Le dinamiche criminali a Reggio Emilia - Enzo Ciconte (2008)

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Le dinamiche criminali a Reggio Emilia Enzo Ciconte

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Le dinamiche criminali

a Reggio Emilia

Enzo Ciconte

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11 gennaio 2008

Le dinamiche criminali a Reggio Emilia

Enzo Ciconte

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Introduzione Nell’ultimo decennio la Regione Emilia-Romagna,

in accordo con alcuni comuni tra i quali quello di Reggio Emilia, ha dedicato una particolare attenzione allo studio e alla ricerca sulla presenza della criminalità organizzata nelle città e nei comuni emiliano-romagnoli. Dieci anni sono un periodo ampio e sufficientemente lungo per delineare il quadro della eventuale esistenza, presenza ed attività sul territorio regionale di formazioni criminali e mafiose italiane alle quali si sono aggiunte, negli ultimi tempi, agglomerati criminali d’origine straniera. Una scelta così prolungata nel tempo mostra come essa rientri nell’alveo di un programma della Regione e dei comuni interessati finalizzato alla conoscenza della realtà del proprio territorio.

Un impegno di così vasta portata va segnalato per la sua importanza strategica soprattutto perché tocca un tema sensibile come quello della criminalità e della sicurezza che normalmente si fa di tutto per nascondere o per non evidenziare più di tanto. Nelle aree cosiddette non tradizionali, come quelle del centro e del nord Italia, di solito si tende a sottovalutare il problema, a sottostimarlo, a dire che in fondo l’esistenza della criminalità organizzata è un problema solo del sud. Simili opinioni non sono nuove, anzi hanno durata pluridecennale e anche quando sono espresse con le migliori intenzioni – la salvaguardia della reputazione e dell’immagine della propria città o regione – in realtà finiscono con l’impedire la piena comprensione di quanto stia succedendo nella realtà perché, così facendo, non si va a guardare quanto accade sotto la superficie delle cose e ci si accontenta solo delle apparenze. Trovare

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amministrazioni pubbliche in controtendenza con questo andazzo è raro e quando succede va sottolineato come un evento positivo perché conoscere il proprio territorio rappresenta la condizione essenziale per salvaguardarlo dalle infiltrazioni di presenze pericolose come quelle della criminalità organizzata. Siffatto percorso di conoscenza è ancora più apprezzabile perché consente l’adozione di politiche di prevenzione mirate a costruire consapevolezza diffusa tra i cittadini e barriere adeguate per tentare di fermare ulteriori casi di infiltrazione o di inserimento. Conoscere il proprio territorio e i soggetti criminali che lo abitano è dunque essenziale per chi amministra e voglia farsi carico dei problemi della sicurezza e della criminalità che tanto interessano i cittadini.

L’attuale ricerca si muove in continuità con quelle precedenti, ne costituisce il proseguimento naturale, un ulteriore aggiornamento delle conoscenze. Il punto di partenza del presente lavoro – che occuperà, seppure parzialmente, un pezzo della prima parte – sarà quello di esporre una sintesi, una riscrittura e una rielaborazione delle precedenti ricerche, e ciò allo scopo di fornire un quadro del punto di partenza, dello stato iniziale dell’intero lavoro di questi anni. In via preliminare, e tentando una prima sintesi dell’intera ricerca è necessario dire che ci sono molti elementi di continuità che indicano l’esistenza di una attività oramai strutturata della criminalità organizzata nella città, ma ci sono anche alcuni altri elementi che segnano delle novità.

Il dato più significativo è la conferma che a Reggio il mondo della criminalità è dominato dalla ‘ndrangheta seppure con caratteristiche diverse rispetto al passato perché la crescente guerra che è intercorsa a cavallo del passaggio del millennio e che è proseguita fino a qualche anno fa e le conseguenti attività di indagine e di contrasto

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della magistratura reggiana e calabrese hanno portato a risultati importanti modificando sensibilmente il panorama mafioso che opera a Reggio Emilia. Accanto a questa presenza ingombrante ci sono altre presenze di criminalità d’origine straniera che creano notevole allarme sociale per i reati che commettono – furti, scippi, rapine, spaccio di droga, prostituzione – ma che non hanno la potenza e la proiezione nazionale che ha la ‘ndrangheta. Mente si stanno scrivendo queste pagine la ‘ndrangheta è considerata l’organizzazione più forte a livello italiano ed europeo, quella che ha maggiori presenze e filiali al centro-nord Italia.

La ‘ndrangheta che agisce a Reggio Emilia è una criminalità che ha forti legami con la cosca principale che è originaria di Cutro dove c’è la storia familiare e dove risiede il punto di comando, il centro nevralgico di tutte le attività calabresi che hanno una ricaduta su quelle reggiane. E’ bene partire da un dato della realtà senza il quale non si comprenderebbe quello che è avvenuto o avviene a Reggio Emilia: il mafioso che dimora a Reggio Emilia dipende da chi sta in Calabria ed è subordinato funzionalmente ai capi che vi risiedono. Il cervello della ‘ndrina rimane in Calabria. Questa caratteristica rende forte la ‘ndrangheta che è l’unica organizzazione mafiosa ad avere due sedi, la principale in Calabria e le altre sparse per il resto delle regioni italiane.

Questa caratteristica troverà un’impressionante conferma nelle intercettazioni ambientali il cui protagonista principale è stato il vecchio Antonio Dragone. E’ rimasto carcerato per circa un ventennio, ma ha sempre cercato di tenere le fila dell’organizzazione. Una volta uscito di prigione e fino al giorno prima di essere trucidato, dava indicazioni concrete ed operative ai suoi affiliati per compiere estorsioni a Reggio Emilia in danno di

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imprenditori originari di Cutro o del circondario di Crotone. Dragone era informato in tempo reale delle mosse degli affiliati, delle risposte delle vittime, consigliava, ordinava, dava delle indicazioni. Operava attivamente a Reggio Emilia pur essendo fisicamente a Cutro.

Quella che agisce a Reggio Emilia può essere considerata, dal punto di vista mafioso, una filiale di quella che opera nella lontana Calabria. Ma, com’è ovvio, i due mondi hanno una realtà criminale che è una opposta all’altra. Tra Reggio Emilia e la Calabria c’è una prima, fondamentale diversità: nei comuni calabresi dove opera la ‘ndrangheta c’è un’occupazione del territorio, con un controllo asfissiante, opprimente, totalizzante di quasi tutte le attività, da quelle economiche a quelle politiche e a quelle di relazione. A Reggio Emilia non c’è alcun controllo del territorio. Non c’è stato nel passato non c’è adesso.

La ‘ndrangheta agisce a Reggio Emilia e in altre parti dell’Emilia-Romagna come se operasse in terra straniera; anzi, per essere più precisi: in terra nemica. Si muove in terra nemica. Così doveva sentirsi uno degli uomini di Antonio Dragone il 4 marzo 2004 quando si recò a chiedere il pizzo a un imprenditore d’origine cutrese. L’uomo telefonò a Dragone e si rivolse con l’appellativo di zio in segno di rispetto. Gli disse: “Zio Totò, io vi dico sempre le cose come sono …....se uno è cutrese che so che la pensa alla cutrese è un conto…ma se uno che è reggiano, perché questo qua, parecchie volte ha cominciato magari ad offendere un poco, hai capito?..... che parla un pochino alla reggiana, hai capito…… cercate di capirmi…… a me le persone che parlano un po’ alla reggiana poco mi stanno bene..; ha capito?”. Queste parole schiudono un mondo. L’uomo è incerto, insicuro, avverte di muoversi su un terreno scivoloso, intuisce la trasformazione

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dell’imprenditore che, pur essendo originario di Cutro, dopo anni trascorsi a Reggio Emilia ha una mentalità reggiana che appare diversa e ostile rispetto a quella ‘ndranghetista. Involontariamente l’uomo fa un elogio delle politiche di inclusione, delle scelte seguite nel corso degli anni che hanno portato a una fuoriuscita dalla mentalità mafiosa. Non è cosa di poco conto.

Terra nemica è un concetto che occorre tenere a mente sin dall’inizio se si vogliono cogliere in tutta la loro portata sia la potenza della ‘ndrangheta che opera a Reggio Emilia, e sia le risorse che ci sono state e che ci sono in città per contrastarla e per impedire che essa possa espandersi e radicarsi. Terra nemica, perché nel corso degli anni, nonostante una presenza oramai pluridecennale, i mafiosi non sono riusciti a penetrare la corazza costituita del comportamento delle istituzioni locali, a partire dal Comune, da tutti i partiti, dai sindacati, dalle cooperative, dalla società civile, dall’associazionismo, dal mondo cattolico. Queste realtà che hanno operato o singolarmente, ognuno nel proprio ambito, o a volte insieme, ognuna per la propria parte e con la necessaria diversità e grado di intensità nell’impegno, hanno contribuito ad impedire, almeno sino ad oggi, la penetrazione della ‘ndrangheta nel tessuto sociale e politico cittadino. Reggio Emilia, pur avendo ospitato una robusta comunità di ‘ndranghetisti non ha ceduto ad essi un palmo del suo territorio. E non lo ha fatto anche perché ci sono state indagini importanti della magistratura, dei carabinieri, della polizia, della guardia di finanza che hanno contrastato passo passo l’avanzare mafioso; indagini condotte in collegamento ed in parallelo con i loro colleghi calabresi.

Eppure i mafiosi calabresi hanno agito in città; eccome se hanno agito. Hanno organizzato la distribuzione di droga, hanno richiesto e riscosso il pizzo, hanno riciclato

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denaro sporco. Hanno infierito sulla vasta comunità di cittadini provenienti da Cutro che da decenni oramai vivono e lavorano a Reggio Emilia, hanno loro rappresentanti nelle istituzioni locali, sono commercianti, artigiani o imprenditori affermati e stimati, lavorano in vari campi del settore dell’edilizia, sono insegnanti o impiegati; insomma fanno parte dei settori produttivi e sociali di Reggio Emilia. Sono le persone originarie di Cutro ad essere le principali vittime – le più dirette – delle estorsioni degli ‘ndranghetisti. L’estorsione è una maledizione che da tempo accompagna i calabresi fuori dalla loro regione, che essi si portano appresso come una cattiva compagnia. Perché succede questo è presto detto: lo ‘ndranghetista chiede il pizzo ad un altro calabrese perché sa che costui farà fatica a dire di no dal momento che un rifiuto potrebbe determinare ritorsioni sui familiari rimasti in Calabria. L’essenza della forza di questi mafiosi che agiscono a Reggio Emilia non risiede a Reggio Emilia, ma in Calabria perché è là che possono valersi sui familiari. La riprova sta nel fatto che gli operatori economici, i commercianti d’origine reggiana non sono sottoposti al taglieggiamento perché costoro non riescono ad apprezzare la potenza del rappresentante della ‘ndrina che perciò appare debole dal momento che non è conosciuta e non è radicata sul territorio. Reggio Emilia è considerata dai mafiosi una città inospitale. Lo conferma un singolare episodio raccontato da Francesco Fonti, un importante collaboratore di giustizia calabrese che nel recente passato ha avuto un ruolo fondamentale a Reggio Emilia in particolar modo nel traffico di stupefacenti. Costui, dopo uno dei tanti arresti collezionati durante la sua vita criminale, disse ai giudici reggiani che la droga di cui era in possesso era andata a prenderla a Milano da Bruno Nirta, “noto mafioso di San

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Luca legato ai Romeo, nel frattempo ucciso in un agguato”. Il fatto non era vero. Perché Fonti raccontò il falso? Perché affermando di avere preso la droga a Milano tentava di spostare la competenza del processo da Reggio Emilia a Milano ove riteneva di poter avere una condanna più lieve1. Naturalmente prima di pronunciare un nome così importante Fonti cercò il consenso dei Romeo e dei Nirta. Entrambe le famiglie mafiose diedero il via libera: “Io chiesi l’autorizzazione a San Luca, al Capo Società, che avevo bisogno di fare un nome per poter spostare questo procedimento”2.

L'episodio è di un’importanza straordinaria. Fonti probabilmente riteneva che la magistratura di Reggio Emilia fosse meno avvicinabile di quella di Milano. Evidentemente a Reggio Emilia non aveva possibilità di intervenire sulla magistratura mentre a Milano riteneva di poterlo fare. Questo episodio, a saperlo leggere bene, dimostra anche un’altra cosa: il maggior radicamento della ‘Ndrangheta a Milano rispetto a Reggio Emilia e i rapporti più solidi con diversi ambienti, compresi quelli della magistratura, o, comunque, in grado di influenzare o di avvicinare qualche magistrato.

L’incontro con la criminalità locale – a parte l’inquietante figura di Paolo Bellini – negli ultimi anni è stata ricondotta nell’alveo dei rapporti normali, come quelli che accadono un po’ dappertutto dove la criminalità mafiosa domina quella locale perché ha un modello organizzativo più efficiente ed una forza militare più potente. La realtà di Reggio Emilia ha una sua specificità per il fatto che ha operato una cosca familiare le cui vicissitudini, nate e sviluppatesi nella lontana – e vicina –

1 Questura di Bologna, Squadra Mobile, Rapporto a carico di Romeo Antonio + 74, 1994, p. 24. 2 Reggio Emilia, n. 87/97, Esame dibattimentale di Francesco Fonti, p. 99.

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Cutro, si sono riverberate anche in città dove si sono prodotti fatti di sangue, il che rappresenta una sicura anomalia. Infatti, di solito i mafiosi in genere, e in particolare quelli calabresi, fanno di tutto per passare inosservati, per non destare allarme sociale, per non richiamare attenzioni indesiderate soprattutto quando sono attivi ed operano fuori dai loro territori d’origine. A Reggio Emilia, invece, questa regola è stata infranta più volte. Ci sono stati omicidi che hanno insanguinato Reggio Emilia. Le motivazioni di quelle morti sono tutte interne alle vicende e alla vita delle cosche o, meglio, della cosca principale che prima era unitaria e che dopo, per varie ragioni – in particolare in seguito agli arresti di uomini di punta delle ‘ndrine e al conseguente mutamento degli equilibri interni – si è divisa in due tronconi determinando rivalità e gelosie che hanno prodotto guerre selvagge, addirittura di sterminio come si vedrà più avanti, per la conquista del potere interno e, dunque, per la gestione degli affari. Le ragioni del conflitto nascono dai ripetuti sommovimenti delle ‘ndrine a Cutro e nei comuni attorno a Crotone dove la ‘ndrangheta gestisce rilevanti e corposi interessi economici.

Non si può parlare della criminalità mafiosa a Reggio Emilia se non si parla di quella esistente a Cutro. Questo è il motivo per cui verranno seguite molte di quelle lontane vicende, perché dal loro sviluppo sono dipesi molti degli episodi accaduti a Reggio Emilia. Ma, prima di passare a questa descrizione, è bene sintetizzare quanto accaduto negli anni passati perché così si capirà meglio lo sviluppo ulteriore degli avvenimenti.

E’ bene fare una precisazione importante: tutti i nomi riportati da vari documenti – giudiziari, della polizia e dei carabinieri, delle commissioni parlamentari antimafia o del ministero dell’interno, della DNA, della DIA, –

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indicano persone che sono ancora in attesa di un giudizio definitivo e, dunque, vale per tutte, come bene costituzionalmente tutelato, la presunzione d’innocenza fino a sentenza passata in cosa giudicata. Come per tutte le precedenti ricerche, anche per questa quello che interessa delineare non è il percorso personale o giudiziario delle persone volta a volta coinvolte, ma la descrizione del fenomeno mafioso, dei suoi sviluppi, del grado di penetrazione nella realtà reggiana, non la descrizione delle posizioni processuali dei singoli imputati. Conoscere l’esito processuale fa parte di un’altra storia e potrebbe avere una sua importanza per valutare la capacità della magistratura locale – reggiana e calabrese – di sanzionare penalmente reati a carattere associativo o mafioso. Il racconto storico e l’affermazione di responsabilità penale in un pubblico processo sono cose distinte e separate. D’altra parte i documenti giudiziari sui quali si fonda gran parte di questa ricerca sono, per loro intrinseca natura, limitati perché descrivono solo la ‘verità’ giudiziaria accertata in quel determinato momento storico, e non altro. Essi ci danno un’informazione parziale e, dunque, devono essere utilizzati con il necessario distacco critico e con l’ausilio di altre fonti – quelle istituzionali o giornalistiche – per meglio valutare quanto è già avvenuto e, se possibile, le linee di tendenza della criminalità organizzata in un futuro più o meno prossimo.

La storia di numerosi mafiosi ci ha insegnato che molti tribunali italiani, per varie ragioni – perché non si era riusciti a raggiungere la prova certa, perché i testimoni erano stati impauriti, perché le indagini non erano state condotte bene, per la difficoltà obiettiva di accertare fuori dalla realtà meridionale l’esistenza e l’operatività di una cosca mafiosa – non avevano accertato la responsabilità penale di fior di mafiosi che sono stati assolti per

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insufficienza di prove, come recitava la formula di un tempo, o, addirittura, per non aver commesso il fatto.

L’esempio di Francesco Fonti è quello più calzante. Nel 1997 Fonti venne arrestato e poi processato assieme ad altri. Con sentenza del Tribunale di Reggio Emilia del 28 novembre 1988, confermata in appello e poi passata in cosa giudicata, Fonti e gli altri vennero assolti dal reato associativo loro contestato per insufficienza di prove e condannati a varie pene detentive solo per spaccio di stupefacenti3. Quando Fonti decise di collaborare e di raccontare tutto il suo percorso criminale ammise che essendo un mafioso affiliato alla ‘ndrangheta aveva organizzato e diretto un importante traffico di stupefacenti, compreso quello dal quale era rimasto assolto. Eppure, nonostante la stampa locale avesse per tempo indicato il carattere mafioso di quel traffico di stupefacenti, investigazioni e vari elementi portati dall’accusa in dibattimento davanti al Tribunale non erano riusciti a provare con sicurezza che era operante un’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.

La sintesi che verrà fatta farà riferimento alle attività dei personaggi che sono più significativi per descrivere quanto è accaduto o per delineare le tendenze utili a farci comprendere quanto potrebbe accadere in un prossimo futuro. Per queste ragioni saranno privilegiate le potenziali linee di fondo, gli scenari, i meccanismi di sviluppo di un fenomeno che è stato esportato ma che, finora, non è riuscito a mettere radici e a germogliare come ha fatto in altre regioni del nord, a cominciare dalla vicina Lombardia dove la realtà mafiosa ha tutt’altra robustezza ed è riuscita a penetrare in profondità sicuramente in alcuni paesi dell’hinterland milanese o del varesotto.

3 Tribunale di Reggio Emilia, Baiamonte Giuseppe + 19, 1997.

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PARTE PRIMA

L’arrivo dei Dragone a Reggio Emilia

Com’è ampiamente noto, i mafiosi arrivarono nelle zone del centro-nord con il soggiorno obbligato. Nonostante l’opposizione dei sindaci locali, furono inviati in quelle realtà dei mafiosi che, non sapendo fare altro, tentarono di infiltrarsi e di occupare porzioni di territorio. I soggiornanti obbligati cercarono di stringere rapporti con persone provenienti dalla stessa regione. Gli esempi da fare sarebbero tanti, ma per la realtà reggiana la storia dell’insediamento di un gruppo familiare molto noto come quello dei Dragone è particolarmente significativa. La storia ha inizio con l’invio al soggiorno obbligato di Antonio Dragone, che all’epoca era custode della scuola elementare di Cutro. I Dragone, secondo Fonti, avevano a Reggio Emilia un ‘locale’ di ‘ndrangheta, il che significa poter disporre di molti uomini, avere forze, avere un peso, contare nel panorama mafioso. Antonio Dragone arriva nel giugno del 1982, appena scampato in Calabria ad un agguato mafioso; il 13 gennaio di quell’anno al suo posto muoiono il nipote Salvatore Dragone e il maresciallo dei carabinieri Pantaleone Borrelli. Va ad abitare a Montecavolo di Quattro Castella. Appena giunto, decine di giovani cutresi si recano a riverire il boss e a rendergli omaggio. Nel reggiano arriva come uno sconosciuto – nessuno, oltre i suoi compaesani lo conosce – ma la stampa locale di Crotone descrive esplicitamente il bagaglio criminale che si porta dietro.

Ne fa fede un articolo de “Il Crotonese” del 14 maggio 2004 che riprende un vecchio ritratto uscito molti

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anni prima sullo stesso periodico che si occupava di Dragone la cui carriera era iniziata già all’età di 14 anni: “Il suo esordio è del 1957 col reato di danneggiamento a cui segue nel 1961 quello di minaccia aggravata; solo un anno dopo le minacce diventano vie di fatto e si trasformano in una denuncia per rissa e lesioni che il Dragone subisce in Germania. Da questo momento la lista delle violazioni al codice penale è una continua escalation: nel 1965 il Dragone è responsabile di tentato omicidio e, sempre nello stesso anno, di rapina: ancora nel 1967 viene denunciato per detenzione abusiva di armi e l’anno successivo ancora per rapina aggravata. Il 1972 è l’anno della faida con un’altra famiglia di Cutro e Dragone è imputato di strage e detenzione di armi da guerra, ma ciò non lo distoglie dagli affari che gli costeranno nel 1975 una denuncia per tentata truffa allo Stato e una per estorsione aggravata; quello stesso anno Dragone mette la sua firma anche in un sequestro di persona. Nel 1979 ancora una tentata estorsione ai danni di una cooperativa di Crotone. Il 6 marzo del 1980 il boss è inquisito per l’omicidio Colacino, ma nel dicembre dell’anno successivo la Corte d’Assise lo assolve per insufficienza di prove, una sentenza alla quale si appella la Procura Generale; contemporaneamente il Dragone è oggetto di una comunicazione giudiziaria in merito ad un altro omicidio. I guai seri per il capo ’ndrangheta tuttavia non finiscono qui, il 13 gennaio del 1982 rimane egli stesso vittima di un attentato mafioso: sotto i colpi del killer però cadono un nipote e un maresciallo dei carabinieri. Conviene ormai cambiare aria al Dragone che in giugno dello stesso anno arriva al soggiorno obbligato di Quattro Castella a bordo di una mercedes 3000; sono almeno una trentina e tutti cutresi i guaglioni che si recano a riverire il boss e a rendergli omaggio”.

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L’arrivo in Emilia sembra mettere Antonio Dragone al riparo dagli effetti della faida scoppiata a Cutro nel lontano 1972 quando i Dragone e gli Oliverio si erano affrontati, armi in pugno, per le vie del paese. Uno scontro cruento per il controllo del territorio, una selvaggia contesa per stabilire a chi toccasse il potere locale e la conseguente gestione degli affari criminali. Ma l’idea di poter scampare a tutti i percoli è solo un’illusione che dura qualche mese, fino a quando nell’ottobre del 1982 non vengono, per ordine del sostituto procuratore della Repubblica Giancarlo Tarquini, prima fermate e poi arrestate due persone con l’accusa di aver voluto compiere un attentato contro Dragone. Passa meno di un anno e nel maggio 1983 Antonio Dragone viene arrestato per ordine di cattura firmato dal giudice istruttore presso il Tribunale di Crotone con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione e detenzione di armi. L’interrogatorio che rende subito dopo è un documento importante per il tipo di risposte che dà agli inquirenti. Sono risposte straordinarie, da manuale, perché ci descrivono il modo di pensare del mafioso di quei tempi, il mondo in cui era vissuto e aveva operato uno come Dragone. Sono risposte dove, con linguaggio allusivo, dice tutto a chi ha voglia di capire, ma non dice niente per gli inquirenti che vogliono ammissioni nette che confermino o smentiscano le accuse a lui rivolte. Dà molto allo studioso, niente ai magistrati. Alla contestazione di estorsione in danno di un imprenditore che è stato costretto a pagare, risponde così: “Da noi accade che quando una Ditta ha dei lavori in corso e deve lasciare esposto del materiale affida a qualcuno il compito di guardiano, parliamo di guardiania”. In poche righe è magistralmente espresso il concetto dell’estorsione mascherata dalla guardiania in vigore sin dall’Ottocento e praticata dagli ‘ndranghetisti in danno dei proprietari

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terrieri. Con l’evoluzione della società anche l’estorsione subirà profondi mutamenti. E così negli anni cinquanta e sessanta del Novecento il sistema della guardiania si spostò sui cantieri edili dato il particolare sviluppo che tale settore ebbe in quel periodo. In molti casi la guardiania era un modo legale per giustificare la richiesta di un pagamento che il proprietario terriero o il titolare di una impresa edile non aveva modo di evitare. Questo meccanismo, nato in Calabria e nelle altre regioni a presenza mafiosa nel Mezzogiorno, sarà esportato anche nel centro-nord e servirà a mascherare pretese estorsive. Alla contestazione del contenuto di una telefonata nel corso della quale sarebbero stati chiesti dei soldi risponde: “Voglio fare presente che da noi quando ci si trova in difficoltà finanziarie ci si rivolge ad amici che possono aiutare, ma non con intenti estorsivi, bensì a puro titolo di amicizia. I cinque milioni di cui si parla in tale telefonata erano semplicemente la richiesta di un prestito, però debbo dire che io il particolare non lo ricordo, cioè non rammento se fu fatta tale richiesta”. La tecnica difensiva è abile: da una parte nega di sapere alcunché sugli addebiti specifici, e dall’altra parte spiega al magistrato che non si tratta di estorsioni, bensì di normali rapporti tra persone regolati da antiche consuetudini locali. Nel mondo descritto da Dragone gli istituti di credito sarebbero votati al fallimento. Di estremo interesse è la risposta che dà all’addebito principale di aver costituito una associazione di tipo mafioso: “Escludo nel modo più assoluto di aver costituito o diretto una associazione di tipo mafioso o anche soltanto di avervi fatto parte”. E per rafforzare ancor più questa affermazione, aggiunge: “D’altra parte secondo l’imputazione mi sarei associato con mio nipote e due miei generi; se così avessi fatto li avrei dunque coinvolti in

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un’attività criminosa ed è ovvio che se mai mi fosse venuto in mente di creare una tale associazione non mi sarei mai rivolto coinvolgendoli ai miei generi e a mio nipote. Io sono rimasto detenuto complessivamente 12 anni e mezzo e non ho avuto alcun contatto con ambienti mafiosi”4. Argomento che potrebbe essere valido forse se detto da un mafioso siciliano, non certo per uno calabrese perché la ‘Ndrangheta, come oramai è ampiamente dimostrato, è fondata essenzialmente sui rapporti parentali – di sangue o acquisiti – dei loro membri più influenti anche se, com’è ovvio, non sempre e non tutti i più stretti parenti di un capobastone sono a loro volta ‘ndranghetisti. Alcuni riescono a sfuggire alle regole generali della famiglia mafiosa senza per questo contrapporsi ad essa. Poi per Dragone arrivò la pesante condanna a 25 anni di reclusione per omicidio e si spalancarono le porte del carcere per 20 lunghi anni. Antonio Dragone – considerato già in quegli anni “il massimo esponente della mafia locale”, “compare e amico” di Saverio Mammoliti appartenente alla famiglia mafiosa responsabile del sequestro di Paul Getty junior – esce di scena, ma altri componenti della famiglia Dragone saranno presenti negli anni successivi a Reggio Emilia e nel reggiano. La loro potenza raggiungerà un livello tale che la Criminalpol scrisse in una informativa del 1995 che “a Reggio Emilia e a Modena la gestione del traffico di droga era nelle mani di un clan di cutresi, il quale, per mantenere il monopolio del mercato, e per affermare il suo esclusivo potere nelle zone interessate, aveva financo commesso omicidi, sopprimendo quanti avevano assunto condotte ostili, intolleranti o comunque di ostacolo al loro agire criminoso”5. La Criminalpol esagerava e assegnava ai Dragone una 4 Tribunale di Reggio Emilia, Interrogatorio di Antonio Dragone, maggio 1983. 5 Criminalpol Emilia-Romagna, Informativa, 22.7.1995, p. 3.

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capacità di distributori di droga che essi non avevano. O era millantato credito da parte dei Dragone oppure, più prevedibilmente, era un abbaglio investigativo della Criminalpol. Erano certamente trafficanti di droga ma non nelle dimensioni descritte. E, tuttavia, è indubbio che questi ebbero un ruolo rilevante nelle vicende criminali di Reggio Emilia e della sua provincia. La loro zona di influenza si estendeva anche a Modena e, in altre province italiane e paesi stranieri. Con i Dragone ebbe rapporti di ‘lavoro’ Renato Cavazzuti, un modenese che era stato direttore di una filiale di banca prima di finire nelle mani della ‘ndrangheta. Da loro, tra il 1991 e il 1992, comprò eroina. La rete messa in piedi da Cavazzuti era molto efficiente e nel contempo originale. Era a composizione mista – e a maggioranza emiliana – anche se per le fonti di reperimento della droga era dipendente dai calabresi, sia di quelli che operavano a Reggio Emilia sia di quelli che agivano a Modena. Uno dei componenti della rete era l’ex imprenditore Malavasi, originario di Novi di Modena, che mise a disposizione la sua abitazione per gli ‘imboschi’ di droga di Cavazzuti. La sua esperienza, per quanto singolare possa apparire, non era un caso unico, anzi, era comune ad altre persone – tutte nate in Emilia-Romagna – che finirono in braccio alla criminalità organizzata dopo una serie di disavventure economiche6. Il racconto di Malavasi e di Cavazzuti conferma che i Dragone erano riusciti a penetrare nel traffico di droga a Modena. Valicavano i confini del loro storico insediamento; e ciò era possibile perché tra le province di Reggio Emilia e di Modena funzionava una “divisione implicita e non scritta” del territorio. A Modena e nella 6 Su questo vedi Tribunale di Bologna, DDA, Richiesta di rinvio a giudizio a carico di Pellegrino Salvatore + 6, 1995.

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“parte alta” della provincia – Sassuolo, Formigine e Maranello – operavano i rosarnesi, mentre i cutresi agivano nella parte Nord di Modena, a Carpi e a Mirandola. C’era una pacifica divisione del territorio che era vasto, appetibile e non occupato da altre cosche mafiose. Era un territorio ancora vergine per cui fu facile la divisione. Oltre a Modena i Dragone avevano interessi anche sulla riviera, in particolare a Rimini7. A capo dei Dragone, ai tempi di Cavazzuti, c’era Raffaele Dragone, che “conduceva la famiglia” in assenza di suo zio Antonio, considerato il capo carismatico, che era ristretto in carcere8. Raffaele Dragone si era stabilito a Cavriago dopo un breve periodo trascorso a Reggio Emilia. Cavazzuti lavorò insieme ai Dragone e insieme ad essi venne arrestato nel 1993. Accusati di traffico di droga finirono in manette Cavazzuti, Raffaele Dragone, Domenico Lucente, Antonio Macrì, Salvatore Cortese. Con loro alcuni modenesi e un reggiano che era titolare di una impresa per l’allestimento di capannoni, “cresciuta con i finanziamenti e le commesse pubbliche”9. Gli arresti provocarono notevole scalpore negli ambienti cittadini di Modena e di Reggio Emilia. La vicenda dimostrava un salto di qualità nell’agire mafioso perché confermava la perdurante attività dei Dragone nel traffico di droga, apriva uno squarcio nel rapporto instaurato tra la criminalità mafiosa ed elementi locali e, infine, faceva emergere l’assoluta novità rappresentata dal coinvolgimento di un esponente significativo dei cosiddetti

7 Su questo vedi Tribunale di Modena, GIP, Sentenza a carico di Lucente Giuseppe, 1994 e Tribunale di Bologna, DDA, Richiesta per l’applicazione di misure cautelari nei confronti di Masellis Saverio + 15, 1993. Tribunale di Bologna, GIP, Ordinanza di custodia cautelare a carico di Masellis Saverio + 11, 1993. 8 DDA Bologna, Interrogatorio di Renato Cavazzuti in data 17.12.1994, p. 56; in data 18.1.1995, p. 63; in data 18.2.1995, pp. 4-7, p. 24, p. 57, p. 68 e p. 71. 9 Su questo vedi F. Orlando, La mafia dietro casa, “l’Unità”, 16 luglio 1993.

