Pierpaolo Sannia - Scenari Criminali nella Sardegna Contemporanea

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La realtà criminale della Sardegna sta lentamente attraversando un significativo momento di riassetto: il vuoto lasciato da quella che fu l’Anonima Sarda, ha permesso a singoli individui o a piccolissime bande di proliferare nella caotica “zona franca criminale”.

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EDITORIALE

Da anni parliamo della comunicazione e di una società costruita attorno alla comunicazione.

“In pochi vivono dentro la comunicazione.”

Vivere dentro la comunicazione significa pensare per connessioni, imparare dai problemi, sviluppare e formalizzare il pensiero. Vivere nella comunicazione significa avere un progetto didascalico.

Nel corso degli ultimi anni lo sviluppo dell’informatica e della telematica ha aperto una nuova dimensione alla comunicazione visiva e alla fruizione dei testi: quella dell’interazione cibernetica mediata da oggetti grafici.

Tutto cambia: cambiano gli artifici visivi, la interazione relazionale; cambiano i tempi, gli spazi, i processi di significazione, la partecipazione, le sensazioni, le riflessioni; cambia la politica, l’economia, la progettazione, la programmazione, i linguaggi; cambiano gli stimoli percettivi, in dispositivi semiotici, gli oggetti d’uso; cambia infine la scrittura in un lessico fatto prevalentemente di interfacce grafiche, iconiche, da quando cursori e pulsanti hanno sostituito penne e calamai popolando ormai il nostro spazio operativo di nuove funzioni Touch Screen. Ormai siamo definitivamente nella comunicazione, dentro la florida e incessante dinamica della ipermedialità.

Ma non cambiamo noi. Cambiano molto più lentamente le nostre capacità cognitive e culturali. Apprendiamo con le vecchie metodologie, le scuole e le università continuano ad ignorare i processi di apprendimento nuovi della società della comunicazione. Tra la vita scolastica istituzionale, pubblica e privata, e i processi di apprendimento della società della comunicazione c’è un vuoto in cui crollano quasi tutte le professioni.

Il Glocal University Network ha la grande ambizione di coprire quel vuoto, di entrare nella comunicazione globale con una serie di strutture universitarie locali, organizzate in sintonia con la multimedialità della nuova didattica

Liliana Montereale

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PROFILO BIOGRAFICOLaureato in Antropologia culturale ed Etnolgia all’Università degli Studi di Sassari, Pier Paolo Sannia è nato a Sassari (SS) il 17 maggio 1975 e vive tra Macomer e Pomezia (Roma) dove lavorato come ricercatore presso il Campus degli Studi e delle Università di Pomezia – Ce.A.S. (Centro Alti Studi per la Lotta al Terrorismo e alla Violenza Politica).

Si occupa di studi e ricerche nel campo dell’Antropologia della Comunicazione e della Sicurezza: in particolar modo della ricerca e l’analisi delle informazioni d’intelligence da fonti aperte, dello studio dei fenomeni terroristici ed in generale riconducibili alle differenti forme di violenza politica.

Ricerche inediteAnalisi ed interpretazione culturale del Crimine, Pomezia (Roma), 2010.

Pubblicazioni• Tra paese e città. Una proposta di analisi etnografica sulla comunità macomerese. In

“Macomer. Percorsi didattici”. A cura dell’Associazione culturale Pro Loco di Macomer, 2008.

• Aspetti caratterizzanti del territorio: Breve analisi antropogeografica di Macomer e del suo territorio in Macomer città giardino. Rapporto sullo stato dell’ambiente. Progetto cofinanziato dal Ministero dell’Ambiente e della tutela del Territorio. Macomer, 2006.

• Altre collaborazioni• Rivista scientifica Intelligence e Storia Top secret;• Progetto di ricerca e formazione Glocal University Network.

Consulenzahttp://www.glocaluniversitynetwork.eu/consulenza/pierpaolo-sannia

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1. Ieri

Descrivere e definire, dal punto di vista sociale e culturale l’attuale paradigma criminale della Sardegna, diviene un’opera assai complessa: lo stereotipo della criminalità sarda è infatti rimasto fossilizzato in quello ch’è stato per alcuni secoli il fenomeno deviante per antonomasia: il banditismo e il sequestro di persona a scopo di estorsione e a questo legato. Una vera e propria etichetta che ha segnato a lungo l’economia criminale sarda.

