Pietro Barucci Quel Fatale Decennio 1940-1950 · Tra quei tasselli era nascosta la sua origine....

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Pietro Barucci Quel Fatale Decennio 1940-1950

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via Raffaele Garofalo, 133/A–B00173 Roma(06) 93781065

isbn 978–88–548–7863-1

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: dicembre 2014

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Alle mie tre figlie Clementina, Valentina, Luisa

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Devo ringraziare varie persone, senza il cui contributo questo libello non avrebbe visto la luce: gli amici Vezio De Lucia e Giuseppe Pullara per avermi esortato a scriverlo; Franco Purini, Ruggero Lenci, ancora Giuseppe Pullara, le mie figlie e Laura Felici per avere letto le bozze e avermi incoraggiato a procedere; mio fratello Vanni e mia sorella Maria Grazia per aver messo a mia disposizione i loro archivi fotografici; infine devo particolari ringraziamenti a mia figlia Clementina per la sua partecipazione al lavori finali, nonché a mio nipote Giacomo, neolaureato in grafica a Rotterdam, per aver reso disponibile il suo nuovo sapere, con rigore professionale e affettuoso interessamento.

Si ringrazia inoltre Josè Pecori Giraldi per aver messo a disposizione il suo archivio.

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Indice

Pipa, zoccoli e Furore:Introduzione di Alessandra Muntoni

Capitolo I. 1940 e precedenti

Capitolo II. 1940-1944

Capitolo III. 1944-1946

Capitolo IV. 1946-1950

Capitolo V. 1950 e seguenti

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Pipa, zoccoli e FuroreIntroduzione di Alessandra Muntoni

Singolare davvero, questo racconto di Pietro Barucci, quasi un piccolo romanzo di formazione, un piccolo Bildungsroman, una sintetica autobiografia che si arresta alle soglie della vita adulta, quando le grandi scelte si sono finalmente definite: la professione di architetto, la costruzione di una sua famiglia accanto a Beata Di Gaddo, il proprio carattere determinato, ostinato, riflessivo. È come se, dopo una lunghissima esperienza professionale ricca di successi ma anche di disavventure, Barucci si chiedesse come tutto ciò si fosse delineato. Forse è stato un rovello che si è affacciato alla coscienza in ritardo, ma che è riemerso prepotentemente quando si è accorto di tutta una serie di tasselli che la sua memoria aveva accuratamente conservato, accantonandoli però in un ripostiglio ben protetto come per preservarli dalle vicende incalzanti del proprio lavoro. Tra quei tasselli era nascosta la sua origine. Così, dopo aver condotto una ricognizione accurata del proprio archivio professionale, rifluito nel bel volume di Ruggero Lenci del 2009, ha sentito ora l’urgenza di portare alla superficie quel periodo aurorale, di raccontare prima di tutto a se stesso cose delle quali forse non aveva parlato con nessuno, di non tenere solo per sé quel travaglio, ma di divulgarlo, condividendolo così anche con noi. In un periodo di disorientamento generale come quello attuale, Barucci mette così a disposizione delle generazioni che hanno vissuto nel secondo Novecento una vicenda, stretta nel decennio 1940-50, che si configura come indicatore utile alla comprensione storica di quel periodo quanto mai complesso.Il tutto senza nostalgia, senza esibizione, senza autocompiacimenti. Si tratta di uno scritto molto bello, inquieto, ironico e vero, seppur venato da una serpeggiante malinconia. È la storia della formazione di un giovane, molto italiano per la difficile conquista della piena responsabilità, ma anche poco italiano per quel distacco che gli fa percepire le cose quasi che le vivesse dal di fuori. Magnifico il capitolo sulla guerra, scioccante l’incontro con Libera, intrigante l’approfondimento psicologico della famiglia di Beata, aspro il percorso verso la professione.Nella premessa, dedicata alla vita nella casa paterna precedente al decennio che Barucci considera “fatale”, si colgono però altre venature. Anzitutto la fierezza di appartenere ad una Gens molto particolare, dove la cultura, l’arte e la tecnica, oltre al buon gusto e all’educazione, sono coltivati come naturale alimento della vita. Poi la fierezza di vivere nel centro storico di Roma, nella casa natale – la casa degli affetti – collocata in una delle sue più belle strade. Ma anche il rovello, quasi l’angoscia, per la sensazione di una propria inadeguatezza di fronte ai problemi posti dalla realtà. Infine le improvvise decisioni, che maturano quasi per intuito ma che hanno spesso in comune alcune componenti: la possibilità di avere quasi