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colletti bianchi, di un uomo come Cavazzuti che fino a poco prima era stato un rispettabile direttore di una filiale di banca. La cosca Dragone già all’inizio degli anni novanta viene colpita seriamente. Con l’arresto di Cavazzuti si scopriva un soggetto del tutto nuovo, incensurato, sconosciuto, insospettabile, che era direttamente collegato ai Dragone. C’era sicuramente sorpresa, ma anche preoccupazione per le dimensioni del traffico e per la qualità dei soggetti coinvolti. Si era arrivati ad arrestare Cavazzuti dopo l’arresto di Celestino Canapè il quale, collaborando, portò i carabinieri da Cavazzuti: Cavazzuti, ignorando che fossero carabinieri, portò i due militari sotto copertura dai Dragone. Cavazzuti e gli altri collaborati accuseranno i Dragone nel corso del processo davanti ai giudici di Reggio Emilia. Uno di questi è William Gambarelli, un macellaio originario di Scandiano in provincia di Reggio Emilia. Un altro che accusò i Dragone fu Rocco Gualtieri che li conosceva “fin dall’infanzia” essendo dello stesso paese. Nel marzo del 1989 “gli chiesero se voleva ‘mettersi sotto di loro per spacciare la roba, eroina’”. Da quella data e fino all’estate del 1991 Gualtieri disse di aver acquistato dai Dragone 15 kg di stupefacente. Il collaboratore non si limitò a parlare di droga; fece “riferimento esplicito all’esistenza di un’organizzazione, alla ‘famiglia’ facente capo, in ambito locale, a Dragone Raffaele: a livello locale chi dava gli ordini era Dragone Raffaele” 10. Cavazzuti raccontò come l’arresto di Giuseppe Lucente avesse creato problemi rilevanti ai Dragone perché qualcuno aveva cercato di “alzare la testa”, di “prendere il mercato, di prendersi il territorio” e per questo è stato eliminato. Cavazzuti si riferiva agli omicidi di Nicola 10 Tribunale di Reggio Emilia, Dragone Raffaele + 14, 1995., p. 45, pp. 23-25, pp. 47-48, p. 30-37.

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Vasapollo e Giuseppe Ruggiero. Vasapollo era agli arresti domiciliari nella sua abitazione a Reggio Emilia quando ricevette, il 21 settembre 1992, la visita di due persone le quali, appena entrate, lo uccisero sparando 5 colpi di pistola. Un mese dopo, la notte del 22 ottobre, toccò a Ruggiero. Era a casa, a Brescello, con sua moglie quando venne svegliato a notte fonda da due persone vestite con l’uniforme dei carabinieri. La moglie era restia a farle entrare, ma Ruggiero si decise ad aprire la porta ricevendo in pieno i colpi d’arma da fuoco che gli furono sparati contro. Le dichiarazioni di Celestino Canadè, di Rocco Gualtieri e di Renato Cavazzuti portarono alla condanna all’ergastolo da parte della Corte di Assise di Reggio Emilia per Raffaele Dragone e per Domenico Lucente che furono riconosciuti come i mandanti dei due omicidi11. Questi omicidi solo apparentemente mostrano la forza del gruppo mafioso. In realtà sono il segno di una profonda difficoltà, anzi di una debolezza molto grave. Di solito la ‘ndrangheta ha sempre cercato di non attirare l’attenzione delle forze dell’ordine, di fare in modo che nessuno si accorgesse della sua presenza. Lo ha fatto in Calabria, tranne che nei periodi di apro conflitto armato, lo ha fatto in particolare in zone dove non c’è una tradizione mafiosa. Uccidere significava creare allarme sociale, significava indagini e pericolo di essere scoperti. E così accadde. Le indagini portarono a risultati straordinari perché furono colpiti i mandanti degli omicidi, cosa difficilissima da fare, e poi perché fu inferto un colpo decisivo a una ben oliata rete di trafficanti di droga che aveva le caratteristiche di far lavorare insieme calabresi e reggiani, ‘ndranghetisti e delinquenti locali.

11 Corte di assise di Reggio Emilia, Sentenza nella causa contro Dragone Raffaele + 4, 25.11.1994.

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I Dragone, e non era cosa di poco conto, erano riusciti a realizzare un rapporto proficuo con la criminalità locale che a sua volta si era mostrata disponibile ad essere coinvolta in traffici illeciti e criminali. E’ un dato della realtà che va sottolineato perché sono le avvisaglie di quanto emergerà dopo con il coinvolgimento e con la successiva collaborazione di Bellini. A metà degli anni novanta le condanne di Raffaele Dragone, Antonio Lerose, Domenico e Giuseppe Lucente colpiscono gli esponenti storici. A questo punto il clan, per sopravvivere, deve affidarsi a nuove figure che devono provare sul campo le loro capacità organizzative e di comando. Ecco allora che sulla scena cominciano ad affacciarsi nuovi personaggi. Fra essi Emilio Rossi, originario di Crotone e residente a Montecchio Emilia, il cui raggio di azione si estendeva nelle province di Parma e di Reggio Emilia. Secondo Francesco Fonti Emilio Rossi, era ritenuto un “esponente della famiglia Arena”. Tra i due si stabilirono rapporti di scambio reciproco. Fonti vendeva droga a Rossi e Rossi vendeva droga a Fonti12. Un’ulteriore conferma – una delle tante – dei continui, frequenti, ininterrotti scambi tra mafiosi. C’è cooperazione, non concorrenza. Nessuno, stando alle cose che sappiamo, cerca di approfittarsi delle difficoltà dell’altro per occupare fette di mercato. Solidarietà tra mafiosi? Forse, ma più semplicemente, non c’era bisogno di occupare le fette di mercato di un altro vista la vastità del mercato reggiano. C’era posto per tutti senza bisogno di rubare i clienti di un altro. Durante le indagini fa capolino un nome nuovo che risulta collegato a Rossi, Giuseppe Muzzupappa, originario di Nicotera in provincia di Vibo Valentia. E’ l’avvisaglia

12 Tribunale di Reggio Emilia, Baiamonte Giuseppe + 19, cit., p. 95 e pp. 86-87.

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che inizia ad avviarsi una nuova fase del clan; scendono in campo uomini capaci di collegamenti più ampi rispetto a quelli del passato. Muzzupappa era noto sin dall’inizio degli anni settanta a Vibo Valentia, cittadina nella quale era andato a vivere. Sottoposto alla misura della sorveglianza speciale per tre anni nel comune di Reggiolo iniziò a scontare quella pena il 21 marzo del 1975. Sebbene si fosse trasferito a Reggiolo, continuò a mantenere i legami con la sua terra di origine. I carabinieri di Tropea alla fine del 1983 lo sospettavano di appartenere al clan di Francesco Mancuso di Limbadi che dominava l’intera zona del vibonese. Diffidato di pubblica sicurezza, Muzzupappa faceva parte della “manovalanza del clan”. Aveva precedenti penali per associazione a delinquere, tentata estorsione e sequestro di persona13. Rimase impigliato nel 1985 in una grossa operazione di polizia - 200 indagati - contro il clan dei Mancuso14 anche se non risultò tra i condannati nel processo che ne seguì. Nel luglio del 1988 fu arrestato insieme ad altri due perché trovato in possesso di 28 grammi di eroina che provenivano da Milano15. Nel 1993 una nuova cattura a Milano nel quadro di una grossa operazione denominata Nord-Sud ordinata dal magistrato Alberto Nobili della DDA di Milano contro le cosche calabresi dei Sergi e dei Papalia operanti nel capoluogo lombardo. Muzzupappa, secondo le dichiarazioni di Saverio Morabito, acquistava droga – un paio di etti di eroina per volta – dal gruppo Sergi16.

13 Legione carabinieri di Catanzaro, Compagnia di Tropea, Attività antimafia in Calabria, 16.11.1983. 14 Tribunale di Vibo Valentia, ufficio istruzione, Sentenza-ordinanza contro Mancuso Francesco + 200, 1985. 15 I. Paterlini, La ‘roba’ arrivava da Milano, Gazzetta di Reggio, 19 luglio 1988. 16 Tribunale di Milano, GIP, Ordinanza di applicazione della misura di custodia cautelare in carcere nei confronti di Agil Fuat + 164, 1993 e Corte d’assise di Milano, Sentenza nella causa penale contro Agil Fuat + 132, 11.6.1997

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Ritroviamo Muzzupappa nel 1995. Secondo la Criminalpol, in questa fase, “assolve il delicato e complesso compito di essere il centro motore nel reggiano dell’organizzazione strettamente collegata a quella cutrese in cui autorevolmente milita il Grande Aracri Nicolino”. Ecco che spunta un altro nome nuovo che avremo modo di trovare come protagonista in altre vicende di droga. In quello stesso anno il nome di Grande Aracri fa ingresso nel rapporto sul fenomeno della criminalità organizzata che ogni anno il Ministro dell’interno invia al Parlamento. Il documento descrive così il suo peso in Calabria: “non mancano figure emergenti di grande spicco nel panorama malavitoso come Nicola Grande Aracri che, da feroce killer al soldo di tradizionali capi clan ha recentemente costituito un’autonoma e forte cosca con oltre 60 affiliati ed un esteso territorio d’influenza, che va da Petilia Policastro a San Mauro Marchesato”17, comuni che fanno parte della provincia di Crotone. Si comincia, in questo periodo ad avvertire una novità rilevante. L’arrivo in Emilia di Grande Aracri, che sembra proiettare il clan Dragone molto al di là dei confini – Reggio Emilia e Modena – entro i quali aveva operato. Essi appaiono angusti, limitativi di una nuova espansione degli affari illeciti. Si profilano interessi in Lombardia, nella zona di Cremona, nella città di Genova e in paesi stranieri come la Svizzera. Grande Aracri ha sempre e ripetutamente protestato la sua innocenza rispetto a tutte le accuse che gli sono state rivolte. Ancora di recente, il 23 maggio del 2003, davanti al Tribunale di Crotone, in replica alle accuse formulate dal pubblico ministero Pierpaolo Bruni ha affermato: “chiedo al Tribunale e al

17 Camera dei Deputati, Rapporto sul fenomeno della criminalità organizzata (anno 1995) presentato dal Ministro dell’interno, Doc. XXXVIII-bis, n° 1, 1996, p. 124.

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Presidente che dovete valutare queste situazione. Insomma, mettiamo, il Pubblico Ministero se porta qualche cosa la deve portare… la deve portare… se porta qualche dichiarante o qualche testimone o qualche poliziotto e carabiniere deve dire la mia partecipazione in questa associazione che sto rispondendo insomma… se io mi sono… ho socializzato con qualcuno dei coimputati allora è giusto che io devo stare… devo stare qua in carcere. Ma io non ho mai socializzato con nessuno dei coimputati, con nessuno dei coimputati. Al di fuori mettiamo di qualche mio paesano che conosco cosi ma solo perché… perché io conosco qualche mio paesano, proprio di Cutro… e gli altri non li ho mai visti, non li ho mai conosciuti. Non sono stato mai associato con nessuno”18. In questo nuovo scenario il protagonista principale appare Grande Aracri, descritto come “personaggio di primaria grandezza nella realtà criminale cutrese”. Quando è necessario, da Cutro si porta a Reggiolo “per curare e controllare personalmente l’andamento della nuova fase di traffico, non tanto sotto il profilo prettamente materiale, quanto sotto il profilo economico, relativamente alla movimentazione finanziaria e cioè alla riscossione dei corrispettivi delle partite di sostanze cedute”. Grande Aracri venne arrestato a Cutro nel giugno 1995 per detenzione di armi da guerra19. Un nuovo arresto quando sta per spirare il 1996. Il pubblico ministero della Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna Carlo Ugolini, nell’argomentare il provvedimento di fermo nei suoi confronti, scrive: 18 Tribunale di Crotone, Procedimento contro Grande Aracri Nicolino + 39, Udienza del 23 maggio 2003. 19 Criminalpol, Informativa, 1995, cit., p. 20, p. 15, p. 27, p. 67. Sul ritrovamento di armi vedi anche P.C., Arrestato Nicola Grande Aracri, nella sua azienda nascondeva pistole e kalashnicov, Gazzetta del Sud, 13 giugno 1995.

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emergeva come il Grande Aracri nascesse dal punto di vista criminale nel medesimo habitat cutrese che aveva originato la famiglia Dragone; per chi interpreta in modo corretto talune aberranti tradizioni della cultura mafiosa assume significato univoco, ad esempio, la circostanza secondo la quale Grande Aracri Nicolino è stato “compare d’anello” al matrimonio di Dragone Raffaele (figlio del capo ‘ndrina Antonio). Ulteriori investigazioni consentivano di verificare come Grande Aracri si atteggiasse nell’ultimo periodo a punto di riferimento, anche nella realtà di origine, a capo emergente. Il rapporto della Criminalpol descrive Grande Aracri come un uomo che si sposta di frequente. Lo troviamo in Calabria, a Reggio Emilia, in Belgio, in Germania, in Svizzera. Alloggia a Brescello dove abitano due sue sorelle, poi, per ragioni sentimentali, a Sarmato in provincia di Piacenza dove può raggiungere facilmente le province di Reggio Emilia, Parma e Cremona ove risiedono uomini di sua fiducia20. Di grande interesse sono i rapporti con alcuni paesi stranieri. Grande Aracri risulterebbe avere molteplici rapporti, anche di natura finanziaria, in Svizzera in Belgio e in Germania21. La Germania, in ogni caso, rimase sempre un punto di riferimento per le attività delle cosche di Cutro come emerse sul finire del 2000 in seguito ad una indagine per traffico di armi tra Germania, Cutro e Reggio Emilia22. E’ una ‘ndrangheta che si sprovincializza la sua, che supera l’asse Reggio Emilia-Cutro. E’ un dinamismo generale della ‘ndrangheta di quel periodo che sa cogliere il vento, che capisce che occorre osare molto e muoversi su diverse caselle della scacchiera criminale. In quel torno di tempo si consolidano le basi che consentiranno alla

20 Tribunale di Bologna, DDA, Provvedimenti di fermo nei confronti di Caiazzo Giovanni + 11, 1996. 21 Tribunale Bologna, DDA, Richiesta di misure cautelari nei confronti di Grande Aracri Nicolino + 23, 1997. pp. 5-7, p. 40, pp. 92-98. 22 Su questo vedi Il Crotonese 22 dicembre 2000.

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‘ndrangheta di assumere l’egemonia mafiosa in campo nazionale dopo che l’attacco dello Stato contro cosa nostra, responsabile delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, indebolirà notevolmente la mafia siciliana. Alcuni degli uomini finiti in carcere erano soggiornanti obbligati. Essi svolgevano molteplici attività, non tutte illegali, che avrebbero potuto tornare utili al momento del bisogno. Secondo un rapporto della Criminalpol del 1979 questi soggiornanti diventavano protettori dei loro compaesani che, giunti dalle province siculo-calabresi, sono stati sistemati ed utilizzati secondo precise finalità di lavoro onesto ed illecito”23. In tal modo gli ex soggiornanti svolgevano una ‘funzione sociale’ nei confronti dei paesani che venivano ‘sistemati’ sia in lavori legali sia impiegati in lavori illegali. Attraverso tali modalità essi, titolari di questo ‘potere’, acquistavano importanza e prestigio. Continuava così, in terra reggiana un rapporto che era iniziato nella loro terra d’origine. La ‘ndrangheta, ad un certo punto della sua storia, fece la scelta strategica di insediare fuori dalla Calabria pezzi di ‘ndrine perché le attività mafiose potessero continuare al nord in modo indisturbato e radicalmente nuovo. Gli uomini di ‘ndrangheta che agivano in ‘terra straniera’ – cioè in contesti come quello di Reggio Emilia, lontani dai loro luoghi di origine e ostili alla loro cultura – hanno avuto la capacità di adattarsi con l’ambiente circostante e di mimetizzarsi sfuggendo ai controlli e perfino alla percezione della loro pericolosità. L’idea che generalmente si ha dei mafiosi è quella di uomini rozzi, volgari, incolti e violenti. Il convincimento che il mafioso fosse essenzialmente o addirittura solamente violento oscurava la realtà del mafioso che è anche – oltre che

23 Criminalpol, Rapporto 1979.

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violento – un uomo d’affari impegnato ad inserirsi negli interstizi di una società ricca ed opulenta per agire illegalmente in tutti i campi economici dove fosse possibile realizzare un utile; e perciò sfuggiva, oppure è stato ampiamente sottovalutato, il problema del riciclaggio del denaro accumulato con metodi illegali e criminali, il reimpiego di questi capitali nell’economia legale e la saldatura che in determinate vicende era possibile notare tra mafiosi e uomini inseriti nel mondo dell’economia locale, soprattutto quello bancario e finanziario. A ciò ha contribuito il prevalere dell’antico adagio: pecunia non olet; e siccome il denaro non ha odore, ha poca importanza da dove arrivi e come sia stato accumulato. Gli ambienti economici e finanziari – istituti di credito in testa – sono stati, e sono, impregnati di questa convinzione. La ‘ndrangheta a Reggio Emilia non sempre ha agito sotto traccia. Anzi, ci sono stati momenti cruenti come quelli, già ricordati, dell’autunno inverno del 1992 quando furono uccisi Nicola Vasapollo e Giuseppe Ruggiero. E’ questa una rilevante diversità rispetto a quella operante nelle altre province emiliano-romagnole o nel centro-nord Italia. Il traffico di stupefacenti

Il traffico di sostanze stupefacenti ha rappresentato, e ancora oggi rappresenta, il più grosso business per ogni organizzazione mafiosa o per chiunque abbia intenzione di intraprendere la strada dell’imprenditore del crimine. Quello degli stupefacenti è un mercato particolare governato da proprie leggi, economiche e mafiose. In Emilia-Romagna non sono mai state sequestrate quantità di droga neanche lontanamente paragonabili a quelle che sono state sequestrate in Lombardia o in Piemonte. Da cosa

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dipende questa particolarità? Dal fatto che in Emilia-Romagna non c’è nessuna cosca che abbia il controllo del territorio e dunque nessuno è in grado di custodire con una certa sicurezza rilevanti quantità di droga che sul mercato valgono parecchi milioni di euro. Ecco perché i grandi depositi di droga si trovano altrove, in Lombardia, in Piemonte, in Liguria.

L’Emilia-Romagna è una regione ‘di mercato’, un enorme luogo ‘di consumo’ delle droghe, un vero e proprio supermarket. Qui erano attivate reti di spaccio ed erano reclutati i ‘cavalli’, spesso originari del luogo. Il ciclo della droga è sicuramente complesso; ad esso, oltre ai mafiosi, possono partecipare anche elementi non particolarmente strutturati o radicati sul territorio, perlomeno ai livelli bassi o intermedi. C’è, spesso, un intreccio e i mafiosi hanno commerciato droga con altri personaggi che mafiosi non sono ma che per le ragioni più varie hanno deciso di fare i narcotrafficanti.

Nell’ultimo decennio si sono verificati mutamenti e trasformazioni sia nei mercati criminali sia nei soggetti protagonisti di queste trasformazioni. E’ continuata la contaminazione tra la criminalità locale e quella mafiosa, la prima in funzione ancillare rispetto alla seconda, ma si è introdotto un potente fattore di novità: ai mercanti e ai ‘cavalli’ italiani si sono aggiunti gli stranieri in numero sempre più crescente e provenienti da diverse nazionalità.

Tra italiani e stranieri esistono molteplici rapporti che vanno da quelli più semplici rappresentati dai ‘cavalli’ di origine straniera che hanno sostituito i tossicodipendenti italiani a quelli più complessi che invece riguardano partite consistenti di droga dove i criminali stranieri hanno un ruolo ben diverso e ben più complesso rispetto al passato. Alle mafie italiane oggi si sono affiancate quelle straniere

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che hanno mostrato una indubbia spregiudicatezza nell’uso della violenza e nella capacità criminale.

Il racconto di Francesco Fonti, originario di Bovalino nella Locride reggina e affiliato alla ‘Ndrangheta con tanto di rito formale, ci aiuta a chiarire alcuni aspetti importanti. Perché Fonti decise di venire in Emilia-Romagna? Lo dirà lui stesso quando diventerà collaboratore di giustizia. Racconterà che nell’agosto del 1986 sul lungomare di Bovalino e poi in una riunione appositamente convocata dagli uomini della sua cosca di appartenenza, quella dei Romeo di San Luca, gli venne conferito l’incarico di organizzare il traffico di droga in Emilia-Romagna, in particolare nelle province di Modena e di Reggio Emilia24.

Sembra un incarico qualsiasi, uno dei tanti che capita di affidare a uno ‘ndranghetista, uno di quelli che si potrebbero inquadrare nella scelta operata dalla ‘ndrangheta di spostare pezzi di cosca al nord. In parte è così, ma solo in parte perché quelle parole rivelano un particolare di estrema importanza: fino a quell’anno la cosca cui apparteneva Fonti, che era una cosca storica con un peso molto rilevante nella ‘Ndrangheta reggina, non aveva seri punti di riferimento nella regione e ciò determinò la decisione di inviare dall’esterno una personalità esperta nel ramo e in grado di attivare una rete di distribuzione. Non solo, ma poiché la cosca di appartenenza non aveva “imposto vincoli di esclusività o imposizione trattandosi di un terreno ancora vergine sotto il profilo della presenza mafiosa”, lo stesso Fonti si sentirà autorizzato a distribuire la droga anche per conto dei Musitano i quali, a loro volta, erano privi di punti di riferimento in Emilia-Romagna. L’unica differenza rispetto

24 Macrì, Interrogatorio di Francesco Fonti, 26.1.1994.

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al traffico effettuato per conto dei Romeo è il fatto che Fonti non era organico alla ‘ndrina dei Musitano25. Dunque, in quel periodo, la regione Emilia-Romagna subisce l’attenzione di cosche storiche della provincia reggina che cominciano a pensare di inviare i propri rappresentanti per mettere in piedi una rete di trafficanti di droga in grado di coprire un mercato sicuramente appetibile e ricco come quello emiliano-romagnolo. A Fonti tocca anche Reggio Emilia che ha già una presenza rilevante, quella dei mafiosi originari del crotonese. L’attività esclusiva di Fonti in Emilia è stata quella di organizzare il traffico di stupefacente a Modena e a Reggio Emilia. Fonti è riuscito ad organizzarlo in dimensioni davvero straordinarie. Mise in piedi in poco tempo una catena di distribuzione di eroina e di cocaina di dimensioni tali da renderla la più rilevante degli ultimi anni, almeno fra quelle finora conosciute. Inizia il periodo emiliano ricorrendo al suo vecchio amico e compaesano Antonio Artuso, che contatta informandolo che “c’era la possibilità di smerciare dello stupefacente” e chiedendogli “se lui poteva contattare, dato che abitava già da diversi anni in Emilia, delle persone a cui consegnare questo stupefacente. Lui si rese disponibile ad avere questi contatti26. Antonio Artuso, prima di essere assassinato, aveva trascorso numerosi anni della sua vita inizialmente in provincia di Reggio Emilia e poi in quella di Modena. Nel 1984 si era stabilito a Corlo di Formigine poiché “aveva avuto modo di ‘conoscere’ l’ambiente durante il periodo di internamento presso la casa di lavoro di Castelnuovo Emilia”27. Non aveva iniziato la sua carriera nel mondo del

25 Informativa Fonti. 26 Reggio Emilia, Esame dibattimentale di Francesco Fonti, pp. 69-70, pp. 82-84. 27 Informativa Fonti, p. 21.

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crimine come trafficante di droga; anzi, era restio ad avventurarsi in questa nuova attività, e fu solo nella seconda metà degli anni ottanta che superò le sue riserve. Infatti, i primi passi nel mondo del crimine li aveva mossi come truffatore28. Il grande salto lo effettuerà entrando in contatto con Fonti che lo andò a trovare nella sua casa e lo incaricò di approntare una rete di vendita. Da quel momento in poi Antonio e Luigi Artuso, padre e figlio, cominciarono a lavorare per Fonti. Molti dei personaggi con i quali erano in contatto Fonti e Artuso saranno processati in seguito all’operazione ‘Aspromonte’ e condannati dal Tribunale di Locri perché riconosciuti colpevoli di associazione a delinquere di stampo mafioso e di altri reati. In particolare il Tribunale accertò una questione assai rilevante: “i medesimi soggetti e gruppi criminali che storicamente gestivano, in forma quasi di monopolio, il ‘primordiale’ settore dei sequestri di persona, figuravano tra i protagonisti del più moderno scenario dei delitti riconducibili al traffico di droga, che venivano realizzati con la stessa professionalità ed efficienza che avevano caratterizzata la originaria attività criminale”. Le particolarità di questi agglomerati mafiosi erano le seguenti: avevano continuato a fare contemporaneamente, fino agli inizi degli anni novanta, sequestri di persona e traffico di droga, mentre tutte le altre ‘ndrine avevano da tempo abbandonato la pratica dei sequestri; i denari dei riscatti venivano investiti nell’acquisto di narcotici. A partire da quella data cessano i sequestri di persona organizzati da loro; la loro attività prevalente è la gestione del traffico di stupefacenti”. Il processo si interessò anche del traffico di droga a Modena

28 Questura di Bologna, Squadra Mobile, Rapporto a carico di Romeo Antonio + 74, 1994, p. 8 e pp. 15-18 e Questura di Bologna, Interrogatorio di Luigi Artuso del 27.10.1992.

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e a Reggio Emilia ascoltando le parole di Fonti e di Artuso; la descrizione di tali traffici occupa un posto di tutto rilievo nella sentenza, oltre un centinaio di pagine29. E’ bene ricordare che il ‘locale’ di San Luca è molto importante perché, per antica e mai dismessa consuetudine, è nel suo territorio che si svolgono le annuali riunioni della ‘Ndrangheta che in gergo vengono chiamate riunioni del ‘Crimine’. Ad esse prendono parte i capi dei locali di tutta Italia, compresi quelli del centro e del nord30. San Luca è stato al centro delle cronache nazionali ed europee in seguito alla strage di Duisburg il 15 agosto del 2007. Giornalisti italiani ed europei hanno raccontato la realtà mafiosa esistente in quella cittadina. Alcuni hanno scoperto la potenza della ‘ndrangheta in quella occasione, altri hanno avuto la conferma di una tecnica abituale per la ‘ndrangheta, quella di insediare fuori dalla Calabria pezzi di ‘ndrine. Reggio Emilia e Duisburg sono località molto diverse tra loro; l’unico punto di contatto è dato dal fatto che hanno agito a Regio Emilia e agiscono a Duisburg le medesime cosche. Le dichiarazioni di Fonti, fatte all’inizio della sua collaborazione, furono confermate, ed ulteriormente precisate, davanti al Tribunale di Reggio Emilia. “San Luca ha una particolarità, perché nei pressi di San Luca c’è per noi il famoso santuario della Madonna di Polsi, dove si tenevano annualmente le riunioni di tutti i capi bastone di ‘Ndrangheta dei vari paesi e dove venivano anche a dare conto al capo società personaggi che si erano trasferiti all’estero, in Australia, in Francia, in Canada etc. Davano conto delle attività criminali che erano in corso e versavano il loro contributo a fondo perduto al capo società. Poi

29 Tribunale di Locri, Sentenza nei confronti di Barbaro Francesco + 49, 4.11.1995. 30 DDA Reggio Calabria, Interrogatorio di Francesco Fonti del 1.2.1994.

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questi soldi venivano gestiti dal contabile della società per chi era in difficoltà, per chi era in carcere, se la famiglia aveva bisogno, per pagare gli avvocati e via di seguito”31. Il versamento di poche decine di milioni di lire al ‘locale’ di San Luca potrebbe apparire ben poca cosa se rapportato ai guadagni delle singole ‘ndrine. Ciò è sicuramente vero; e tuttavia, non è importante la quantità del denaro versato, ma il fatto che tutti i mafiosi – compresi quelli che operano al nord e all’estero – versino al ‘locale’ di San Luca, testimoniando in modo simbolico la subordinazione all’antica ‘mamma’ della ‘Ndrangheta. Ciò significa che i mafiosi che operano al nord continuano ad essere attaccati – come un cordone ombelicale – alla casa-madre calabrese. Anche per questa ragione l’uccisione di 6 persone a Duisburg in Germania il 15 agosto 2007 ha destato enorme scalpore. La faida è esplosa in un paese che è il centro nevralgico delle ‘ndrine calabresi. Fonti si stabilisce nel reggiano e come attività di copertura acquista il ristorante ‘La Perla’ a San Martino in Rio dove ufficialmente svolge attività di direttore di sala. E’ la conferma che al nord il mafioso cerca di mimetizzarsi, di passare inosservato. Non ci sono mafiosi con la coppola storta e con la lupara, ma mafiosi che sembrano rispettabili e quieti signori piccolo-borghese che si occupano solo dei loro affari. Fonti racconta che l’acquisto del ristorante non fu fatto con soldi suoi, perché “erano soldi che avevamo noi in cassa. Non si usavano mai soldi personali, perché nella cassa della famiglia c’erano sempre soldi a disposizione per determinate cose”32. Il racconto di Fonti conferma la permanenza di una pratica antichissima, in vigore nella ‘Ndrangheta sin dai tempi più remoti. Fa parte oramai della storia della 31 Reggio Emilia, Esame dibattimentale di Francesco Fonti, pp. 61-62. 32 DDA Reggio Calabria, Interrogatorio di Francesco Fonti del 28.1.1994.