Nel sito internet del Ministero dell’Interno, nella pagina della Direzione Centrale della Polizia Criminale, è riportato l’Elenco dei Latitanti di Massima Pericolosità facenti parte del “Programma Speciale di Ricerca” selezionati dal gruppo integrato interforze (G.I.I.R.L.), dove al primo posto è indicato il nome di Attilio Cubeddu, l’ultima primula del banditismo sardo; a lui sono legate molte pagine tra le più tristi e controverse della storia criminale isolana. Cubeddu prese parte al sequestro Peruzzi (1981), ai sequestri Rangoni Machiavelli e Bauer in Emilia-Romagna (1983). Nel 1984 fu arrestato a Riccione e condannato a 30 anni di carcere. Detenuto nel carcere nuorese di Badu ‘e Carros, nel 1997, durante un permesso concessogli per buona condotta, non fece più rientro e si diede alla latitanza, rimanendo nel contempo coinvolto anche nel sequestro dell’imprenditore Giuseppe Soffiantini e in seguito fu sospettato anche di essere coinvolto nell’omicidio dell’ispettore dei Nocs Samuele Donatoni. Per questi reati fu condannato rispettivamente a 30 anni e all’ergastolo. Cubeddu è anche sospettato di aver preso parte al sequestro di Silvia Melis, sequestrata nel 1997 in Ogliastra.

Quello dell’ultima primula del banditismo sardo, è certamente un curriculum criminale di prim’ordine, ma è curioso che il nome del bandito sardo sia stato iscritto in questo elenco, nell’ordine, prima di altrettanti illustri criminali legati ad organizzazioni mafiose: tra questi spicca quello di Messina Denaro Matteo, ovvero il capo della cupola di Cosa Nostra. Per il comune osservatore la percezione – probabilmente errata – è che il bandito sardo risulti essere maggiormente pericoloso rispetto al boss di Cosa Nostra; altresì la percezione meno grossolana al cospetto di un attento osservatore “esterno”, con molta probabilità, farebbe apparire la fenomenologia criminale della Sardegna, sostanzialmente riconducibile ancora una volta a quella che giornalisticamente veniva definita Anonima Sequestri (o Anonima Sarda).

Potremmo quindi definire questa visione dell’unico scenario criminale sardo, tanto anomala quanto anacronistica: entrambe le affermazioni potrebbero non corrispondere alla realtà dei fatti e risultano essere grandemente fuorvianti. E così, mentre attualmente ci si concentra sulla celebrazione storiografica del banditismo, ci si trova dinanzi ad un epocale cambiamento dal quale derivano i nuovi scenari criminali dell’isola. Oggi constatiamo timidamente che gli scenari criminali nella Sardegna sono completamente differenti rispetto al passato e definiscono, sotto l’aspetto analitico, un paradigma necessariamente differente.

Ciò che molti antropologi, sociologi, politologi, giuristi e giornalisti non hanno realmente definito ed in parte non hanno epistemologicamente spiegato, è il macro-processo evolutivo dei fenomeni criminali attualmente presenti in Sardegna; analizzando gli eventi criminali dell’isola, ci si attesta spesso sulla singolarità dei medesimi, sovente tralasciando la ricerca di una regola che di questi ne governa le dinamiche.

Partendo da questa prima disamina, potremmo definire quale principio dell’evoluzione del paradigma criminale sardo, la legge 82/91, vera e propria linea di spartiacque tra il vecchio e i nuovi scenari criminali sardi: questa, normando anche in materia di “blocco dei beni” dei familiari dei rapiti, ha di fatto arginato il fenomeno del banditismo ai fini di estorsione. Partendo da tale constatazione è possibile asserire che, dalla promulgazione in poi della legge 82/91, si è creata una “lacuna” criminalmente legittimata ma socialmente non meglio individuata e riconosciuta; questa, come una sorta di “zona franca criminale”, ha fattualmente dato luogo ad un periodo di “caos criminale”, entro e attraverso il quale, un eterogeneo micro-universo di attori criminali si è imposto nell’isola mettendo in essere differenti attività. È questo un punto fermo sul quale marginalmente ci si sofferma, talvolta sedimentando il ragionamento teorico su quello che potrebbe essere definito il paradigma statico dell’identità criminale sarda: l’errata visione risultante da questo staticismo, che

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in buona sostanza riconduce ad una visione arcaica e pressoché romantica del bandito sardo, é riconducibile all'atavico binomio pastore-criminale. È questa una visione culturale errata, che affonda storicamente la sua logica nel determinismo geografico e culturale, fortemente improntato a definirne l'identità del pastore sardo come fosse un "animale totemico". Questo per gli analisti è un fattore causale connotato da un palese disorientamento interpretativo.

