del-l’attore. Secondo questa interpretazione i mafiosi sono il prodotto diuna cultura e di una società che suggeriscono modelli di comporta-mento adeguati e conformi al contesto: quelli basati sull’onore, sulnon subire torti, sul farsi giustizia da sé. Al contrario la linea dell’or-ganizzazione unica e centralizzata (quella che vede la mafia comeCosa Nostra) tende ad analizzare i mafiosi come soggetti strettamen-te razionali, che agiscono sulla base di un calcolo costi-benefici eche elaborano strategie strumentali rivolte al successo. In altri ter-mini, in questa raffigurazione prevale un’immagine iposocializzatadell’attore.

Ora, questo apparente paradosso ha un suo rilievo. Cercheremodi dimostrarlo ponendo l’accento sulle trasformazioni organizzativee quindi su quei processi di mutamento sociale che devono caratte-rizzare, pena l’incomprensione, la nostra analisi della mafia. Qualiconseguenze comporta considerare la mafia come organizzazione4?

E considerarla come un'organizzazione nel senso in cui, nel campodegli studi organizzativi, le organizzazioni sono definite?

4 L’analisi organizzativa della mafia è, per varie ragioni, un campo ancora ingran parte scoperto. Si vedano per alcune delle prime esplorazioni in questa di-rezione Lupani e Monzini (1990), Catino (1997) e, con specifico riferimento allavariante «professionale» dell’organizzazione, La Spina (2005).

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Le organizzazioni – ci dicono i manuali – sono gruppi di soggetti(individui) coordinati per il perseguimento di scopi comuni. E inquanto tale, ciascuna organizzazione si distingue da un’altra, e dun-que ciascuna organizzazione ha dei suoi confini. Si sta dentro l’orga-nizzazione o si sta fuori dall’organizzazione. Inoltre le organizzazio-ni offrono beni e servizi, non soltanto a utenti esterni, ma anche acoloro che ne fanno parte. Tutto ciò si può applicare alla mafia. Lamafia offre beni e servizi, normalmente non previsti dalle leggi dellostato ovvero sanzionati negativamente da queste (protezione, me-diazione, mercato dei beni illegali, governo del territorio), è caratte-

rizzata da forti vincoli associativi (l’associazione mafiosa), e per de-finizione dunque è caratterizzata anche da confini netti: si appartie-ne o non si appartiene. Si entra con rituali di affiliazione oppure nonsi entra.

Però noi sappiamo che oltre a esser questo, la mafia è anchequalcosa d’altro: la mafia, possiamo dire, è embedded  (Granovetter1985) cioè è incorporata, inserita, radicata, nelle relazioni sociali, nelcontesto sociale. Non è la stessa cosa del contesto sociale: è unaspetto del contesto sociale. Ma vi è incorporata: non funziona sen-za relazioni di scambio corrotto con istituzioni e soggetti nel campodella politica, dell’economia e della società. Allora, se da un latol’idea dell’organizzazione mafiosa, come organizzazione tradizionale(cioè ente o istituzione che offre beni e servizi, e quindi con deipropri confini), ha portato dei grossi vantaggi sul piano del contra-sto, dall’altro lato probabilmente ci ha un po’ fatto perdere questaidea del radicamento. In altri termini ci ha indotto a trascurarel’idea che i gruppi mafiosi sono al contempo prodotto di un conte-sto e di un ambiente e si pongono in un rapporto di interazione, diprocessualità dinamica con esso.

In questo quadro il riferimento a concetti come quello di capitalesociale o il ricorso alla network analysis  (Sciarrone 1999) possonocerto rivelarsi utili. Tuttavia il nostro primo interrogativo è di carat-tere più generale e può essere formulato nel modo seguente: pos-siamo trovare una definizione della mafia e descrivere le sue modali-tà di azione in un modo che ci consenta di cogliere il fatto che si

tratta di una struttura organizzativa con una sua certa stabilità neltempo, e contemporaneamente che ci renda conto del suo essere ra-dicata e incorporata in un contesto in continua trasformazione? Lascoperta della modalità di comunicazione dei pizzini, e del loro ric-co contenuto, la fine, almeno temporanea, delle strategie di centra-lizzazione organizzativa, la prevalenza della mediazione e della mi-metizzazione rispetto alla gestione violenta dei conflitti, impongono

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un ripensamento sulle strategie organizzative e sui modelli comuni-cativi delle organizzazioni mafiose. Lo impongono, inoltre, alla lucedella considerazione puramente analitica – per varie ragioni quasimai presente nella letteratura sulla mafia – che il radicamento, l’em-beddedness  dell’organizzazione mafiosa nel contesto locale non èmai solo sociale, vale a dire relazionale (o strutturale), ma è ancheculturale e cognitiva  (DiMaggio 1990; Zukin e DiMaggio 1990) 5.L’organizzazione esiste cioè, e si sviluppa, in relazione dinamica nonsolo con un sistema di rapporti sociali concreti di interscambio, maanche entro un certo sistema culturale, un quadro normativo e forse

soprattutto cognitivo, che offre e garantisce a quel sistema di rela-zioni concrete una base simbolica, una legittimazione, un riferimen-to di senso, e soprattutto un contenuto.

Le relazioni sociali non sono tutte uguali, e la loro varietà diffi-cilmente può catturarsi con la semplice dicotomia forte vs. debole.Non solo ci sono diversi gradi di forza o intensità relazionale, maanche diverse definizioni dei rapporti sociali, che danno a esse con-tenuti diversi. Per fare un esempio, l’amicizia o la parentela di san-gue presuppongono definizioni e repertori di diritti e doveri variabi-li nel tempo e nello spazio. Non avrebbe molto senso considerareuna relazione definita come amicale in un paese di mafia alla streguadi una relazione di amicizia in una metropoli americana. L’amiciziaè una categoria culturale, un codice6, le cui variazioni di significatoinfluenzano sia le strutture sociali sia le strategie che entro questepossono concepirsi. Come ha osservato White, che della networkanalysis in campo sociologico è considerato da molti padre fondato-re, un sistema di relazioni sociali non può non essere un sistema direlazioni di significato (White 1992), che a quelle reti dà forma e

 5 In termini analitici, oltre che strutturale, culturale e cognitivo, l’embedded-ness può essere – come notano sempre Zukin e DiMaggio (1990, 20-21) – anchepolitico, con riferimento sia ai sistemi di regolazione normativa stabiliti dalleistituzioni politiche, alle politiche pubbliche e alle congiunture politiche e parti-tiche in cui le organizzazioni (economiche e non solo) operano. Per quantochiaramente interessante anche per il campo degli studi sulla mafia, questa pistanon verrà qui seguita.

6 Sull’amicizia come codice culturale e il suo utilizzo in aree mafiose vediSchneider e Schneider (1976). Con la sua proposta di concettualizzare i gruppidi mafia come  fratellanze  – un modello istituzionale tipico di molte societàpremoderne e particolarmente diffuso nell’area mediterranea – anche LetiziaPaoli (2000) ha indirizzato gli studi di mafia verso una più accorta comprensio-ne dell’importanza del contenuto oltre che della forma (struttura) delle reti so-ciali mafiose. Per una discussione dell’importanza dell’amicizia come codiceculturale, politicamente rilevante, del mondo mafioso vedi anche infra.

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spesso direzione7. Da qui l’oggetto di questo contributo, e il sensodel suo titolo: prendere le mosse dal linguaggio dei pizzini per rico-struire un’immagine più articolata e onnicomprensiva, in una parolamultidimensionale, della mafia. In altri termini studiare l’organizza-zione tramite il linguaggio, e dimostrane l’intrinseca complessità. Ilche non può che voler dire studiare la cultura e la comunicazione (ipizzini) per comprendere le condizioni di possibilità delle stessestrategie economiche (fra le quali assume rilievo quella dell’esazionedel pizzo).

3.  Dalla struttura alla scrittura: la mafia come comunicazione e il lin- guaggio dei pizzini

La mafia non è solo una forma organizzativa, una struttura di re-lazioni sociali retta da un sistema di norme e regole: è anche un si-stema di comunicazione, fatto di messaggi, reti informative, segni,scambi simbolici. Che la mafia debba la sua identità anche ad alcunemodalità comunicative sistematicamente privilegiate è in effetti ar-gomento ricorrente nella letteratura specializzata. L’importanza diquesta dimensione comunicativa nella vita sociale del mafioso, del-l’uomo d’onore, è stata segnalata con enfasi da un osservatore esper-to come Giovanni Falcone: «l’interpretazione dei segni, dei gesti,dei messaggi e dei silenzi costituisce una delle attività principalidell’uomo d’onore… Tutto è messaggio, tutto è carico di significatonel mondo di Cosa Nostra (Falcone 1991, 49 e 51)».