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‘Ndrangheta il fatto che i mafiosi calabresi usassero versare i proventi delle loro attività in una cassa comune che a quell’epoca si chiamava ‘baciletta’ sin dalla seconda metà dell’Ottocento33. L’antico termine forse non è più in vigore, ma è rimasta l’abitudine di versare il denaro in una unica cassa che veniva utilizzata dagli associati secondo le loro esigenze. I soldi ricavati dal traffico degli stupefacenti, dice Fonti, “venivano portati, quando c’era una raccolta grossa, nell’appartamento in Milano di via Popoli Uniti e venivano messi nella cassa comune della nostra famiglia, la nostra cosca Romeo”. Erano soldi a disposizione di tutti. “Chi aveva bisogno prendeva quello di cui aveva bisogno”. Senza formalità, senza giri burocratici, ognuno prendeva la somma che gli occorreva. “Se io avevo un incasso di lire 500.000.000, mi servivano lire 100.000.000, lire 200.000.000 li trattenevo, gli altri li versavo nella cassa comune”34. Fonti ebbe un ruolo rilevante nel traffico di droga a Reggio Emilia. Era un grande commerciante, un distributore in grande stile. Il suo ruolo fu importante non solo per la notevole quantità di eroina e cocaina immesse nel mercato clandestino ma anche perché riuscì ad attivare e ad organizzare una complessa e fitta rete di distributori i quali a loro volta attivavano altre persone. Fonti lavorava per più organizzazioni mafiose, ma la rete di distribuzione era praticamente la stessa. Molti degli uomini che aveva a sua disposizione erano ritualmente affiliati alla ‘Ndrangheta, molti altri invece appartenevano alla criminalità comune locale; erano originari di Modena e di Reggio Emilia o di comuni delle due province. Riceveva, distribuiva e faceva rivendere droga agli uni e agli altri.

33 Su questo vedi Enzo Ciconte, ‘Ndrangheta dall’Unità ad oggi, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 38-39. 34 Reggio Emilia, Esame dibattimentale di Francesco Fonti, p. 179

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L’elenco di questi uomini che Fonti dice di aver utilizzato è davvero molto lungo.

Le storie di Fonti e di Artuso confermano un elemento molto interessante: nell’area molto ampia che copre le città e le province di Modena e di Reggio Emilia convivono, facendo affari tra di loro, molte organizzazioni mafiose e un numero elevato di narcotrafficanti, mafiosi e non mafiosi, di origine meridionale e di origine emiliano-romagnola contribuendo a determinare le caratteristiche di un particolare mercato degli stupefacenti molto flessibile ed aperto. Nessuna organizzazione mafiosa – per quanto forte o grande sia stata – ha mai avuto il monopolio del traffico né, tanto meno, il controllo territoriale. C’era spazio per tutti, grandi e piccoli trafficanti. La regola sembra essere quella di un mercato comune. Agiscono varie cosche con scambi frequenti tra loro. C’è una varietà e molteplicità di reti di distribuzione di ogni tipo di droga che sembrano sovrapporsi l’una con l’altra; addirittura ci sono uomini che movimentano notevoli quantità di stupefacente in nome e per conto di più cosche contemporaneamente senza che questo determini turbative nel mercato o conflitti cruenti. Ogni mercante di droga opera con una notevole mobilità da una parte all’altra del territorio, superando i confini comunali e provinciali, ed è frequente trovare scambi, rapporti, relazioni tra mercanti appartenenti alla ‘Ndrangheta a Cosa Nostra o alla Camorra. Operano insieme in queste due province e anche nelle altre, hanno rapporti con le cosche di origine, vanno a prendere la droga di cui hanno bisogno soprattutto a Milano o nel suo hinterland che si conferma come il luogo privilegiato dalla grande maggioranza delle cosche per la custodia di enormi quantità di ogni tipo di droga. Nel campo della droga agiscono anche delle persone che non sono affiliate come Paolo Bellini, originario di

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Reggio Emilia, personaggio dalla vita avventurosa che nel decennio degli anni novanta incrocerà la mafia siciliana e quella calabrese. Più di altre, le storie di Francesco Fonti e di Luigi Artuso hanno il pregio di mostrarci come il mercato degli stupefacenti a Modena e a Reggio Emilia venisse considerato come una sorta di mercato unico. Le due città rappresentano, per i mercanti di droga, un continuum territoriale, un unico bacino. Essi scavalcano, senza alcuna difficoltà, barriere e confini comunali e provinciali. Anche gli Artuso, come Fonti, erano al servizio di altri mafiosi. C’è l’ulteriore conferma di una singolare particolarità del mercato di droga a Modena e a Reggio Emilia: nessuna ‘ndrina chiede e pretende l’esclusiva da parte di chi smercia. Dal punto di vista commerciale e della logica della concorrenza potrebbe sembrare una vera e propria bestemmia. Ma nel mondo criminale non sempre valgono le stesse regole economiche del mondo legale. Paolo Bellini e la ‘ndrangheta Uno degli aspetti più interessanti della vicenda reggiana è il rapporto che ad un certo punto si venne a instaurare tra Paolo Bellini e una ‘ndrina crotonese operante a Reggio Emilia. L’incontro fu tra i più nefasti perché provocò lutti a Reggio Emilia e in Calabria, perché creò un clima di tensione e di paura a Reggio Emilia che si superò solo con la cattura e con la collaborazione con gli inquirenti da parte dello stesso Bellini che diede la sua versione dei fatti in un processo che, seppure passato in cosa giudicata, lascia in piedi alcuni interrogativi su chi sia stato realmente il “bandito reggiano” Paolo Bellini.

La vicenda di Bellini, uomo dai trascorsi di destra che si dà alla latitanza per non finire in galera, non è solo

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quella di un abile ladro di provincia o di un furbo latitante internazionale che, come tanti altri estremisti di destra dell’epoca, riesce ad avere appoggi e protezioni durante il periodo di cattività all’estero e perfino in Italia. La sua è una vicenda ben più complessa, misteriosa e in parte oscura. In modo del tutto inaspettato, data la sua biografia, lo troviamo in Sicilia in stretto contatto coi i mafiosi di Cosa nostra, anzi con i vertici, con il centro di comando della mafia siciliana. Il periodo è quello, davvero cruciale per la storia d’Italia, dell’inizio degli anni novanta quando ci furono le stragi di Capaci e di via d’Amelio con le orrende morti di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino unitamente alle donne e agli uomini delle loro scorte.

Bellini, secondo quanto è stato processualmente accertato, sembra fare un gioco spericolato con i vertici di Cosa nostra. Nello stesso periodo di tempo – mentre era in contatto sia con i mafiosi sia con i carabinieri – Bellini fa un gioco ancora più spericolato conducendo una personalissima partita che lo trasforma in killer di uno spezzone della ‘ndrangheta che ha come teatro di operazioni la città di Reggio Emilia. Sarà lo stesso Bellini a raccontare queste cose appena venne arrestato. Di fronte a chi lo ascoltava, per molti versi incredulo, cominciò ad autoaccusarsi di alcuni omicidi a cominciare da quello di Alceste Campanile, un giovane di estrema sinistra ucciso nel lontano 13 giugno 1975.

Dice di essersi pentito dopo “un travaglio di circa un mese”. Il ripensamento era iniziato dopo il 16 aprile 1999 quando Bellini uccise lo zingaro Oscar Truzzi, per un equivoco, per un banale scambio di automobile con quella dell’uomo che avrebbe dovuto essere ucciso, ed era continuato dopo il mancato omicidio del muratore Antonio Valerio del 1° maggio 1999. L’omicidio Truzzi, a quanto

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pare, ha avuto un effetto devastante. “E’ stata la cosa più bestiale della mia vita”35. Una scossa che costringe l’assassino a porsi delle domande sul perché continuasse ancora su quella strada invece di fermarsi.

Bellini raccontò il suo incontro in carcere con un uomo di ‘ndrangheta, Nicola Vasapollo. Nacque un’amicizia, un legame profondo; ci fu anche una reciproca promessa, uno scambio di favori che consisteva nell’impegno di eliminare l’uno il nemico dell’altro. Vasapollo non nascose la sua appartenenza al gruppo dei Dragone, anzi si confidò con Bellini. Il reggiano, però, afferma di non essere affiliato alla ‘ndrangheta. “Io non sono stato affiliato a gruppi, con il rito, come si suol dire, di affiliazione”. Non ci fu alcun rito “e reputo che questo fu forse per il dato di fatto che io non ero calabrese”36. E tuttavia il legame si rinsaldò ugualmente attraverso una proposta che tendeva ad attirare Bellini nell’orbita familiare dei Vasapollo. Nicola Vasapollo gli chiese di far da padrino a un suo cugino. Questo fatto cementò il rapporto tra i due. E Bellini colse in tutta la sua valenza la richiesta di far da padrino. “Non si chiede di fare da padrino a chicchessia. E fu proprio una ufficializzazione dei rapporti che si instaurarono fra di noi, di quello che doveva nascere in quel periodo” . Entrava in un meccanismo di tipo familiare e, data l’importanza che la ‘ndrangheta dà ai rapporti familiari, non c’è alcun dubbio che la proposta rivestiva un particolare significato. Era, aggiunse Bellini, “un’ufficializzazione del rapporto che si era instaurato, talmente profondo, per il quale io avevo 35 Corte di assise di Reggio Emilia. Esame dibattimentale di Bellini Paolo, Udienza del 6 febbraio 2002 e del 13 febbraio 2002. 36 Corte d’Assise di Reggio Emilia, n. 1/01, Esame dibattimentale di Paolo Bellini,

udienza del 6 febbraio 2002.

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commesso un omicidio per loro. Non solo, era un rapporto che ci univa”.

L’omicidio di cui parla Bellini era quello di Paolo Lagrotteria ucciso nel crotonese nell’estate del 1992, omicidio che determinò un particolare attrito con i Dragone. L’aver commesso quell’omicidio ebbe conseguenze che durarono negli anni per lo stesso Bellini che ammetterà: “da quel giorno fui in balìa di tutto il gruppo”. Entrò nel gruppo guidato da Nicola Vasapollo il quale “aveva deciso di fare una famiglia per conto suo”, staccato e in contrapposizione con i Dragone; consapevole della potenza dei Dragone che avevano un grande numero di associati, Vasapollo aveva iniziato ad imbastire rapporti con altri ‘ndranghetisti della bassa mantovana con i quali “c’era già stata spartizione di territori”. In questa nuova riorganizzazione Bellini avrebbe dovuto svolgere il ruolo di “consigliere”. Vasapollo durò poco alla guida dei suoi uomini perché il 21 settembre 1992 fu ucciso a casa sua. Morto Vasapollo, Bellini non ha più avuto “voce in capitolo”37. Poco prima della sua morte aveva avuto un alterco con qualcuno dei Dragone. Come quasi sempre accade in questi casi, la spaccatura traeva origine da questioni finanziarie perché i soldi non erano stati spartiti nella maniera soddisfacente per tutti.

Bellini, dunque, entra in rapporto organico con una cosca della ‘ndrangheta. Alle dipendenze di questa uccide e partecipa al traffico di droga. Prende droga. Insomma, fa quello che farebbe ogni buon picciotto. Ubbidisce, esegue gli ordini, senza discutere. Questo è un punto che Bellini ribadisce continuamente, quasi come un’ossessione. “Per me il problema era uno solo: eseguire ordini o non

37 Corte d’Assise di Reggio Emilia. Esame dibattimentale di Bellini Paolo, Udienza del 6 marzo 2002.

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eseguirli”. Eseguire gli ordini. Questo era l’ordine che doveva eseguire e Bellini lo fa con molta diligenza, quasi come un automa, quasi senza pensare, senza farsi e soprattutto senza fare troppe domande. “Io non avevo bisogno di chiedere cosa, quando decidevano: ‘Era da fare quella cosa’, bisognava farla! Domande inutili io non ne facevo”. Ripete questi concetti ad ogni udienza, ad ogni domanda sull’argomento: “Io ho eseguito quello che mi dicevano. Non prendevo iniziative io”38.

Bellini racconta la guerra esplosa a Reggio Emilia tra i Vasapollo e i Dragone per quello che a lui risulta. Lui racconta che il gruppo di Vasapollo, per quanto più piccolo e di gran lunga meno potente di quello dei Dragone, poteva contare su un certo numero di uomini che lui non conosceva personalmente ma che gli avevano assicurato che c’erano. Agli avvocati che chiedevano come mai a Reggio Emilia lui conosceva così pochi affiliati rispose: “nel momento in cui io non sono stato ritualizzato non posso fare domande”39. Bellini non faceva che richiamare una delle regole delle organizzazioni mafiose. Non potendo fare domande se ne stava al suo posto. In questa guerra c’erano delle regole ben precise. Se si doveva eliminare qualcuno in Emilia-Romagna o altrove, comunque al di fuori della Calabria, loro potevano agire senza chiedere il permesso ad alcuno, mentre per uccidere in Calabria avevano bisogno dell’autorizzazione.

38 Corte dìassise di Reggio Emilia. Esame dibattimentale di Bellini Paolo, Udienza del 13 febbraio 2002 e del 27 febbraio 2002. Più avanti nella stessa udienza ripeterà: “Io ero un esecutore”; “io ricevevo degli ordini ed eseguivo degli ordini, non contestavo”. Nell’ udienza del 6 marzo 2002 dirà: “Io quando arrivava l’ordine lo eseguivo meccanicamente, freddamente, da deficiente totale”. 39 Corte d’assise di Reggio Emilia. Esame dibattimentale di Bellini Paolo, Udienza del 6 marzo 2002.

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Nell’estate del 1993 Bellini viene arrestato per scontare una condanna divenuta definitiva. Rimane in carcere fino al 1995, poi fino al 1998 è inserito in un programma di protezione in seguito a minacce ricevute dopo la sua testimonianza a Firenze nel processo per le stragi del 1992 - 1993. Si sentiva braccato. Era inseguito dai mafiosi calabresi e da quelli siciliani. Con un’espressione ad effetto all’udienza del 27 febbraio 2002 dirà: “Portavo a spasso le mie ossa”. Non aveva tutti i torti. I Dragone lo cercavano perché avevano saputo che era un killer40. Brusca lo aveva condannato a morte41.

Nel 1998, senza dare una ragionevole spiegazione, rifiuta il programma di protezione e fa ritorno a Reggio Emilia dove, con la “pressione psiclogica” degli omicidi commessi per loro in precedenza, viene risucchiato dai suoi amici ‘ndranghetisti agli ordini dei quali lascia una lunga scia di sangue tra la fine del 1998 e la metà del 1999. Firma le sue esecuzioni sempre con la medesima arma, diventata inseparabile, quasi una compagna di vita; eppure sparare con la stessa arma era compromettente e pericoloso perché poteva consentire agli inquirenti di collegare un omicidio ad un altro.

La vicenda di Bellini, com’è del tutto evidente, è intimamente collegata alla storia della ‘Ndrangheta e alle particolari vicende che si sono intrecciate sull’asse che lega strettamente Cutro e Reggio Emilia. E tuttavia non è solo questo. E’ molto più complessa e oscura perché, nonostante le tante dichiarazioni fatte, prima come testimone a Firenze

40 Antonio Dragone smentì Bellini nel corso del processo e disse che non c’era nessuna faida con Vasapollo, “ed in effetti prima di sedere sul banco dei testimoni, il presunto capo della cosca cutrese davanti alle guardie carcerarie, ha abbracciato quelle due persone che a detta degli inquirenti avrebbero fatto uccidere alcuni dei suoi uomini”, Il Crotonese 19 aprile 2002. 41 Esame dibattimentale di Bellini Paolo, Udienza del 13 marzo 2002, p. 129.

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e poi come collaboratore di giustizia, ancora oggi la storia personale di Bellini lascia dubbi irrisolti e domande che non trovano risposte. Il rapporto di Bellini con la ‘Ndrangheta si può dividere in due fasi, quella iniziale dei primi anni novanta e quella finale che culmina nell’arresto e nella decisione di collaborare. Su entrambe ci sono interrogativi non chiariti come quello formulato dal sostituto procuratore nazionale antimafia Vincenzo Macrì nel settembre 2000 ai commissari dell’antimafia: “perché una cosca peraltro minore, non di grande rilievo nazionale, sia entrata in contatto con questo personaggio e lo abbia utilizzato per questi omicidi resta un punto interrogativo che rimanda alle indagini effettuate da altre direzioni distrettuali antimafia circa i rapporti tra le organizzazioni, o alcune cosche della ‘Ndrangheta e alcuni ambienti del mondo particolare dello stragismo, del terrorismo, dell’eversione ecc.”, tenuto conto anche del fatto che Paolo Bellini è “un personaggio inquietante che ha un passato tutto particolare, di persona collegata con la destra eversiva”42.

E poi ci sono i dubbi sulla seconda fase. Come mai Bellini rientra nel 1998 a Reggio Emilia e si consegna mani e piedi, fino al punto di diventare un fedele esecutore, un killer al servizio di un gruppo che, per quanto grande Bellini potesse immaginarselo, era di gran lunga meno forte, meno importante e prestigioso di quello dei Dragone che era più titolato sul piano criminale? Nicola Vasapollo era già morto da oltre sei anni. Perché ritornare a mettersi nelle mani di quello che era rimasto del gruppo originario? Per una fedeltà alla memoria dell’amico? Bellini insiste sul ricatto psicologico che gli era stato fatto basato sugli

42 Commissione parlamentare antimafia, Missione in Emilia-Romagna, Bologna, 13 settembre 2000.

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omicidi già commessi. Ma la sua appare come una giustificazione debole a fronte della sua biografia criminale. Bellini si guadagna da vivere, come ammette lui stesso, facendo l’autista di camion, mestiere scelto perché lo porta in giro per l’Italia e per l’Europa e gli evita la sedentarietà che rappresenta un pericolo per uno come lui che continuava a sentirsi braccato.

Un fatto è inequivocabile: Bellini diventa strumento di risoluzione dei contrasti interni; anzi, per la precisione, diventa il Killer di uno spezzone di cosca che cerca una vendetta postuma per un omicidio consumato in Calabria, quello di Luigi Valerio, “commesso per futili motivi” da Rosario Ruggero a sua volta ucciso nel giugno del 1992. Quel primo omicidio sarà il capostipite di una lunga faida con morti ammazzati per le vie di Cutro e di Reggio Emilia. Tra questi se ne possono ricordare alcuni, i più significativi. Il 29 settembre del 1992 venne ucciso Vasapollo Nicola nella sua abitazione di Reggio Emilia. Il 22 ottobre a Brescello venne ucciso Ruggiero Giuseppe. Per questi due delitti furono condannati all’ergastolo Dragone Raffaele e Lucente Domenico. Il clan Dragone avrebbe dovuto uccidere i fratelli Ruggiero, Antonio e Rosario, nonché Vasapollo Antonio e Vincenzo, rispettivamente zio e cugino di Nicola, ma tale proposito non fu portato a termine a causa dell’arresto di costoro.

La fine del decennio portò altri morti. Il 5 dicembre 1998 fu ucciso Giuseppe Gesualdo Abramo originario di Cutro e residente a Reggio Emilia. Pochi giorni dopo, il 18 dicembre, Bellini fa l’attentato al Pendolino. “Il Pendolino era un bar sito in via Ramazzini, frequentato notoriamente da calabresi, prevalentemente provenienti da Cutro e da leccesi. Questi due gruppi di clienti, per lo più fissi, si intrattenevano normalmente a lungo nelle salette del bar

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per giocare a carte. Non vi erano posti fissi ai tavoli nelle due salette che venivano usate indifferentemente dagli uni o dagli altri”. Poi, il 16 aprile 1999 ci fu l’omicidio di Oscar Truzzi e il 1° maggio 1999 il tentato omicidio di Antonio Valerio, anche lui di Cutro ed emigrato a Reggio Emilia. Nell’agosto del 1999 venne ucciso Raffaele Dragone, figlio di Antonio Dragone, mentre stava per fare rientro nel carcere di Santa Severina. Bellini raccontò la logica spietata che guidava gli assassini di ‘ndrangheta, e lui era diventato uno di loro. “Quando si condanna qualcuno a morte, in questi sistemi, in questi schemi, in queste organizzazioni, si condanna a morte! La sentenza va eseguita, anche a distanza di anni, e quando c'è una guerra in atto non ci si ferma, a meno che non avessero fatto dei patti diversi a mia insaputa. Ed ancora la sostanza è una sola: se tu non vuoi più uccidere, devi essere ucciso. Perchè questo non è un mestiere dove ti puoi licenziare. Quando si entra in uno schema malavitoso, non è che dici: ‘Io mi licenzio. Adesso faccio l'istanza di licenziamento e me ne vado’. Tu non ti puoi licenziare lì, allora le modalità, sono solo queste: o ti uccidono o ti mettono in condizioni di ucciderti” . Il ritratto di Bellini fatto dai giudici reggiani, a conclusione del processo, è quanto mai suggestivo: Benché abbia compiuto una scelta di vita, incondizionata e senza riserve, per la delinquenza mai può dirsi integrato in modo organico in una specifica realtà criminale; non condivide per certo la ispirazione (se si può dire) ideologica della delinquenza organizzata calabrese (la ‘ndrangheta) e siciliana (la mafia) e tuttavia se ne sente attratto, entra in contatto con essa e pur dall’esterno (per la diversa origine regionale) finisce per parteciparvi, accettandone di necessità le regole. Sembra che sia spinto dalla ambizione di entrare in rapporto con le manifestazioni più salienti della criminalità, ma

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intende difendere un proprio ruolo di autonomia pur quando coglie le occasioni che gli si offrono per eccellere nella sua opzione criminosa: diviene dunque un killer professionista (privo di inibizioni, capace di uccidere con estrema freddezza e per le più futili ragioni), pronto ad associarsi ai criminali di più alto spessore. Non stupisce quindi di trovare il Bellini non secondario partecipe della vicenda fiorentina dei Georgofili in un singolare rapporto con la mafia di Brusca; ma anche capace di ‘svanire nel nulla’ per acquisire non solo in Brasile ma anche in Italia una diversa identità in una latitanza che si protrae per quasi cinque anni finchè non viene scoperto. E sotto false generalità viene arrestato e processato. Al nome di Roberto Da Silva con una impudenza che non ha eguali ottiene il porto d’armi, l’autorizzazione alla detenzione del fucile, la patente di guida; si iscrive alla scuola di volo di Foligno e vi consegue il brevetto di aviazione civile di primo e di secondo grado. Entra nel giro di furti e ricettazioni di mobili antichi di notevole valore e di oggetti d’arte e la polizia suppone che possa dare un contributo per il recupero dei quadri oggetto della rapina alla Pinacoteca di Modena: né infine rifiuta di farsi strumento primario del progetto di eliminazione fisica dei componenti ‘reggiani’ del clan Dragone, progetto concepito dal nucleo Bonaccio-Vasapollo che da quel clan si è distaccato. E’ un ritratto inquietante se si pensa all’origine sociale e regionale di Bellini, tanto più inquietante perché mostra la capacità di attrazione delle mafie verso soggetti che per storia personale e familiare nulla avevano a che spartire con quel mondo. Continuavano i giudici reggiani: “Né, a differenza di quanto ha sostenuto la difesa dei coimputati, vi è incompatibilità logica tra i rapporti intrattenuti dal Bellini con la malavita di origine calabrese ed i suoi contatti con la mafia siciliana. Il Bellini, che è reggiano e che nell’ambiente della criminalità locale ha maturato le sue scelte di vita, non avvertiva legami ‘culturali’ organici con quelle diverse realtà delinquenziali in alcuna delle quali si identificava sicché ben poteva intrattenere relazioni con l’una e con l’altra, ponendosi

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indifferentemente al servizio di entrambe. In proposito deve osservarsi come l’inserimento occasionale del Bellini in queste ‘organizzazioni’ sia avvenuto in ragioni dei rapporti personali di amicizia dallo stesso allacciati in carcere con detenuti che di quelle organizzazioni erano partecipi. E perché non era calabrese non fu riconosciuto intrinseco alla organizzazione, non fu ‘ritualizzato’, ‘pungiuto’, non ricevette cioè una investitura ufficiale nella “famiglia”. E ciò vale a spiegare le incomplete informazioni di cui il Bellini era in possesso in ordine sia alla struttura organizzativa che ai singoli partecipi della c.d. ‘ndrina. Intenzionalmente il Bellini – il killer al servizio della ‘ndrina – dovette essere perciò tenuto all’oscuro dei più importanti ‘affari’ del sodalizio criminale”. Bellini, secondo quanto ha raccontato durante il processo, è stato tenuto all’oscuro dagli “affari” della cosca e “di qualunque altro aspetto della vicenda. E questa circostanza sembra trovare spiegazione nella mancanza di una sua formale affiliazione e nella ovvia segretezza che caratterizza la ‘ndrangheta”. Secondo i giudici reggiani, ttto il racconto di Bellini “non offre tuttavia elementi di conoscenza specifica sull’esistenza di una struttura organizzativa stabile e permanente operante a Reggio Emilia nonché sulle finalità della stessa, come indicate nell’imputazione”. Non è chiaro cosa intendano i giudici per “struttura organizzativa stabile e permanente”. I Dragone erano a Reggio Emilia dall’inizio degli anni ottanta, trafficavano droga e facevano altri affari criminali. E quelli che a loro si contrapponevano erano una costola di quella famiglia mafiosa ed usavano gli stessi mezzi per affermarsi, mezzi violenti, mafiosi. Ma i giudici, pur consapevoli di questo dato storico arrivarono, sul piano giudiziario, ad una affermazione particolare: “E se il clan Dragone aveva

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assunto i connotati propri dell’associazione di tipo mafioso come è stato affermato in altro giudizio, è ragionevole supporre che il gruppo a quel clan contrapposto nella contesa per il potere nell’ambiente criminale di Reggio Emilia, si fondi su un’analoga struttura organizzativa; ma una tale presunzione (pur avvalorata dall’esperienza dei fenomeni criminosi, tipici della ‘ndrangheta, con le faide dirette alla spartizione dei territori) non può assumere il significato di prova piena nel senso che il legame di solidarietà per certo sussistente tra Bellini (anche sul punto sicuramente credibile) il Vasapollo ed il Bonaccio, si fondi su una stabile organizzazione di mezzi che assuma i connotati tipici dell’associazione secondo il modello di cui all’art. 416 bis cp. Al riguardo fanno difetto sicuri riscontri, pur se può ritenersi comprovato che Bellini e Vasapollo abbiano perseguito il progetto originariamente promosso da Nicola Vasapollo ed al tempo stesso ne abbiano inteso vendicare la uccisione, avvenuta, secondo la comune convinzione (vedi supra ), ad opera del clan Dragone”. La conseguenza è stata l’assoluzione di tutti gli imputati dall’associazione a delinquere di stampo mafioso, pur condannando gli stessi per altri reati a cominciare da Bellini cui è stata inflitta la pena di 23 anni di reclusione43.

43 Corte di Assise di Reggio nell’Emilia, Sentenza contro Bellini Paolo + 2, 5 luglio 2002. Per la ricostruzione dell’intera vicenda di Bellini è utile anche Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, Richiesta di applicazione di misure cautelari nei confronti di Bellini Paolo + 2, 6 luglio 1999. Il Pm richiedente era Maria Vittoria De Simone. Sulla sentenza vedi Il Crotonese, 9 luglio 2002.

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PARTE SECONDA

Evoluzione del traffico di stupefacenti nel nuovo millennio. Il mercato della droga a Reggio Emilia è sempre stato fiorente e, come s’è visto, è sempre stato frequentato da più organizzazioni criminali o mafiose, piccole e grandi. Ma, dopo le indagini di fine Novecento che hanno destrutturato alcune ‘ndrine e portato alla collaborazione personaggi molto importanti e molto attivi nella distribuzione della droga, la situazione ha registrato significativi mutamenti. A quanto se ne sa, non ci sono personaggi dello spessore di Fonti o uomini che abbiano caratteristiche simili a quelle di Artuso o di Cavazzuti. Non ci sono più uomini come Rocco Gualtieri che durante il processo a Crotone dopo essere diventato collaboratore di giustizia, su sollecitazione del pubblico ministero Pierpaolo Bruni raccontò di aver avuto l’incarico di “dare la roba”, cioè la droga, “per tutta l’Emilia” su incarico dei Dragone che si procuravano lo stupefacente dai De Stefano di Reggio Calabria44. Anche Vittorio Foschini disse che lui aveva rapporti con i Dragone e con Grande Aracri per lo spaccio di droga a Reggio Emilia e a Parma, rapporti che si

44 Tribunale di Crotone, Processo contro Grande Aracri Nicolino + 39, Esame dibattimentale di Rocco Gualtieri, Udienza del 4.6.2003, p. 52.

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prolungarono per oltre un decennio, fino agli albori degli anni novanta45.

Il nuovo millennio, da questo punto di vista, ha portato delle novità nel senso che le figure storiche del narcotraffico sono state neutralizzate e il traffico non è strutturato come in altre realtà del centro-nord, anzi ha subito vistose modificazioni perché, come ha spiegato il procuratore della Repubblica di Reggio Emilia Italo Materia, “Reggio da piazza di smistamento, luogo di smercio è probabilmente diventata luogo di elevatissimo consumo. E’ quindi probabile che il traffico all’ingrosso si sia spostato altrove”. E di conseguenza è anche possibile ipotizzare che si siano spostati anche i reggiani che assumono droga e che devono andare a procurarsi la droga altrove. Il mutamento non è di poco conto – ci sarebbe una “sorta di mutazione della piazza” – e deve attribuirsi alle indagini e alle attività delle forze di polizia e della magistratura che hanno prodotto le modificazioni ricordate. Queste, infatti, non hanno altre spiegazioni che siano tali da giustificare l’evidente alterazione del mercato degli stupefacenti che così si è venuta a determinare.

I mutamenti, per quanto rilevanti possano essere stati, non hanno però sconfitto il fenomeno, lo hanno solo ridimensionato e ricondotto su altre modalità di spaccio; ed infatti la situazione è tale che, sempre secondo il procuratore Italo Materia, “la quantità della droga che circola in città e in provincia è talmente elevata da essere addirittura di difficile quantificazione”46. La descrizione del procuratore delinea uno scenario del tutto inedito perché dimostrerebbe come in città siano del tutto

45 Tribunale di Crotone, Processo contro Grande Aracri Nicolino + 39, Esame dibattimentale di Vittorio Foschini, Udienza del 28.5.2003, p. 90. 46 Massimo Sesena, “Reggio sommersa dalla droga. E’ vera emergenza”, intervista a Italo Materia, Gazzetta di Reggio, 18 maggio 2005.

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scomparse quelle figure in grado di alimentare il mercato dei narcotici cittadino; una rivoluzione in piena regola che ha bisogno di conferme che solo il tempo potrà dare. Eppure, nonostante il mutamento del ruolo e delle funzioni della piazza di Reggio Emilia, si raccolgono rilevanti quantitativi di denaro contante perché la droga continua a rimanere il più grosso business finora conosciuto, quello con il quale si guadagna di più.

E’ un mercato complesso, quello reggiano, dove convivono droghe di alto valore commerciale come la cocaina che può essere acquistata da chi ha determinati redditi e droghe sintetiche a basso costo che possono essere acquistate da chi ha poco denaro da spendere. Sono due mercati che confinano ma non si sovrappongono. Il mercato delle droghe sintetiche è popolato da fasce giovanili a basso reddito e da immigrati extracomunitari e clandestini con poca disponibilità di denaro47.

Il territorio di Reggio Emilia è comunque parte di un territorio più vasto. Questa considerazione emerge dal fatto che sempre di più le indagini giudiziarie partite da Reggio arrivano ad altri luoghi oppure che inchieste avviate in altre località molto distanti approdino a Reggio. E naturalmente in questi casi le strutture del narcotraffico sono molto ben strutturate, ad esse partecipano anche i mafiosi e la droga trattata è la cocaina. E’ capitato così con l’operazione Gringo che, venuta a maturazione sul finire del 2004 aveva, però, preso l’avvio dai primi mesi del 2000. Come sempre accade si era partiti da episodi di piccolo spaccio di cocaina per poi risalire ai livelli più alti e a territori come quelli di Modena, Pesaro, Lecco e Bari. I gruppi di narcotrafficanti erano anche in ”affari” con “cosche della

47 Mario Sabia, Reggio invasa dalla droga a basso costo, Gazzetta di Reggio, 9 giugno 2005.

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zona di Reggo Calabria e del crotonese dedite al traffico di stupefacenti”48.