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sempre una via di fuga, la possibilità di isolarsi, la possibilità di concentrarsi sui propri compiti senza ulteriori complicazioni: quindi la Facoltà di Architettura nel fortino accademico di Del Debbio, la scelta di arruolarsi in Marina, lontano dalla terra, in un’Arma che non ha mai assunto il Fascismo come referente assoluto, il matrimonio tutelato dal suocero che ne è pronubo decisivo.L’anello di Beata è un po’ il simbolo di tutto questo. Una forma serpeggiante che delinea un triplice vincolo, una promessa di complessità intuita da Beata e condivisa dal giovane sposo. A questo proposito, la recriminazione conclusiva di Barucci per una possibile vita alternativa mancata – magari con un viaggio esplorativo negli Stati Uniti – a causa di un matrimonio prematuro e quasi imposto, può sembrare una forzatura, persino un po’ crudele anche nei riguardi della propria opera: come se egli non volesse attribuire il giusto valore a quanto ha fatto. Invece il suo lavoro ha lasciato un segno decisivo nella formazione della città contemporanea e ha messo in forma modelli e tipi edilizi, accanto a quelli elaborati dagli architetti della sua generazione come Fiorentino, Passarelli, Aymonino, Valori, o da quelli della generazione che lo ha di poco preceduto, come Quaroni, Libera, Ridolfi, Gorio, De Renzi, senza i quali non sarebbe comprensibile la struttura della Roma moderna. Del resto due quartieri romani progettati da Barucci : il Laurentino e Tor Bella Monaca, sono stati recentemente oggetto di studio da parte dei Dipartimenti di progettazione di molte Facoltà di Architettura italiane. Un primo strappo dalla famiglia per guadagnarsi un margine di libertà, per cominciare ad emanciparsi, era avvenuto appena ottenuta la licenza liceale, quando il giovane Pietro si presenta al mare dalla zia per trascorrervi le vacanze con un singolare armamentario: una pipa come segnale dell’essere entrato nella maggiore età, un vestiario sciolto e comodo per indicare la sprezzatura rispetto alla snobistica distinzione, e Furore di John Steinbeck, segno di attenzione ai rivolgimenti sociali degli umili, ma anche del suo essere un giovanotto aggiornato (The Grapes of Wrath fu pubblicato nel 1939 e premiato col Pulitzer nel 1940). La fuga dalla famiglia, però, trova ad accoglierlo non lontano, a Ladispoli, braccia sempre amichevoli: l’amata Zia Emma. Anche questo, dunque, è un momento incerto, quasi recitato, che segna la difficoltà di trovare le vere coordinate della propria vita.

Ciò che, invece, ne segna veramente l’esistenza sono la Facoltà di Architettura e la vita militare. Esperienza interrotta, la prima, ma che c’introduce plasticamente nelle aule della Scuola e ci fa conoscere quelli che saranno i nostri assistenti e professori quando