Già secondo fonti del secolo scorso, i mafiosi si riconoscevanoanche per «un tal qual gergo... un linguaggio alquanto metaforico,ma che da un certo accento, dalla intonazione, dall’atteggiamentoburbanzoso e rigido, dall’insieme della persona, rivela il maffioso aprimo acchito» (Alongi 1977, 53; anche Mosca 1980, 21). A distanzadi un secolo, il pentito Buscetta poteva ancora mettere in evidenzaquesta caratteristico stile comunicativo del mafioso:

Il fatto è che gli uomini d’onore molto difficilmente sono loquaci. Par-lano una loro lingua, fatta di discorsi molto sintetici, di brevi espressioni

che condensano lunghi discorsi. L’interlocutore, se è bravo o se è anche luiuomo d’onore, capisce esattamente cosa vuole dire l’altro. Il linguaggio

7 Sui rapporti tra network analysis e analisi culturale si vedano Emirbayer eGoodwin (1994) e – con riferimento alla sociologia strutturale di White e delsuo allievo Granovetter, e in particolare ai «significati nascosti» e alle classifica-zioni culturali che questa sociologia presuppone – Santoro (2007b).

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omertoso si basa sull’essenza delle cose. I particolari, i dettagli non interes-sano, non piacciono all’uomo d’onore. Io stesso sono fatto in questo modo.Non sono abituato a parlare più di quanto è necessario per dire quello chedevo dire. Nel corso della vita ho sviluppato una psicologia che non mi facomunicare facilmente e in modo spontaneo con gli altri. E che mi fa dete-stare chi si esprime in modo prolisso e sopra le righe (Arlacchi 1994, 67-68) 8.

Che la mafia sia comunicazione, messaggio, è insomma cosa datempo nota. Ma la scoperta del pizzino come strumento di comuni-cazione ha evidentemente introdotto elementi di novità, contri-buendo a gettare ombra su alcune posizioni acquisite. Perché se è

vero che uno studio approfondito dei modi di comunicazione ma-fiosa resta ancora da fare, un suo aspetto tradizionalmente conside-rato comunque essenziale è stata la volatilità, il suo carattere effime-ro. La sua resistenza a lasciar tracce di sé.

In quanto organizzazione criminale e segreta, la mafia – CosaNostra in particolare – è stata perlopiù concepita, più o meno espli-citamente, e anche contro l’evidenza empirica portata da documenticome le lettere di scrocco citate da Cutrera (1900)9, come una strut- 

8 Vale la pena in questo contesto notare che le testimonianze raccolte da Ar-lacchi sono state editate per la pubblicazione. Quello che si legge nelle due au-tobiografie raccolte dal sociologo calabrese (Arlacchi 1992; 1994), rispettiva-mente di Antonino Calderone e Tommaso Buscetta, non è quindi il loro lin-

guaggio ma una trascrizione di conversazioni: il linguaggio orale (e subcultura-le) è stato dunque successivamente trasformato in linguaggio scritto, e in corret-to italiano (purtroppo secondo criteri non esplicitati).

9 Come ogni altro agente della modernità, in effetti, il mafioso sa usare esfrutta i mezzi della comunicazione a distanza. La lettera, ad esempio: unostrumento la cui diffusione anche nel repertorio mafioso sembra procedere dipari passo con le trasformazioni culturali che hanno modernizzato l’Italia po-stunitaria, con la diffusione dell’alfabetismo e la scolarizzazione di massa (Bar-bagli 1974). Basti dire che Antonino Cutrera, funzionario della polizia di Pa-lermo e autore di uno degli studi classici sulla mafia, segnala la presenza di que-sta forma mediatica nel mondo della mafia palermitana di fine Ottocento (quel-la in particolare che allora operava nelle zone coltivate ad agrumeto della Concad’Oro, a ridosso di Palermo): «Al capo mafia tocca di dritto fare le lettere discrocco. Che cosa è la lettera di scrocco? È una lettera anonima, che arriva perla posta a qualche ricco proprietario di fondi, ove con tono dimesso, quasi dichi domanda perdono dell’importunità, o con estrema arroganza e tono di mi-naccia, e quasi sempre con la minaccia di commettere gravi danni sulla suaproprietà o persona, si chiede a quel tale proprietario di giardino, una datasomma, perché i  picciotti (intendendosi gli affiliati) hanno bisogno di esseresovvenzionati, perché l’annata è stata cattiva, e i bisogni delle famiglie sono im-periosi»  (Cutrera 1900, 64). Diligentemente riportate dalla nostra fonte nellaloro struttura sintattica e nel loro vocabolario dialettale originale, e ricavatedall’archivio della questura di Palermo, queste lettere mostrano chiaramentecome anche la richiesta di denaro, l’estorsione, il comportamento economica-mente rilevante, siano mediati da una precisa strategia comunicativa.

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tura organizzativa e sociale sostanzialmente fondata sulla comunica-zione orale, inevitabilmente segnata dalle caratteristiche strutturalidi questa forma di comunicazione, superbamente messe in luce dastudiosi del linguaggio come Basil Bernstein e Walter Ong. Quellamafiosa, si è spesso sostenuto, è una comunicazione basata sulla in-terazione personale in situazioni di copresenza, faccia a faccia, se-condo un modello tipico dei gruppi sociali di piccole dimensioni,modello che le società segrete spesso (anche se non necessariamen-te) ricalcano. Questa caratteristica strutturale dell’organizzazionemafiosa è stata ancora recentemente ribadita, con riferimento non

solo a Cosa Nostra siciliana ma anche alla ‘ndrangheta calabrese, daLetizia Paoli: «in entrambe le organizzazioni vige, poi, la proibizio-ne di mettere per iscritto notizie relative al sodalizio mafioso e aisuoi membri. In Cosa Nostra questo divieto è rispettato categorica-mente, tanto che finora non sono note eccezioni» (Paoli 2000,146).

L’effetto di arcaismo che questo produceva nella rappresenta-zione della mafia è piuttosto evidente10. I pizzini scoperti e raccoltidagli inquirenti dopo la cattura di Bernardo Provenzano11 mettonoin crisi questa rappresentazione, aprendo le porte a una riconsidera-zione della struttura del dominio mafioso alla luce dei suoi – primasconosciuti se non impensabili – modelli di comunicazione scritta.

Non era la prima volta a dire il vero che le inchieste giudiziarieportavano allo scoperto un sistema di scritture. Il collaboratore digiustizia Antonino Calvaruso, autista del capomafia Leoluca Baga-rella, ha ad esempio ricordato che tra i suoi compiti vi era anchequello di consegnare brevi manoscritti sigillati con nastro adesivo,chiamati in gergo palummedde (colombine), ad altri uomini d’onore,per fissare appuntamenti o dare indicazioni su eventi (omicidi, adesempio) che non potevano trasmettersi telefonicamente per motividi sicurezza. Ma si trattava in quel caso di messaggi brevi scritti supezzi di carta da distruggere subito dopo la lettura (Dino 2002a,

10 Assenza di scrittura ed economia di sussistenza sono, come noto, i criteriusuali con cui anche gli antropologi definiscono l’arcaismo: si veda ad esempioClastres (1974, 12) che, per quanto possa avere riserve sul secondo criterio, non

ha nulla da eccepire sul primo.11  In effetti, è dal 1994 almeno che gli inquirenti sono a conoscenza del-l’esistenza dei pizzini, grazie alle confessioni e alla collaborazione di Luigi Ilar-do, rappresentante della famiglia di Caltanissetta da tempo in contatto direttocon Provenzano. Solo dopo la cattura di quest’ultimo e il ritrovamento di nu-merosi altri nel casolare in cui era nascosto è però emerso quanto questo sem-plice strumento di comunicazione fosse centrale nell’organizzazione e nel fun-zionamento di Cosa Nostra.

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149), strumenti di un potere che si reggeva comunque su altre basi efunzionava secondo altre modalità.

Ben diversi, e dalle implicazioni anche sociologiche ben più pro-fonde sono i pizzini usati da Provenzano per mantenere i contattidalla latitanza con gli altri capi ed esponenti di Cosa Nostra, scrittitipicamente a macchina e seguendo formule retoriche standardizza-te, distribuiti da una fitta rete di messaggeri e postini accuratamentescelti e fidati che operavano secondo una serie di regole semplici maefficaci, conservati in archivi preziosi per quanto rudimentali.