Altra organizzazione più complessa – che aveva al suo interno uomini legati ad “ambienti contigui alla ‘ndrangheta” – venne alla luce all’inizio del 2005 tra Reggio Emilia, Torino, Cuneo, Brescia, Vibo Valentia, Modena. Come si vede, le regioni interessate erano Emilia-Romagna, Piemonte, Lombardia, Calabria. La droga arrivava sulle piazze italiane dopo aver seguito un percorso lungo e tortuoso. Partiva dalla Colombia e poi dopo un viaggio in Argentina e Olanda arrivava in Italia attraverso il valico di Ventimiglia che spesso rappresenta la porta d’ingresso per la droga in Italia. I colombiani avevano trovato il modo di rendere “invisibile” la droga, un modo singolare, davvero ingegnoso. “Le partite di droga venivano fin dall’origine disciolte tra le fibre di plastica di numerosi borsoni che in questo modo riuscivano agevolmente ad essere introdotti in Italia. Qui un’apposita squadra di chimici, organizzata dagli stessi malviventi argentini, sottoponeva le borse al procedimento inverso di liquefazione ed estrazione della cocaina in due raffinerie artigianali a Torino e a Bologna”49.

Non ci sono solo italiani in questo mercato, anzi. C’è una robusta presenza di stranieri. L’operazione ‘Bravo Mohamed’ ha mostrato come Reggio sia un importante “crocevia” per il mercato delle sostanze stupefacenti. Durante l’operazione sono state arrestate 11 persone d’origine marocchina e sequestrati 18 kg. di eroina. Come di solito accade, si è arrivati a individuare il traffico dopo una lunga opera di intercettazioni telefoniche che hanno

48 Mario Sabia, Sgominate cinque bande di trafficanti di droga, Gazzetta di Reggio, 16 gennaio 2005. Vedi anche Le cosche portano la droga, il Resto del Carlino, 18 gennaio 2005. 49 Borse da viaggio sì, ma in pura cocaina, Gazzetta di Reggio, 3 febbraio 2005.

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decodificato i termini per definire la droga che i trafficanti indicavano con nomi di fantasia, a volte davvero stravaganti: la bianca, scaglie di pesce, la sporca, gesso, pizze, agnello, teste d’asino. La droga partiva dalla Colombia e poi, dopo aver viaggiato in container via mare, compariva in Italia. I trafficanti erano attivi anche nelle province di Brescia e di Bergamo50. Reggio continuava ad essere un “importante crocevia” per la distribuzione di droga verso altri mercati come quello toscano51. Le vie per far arrivare la droga sono davvero infinite. Un extracomunitario di 26 anni il 3 febbraio del 2006 è arrivato a Reggio Emilia imbottito con ben 80 ovoli di cocaina che pesavano complessivamente un kg., un peso davvero spropositato che poteva mettere seriamente a repentaglio la vita del giovanissimo trasportatore52. Ogni tanto, in queste operazioni delle forze dell’ordine, compaiono anche degli albanesi che unitamente a italiani, spacciano droga53.

Ma, al di là delle operazioni che segnalano la presenza di un pulviscolo di presenze criminali di varia provenienza, la ‘ndrangheta continua a rimanere l’organizzazione “più aggressiva e attiva nel traffico di droga. E sono le ‘ndrine calabresi ad esercitare il controllo della maggior parte degli illeciti” nella provincia reggiana. In particolare, la ‘ndrangheta di origine cutrese “è sicuramente ben organizzata e ramificata, potendo contare

50 “Ecco le pizze”: decifrato il codice degli spacciatori, L’Informazione di Reggio Emilia, 12 novembre 2005. 51 Giuseppe Manzotti, Droga a chili nell’auto, tre in manette, L’Informazione di Reggio, 16 novembre 2005. 52 Cinque trafficanti di droga oggi a processo in tribunale, Giornale di Reggio, 3 febbraio 2006. 53 Traffici di coca, in quattro alla sbarra, Gazzetta di Reggio, 17 maggio 2006.

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anche in omertose complicità da pare di fiancheggiatori insospettabili”54. La violenza omicida tra Cutro e Reggio Emilia. Durante il processo contro Bellini i giudici di Reggio Emilia ricostruirono, seppure in estrema sintesi, il contesto storico della presenza mafiosa in Reggio Emilia e le ragioni della divaricazione nella cosca Dragone fino alla vera e propria contrapposizione tra Antonio Dragone e Nicolino Grande Aracri. L’origine è correttamente collocata sul finire degli anni settanta con l’arrivo degli emigrati calabresi: “Alla fine degli anni 70 si è registrato un flusso migratorio da Cutro verso le province di Reggio Emilia, di Mantova e di Cremona. La cosca dominante a Cutro fino al 1983 era quella della famiglia Dragone, capeggiata da Dragone Antonio, cui succedette Dragone Raffaele. Il potere di questo fu breve e terminò nel 1985 con il suo arresto. Fu allora che iniziò ad affermarsi all’interno della cosca la figura carismatica di Grande Aracri Nicolino, il quale nei primi anni dovette dividere lo scettro con Dragone Antonio. Questi dal carcere continuava tuttavia ad essere il punto di riferimento di buona parte dei suoi affiliati. Con il passare del tempo divenne unico capo incontrastato Grande Aracri Nicolino. Le unità che componevano la cosca erano circa una settantina ed erano per lo più i parenti, gli amici di infanzia, i testimoni di nozze, i compari di anello e via dicendo. Grande Aracri Nicolino era stato testimone del matrimonio tra Dragone Raffaele ed Arabia Rosaria”.

54 Una realtà radicata e pericolosa, L’Informazione di Reggo Emilia, 15 luglio 2007.

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I contrasti tra Antonio Dragone e Grande Aracri si fecero sentire a Cutro e a Reggio Emilia. Gli ‘ndranghetisti che hanno scelto come loro territorio d’azione Reggio Emilia hanno messo in atto una serie di attività violente che per certi aspetti rendono questi mafiosi unici nel panorama dei mafiosi che agiscono al nord perché le loro faide interne, scaturite e proseguite successivamente per molti anni per il controllo del territorio e delle attività economiche come il traffico di droga e le estorsioni a Cutro e a Reggio Emilia, si sono prolungate in territorio diverso da quello d’origine o provocando morti come nel periodo di Bellini e in quello immediatamente precedente oppure creando tensioni con intimidazioni, attentati incendiari ad operatori economici per richiedere il pizzo e per affermare una signoria mafiosa in territorio emiliano. C’è stato un caso a Reggio Emilia in cui ad un imprenditore cutrese è stata bruciata una Mercedes facendogli credere che gli autori erano stati albanesi per spingerlo a chiedere protezione. In altri casi – come hanno fatto notare i pubblici ministeri Pierpaolo Bruni e Gabriele Tomei – gli attentati si facevano ancor prima di avanzare una richiesta per pagare il pizzo, così gli imprenditori provvedevano a informarsi personalmente su chi era la persona giusta a cui bisognava rivolgersi55. Ogni attentato, è evidente, viene seguito con comprensibile preoccupazione dalla stampa locale56. Dopo la drammatica e tragica vicenda di Bellini la collana dei morti ammazzati non si è spezzata, anzi è proseguita nel crotonese e ha avuto riflessi a Reggio Emilia. Il semplice elenco degli omicidi – non tutti, quelli più significativi – ci dice come si siano sviluppate le cose e

55 Su questi aspetti vedi Il Crotonese, 22 dicembre 2000. 56 Tra i tanti esempi che si possoono fare vedi Esplosione in un cantiere edile. Incendio divampa in una notte, Giornale di Reggio. Ultime notizie, 5 febbraio 2005. Articolo non firmato.

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dimostrano il progredire e l’intensità di un conflitto che sembra essere senza fine, una sorta di tunnel in fondo al quale non si riesce ad intravedere neppure un fievole barlume di luce:

22 agosto 1999, Antonio Simbari 30 agosto 1999, Raffaele Dragone 2 marzo 2000, Francesco Arena e Francesco Scerbo 21 aprile 2000, Antonio Macrì 16 agosto 2000, Rosario Sorrentino 20 agosto 2003, Salvatore Arabia 22 marzo 2004, Salvatore Blasco 10 maggio 2004, Antonio Dragone il vecchio 23 settembre 2004, Gaetano Ciampà 2 ottobre 2004, Carmine Arena 11 dicembre 2004, Pasquale Nicoscia I morti ammazzati – 12 in sei anni – erano il più evidente segno che la guerra tra Dragone e Grande Aracri non era finita. La guerra non era combattuta solo sul terreno militare, ma anche su quello della conquista di nuove fette di mercato criminale che aveva come teatro di conquista i nuovi territori d’espansione come l’Emilia-Romagna che andavano ben oltre la città di Reggio Emilia per sconfinare in territorio lombardo. Agivano entrambi i contendenti, senza esclusione di colpi. Sotto questo profilo riveste particolare importanza quanto scritto nella ponderosa richiesta di ben 1067 pagine del Pubblico ministero presso il Tribunale di Bologna Antonio Rustico e nella sua, altrettanto corposa di 578 pagine, ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Grande Aracri Nicolino + altre 34 persone, il Giudice per le indagini preliminari di Bologna Grazia Nart nel 2002. Secondo quei documenti giudiziari c’erano tutti gli elementi per

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delineare “l’esistenza di una articolata e complessa associazione per delinquere di tipo mafioso, formata da tempo e tuttora operante in Monticelli d’Ongina (PC), Castelvetro Piacentino (PC) e Cremona, finalizzata alla commissione di vari delitti di estorsione, di illecita detenzione e vendita di sostanze stupefacenti e di illegale detenzione e porto di esplosivi, di armi comuni da sparo e da guerra ed appartenente alla ’ndrangheta”. In quei comuni c’erano degli uomini di ‘ndrangheta collegati “all’altra distante articolazione operante in Reggio Emilia, da Grande Aracri Nicolino, capo anche della maggiore e principale cosca originaria operante in Cutro (KR). La cosca esistente in questa area geografica emiliana ha operato e continua ad operare in assoluta autonomia, pur mantenendo con l’associazione cutrese costanti e stretti rapporti di collegamento in considerazione delle comuni origini, della coincidenza degli interessi e della identità del capo supremo”. Autonomia operativa e collegamento funzionale con la Calabria; qui sta la forza della ‘ndrina. La convinzione di quei magistrati era che una “frangia del clan” operasse in territorio emiliano e “mantenendo come proprio supremo riferimento Grande Aracri Nicolino” assumesse “il controllo delle diverse attività criminali sul territorio, dando origine in Emilia Romagna e Lombardia a distinta e autonoma associazione per delinquere. E qui in particolare, il Grande Aracri Nicolino, nel corso degli anni, è riuscito a crearsi uno spazio autonomo nella gestione del traffico di sostanze stupefacenti, elettivo terreno di interesse della criminalità cutrese, insidiando il ruolo egemone di Dragone Antonio”. Anche questi magistrati, come si vede, mettono in luce i contrasti tra Dragone e Grande Aracri attribuendoli a questioni di interesse economico legate al mondo della droga.

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Le attività di Grande Aracri erano ambiziose delineavano scenari molto più vasti che quelli di Cutro e di Reggio Emilia. Secondo Giovanni Lombardo, un collaboratore di giustizia, Grande Aracri che un affiliato definiva il “perno” di tutte le attività ‘ndranghetiste in quella parte dell’Emilia, voleva aprire un supermercato in Germania e aveva interessi in Belgio. Ma gli interessi principali oltre a quelli stranieri continuavano ad essere, almeno in questa fase, quelli emiliani. A Reggio Emilia ci sono vari incontri tra ‘ndranghetisti che da altre parti arrivano in città e che gli inquirenti tengono sotto controllo tramite osservazione dei loro spostamenti oppure attraverso un servizio di intercettazioni telefoniche. Secondo gli inquirenti questi eventi erano finalizzati “alla riscossione di una somma in denaro, non quantificata, provento di estorsioni e/o sfruttamento della prostituzione, posta in essere dall’associazione”.

Ogni tanto nei documenti giudiziari spunta il riferimento allo sfruttamento della prostituzione. E’ un riferimento ripetitivo, che appare posticcio – quasi una formula, sempre uguale, da apporre nei rapporti – e che si fa fatica ad accettare perché da un lato i mafiosi – tutti i mafiosi, anche quelli siciliani e campani – non hanno mai fatto ricorso allo sfruttamento della prostituzione per molteplici ragioni, compresa quella che fa riferimento ad un loro presunto codice di uomini d’onore che vieterebbe lo sfruttamento del corpo delle donne, dall’altro lato perché a queste affermazioni generiche mancano di solito le indicazioni di concrete azioni, di fatti e di circostanze comprovanti questa specifica modalità criminale, tanto è vero che non capita di trovare condanne di mafiosi per sfruttamento della prostituzione. Qualche anno fa furono catturati ‘ndranghetisti e albanesi – uno di questi, un trentenne albanese, era domiciliato da qualche mese a

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Reggio Emilia – i primi si arricchivano con la droga portata dagli albanesi, e gli albanesi con gli introiti della prostituzione delle donne che erano arrivate in Italia assieme alla droga57.

L’attacco agli imprenditori d’origine cutrese.

In realtà oltre che trafficare droga su larga scala – su

scala planetaria e non solo locale o nazionale – quello che gli ‘ndranghetisti sanno fare, e lo fanno molto bene, è chiedere i soldi agli imprenditori. Le carte giudiziarie, a saperle leggere, ci forniscono una miniera d’informazioni. Gli esempi più interessanti sono quelli che provengono da conversazioni che non necessariamente porteranno all’apertura dell’azione penale. Ad un certo punto viene intercettata una interessante discussione tra due ‘ndranghetisti nel corso della quale il primo rimprovera il secondo di non usare i metodi giusti per un “recupero crediti a Reggio Emilia” e gli dice “Tonì, ti faccio vedere come stacca l’assegno davanti a me… con i modi miei!”. Uno ‘ndranghetista che in quel frangente agisce a Cremona è convinto che Reggio Emilia sia il luogo di possibile raccolta di soldi della ‘ndrangheta. A conferma di questa sua convinzione non riuscendo a reperire i fondi necessari per portare a compimento un affare “si sarebbe recato a Reggio Emilia dove avrebbe potuto attingere dai fondi illeciti degli altri affiliati ivi presenti”. Ma c’è di più. E’ a Reggio Emilia che si hanno molti uomini a disposizione. Lo dimostra un significativo episodio accaduto a Cremona dove gli uomini di ‘ndrangheta avevano sotto controllo un locale notturno. In quel locale entrava, consumava e pretendeva di non pagare un calabrese, e ciò accadeva 57 Traffico di schiave, armi e droga: arrestato albanese. Giornale di Reggio. Ultime notizie, 16 dicembre 2005.

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ripetutamente nonostante le lamentele del gestore. La storia non poteva andare avanti così perché ne andava di mezzo il prestigio e la capacità di garantire sicurezza da parte della ‘ndrina che prendeva i soldi dal gestore per la protezione del locale. Uno degli ‘ndranghetisti pensa “di far giungere una decina di uomini di sua fiducia, provenienti da Reggio Emilia, al fine di vigilare e controllare meglio il locale notturno e per allontanare quei calabresi che non rispettano le normali regole di comportamento”. La questione non convinse tutti quanti e all’uomo che propendeva per un’azione di forza gli fu suggerito di riflettere sull’opportunità “di adottare dei mezzi meno drastici poiché queste persone, ed in particolare il soggetto chiamato ‘Rambo’, potrebbe essere in grado di porre in essere delle condotte – quali danni e/o sfregi, danneggiamenti al locale – che non gioverebbero alla tranquilla gestione che consente all’organizzazione di avere dei lauti ricavi”. E’ un ‘suggerimento’ che ha una chiara valenza strategica: meno azioni clamorose si fanno e meglio è per le mafie; ciò vale non solo nel sud, ma anche al nord, anzi soprattutto al nord.

Tra Cremona e Reggio Emilia i rapporti sono molto fitti. Ne dava l’esempio un’altra intercettazione telefonica tra due soggetti che avevano il compito di recuperare i crediti. Scrivono i magistrati bolognesi: “di grande importanza il passaggio nel discorso intercorso tra i due, in cui si evince che gli stessi, al fine di poter incassare i soldi, si avvarranno della collaborazione di persone ‘vicine a loro’ di Reggio Emilia, anche perché i referenti di quella città potrebbero chiedere spiegazione sulla ‘ambasciata’ fatta nel loro territorio. Nella citata interecettazione emerge chiaramente il reciproco scambio di favori che intercorre tra l’articolazione di Reggio Emilia e gli affiliati residenti in Piacenza e Cremona ed in particolare appare

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significativo il termine mafioso ambasciata”. Uno dei due “chiarisce senza lasciare dubbi che se dovessero sopravvenire dei problemi nel recupero crediti passeranno all’azione contro il debitore. Tale azione di forza supportata da personaggi di Reggio Emilia, sarà effettuata dapprima con una visita personale e dopo dieci–quindici giorni con una telefonata fatta da una cabina telefonica allo scopo di non essere rintracciati e nel contempo per notare la reazione da parte del soggetto”58. Il dato di fondo di queste conversazioni rimaneva il rapporto esistente tra più soggetti operanti in diverse città e la possibilità di fare ricorso in caso di bisogno, l’uno dell’aiuto dell’altro.

Insomma, Grande Aracri si stava espandendo approfittando del fatto che Antonio Dragone fosse in galera. Com’era del tutto evidente, l’espansione riduceva gli spazi economici e di potere dei Dragone. Tutti i segnali, oramai, andavano in questa direzione. Vittorio Foschini, che apparteneva alla ‘ndrina più blasonata dei De Stefano che controllavano la ‘ndrangheta di Reggio Calabria, dichiarò in processo che ad un certo punto “Dragone nella piazza di Cutro non era più nessuno”59. Anche Rocco Gualtieri, interrogato dal pubblico ministero Bruni, disse che dopo l’arresto di Dragone c’era stato il subentro di Nicolino Grande Aracri in Emilia altrimenti il territorio veniva sottomesso ad altra famiglia e l’avrebbero perso60.

58 Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, DDA, Richiesta per l’applicazione delle misure cautelari in carcere nei confronti di Grande Aracri Nicolino + 35, 7 gennaio 2002; Tribunale di Bologna, sezione dei giudici per le indagini preliminari, Ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Grande Aracri Nicolino + 35, 23 ottobre 2002. 59 Tribunale di Crotone, Processo contro Grande Aracri Nicolino + 39, Esame dibattimentale di Vittorio Foschini, Udienza del 28.5.2003, p. 47. 60 Tribunale di Crotone, Processo contro Grande Aracri Nicolino + 39, Esame dibattimentale di Rocco Gualtieri, Udienza del 4.6.2003, p. 52.

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Anche Il Crotonese, importante e storico giornale di Crotone, informava i suoi lettori circa i mutamenti in atto nella ‘ndrangheta della vicina Cutro e, riflettendo sugli omicidi che dal 1988 al 2000 avevano insanguinato le strade di Cutro e di Reggio Emilia, scriveva: “si ha l’impressione che da alcuni anni a Cutro stia operando una cosca che ha finito per prendere il sopravvento sulla ‘vecchia’ mafia a suon di morti ammazzati e che addirittura potrebbe aver assunto un ruolo predominante in tutta la provincia divenendo il punto di riferimento per altre organizzazioni criminali calabresi. E il fermo di un esponente di spicco della ’ndrangheta reggina, sorpreso l’altra notte insieme ad una persona di Cutro mentre tentavano di recuperare un carico di armi, non fa altro che aggiungere consistenza a questa ipotesi. Il timore comunque che da qualche tempo sia esplosa una nuova guerra di mafia è confermato da una serie di episodi, delitti, attentati, misteriose sparizioni che hanno come teatro il territorio crotonese ma anche l’Emilia, dove risiede una nutrita schiera di cutresi. Ed è proprio da Reggio Emilia che sul finire del 1998 arrivano segnali inquietanti”61. I giornalisti non si erano certo sbagliati. L’elenco dei morti ammazzati ne dava una tragica conferma. I timori erano più che fondati, e i segnali erano inequivocabili come s’è visto. La morte del vecchio Dragone trucidato poco dopo l’acquistata libertà non aveva posto fine alla guerra, anzi quella morte aveva chiamato altri morti. Tutto ciò non poteva certo essere casuale, semmai era la prova più lampante “dell’esistenza di fazioni criminali organizzate contrapposte, con notevolissima disponibilità di armi, che sanno di poter fare affidamento sul silenzio, sulla paura,

61 Il Crotonese, 6 giugno 2000.

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sull’omertà della popolazione, al punto da eseguire i propri propositi omicidiari, non in luoghi isolati, in orario notturno, ma all’interno di esercizi commerciali, su pubbliche vie trafficatissime, in pieno giorno, spesso alla presenza di altre persone e, peraltro sempre ben armati”. Quanto è successo è segno di tracotanza, di assoluto disprezzo della vita umana e del clima di paura, di terrore, di tensioni che inevitabilmente si sarebbe prodotto tra le popolazioni interessate da questi frequenti omicidi.

Non stupisce allora il fatto che nel febbraio 2005 il pubblico ministero della DDA di Catanzaro Salvatore Dolce abbia richiesto, unitamente al procuratore della Repubblica Mariano Lombardi, l’applicazione di misure cautelari in carcere nei confronti di 13 persone accusate di aver dato vita ad “associazione armata operante in Cutro e Reggio Emilia, sin dagli anni 80, capeggiata, all’incirca sino alla metà degli anni 90, da Dragone Antonio cl. 43, al quale, a causa del suo lungo periodo di detenzione carceraria, di fatto, subentrava Grande Aracri Nicolino, sino ad allora un semplice affiliato, seppur di sicuro primo piano”. Tutti gli indagati farebbero parte di un “sodalizio di stampo mafioso, storicamente costituitosi in Cutro, ma fortemente attivo anche in territorio emiliano-romagnolo ed in particolar modo a Reggio Emilia”62. Mentre si scrivono queste pagine il processo è in corso a Catanzaro; dunque le accuse formulate dal P.M. nei confronti di tutti gli imputati attendono il vaglio del tribunale.

Per noi, il dato più significativo della richiesta è l’aver inserito in un provvedimento giudiziario del Tribunale di Catanzaro il riferimento esplicito alla condotta degli associati tenuta nella città di Reggio Emilia e

62 Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro DDA, Richiesta per l’applicazione di misure cautelari nei confronti di Abramo Giovanni + 13, 28 febbraio 2005, pp. 15-20.

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soprattutto la convinzione dell’esistenza di “una associazione armata operante in Cutro e Reggio Emilia”, circostanza, questa, di assoluto rilievo perché capita raramente, per di dire quasi mai, di imbattersi in ipotesi giudiziarie così chiare e nette. Al di là di come si concluderà il processo, già questa circostanza va segnalata come un fatto positivo perché indica una possibile direzione di marcia per il futuro e conferma analisi della realtà emiliano-romagnola che già in passato erano state affacciate63.

Anche sulla stampa di Reggio Emilia si affacciavano analisi analoghe a quelle dei magistrati con l’aggiunta, certo non secondaria, dei rischi circa la ricaduta sull’economia e sulla società delle attività schiettamente criminali. Il problema era individuato con esattezza: vittime e carnefici avevano la stessa provenienza territoriale e molto spesso, per non dire quasi sempre, si conoscevano tra di loro. Pierluigi Ghiggini scriveva di una “struttura mafiosa calabro-reggiana specializzata nel taglieggiare in modo scientifico gli imprenditori edili cutresi e cresciuta di pari passo con il boom edilizio”. E aggiungeva: “Possiamo solo immaginare l’inferno di minacce, di paure, di meccanismi ricattatori (impresari e artigiani si indebitano per investire ed hanno famiglie a Cutro) che accompagna come componente essenziale la legge del ‘pizzo’ e del dominio finanziario e ‘militare’ della ‘ndrangheta”64. E’ proprio così, un inferno che non ha fine e che si perpetua sempre uguale giorno dopo giorno, generando terrore, insicurezze, prostrazione. E tutto ciò a Reggio Emilia, molto distante da Cutro. E’ di estrema 63 Su questo vedi E. Ciconte, Mafia, camorra e ‘ndrangheta in Emilia-Romagna, Panozzo, Rimini 1998 e E. Ciconte, Mafie italiane e mafie straniere in Emilia-Romagna, in Quaderni di Città sicure, a. 10, n° 29, 2004. 64 Pierluigi Ghiggini, Aprire gli occhi e chiudere il salvadanaio, L’Informazione di Reggio Emilia, 23 ottobre 2005.

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importanza il fatto che gli imprenditori cutresi siano individuati come vittime e non si faccia di tutte le erbe un fascio, considerando mafiosi tutti coloro che sono originari di quella comunità. E’ importante sia per l’analisi della natura del fenomeno sia perché così si possono mettere in campo azioni efficaci per isolare gli ‘ndranghetisti chiamando tutti gli altri ad una azione contro la ‘ndrangheta.

Per comprendere meglio la natura dei mafiosi che hanno operato a Reggio Emilia, per apprezzarne le caratteristiche, la potenza, la capacità di intimidazione di quegli uomini, per cogliere in tutta la loro portata gli sviluppi della situazione tra Cutro e la città emiliana occorre rifarsi al processo presso il tribunale di Crotone denominato Scacco matto conclusosi con sentenza, oramai passata in cosa giudicata, in data 19 dicembre 2002. Gli imputati erano 39 e la lista era aperta da Nicolino Grande Aracri65. Raccontare quello che è successo a Cutro ci aiuta a comprendere quanto è accaduto a Reggio Emilia perché i fatti sono concatenati, i protagonisti sono gli stessi e molti di loro fanno i pendolari tra Cutro e Reggio Emilia o perché quelli di Cutro salgono a Reggio Emilia o perché i cutresi che oramai sono residenti da tanti anni a Reggio Emilia si recano comunque a Cutro per le feste oppure per fare visita ai parenti oppure ancora durante i mesi estivi quando è piacevole trascorrere le ferie tra le rive del mar Jonio o impiantarvi un’attività stagionale nella frazione marina di Steccato di Cutro. A Reggio Emilia sono stati attivi ed hanno operato vari mafiosi appartenenti a più ‘ndrine di diversi paesi. Ciò è la conferma ulteriore che al nord non funziona la medesima modalità di controllo del territorio come si 65 Nicolino Grande Aracri, a conclusione del processo di Crotone, fu condannato alla pena di 17 anni di reclusione.

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manifesta in Calabria. Per quanto potente e forte possa essere una ‘ndrina, nessuna riesce ad avere il monopolio di tutte le attività criminali ed illegali di una città; e dunque non può impedire l’ingresso e l’attività di altri agglomerati mafiosi. Giovanni Lombardo non era uno ‘ndranghetista che apparteneva alla grande e potente criminalità, ed infatti quando decise di collaborare con la giustizia, rispondendo alle domande del pubblico ministero Pierpaolo Bruni disse di aver fatto parte di una “piccola organizzazione”. La risposta, per quanto possa apparire sorprendente è precisa: la composizione non superava le sei persone. Agivano tutte in territorio di Reggio Emilia commettendo reati di varia natura anche se l’attività principale era quella del traffico di stupefacenti, in modo particolare eroina66.

Questo può sembrare un fatto di secondaria importanza, e invece non lo è perché ci dice come nel campo della commercializzazione della droga agiscano vari soggetti anche molto piccoli oltre ai grandi distributori, che naturalmente rimangono molto distanti dai luoghi di spaccio, e come non ci sia un regime di monopolio da parte di nessuna organizzazione mafiosa. Non è chiaro se ci sia stato un accordo formale tra mafia, ‘ndrangheta e camorra, ma è certo che ogni mafioso, a qualunque organizzazione appartenga agisce dappertutto senza alcun vincolo, tranne quello del rispetto del territorio altrui; ed in effetti non ci sono mai stati conflitti armati per conquistare il territorio altrui, non ci sono state guerre per strappare il territorio già occupato da un altro.

Dunque, una piccola organizzazione operava come se nulla fosse in un mercato della droga come quello reggiano che evidentemente era un mercato aperto dove tutti potevano svolgere la propria attività. Non c’erano 66 Tribunale di Crotone, Processo contro Grande Aracri Nicolino + 39, Esame dibattimentale di Giovanni Lombardo, Udienza del 28.5.2003, p. 117.

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ostacoli per nessuno, anzi c’erano porte aperte per tutti. Chi era intraprendente poteva inserirsi nel mercato, creare la sua rete e avviare le sue attività. Il territorio era molto vasto, per gran parte libero da altre presenze criminali o mafiose, e il mercato della droga non apparteneva alla categoria dei settori che sono soliti entrare in crisi irreversibile. Naturalmente c’erano altri mafiosi di calibro ben diverso. Uno di questi era Vittorio Foschini. Lui era incaricato dai suoi capi di smerciare droga che andava a prendere in vari posti, in giro per l’Italia e così poteva capitare che andasse a prendere droga in Calabria per portarla a Milano dove era la sua base operativa. Da Milano la droga prendeva varie diramazioni. Una di queste era sicuramente Reggio Emilia com’era già capitato ai tempi di Fonti e di Cavazzuti. Foschini conobbe gli ‘ndranghetisti di Cutro e di Isola Capo Rizzuto e di loro parlò quando decise di collaborare. Raccontò tante cose, descrisse i traffici, riconobbe gli uomini che ne erano gli assoluti protagonisti sulla direttrice che da Milano portava a Reggio Emilia e parlò anche dei gradi e dei rituali.

Disse che “nella ‘ndrangheta c’è una gerarchia, c’è picciotto, picciotto onorato, picciotto di giornata, poi c’è camorrista, poi c’è sgarrista, poi c’è santista e poi c’è il vangelo; il vangelo è su di tutti”. Secondo Foschini capo società è equivalente a santista. Spiegò una regola particolare in forza della quale si potrebbe far parte dell’organizzazione anche senza essere battezzati. In questo caso, chi si trovi in questa condizione viene chiamato contrasto onorato. Non tutti i capibastone sono disponibili ad accettare questa modalità di far partecipare alle attività della ‘ndrangheta chi non è ritualmente affiliato. La possibilità di poter partecipare varia da locale a

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locale e a decidere è il capo locale67. A Milano, disse Foschini, qualcuno era disponibile ad introdurre questa novità, mentre altri erano restii. Naturalmente contava molto la personalità del capolocale, la sua autorevolezza, il suo prestigio, il suo ascendente sugli altri.