Citato spesso in letteratura, il pastore sardo, nell'immaginario collettivo, quale attore sociale insieme al suo "mondo", diviene spesso sinonimo di criminale. Aggiungerei erroneamente, perché è questa una visione legata ad una realtà più mediatica che storica, la quale è stata radicata accidentalmente nell'immaginario collettivo, divenendo perfino oggetto d'inchiesta con l'istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna e presieduta da Giuseppe Medici.

Una connivenza questa, definita e maturata nel paradigma monoculturale di un’economia basata fondamentalmente sull’allevamento estensivo, sovente praticato a livello nomadico e semi-nomadico; questo è il contesto socioeconomico dove si è sviluppata l’attitudine alla gestione individuale dell’azienda, e dove la famiglia – di tipo matriarcale – ha storicamente assunto un ruolo attivo nei processi produttivi per i quali la propensione allo sviluppo di un’economia di sussistenza, ne ha costituito i fondamenti.

I presupposti economici ed organizzativi, dettati in buona sostanza dal determinismo geografico anche e soprattutto interno alla Sardegna, hanno in effetti definito anche i presupposti affinché l’individualismo diventasse il “brand” distintivo della società sarda. La cifra deterministica la si evince finanche leggendo i capolavori di due geografi ed esploratori di scuola francese: l’Itinéraire de l’ile de Sardaigne del generale Alberto Della Marmora e Pastori e contadini di Sardegna di Maurice Le Lannou; dalla lettura delle due opere facilmente si comprende quanto e come la geografia della Sardegna, caratterizzata da un habitat disperso e suddiviso in qualcosa di simile ai cantoni, abbia fortemente influito sul marcato spirito individualistico dei sardi.

È qui che nasce – tra storia e leggenda – il mito di un popolo testardamente geloso, custode della propria terra e della propria identità, quest’ultima segnatamente minacciata dagli "invasori" provenienti dal mare. Nelle alterne vicende, si è sviluppata la consapevolezza di un disagio che ne ha rafforzato lo spirito difensivo ed in ciò è storicamente possibile inquadrarne l'ambivalente modus difensivo, attraverso l'individuazione del nemico esterno e del contendente interno. Il primo rappresentava un serio pericolo per l'intera popolazione, che andava di fatto combattuto e allontanato dalla propria terra; il secondo era colui che metteva a rischio il proprio bene e la propria attività economica, il fondamento della quale era il pascolo da utilizzare (itinerante e successivamente stanziale) per le proprie greggi.

Nel contesto delle campagne, si sviluppa storicamente il complesso scenario criminale: contenziosi iniziati per sconfinamenti di pascolo o per questioni di abigeato, hanno rappresentato (e rappresentano in parte tutt'ora) le cause che hanno originato le conflittualità interne, spesso risolte con l'utilizzo della violenza che, con la pratica della faida, è conosciuto con il nome di vendetta barbaricina.

Antonio Pigliaru, filosofo e giurista studiò fattivamente, dal punto di vista teorico le regole di un ordinamento giuridico non scritto, che potremmo definire “mimetico” e contemplante la faida ed in genere la violenza quale pratica sanzionatoria punitiva nei confronti di uno o più individui, i quali avessero minato la tranquillità sociale e gli equilibri del sistema produttivo comunitario.

Pigliaru nel 1959 pubblicò un’opera memorabile avente per titolo La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, rilevò l’esistenza di un particolare ordinamento giuridico non scritto, in grado di supplire a quello codificato dallo Stato. È stato questo il momento di riflessione storicamente più importante, nel quale si poté analizzare sotto l‘aspetto teorico, la complessità della società sarda, entro la quale – fino ad allora - era stato possibile individuarne soltanto superficialmente, le dinamiche interne, compresi i fenomeni criminali.