In termini sociologici, potremmo dire che i pizzini di Provenza-

no non solo mettono in luce la molteplicità delle strategie adottate aseconda delle situazioni e dei contesti – come si vedrà nella secondaparte di questo saggio – ma restano a testimonianza dell’esistenza edell’utilizzo di una cultura comunicativa e in particolare di una cul-tura scritta nell’organizzazione mafiosa. I pizzini di Provenzano a-prono insomma la via a una riconsiderazione della struttura e dellacultura del dominio mafioso, alla luce dei suoi modelli di comunica-zione. In particolare, ci aprono a quella che potremmo chiamareun’etnografia della scrittura mafiosa12. Meglio ancora: un’ etnografia politica della scrittura mafiosa, dal momento che i pizzini costitui-scono la rappresentazione scritta, grafica, di relazioni di potere, col-te nel momento della loro enunciazione. Rendono anche possibileimbastire una sociologia cognitiva della mafia, focalizzata sulle im-plicazioni che l’adozione della scrittura – e dei frame culturali cheessa incorpora e trasmette – ha nel funzionamento pratico dell’orga-nizzazione mafiosa in quanto organizzazione politica13.

Vediamo un esempio concreto di pizzino, che ci possa dareun’idea di come funzioni questa forma di comunicazione e in che

12 Sul significato di un’etnografia della scrittura attenta anche alle dimen-sioni del potere si rimanda a Basso (1974).

13 Si veda McLean (1998) per uno studio delle strategie di scrittura delle let-tere di patronato della Firenze rinascimentale che ne mette in luce i sottostantiframe politici e culturali. Come nota McLean, la nozione di frame  – la cui ori-gine, per questo tipo di analisi, è goffmaniana – è utile «perché congiunge con-notazioni strumentali e interpretativiste della cultura, implicando sia (il/un?) si-gnificato negoziato sia la definizione strategica di somiglianze ed esempi rile-vanti per la costruzione di un particolare contesto d’azione. I frame organizza-no l’esperienza, ma non lungo una semplice linea unidirezionale tra azioni pre-definite, né in termini di semplici opposizioni binarie (Alexander e Smith1993). Piuttosto, la cultura è meglio compresa come uno spazio cognitivo mul-tidimensionale in cui sono utilizzabili una varietà di frame». Per un’analisi deldiscorso sulla mafia e della mafia nei termini di un codice di opposizioni binariesi veda Santoro (2007a, cap. 6).

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senso e misura abbia natura politica anche quando tratta di affarieconomici. Quello che abbiamo scelto, a titolo illustrativo, è una let-tera dattiloscritta che il collaboratore di giustizia Giuseppe Mani-scalco ha dichiarato essere stata inviata da Provenzano al latitantemafioso Salvatore Genovese di San Giuseppe Jato14. La riportiamonella sua forma originaria.

Carissimo, con gioia ho ricevuto, tuoi notizie, mi compiaccio tanto, nelsentire, che godeti tutti di ottima salute. Lo stesso posso assicurarvi di me.

1) Sento i motivi, che ti spingono, ha scrivermi, Grazie della fiducia. Espiacenti dove, ti possa deludere.

2) Ora sento quando, mi dici che sei ha mia disposizzione, e tu gradie-sti, che ti consigliassi se c’è qualcuno amico, che tu ti ci potesse rivolgere,per alcuni bisogni ancora grazie per la fiducia : Potre dirti, che non ti capi-sco ? mà nonè mia abitudine : E ti preciso, che io ti posso essere, sempred’aiuto, là dove le miei possibilità me lo permettono, mà a patto solo comemia veduta ? personale ? senza responzabilità, ha scanzo di quando ci fan-no dire ad alcuni disgrazziati, io non sò niente ? di tutto, quello che alcunianno fatto, e per questa ragione ? non sò come veramente stanno le cose : Equindi se come vecchia amici, ci volessimo tenere ha condatto, felicissimo,ma in’altra posizione, nò ; non mi sento ? e non lo posso, Ti posso solo dire? come io le penso ? o possa pensare, quando mi si chiedi, con questi con-dizione sono ha tua completa disposizzione, e la mia porta è aperta.

3) Ora mi informi, che hai un condatto Politico di buon livello, che per-metterebbe di gestire, molti e grandi lavori, e prima di continuare tu volessisapere cosa ne penzo io: Mà non conoscento non posso dirti niente, ci vor-

rebbe conoscere i nomi ? e sapere come sono loro combitat? Perché oggicome oggi, non c’è da fidarsi di nessuno, possono essere Truffardini ? pos-sono essere sbirri? possono essere infiltrati ? e possono essere dei sprovve-duti ? e possono essere dei grandi calcolatori, mà se uno non sà la via chedeve fare, non può camminare, come io non posso dirti niente.

4) Il piacere sarebbe pure mio, di vedere nò solo te, ma pure ha tuo Pa-dre, che ti prego, se lo puoi fare darci i miei saluti, da parte mia dacciun’affettuoso abbraccio. Mà come tu sai abbiamo molti difficoltà, ancheperché, non siamo vicini, io sono umpò lontano, e tutto si può fare quandoc’è il volere di Dio, mà al momento, se puoi, e lo ritieni opportuno scrivi, ese fosse possibile a macchina, e se non è possibile a macchina scrivere il piùchiaro possibile, perché stento a capire la callegrafia, poi del tuo paese, sirente responzabile questo certo Vitale che io fisicamente non conosco, ineredità di un tuo paesano, mà non sò come, ne cosa, ne con chi di voi è ac-condatto.

14 Datata 1° ottobre 1997, la lettera è stata acquisita nell’ambito del Proce-dimento Penale nr. 1687/96 Rgnr. Dda all’atto dell’arresto del Maniscalco, av-venuto il 10 ottobre successivo. Pizzini come questi sono rintracciabili sul weball’indirizzo www.bernardoprovenzano.it. Degli stessi curatori del sito è da ve-dere Palazzolo e Prestipino (2007), che include un’abbondante selezione di e-stratti da pizzini oltre a un loro tentativo di lettura anche stilistica.

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Proviamo ad analizzare brevemente questo testo cercando dimetterne in luce le implicite forme e strategie di comunicazione poli-tica oltre che le dimensioni letterarie, partendo comunque da que-ste. In primo luogo, si tratta di una scrittura che non presuppone ilpieno controllo della lingua italiana, e soprattutto della sua gramma-tica e sintassi. Quella di Provenzano – e con lui dell’organizzazioneche controlla – si presenta così come una cultura semialfabeta, chetradisce la sua origine popolare. Bernstein la chiamerebbe senza esi-tare una cultura comunicativa da «codice ristretto»15. Tradisce, perchi è colto, ma conferma, per chi è di origini altrettanto popolari,

l’appartenenza a uno stesso milieu, rafforzandolo nella sua rappre-sentazione e nella sua capacità di produrre identità. Tanto che gli in-terlocutori di Provenzano hanno finito spesso per seguirlo anchenella scrittura, nello stile letterario, nelle formule di rito – infarcitedi deferenza, di rispettoso affetto e di riferimenti religiosi – persinonelle stesse sgrammaticature. Si confronti l’esordio del pizzino citato(scritto da Provenzano) con quelli che seguono, scritti da suoi se-guaci:

Zio mio carissimo, augurandomi sempre che lei, ed i suoi state bene, lescrivo questo breve biglietto, per augurarle di cuore, di trascorrere serena-mente e nei migliori dei modi questa santa pasqua… Carissimo zio, la pre-go di scusarmi, se non mi faccio sentire spesso, ma le assicuro che è costan-

temente nei miei pensieri!!! In qualsiasi momento sono a sua completa di-sposizione… Le voglio un bene immenso!!! E che Dio, l’aiuti sempre!!!Auguri di buona pasqua a tutti. A presto16.

Carissimo zio, spero tanto di trovarla bene in salute ed in tutto il restoassieme ai suoi cari, così come le dico di me…

15 Bernstein (1971) come noto distingue tra due codici linguistici, quello ri-stretto o pubblico – basato su frasi semplici, e spesso interrotte, uso di con-giunzioni semplici e ripetitive, aggettivi e avverbi rigidi, poco uso di pronomipersonali, simbolismo ad un basso livello di generalità, ecc. – e quello elaboratoo formale – diametralmente opposto. Il primo sarebbe tipico delle classi popo-lari e sostanzialmente legato a modelli comunicativi di tipo orale, mentre il se-condo definisce la cultura delle classi medie e, benché sul punto Bernstein sia

poco esplicito, anche il linguaggio della comunicazione scritta, perlomeno quel-la che viene trasmessa e garantita dalle istituzioni scolastiche. Su questo puntosi veda soprattutto Ong (1982).