Il Tribunale di Crotone non lasciò cadere quelle suggestioni, anzi prese sul serio l’esistenza dei gradi e le gerarchie interne alla cosca e, raccogliendo altre testimonianze di collaboratori, scrisse che “è ‘capo-società’ il capo della zona, ovvero di un particolare e circoscritto territorio. E’ ‘puntaiolo’ un picciotto di giornata, ovvero colui che oltre a raccogliere le novità della giornata, è anche una sorta di ‘contabile dei fatti’ che poi riferisce al capo-società. E’ ‘picciotto’ invece l’affiliato battezzato, ovvero colui che entra in società e che viene iniziato alla presenza di cinque persone”68. L’esistenza dei gradi di santista e del vangelo è un fatto di straordinaria importanza perché sono di conio recente e sono un’innovazione rispetto a gran parte degli altri che riprendono i gradi di una volta, quelli risalenti alla ‘ndrangheta dell’Ottocento. Santista e vangelo invece sono gradi nati dopo la metà degli anni settanta del Novecento quando la ‘ndrangheta decise di entrare nelle logge deviate della massoneria e in conseguenza di questo ingresso si riorganizzò in modo nuovo rispetto al passato e alla sua antica tradizione. Nacque la ‘Santa’, ossia un livello ancora più riservato, l’élite della ‘ndrangheta depositaria dei segreti più oscuri, inconfessabili, e delle decisioni strategiche di tutta l’organizzazione. Trovare questi gradi nella zona del crotonese significa che esiste una prassi di

67 Tribunale di Crotone, Processo contro Grande Aracri Nicolino + 39, Esame dibattimentale di Vittorio Foschini, Udienza del 28.5.2003, pp. 92-94. 68 Tribunale di Crotone, sentenza n° 1812 in data 19.12.2003. Processo Scacco Matto, p. 201.

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elevamento dei capi che vale per tutta la ‘ndrangheta, non solo per quella reggina, più titolata di tutte le altre. Nicolino Grande Aracri, secondo Vittorio Foschini, “era un vangelo”, e “aveva il permesso una persona di farla vivere e di farla morire quando voleva, lui era un capo”69.

Un potere di vita e di morte, a dar credito a Foschini; ed è un potere enorme che nessun tribunale finora ha accertato definitivamente seppure Grande Aracri abbia anche imputazioni di omicidio70. Chi ricopre la carica di vangelo è un capo assoluto e nel suo paese non deve rendere conto a nessuno, né tanto meno deve chiedere qualcosa a qualcuno. Solo quando vuole operare in un territorio diverso dal suo o al nord deve dare conto e stare attento a non invadere il territorio di un altro. Sono regole molto rigide, queste, perché la loro violazione mette in discussione l’essenza del potere mafioso che è rappresentato in prima istanza dal controllo del proprio territorio. Il battesimo è un fatto importante ed estremamente serio, molto più impegnativo di quanto qualcuno sia stato e sia disposto ad ammettere. Molti sono stati scettici e continuano a rimanere scettici perché sono convinti che sia un’usanza abbandonata, ma invece non c’è collaboratore che non parli dei riti d’ingresso nell’organizzazione e non c’è documento giudiziario dove non sia possibile rinvenire tracce, più o meno vistose, dei riti. Ancora in tempi recentissimi, il 15 agosto 2007, e in luoghi impensati come 69 Tribunale di Crotone, Processo contro Grande Aracri Nicolino + 39, Esame dibattimentale di Vittorio Foschini, Udienza del 28.5.2003, p. 62. La circostanza era sicuramente importante, come non mancava di notare Il Crotonese, 30 maggio 2003. 70 Una di queste, quella di essere il mandante dell’assassinio di Salvatore Arabia, è di recente caduta a Catanzaro su decisione del Tribunale del riesame di quella città che ha assolto Nicolino Grande Aracri dall’accusa mossagli dalla DDA. Su questo vedi Annullato dal Tribunale del riesame l’arresto di Nicolino Grande Aracri, Gazzetta del sud, 13 dicembre 2007.

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la cittadina tedesca di Duisburg uno dei giovani assassinati aveva in tasca un santino bruciato, segno della sua recente affiliazione ad una cosca della ‘ndrangheta di San Luca.

Nel 2003, durante il processo Scacco matto, fu accertato che “per formalizzare l’entrata nel gruppo di una nuova persona esiste un rito di iniziazione detto ‘battesimo o rimpiazzo; il rito richiede il preventivo assenso dei capi; la persona ‘rimpiazzabile’ deve essere affidabile, ovvero esperta, capace, possibilmente non avere guai né con le donne né troppi guai accertati con la legge; di tale persona è necessario saggiare preventivamente la affidabilità sia affidandogli dei compiti che dialogandovi e mettendolo diversamente alla prova; la cerimonia di ingresso richiede la presenza di un numero variabile di persone ai vertici, da tre a quattro”71. Sono precetti antichi, risalenti all’Ottocento, ma alcuni di questi continuano ad avere una straordinaria attualità perché si tramandano da una generazione ad un’altra di ‘ndranghetisti. Una tradizione che si conferma uguale a se stessa, che sembra immutabile e che continua ad essere accettata.

E capita, attraverso le intercettazioni, di ascoltare quasi in diretta l’indottrinamento di uno ‘ndranghetista nei confronti di un suo paesano che anelava ad entrare nell’organizzazione. Il primo, prezioso, insegnamento è quello di rispettare le regole e l’autorità interna all’organizzazione perché senza questo rispetto, questa obbedienza, non ci sarebbe un buon funzionamento dell’organizzazione stessa. Nello stesso tempo “gli spiega che essere infami vuol dire anche ‘mettere male’ fra gli associati e, in particolare, tra il capo e gli altri accoliti. Così come non si deve mentire sulle cose serie, sui fatti, sulle azioni, allo stesso modo non si deve neppure riferire ad 71 Tribunale di Crotone, sentenza n° 1812 in data 19.12.2003. Processo Scacco Matto., p. 261

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altri associati se qualcuno, in un momento di rabbia, ne ha parlato male. A volte è possibile che si dicano sciocchezze ma l’intelligenza di ciascuno deve portare a comprendere che, in una evenienza del genere, non è nel torto chi sbaglia a parlare bensì chi poi riferisce. E’ importante insomma per un associato non essere né tragediatore né ‘malefico’”.

Insomma, sembrano regole di buon senso, ma in realtà mascherano un fatto preciso: la prima regola è il rispetto del capo, “o comunque dell’uomo sovra-ordinato, che implica sia la necessità di evitare che si possa attuare od impartire una qualche ‘ambasciata’ senza il preventivo consenso del superiore sia la necessità di dovere ‘render il conto’ cioè fornire al capo le giustificazioni del proprio operato. Questi, a sua volta non solo controlla l’operato dei subalterni, potere quanto mai necessario, ma riesce in tal modo a distinguere gli uomini di valore da quelli che valore non hanno”. Infine viene spiegato al giovane che vuole entrare nell’organizzazione che quelle regole sono la quintessenza dell’onore mafioso: “l’uomo che vale non crea inimicizia tra gli associati, non esagera e non commenta gli eventi, non riferisce se non quando è necessario, non fa sapere troppo delle sue azioni né pretende di sapere troppo degli alti”. Queste regole di apparente buonsenso sono le prime ad essere impartite, e certo non per caso, perché le ‘ndrine di Cutro e dintorni sono da tempo funestate da guerre interne, da morti ammazzati, da un rosario di attentati che da Cutro proiettano i loro effetti negativi anche a Reggio Emilia. Quindi inculcare queste regole significa limitare i danni, evitare, per quanto possibile in un ambiente crudele e violento come quello mafioso, l’insorgere di altri morti ammazzati, di fatti che possano in qualche modo reclamare una sanzione drastica o il ricorso necessitato alla violenza.

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Le ‘ndrine cresciute nella zona attorno a Cutro, Crotone, Isola Capo Rizzuto e che hanno avuto Reggio Emilia come teatro principale della loro attività fuori regione, erano di quelle che facevano rispettare le regole degli uomini d’onore, per quanto esse potessero essere considerate superate o antiquate oppure regolarmente infrante dalla maggior parte degli affiliati e soprattutto dei capi. Le regole avevano un fascino straordinario e producevano effetti ben precisi, a cominciare dal rispetto del capo. Rocco Gualtieri raccontò come nel 1981 abbia conosciuto Antonio Dragone a casa sua. Disse di essersi recato in quell’abitazione portando con sé un “omaggio”, un regalo in segno di deferenza e di rispetto per il capo che si andava ad incontrare e a conoscere per la prima volta; era un privilegio72. C’è tutta la cultura meridionale e calabrese in questo racconto, ma pare di avvertire qualcosa di più che appartiene al senso del rispetto mafioso che è senso di dominio del forte sul debole; e non c’è dubbio che in questo caso Gualtieri era in posizione subalterna a quella di Dragone; e per questo è lui che porta il regalo.

Ci sono anche altri episodi minuti – i più significativi, i più rivelatori – che possono avere il sapore d’antico, ad esempio quello di uno ‘ndranghetista che è stato allontanato “per essere fuggito con una ragazza abbandonando sua moglie”73. Costui si era comportato come tanti altri prima di lui, che appartenessero o meno alla ‘ndrangheta. Avrà pensato che quella fosse una norma del passato, caduta in disuso, non più valida per un uomo del duemila, che fosse una regola già tante volte infranta dagli stessi mafiosi, da tutti i mafiosi non importa di quale

72 Tribunale di Crotone, Processo contro Grande Aracri Nicolino + 39, Esame dibattimentale di Rocco Gualtieri, Udienza del 4.6.2003, p. 35. 73 Tribunale di Crotone, sentenza n° 1812 in data 19.12.2003. Processo Scacco Matto., p. 199.

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organizzazione fossero, se della ‘ndrangheta, di cosa nostra, della camorra o della sacra corona unita. Ma, evidentemente, si sbagliava. Dunque, a quanto pare vengono rispettate le antiche regole dell’onore. C’è, in questa vicenda umana, tutto il sapore di una ‘ndrangheta arcaica che si rifà ai vecchi codici, che sceglie le vie del passato e non s’abbandona alla modernità come fanno tanti altri mafiosi. Ma, come è noto, le regole servono a mantenere in vita un’organizzazione dove non è facile trasgredire perché ogni infrazione può costare molto cara e dalla quale, come si premurava a ricordare Vittorio Foschini, è impossibile uscirne. L’organizzazione è ben strutturata. Essa ha alle spalle il riconoscimento dato “dalla madonna della montagna nella ‘ndrangheta calabrese”, cioè dal ‘locale’ di San Luca, alla ‘ndrina di Cutro di poter formare un locale74, riconoscimento importante ed ambito che innalza Cutro e i suoi ‘ndranghetisti nella gerarchia della ‘ndrangheta. Nell’organizzazione c’è una precisa e ben definita gerarchia e poi ci sono gli affiliati i quali sono pagati con uno stipendio mensile. Dalle lamentele di alcuni picciotti i cui racconti vengono registrati dagli inquirenti apprendiamo che essi percepiscono un milione di lire al mese. Alcuni si lamentano “dicendo che non si può vivere con un milione al mese”. Le lamentele sono utili perché ci svelano un mondo che altrimenti per noi sarebbe rimasto segreto, impenetrabile, e perché ci raccontano di capi che si preoccupano, per come possono, dei loro sottoposti garantendo loro un fisso mensile, seppure modesto o comunque non adeguato alle aspettative o alle esigenze dei

74 Tribunale di Crotone, Processo contro Grande Aracri Nicolino + 39, Esame dibattimentale di Vittorio Foschini, Udienza del 28.5.2003, p. 61

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picciotti. Altra incombenza dei capi è quella di mantenere i detenuti e le loro famiglie.

Mantenere i detenuti è un impegno presentato dagli ‘ndranghetisti come un obbligo ‘morale’ per chi è finito in galera per avere agito da mafioso. In realtà questa incombenza risponde molto bene ad una necessità della ‘ndrina perché un detenuto che non ha problemi e che sa che c’è qualcuno che si sta occupando dei propri familiari non parlerà; pagare per i familiari dei carcerati è un formidabile incentivo a farli stare zitti. Da molte delle telefonate intercettare “si evince che una delle prioritarie finalità nella distribuzione del denaro è rappresentata dall’accollo delle spese di giustizia”. Gli ‘ndranghetisti intercettati “spiegano che una parte del denaro reperito dalle attività comuni doveva essere tenuto da parte sia per distribuirlo ai carcerati sia per sostenere i costi necessari alla loro difesa”. Ci sono gli avvocati da pagare; sono molti e sono molto costosi perché i processi durano un tempo infinito e le difese sono molto impegnative. I soldi sono quelli che provengono dal traffico degli stupefacenti o dalla riscossione del pizzo. Uno di loro che doveva recarsi a Reggio Emilia chiede la “pila”, cioè i soldi, e dice in modo esplicito, senza tanti giri di parole: “prima di partire dividiamo i soldi delle mazzette”. La cosa interessante è che da alcune registrazioni telefoniche “vi è la riprova della esistenza di un cassa ‘comune’ nella quale fare confluire il denaro comunque ricavato e da utilizzare come fondo collettivo per fronteggiare comuni necessità (spese legali, spese dei detenuti e delle loro famiglie, ‘mensilità’)”. Non è una modalità inventata dalla ‘ndrina di Cutro e del crotonese. Tenere soldi da parte in una cassa comune è prassi antica, risalente alle origini della ‘ndrangheta ottocentesca quando si usava un termine particolare, baciletta, per definire il

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fondo comune che veniva gelosamente custodito dal contabile che all’epoca era uno che sapeva scrivere, e come si diceva allora, far di conto per assicurare la regolarità dei conti comuni e la divisione tra gli associati. E’ impressionante vedere come una prassi così antica sia sopravissuta in epoca contemporanea.

Il richiamo ai soldi è ricorrente, quasi un’ossessione; e coinvolge i picciotti che si lamentano del mensile che è scarso, ma anche i capi. Ne dava dimostrazione “nel carcere di Padova ove era detenuto Dragone Antonio: questi, parlando con suoi familiari ed in particolare con i suoi figli, fa riferimento alla necessità di andare a recuperare denaro raccolto da un tale che oramai starebbe trattenendosi quei soldi dalla morte di Raffaele, forse non sapendo come ed a chi recapitarlo. Si chiarisce che quel denaro non appartiene a chi lo detiene”. Il vecchio capo è in galera, ma non per questo rinuncia ai soldi. Un altro, più prudentemente, consiglia un associato a “tenere da parte sempre una decina di milioni sufficienti per l’eventualità di una carcerazione e per le spese del legale”. La prudenza non è mai troppa ed è bene provvedere a se stessi, prima ancora che intervenga l’organizzazione. E un altro ancora dice: “questi non li devi mettere in nessun libro, che sono i nostri”75. Ciò significa che ci sono soldi che vanno messi da parte per l’organizzazione e altri che invece fanno parte dell’incasso personale. E’ bene ricordare che nella ‘ndrangheta – ma il discorso è valido anche per le altre organizzazioni mafiose – la divisione tra capi e sottoposti è anche una divisione che riguarda la distribuzione della ricchezza entro la struttura mafiosa. I capi, come dappertutto, guadagnano enormemente di più.

75 Tribunale di Crotone, sentenza n° 1812 in data 19.12.2003. Processo Scacco Matto, pp.251-258.

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Altro aspetto importante, da non sottovalutare, è quello relativo alla pratica dei comparaggi e dei matrimoni. Soffermarsi su questi aspetti significa piombare nelle usanze locali, nelle consuetudini dure a morire che la modernità ha contribuito in gran parte a modificare. E però la ‘ndrangheta ha fatto di queste usanze uno strumento di consolidamento delle relazioni mafiose. L’antico e il moderno sono strettamente intrecciati. E’ stato accertato ripetutamente, anche durante il processo Scacco matto, che “nella mentalità e nel costume mafioso esiste la consuetudine di legarsi ad altri affiliati tramite ‘comparaggi’. Trattasi di cerimonie che, prevedendo la scelta di padrini, madrine e testimoni tra gente affiliata e in particolare scegliendo tali persone tra quelle che rivestono ruoli importanti e di primo piano all’interno del gruppo, mirano a rinsaldarne i reciproci legami, a renderli definitivi, oltre che religiosamente suggellati”.

I matrimoni, nella logica del rafforzamento di legami familiari e personali, sono occasioni importanti. Sono momenti corali nel corso dei quali si cementano alleanze tra famiglie e si saggia la propria potenza che è misurata generalmente dalla generosità dei regali raccolti dagli sposi e dal numero dei partecipanti alla cerimonia. Più gente c’è e più vuol dire che ampi sono il rispetto e la considerazione del paese e delle persone importanti che con la loro stessa presenza onorano il matrimonio, gli sposi e i genitori degli stessi. L’abitudine delle forze di polizia di filmare i matrimoni i cui coniugi sono sospettati di essere mafiosi o figli di mafiosi importanti o la frequenza con la quale si controllano i partecipanti hanno modificato regole ed abitudini antiche, sicché numerosi capi negli ultimi tempi hanno cominciato a non partecipare direttamente alla cerimonia nuziale e a mandare propri rappresentati. Al matrimonio di un noto mafioso “avevano partecipato, fra le

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migliaia di persone, tutti i padrini della zona di Reggio, della Piana, di Catanzaro. Per la zona di Cutro si era recato in rappresentanza di Grande Aracri Nicolino tale Tonino, portando per conto del primo un regalo da un milione”76.

La situazione di Cutro, l’abbiamo visto, non è delle più tranquille. Il clima è pesante, e non da ora. Da Cutro c’è gente che va via perché la situazione è diventata insopportabile, ma a Cutro c’è anche chi ci fa ritorno pur sapendo che lì la situazione è rimasta quella di prima, soprattutto per chi lavora, fa impresa e guadagna soldi nel campo dell’edilizia. L’intercettazione ambientale su un’automobile tra un imprenditore originario di Cutro che per un certo periodo ha lavorato a Reggio Emilia e il suo interlocutore è davvero illuminante. L’imprenditore “spiega che la zona è ‘controllata’, che la persona che controlla è suo cugino e che questi è un tipo in gamba perché ha determinato un buon equilibrio, diversamente da quanto accade a Gela. Gli spiega inoltre che per lavorare tranquilli occorre versare qualcosa e che, comunque, questo sistema è uno schifo ed è il motivo per cui molta gente va via da Cutro”. Anche lui era tra quelli che aveva scelto di andarsene. Era andato via “giovanissimo, era dovuto andare via dalla Calabria perché aveva incontrato le prime difficoltà nell’esercitare il suo lavoro. Adesso, ritornando a lavorare al Sud all’età di quarant’anni, aveva ritrovato le stesse difficoltà di un tempo e aveva dovuto sottostare ‘a certe regole’, pena la esclusione dai settori lavorativi”. Perché sia tornato è un mistero, ma poco importa. Importa di più la conferma della pesantezza della situazione a Cutro.

Ma le intercettazioni ci svelano una realtà in movimento sotto l’apparente cappa di immobilità che 76 Tribunale di Crotone, sentenza n° 1812 in data 19.12.2003. Processo Scacco Matto, pp.258-259.

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sembra segnare quella realtà. L’automobile, si sa, concilia il colloquio, favorisce i discorsi, sollecita confidenze e incentiva opinioni e giudizi. Proprio in un’automobile due persone parlano e, “in un contesto in cui si discute di estorsioni attuate nei confronti di svariati abitanti di Cutro, si lamentano del fatto che la gente non da più soldi volentieri. Lo faceva più facilmente in favore dei Dragone, anche dopo la carcerazione di Antonio. Insomma, a detta degli interlocutori, il nuovo clan è apparentemente meno forte del precedente. E’ tuttavia evidente la continuità di ruolo e posizione criminale che i parlanti scorgono tra il vecchio ed il nuovo gruppo ovvero tra il vecchio e l’attuale capo. L’assetto della nuova compagine è, ai loro occhi, in via di formazione”77. La conversazione intercettata e le parole dette in libertà, senza alcun controllo, ci dicono una sola cosa: a Cutro Dragone aveva il consenso, gli altri evidentemente no. Non è certo cosa di poco conto per chi ha come criterio guida il controllo del territorio.

Lo scontro nella cosca Dragone.

Le ragioni dello scontro esploso sanguinosamente

nel cuore della cosca Dragone sono evidenti e molto semplici: condannato ad una lunga pena detentiva Antonio Dragone, si apriva uno spazio molto ampio per il comando locale, spazio che a quanto pare cercava di riempire Nicolino Grande Aracri. I collaboratori di giustizia che hanno parlato di Cutro sono concordi nel delineare questo ruolo. Grande Aracri comandava a Cutro – era il “supplente” – quando i Dragone si spostavano al nord. Evidentemente la figura del supplente doveva andargli

77 Tribunale di Crotone, Sentenza n° 1812 in data 19.12.2003. Processo Scacco Matto, p. 235 e p. 212.

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stretta, scalpitava, voleva avere un ruolo più forte, più di primo piano. Ma nella ‘ndrangheta c’è il vincolo familiare che è più forte di tutto e Antonio Dragone aveva familiari molto stretti a cominciare dal figlio Raffaele. Era lui l’ostacolo da eliminare se si voleva assumere il comando a Cutro.

Raffaele Dragone fu ucciso il 30 agosto del 1999. L’importanza di quell’omicidio fu immediatamente avvertita dai carabinieri. In un processo presso il Tribunale di Reggio Emilia il maresciallo Antonio Le Pere confermò i timori avuti dai militari che qualcosa di grosso potesse succedere nell’immediato futuro. Soprattutto c’era la preoccupazione che chi aveva ideato l’eliminazione di un personaggio di quella levatura non si sarebbe fermato perché a quel punto l’obiettivo sarebbe stato “l’eliminazione di quei personaggi che avevano dichiarato apertamente di restare fedeli a Dragone Antonio”78.

Si sospettò che il mandante dell’omicidio di Raffaele Dragone fosse Nicolino Grande Aracri; sospetti, mai certezze perché non fu mai provato che sia stato lui ad ordinare quell’omicidio, tanto meno fu provato in un’aula di tribunale. Ma lo pensarono in molti. Prima di tutti le forze dell’ordine che lo andarono a dire direttamente al vecchio capobastone al quale proposero di fare il collaboratore. E’ stato lo stesso Dragone a raccontarlo il 30 maggio del 2000 in un colloquio “presso il carcere di Solliciano nel corso del quale Dragone riferisce alla figlia ed al genero di aver ricevuto la vista di esponenti delle forze dell’ordine che gli hanno sostanzialmente chiesto di collaborare in relazione alle indagini sull’omicidio del figlio Raffaele, facendogli capire che i sospetti erano caduti sull’imputato Mano di gomma, sospetto già peraltro nutrito 78 Tribunale di Reggio Emilia, Procedimento a carico di Amato Emilio + 3, Udienza del 8 giugno 2005, pp. 24-25.

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dal Dragone”. Il suo pensiero era corso a Grande Aracri, ma un conto è sospettare da solo, un conto è ricevere una visita ufficiale nel corso della quale si materializzano sospetti e valutazioni degli investigatori che propongono al capobastone di collaborare. Non si capisce bene il senso di quella mossa perché occorreva riflettere prima sul fatto che, instillare il dubbio al genitore del figlio ucciso, genitore per di più mafioso, avrebbe potuto portare ad esiti imprevedibili. Di collaborazione manco a parlarne naturalmente.

Dragone tiene per sé l’informazione e ringrazia gli investigatori. Trasmette quanto aveva appreso ai familiari perché è a loro che deve essere comunicata la notizia. E cominciano ad affollarsi nella sua mente pensieri di vendetta nei confronti di Grande Aracri. I giorni diventano sempre più lunghi in carcere e lui li trascorre nei preparativi della vendetta. Vive pensando a quando uscirà da quel luogo e immaginando come realizzare i suoi piani che nel frattempo vanno maturando e precisandosi con il trascorrere dei giorni. La prima cosa importante è mostrarsi forte sia personalmente che come gruppo dei fedeli che sono rimasti al suo fianco. Lo dice alla nuora, cioè la moglie del figlio ucciso: “Ho fatto tre mesi di isolamento come un cane là, figlia mia, e non lo so quanti lo facevano, ‘maniceddra’ è stato là un’ora, due ore e mò che vai gli dici a Salvatore che ho fatto tre mesi di isolamento là, dov'è stato lui prima di partire, deve dirgli, così gli devi dire... a ‘mano’ gli dici che papà ha fatto tre mesi d'isolamento dove è stato lui prima di partire, in quelle celle che lui le conosce come sono ...sono stato chiuso come un maiale...(incomp) ... figlicè... Quello, quando sente che ho fatto tre mesi là, gli si alzano i capelli, figlicè.... e dice

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...come ha fatto a fare tre mesi... tre mesi là”79. Tre mesi di isolamento; un vanto, perché ha saputo resistere più del suo avversario che ha patito solo per pochi giorni la sua stessa pena e sa cosa significhi quell’esperienza; un vanto perché ha saputo dimostrare di essere più uomo del suo nemico, e questo nel linguaggio mafioso ha la sua importanza. E vuole farglielo sapere; per questa ragione incarica la nuora di riferire tutto a Salvatore. Ci penserà poi lui a fare arrivare la voce a Grande Aracri.

Vuole vendetta, vendetta di quelle dure perché non gli basta la morte di Gande Aracri. Per lui ha in mente qualcosa di più atroce, di più subdolo, di più crudele, di più sofisticato; per questo pianifica tutto giorno dopo giorno, come se fosse preso da un’ossessione. Lo dice nel colloquio di Solliciano: “Ma tu pensi che la…la maggiore sofferenza è quando uno muore? Dopo due minuti non vedi più niente, soffri essendo vivo, il dolore, le sofferenze, solo io so quello che ho passato in tutti questi anni, io sai cosa ho pensato in me e me? Lui, com'è messo lui, figlicè, (incomp) oggi è in un cerchio, sanno tutto, solo che non hanno elementi e vogliono la congiuntura come stringere l'anello, io a questo qua, che non glielo auguro mai a nessuno, mi auguro per lui che come lo prendono (incomp) minimo sono trenta. Io lo devo vedere, figlicè, in galera e dopo la famiglia farcela tutta (voce bassa incomprensibile) soffrire giorno per giorno, lo devo privare pure ad andare al colloquio. Quella è la sofferenza più…”. “Io lo devo vedere soffritre giorno per giorno,…figlia mia gli devo far pagare le sofferenze dell’inferno… Non c’è cosa più brutta di quando una persona è privata, quando gli togli il fratello,

79 Tribunale di Crotone, Sentenza n° 1812 in data 19.12.2003. Processo Scacco Matto, pp. 365-367. ‘Maniceddra’, ‘mano’ sono termini che si riferiscono chiaramente a Grande Aracri, soprannominato Mano di gomma.

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il genero”80. Dragone che ha pianto tanti morti della sua famiglia appare disperato e vuole che il suo nemico soffra come lui ha sofferto, vuole infliggergli uno stillicidio quotidiano che distilli la sofferenza goccia a goccia. Per questa ragione non pensa ad uccidere subito Grande Aracri; sarebbe troppo facile per lui.

Antonio Dragone esce dal carcere il 4 novembre 2003. Gli rimangono poco più di sei mesi di vita. Pensa naturalmente di avere molto più tempo davanti a se e comincia ad organizzarsi per mettere a punto la vendetta elaborata negli ultimi, lunghi, interminabili anni prima della scarcerazione. La prima cosa che fa è circondarsi di giovani, in gran parte suoi parenti, come mostrano gli arresti degli anni successivi81. Dragone ha le idee chiare: “ti dico una cosa, se lui non è coinvolto nel fatto di tuo fratello, io non sarei capace di fare del male neanche ad una mosca.., ma se lui è coinvolto, figlia mia, io devo…, figlia mia, gli devo preparare un piatto che rimane nella storia, quello che fa tuo padre deve rimanere nella storia..”; ed alla figlia che cerca di dirgli “lascia stare,.. rimarrà nella storia, mio fratello non torna più.., rimane solo la rabbia”, il Dragone risponde “lo so, quello (farlo tornare in vita) non posso farlo..”. “un uomo morto non soffre più, poi, …quando si trova qua, uno solo della famiglia non glielo lascio, deve soffrire giorno per giorno.., perché quella è la punizione, se lo ammazzi non può soffrire, ha finito di soffrire; lui deve vedere uno per uno, come l’ha visto tuo nonno”82. Che Dragone potesse pensare alla vendetta era

80 Tribunale di Crotone, Sentenza n° 1812 in data 19.12.2003. Processo Scacco Matto, p. 365. 81 Su questo vedi Marco Martignoni, Racket nell’edilizia, sette arrestati, Gazzetta di Reggio, 22 ottobre 2005. 82 Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro DDA, Richiesta per l’applicazione di misure cautelari nei confronti di Abramo Giovanni + 13, 28 febbraio 2005, pp. 27- 29.

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prevedibile. Lo aveva previsto il procuratore Materia quando, qualche mese prima della scarcerazione di Dragone, disse: “Se Antonio Dragone intenderà davvero riappropriarsi della titolarità della cosca ci sarà da stare molto attenti”83.

Per prima cosa ha bisogno di uomini con i quali attuare la sua vendetta e perciò chiama a raccolta i suoi fedelissimi; sono pochi, pochissimi, e in gran parte parenti tra loro. Poi ha bisogno di soldi, di tanti soldi. E allora pensa di spremere i suoi paesani che hanno fatto o stanno facendo fortuna a Reggio Emilia facendo gli imprenditori, gli artigiani o lavorando in molteplici settori per costruirsi un futuro. Questa idea si può materializzare solo chiedendo il pizzo agli imprenditori cutresi perché loro difficilmente rifiuteranno di pagare conoscendo l’importanza del suo nome e sapendo che la sua vendetta, in caso di mancato pagamento, può raggiungere i familiari rimasti a Cutro.

L’idea di Antonio Dragone non aveva certo il dono dell’originalità, anche perché a chiedere il pizzo agli imprenditori c’erano anche gli uomini di Nicolino Grande Aracri. Il dato di assoluto rilievo è il fatto che nel corso dei primi anni del 2000 gli imprenditori di Reggio Emilia sono sottoposti a forti pressioni e vivono un periodo particolarmente difficile. Le inchieste della magistratura hanno accertato che dal 2000 al 2002 gli uomini di Grande Aracri sono gli assoluti padroni del campo, in seguito dal 2003 in poi subentrano i Dragone. Gli imprenditori non sono gli stessi; cambiano, ma hanno una caratteristica comune: sono tutti di Cutro. Sono quattro anni di intensa attività ‘ndranghetista che si manifesta in vario modo e con

83 Per questa dichiarazione vedi Il Crotonese, 26 agosto 2003. Del medesimo avviso anche il suo collega di Catanzaro Salvatore Dolce, Il Crotonese, 22 ottobre 2005. Sui conflitti tra Dragone e Grande Aracri, e sull’impossibilità di una loro pacifica convivenza vedi Il Crotonese, 11 novembre 2005

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varia intensità. Per comprendere quanto è accaduto abbiamo a nostra disposizione una guida preziosa che è depositata negli atti giudiziari della Direzione distrettuale antimafia di Bologna, del Giudice per le indagini preliminari di Bologna, del Tribunale di Reggio Emilia, della Corte di Cassazione, della Corte d’Appello di Bologna. Un procedimento lungo, ancora non concluso, per cui è sempre utili ricordare che le posizioni dei singoli imputati non hanno avuto ancora una conclusione giudiziaria definitiva.