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Erano gli anni della transizione, quelli che precedettero i Piani di Rinascita e l‘ondata industriale, nel tentativo di cambiare il destino di una terra lontana e in parte ancora sconosciuta. Quelli in cui scriveva Pigliaru erano anni importanti, durante i quali ci si apprestava a vivere non solo l‘affermazione dell‘industria petrolchimica e dell‘economia del turismo elitario qual era la nascente Costa Smeralda. Anni durante i quali il fenomeno criminale autoctono, poté fare il salto evolutivo, definendo così la nuova fase del sistema economico criminale: quella dei sequestri di persona a scopo di estorsione nei confronti degli estranei imprenditori, i cosiddetti „continentali“. Fu questo un periodo in cui operativamente il fenomeno del banditismo divenne funzionale al cambiamento sociale ed economico della Sardegna. Non solo nell‘isola ma anche nella penisola italiana, laddove con l‘ausilio della diaspora criminale sarda, l‘attività del sequestro di persona poté allargare il proprio raggio d‘azione. Uno scenario da impresa criminale nel quale si configuravano sia la concorrenza, sia a tratti la cooperazione.

La nota Anonima Sarda (o Anonima Sequestri) rappresentò lungamente la stagione più cruenta della criminalità sarda. Questa pur non essendo stata una vera e propria organizzazione criminale gerarchizzata in senso piramidale, a tratti assunse informalmente la configurazione del network criminale; questo, caratterizzato da moduli indipendenti, occasionalmente diveniva una complessa rete ove instaurare delle collaborazioni al fine di realizzare dei progetti criminali studiati e preparati ad hoc. La rete criminale informale era in grado di completare la „filiera“ dell‘atto criminale, ovvero dall‘ideazione del rapimento al gruppo di prelievo, passando poi ai trasferimenti, alla carcerazione, alla comunicazione e alla mediazione con familiari ed autorità, fino alla trattativa per ottenere il riscatto e la conseguente liberazione dell‘ostaggio. Quando questo complesso meccanismo non funzionava perfettamente, accadeva che l‘ostaggio non facesse più ritorno alla libertà.

Un ruolo importante nel panorama criminale sardo, lo ebbero anche le organizzazioni eversive negli anni in cui andavano delineandosi gli scenari terroristici in tutto il territorio nazionale. La Sardegna partendo da un’idea politica rivendicazionista nei confronti dello Stato italiano, non rappresentò certamente un’eccezione; questi movimenti eversivi iniziarono a formarsi lentamente già negli anni ‘60, e analogamente altri movimenti eversivi del “continente”, rivendicavano l’oppressione capitalista tal volta con l’aggiunta di rivendicazioni indipendentiste. Nella seconda metà degli anni ‘60, nell’ambito del programma di Gian Giacomo, il quale mirava a trasformare la Sardegna nella Cuba del Mediterraneo, si prevedeva l’utilizzo della criminalità legata alle campagne: uno di questi personaggi sarebbe dovuto essere Graziano Mesina, esponente di primo piano del banditismo sardo. Tra la fine degli anni ‘70 e i primi anni ‘80 la Sardegna conobbe la formazione di organizzazioni terroristiche: una di queste, Barbagia Rossa fu attiva tra il 1978 e il 1982 in Sardegna; una seconda formazione, era il M.A.S. (Movimento Armato Sardo) un’organizzazione terroristica d’ispirazione marxista-comunista è stata attiva tra il 1983 e 1985. Artefice di numerosi omicidi ed attentati dinamitardi, il M.A.S. Non disdegnò di mettere in essere i sequestri di persona, riprendendo di fatto anche l’idea e il modus operandi del banditismo..

La lunga stagione del banditismo sardo che si concluse di fatto con la promulgazione e in attuazione della legge 82/91, dette inizio ad un periodo si generò quella che io definisco una “lacuna” criminalmente legittimata, che configurandosi come una sorta di “zona franca criminale”, ha di fatto provocato il “caos criminale”. Qui, un eterogeneo microcosmo di attori criminali si è imposto nell’isola mettendo in essere differenti attività.

È qui che avviene la transizione verso i nuovi scenari criminali, quelli non ancora „legittimati“: dalla conclusione della stagione dei sequestri di persona in poi, si è assistito all‘escalation di un‘eterogenea attività criminale che va dagli assalti ai bancomat, passando per gli assalti ai furgoni portavalori, per arrivare infine al narcotraffico; premesso ciò, il cambiamento del target rispetto al passato, potremmo definire le tre attività miranti a colmare la lacuna scaturente dal fenomeno estorsivo derivante dal sequestro di persona. A tal proposito, una prima disamina da mettere in essere è che contrariamente al passato, pur avendo ancora dei legami, non necessariamente questa tipologia di reati è in maniera logica e coerente, parzialmente riconducibile alla matrice di origine agropastorale. Se questo, com‘è dimostrato, era in parte asseribile sociologicamente e culturalmente, potremo affermare che attualmente l‘eterogeneo universo criminale sardo ha maturato una maggiore propensione all‘integrazione verso il mercato globale del crimine. Meglio definibile come mercato glocale.