16 A scrivere è Sandro Lo Piccolo, condannato all’ergastolo e latitante. Ledue citazioni che seguono sono da pizzini rispettivamente di Matteo MessinaDenaro, di Trapani, alias Alessio – ex fedele di Totò Riina, ma dopo la catturadi quest’ultimo uno dei più fedeli aiutanti di Provenzano – e di Francesco Griz-zari, mafioso di Corleone (Palazzolo e Prestipino 2007, 57, 256, 58).

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Carissimo zio come stai spero bene così ti posso dire di me, e che la quipresente lettera ginca a te trovandoti in buona salute.

Si tratta, probabilmente, di un’omogeneità stilistica ricercata an-che per motivi di sicurezza. Ma l’aspetto strumentale non rendemeno plausibile sostenere che nei pizzini, nel loro linguaggio e vo-cabolario, nel ritualismo che li connota, sia possibile riconoscersicome parti di una medesima struttura di appartenenza, e, ricono-scendosi, reciprocamente legittimarsi.

In secondo luogo, si tratta di una scrittura che presuppone sem-

pre un non detto, uno spazio vuoto, un’assenza. La mafia è fatta diqueste assenze, di questi vuoti, di questo non detto anche più chedel segreto (di fatto minoritario nel sistema di comunicazione com-plessivo) che la scrittura di Provenzano esibisce e quasi celebra.Ogni pizzino contiene molto più di ciò che il segno grafico dice, equesto non solo perché agisce anche sul piano della connotazione(con l’uso di termini come «amici», «consigli», ecc.), ma perchésfrutta tenacemente il carattere indessicale della comunicazione pubblica – sempre nei termini di Bernstein. Paradossalmente, i se-greti si conservano meglio usando i codici pubblici, cioè quelli del-l’oralità quotidiana, che presuppongono sempre molto più di quan-to non dicano17. I messaggi vanno decifrati non solo perché scritti inun italiano approssimativo e parzialmente in codice, ma perché

danno per scontata una comunicazione pregressa, se non un vero eproprio repertorio condiviso di cognizioni. Quella della mafia è unascrittura basata sul codice ristretto, un codice basato sull’oralità co-me l’ha ribattezzato Ong (1982, 151), che può essere però espressi-vo e preciso quanto quello elaborato se il contesto di riferimento èfamiliare e condiviso – come è il caso del contesto mafioso (anche insenso letterale: molti dei corrispondenti di Provenzano sono suoifamiliari).

Strettamente connesso a questo aspetto è quello dell’ambiva-lenza, dell’ambiguità del messaggio, che la scrittura esalta e al con-tempo consente di piegare a proprio vantaggio. Provenzano usasempre espressioni allusive, parole sfumate, non dichiara ma sugge-risce, non impone ma consiglia, spesso sottolineando che lui non

conosce abbastanza, che le questioni (e la natura umana) sono com-plicate, che la sua non è una posizione di superiorità voluta o cerca-

 17 Con la sua insistenza sul carattere indessicale della vita quotidiana, quella

corrente di analisi sociologica nota come etnometodologia (Garfinkel 1967)avrebbe molto da insegnare allo studio della mafia su questo fronte.

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ta, tanto meno ambita, e quindi nemmeno di responsabilità, che pe-rò se può essere d’aiuto – date queste premesse – lui non mancheràdi darlo. Il potere di comando, di ordinare, non è mai esibito e tantomeno enfatizzato, né viene mai presentato all’interlocutore nella suanudità, ma sempre inserito in una cornice, un frame che ne enfatizzilo spirito di servizio e di «disponibilità», e che ne chiarisca l’eser-cizio in vista del «bene» – un bene naturalmente mai chiaramentedefinito nella sua natura e i cui stessi beneficiari restano generici. Ildialogo, la mediazione, il consiglio sono le forme attraverso cui Pro-venzano presenta e presumibilmente esercita quella che è chiara-

mente una sua autorità  personale, offerta solo perché richiesta, e le-gittimata dal riconoscimento di un valore intrinseco, di una superio-rità che è innanzitutto umana, interiore, morale.

In quarto luogo, è il linguaggio adottato nella composizione delmessaggio che trasuda politica. Basti qui segnalare alcune delle pa-role tipicamente usate da Provenzano, che rimandano immediata-mente al vocabolario classico della politica (europea e non solo)18:fiducia, consiglio, amico, aiuto, responsabilità. Sono frame politicicome questi a strutturare la comunicazione mafiosa, e a fare dellacultura mafiosa una cultura eminentemente  politica, anche al di làdella consapevolezza che gli attori sociali possono averne19. Il pizzi-no che segue, non di Provenzano ma di un suo fedele messaggeroche a lui si rivolge, illustra in modo cristallino la «struttura dei sen-timenti» (Williams 1977) su cui si regge il rapporto mafioso, il «vo- 

18 Sull’idea di un vocabolario della politica europea si vedano gli studi diOtto Brunner e Reinhart Koselleck, e in generale l’intera tradizione della cosid-detta Begriffsgeschichte. Si veda anche l’ormai classico Benveniste (1969), speci-ficamente dedicato al vocabolario delle istituzioni indoeuropee, incluse quellepolitiche.

19 Né Provenzano né i suoi interlocutori identificano come politiche le lorocomunicazioni, e riservano l’aggettivo «politico»  – a quanto pare (anche dalpizzino riportato, che parla di condatto politico) – per identificare unicamentequelle relazioni con personaggi della vita politica ufficiale, sanzionata istituzio-nalmente dallo stato o dagli enti pubblici locali (come il Comune, per esempio).Al di là della loro consapevolezza, tuttavia, il loro linguaggio e il tipo di attivitàche i pizzini descrivono (o performativamente mettono in atto) rimandano aquella che la storiografia, l’antropologia e la sociologia meno segnate dal pesostorico e morale dell’istituzione statale identificano come sfera politica. La con-nessione linguistica e strutturale tra politica e concetti come amicizia e inimici-zia è come noto al centro della teoria del politico di Schmitt (1972), da cui hapreso le mosse anche uno storico politico sociale di grande influenza come il giàcitato Brunner (di cui si veda in particolare Brunner 1938), che ha messo in lu-ce l’importanza di nozioni e ideali come aiuto, fiducia, onore e consiglio nel co-smo politico medievale. La dimensione politica dell’onore – anche ma non solonelle società mediterranee – è sottolineata anche da Bourdieu (1994).

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cabolario di motivi» (Mills 1971) che struttura il linguaggio mafiosoinformando di sé le visioni dei rapporti umani:

Io mi rivolgo a lei come garante di tutti e di tutto quindi i suoi contattisono gli unici che a me stanno bene, cioè di altri non riconosco a nessuno,chi è amico suo è amico mio, chi non è amico suo non solo non è amicomio ma sarà un nemico mio, su questo non c’è alcun dubbio… La ringrazioper adoperarsi per l’armonia e la pace per tutti noi

E in un altro messaggio:

Ora io mi affido completamente nelle sue mani e nelle sue decisioni,tutto ciò che lei deciderà io l’accetterò senza problemi e senza creare pro-blemi, questa per me è l’onestà. (1) Perché io ho fiducia in lei e solo in lei;(2) perché io ho cercato lei per risolvere questa faccenda ed ora non vedo ilmotivo per cui si deve interessare qualcun altro; (3) perché io riconoscosoltanto a lei l’autorità che le spetta; (4) perché noi due ci capiamo anche senon ci vediamo20.

È una concezione della vita sociale e politica, ancora una volta,fondata sulla valorizzazione del carattere personale dei legami, sullapresunzione di unicità delle persone in quanto soggetti non inter-cambiabili, tra loro non equivalenti, definiti dalle loro qualità emo-zionali più che dai loro ruoli. «Garante di tutti e di tutto», Proven-zano gode di una fiducia e di un’autorità che a lui sono personal-

mente attribuite, e che nella sua rete personale di relazioni (fatta diamici  di cui fidarsi e da aiutare ma anche di nemici da cui guardarsie da combattere, oltre che di figure dallo status incerto la cui identi-tà va comunque accertata e non può lasciarsi a lungo indefinita) siesprimono e si risolvono.

4.  La logica della scrittura e l’organizzazione sociale della mafia 

Ma è poi la scrittura in quanto tale – come tecnologia specifica dicomunicazione – che preme sottolineare. Come hanno dimostratonon solo studiosi della comunicazione (Walter Ong, ad esempio) efilosofi (come Jacques Derrida) ma anche storici e antropologi (JackGoody, Marshall Sahlins, Peter Burke, e anche altri), la scritturanon è una forma comunicativa neutra, ma possiede e mette in attologiche sue proprie. Ha inoltre delle conseguenze specificamente

20 Si veda per entrambe le citazioni Palazzolo e Prestipino (2007, 186). Ascrivere è il già citato Matteo Messina Denaro, alias Alessio.