I fatti sicuramente accertati sono molteplici e vanno dai furti alle estorsioni. Ci sono furti di escavatori e di autocarri che colpiscono imprese edili, incendi di bar, di tabaccherie, di ristoranti, e di discoteche; poi ci sono le richieste di denaro, le estorsioni vere e proprie. Gli episodi sono molteplici e negli atti sono descritti ad uno ad uno, con tutti i particolari. Qualcuna delle vittime parla, altre no. Uno che parla è Claudio Braglia, il quale disse di essere stato avvicinato con la richiesta di versare denaro “sul presupposto di essere succeduto nel credito di circa 100 milioni di lire, vantato da terzi nei confronti di Braglia (credito in realtà insussistente)”. Un altro che si rifiutò di pagare fu Roberto Salsi e ne ebbe il locale invaso da fiamme per un incendio doloso causato da bottiglie piene di benzina. Anche i locali della discoteca Amnesia furono incendiati e distrutti. Secondo il pubblico ministero della DDA di Bologna, Elisabetta Melotti “gli indagati avevano predisposto un’organizzazione in grado di perpetrare furti (prevalentemente di automezzi ed in particolare di camions Fiat Iveco Daily) con cadenza quasi quotidiana; essi disponevano di locali ( sia nella propria disponibilità che presso terzi), nei quali occultare i mezzi; avevano strumentazione, grazie alla quale contraffacevano targhe e numeri identificativi degli autoveicoli che,

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successivamente rivendevano; gli indagati si avvalevano dell’organizzazione predisposta anche per perpetrare rapine, per la cui attuazione si servivano dei veicoli dai medesimi rubati e di armi delle quali avevano la disponibilità; gli indagati, inoltre, si avvalevano dell’organizzazione per procurarsi ulteriori profitti, mediante estorsioni, attuate o per percepirne direttamente i proventi, o per incarico di terzi; le estorsioni erano attuale mediante la minaccia di ritorsioni, anche con ricorso con azioni incendiarie”.

Secondo quel magistrato, erano all’opera gli uomini che appartenevano all’organizzazione di Nicolino Grande Aracri. “L’associazione, operante nel territorio di Reggio Emilia (e provincia) conseguiva vantaggi e profitti ingiusti tramite estorsioni nei confronti di gestori di pubblici e privati esercizi (quali bar, ristoranti e circoli di gioco) ed imprenditori; essa aveva, inoltre, organizzato una seriale attività di fatturazione per operazioni (totalmente o parzialmente) inesistenti nei confronti di imprenditori, prevalentemente edili” i quali “corrispondevano in contante le somme, di importo non inferiore all’Iva calcolata in fattura (non versata poi all’ Erario), così da occultare, mediante una diversa apparenza documentale, la causale della dazione del denaro, che gli indagati chiedevano agli imprenditori”84.

C’è una particolarità nelle vicende di quegli anni ed è data dal fatto che è in opera un gruppo familiare, quello degli Amato, originario della provincia di Reggio Calabria. Secondo il pubblico ministero “le indagini dimostrano che i furti non sono l’unica attività illecita a cui sono dediti gli Amato, poiché gli stessi sono coinvolti anche in rapine ( le

84 Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, DDA, Richiesta di applicazione di misura cautelare in carcere nei confronti di Amato Alfredo + 12, 9.1. 2003, pp. 12-19.

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investigazioni permettevano di risalire ad una rapina eseguita e ad altre, solo programmate), per la cui esecuzione hanno anche disponibilità di armi. Le intercettazioni provano inoltre che gli Amato sono inseriti nel contesto della criminalità organizzata calabrese, che opera a Reggio Emilia. Essi non solo fanno furti, ma ricorrono anche ad estorsioni nei confronti dei proprietari, subordinando la restituzione del mezzo sottratto al pagamento di una somma di denaro”. Fatto è che “la loro attività è nota, tanto che ad essi si rivolgono terzi, per recuperare i mezzi, anche se sottratti da altri. L’estorsione è altresì alla base di azioni incendiarie, attuate dagli Amato (o perché direttamente interessati alla riscossione del denaro o perché incaricati da terzi, quali esecutori dell’azione). Le indagini hanno permesso di risalire a due incendi (uno ai danni della discoteca Amnesia ed uno ai danni della srl Salsi)”.

Gli Amato, pur non facendo parte di un’associazione mafiosa, si avvalgono della forza proveniente dai Grande Aracri e ne traggono vantaggi concreti. “La loro attività è ampiamente conosciuta nel reggiano, come testimoniato dalle richieste che ad essi pervengono di restituzione di autoveicoli o di loro intervento per recuperare automezzi di terzi”. Inoltre “gli Amato sono interlocutori di rispetto nell’ambiente della criminalità organizzata reggiana, tanto che ricevono informazioni su rapine da eseguire ed offerte di collaborazione da altri, per la commissione congiunta di reati; gli Amato hanno avuto abituali rapporti con la famiglia Grande Aracri” e con i loro referenti a Reggio Emilia e “rispettano le regole imposte dalla famiglia Grande Aracri; i legami esistenti sono noti ai terzi, se solo si pensa che Amato Alfredo spiega di essersi recato per ambasciate e per ritirare ‘mazzette’ da persone”. E’ convinzione del magistrato che “che gli Amato, nella

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commissione degli illeciti, già usufruiscono della valenza intimidatoria dell’ associazione con cui hanno avuto così frequenti rapporti e con la quale comunque hanno regolato la propria sfera di autonomia operativa nel reggiano. Inoltre, i metodi adottati sono di per sé evocativi di una struttura mafiosa retrostante, per la valenza intimidatoria dell’atto incendiario, specie se reiterato ai danni di più parti lese”.

Ci sono sicuramente episodi singolari come quello del furto di un escavatore commesso in danno di una persona che evidentemente era protetto dai Grande Aracri; ed infatti solo così si spiega il fatto che uno dei responsabili del furto viene urgentemente convocato in Calabria per dare spiegazioni. L’escavatore ritornerà poi nelle mani del legittimo proprietario anche se era stato già venduto e l’acquirente verrà ricompensato con un altro escavatore identico al primo. Il dato sicuramente più interessante è il conflitto latente tra gli associati. Uno si lamenta nei confronti di altri due perché si sono arricchiti con “l’elevato ricorso alle false fatturazioni”85.

Ancor più interessante è la “condizione di confusione creatasi nella famiglia a causa della detenzione del suo capo Grande Aracri Nicolino”. Secondo le intercettazioni effettuate “non si capisce più bene chi comanda a Reggio Emilia”. Il magistrato è convinto che “gli indagati sono affiliati al clan della famiglia Grande Aracri Nicolino, attualmente detenuto” e che “la detenzione del capo famiglia ha provocato una situazione di incertezza e confusione, sia a Cutro che a Reggio Emilia” dove non è ben chiaro chi comandi. In ogni caso, “le indagini hanno dimostrato la sussistenza

85 Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, DDA, Richiesta di applicazione di misura cautelare in carcere nei confronti di Amato Alfredo + 12, 9.1. 2003, pp. 22-24 e p. 126.

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dell’associazione di tipo mafioso”. Pur rimanendo in carcere, “Grande Aracri, inoltre, dà istruzioni in merito alle complessive modalità operative del clan nel reggiano, con particolare riferimento alle fatturazioni per operazioni inesistenti ed al rapporto con i ‘cutresi’, dai quali pretendere denaro”. Governa la sua organizzazione ed “interviene per tutelare gli interessi di persone vicine alla famiglia, se violati ed esercita a tale fine la sua autorità (esemplificativa è la nota vicenda dell’escavatore)”.

L’interesse dell’intera vicenda è anche nel “sistema di false fatturazioni, che Grande Aracri Francesco vuole sia esteso a tutti i cutresi’, così da rendere ancora più debole la possibilità di sporgere denuncia”. Grande Aracri ha decretato che “i cutresi devono pagare l’Iva, con ciò riferendosi alle somme da pagare alla famiglia, contabilmente giustificate come Iva ma non versate all’erario… Il sistema ha una sua particolare efficacia, perché rafforza il potere sulle parti lese, ulteriormente indebolite nella loro possibilità di ricorso alle forze di polizia ed all’autorità giudiziaria”. E’ un sistema ingegnoso. Infatti “i ‘cristiani non possono andare alla legge’. Perché che cosa andrebbero a dire ?’”, commenta uno di loro. Ci sono elevati profitti garantiti da questo meccanismo e “sono la prova della funzionalità del sistema, poiché invertono o comunque alterano il rapporto di profitto, che caratterizza il reato di false fatture, se compiuto con il dolo specifico dell’ evasione fiscale”. Gli uomini della ‘ndrina sollecitano “i vari imprenditori, i quali, pertanto, non aderiscono al sistema in relazione alle esigenze contabili e, quindi, alle loro scelte e necessità di impresa. Il ricorso a varie persone a cui intestare le fatture, inoltre, non muta i destinatari finali dei soldi dell’Iva, ma facilita solo la dispersione delle indagini”. Questa vicenda è particolarmente istruttiva perché dimostra come ci sia, al

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di là degli imprenditori, una rete di persone che accettano le false intestazioni; chi siano queste persone è facilmente intuibile perché devono comunque gravitare nel mondo delle imprese o del commercio per essere in grado, in caso di controlli, di poter giustificare l’emissione di fatture a loro nome. L’area dei soggetti interessati dalle richieste estorsive si allarga e coinvolge un numero imprecisato di soggetti; non è cosa di poco conto.

A quanto pare, “le fatturazioni sono un sistema adottato da tempo”, da tanto tempo tanto da essere “abituale ed organizzato, a dimostrazione dell’ampiezza dell’intervento illecito della famiglia del territorio”. E’ proprio la sua efficacia, già dimostrata, che induce la ‘ndrina “ad estenderla a tutti i ‘cutresi’ che continuano ad essere vittime dei loro paesani mafiosi. Ed, infatti, continua il pubblico ministero Elisabetta Melotti, “uno degli scopi dell’ associazione è l’estorsione ai danni di imprenditori e gerenti di esercizi (siano essi pubblici come il bar River o privati come i circoli per il giuoco d’azzardo). Ancora una volta vittime e carnefici hanno la medesima provenienza; sono cutresi. “L’estorsione avviene quasi esclusivamente ai danni di ‘cutresi’, maggiormente sottoposti alla forza intimidatrice della famiglia (anche per i legami che essi necessariamente hanno con familiari o terzi dimoranti in Calabria, che li rendono ancora più esposti al controllo territoriale del clan)”. La scelta di agire in danno dei cutresi non è certo casuale, perché essa “tende a ridurre il rischio delle denunce”, dal momento che le vittime, avendo i familiari a Cutro, temono una ritorsione a loro danno. Può sembrare una opzione criminale miope, quella di rivolgersi solo ai propri paesani, ma in realtà così non è. Ed infatti “la scelta di operare prevalentemente nei confronti di cutresi (o più genericamente calabresi) non incide sull’estensione territoriale del sodalizio e sulla sua pericolosità, se solo si

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considera che essi formano un’ampia comunità a Reggio Emilia, numerosa e ben inserita, soprattutto nel settore dell’imprenditoria edile, con le conseguenze che ne derivano anche sul profilo dell’inserimento nell’ economia locale della città”. Come sempre capita di vedere in vicende simili a questa, le attività illecite e criminali della ‘ndrina sono finalizzate in parte per le attività generali della ‘ndrina e in parte a reperire i soldi per i carcerati.

“Il ricorso all’ estorsione è modalità abituale di reperimento del denaro” e “la vicenda del bar River ne costituisce chiara prova, perché l’ incendio è appiccato per convincere Lombardo, che non intendeva soggiacere alle richieste di denaro” a pagare per evitare danni ulteriori. “La modalità estorsiva, con ricorso all’incendio, non è certo occasionale; è sufficiente osservare che tra le persone, con le quali gli indagati hanno rapporti economici (per riscuoterne denaro) ve ne sono molteplici che hanno subito attentati o ricevuto intimidazioni”. Pur di ottenere il risultato si usavano modalità d’azione come gli attentati che di solito non vengono praticati nelle realtà del nord e ciò per la ragione – detta altre volte, ma che è bene ripetere per la sua importanza – che la ‘ndrangheta ha sempre cercato di passare inosservata. E invece gli attentati avevano il potere di richiamare l’attenzione degli inquirenti e di far avviare delle indagini. Nelle telefonate che intercorrono tra le persone intercettate, una “dice che occorre fare qualcosa per rendere ‘più morbidi’ nei loro confronti degli imprenditori, per fare loro accettare delle proposte contrattuali (relative ad assunzione o comunque alla stipulazione di contratti anche di lavoro autonomo con persone scelte” dagli uomini della ‘ndrina. Il dato di fondo è che “le vittime degli atti intimidatori tacciono per paura”. E’ la paura che cuce loro la bocca. “I rischi sono evidenti, se solo si pensa alla gravità degli atti intimidatori fatti con

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ricorso agli incendi”. Il fatto ha la sua importanza. “Le richieste estorsive ed i sospetti non sono palesati alle forze dell’ordine; se qualcuno decide di rendere dichiarazioni, ricorre a parziali racconti, idonei a suggerire eventuali responsabilità, senza contemporaneamente fornire gli elementi indispensabili per predisporre un’ efficace risposta di polizia”86. Il quadro è abbastanza chiaro. La paura c’è, e riguarda quello che potrebbe succedere a Cutro, non tanto a Reggio Emilia. Il timore vero, quello che cuce le bocche, riguarda i parenti rimasti a casa. Il Giudice per le indagini preliminari di Bologna, Diego Di Marco, ordina la misura cautelare in carcere il 14 febbraio 2003 contro tutti i 13 imputati indicati dal pubblico ministero. Tra gli episodi più significativi vi è quello relativo alla denuncia di Claudio Braglia che il 16 luglio 2002 era stato oggetto di un attentato incendiario nella sua abitazione. L’episodio è significativo perché chi chiede i soldi non è di Cutro ma della provincia di Reggio Calabria. Braglia aveva avuto problemi con un’impresa in seguito citata in giudizio per inadempienze nell’esecuzione dei lavori. Dopo l’attentato Braglia aveva ricevuto una telefonata, da parte di uno che disse di essere “Amato, quello che abita in v. Tassoni a Reggio Emilia, quello che è venuto tante volte a cercarti e ti sei sempre fatto negare.. io non sono cutrese e so che tu sei amico dei cutresi e dei Carabinieri.. vengo alle spicce.. io ho preso il credito che Falcone Carmelo vanta nei tuoi confronti di cento milioni, sono a conoscenza che è venuto suo figlio Rosario e non gli hai dato nulla, anzi lo hai trattato male..la mia attività è prendere i crediti degli altri e farmi pagare io sono uno che

86 Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, DDA, Richiesta di applicazione di misura cautelare in carcere nei confronti di Amato Alfredo + 12, 9.1. 2003, pp. 132-142. Sul processo denominato Edilpiovra vedi Chiesti 33 anni di galera per Edilpiovra, Il resto del Carlino, Reggio, 7 luglio 2005.

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quando ha una persona che li deve dare me li faccio dare o con le buone o con le cattive”. Il credito vantato era inesistente e forse era solo una scusa per poter allacciare una qualche forma di contatto con una parvenza di credito che mascherasse una brutale richiesta di soldi. “Braglia chiedeva all’interlocutore se fosse stato lui a lanciare le bottiglie incendiarie e l’uomo rispondeva, ridendo: ‘potrebbe essere .. non lo so se sono stato io.. potrebbe essere.. io ho dei documenti che mi ha dato Falcone Carmelo che confermano che gli devi dare cento milioni’; Braglia gli spiegava che la controversia con Falcone era stata decisa e che egli non aveva debiti residui, poiché aveva pagato quanto dovuto. L’ uomo replicava ‘io non vado per vie legali.. anzi voglio avere un rapporto diretto e più sbrigativo .. con le buone o con le cattive e comunque se il credito è inesistente puoi stare tranquillo a dormire bene tu, tua moglie, tua madre e il tuo bambino.. non ti disturberò più’”. Le telefonate non avevano avuto termine con quelle parole. Tempo dopo ne arrivò un’altra, dai toni ancora più perentori. Raccontò Braglia che lo “stesso uomo gli aveva detto: ‘so che mi hai denunciato per tutte le telefonate che ti ho fatto, non mi interessa perché voglio i soldi che mi spettano’; poi aggiungeva: ‘non sono stato io per le due bottiglie incendiarie ma saranno stati i tuoi amici marocchini, tunisini, rumeni, perché so che presti soldi’; Braglia negava e chiedeva di incontrare la persona”. C’è ancora un’altra telefonata che è significativa. E’ ancora “Amato che qualificatosi gli aveva detto: ‘io sono in permesso dal carcere, vediamo quanto poterci trovare perché voglio conoscerti e parlarti... ho i documenti che attestano che tu devi dare dei soldi a Falcone dal quale anche se io non sono iscritto all’albo faccio recupero

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crediti abitualmente e non mi piace che tu vada in giro a dire che mi fai fare 10 anni di galera, parla poco’” 87. Il magistrato accoglie le ipotesi accusatorie formulate dal pubblico ministero e si convince che “tutti gli episodi di estorsione riferiti, attuati da questo o da quel clan, trovano fondamento nell’evocazione della comune matrice mafiosa che governa quel territorio”. Si convince anche che “l’avvicendamento dei vari affiliati nelle mansioni attinenti ad esempio l’esazione, evidenzia la riconducibilità quanto meno ad una approvazione dell’unico vertice incontrastato costituito dalla famiglia Grande Aracri, il cui principale esponente Nicolino è però temporaneamente impossibilitato al concreto esercizio dei poteri di conduzione in quanto detenuto in relazione ad altro procedimento pendente, e solo a tale contingente situazione può attribuirsi quella mancanza di una linea comune ed unanimemente accettata nella molteplicità di direttive spesso in contraddizione tra loro che traspare in molte vicende esaminate ed in numerose conversazioni intercettate, nelle quali gli associati si chiedono chi comandi veramente a Reggio Emilia, e che cagiona contrasti”88.

L’arresto del capo crea problemi, modifica gli equilibri, altera assetti consolidati; era già successo nella cosca Dragone, pare succedere adesso nel gruppo di Grande Aracri. In fondo è la dinamica criminale che conferma un mutamento in atto nelle regole mafiose che ne risultano alterate. Un tempo il capo in carcere continuava a comandare perché il volume di affari e la mole delle

87 Tribunale di Bologna, Giudice per le indagini preliminari, Ordinanza di applicazione di misura cautelare nei confronti di Amato Alfredo + 12, 14 febbraio 2003, pp. 27-28. 88 Tribunale di Bologna, Giudice per le indagini preliminari, Ordinanza di applicazione di misura cautelare nei confronti di Amato Alfredo + 12, 14 febbraio 2003, p. 42.

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decisioni da assumere erano tutto sommato contenuti. Ora non è più così. L’economia corre veloce, e anche gli affari mafiosi hanno una velocità maggiore rispetto al passato. Lo stesso vale per le decisioni da assumere che non sono più quelle di prima soprattutto da quando è stato introdotto l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario che isola i capimafia e ne impedisce – o quanto meno ostacola fortemente – i rapporti con l’esterno. Quelli di fuori inevitabilmente assumono una funzione più dinamica. Il pubblico ministero in data 5 gennaio 2004 chiedeva il rinvio a giudizio di 11 dei 13 imputati89. Il giudizio sarà ancora lungo e, come detto, non è ancora giunto a una definitiva conclusione. C’è ancora da attendere per chi voglia conoscere le conclusioni definitive del processo. Il 16 febbraio 2004 c’è una pronuncia del Gup di Bologna. I reati sono ovviamente gli stessi. L’interesse nostro perciò è relativo soltanto alla valutazione dell’esistenza di una associazione mafiosa. Secondo Gabriella Castore, giudice della udienza preliminare di Bologna, “risulta provata l’esistenza di una cosca mafiosa facente capo alla famiglia Grande Aracri, caratterizzata dall’esistenza di uno statuto con ripartizione di ruoli, da un rituale mafioso per l’iniziazione degli accoliti, dall’esistenza di una gerarchia, di rapporti di copiata e di comparaggio, dal riconoscimento dell’esistenza del clan da parte di altre famiglie mafiose, dall’erogazione di uno stipendio agli associati, dalla forza di intimidazione che propaga dalla associazione stessa e dalla realizzazione di intimidazione (anche nei confronti delle forze dell’ordine) di reati da cui trarre illeciti proventi (estorsioni ed altro). Inoltre risulta un legame tra il clan e il

89 Tribunale di Bologna, procura della Repubblica, DDA, Richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Amato Alfredo + 10, 5.1.2004. Le persone escluse dalla richiesta di rinvio a giudizio erano Carmine Arena e Antonio Grande Aracri.

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territorio di Reggio Emilia dal quale il clan riceve denaro per le finalità proprie dell’associazione ed in particolare per il sostentamento dei detenuti”.

Insomma, anche per quel giudice, “c’è la conferma dell’esistenza di un gruppo collegato a quello operante in Cutro, facente capo alla famiglia Grande Aracri, gruppo che svolgeva la propria attività illecita nel reggiano” dove, però, le cose non filavano lisce come avrebbero dovuto. Ed infatti, da una intercettazione vengono fuori queste parole: “Io non capisco niente a sta Reggio Emilia, Pino!. Quello mi dice che è con quello, quello mi dice che è con quello! Vincenzo dice ‘vedi che è con noi’. Insomma sto bordello del c…. deve finire Pino!.. Ah!.. Io non sono con nessuno Pino! Io porto una bandiera sola: il mio cuore, che gli voglio bene! Sai dove mi sono cresciuto io!”. Ancora una volta la conferma della confusione che c’è nelle fila delle ‘ndrine a Reggio, ma ovviamente al giudice importa di più il peso esercitato dalla presenza oppressiva delle ‘ndrine sugli imprenditori e scrive: “La situazione di un assoggettamento e di omertà che la forza del vincolo associativo provoca nell’ambiente reggiano è evidente. Le vittime degli atti intimidatori tacciono”. O quando parlano minimizzano l’accaduto90. Una successiva sentenza della Corte d’Appello di Bologna del 24 febbraio 2005 arrivava a conclusioni diverse, soprattutto per quanto riguarda la partecipazione di Francesco Grande Aracri, Ottavio Muto e Nicolino Sarcone all’associazione mafiosa che veniva radicalmente messa in discussione91.

90 Tribunale di Bologna, Sezione dei giudici per le indagini preliminari, Sentenza nel procedimento a carico di Amato Alfreto + 5, Sentenza n. 122/04 in data 16.2.2004 91 Tribunale di Bologna, Sezione dei giudici per le indagini preliminari, Sentenza nel procedimento a carico di Amato Alfreto + 5, Sentenza n. 122/04 in data 16.2.2004.

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Come si vede, un’altalena di giudicati che mettono in luce la sensibilità dei magistrati che giudicano sugli stessi fatti. La pronuncia dell’appello finì in Cassazione che con sentenza datata 1 dicembre 2005 modificò quella dell’appello. Secondo il ricorso del Procuratore generale, Francesco Grande Aracri “si era occupato del recupero non come semplice mediatore, ma per affermare il prestigio della ‘famiglia’, trattandosi di strumento sottratto all’azienda del Turrà, protetta dal clan facente capo a Grande Aracri Nicolino”. Inoltre, “quanto al Sarcone, il PG ha dedotto il vizio della motivazione sul rilievo che la Corte di merito non aveva considerato che, se il Sarcone negli ultimi tempi aveva mantenuto una posizione ‘ambivalente’ e non aveva rispettato gli ordine impartiti dai vertici dell’associazione in occasione della vicenda relativa all’escavatore, significava che in precedenza lo stesso aveva partecipato all’associazione, tanto più che i reati per i quali aveva subito condanna erano stati commessi con metodo mafioso proprio per il perseguimento dei fini dell’associazione”.

Infine, sempre secondo il Procuratore Generale “la Corte di merito – oltre a non tenere conto del fatto che i delitti erano stati commessi con modalità che lasciavano desumere l’esistenza della matrice mafiosa – non aveva considerato che i soggetti passivi delle estorsioni erano ‘cutresi’ o di provenienza calabrese, di guisa che erano in grado di percepire la pericolosità dei componenti l’associazione e la forza intimidatrice da essa promanante”. Secondo la Corte di Cassazione il ricorso nei confronti di Francesco Grande Aracri andava accolto. Fratello di Nicolino Grande Aracri interviene nella vicenda dell’escavatore rubato. “L’intervento dell’imputato fu sollecitato, tramite sua moglie, direttamente dal capoclan detenuto, ma anche dal fatto che l’imputato, proprio per

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riaffermare il prestigio della ‘famiglia’ ordinò la restituzione dell’escavatore92.

I giornali locali di Reggio Emilia seguono con comprensibile attenzione le vicende del processo denominato Edilpiovra e tengono costantemente informati i loro lettori. Ne dà una dimostrazione Il Giornale di Reggio che pubblica tre articoli a firma Jacopo della Porta nel 2005. Gli articoli di Della Porta sono in data 7 luglio 2005, 25 febbraio 2005 e 4 dicembre 2005. Anche la Gazzetta di Reggio aveva informato i suoi lettori con un articolo di Tiziano Soresina in data 25 gennaio 2004. Il resto del Carlino fa la sua parte; tra i tanti articoli quelli del 7 luglio 2005 e del 9 luglio 2005.

Un altro processo si instaura a Reggio Emilia con altre sei persone imputate in gran parte degli stessi reati di quelli sin qui descritti per gli altri imputati. Ancora una volta la questione che più interessa è se, secondo quei magistrati, esiste o meno l’associazione mafiosa. Secondo il Tribunale di Reggio Emilia “la questione di fondo non è tanto se vi sia prova di un’associazione in sé riconducibile al tipo normativo dell’art. 416 bis c.p., quanto se quest’ultima sia configurabile nei precisi termini cristallizzati nell’imputazione. Il Pubblico Ministero contesta infatti agli imputati la partecipazione ad

92 Corte suprema di Cassazione, Sentenza sui ricorsi proposti da Procura Generale della Repubblica presso Corte d’Appello di Bologna nei confronti di Sarcone Nicolino + 5, sentenza n. 1238/05 in data 1.12.2005. La Corte di Cassazione “annulla nei confronti di Sarcone Nicolino senza rinvio la sentenza impugnata e la sentenza di primo grado, nonché la richiesta di rinvio a giudizio e dispone la trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna per il corso ulteriore”. Sulla sentenza vedi Jacopo Della Porta, Edilpiovra: processi da rifare, Giornale di Reggio. Ultime notizie, 3 dicembre 2005. Una nuova sentenza della Corte d’Appello di Bologna, sentenza n, 1399/07 del 19.4.2007 conferma la condanna di Francesco Grande Aracri a 3 anni e 6 mesi di reclusione.

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un’associazione mafiosa attiva nel territorio di Reggio Emilia; ora, proprio in base alla prospettazione del radicamento locale dell’associazione, ma anche della sua autonomia da altri sodalizi, il Collegio ha respinto l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata dalla difesa del Grande Aracri. Si tratta ora di verificare se in questi termini la tesi dell’accusa sia fondata. Ebbene, secondo il Tribunale non è emersa la prova dell’esistenza di un’associazione mafiosa che agisse nel reggiano indipendente, libera e svincolata da altre organizzazioni”, e ciò anche perché c’è chi, tra gli associati “deve volare dalla Calabria in Emilia per sanare contrasti e impartire direttive”. Secondo i Giudici del Tribunale “quella di Reggio Emilia appare nulla più che l’emanazione o l’appendice (in quanto tale non autonoma) di un’associazione che ha altrove il suo fulcro, i suoi capi e il suo radicamento” 93.

Le estorsioni dei Dragone prendono il via pochi giorni prima che Dragone lasciasse il carcere. La circostanza emerge dal fatto che le indagini della Procura della Repubblica di Reggio Emilia hanno inizio il 13 dicembre 2003 in seguito all’incendio di tre “macchine operatrici avvenuto nel cortile della concessionaria Domenichini sita in Reggio Emilia”. L’attentato incendiario “ha avuto un ruolo centrale nelle indagini” 94, a conferma del fatto che quando si agisce al di fuori del proprio territorio la ‘ndrina si espone ad indagini penetranti. Ma ben presto la Procura della Repubblica di Reggio Emilia lascia il passo alla Direzione distrettuale di

93 Tribunale di Reggio Emilia, Sentenza nei confronti di Amato Emilio + 5, sentenza n. 613/05 in data 9 luglio 2005. 94 Da ‘vittima’ a protetto del clan, L’Informazione di Reggio Emilia, 26 ottobre 2005 e I killer si costituiscono, Giornale di Reggio, 5 maggio 2006 che ricorda come le indagini siano partiti dopo alcuni danneggiamenti sui cantieri edili. Articoli non firmati.

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Bologna perché ci si accorge subito che i reati che si stanno commettendo hanno una natura mafiosa.

Le indagini vengono condotte dalle squadre mobili di Reggio Emilia e di Bologna, poi nel luglio del 2004 veniva investita la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Le informative delle squadre mobili sono chiare; e sin dall’inizio matura l’ipotesi centrale di tutte le indagini. L’idea è che “subito dopo la sua scarcerazione, il Dragone si sia fattivamente adoperato a ricomporre le ‘fila’ della cosca a lui facente capo al fine di mettere in atto i suoi propositi di ‘vendetta’ nei confronti dell’opposta fazione capeggiata dall’acerrimo nemico Grande Aracri Nicolino. La volontà del Dragone di ripristinare il suo ruolo di ‘capo’ e di dimostrare la sua supremazia non solo nell’ambito del territorio cutrese, a lui da sempre ‘appartenuto’, ma anche nelle propaggini dello stesso, vale a dire nella provincia di Reggio Emilia, si evince da tutta una serie di attività estorsive materialmente poste in essere dai suoi accoliti nella provincia emiliana ma di fatto dirette personalmente dal Dragone da Cutro dove lo stesso provvedeva a rimpinguare le ‘casse’ del clan e permettere di avere a disposizione i mezzi necessari per l’esecuzione dei numerosi fatti delittuosi ascrivibili alla consorteria criminale da lui capeggiata”95.

Adesso occorre munirsi di pazienza e seguire passo passo, seppure sinteticamente, le indagini della polizia di Reggio Emilia e della magistratura di Catanzaro perché in questo modo avremo la possibilità di valutare come si muove un gruppo di ‘ndrangheta in terra emiliana. Ma ne vale la pena perché si apprenderanno molte cose su vicende recentissime sulle quali ancora oggi pende il giudizio del

95 Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro DDA, Richiesta per l’applicazione di misure cautelari nei confronti di Abramo Giovanni + 13, 28 febbraio 2005, p. 34.

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tribunale di Catanzaro e anche perché avremo più informazioni sugli atteggiamenti dei mafiosi e su quelli delle vittime. Tutto questo, è bene ripeterlo, è stato possibile grazie all’iniziale attività d’indagine della polizia e della magistratura reggiana.