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2. Oggi

Lo scenario è cambiato e oggi la realtà criminale della Sardegna sta lentamente attraversando un significativo momento di riassetto: il vuoto lasciato da quella che fu l’Anonima Sarda, ha permesso a singoli individui o a piccolissime bande di proliferare nella caotica “zona franca criminale”, ma qualcosa è contestualmente cambiato.

Dovremo necessariamente parlare dei nuovi scenari criminali della Sardegna contemporanea, il primo dei quali è quello riguardante le organizzazioni criminali mafiose.

Contrariamente a quanto è stato lungamente asserito, anche in terra sarda iniziano a manifestarsi attività riconducibili ad organizzazioni criminali di tipo mafioso. Nella prima metà degli anni duemila, dapprima il giornalista Indro Montanelli (2001) e successivamente il sociologo e saggista Pino Arlacchi (2006) hanno di fatto sostenuto le tesi secondo le quali nella società sarda, per ragioni di natura strutturale e culturale, non può esserci e quindi radicarsi il fenomeno mafioso. La smentita di queste tesi è parzialmente arrivata dalle cronache dell’ultimo decennio.

In Ogliastra, una regione della Sardegna centro-sud-orientale, è stata individuata la prima associazione mafiosa nostrana, che ha visto coinvolti la “zarina” Maria Ausilia Piroddi, la sindacalista della CGIL che insieme al suo braccio destro Adriano Pischedda e ad altri suoi collaboratori, è stata accusata d’essersi messa - nel periodo di tempo compreso tra il 1996 e il 1999 - a capo di un’organizzazione criminale con finalità politiche tendenti a rafforzarne il suo ruolo in ambito locale.

Del gruppo di accusati facevano parte tra l’altro politici, pluripregiudicati, trafficanti d’armi e droga. La pesante accusa fu quella di aver creato un clima di terrore, perpetrando a Bari Sardo una non breve sequenza di atti intimidatori ai danni di amministratori pubblici, poliziotti e farmacie. Vi furono anche due omicidi: quello dell’operaio forestale Pier Paolo Demurtas e del sindacalista Franco Pintus. Il 6 giugno 2008 la sentenza: la Piroddi è condannata in via definitiva a 17 anni e 3 mesi. Condanna non scontata perché deceduta nel febbraio 2011 a causa di un tumore.

Pur essendo questo il primo e finora unico caso accertato di associazione mafiosa nata in Sardegna, nel corso dell’ultimo decennio, si è potuto verificare come, contrariamente a quanto per lungo tempo si sia creduto, la Sardegna potrebbe essere meta – è in effetti lo è – di attività poste in essere dalle organizzazioni criminali di tipo mafioso: emblematici sono i titoli dei due articoli pubblicati del giornalista Roberto Galullo de Il Sole 24 ore: La Sardegna fa gola ai Casalesi che sull’isola hanno un proprio regista per le attività usurarie e sempre del medesimo autore L’isola battuta dal vento e difesa dai balenti, che fa girare gli affari di cosche e faccendieri, pubblicato nel suo libro Vicini di Mafia. Storie di società ed economie criminali della porta accanto.

Leggendoli ci si rende conto che anche la Sardegna è oramai diventata una meta dove le mafie possono curare i propri interessi, tal volta investendo di ruoli organici anche dei soggetti criminali d’origine sarda: il 15 aprile 2011, nell’ambito dell’Operazione Serpe coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Venezia e dai Carabinieri di Vicenza e Padova, è portata alla luce l’ennesima attività illegale del clan dei Casalesi che si sviluppa lungo la “direttrice” che dal Veneto conduce finanche nel territorio isolano. Come riporta Galullo (2011), nell’ordinanza di 400 pagine si legge infatti che il “sodalizio ha cominciato ad attuare nei primi mesi del 2010 sistematiche attività usurarie nel distretto veneto ma già da tempo operava in altre regioni italiane e particolarmente nel dentro Italia e in Sardegna mantenendo oltre una decina di posizioni usurarie gestite dall’associato Nicola Pani”, nato a San Gavino Monreale (Cagliari) ma residente a Guspini (Medio Campidano).