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politiche oltre che psicologiche, cognitive e in senso lato culturali.Come ha notato Goody in un libro illuminante21, l’uso della scrittu-ra da parte di una organizzazione politica (che sia in forma di stato oaltra forma istituzionale) ha molteplici ripercussioni sull’agire socia-le in quanto consente il controllo sulle relazioni spazio-temporali.Esso rende così possibile un’estensione della scala a cui l’organizza-zione politica opera. Incide poi sui sistemi di stratificazione (è evi-dente che scrivere e leggere diventano condizioni necessarie per es-sere soggetti capaci di agire e ricoprire quindi ruoli organizzativi). Èin questo senso, come accennato, che i pizzini possono intendersi

come la rappresentazione scritta, grafica, di relazioni di potere, coltenel momento della loro enunciazione.

Indubbiamente, questa fitta rete di corrispondenza presupponeun certo tipo di organizzazione e di mediazione delle relazioni socia-li sul territorio, e l’adozione di specifiche strategie organizzative (adesempio, l’inserimento periodico di nuovi «filtri», o «anelli», cioènuovi soggetti di fiducia, fra il Provenzano stesso e gli incaricati del-l’ultima consegna di pizzini, così da vanificare eventuali progressinelle indagini). Ma c’è dell’altro dietro questo sistema di messaggiscritti, questi pizzini, che vale la pena ancora esplorare, qualcosa cheha a che fare più direttamente con l’impatto che sull’organizzazionedi Cosa Nostra può avere lo stile, il modo, la forma della comunica-zione, e lo specifico mezzo di comunicazione.

Consideriamo innanzitutto le implicazioni di questo sistema dicomunicazione per ciò che esso deve all’adozione della scrittura.Una modalità comunicativa resa banalmente necessaria dallo statodi latitanza in cui Provenzano è a lungo vissuto (oltre 30 anni) e chelo ha messo in condizione di esercitare a distanza il suo controllodell’organizzazione mafiosa nel periodo successivo alla cattura diRiina, ma anche un modo e mezzo di comunicazione al contempoproduttivo di specifici effetti istituzionali, se così si può dire. Dob-biamo pensare che i pizzini non erano solo lo strumento principaledi comunicazione del latitante Provenzano, ma di tutti i membri del-l’organizzazione da lui gestita: come si è visto, pizzini arrivavano da lui ma arrivavano anche a lui, e in continuazione. E arrivavano da e

a lui passando attraverso una serie di anelli e di filtri, cioè di media-tori e di messi, tutti per definizione «uomini di fiducia». Non era so-lo un flusso di comunicazione ma un sistema di comunicazione chepotremmo chiamare (con Jacques Derrida) grafo-centrico. Quali

21 Si veda Goody (1986), uno studio affascinante e pionieristico dei legamitra scrittura e organizzazione del potere politico nel tempo e nello spazio.

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conseguenze può avere avuto la scrittura di Provenzano per l’orga-nizzazione sociale della mafia? Quali implicazioni ha ora e qualipossiamo prevedere abbia in futuro (conseguenze di lungo perio-do)? Al momento, possiamo solo avanzare alcune ipotesi, che ri-chiederanno un più attento lavoro di scavo e di interpretazione (te-stuale ed etnografica) dei messaggi, qui non possibile.

Conviene tornare appunto alle ricerche di Jack Goody sulla logi-ca della scrittura e l’organizzazione della società, titolo di un suo li-bro degli anni ottanta che sviluppava considerazioni originariamen-te avanzate in un articolo seminale degli anni sessanta sulle conse-

guenze sociali dell’alfabetizzazione (Goody 1986; Goody e Watt1963). Questo significa riportare lo studio e la comprensione del fe-nomeno mafioso su un terreno capace di riconoscere e valorizzareanche il contributo della ricerca antropologica e l’importanza delledimensioni culturali  e simboliche dell’agire e dell’organizzazione ma-fiosa – per quanto Goody sia poi molto più antropologo sociale checulturale. Ma la ricerca di Goody sulle conseguenze sociali dell’alfa-betizzazione e sugli effetti della logica della scrittura sull’organizza-zione sociale presuppone evidentemente l’idea che «la cultura con-ta», dove per «cultura» possiamo intendere senza troppi giri di pa-role il sistema di simboli e significati pubblici attraverso cui gli attorisociali comunicano e trasmettono le loro idee e concezioni del mon-do (Geertz 1973; Swidler 1986; DiMaggio 1990).

Non si tratta quindi soltanto di un sistema di comunicazione chesegue certe forme rituali (inizio standard con saluti e auguri di buo-na salute seguiti da rassicurazione sullo stato di salute del mittente,cioè perlopiù lo stesso Provenzano), utilizza un certo codice, perquanto elementare (lettere e numeri al posto di nomi propri), pre-suppone una certa tecnologia di produzione (la macchina da scrive-re, che Provenzano abitualmente usa e che dichiara di preferire eanzi raccomanda per evitare confusione e fraintendimenti) e unacerta organizzazione di diffusione e smistamento (un sistema di mes-si affidabili), ma che nella sua stessa forma scritta introduce logicheistituzionali22 sinora non considerate come caratteristiche della mafia.

22 Si veda per questo concetto Friedland e Alford (1991), che lo definisconocome «un insieme di pratiche materiali e di costruzioni simboliche»  su cui sifonda, ricavandone specificità, un dato ordine istituzionale – come il capitali-smo, la famiglia o lo stato burocratico. Così, per fare qualche esempio, la logicaistituzionale del capitalismo sarebbe «l’accumulazione e la mercificazione del-l’attività umana», mentre quella dello stato è la «razionalizzazione e regolamen-tazione dell’attività umana tramite gerarchie giuridiche e burocratiche», e quel-lo della famiglia «la comunità e la spinta ad agire derivante dalla fedeltà incon-

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Naturalmente, già si sapeva dopo i maxiprocessi degli anni ot-tanta e novanta dell’esistenza di statuti, di organigrammi, di docu-menti relativi all’assetto organizzativo e all’amministrazione contabi-le di Cosa Nostra (Catanzaro 1988b; 1992; Paoli 2000). Ma la sco-perta dei pizzini ha rivelato in effetti qualcosa di molto più profon-do e potenzialmente in grado di modificare la nostra idea della ma-fia, e cioè l’adozione della scrittura e della sua logica come risorsa dicomunicazione politica e quindi di governo oltre che di organizza-zione nella pratica quotidiana, nella gestione ordinaria delle attivitàmafiose. La scrittura non è un medium neutro. Fa differenza comu-

nicare oralmente o tramite messaggi e documenti scritti. Le conse-guenze della scrittura sono anzi «ampiamente cumulative» (Goody1986), portando ad esempio alla formazione di veri e propri archividella memoria.

A differenza degli scambi verbali, i pizzini possono essere con-servati, e lo sono, come dimostra il fatto che sono stati ritrovati acentinaia sia nel casolare di Provenzano sia nelle case dei mafiosiche erano con lui in contatto epistolare. In altre parole, il fatto cheesistano documenti scritti nell’organizzazione mafiosa rivela qualco-sa che la ricerca precedente non ha considerato, e cioè un tipo diorganizzazione che conoscendo la scrittura e anzi sfruttandola comestrumento di amministrazione se non di governo produce una seriedi effetti istituzionali che fanno della mafia un tipo istituzionale dif-ferente da quello che emerge dalla tesi a lunga accreditata di unamafia come sistema di relazioni interpersonali e/o come strutturaorganizzata di potere fondata sulla consuetudine e sulla comunica-zione orale. Ciò che ci sembra più importante nel caso della mafia èche la scrittura comporta un cambiamento nella natura, o nella cul-tura, della responsabilità. L’adozione della scrittura – ha notato an-cora Goody – comporta una maggior precisione degli ordini prove-nienti dall’alto e delle spiegazioni fornite dal basso. È in ogni casopiù difficile non ottemperare a un ordine impartito per scritto e cor-redato di firma autorevole. Un simile impegno «personalizzato perscritto» significa anche che la responsabilità connessa all’impartire eal ricevere ordini diventa marcatamente individuale.

dizionata ai suoi membri» (trad. it. 2000, 337-338). Tra queste logiche istituzio-nali vi sono «interdipendenze» ma anche «contraddizioni», che è compito dellostudioso rilevare, senza privilegiare l’una a scapito dell’altra. Quali logiche isti-tuzionali siano all’opera nel caso della mafia – e come le loro interdipendenze econtraddizioni si siano strutturate e cambiate nel tempo – è questione che var-rebbe la pena indagare. Per una prima esplorazione, focalizzata sulla dimensio-ne personale di queste logiche istituzionali, si veda intanto Santoro (2008).