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erano ancora ragazzi pieni di allegria e di entusiasmo. Non mancano incisivi camei dei maestri, però, perché il primo profumo di cantiere Barucci lo aveva annusato ben prima, seguendo il lavoro del padre, amico di Vincenzo Fasolo; per cui ci si staglia davanti il formidabile ingegnere-storico che traccia con carboncino i dettagli del Liceo Mamiani direttamente davanti alle maestranze su grandi fogli di carta spolvero attaccati alle murature appena alzate: un modo di fare architettura “dal vero” o en plein aire che deve aver affascinato il giovanissimo apprendista. Ma la Facoltà di Architettura era anche molto diversa da questo. Voleva diventare teoria e metodo scientifico della nuova figura di architetto, per cui sicuramente Fasolo ha contato molto, ma Barucci sembra più legato a Foschini, persino a Piacentini. Certo, egli ha avuto la fortuna di iniziare a frequentare la Regia Scuola di Architettura di Roma negli anni del suo pieno fulgore, quando i Professori erano profondamente consapevoli della loro missione e gli allievi ne registravano con grande stima le qualità didattiche e professionali, ma soprattutto il segno di una signorilità sentita più come affermazione di qualità piuttosto che come assuefazione al potere. Noi che abbiamo frequentato quella stessa Scuola e quegli stessi ambienti, ormai degradati, negli anni Sessanta, abbiamo invece colto la crisi di un insegnamento ormai separato dalla cultura e dalla società. Ai nostri tempi contavano molto di più i bravissimi assistenti di quei vecchi professori, nonché l’esempio dei colleghi che frequentavano gli ultimi anni. Ho il dubbio, però, che una cosa del genere sia sempre esistita, altrimenti non si capisce perché Barucci abbia poi scelto altri Maestri rispetto a quelli così venerati che aveva trovato nella Scuola, assumendo come riferimento la lezione di Le Corbusier, Gropius, Mies van der Rohe. D’altra parte, a Roma erano stati da poco costruiti i capolavori di Ridolfi, di Libera, di Moretti. Dunque, anche allora deve aver contato il dibattito tra gli studenti, quella “vita comunitaria”quotidiana alimentata da una familiarità e un’amicizia che nasceva quasi spontaneamente tra i tavoli da disegno, nei quali ognuno di loro custodiva i propri elaborati chiusi a chiave. E, del resto, che una sorta di ‘autodidattica’ sia invalsa a Valle Giulia fin dalla sua fondazione, è abbozzato nel dialogo tra i professori alla nascita nella Regia Scuola, soprattutto nel contributo proprio di Foschini; modalità poi assimilata dai primi allievi che troveranno ognuno la propria strada seguendo una forza interiore, quella sì coltivata e verificata dai docenti perché si sviluppasse con coerenza.

Incredibilmente, sarà l’esperienza in Marina e la partecipazione a una vera battaglia a bordo della Vittorio Veneto a far uscire dal guscio il vero Pietro Barucci. Questione, questa, per chi detesta la guerra e la vita militare, davvero ostica da ammettere, ma evidentemente quel tirocinio e quelle prove estreme hanno nel suo caso funzionato. Anche qui non mancano auto-ironiche e

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gustosissime descrizioni di episodi quasi grotteschi, come una memorabile partita a scacchi in due tempi con l’ammiraglio Biancheri. Ma Barucci su quella grande nave si fa finalmente onore – come il padre gli raccomandava spesso, senza ottenere che il figlio primeggiasse negli studi – anche se è proprio in virtù della propria diligente applicazione che il giovane guardiamarina sconfigge la paura, tanto da meritarsi un encomio. Con questo in tasca, sarà molto più facile per lui programmare un organigramma sistematico per riprendere gli studi di architettura interrotti. Tanto da primeggiare anche qui, fino a meritarsi la laurea con lode.