È questo il chiaro segnale di come la società sarda ha anch'essa delle vulnerabilità che possono essere utilizzate

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funzionalmente dalle mafie ai fini del controllo di attività illecite quali usura, riciclaggio, traffico di droga, etc. E di ciò troviamo conferma anche in altri casi: uno di questi riguarda il latitante Giuseppe Utzeri. Ex poliziotto e uomo della scorta dell’allora Ministro degli Esteri Gianni De Michelis, Utzeri è considerato il re del narcotraffico sardo e vicino ad importanti esponenti di Cosa Nostra e della ‘Ndrangheta, è stato arrestato il 3 marzo 2009 a Marbella in Spagna.

Il secondo scenario criminale è quello riguardante l’universo-droga, attualmente descritto con sconcertante chiarezza dai media regionali e nazionali. È significativo il titolo di un articolo firmato da Nadia Francalacci per il periodico Panorama: I pastori sardi come i trafficanti colombiani? L’autrice del pezzo pone giustamente un interrogativo, domandandosi tra l’altro se questa non sia la conseguenza della profonda crisi in cui versa l’economia agropastorale della Sardegna: il problema delle quote-latte, la pressione fiscale e i danni di origine climatica e antropica, potrebbero indurre un indefinibile numero di pastori ad affiancare all’attività convenzionale quella di narco-coltivatore e narcotrafficante. E così scopriamo che la Sardegna diventa un importante stazione di smistamento per il traffico di cocaina proveniente dall’America del Sud, passando per i porti della Nigeria, Spagna, Algeria e Marocco. Le cronache recenti raccontano inoltre della crescente tendenza a coltivare in piantagioni di cannabis, mimetizzate nelle campagne dove viene praticata la pastorizia.

È questo l'ennesimo segnale di come ci si trovi ad attraversare un periodo di transizione e riposizionamento dei player criminali, conseguente fine alla conclusione della lunga stagione dei sequestri di persona.

Il terzo e ultimo scenario criminale potrebbe delinearsi in conseguenza dell’intensificarsi dei flussi migratori regolari e soprattutto irregolari, provenienti dall’area Nordafricana e, sempre attraverso questa dall’area sub-sahariana: il rischio per la Sardegna - accentuato dopo l’inizio della Primavera Araba - potrebbe essere non tanto quello di diventare il teatro di attentati terroristici di matrice islamica, ma altresì di la base logistica di organizzazioni terroristiche facenti parte dell’eterogenea galassia jihadista; l’isola potrebbe rappresentare l’ottimale testa di ponte europea attraverso la quale muoversi con maggiore tranquillità verso le destinazioni d’interesse strategico.

Conclusioni

Se non si prende realisticamente atto dell’evoluzione del paradigma criminale della Sardegna, il rischio che si potrebbe correre è quello di trovarsi dinanzi ad uno sconvolgente scenario entro il quale potrebbe a sua volta generarsi un pericoloso sincretismo tra i differenti fenomeni criminali qui descritti. La conseguenza – nel medio e lungo periodo - potrebbe di fatto vedere l’isola aggredita dalle più efferate organizzazioni criminali operanti su scala nazionale ma soprattutto internazionale.

Un prezzo altissimo che ne il popolo sardo, ne l’Italia e l’Europa possono permettersi di pagare, soprattutto in un momento delicato sotto l’aspetto economico, ma anche di riassetto geopolitico e geostrategico.

Occorre tener ben impresso nelle nostre menti che il paradigma criminale della Sardegna è oramai mutato e quello che per molto tempo è stato il simbolo criminale - il banditismo così come lo abbiamo conosciuto - è stato consegnato alla Storia.

Sembrerà paradossale, ma questo vuoto di legittimità criminale venutosi a creare, potrebbe esporre nell’immediato futuro l’intero territorio regionale alle insidie delle maggiori organizzazioni criminali attive a livello nazionale e internazionale. Nell’immaginario collettivo il connubio mondo-criminale – mondo-pastorale non sarà più predominante. Sarà soltanto il mero ricordo per una società che vive in un mondo glocale.

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http://www.unionesarda.it/Articoli/Articolo/27199

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