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È questo uno degli effetti della scrittura sull’organizzazione so-ciale: lo sviluppo di una maggiore oggettivazione e quindi però an-che di una maggiore riflessività. Come ha osservato Ong, le tecnolo-gie della comunicazione non sono semplici aiuti esterni, ma compor-tano trasformazioni delle strutture mentali: ad esempio, la scritturainnalza il livello della consapevolezza, dell’introspezione, essa creainoltre una distanza che potenzia la riflessione, e la pianificazione,decontestualizzando la comunicazione. Consente inoltre di pensarein modo retrospettivo, molto più di quanto non sia possibile in unacultura solo orale. Se questo è vero, c’è da aspettarsi un potenzia-

mento delle capacità organizzative della mafia, della sua capacità diespandere il suo controllo secondo logiche non più necessariamentelegate alla personalizzazione dei legami e al radicamento locale, maorientate all’astrazione e all’oggettivazione, o razionalizzazione, dellepratiche e delle responsabilità.

 5. Né mercato né gerarchia: la mafia come organizzazione istituziona-lizzata reticolare

Si tratta, come è chiaro, di una proiezione ipotetica, tutta da veri-ficare. Restando invece al presente, che cosa si desume dall’analisidei pizzini per ciò che riguarda il profilo organizzativo? Possiamodire che vi sono almeno tre elementi di interesse. Innanzitutto, comesi è visto, c’è un’innovazione organizzativa: si introducono i pizzinicome strumento sistematico di comunicazione. Dunque si introduceun elemento importante di cui non eravamo a conoscenza (quantomeno in forma così estesa), e cioè la presenza di una forma di cultu-ra organizzativa scritta della mafia. La cattura di altri boss mafiosidopo quella di Provenzano conferma la diffusione di queste formecomunicative scritte attraverso le quali l’organizzazione tende a dar-si una forma stabile nel tempo. Il secondo punto è la differente rile-vanza (rispetto alla Cosa Nostra di Riina e Bagarella) dell’organizza-zione (l’organizzazione del Provenzano «seconda maniera», un tem-po killer spietato che adesso si dimostra maestro della mediazione),

all’interno delle reti di relazioni fra gruppi mafiosi dislocati in diffe-renti territori regionali. Il terzo punto è lo stile di governo dell’or-ganizzazione.

Nonostante non sia un’organizzazione fortemente centralizzatacome quella di Riina e Bagarella, basta analizzare pochi pizzini (noine abbiamo esaminati 15) per far emergere una considerevole gam-ma di attività e una rilevante ampiezza nell’estensione territoriale

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della rete organizzativa – oltre che (come s’è già visto) una significa-tiva organizzazione semiotica, fatta di codici, frame e parole-chiave.Abbiamo riscontrato riferimento ad affari in sei province siciliane ein ben 35 comuni. Le imprese economiche con cui si intrattengono«affari» sono, soltanto in questi 15 documenti, ben 17. La gammadelle attività cui si fa riferimento è amplissima: appalti per gasdotti,dighe, viadotti; transazioni monetarie e investimenti finanziari; me-diazioni per l’assunzione di amministratori di fondi agricoli e per re-stituzioni di merce rubata (Tir, macchine agricole); compravenditedi terreni e immobili; protezione/estorsione nei confronti di impre-

se; raccomandazioni per assunzioni lavorative; tentativi di infiltra-zioni in grandi aziende.

Ma quello che interessa ancora di più è ciò che traspare degliorientamenti, degli stili, delle forme organizzative con cui viene go-vernata questa molteplicità di interessi. Come si è visto nel primodei pizzini citati in precedenza (ma anche in moltissimi degli altri)non sempre Provenzano si fa propugnatore di un intervento direttodella sua organizzazione. Spesso fa riferimento a gruppi locali con iquali occorre definire alleanze, contrattare circa la competenza terri-toriale; in alcune occasioni consiglia di non intervenire perché nonconosce bene la situazione; in altre interviene come mediatore pro-ponendo strategie di pacificazione; in altre ancora suggerisce di farericorso ai servizi di altri soggetti; infine in alcune occasioni dichiaradi essere disponibile a dare consigli, ma come amico, personalmen-te, e non in qualità di capo dell’organizzazione. In alcuni casi, addi-rittura, per dirimere delle questioni si fa riferimento a questioni dicompetenza territoriale Si tratta di modalità di comportamento tipi-che del capomafia affermato, cioè di chi, superata la fase della legit-timazione del proprio potere attraverso l’uso della forza, tende apresentarsi come colui che risolve i problemi, il mediatore capace divolta in volta di definire quale sia la strategia più appropriata per ri-solvere i problemi (Catanzaro 1992).

D’altra parte è vero che non sappiamo se questa immagine diProvenzano, ricostruita attraverso i pizzini, sia congruente con altriordini che effettivamente poteva impartire in altra forma e che po-

trebbero smentire il quadro che si ricostruisce attraverso questa ba-se documentaria. Così come non possiamo sapere se l’immaginesanguinaria di Riina e Bagarella, ricostruita attraverso le carte deiprocessi a loro carico, non sia più complessa, cioè non possiamoescludere che anch’essi, nelle loro comunicazioni verbali, potesserosuggerire ai loro accoliti prudenza, attenzione, inviti a risolvere iconflitti in forma non violenta, cioè le stesse cose che riscontriamo

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nei pizzini di Provenzano. Ma, anche ammettendo questa nostra ca-renza informativa, resta il fatto che, come sottolineava Franchetti(1925, 98), al capomafia «spetta il giudicare dalle circostanze seconvenga sospendere per un momento le violenze, oppure moltipli-carle e dar loro un carattere più feroce». Le circostanze sono lecondizioni che permettono da una parte, obbligano dall’altra (comevedremo più avanti) a optare per una o un’altra o un’altra ancorastrategia organizzativa. E – possiamo aggiungere – tra le circostanze,non ultima è quella del rapporto con l’azione di contrasto e la suaefficacia, e la considerazione circa le modalità migliori di persistenza

nel tempo dell’organizzazione. Nel caso di Provenzano ciò ha porta-to all’uso dei pizzini come strumento di comunicazione.

Come si è già osservato in precedenza, l’introduzione dei pizzinida un parte è un accidente, cioè dipende dal fatto che, per poter go-vernare un’organizzazione in una situazione di latitanza molto lunganel tempo, non è possibile o comunque è molto difficile una comu-nicazione diretta faccia a faccia con i propri fedelissimi e portaordi-ni. Ma d’altra parte l’introduzione dei pizzini è una necessità, per-ché ogni forma di comunicazione orale comporta dei rischi. Rischidi fraintendimento, rischi di opportunismo; qualcuno può dire cheaveva inteso una cosa piuttosto che un’altra, e così via. Quindi servea ridurre i margini di ambiguità nei flussi comunicativi. In definitivaa garantire che non vengano messi in discussione gli ordini.

Ciò è tanto più rilevante in quanto, sotto il profilo dei tipi orga-nizzativi la mafia di Provenzano sembra essere una combinazionetra un «network criminale», e un sistema di «gerarchie a grappolo» (Uited Nation 2002). In altri termini, è un network criminale costi-tuito da vari cluster, o grappoli appunto, di organizzazioni che fan-no parte sia dello stesso network, sia di altri network, in cui c’è unagerarchia. Ma questa gerarchia, al cui vertice c’è Provenzano, deveda un lato governare direttamente i propri affiliati, dall’altro trattarecon altre organizzazioni criminali. Da qui uno stile di governo che(per usare termini convenzionali) è più orientato alla mediazione ascapito dell’intervento diretto. Ovvero per il Provenzano dei pizzini,il ricorso al sourcing out   era molto più accentuato che per la Cosa

Nostra di Riina e Bagarella (anche se forse possiamo assumere chenessuno dei tre conosce questa terminologia). Se infatti proviamo acollocare la strategia organizzativa del Provenzano seconda manieraa un estremo e quella di Riina e Bagarella di Cosa Nostra all’altro ciaccorgiamo che si tratta di due tipi organizzativi molto diversi e inuna certa misura contrapposti. Riina e Bagarella avevano optato peruna struttura organizzativa verticale e centralizzata, laddove Pro-

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venzano ha favorito un’organizzazione non verticistica, bensì di tiporeticolare (Powell 1990). Il sistema di governo dei primi era basatosulla costruzione e la gestione di catene di gerarchie verticali, quellodel secondo sul governo di una rete mobile di relazioni tra unità or-ganizzative, che potevano coincidere anche con singoli individui.