Quelle piccole fotografie ritrovate nell’archivio, forse scelte con cura tra le tante, mostrano gli episodi di una storia lontana, guardata come attraverso un telescopio a rovescio, che Barucci riassesta e mette nella serie cronologica giusta, cosicché ognuna di esse assume una forza formidabile, scandendo sensazioni, situazioni, eventi memorabili.Tra queste, vorrei citare le due immagini della Villa Lessona costruita dal padre Giulio sul litorale di Santa Marinella. Esse mi hanno aiutato a capire una questione che mi era rimasta incomprensibile, nonostante ne avessi chiesto le ragioni a Barucci che me ne aveva dato risposte evasive e poco convincenti. La sua ultima opera, la Casa a Sacrofano, segna uno scarto vistoso con tutto ciò che egli aveva costruito prima e che si può a buon diritto inserire tra le possibili varianti del Movimento Moderno, come architettura urbana o addirittura metropolitana. La casa a Sacrofano, invece, è una domus, perfettamente a suo agio nel panorama, dove la forma chiusa intorno a una corte parla di una tradizione antica. Ebbene, questa casa, della quale Barucci è fierissimo, dove ci ha invitato con tanti amici qualche anno fa e dove abbiamo passato insieme una bellissima giornata, credo che richiuda il cerchio aperto proprio da quella Villa Lessona, richiusa in se stessa e affacciata sul mare: un omaggio al padre, ma anche un omaggio all’ingegneria, alla chiarezza alla semplicità.Dobbiamo dunque, per questo libro piccolo solo nelle dimensioni, ringraziare questo coraggioso architetto che ci parla di sé e sua figlia Clementina, anche lei architetto, che ha avuto l’intelligenza di cogliere l’importanza di questa avventura editoriale e di renderla concreta.

Alessandra Muntoni

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I.

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Capitolo I. 1940 e precedenti

Nel giugno 1940, non ancora diciottenne, mi sentii finalmente sollevato. Bene o male, avevo finito il liceo, quella galera del Tasso, dove ero stato deportato dalle ansie di mia madre Iris, donna affettuosa e gentile ma anche insofferente e risoluta. Difatti i cinque anni del ginnasio li avevo fatti al Visconti, lo storico istituto nel cuore del Rione Pigna, nel grandioso palazzo cinquecentesco del Collegio Romano, opera somma attribuita a Bartolomeo Ammannati; esperienza fondamentale che, sebbene in modo inconsapevole, aveva creato in me un profondo senso di naturale appartenenza a un mondo, a un contesto ambientale che mi appariva suggestivo, meraviglioso. Ero nato in via Margutta nella casa di famiglia, mio nonno Pietro pittore rinomato, mio padre Giulio, ingegnere, uomo colto e spirituale; consideravo il mio approdo al Visconti un esito del tutto naturale e definitivo, così come i rapporti con i compagni con i quali mi trovavo a mio agio. Anche con Novello Cavazza Borghese, il mio compagno di banco, di grande disponibilità umana malgrado il suo famoso casato aristocratico. Ma i miei faticosi profitti scolastici, dovuti alla mia naturale immaturità, i penosi esami settembrini di riparazione, avevano spinto Iris, sempre apprensiva, a trasferirmi al Tasso, incurante degli inevitabili traumi psicologici che avrei subito, con il miserabile scopo, peraltro dichiarato, di pormi sotto la protezione di un parruccone amico di famiglia, tale Professor Cinquini, all’epoca vicepreside appunto del liceo Tasso. Manovra che si rivelò disastrosa, perché il presunto protettore andò prontamente in pensione abbandonandomi al mio destino. Trattato freddamente dai nuovi compagni come un intruso, restai estraneo al nuovo ambiente e anzi, la mia natura sensibile e malinconica cominciò da allora a considerare l’esclusione come una condizione abituale, normale. I miei nuovi compagni, fra cui Luca Trevisani, Claudio Forges, Dario Puccini, Sergio Balsimelli, Giorgio Luciani, Lucio Chiavarelli, Orseolo Torossi, Mario Mascioli, Umberto Zanni, Pier Vincenzo Manera, Maffeo Tomassini avevano il solo torto – almeno molti di loro – di essere stati sempre a scuola insieme, fin dalle elementari. Formavano per me una muraglia compatta e impenetrabile da cui mi sentivo fatalmente respinto. I tre anni del liceo erano stati per me un calvario. I professori esigenti e disumani benché assai qualificati, la scuola fuori mano, brutta e squallida, un opprimente falansterio otto-novecentesco imparagonabile con il palazzo rinascimentale dell’ Ammannati. Le smanie della prima gioventù mortificate dalla mole delle materie da affrontare: un accavallarsi inesausto di testi classici impenetrabili, di scienze esatte e non, di nozioni astruse. Al sabato pomeriggio, invece della agognata pausa di pace, la rituale, fastidiosa adunata fascista, mascherati inopinatamente prima da “Avanguardisti Sciatori” e poi da Giovani Fascisti; voglie inespresse, rassegnazione.