Il procuratore Italo Materia ha descritto con parole ad effetto il senso più profondo dell’attività delle ‘ndrine a Reggio Emilia: “Reggio è il salvadanaio della ‘ndrangheta”. Parole chiare, non c’è dubbio, che sono utili a far comprendere come le cosche puntassero sulla ricca realtà imprenditoriale di Reggio Emilia per ricavare denaro contante, quello che gli serve per le attività minute e più urgenti. “Le cosche sanno bene chi sono i parenti, amici, conoscenti che qui da noi hanno fatto fortuna e li considerano il loro privato mobiletto della provviste, da cui cavare periodicamente soldi. Reggio per le cosche cutresi è una sorta di pozzo senza fine. A Reggio lavora e prospera tanta gente di Cutro che, ogni tanto, viene a pagare il suo ‘tributo di sangue’ ai clan. Insomma, un grosso salvadanaio da cui prelevare quattrini, tanti quattrini”. Siamo a fine ottobre del 2005 e le parole del procuratore sono importanti perché, oltre al fatto economico, esse sottolineano un altro aspetto legato al mutamento di strategia delle cosche in territorio reggiano che nel passato, fino ai tempi di Bellini, avevano avuto modo di insanguinare le strade reggiane. Da allora qualcosa è cambiato perché adesso “i conti li regolano in Calabria. A Reggio cercano liquidità, aziende che possono alimentare le cosche, il tutto in un clima di omertà che non è facile da spezzare”96. Il fatto è che lo scontro cruento si svolgeva a Cutro, mentre a Reggio 96 Tiziano Soresina, “Reggio salvadanaio della ‘ndrangheta”, Gazzetta di Reggio, 22 ottobre 2005. L’espressione del procuratore è ripresa anche da Il Crotonese, 25 ottobre 2005. Vedi anche Il procuratore Materia e il legame Sud-Nord “Bussano da noi quando hanno bisogno di soldi”, Il Resto del Carlino, Reggio, 11 novembre 2005.

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Emilia c’era un altro tipo di scontro – non cruento, perché non scorreva sangue lungo le strade – per accaparrarsi il pizzo degli imprenditori cutresi.

L’incendio della concessionaria Domenichini “era sicuramente di natura dolosa, poiché era stata rinvenuta sul luogo una grossa tanica vuota, dalla quale emanava ancora odore di benzina. In ordine all’evento criminoso venivano avviate le prime indagini anche attraverso servizi di intercettazione telefonica il cui spunto traeva origine dagli elementi forniti dall’amministratore della concessionaria. Quest’ultimo riferiva di essere stato contattato da Silipo Antonio, il quale gli aveva chiesto di non fornire lavoro” ad un operaio. “La richiesta non era stata accolta, cosi che l’incendio poteva verosimilmente spiegarsi quale atto intimidatorio o ritorsivo. Le intercettazioni dell’utenza in uso a Silipo permettevano di risalire ad altri calabresi, componenti della famiglia” Dragone. “Silipo è titolare di impresa, la cui attività consiste nella fornitura alle imprese edili di materiale inerte, alla cui consegna nei cantieri provvede tramite propri autisti (l’impresa dispone di circa trenta camion, come dice lo stesso Silipo nell’intercettazione). Le telefonate dimostravano che Silipo aveva subito nell’ultimo periodo una riduzione nell’attività, la cui causa egli individuava proprio nella contestuale espansione sul mercato reggiano della Srl Artedile, attuata anche con il ricorso a metodi intimidatori” come affermava la Squadra mobile. Ci sono alcune telefonate tra Silipo e un altro imprenditore che sono particolarmente significative. “Silipo continua a lamentarsi del fatto che Artedile gli abbia rubato i clienti” e l’imprenditore “manifesta il suo stupore per il fatto che un’impresa con un solo camion (l’Artedile) possa avere tanti clienti”. Ma il perché è chiaro a Silipo: “Le persone si spaventano di loro e si servono di loro”. L’amministratore dell’Artedile era Salvatore Arabia

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e dopo la sua morte il 20 agosto 2003 era stato sostituto dal fratello Giuseppe97.

Cos’era successo esattamente? “I fatti coinvolgono tre operai dell’Artedile, i quali avevano effettuato alcune ore lavorative per conto di Silipo Antonio, per spalare la neve. Il problema deriva dalla mancata preventiva autorizzazione di Arabia, che si offende per l’autonoma iniziativa dei suoi dipendenti e per la mancanza di rispetto che Silipo ha mostrato. Arabia, quale prima reazione, licenziava gli operai ed avvisava Silipo di non avere con essi rapporti”. Arabia fece qualcosa di più: avvertì il vecchio Dragone della mancanza di rispetto da parte di Silipo. E’ una telefonata importante intanto perché mostra la dipendenza di Arabia da Dragone, e poi perché ci mostra un Dragone in piena forma, che entra in attività subito, senza perdere tempo.

Il ruolo del vecchio Dragone, appena uscito dal carcere, continua ad essere fondamentale. Il suo intervento produce subito cambiamenti, la situazione si mette in movimento. Arabia telefona a Dragone e lo avverte del comportamento scorretto di Silipo il quale “non avrebbe dovuto accettare la proposta di lavoro dei tre, ma avrebbe al contrario dovuto avvisarlo e chiedergli il permesso”. Dragone, dopo appena due minuti, telefona a Silipo e gli chiede di chiarirsi con Arabia. A quel punto Silipo chiama Arabia e lo informa della telefonata intercorsa tra lui e Dragone. Arabia per chiarire la vicenda, invita Silipo nell’ufficio, ove, alla presenza dei tre operai, avrebbe dovuto compilare l’assegno, per il pagamento del loro 97 Per la morte di Salvatore Arabia, ucciso nella frazione Steccato di Cutro, è stato accusato come mandante Nicolino Grande Aracri. Il tribunale dei riesame di Catanzaro ha escluso questa circostanza ed ha escluso che Nicolino Grande Aracri sia il mandante dell’omicidio. Vedi Antonio Anastasi, Delitto Arabia senza mandante, Il quotidiano, 13 dicembre 2007.

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lavoro, intestandolo allo stesso Arabia, anziché ai tre lavoranti”, a pubblica conferma che il capo era Arabia e che loro erano privi d’autonoma iniziativa. Secondo il magistrato di Catanzaro Salvatore Dolce “le risultanze investigative sopra esposte, non consentono di ritenere configurabile una fattispecie estorsiva, essendovi indizi, da reputarsi però non ‘gravi’, della costrizione di Silipo Antonio, alla cessione di sub-appalti all’Artedile o, comunque, al versamento di somme di denaro”.

L’ipotesi di reato, come s’è già detto, a noi importa poco. Importa molto di più notare il ruolo del vecchio Dragone e la lezione che lo stesso impartisce ad Arabia il quale è particolarmente infastidito della mancanza di rispetto da parte di Silipo. “Dragone invita Arabia a ridurre la sua reazione e spiega che egli, a Cutro, sta dando lavoro a tutti quelli che glielo chiedono (‘le persone che non hanno un lavoro, sto facendo di tutto per farli lavorare… chi viene a piangere non mi interessa io gli faccio trovare un lavoro’); invita Arabia a lasciare che i tre lavorino per altri, anche se ribadisce che Silipo, se lui avesse insistito, non li avrebbe più fatti lavorare; aggiunge che, se Arabia avesse impedito ai tre di lavorare anche per altri, dopo averli licenziati, avrebbe perso il ‘rispetto’ della comunità cutrese”. E nella logica criminale quel rispetto è un fatto cruciale, determinante. Occorre sempre tenere a mente questo fatto se si vogliono comprendere i fatti di mafia, altrimenti si comprende poco o nulla di quanto accade in quel mondo. “Dragone concorda con Arabia sulla necessità di una punizione per gli operai, ma precisa che il loro comportamento ne giustifica solo una ‘piccola’, della cui esecuzione si rende garante”. Quello che viene fuori è il quadro di una ‘ndrangheta tradizionale, di un capobastone che “interviene per risolvere i problemi, cercando di

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perdonare e di fare del bene”. Insomma, risolve quei problemi “che lo Stato non riesce a risolvere”98.

Ma c’è anche dell’altro; emergono con estrema nettezza e brutalità una concezione proprietaria degli operai e la concezione abnorme del rispetto preteso. E poi – ed è la cosa più inquietante di tutte le altre cose emerse – c’è la presenza di Dragone che incombe a Reggio Emilia pur rimanendo a Cutro. Comanda dalla Calabria, ma è come se si aggirasse per le vie di Reggio Emilia; lui ordina – con la raffinata tecnica di dare consigli – e gli altri eseguono.

Ci sono altre forme più subdole per imporre le estorsioni – meno facili da individuare per gli inquirenti – e consistono nell’imporre all’imprenditore edile di far cedere subappalti ad una certa ditta. Appalti invece di soldi in contanti. Si lasciano meno tracce e le tracce eventualmente trovate possono avere una plausibile spiegazione diversamente da quanto succede per un passaggio di danaro. E’ quanto è capitato ad un imprenditore che fu avvicinato in un modo del tutto particolare. Una prima telefonata arrivata in azienda dice: “io sono di Cutro… praticamente voglio sapere l’ufficio dov’è… vengo e vi trovo per portarvi un’imbasciata”. L’ignaro telefonista che risponde informando l’interlocutore che il titolare non c’è si sente dire: lo voglio incontrare… capito? E gli devo portare i saluti di una persona”. Dire ad uno di Cutro: “io sono di Cutro”, è come mostrare la propria carta d’identità.

L’episodio sicuramente più interessante è quello relativo a Giuseppe Ruggeri, procuratore generale della srl Ruggeri costruzioni generali con sede in Reggio Emilia. A

98 Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro DDA, Richiesta per l’applicazione di misure cautelari nei confronti di Abramo Giovanni + 13, 28 febbraio 2005, pp. 38-44.

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telefonare è Giuseppe Arabia dicendo all’imprenditore che deve comunicargli “delle cose che non posso dirti per telefono”. L’incontro viene subito fissato senza che venga “chiesta alcuna spiegazione sulle ragioni dell’appuntamento, quasi a dimostrare la consapevolezza, da parte dell’imprenditore, di quale possa essere l’argomento da ricondurre al ‘contatto’ avuto con ‘il fratello di Turu’”99. Arabia fa una telefonata ancora più importante ed interessante con la quale manifesta con estrema chiarezza una sua ritrosia, una sua intima convinzione dell’inutilità del passo che sta per compiere. Telefona al vecchio Antonio Dragone e lo mette in guardia in modo esplicito: “vedi che questo qua, zio Totò, che vi avviso, questo qua è cresciuto qua a Reggio, hai capito zio Totò”; Dragone domanda:”e va bene che vuol dire questo?” ed Arabia spiega: “no, perché non voglio fare la scostumatezza a voi, ha capitò?..... Zio Totò, io vi dico sempre le cose come sono …....se uno è cutrese che so che la pensa alla cutrese è un conto…ma se uno che è reggiano, perché questo qua, parecchie volte ha cominciato magari ad offendere un poco, hai capito?..... che parla un pochino alla reggiana, hai capito…… cercate di capirmi…… a me le persone che parlano un po’ alla reggiana poco mi stanno bene..; ha capito?”; Totò risponde di saperlo”100.

La telefonata è di estremo interesse e la sua importanza è annotata e commentata dal pubblico ministero Salvatore Dolce in questi teermini: “Arabia fa un commento per spiegare che Ruggeri, a tale richiesta, potrebbe avere una reazione imprevista, in quanto, anche se di Cutro, ha ormai acquisito una mentalità reggiana. Arabia teme, perciò, che Ruggeri si comporti diversamente dagli

99 Turu in dialetto calabrese significa Salvatore. 100 Su questo vedi Giovanni Vignali, ‘Ndrangheta, pressing su Ruggieri, Giornale di Reggio. Ultime notizie, 23 ottobre 2005.

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altri imprenditori cutresi e non accondiscenda alle richieste, perché orami troppo radicato nel contesto emiliano. E’ evidente che il timore manifestato da Arabia costituisce una conferma implicita dell’esistenza di una diffusa soggezione da parte degli altri imprenditori cutresi, operanti nel reggiano, alle richieste di denaro a favore del clan Dragone. Il probabile difforme comportamento di Ruggeri è infatti presentato come un’eccezione, della quale Arabia non vuole assumersi la responsabilità”. E’ probabile anche che Arabia manifestando la sua ritrosia a parlare con quell’imprenditore tema il contagio perché se si dovesse conoscere in giro il diverso comportamento di Ruggeri potrebbe spingere altri imprenditori a comportarsi allo stesso modo. Le telefonate non finiscono qui. Arabia dopo essersi incontrato con Ruggeri riferisce nuovamente a Dragone le circostanze che erano emerse e che segnalavano un problema di un certo rilievo per i Dragone. L’imprenditore era stato avvicinato da un’altra persona che si era presentata a nome dello stesso Dragone. Il fatto non è irrilevante perché il capobastone non aveva autorizzato nessuno a parlare in nome proprio, e perciò si irrita di quanto è successo.

Le telefonate rivelano un personaggio singolare. Dragone continua ad abitare a Cutro – dopo tanti anni forse vuole godersi il paese che gli ha dato i natali – ma è come se fosse a Reggio Emilia. E’ costantemente informato di quanto accade. Sa presso quali imprenditori i suoi emissari andranno a battere cassa, conosce in tempo reale la loro risposta e interviene immediatamente dando consigli oppure telefonando lui direttamente, parlando con l’imprenditore e cercando di dirimere le controversie. E’ convinto che basti un suo intervento per mettere a posto le cose. Sono passati molti lustri da quando era una persona libera; molti di quegli imprenditori non li conosce

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personalmente, sono loro a conoscerlo di nome e di fama e secondo lui, tanto basta. Ne è convinto anche nella vicenda di Ruggeri tanto che, di fronte alle resistenze dell’imprenditore ‘che pensa alla reggiana’ “dice all’Arabia di riferirgli che lo avrebbe messo in diretto contatto con lui, anzi, di chiamarlo, quando si trovava insieme a lui, così avrebbe potuto parlargli personalmente, evidentemente ben consapevole della propria capacità intimidatoria, sicuramente superiore a quella dell’Arabia”. Dalle telefonate, però, Dragone appare in affanno, sembra essere in difficoltà, sembra uno che ha bisogno disperato di soldi per riorganizzare la cosca oppure, come in questo caso, perché vuole comprare dei loculi al cimitero di Cutro; c’è un’occasione e non vuole che gli sfugga, per questo chiede 15.000 euro101; almeno così dice lui, ma può benissimo essere un pretesto.

Arabia non si sbagliava sul conto di Ruggeri – a sbagliarsi era il vecchio Dragone – perché l’imprenditore il 19 ottobre 2007 testimoniò davanti al Tribunale di Crotone confermando, su domanda del pubblico ministero Dolce e sul controesame dell’avvocato Rotundo, il discorso avuto con Arabia. Raccontò di un pregresso rapporto di lavoro avuto con Salvatore Arabia che avrebbe fatto una truffa a suo danno. “Salvatore Arabia andò senza giustificato motivo e senza autorizzazione a prelevare 20 milioni di lire di materiale in un magazzino edile di Reggio Emilia” facendo intestare la fattura a nome di Ruggeri. Ne nacque una lite, volarono parole pesanti e forse anche delle minacce, tanto che Ruggeri avvertì la questura di Reggo Emilia di quanto era successo. E’ probabile che Giuseppe

101 Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro DDA, Richiesta per l’applicazione di misure cautelari nei confronti di Abramo Giovanni + 13, 28 febbraio 2005, pp. 47-52. Su questo episodio vedi Tiziano Soresina, “Paga, devo acquistare otto loculi” , Gazzetta di Reggio, 23 ottobre 2005.

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Arabia fosse a conoscenza di questo episodio e perciò, diffidente di uno che aveva l’abitudine di rivolgersi alle autorità invece di risolvere altrimenti le questioni, aveva messo in guardia lo zio. Inutilmente, come s’è visto. Ruggeri davanti al tribunale conferma la richiesta di denaro da parte di Dragone tramite Arabia. Le domante e le risposte tra l’avvocato difensore e l’imprenditore sono di piena evidenza: “Dichi. Ruggeri G: La richiesta mi fu fatta de visu. Avv. Rotundo: Quindi c’è stato un incontro. Dich. Ruggeri G.: Assolutamente si, quando venne in ufficio da me. Avv. Rotundo: cosa le chiese Arabia Giuseppe? Dich. Ruggeri G: i 30 milioni. Avv. Rotundo: per conto di chi? Dich. Ruggeri G: Antonio Dragone. Avv. Rotundo: ma Arabia Giuseppe le disse anche la motivazione di questa richiesta? Dich. Ruggeri G: no, disse che ci volevano i 30 milioni e stop. Era un ambasciatore in quel momento”.

Ruggeri era andato via da Cutro da oltre 40 anni, esattamente dal 1963, e faceva ritorno al suo paese d’origine ogni tanto quando ne aveva voglia. Non conosceva Antonio Dragone e alla domanda dell’avvocato se dopo la morte di Antonio Dragone avesse ancora ricevuto richieste di denaro rispose “Assolutamente no”102.

102 Tribunale di Crotone, Procedimento a carico di Dragone Antonio + 6, udienza del 19 ottobre 2007. Il processo, come s’è detto, è ancora in corso e dunque le responsabilità penali sono ancora tutte da accertare. Sul comportamento di Ruggeri, personaggio molto noto a Reggio Emilia e presidente dello Spezia calcio, vedi Mike Scullin, i costruttori si ribellano “Ora basta, ecco perché diciamo no al racket”, Il Resto del Carlino, Reggio, 11 novembre 2005 e Jacopo della Porta, Pino Ruggeri: mi hanno chiesto il pizzo, Giornale di Reggio, 20 settembre 2007.

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Le intercettazioni, da questo punto di vista, sono impressionanti ed istruttive perché mostrano il declino di un gruppo familiare un tempo ricco, potente, riverito, temuto. E’ il crollo di una potenza. Gli imprenditori non lo sanno, e non sanno che non c’è più la potenza di un tempo. Il nome di Dragone fa ancora paura e ha la forza di piegare le resistenze.

Non tutti gli imprenditori sono uguali ovviamente; ci sono vittime e vittime, c’è chi reagisce e chi subisce non essendo capace o non avendo la forza di opporsi alla pressante richiesta estorsiva103. E’ il caso di un imprenditore che non riesce a soddisfare la richiesta di versare 15.000 euro perché non ha liquidità dal momento che alcuni suoi creditori non hanno pagato quanto dovuto. La vicenda si sviluppa per più settimane. L’imprenditore chiede di dilazionare il pagamento impegnandosi a pagare quando a sua volta sarà pagato. Il rappresentante di Dragone insiste in ogni modo perché l’imprenditore paghi subito dicendogli che la stessa richiesta è stata avanzata a tutti gli imprenditori e che tutti stanno pagando. Forse millanta, ma non c’è modo di saperlo. E in ogni caso per la vittima non c’è un problema di verificare l’esattezza dell’affermazione perché è convinto di pagare. Il suo è solo un problema di tempi. Non è in discussione se pagare, ma quando pagare. Il comportamento dell’imprenditore è di uno che spiega – non può pagare perché non è stato pagato – e si piega assicurando il pagamento appena potrà. “Nel dialogo vi sono, inoltre, plurimi richiami al ricorso a fatturazioni per operazioni inesistenti (integralmente o parzialmente), quale modalità già adottata in passato per erogare denaro al clan, previa creazione di una falsa giustificazione contabile”. 103 Sul comportamento degli imprenditori e sulle loro testimonianze durante il processo vedi Il Crotonese, 21 settembre 2007.

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Dunque, i Grande Aracri e i Dragone usavano la stessa tecnica della falsa fatturazione. Non c’è da stupirsi vista la stessa provenienza criminale anche se le circostanze della ‘ndrina li avevano portati a farsi la guerra. Ma, al di là delle giustificazioni dell’imprenditore che ha i suoi affari a Reggio Emilia, quello che è importante è la risposta che viene data a questa richiesta di dilazioni, “la sotto hanno bisogno… hanno altre teste”. La situazione tra Cutro e Reggio Emilia è diversa, lo si capisce dalla reazione di chi deve incassare perché è pressato. “A me interessano i problemi di giù e non questi di qua.. i soldi sai quanto ne guadagnamo …sai quanto guadagno .. a me interessano le cose di sotto cugì.. mi interessano assai assai le cose di sotto’’. L’estortore mette fretta e teme il giudizio sul suo operato. Dragone, inizialmente, concede la proroga; continua a fare la figura di chi è disponibile, non fa la faccia feroce, cerca di mostrarsi comprensivo dell’altrui difficoltà. Ma poi ad un certo punto stringe i tempi e vuole i soldi subito. Il 9 maggio 2004 Dragone viene informato che l’imprenditore ha ricevuto l’ultimatum: “i soldi dovuti li dovrà pagare” e senza più scuse. E’ l’ultima notizia che si ha della vicenda. Il giorno dopo Dragone sarà ucciso e la questione non avrà più seguito. “Non è un caso che il Dragone decida di stringere i tempi proprio il giorno precedente all’omicidio; evidentemente, si era reso conto che i suoi nemici erano pronti a sferrare un nuovo attacco, e voleva farsi trovare pronto, per cui aveva necessità di denaro contante. Non ne ha avuto il tempo”104: così annota il pubblico ministero della DDA di Catanzaro. Il vecchio capobastone forse aveva intuito quanto stava per succedergli, aveva preso le sue precauzioni ma neanche

104 Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro DDA, Richiesta per l’applicazione di misure cautelari nei confronti di Abramo Giovanni + 13, 28 febbraio 2005, pp. 54-59.

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l’auto blindata – nonostante il “livello di blindatura massimo” – era riuscita a fargli da scudo di fronte alla potenza omicida dei suoi avversari105.

Giovanni Vignali ha fatto una vivida descrizione sull’assassinio di Antonio Dragone: “il capomafia tornato a casa, il bidello di Cutro condannato per omicidio volontario, associazione a delinquere, porto abusivo d’arma e spaccio di droga, ha tentato la mossa della disperazione: ha aperto la portiera e si è gettato a rotta di collo in una scarpata. Una via di fuga senza speranza, che non lo ha protetto dalla feroce determinazione di chi aveva il compito di eliminarlo. Pare che lo abbiano finito con un colpo in fronte, dopo averlo crivellato durante una rincorsa a precipizio di una cinquantina di metri al massimo”. Gli ultimi passi fatti, per poi rimane immobile per l’eternità. L’ultima uscita pubblica era stata a Reggio Emilia quando depose durante il processo contro Bellini negando tutto e sostenendo persino che non esistevano le guerre di ‘ndrangheta106.

Non è l’unica estorsione ad essere interrotta per la morte del capobastone. Ve ne sono altre. Tra esse quella ai danni di un’impresa che vende “prodotti ceramici ed affini per pavimenti e rivestimenti”. A telefonare è lo stesso Antonio Dragone il quale preannuncia direttamente all’imprenditore la visita di una persona di fiducia. La conoscenza è diretta, Dragone non ha bisogno di intermediari. L’imprenditore è in difficoltà e chiede una

105 La Lancia K blindata sulla quale viaggiava Dragone era intestata a Pasqualino Arabia, legale rappresentante dell’Artedile. Su questo vedi Jacopo Della Porta, Nuovo blitz contro le cosche, Giornale di Reggio ultime notizie, 11 novembre 2005 e Il Crotonese, 11 novembre 2005. 106 Giovanni Vignali, Trucidato Antonio Dragone, il boss, Ultime notizie. Reggio, 11 maggio 2004.

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dilazione nel pagamento: “nel giro di venti giorni secondo me qualche cosa si può fare… non c’è problema”107.

Leggendo le intercettazioni e seguendo i discorsi si ha la netta impressione che il pizzo sia come una sorta di diritto d’esazione che il cutrese Dragone si arroga su quegli imprenditori per il solo fatto che sono originari di Cutro. Non c’è altro motivo per cui debbono essere vessati solo i cutresi e non altri imprenditori di Reggio Emilia. Questa modalità è dimostrata da una telefonata che Dragone fa ad un imprenditore che conosceva da tanto tempo, da oltre quindici anni. E dopo quindici anni l’imprenditore, che inizialmente non riconosceva la voce del suo interlocutore, accetta le richieste di Dragone di dare lavoro alla Artedile e di acquistare mattonelle da altri imprenditori da lui indicati. Tutto ciò era finalizzato a “garantire all’Artedile il dominio assoluto nel settore edile di quella città e, comunque, reperire fondi per le necessità associative contattando gli imprenditori”108.

Le vicende giudiziarie, come si sa, sono spesso molto complesse, a volte sembra una corsa ad ostacoli. A questa regola non sfuggono certo quelle che abbiamo appena esaminato. E infatti, dopo la richiesta del pubblico ministero di misure cautelari, il Gip di Catanzaro nel mentre accoglieva le richieste solo per due imputati, per gli altri esprimeva dubbi e chiedeva al pubblico ministero di valutare la possibilità che quelle telefonate potessero sottendere rapporti economici del tutto leciti e non di natura estorsiva, sicché si rendeva necessario ascoltare le persone offese. Il pubblico ministero Salvatore Dolce nella

107 Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro DDA, Richiesta per l’applicazione di misure cautelari nei confronti di Abramo Giovanni + 13, 28 febbraio 2005, pp. 61-65 108 Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro DDA, Richiesta per l’applicazione di misure cautelari nei confronti di Abramo Giovanni + 13, 28 febbraio 2005, pp. 67-69 e p. 74

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seconda metà del mese di ottobre del 2005 interrogava le persone offese ed acquisiva ulteriori elementi di prova a carico degli indagati. Una cosa appariva chiara sin dall’inizio e il magistrato catanzarese la metteva subito in evidenza: gli imprenditori “hanno paura di riferire condotte criminose mantenute dai soggetti ancora in vita ed operanti in Reggio Emilia, mentre hanno minori difficoltà a riferire delle condotte mantenute dal vecchio e temuto boss, perché deceduto”109. La situazione era certamente mutata perché gli imprenditori erano disponibili a parlare di Antonio Dragone, anche se continuavano ad avere timore degli altri.

Un imprenditore disse che il suo socio era stato ”contattato da Dragone Antonio il quale gli chiedeva di corrispondere un contributo a fondo perduto (!!!) in quanto era appena uscito dal carcere ed aveva bisogno di denaro..”. Il socio “aveva corrisposto 2 o 3 mila euro, in quanto, dato il tipo di personaggio, non poteva rifiutarsi..”. Interrogato dal pubblico ministero Dolce rispose: “Ribadisco che il Dragone in una delle tre circostanze che mi ha telefonato, mi ha espressamente detto: “siccome sono uscito da poco dal carcere vedete se potete darmi un piccolo contributo, in quanto c’è bisogno”. Avendo io chiaramente capito che il Dragone si riferiva a somme di denaro, gli rispondevo dicendo che da li a breve avrei visto cosa potevo fare per lui. Ho cercato di prendere tempo in modo da ritardare il più possibile la dazione della somma di denaro a favore del Dragone”. Prese tempo, ma non disse di no. La tattica dell’imprenditore, a quanto pare, funzionò e la somma non fu mai versata “in quanto il Dragone è stato ucciso. Sono a conoscenza, per averlo appreso da voci che circolavano in Reggio Emilia, che più

109 Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro DDA, Richiesta per l’applicazione di misure cautelari nei confronti di Dragone Antonio + 5, 3 novembre 2005, p. 15.

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imprenditori erano stati contattati dal Dragone a cui quest’ultimo faceva le medesime richieste che aveva avanzato nei miei confronti”. Dunque, la voce circolava a Reggio Emilia; gli imprenditori ne parlavano tra di loro, facevano commenti, cercavano di capire come regolarsi, quale fosse il modo migliore di comportarsi. “Non è mia abitudine rendermi disponibile ad elargire somme di denaro a favore di chiunque, mi sono reso disponibile nei confronti del Dragone solo perché lo stesso, nell’ambiente Reggiano, era conosciuto come persona appartenente ad ambienti criminali”.

Commenta il pubblico ministero: “gli imprenditori contattati – nessuno dei quali aveva debiti economici da saldare con il Dragone – erano tutti perfettamente consci della capacità criminal-mafiosa di quest’ultimo, e del perché lo stesso facesse quelle richieste”. Lo dimostrava un imprenditore che ha riferito di “aver rinunciato ad una propria legittima pretesa economica – pari a 240.000 euro – nei confronti di Arabia Giuseppe, in quanto consapevole del contesto al quale appartenevano gli Arabia, preferendo interrompere ogni contatto, per non dovere subire altri inconvenienti”. Il commento del Pubblico ministero è eloquente: “Non si ha alcuna difficoltà a cogliere in tale situazione il connotato tipico della mafiosità, vale a dire la capacità, per il mafioso, di imporre il proprio volere, senza profferire alcuna, neanche implicita, minaccia”110.

Non tutti gli imprenditori ammettono di aver ricevuto richieste da Dragone. Due di questi hanno “negato di aver mai ricevuto richieste di denaro, sia direttamente che indirettamente, dal defunto Dragone Antonio”. Di estrema importanza è la vicenda di Antonio Silipo, un

110 Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro DDA, Richiesta per l’applicazione di misure cautelari nei confronti di Dragone Antonio + 5, 3 novembre 2005, pp. 17-19

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imprenditore edile che ha una ditta che fornisce alle imprese materiale inerte che consegna direttamente nei cantieri con propri autisti. Il suo racconto – descritto nell’interrogatorio davanti al pubblico ministero di Catanzaro – parte da un fatto ben preciso: “Arabia Salvatore, oggi deceduto, persona con la quale non aveva avuto rapporti, gli chiedeva di cresimare il figlio Giuseppe”. La proposta fu accettata perché, dice l’imprenditore, “ho conosciuto Dragone Antonio morto ammazzato lo scorso anno, il Natale di due anni fa, anche se lo conoscevo di fama essendo io di Cutro. Anche se non lo conoscevo direttamente prima di allora, quando lui era in carcere, conoscevo Arabia Salvatore morto anche lui ammazzato alcuni anni fa. Io con questi non avevo mai avuto rapporti fino a quando proprio Arabia Salvatore mi veniva a chiedere di cresimare il figlio Giuseppe. Premetto che nelle mie zone di origine allorquando propongono di fare il cosiddetto ‘Sangiovanni’ non è usanza rifiutare, in quanto tale fatto esporrebbe colui che è stato invitato ad una sorte di discredito nella comunità e, poi, conoscendo il soggetto ed i suoi legami con certi ambienti, mai avrei rifiutato in quanto sicuramente sarei stato oggetto di ritorsioni da parte sua, direttamente oppure indirettamente. Tali riflessioni nascevano dal fatto che io, come detto, dispongo di automezzi ed il solo pensiero di subire danneggiamenti mi inducevano ad accettare l’offerta”. L’imprenditore ben presto comprese come mai gli era stata avanzata quella richiesta. “Il tempo mi illuminava circa quelle che erano le vere intenzioni di Arabia Salvatore nel chiedermi di fare da padrino al figlio. In pratica egli gestendo direttamente una ditta operante a Reggio Emilia nel mio stesso settore denominata Artedile nella quale lavoravano e tuttora lavorano i suoi fratelli Giuseppe, Antonio e Pasqualino, approfittando del cosiddetto

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‘sangiovanni’, pian piano stava subentrando nei cantieri dove io da anni lavoravo. Provvedeva egli a fornire di materiale inerte in molti miei cantieri, intendo significare i cantieri dove io fornivo il medesimo materiale, utilizzando metodi poco corretti. Sostanzialmente egli mandava i suoi operai con il materiale ed informava gli imprenditori che era lui ad occuparsi di tali forniture”.