Considerare l’organizzazione come un sistema di controllo di retidi relazioni non esclude che da parte degli attori si possano scegliere– in situazioni favorevoli o rese opportune da una particolare con-giuntura politica e sociale – forme organizzative gerarchicamenteorganizzate in modo forte, con confini ben precisi nei confronti del-

l’esterno e che facciano poco ricorso a relazioni di rete basate su le-gami laschi. Ma ci aiuta a capire perché la scelta verticistica abbiasempre rappresentato una strategia di breve periodo e sempre pro-blematica per Cosa Nostra. La mafia è un’organizzazione criminaleche non soltanto ha bisogno di mimetizzarsi, ma ha bisogno di legit-timarsi, di ricevere consenso, e di poterlo scambiare (sotto forma adesempio di voti) con i centri del potere politico istituzionalizzatonello stato. Deve governare il territorio, possibilmente riducendo iconflitti che su di esso hanno luogo, e deve contemporaneamentesvolgere attività illegali, con la conseguenza di avere le necessariecoperture politico-istituzionali. Ciò che rende più efficace un’orga-nizzazione di tipo reticolare, ciò che in particolare la rende più adat-tiva e meglio attrezzata ad affrontare le richieste, gli umori, gli spo-stamenti dell’ambiente circostante, è la sua capacità di raccogliere,disseminare e interpretare nuove informazioni muovendo da semprenuove interpretazioni (anche delle stesse unità informative). È que-sta capacità ciò che rende le forme reticolari di organizzazione par-ticolarmente dinamiche, e in grado di generare nuovi legami, dentroe fuori i confini delle singole unità. Come ha osservato Powell(1990, 325):

i networks sono basati su complessi canali di comunicazione… Questo van-taggio si coglie più chiaramente quando si contrappongono le reti ai merca-ti e alle gerarchie. Passare informazione lungo una gerarchia aziendale oacquistare informazione sul mercato sono soltanto modi di processare in-formazioni o acquistare una merce. In entrambi i casi il flusso informativo ècontrollato. Non si generano né nuovi significati né nuove interpretazioni.Al contrario, le reti offrono un contesto per apprendere nella pratica.Quando l’informazione passa attraverso una rete, essa è sia più ricca chepiù libera; nuove connessioni e nuovi significati vengono generati, discussie valutati.

Ancor più che specialisti in transazioni (di scambio economico opolitico), i mafiosi in effetti emergono dai documenti esaminati nei

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paragrafi precedenti come esperti – o comunque, come soggettispesso impegnati – nella gestione di rapporti interpersonali, gravididi emozioni e di rischi ma anche, potenzialmente, di nuove informa-zioni e di sempre nuovi significati.

Non sempre l’organizzazione mafiosa può attenersi però a que-sto modello reticolare. Come abbiamo accennato, proprio prima diProvenzano il tipo organizzativo dominante – quello praticato daRiina e in seguito da Bagarella – era gerarchico. L’opzione fra i duetipi di organizzazione deve tener conto dei vantaggi e degli svantag-gi di ciascuna. Vediamo quali possono essere23.

Vi sono nella verticalizzazione/centralizzazione e nell’aumento didimensioni dirette dell’organizzazione, due difficoltà. La prima: tan-to maggiore, più ampia, più centralizzata, più omnicomprensiva èl’organizzazione criminale, tanto più vasto è il territorio che si devecontrollare, tanto maggiore è la necessità di un apparato militare dicontrollo. E, come in tutti i casi in cui prevalgono gli apparati mili-tari, può verificarsi nel tempo una trasposizione delle mete per cuil’apparato militare diventa il fine in sé dell’organizzazione. Inoltrenegli apparati militari sorgono spesso tendenze individuali di carrie-ra non soddisfatte che portano al rischio di insubordinazione. Il se-condo svantaggio è che tanto maggiore è la centralizzazione e la ver-ticalizzazione, tanto maggiore è il rischio che la defezione di qualcu-no porti allo smantellamento dell’organizzazione se questa non ècompartimentata (ma ovviamente la compartimentazione comporte-rebbe un messa in discussione della centralizzazione e verticalizza-zione). La storia dell’azione di contrasto a Cosa Nostra mette in lucequesto dilemma ed evidenzia l’elemento di crisi delle organizzazionicriminali centralizzate. Si tratta, nei termini ormai classici di Wil-liamson (1975), di un tipico caso di crisi di gerarchia.

La strategia fondata sul governo delle relazioni, quindi un’orga-nizzazione che, pur ponendosi come impresa-madre riconosce mar-gini di autonomia alle altre organizzazioni criminali che apparten-gono alla sua stessa rete, che si pone con esse in una posizione a untempo di superiorità ma anche di scambio di beni e servizi, che non

23 Per ragioni euristiche, si assume in quanto segue la validità ipotetica di unmodello o teoria di scelta razionale. Naturalmente, siamo ben consapevoli chequesto modello si presta a molte critiche, e soprattutto che la sua applicazionepresuppone logicamente (anche se ciò viene tipicamente dimenticato dai segua-ci di questo modello o teoria) la previa soluzione di una questione a monte,quella dell’identificazione del soggetto calcolatore – in altre parole, la questionedell’identità. Rimandiamo, per una discussione generale di questo tema, a Piz-zorno (2007).

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gestisce direttamente e in proprio tutte le sfere di attività illegale, main parte le subappalta sulla base di ambiti di specializzazione fun-zionale o territoriale, ha il vantaggio che deriva dal paradosso se-condo cui talvolta i legami organizzativi forti sono fragili e che le-gami organizzativi laschi siano preferibili e più utili (Granovetter1974; 1985) oltre che più stabili e duraturi nel tempo. Ma anch’essapresenta i suoi rischi. Il primo e più importante è costituito dalla i-naffidabilità dei fornitori. È per questo motivo, e per evitare oppor-tunismi e tradimenti che, come si è messo prima in evidenza, l’intro-duzione dei pizzini si dimostra uno strumento efficace di innovazio-

ne nella cultura organizzativa. Inoltre, come tutte le organizzazioniche privilegiano una strategia di governo delle transazioni, e in par-ticolar modo se si tratta di organizzazioni criminali, un elemento dicrisi è costituito dal venir meno della fiducia nei rapporti interper-sonali. Da qui dunque la particolare attenzione nei confronti di que-sto tema che traspare dalla lettura dei pizzini. Questi elementi con-figurano aspetti di crisi delle transazioni o del mercato di scambio dibeni e servizi tra organizzazioni criminali inserite in network sia pu-re gerarchicamente strutturati.

Se è vero che entrambe le strategie presentano vantaggi e svan-taggi, allora dobbiamo abituarci ad analizzare i fenomeni organizza-tivi della mafia e della criminalità organizzata su un periodo piùlungo rispetto a quello, breve, dell’ultimo trentennio, al quale siamoabituati a pensare. In altri termini le opzioni organizzative sonosempre aperte, e se guardiamo alla storia della mafia possiamo nota-re che esiste un continuo pendolo fra un’opzione e l’altra. Questopendolo è determinato dal fatto che nessuna opzione organizzativafra le due collocate ai poli di un continuum è la migliore in assoluto.Ad esempio si può avanzare l’ipotesi che la prospettiva di centraliz-zazione scelta da Riina e dal gruppo dei corleonesi derivò da unacrisi nel governo delle transazioni. Perché cominciarono a veniremeno in quel periodo tutti i punti di riferimento e le coperture poli-tico-istituzionali che avevano i gruppi mafiosi. Allo stesso modo, edi converso, la modifica cui abbiamo assistito con Provenzano e congli altri boss successivamente arrestati può essere interpretata come

una crisi di gerarchia, derivante dallo smantellamento di Cosa No-stra a causa del successo dell’azione di contrasto nei suoi confronti.Svariati possono essere i motivi per i quali si può passare da un

modello a un altro, da una forma organizzativa a un’altra; ad esem-pio se entrano in crisi i rapporti fiduciari, oppure se si manifestanoforme di opportunismo elevato nelle organizzazioni, per cui non siriesce più a governare le transazioni, si sceglie il sistema forte della

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centralizzazione e della maggiore disciplina. Molto della scelta fral’una e l’altra opzione dipende dalle competenze, o dai limiti cogni-tivi, o dalle tecniche che sono richieste per determinati tipi di pre-stazioni o di forniture di beni e servizi. Ad esempio, abbiamo assisti-to a fenomeni come il tentativo di centralizzazione di tutto il sistemadegli appalti che richiedeva un particolare tipo di competenze nor-mative (Vannucci 2006). E ci sono vari fattori che possono influen-zare l’alternativa tra il produrre in proprio, e quindi l’offrire in pro-prio, protezione diretta, o l’offrirla attraverso un sistema di reti, cioècollegandosi ad altri soggetti e quindi governando le transazioni.