1) La mia dolcissimamadre Iris (1899-1989),qui a quarant’anni.Figlia di un Capostazione,nata in Sardegna il sei Dicembre 1899 pochi giorni prima del volgere del secolo; per civetteria ha sempre dichiarato di essere natanel 1900.

2) Il mio amato padreGiulio Barucci (1891-1955), qui a trentadue anni, subito dopo la laurea in Ingegneria con specializzazionein Architettura.

3) Il palazzotto di viaMargutta 78, di storica proprietà familiare dove, nei 150 anni trascorsi dalla costruzione, è accadutodi tutto. Qui sono natonel 1922, in uno studiodel terzo piano.

4) Mio nonno Pietro Barucci (1845-1917), il fondatore. Pittore rinomato, nel tardo Ottocento costruì assiemeal fratello Pio la residenza-studio di via Margutta,in stile toscano.

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Ricordo lo sguardo assente di Vittorio Gassman, studente di un’altra sezione, insolitamente muto fra tanto squallore, nella improbabile divisa da avanguardista sciatore.Ma soprattutto mi pesava di essere costretto a vivere lontano dal centro storico, dalla casa avita in cui ero nato e cresciuto; mi mancava la poesia di quel pezzo di Tridente sotto il Pincio, fra gli orti e gli studi degli artisti, le luci struggenti del tramonto, il rintocco della campana della chiesa dei Greci. E i miei amici di quartiere, i compagni del Visconti, da cui ero stato inspiegabilmente allontanato.Grande posto nei miei ricordi hanno gli anni della fanciullezza, i famosi Trenta, durante i quali mio padre aveva preso in affitto dai Marchesi Patrizi un Orto proprio ai piedi del Pincio, sistemato su tre terrazzamenti degradanti che, con il suo carciofeto, i piantinari di ogni genere, la conigliera, il Passo Volante, l’Altalena, è stato a lungo il nostro Paradiso Terrestre.Ambiente ben diverso da quella sconnessa piazza Fiume; le vie Salaria e Piave con il tram che sferragliava, via Sicilia mi apparivano senza senso, ostili e inospitali. Tutta quella brutta Roma umbertina, postunitaria, fatta di pomposi e inutili palazzotti tutti uguali, senza un angolo dove stare, in cui mi toccava aggirarmi per i capricci materni. Ma il rifiuto ambientale era il risvolto di un malessere ben più profondo e antico. Per anni avevo covato un angoscioso senso di incapacità, nei confronti di tutto: di corrispondere alle attese di mio padre (non potevo dimenticare una sua toccante esortazione: “fatti onore!”), di raggiungere una decorosa quanto irraggiungibile sufficienza nello studio, di avere una ragazza a cui pensare.Il primo guizzo di gioia, un soffio di gioventù lo avevo avvertito alla fine di maggio di quel fatidico 1940, quando era stata annunciata la abolizione degli esami di maturità classica. Era chiaramente la pubblica ammissione dell’approssimarsi di un evento drammatico e ineluttabile: l’entrata in guerra, nel malaugurato conflitto mondiale scoppiato nel settembre precedente. Ma la mia proverbiale incoscienza non fu scalfita da alcuna preoccupazione per gli eventi imminenti. Senza porre indugi, nei primi giorni di giugno, non appena sollevato dagli obblighi scolastici, messi da parte i libri, mi comprai una pipa, una sahariana, un paio di zoccoli e un romanzo (Furore di Steinbeck) e partii per il mare, per Ladispoli, alla volta della bella casa della amorosa zia Emma, sorella di mio padre, che mi ospitava colmandomi di affetto. Era a Ladispoli appunto che avevo immancabilmente trascorso le vacanze estive in famiglia: in un piccolo mondo borghese dove tornavo adesso con qualche apprensione. Ma quei giorni della mia vita rimasero indimenticabili. In quell’aura di liberazione da ogni obbligo, di trepida apertura verso il futuro, sentii come non mai l’infinita leggerezza dell’essere,