L’imprenditore si lamenta della situazione che si è venuta a creare anche perché subisce un grave danno: “Io non ho mai preso alcuna iniziativa, anzi ho subìto questa situazione, in quanto sapevo che mi sarei esposto a ritorsioni, ne tantomeno contattavo i miei ex clienti, in quanto già sapevo la risposta che mi avrebbero dato in merito, ossia, paura per ritorsioni. Ripeto perché anche loro conoscevano chi era Arabia Salvatore e le sue ‘vicinanze’ al defunto boss Antonio Dragone”. La situazione si fa sempre più imbarazzante e l’imprenditore “riferisce di essere sostanzialmente stato costretto a rinunciare ad un credito, vantato verso l’Artedile, di 200 milioni di vecchie lire, dal defunto Dragone Antonio, o da suoi emissari”. La paura era tale che l’imprenditore ha per lungo tempo, eseguito lavori per conto d’altri ed ha ceduto parte del trasporto di materiale inerte “a padroncini loro vicini, che venivano a Reggio Emilia dalla Calabria”111. L’imprenditore, come s’è visto, era stato agganciato con la scusa della cresima che così si trasformava in una camicia di forza della quale l’imprenditore era rimasto prigioniero

111 Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro DDA, Richiesta per l’applicazione di misure cautelari nei confronti di Dragone Antonio + 5, 3 novembre 2005, pp. 20-22. La morte di Salvatore Arabia ucciso a Cutro il 20 agosto 2003 da due killer in sella ad una moto ebbe una certa risonanza a Reggio Emilia. Su questo vedi Asse fra Cutro e Reggio una lunga scia di sangue, Gazzetta di Reggio, 11 maggio 2004 e Guerra di ‘ndrangheta, duplice omicidio a Isola, Ultime notizie. Reggio, 7 maggio 2004. Vedi anche Il Crotonese, 22 agosto 2003.

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senza essere riuscito a trovare il modo o il coraggio di uscirne.

Il Giudice per le indagini preliminari di Catanzaro, venuto a conoscenza delle testimonianze degli imprenditori di Reggio Emilia, vittime delle richieste estorsive, arriva a determinate conclusioni: “il vecchio boss Dragone Antonio, uscito dal carcere, aveva contattato, personalmente e/o per il tramite dei suoi uomini più fidati, soprattutto Arabia Giuseppe ed il giovane omonimo nipote, moltissimi imprenditori di Reggio Emilia, luogo di storica influenza della cosca, con l’obiettivo di raccogliere il denaro necessario a riprendere il controllo della consorteria, ed a vendicare la morte di suo figlio Raffaele e di Arabia Salvatore. Gli imprenditori contattati – nessuno dei quali aveva debiti economici da saldare con il Dragone – erano tutti perfettamente consci della capacità criminal-mafiosa di quest’ultimo, e del perché lo stesso facesse quelle richieste; gli imprenditori oggi sentiti, non hanno timore ad addebitare la provenienza delle richieste, a Salvatore Arabia od al boss Dragone Antonio, entrambi deceduti; al contrario, è di palmare evidenza la estrema ritrosia degli stessi a riferire del coinvolgimento – pienamente provato dagli esiti dell’attività d’intercettazione – di Arabia Giuseppe e Dragone Antonio cl. 86, pienamente attivi, a tutt’oggi, per come risultante dagli atti, in Reggio Emilia, e, dunque, in grado di far punire i loro accusatori. L’Artedile è stata, sia dai tempi della gestione di Aabia Salvatore, veicolo di illecito arricchimento per la famiglia Dragone-Arabia”. Altrettanto importanti sono le richieste “non di somme di denaro, ma di altra natura e tipologia, quali la cessione, in sub-appalto, di lavori all’Artedile, o, ancora, di fornitura di materiale, tutte condotte ottenute grazie alla condizione di assoggettamento degli imprenditori, casualmente derivante

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dalla capacità intimidatoria del Dragone Antonio e dell’intera cosca”112.

Anche il Giudice per le indagini preliminari di Crotone riconosce che “dopo l’attività integrativa d’indagine svolta, può ritenersi pacifico, a seguito dell’esplicita ammissione di tutte le parti offese, che le richieste di denaro, in ciascuno dei casi trattati, non trovavano giustificazione alcuna in un rapporto economico, risiedendo unicamente, quanto a genesi, nella manifestata qualità del soggetto – Dragone Antonio, oggi deceduto – in nome del quale la richiesta era avanzata, ed essendo evidentemente chiara, quanto implicita, con ciò, la riconducibilità della coattività della pretesa stessa, alla forza di intimidazione promanante dal vincolo associativo”.

Altri imprenditori vengono sentiti e parlano tranquillamente. Uno dice di aver ricevuto una telefonata di Antonio Dragone il quale gli aveva detto di favorire i suoi parenti “perché ne avevano bisogno e che, con la scusa dei lavori, avrei dato una mano anche a lui”. Aggiunse anche, particolare non da poco: “sono a conoscenza che Dragone Antonio aveva un trascorso criminale e che, quando mi aveva contattato per chiedermi di favorire i suoi parenti con la mia impresa, era da poco uscito dal carcere”. Un altro “ha riferito che il defunto Dragone Antonio, che non aveva mai conosciuto personalmente, nella primavera 2004, lo aveva chiamato al telefono e, dopo avergli fatto domande sui lavori in quel momento appaltati dalla sua impresa, lo avvertiva che sarebbe stato contattato dall’omonimo nipote Dragone Antonio, non appena lo stesso si sarebbe recato in Reggio Emilia. La cosa,

112 Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro DDA, Richiesta per l’applicazione di misure cautelari nei confronti di Dragone Antonio + 5, 3 novembre 2005, pp. 24-25.

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effettivamente, si verificava all’incirca un mese dopo, allorché il giovane Dragone lo contattava, chiedendo di cedergli parte dei lavori in quel momento appaltati dalla sua impresa, richiesta, alla quale, comunque, non aveva dato seguito”.

Dragone chiedeva di far lavorare uno dei suoi nipoti che si era inserito in una impresa oppure di appaltare lavori o di ordinare materiale inerte. Commenta il Pubblico ministero di Catanzaro: “Si coglie a piene mani, da tutte le dichiarazioni sopra esaminate, ciò che costituisce l’in sé del metodo mafioso, vale a dire l’assenza, perché non necessaria, di una minaccia esplicita, atteso che la mera richiesta proveniente da un mafioso, è un qualcosa a cui non si può che aderire”113.

Antonio Silipo racconterà ancora la sua vicenda e la arricchirà di altri particolari: “l’Artedile in quel periodo si muoveva sottraendomi tutti i clienti. Quando parlo dell’Artedile mi riferisco ad Arabia Giuseppe, detto Pino, il quale, dalla morte del fratello Salvatore, ha assunto la gestione della ditta. In particolare, per come da me appreso dai titolari di varie ditte da me abitualmente rifornite di materiale inerte, il compare Pino era passato da loro dicendogli che ‘doveva lavorare lui’; questi titolari – di cui oggi non sono in grado di riferire l’identità, anche perché erano in molti, mi continuavano a chiamare dicendomi di non prenderla a male, ma che loro dovevano accontentare il compare Pino”. C’era chi “faceva il giro delle varie ditte proponendo l’Artedile come ditta fornitrice di materiale inerte, ditte che poi venivano ‘visitate’ dal compare Pino il quale ribadiva che doveva lavorare lui”. E poiché era

113 Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro DDA, Richiesta per l’applicazione di misure cautelari nei confronti di Dragone Antonio + 5, 3 novembre 2005, pp. 26-28.

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“strettamente imparentato con Totò Dragone, faceva sicuramente paura alle imprese”.

Non c’era bisogno di minacciare o di agire in modo violento. Il nome di Antonio Dragone era più che sufficiente e poi gli imprenditori sapevano cosa stava succedendo in Calabria dove la guerra di sterminio tra Dragone e Grande Aracri continuava a mietere morti da una parte e dall’altra. “Da nessuno dei titolari delle ditte ho appreso di minacce esplicite loro rivolte dall’Arabia, però che avessero paura lo comprendevo dalle loro parole, anche perché, ripeto, vi era questa stretta parentela con Totò Dragone che era da lungo tempo in carcere per gravi reati”. Silipo racconta ancora una volta la vicenda del suo comparaggio con Arabia. “Sin dal momento in cui Arabia Salvatore mi ha chiesto di diventare suo compare – cosa che, per come ho già detto in Calabria non si può rifiutare – ho compreso che per me sarebbe stato il ‘buio’, nel senso che avrei avuto grossi problemi con l’Arabia, per come detto strettamente imparentato con Totò Dragone e dunque legato ad ambienti mafiosi. Effettivamente da quel momento, a mano a mano che facevo lavori per conto dell’Artedile, benché, almeno inizialmente, regolarmente fatturati, gli stessi non mi venivano in alcun modo pagati”.

L’imprenditore si sente intrappolato, e lo dice al magistrato che lo interroga: “Può sembrare strano che, benché mi fossi reso conto che non sarei mai stato pagato, ho continuato ad effettuare lavori per Arabia Salvatore, ma vi devo dire che io avevo molta paura per me e per i miei figli; non ho mai ricevuto esplicite minacce, ma la paura derivava, per come già detto, dal fatto che io ero perfettamente a conoscenza, essendo di Cutro, degli ambienti criminali a cui appartenevano Totò Dragone ed i suoi parenti”. Nonostante gli arresti e il processo, l’imprenditore ha paura: “All’indomani degli arresti, i

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giornali hanno riportato anche la notizia che io sono stato sentito nell’ambito di quest’indagine sui fatti dell’Artedile; pertanto devo dirvi che ho molta paura, anche perché io vivo con la mia famiglia in una zona piuttosto isolata e quindi so benissimo che, anche qualora chiedessi l’intervento della Polizia, la stessa non potrebbe che arrivare dopo almeno mezz’ora”114.

A volte la sola richiesta di denaro fidando sulla forza del cognome non è più sufficiente perché non tutti sono disposti a cedere, e allora c’è bisogno di qualche bomba incendiaria o di altre forme di intimidazione. A ben vedere, in questi episodi c’è un tentativo di reagire, di non piegarsi.

Secondo informative della Squadra mobile di Crotone e di Bologna del giugno del 2005 è stato possibile “verificare l’attuale stabile inserimento, con il ruolo di direttore tecnico”, di Dragone Antonio cl. 86 nella società Artedile; “il dato è importantissimo, atteso che, per come evidenziato nella richiesta cautelare, trattasi di società attraverso la quale sono state consumate praticamente tutte le azioni estorsive poste in essere in Reggio Emilia sotto la direzione vecchio boss, il quale, già un paio di mesi prima della sua morte, aveva individuato proprio nell’omonimo, giovanissimo, nipote, colui che avrebbe dovuto lasciare Cutro per costituire la sua longa manus in Reggio Emilia, cosa, dunque, puntualmente verificatasi; il ruolo pienamente operativo che, al di fuori da ogni carica formale, continua a rivestire, nell’ambito della medesima società, l’altro indagato, Arabia Giuseppe”115.

114 Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro DDA, Richiesta per l’applicazione di misure cautelari nei confronti di Dragone Antonio + 5, 3 novembre 2005, pp. 29-31. Il P.M ha scritto che “non si è proceduto a contestare in termini estorsivi i fatti descritti dal Silipo”. 115 Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro DDA, Richiesta per l’applicazione di misure cautelari nei confronti di Dragone Antonio + 5, 3 novembre 2005, pp. 35-36.

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Conclusioni La descrizione che emerge dalle carte giudiziarie è

inquietante ed allarmante. Al di là delle responsabilità penali dei singoli imputati che sono affidate alle decisioni del Tribunale di Catanzaro o di quelli emiliani e dei successivi gradi di giudizio, per cui essi sono da considerarsi innocenti fino a sentenza passata in cosa giudicata – e ciò vale soprattutto per il racconto fatto in queste ultime pagine – la descrizione conferma l’esistenza di una robusta presenza criminale e mafiosa a Reggio Emilia che, pur pesando su tutta la comunità cittadina, grava essenzialmente sui cutresi che fanno gli imprenditori e i commercianti, che hanno una disponibilità finanziaria e che dunque possono pagare il pizzo.

Le vicende descritte nelle pagine precedenti mostrano come l’oppressione si sia via via modificata grazie alle attività delle forze dell’ordine e della magistratura, come essa non sia riuscita ad andare al di là di questo segmento pur importante dell’economia cittadina e come anche sul fronte imprenditoriale non tutto sia fermo, ma ci sono, sia pur piccole, avvisaglie di qualche reazione. Rimane un fatto incontrovertibile: per quanto se ne sa, gli ‘ndranghetisti sono stati in grado di condizionare vita ed attività economica di altri imprenditori e commercianti, di costituire società edili in grado i raccogliere appalti da altri imprenditori e di mettere in piedi un sofisticato sistema di false fatturazioni.

Ciò conferma come il sistema economico e produttivo continui ad essere aggredito. Questo è il punto nevralgico più vulnerabile per una economia ricca come quella di Reggio Emilia perché è quello che, destando meno allarme sociale di un fatto di sangue, è meno

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percepito, e dunque controllato, dall’opinione pubblica e dalle stesse forze dell’ordine. Un fenomeno sicuramente sottostimato è quello dell’usura che ogni tanto fa capolino in qualche inchiesta come quella d’inizio millennio quando ci furono numerosi arresti tra i titolari di imprese edili che operavano nelle province di Mantova, Reggio Emilia e Parma. Un imprenditore era di Cutro ed era residente a Reggio Emilia. Il prestito a strozzo aveva alimentato un giro di affari molto vasto116. Di “casi di credito usuraio” da parte di esponenti della ‘ndrangheta a Reggio Emilia aveva parlato il Procuratore generale della Repubblica di Bologna nella relazione inaugurale del 2003 del distretto dell’Emilia Romagna117. Poi non si è saputo più nulla, ma è difficile credere che l’usura sia scomparsa dal territorio cittadino; semmai il silenzio è la prova della difficoltà degli usurati a denunciare e degli inquirenti a fare indagini penetranti e mirate. Il pericolo dell’infiltrazione di capitali mafiosi era stato segnalato per tempo dal procuratore Materia: “chi ha capitali sospetti da investire lo fa immettendoli in imprese edili che in loco danno apparenza di legalità. Per non parlare del fenomeno delle sovrafatturazioni ed anche in questo caso rientra l’edilizia. Fatture gonfiate: sia sabbia od attrezzature per i cantieri”118.

Come s’è visto il settore edile è quello più colpito, accanto a quello dei pubblici esercizi come bar e ristoranti. La presenza criminale ma anche più genericamente illegale nel campo dell’edilizia è massiccio – come mostrano inchieste e studi di qualche anno fa119 – oltre ad indagini

116 Operazione Fulmine, Gazzetta di Mantova, 31 luglio 2001. 117 Francesco Pintor, Relazione sull’amministrazione della giustizia nel distretto dell’Emilia Romagna per l’anno 2003, Bologna 18 gennaio 2003. 118 “Le attività edili della Bassa nel mirino dei clan mafiosi”, Gazzetta di Reggio, 29 dicembre 2005. 119 Per i dati vedi Giovanni Vignali, L’edilizia precaria parla il calabrese, Ultime notizie Reggio, 24 dicembre 2004.

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della Guardia di Finanza come la recente – luglio 2007 – Operazione Caporale che ha portato all’individuazione di un’associazione a delinquere che ha consentito l’arricchimento attraverso la truffa e l’evasione fiscale. Sono stati danneggiati non solo lo Stato, ma anche i lavoratori in modo talmente pesante che “nessun lavoratore risultava agli uffici competenti in materia di lavoro avere esercitato attività e, quindi, maturato anzianità pensionistica”120. Nel corso degli ultimi anni attorno ai cantieri si erano sviluppati “fenomeni di caporalato, lavoro nero, pseudo appalti che hanno lo scopo essenziale di rendere difficile l’individuazione delle responsabilità”121. A conclusione delle indagini sono state denunciate all’autorità giudiziaria 12 persone.

La presenza nel campo dell’edilizia ha più di una spiegazione; essa è legata sia alla professionalità e alla capacità di chi vi lavora e sia al fatto che un’azienda edile può essere avviata come un’azienda artigiana; inoltre non richiede grandi investimenti o processi di innovazione nella strumentazione tecnica particolarmente costosi. La presenza mafiosa nel settore edile ha altre spiegazioni che rappresentano anche dei notevoli vantaggi: è il settore che rende di più, è quello dove è possibile mimetizzarsi più facilmente e dove è possibile impiegare forza lavoro non qualificata. In questo modo si possono aiutare parenti e amici facendoli assumere da una impresa vicina. I neo assunti, a loro volta, diverranno fedeli a chi ha procurato loro il lavoro.

A conferma di ciò, da una parte il numero elevato di operazioni di polizia tra il 1996 e il 2005: Cane rosso del 120 Indagini relative al procedimento penale 1252/RGNR presso la Procura della Repubblica di Reggio Emilia, Operazione “Caporale”, Comunicato Guardia di Finanza di Reggio Emilia in data 27 luglio 2007. 121 Stefano Morselli, Nella ricca Emilia si costruisce ancora in nero, l’Unità, 16 luglio 2007.

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1996, Pendolino nel 1998, Edilpiovra nel 2003, Scacco matto nel 2004 e Grande drago nel 2005 e dall’altra l’accordo siglato presso il ministero dell’interno per “mettere sotto osservazione” i subappalti “nel tratto reggiano della linea ferroviaria ad alta velocità Milano-Bologna”122. Su quel tratto stanno succedendo cose strane. Qualche mese fa, nell’agosto 2007, la magistratura reggiana si occupa di furti di escavatori che avvengono sui cantieri dell’alta velocità. I veicoli che hanno un notevole costo, centinaia di migliaia di euro ciascuno, erano venduti all’estero. La rete era abbastanza vasta tanto che 18 persone risultano indagate. A quanto pare, ci sono di mezzo uomini della ‘ndrangheta provenienti da Gioia Jonica e facenti parte dei Mazzaferro, una ‘ndrina che da tempo ha in Lombardia una forte presenza organizzata123. Il settore edile continua a non avere pace ed è aggredito non solo a Reggio Emilia, ma anche da altre procure come è accaduto ancora di recente nel luglio del 2007 quando, su ordine della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, sono stati sequestrati due veicoli industriali nei cantieri di Fontana di Rubiera e di Carpineti intestati a due persone incensurate residenti a Bologna e d’origine emiliano-romagnola ma che gli inquirenti sospettano siano prestanome, consapevoli o meno è tutto da vedere, della cosca Longo-Versace di Polistena in provincia di Reggio Calabria124.

122 Patto antimafia sui cantieri della TAV, Giornale di Reggio. Ultime notizie, 13 ottobre 2006. 123 Su questi aspetti vedi Giovanni Vignali, Clan Mazzaferro: un nome ai vertici della malavita in Lombardia e Jacopo della Porta, ‘Ndrangheta: mani sulla Tav, Giornale di Reggio, 28 agosto 2007. 124 Questura di Reggio Calabria, L’associazione mafiosa Longo-Versace, 7 giugno 2007; Tribunale di Reggio Calabria, Sezione misure di prevenzione, Decreto nei confronti di Longo Vincenzo, 15 giugno2007, ‘Ndrangheta, sequestro di veicoli in due cantieri, Il Resto del Carlino. Reggio, 15 luglio 2007, Mafia, sequestri in due cantieri, L’Informazione di Reggio Emilia, 15 luglio 2007.

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Le pagine precedenti hanno messo in luce l’operatività delle cosche e il conseguente contrasto da parte dello Stato. A conclusione di questo lavoro è utile riportare, anche come documentazione istituzionale, le pagine dedicate alla criminalità mafiosa a Reggio Emilia nelle ultime due relazioni della Direzione Nazionale Antimafia del 2005 e del 2006. Sono parole importanti che danno conto della percezione del fenomeno e del contrasto da parte della magistratura: Con precipuo riguardo alla ’ndrangheta (che negli anni ’80 e ’90 si era radicata nella Regione emiliana dandosi un assetto organizzativo stabile ed efficiente ed operando segnatamente nei settori del traffico delle sostanze stupefacenti e delle estorsioni), alla sua registrata presenza nel reggiano (luogo di tradizionale insediamento delle cosche calabresi originarie di Cutro, Isola Capo Rizzuto e Crotone), va aggiunta la rilevazione di non secondarie attività nelle province di Parma e Piacenza i cui territori sono contigui alle province della bassa Lombardia nelle quali sono attive, come noto, dirette articolazioni strutturali di alcune delle più pericolose cosche calabresi. L’attività principale, cioè la richiesta del pizzo agli imprenditori, era così descritta: La sfera di operatività criminosa di tali organizzazioni resta dunque essenzialmente orientata verso sistematiche campagne estorsive in danno di imprese, soprattutto edili, gestite da calabresi (per ciò solo, da un lato, in grado di apprezzare immediatamente la forza di intimidazione del gruppo mafioso interessato e, dall’altro lato, esposti al rischio aggiuntivo di ritorsioni violente trasversali). Le modalità di esercizio delle pratiche estorsive, peraltro, sembrano rivelare il frequente ricorso a false fatturazioni con il fine di realizzare indebite percezioni dell’imposta sul valore aggiunto relativa a operazioni commerciali in realtà inesistenti e, dunque, in uno alla creazione di ulteriori vincoli di complicità, l’occultamento delle somme estorte dal gruppo mafioso. In generale, le più recenti

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acquisizioni circa le attività delittuose (essenzialmente, estorsioni in danno di imprenditori originari della Calabria) delle cosca cutrese facente capo al detenuto Grande Aracri Nicolino, la quale, nella fase di riassestamento seguita agli arresti del vertice del gruppo, ha aggregato intorno a sé nuclei delinquenziali locali dando vita a strutture la connotazione mafiosa dell’agire delle quali ha trovato, come riferito nella precedente relazione, anche significativi riconoscimenti giudiziali, hanno altresì registrato, grazie anche al proficuo coordinamento sviluppatosi fra le d.d.a. di Bologna e Catanzaro, lo sforzo di riorganizzazione del contrapposto sodalizio mafioso capeggiato dal noto Dragone Antonino (scarcerato il 4 novembre 2004 e pochi giorni dopo ucciso in un agguato nel crotonese) attorno ad un rinnovato progetto estorsivo da attuare in danno di numerose imprese gestite da calabresi nella provincia di Reggio Emilia e, in generale, la stretta dipendenza delle dinamiche criminali coinvolgenti il territorio emiliano dalle vicende rilevanti per la definizione degli equilibri mafiosi nel crotonese.

Il giudizio della DNA è netto e assegna a Nicolino Grande Aracri la supremazia in campo criminale dopo l’uccisione del vecchio Dragone. Vincenzo Macrì, sostituto procuratore nazionale antimafia, nel maggio del 2004 aveva scritto in questi termini riguardo a Nicolino Grande Aracri:

Il personaggio di riferimento della ‘ndrangheta calabrese in Emilia, almeno in questa fase, sembra essere Nicolino Grande Aracri, la cui operatività si è estesa dalla provincia di Reggio Emilia a quelle di Parma e Piacenza, nonché in quella, confinante, di Cremona. Se si pensa che l’Aracri mantiene contatti e interessi non solo in Calabria, tanto da essere indagato dalla DDA di Catanzaro, ma anche in Germania e Belgio, si avrà il quadro completo dello spessore criminale di tale elemento. (Su di lui sono stati avviati dalla DDA di Bologna i procedimenti 3430/96 per art. 74 D.P.R. 304/90, 12001/03 per art. 416 bis e 629 c.p., 5754/02 e 15/04 per i medesimi reati)125.

125 Direzione nazionale antimafia, Conferenza nazionale antimafia, Vincenzo Macrì, relazione di sintesi, 12 maggio 2004.

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Ma, accanto ai cutresi veniva segnalata la presenza di altre formazioni mafiose: La presenza diretta di esponenti di cosche originarie della provincia di Reggio Calabria (in passato, soprattutto, di quelle di Platì) nei traffici di stupefacente che interessano il ricco mercato regionale continua ad essere tutt’altro che marginale, specificamente emergendo l’interagire dei medesimi con soggetti provenienti dall’area balcanica al fine dell’importazione e del controllo della distribuzione di cocaina. Accanto ai mafiosi calabresi, che rimangono il gruppo mafioso dominante, sono segnalati anche altri raggruppamenti pericolosi. La sfera di influenza affaristica dei gruppi camorristici, peraltro, appare proiettata anche in altri, rilevanti ambiti economici, e, segnatamente, in quello del commercio di carni contraffatte e del riciclaggio dei relativi proventi attraverso una rete di cooperative di servizio, come rivelato da una complessa indagine del procuratore della Repubblica di Reggio Emilia, originata dall’omicidio di un imprenditore del settore, la quale ha posto in risalto il diretto coinvolgimento di soggetti ritenuti collegati sia al clan camorristico dei Casalesi che a soggetti originari della zona di Trapani, oltre che fenomeni di pesante condizionamento delle fonti testimoniali tipicamente connessi all’agire di organizzazioni del genere anzidetto, rivelati anche dall’omicidio di un lavoratore extracomunitario del settore. In relazione a tale ultimo, gravissimo delitto sono state pronunciate, all’esito di separati giudizi di primo grado, sentenze di condanna (a pene da 14 a 26 anni di reclusione) per ciascuno degli autori individuati126. L’anno successivo la DNA scriveva:

126 Giovanni Melillo, Distretto di Bologna, in Relazione DNA 2005.

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In generale, le più recenti acquisizioni circa le attività delittuose (essenzialmente, estorsioni ed usura in danno di imprenditori originari della Calabria) della cosca cutrese facente capo al detenuto Grande Aracri Nicolino hanno altresì registrato, grazie anche al proficuo coordinamento sviluppatosi fra le d.d.a. di Bologna e Catanzaro, segnali obiettivi di un rilevante sforzo di riorganizzazione del contrapposto sodalizio mafioso già capeggiato dal noto Dragone Antonino (il 10 maggio 2004, pochi dopo la sua scarcerazione, ucciso in un agguato nel crotonese) attorno ad un rinnovato progetto di espansione criminale da attuare, anche attraverso il ricorso a sistematiche pratiche usurarie ed estorsive. Il consigliere Giovanni Melillo, autore di entrambe le relazioni, si soffermava in modo corretto sulle relazioni esistenti tra Reggio Emilia e la Calabria dove le dinamiche criminali avevano la loro scaturigine principale e scriveva così: La programmatica dipendenza delle dinamiche criminali coinvolgenti l’azione dei soggetti di ‘ndrangheta presenti nel territorio emiliano dalle vicende e dalle scelte rilevanti per la definizione degli equilibri mafiosi nel territorio originario delle cosche calabresi è, come innanzi si rilevava, obiettiva, registrando le più recenti acquisizioni probatorie una diretta ed immediata intensificazione degli obiettivi della pressione estorsiva esercitata nelle province emiliane interessate dai fenomeni di infiltrazione in parola, in corrispondenza del manifestarsi dei bisogni di adeguato sostegno economico degli sforzi ‘militari’ delle aggregazioni mafiose originarie impegnate nella sanguinosa faida crotonese e, per ciò stesso, distratte da meno cruenti e più remunerativi obiettivi delinquenziali. A tale condizione di stretta correlazione operativa dei processi criminali in corso tanto in Emilia-Romagna che nel crotonese ha coerentemente corrisposto il proficuo intensificarsi del coordinamento investigativo funzionale alla raccolta delle prove necessarie all’individuazione delle responsabilità per i numerosi delitti commessi nel corso della faida cutrese (come dimostrato dai positivi esiti documentati dalle ordinanze cautelari date dal Giudice per le indagini preliminari di Catanzaro nei confronti degli affiliati ai gruppi contrapposti allo stato indicati come organizzatori ed

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esecutori dell’omicidio del ricordato Dragone Antonio e di quello, avente segno contrario, di Blasco Salvatore, fedele alla cosca dei Grande Aracri), ma anche all’acquisizione di elementi informativi essenziali all’avvio di nuovi programmi investigativi circa gli attuali assetti criminali nell’una e nell’altra area del territorio nazionale127.

La città, pur toccata da un decennio certo non tranquillo perché si sono scontrati tre gruppi criminali – Dragone, Vasapollo e Grande Aracri – ha saputo reagire. Quando, dopo quattro anni di attività lasciava il suo posto, il prefetto Maurizio Di Pasquale ebbe a dire: “Grazie ad un tessuto sociale sano, la criminalità organizzata non si è radicata nonostante la presenza di situazioni potenzialmente a rischio”128.

Un anno dopo il presidente della Corte d’appello di Bologna Manlio Esposito nella sua relazione dell’anno giudiziario del 2006 espresse un giudizio simile a quello del prefetto e della DNA: “La Procura nazionale antimafia ha già confermato che il fenomeno della criminalità organizzata in Emilia Romagna è meno esteso e meno radicato rispetto ad altri territori della Repubblica, ma non meno allarmante. Le cause di questa connotazione peculiare locale sono state già in passato sottolineate. È il contesto ambientale, sociale, culturale, storico che non consente, per sua natura, infiltrazioni profonde nel tessuto generale di una società altamente evoluta e profondamente orientata verso i più qualificati valori; vi è peraltro anche il presidio vigile delle forze di polizia con la loro incisiva attività di prevenzione e di repressione”129.

127 Giovanni Melillo, Distretto di Bologna, in Relazione DNA 2006. 128 “Lascio a Reggio il mio cuore”, L’informazione di Reggio Emilia, 8 gennaio 2005. 129 Manlio Esposito, Relazione sull’amministrazione della giustizia nel distretto dell’Emilia Romagna per l’anno 2006, Bologna 28 gennaio 2006.

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Ritorniamo, così, al punto dal quale eravamo partiti: il contesto storico ed attuale di Reggio Emilia ha reso difficile la vita ai mafiosi, nonostante la loro massiccia ed invasiva presenza. Il settore edile, s’è visto, è quello che ha subito la maggiore aggressione. Ed è quello che ha ricevuto le maggiori attenzioni da parte di tutti.

Ma non è l’unico settore dove possa esserci una minaccia dal punto di vista della penetrazione mafiosa. E’ anche probabile che gran parte dei capitali mafiosi prenda altre strade. L’economia è il grande campo dove cerca di penetrare la mafia, di qualunque origine regionale sia. E i flussi finanziari, gli investimenti mafiosi, il riciclaggio attraverso l’acquisto di immobili o l’acquisizione di imprese edili, commerciali o d’altra natura – bar, pizzerie, ristoranti, negozi di abbigliamento, supermercati – sono ancora in gran parte sconosciuti. E vanno conosciuti, sia per salvaguardare l’economia sana della città e della provincia sia per dare un colpo decisivo alle strutture mafiose che devono essere aggredite sul piano finanziario ed economico oltre che su quello militare.