6. Conclusioni

Muovendo da un’analisi del linguaggio usato nei pizzini e da unaricostruzione delle logiche d’azione che in quel linguaggio erano de-scritte, in queste pagine abbiamo mostrato come cultura e organiz-zazione – lungi dall’individuare modi analiticamente antitetici diconcepire la mafia – possano offrire congiuntamente una proficuachiave di accesso a un fenomeno sociologicamente complesso di cuisi riconosce volentieri la proteiformità ma raramente se ne identifi-cano le condizioni di possibilità. La teoria sociologica neoistituzio-nalista, abbiamo suggerito, offre gli strumenti per descrivere analiti-camente questa proteiformità e tentare di individuarne le basi in-sieme organizzative e culturali. Ci è parso plausibile, alla luce delleconoscenze in nostro possesso, identificare la mafia sociologicamen-te come un’organizzazione a rete o un’organizzazione di rete (Po- well 1990) caratterizzata al contempo da vincoli forti fra gli associatima da legami più laschi con gruppi sociali e politici e con parti dellasocietà, oltre che con altre organizzazioni criminali di stampo nonmafioso. A tenere insieme questa rete è la condivisione – con diversaintensità – di un ambiente istituzionale, ovvero di un comune reper-torio di cognizioni, valori e regole, forme d’azione, variamente in-terpretabili e ricomponibili nelle contingenze storico-sociali, e so-prattutto variamente mobilitabili come risorse per l’azione (Swidler

1986; Tilly 2006). La cultura mafiosa non è un complesso conchiusoe definito una volta per tutte di norme e valori – l’onore, l’amicizia,il silenzio, la fedeltà – tutti ugualmente sedimentati e interiorizzati,ma una cassetta degli attrezzi, un tool-kit  di simboli, cornici inter-pretative, storie e rituali, un vocabolario di motivi da cui i mafiosi e iloro interlocutori (variamente padroni di quel repertorio e vocabo-lario) attingono per dare senso alle proprie azioni, per giustificarle

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agli altri (ma anche a se stessi) e ancor prima per concepirle comepossibili e credibili.

Questa concettualizzazione apre la via anche a una considerazio-ne della mafia alla luce della categoria di «isomorfismo istituziona-le» (DiMaggio e Powell 1983): vale a dire della progressiva struttu-razione e standardizzazione delle organizzazioni mafiose secondoforme assimilabili a quelle del loro ambiente, ambiente definito nonsolo dalle forme istituzionali tradizionali trasmesse dalla culturamediterranea del comparatico, dell’amicizia e della famiglia, varia-mente reinterpretate, ma anche dalle forme istituzionali moderne –

e importate dall’esterno, quindi non autoctone, per quanto la Sicilianon sia del tutto estranea, storicamente, alla vicenda che ha portatoalla formazione dello stato moderno24 – dell’impresa capitalistica edello stato burocratico. Il mimetismo istituzionale – la tendenza cioèdei gruppi mafiosi a imitarsi e copiarsi, e a imitare e copiare le for-me organizzative via via diffuse negli ambienti sociali e istituzionalicircostanti – costituisce indubbiamente una strategia condivisa e dilungo periodo su cui varrebbe la pena soffermarsi. Qui ci limitiamoa pochi cenni, direttamente legati all’oggetto di questo saggio.

La scoperta dei pizzini come strumento di comunicazione ordi-nario nella gestione di Cosa Nostra da parte di Bernardo Provenza-no non può non riaprire la vecchia questione del grado e del tipo diorganizzazione della mafia, e in particolare del suo avvicinarsi almodello della burocrazia razionale (si ricordi che la scrittura è unaforma di razionalizzazione), sia esso nella sfera politica (stato mo-derno) o in quella economica (impresa capitalistica). È forte in effet-ti la tentazione di ipotizzare che l’adozione della scrittura comestrumento di comunicazione ordinario abbia introdotto nella mafia– in Cosa Nostra – una logica istituzionale «burocratica», weberia-namente intesa. Il dibattito sulla natura burocratica o meno dellamafia non è certo una novità. Già per Gaetano Mosca – uno deiprimi scienziati sociali a occuparsene – la mafia non aveva però,siamo agli albori del XX secolo, un’organizzazione burocratica, con-trariamente a una tesi già allora diffusa nei mass media, intrigatidall’idea – concettualmente facile da assimilare e quindi immedia-

tamente proponibile anche al grande pubblico – di una«

Mafia»

 ri-gidamente organizzata e strutturata (Mosca 1980). La posizione di

24 Il riferimento è all’organizzazione politica del periodo della dominazionenormanna, che secondo certa storiografia istituzionale ha in vari elementi anti-cipato lo sviluppo dello stato moderno successivo (e sostanzialmente localizzatoin Francia, Spagna e Inghilterra).

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Mosca sarebbe stata ribadita da uno stuolo di antropologi che neglianni sessanta e settanta hanno insistito nel negare ogni tratto di for-malizzazione e anzi di organizzazione intenzionale alla mafia, pensatapiù come informale e mobile rete di relazioni che come struttura or-ganizzativa con tanto di organigrammi e statuti. La visione antropo-logica, l’abbiamo già visto, sarebbe stata messa poi in dubbio dalleacquisizioni del maxiprocesso degli anni novanta, che hanno portatoa una ridefinizione dell’organizzazione mafiosa come struttura in ef-fetti formalmente definita e dotata di un organigramma oltre che dispecifiche norme istituzionali (Catanzaro 1986; Gambetta 1992; Paoli

2000). Mancava però questo requisito cruciale del tipo burocraticoche è l’uso della scrittura, condizione necessaria per la formalizza-zione delle procedure amministrative, tanto nell’impresa pubblica(lo stato) che in quella privata (l’impresa capitalistica).

Non sembra peraltro dall’analisi dei pizzini esaminati che di que-sto si tratti: se c’è scrittura questa non è volta alla formalizzazione diprocedure, benché si possa notare una certa ritualità nel contenutodelle lettere. La mafia che emerge dai pizzini non è più burocraticadi quella che emerge dai libri di antropologia degli anni sessanta esettanta. Il modello mafioso continua a mostrarsi allo sguardo socio-logico come caratteristicamente equidistante sia dal tipo burocraticodi amministrazione, descritto classicamente da Weber, che da quello– a esso opposto – di tipo corporativo-artigianale (craft administra-tion), che in un classico saggio Stinchcombe (1959) ha caratterizzatonei termini di relazioni contrattuali di breve durata, continuità distatus dei lavoratori sul mercato del lavoro e non nell’impresa, ecompetenza tecnica professionale. Piuttosto, quella mafiosa sembre-rebbe meglio classificabile – almeno da una lettura dei pizzini – co-me una forma di «amministrazione di mediazione»  (brokerage ad-ministration), tipo di amministrazione caratterizzata da ambiguità,informalità e negoziazione25, attributi che caratterizzano a ben vede-re anche i tipici «prodotti» o servizi della mafia (la protezione, in primis). E la scrittura è comunque compatibile con questa forma diamministrazione e di organizzazione, senza che sia necessario evoca-re la nozione di burocrazia.

25 Lo studioso che più ha insistito sul ruolo di mediazione della mafia e deimafiosi è senz’altro Blok (1974). Ma vedi anche Schneider e Schneider (1976),che parlano di «capitalismo di mediazione». Vale la pena ricordare che le indu-strie culturali – caratterizzate da ampia varietà e da imprevedibilità dei risultati,quindi alto rischio – sono uno dei settori in cui la diffusione di forme di orga-nizzazione reticolare è particolarmente alta (DiMaggio 1977; Powell 1990, 308-309).

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Per quanto ci riesca difficile conciliare l’immagine consueta dellamafia – come organizzazione criminale e violenta, radicalmente di-versa dalla società civile – con quella di altri tipi di organizzazione(fra cui quelle culturali), è anche a questo che la mafia di Provenza-no a ben guardare assomiglia: perché i pizzini, sono testi  veicolantisignificati, esiti di processi di ideazione e scrittura, distribuiti tramitecanali ad hoc, finalizzati alla lettura e all’interpretazione e insiemestrumenti di comunicazione che servono a tenere insieme l’organiz-zazione e a strutturarne le modalità di articolazione e funzionamento.

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