5) La mia Classe al Regio Liceo Ginnasio Ennio Quirino Visconti nel 1936, quando frequentavo il quarto Ginnasio (sono il quinto da sinistra in seconda fila).La foto ritrae un angolo della maestosa corte del Palazzo del Collegio Romano attribuito a Bartolomeo Ammannati (1511-1592) e lascia intuirela grandiosità del complessoin cui mi sono formato. Accanto al Preside (forse Piersanti) l’indimenticabile Casanova, eccelsa professoressa di Matematica.

6) Vergognosa foto ricordo, forse del 1939, in divisa da Giovane Fascista, dopo aver abbandonato i pannida Avanguardista Sciatoree prima di essere entratonei GUF (1941).

7) Il Liceo Tasso a via Sicilia, il luogo della mia deportazione.

8) Sopraelevazione degli Studi Patrizi in via Margutta 54, progetto e realizzazionedi Giulio Barucci (1942).

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la dolce spensieratezza; perfino quella spiaggia nera di ferro, quel mare aperto e infido che pure conoscevo dall’infanzia, quelle squallide stradine polverose annaffiate spesso da un’autobotte tirata da un mulo, con i filari di acacie, di tamerici e i ridicoli villinetti dei residenti, mi apparivano pieni di naturale decoro, lieti e gradevoli.Per non dire della piazza del paese, con la stazioncina ferroviaria folta di giganteschi eucaliptus dove fra nuvole di vapore e di fumo nero di carbone sbarcavano i cosiddetti “treni bagni”, con quegli inutili giardinetti al centro della piazza, e con i due caffè del paese Moretti e Castellano aperti a tutte le ore. E ebbi per la prima volta un richiamo d’amore. Un fremito inconfondibile, un trasporto improvviso per Lea, una vecchia compagna di giochi, più grande di me e assai emancipata, che difatti mi trattò con materna condiscendenza, senza distrarsi minimamente dal ben più consistente rapporto che intratteneva con un altro ragazzo, il mio amico Chicco di alcuni anni più grande di me, e di me ben più maturo.Ma a me non importava; tenni per me la mia fiamma non ricambiata, quasi con gratitudine. Era parte di quella nuova vita appena cominciata, che non volevo interrompere con una storia sbagliata, alla quale peraltro non ero minimamente preparato.Il 10 giugno ascoltai smarrito la roboante dichiarazione di guerra di Mussolini, trasmessa dalla radio con tutto il fragore della oceanica ovazione. Avvertii qualche fosco presagio, che però non riuscì a guastare quel mio nuovo, inatteso gusto di vivere. Tuttavia la gravità dell’evento penetrò in qualche modo, di certo non traumatico, nella mia coscienza. Fino ad allora avevo vissuto in un mondo armonioso, fatto di intimità delicate, di amore e di condiscendenza, al punto che nella prima infanzia avevo avuto il sospetto che tutto il mondo circostante fosse stato allestito dai miei genitori su misura per me, con tutto il riguardo e la premura del loro straordinario amore. La guerra, più che altro fu una presa di coscienza, un’occasione di crescita; il passaggio, seppure tardivo, dalla adolescenza alla gioventù. E anche l’inizio di un nuovo modo di pormi rispetto agli eventi: difatti avvertii un violento moto di rifiuto per quella guerra, che mi apparve subito come una iniziativa disastrosa, senza alcun fondamento, una voragine che avrebbe potuto inghiottire tutto e tutti.Ero sempre stato, per natura, antifascista; per un senso del buon gusto, delle buone maniere e della misura, ma anche di colpevole incoscienza, avevo sempre considerato la grande mascherata del fascismo, così grossolana e smaccata, come una forzatura di breve durata, da non prendere neppure troppo sul serio. Nella mia breve vita di relazione, del tutto priva di riferimenti ideologici, avevo provato senso di amicizia e di solidarietà per quelle compagnie

9) Mia madre all’Orto sottola pergola, con cani, bambinie l’amica Bibi.

10) Un angolo dell’Orto ai piedi del Pincio, luogo di infinitedelizie familiari, con una casetta-studio costruitada mio padre, e la terrazzacon la pergola.

11) La scala di accessoalla casetta-studio. Da destra: mia madre Iris, l’amica del cuore Bibi Spinola, io e mio fratello Vanni.

12) Altra visione bucolica dell’Orto. Io sono al centro, fra mia madre e mio fratello Vanni.

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in cui si deridevano i ridicoli gerarchi fascisti, si improvvisavano parodie dei deliranti discorsi di Adolf Hitler (prima ancora di aver visto il film di Chaplin), si scimmiottavano le espressioni più indecenti del regime.Ma capii che con la guerra si voltava pagina, gli scherzi erano finiti, si passava dalla parodia al dramma, forse alla tragedia. E cominciai a sentirmi come un fuscello inerme, trascinato da una corrente impetuosa verso l’ignoto.Tuttavia, in quella estate del 1940, prevalsero ancora in me gli stimoli dell’incoscienza, dell’evasione, uniti a un sentimento nuovo: l’urgenza di allontanarmi dalla casa paterna, di uscire dal contesto familiare, di immaginare e di vivere una mia personale, indipendente esistenza.Fu così che nei mesi estivi girellai, praticamente senza meta, nelle vicine regioni dell’Appennino. Andai a Tagliacozzo in treno, a trovare Mirella, una mia amica prosperosa e piena di spirito, che mi divertiva da morire; poi, tornato a Roma, presi la bicicletta e partii in viaggio con Maffeo e Orseolo, due facinorosi compagni di studi, tutt’e tre equipaggiati nel modo più ridicolo che si potesse concepire. A metà fra la tenuta da sci e quella balneare.Valicammo l’Appennino con grande fatica, sotto un terribile temporale, soccorsi poi da provvidenziali contadini che ci ospitarono con ruvida cordialità. Arrivammo a Montelupone, un paesino delle Marche, nella casa avita di Maffeo ormai abbandonata, dove ci intrattenemmo con due ragazze della villa vicina, sue antiche amiche d’infanzia.Poi scendemmo lungo l’Adriatico con fare spavaldo, fumando sigari toscani e bevendo vinacci di frasca nelle locande lungo la strada. Oltre Pescara, a Ortona a mare, trovammo il compiacente amico Giorgio, altro compagno di studi, ultimo rampollo di una traboccante famiglia benestante con una grande casa e un nugolo di parenti, dove trovammo asilo e ristoro per alcuni giorni; a tavola si sedeva in trenta persone.Infine, dopo un secondo, difficile valico appenninico, il ritorno a Roma, quando era ormai quasi autunno.Il mio rientro fra le pareti domestiche avvenne in modo strano. Ero diventato diverso, insofferente dei legami familiari, non trovavo più nella casa paterna il mio spazio vitale, la mia giusta dimensione.Stava per iniziare la grande vicenda della mia vita.

13) Gruppo di famiglia databile 1922-23, riunito al terzo piano di via Margutta 78. Fra mia madre Iris (a destra) e mia nonna Paolina Rolli (a sinistra), è sistemata la zia Emma sorella di mio padre, sposata Fumaroli,con il marito Giuseppee le due figlie - nonché mie cugine - Clara (la maggiore) e Fausta con la bambola. Atmosfera e ambientazionedal forte carattere d’epoca.

14) Foto di gruppodi villeggianti sulla spiaggiadi Ladispoli, databile 1932. Tutti conoscenti o amici di famiglia e frequentatori di questo tratto di spiaggia,con schiera di cabine balneari alle spalle.Contegno e abbigliamento fortemente rappresentativi della borghesia dell’epoca.a) mio padre Giulio (41)b) mia madre Iris (32) c) mio fratello Vanni (5)d) mia sorella Maria Grazia (2).e) io (10)